Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

ANNO 2021

 

IL GOVERNO

 

TERZA PARTE

 

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

     

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

IL GOVERNO

INDICE PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quella guerra civile italiana che fu chiamata brigantaggio.

Il tradimento della Patria.

Storia d’Italia.

Truffa o Scippo: La Spesa Storica.

Il Paese delle Sceneggiate.

LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tutto va male? Diamo panem (reddito di cittadinanza) e circenses (calcio).

Liberazione dell'Italia. Ecco il "film" degli alleati.

Il Piano Marshall.

Il Tafazzismo Meridionale. Il Sud separato in casa.

Gli errori sull’Euro.

L’Italia continua a dare più fondi all’Europa di quanti ne riceve.

SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Italia che siamo.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Libero Mercato.

I Liberali.

La Nuova Ideologia.

Vizio sinistro: criminalizzazione della Società.

Un popolo di Spie…

I Senatori a Vita.

La Terza Repubblica (o la Quarta?).

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

E la chiamano democrazia…

Parlamento: Figure e Figuranti.

L’ossessione del complotto.

L’Utopismo.

Il Populismo.

Riformismo e Riformisti.

Il Tecnopopulismo.

La Geopolitica.

La Coerenza.

Le Quote rosa.

L’uso politico della giustizia.

L’Astensionismo.

La vera questione morale? L’incompetenza.

Mai dire…Silenzio Elettorale.

Gli Impresentabili.

I Vitalizi.

Il Redditometro dei Parlamentari.

Il Redditometro dei Partiti.

Parlamento: un Covo di Avvocati.

Autenticazione delle firme per i procedimenti elettorali.

Il Conflitto di interessi.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Appalti truccati.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Concorso Truccato. Reato Impunito.

Concorsi truccati nella Magistratura.

Concorsi truccati nell’Università.

Concorsi truccati nella Sanità.

Il concorso all’Inps è truccato.

Il concorso per docenti scolastici era truccato.

Il concorso per presidi era truccato.

Esami universitari e tesi falsate.

L’insegnamento e la Chiamata Diretta.

Concorsi truccati nella Pubblica Amministrazione.

In Polizia: da raccomandato.

Precedenza ai militari.

Il Cartellino Rosso per gli Arbitri.

L’Amicocrazia.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Esame di Abilitazione Truccato.

La Casta precisa: riforme non per tutti...

SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ei fu CNEL.

Lo Spreco dei Comuni.

Lo scandalo della Pedemontana Veneta.

Immobili regalati o abbandonati.

Storia di un maxi spreco. Il super jet di Renzi.

Alitalia: pozzo senza fondo.

Giù le mani dalle auto blu.

Le Missioni dei Politici.

Le Missioni dei Giornalisti Rai.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

Il “gold exchange standard”, il “Nixon shock” e le politiche monetarie.

I Bitcoin.

Tassopoli.

Le vincite.

Il Contrabbando.

I Bonus.

Il Superbonus.

Bancopoli.

Le Compagnie assicurative.

Le Compagnie elettriche.

Le Compagnie telefoniche.

Il Black Friday.

Il Pacco: Logistica e Distribuzione.

I Ricconi alle nostre spalle.

 

 

  

 

 

IL GOVERNO

TERZA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        E la chiamano democrazia…

Diciamo che ogni leader politico è portatore sano di minchiate, la cui vita scorre al di fuori del mondo reale ed il cui sostegno popolare è misurato in percentuale.

Il percento in relazione a che? Se la metà degli aventi diritto non vota; della metà che vota togliamo le schede bianche o nulle; da quel che resta togliamo i voti di protesta dati al Movimento 5 Stelle.

A questo punto la percentuale si dimezza.

Allora penso e dico: gli eletti in Parlamento li votano solo i giornalisti partigiani che li reclamizzano nei talk show e tutti coloro che hanno avuto favori con il voto di scambio!

Mal comune mezzo gaudio?

Leonardo Martinelli per "La Stampa" il 28 giugno 2021. Riemerge in Francia, inesorabile, quel divario destra-sinistra che Emmanuel Macron aveva ormai dato come finito, per lui riflesso anacronistico di un passato lontano. Ieri, in Francia, al secondo turno delle regionali, la destra classica e neogollista (e non lepenista) si è imposta definitivamente in sette delle tredici regioni, mentre in altre cinque ha prevalso la sinistra (ogni volta rappresentata, nella persona del futuro governatore, da un esponente di quel Partito socialista, che pure da anni vive una profonda crisi). Certo, pesa su queste regionali il macigno dell'astensionismo, praticamente lo stesso del primo turno: ieri non è andato a votare il 65,7% dei francesi.

Mirella Serri per "la Stampa" il 14 dicembre 2021. «Il concetto di democrazia? E' sempre in divenire. Si trasforma e muta anche velocemente, proprio come avviene per il socialismo, il cristianesimo o per il capitalismo, sistema proteiforme che si riadatta continuamente. Il presidente degli Stati Uniti, aprendo il summit per la democrazia, ha esortato i partecipanti a riflettere sulla "recessione globale delle democrazie" e a ritrovarsi in nome di valori unitari. Diciamolo chiaramente: Joe Biden ha una visione arcaica e superata della democrazia. Astratta ma anche funzionale al suo obiettivo principale: ridare smalto all'immagine degli States dopo il disastro di Kabul. I valori democratici, gli obiettivi comuni bisogna ridefinirli. Ma lo deve fare Biden in casa sua come pure noi qui in Europa». No, non ha dubbi uno dei maggiori storici contemporanei, Donald Sassoon: inutile cimentarsi in appelli, sono lontani i tempi delle certezze sulle sorti progressive della democrazia. Allievo di Eric J. Hobsbawm, Sassoon è professore emerito di Storia europea comparata presso la Queen Mary University of London ed è in procinto di pubblicare Il trionfo ansioso. Storia del capitalismo. 1860-1914 (a metà gennaio per Garzanti). Ed è convinto che la sfida dei sistemi democratici contro i moderni totalitarismi e le autocrazie si possa vincere solo con analisi approfondite ma con lo scetticismo contro i proclami globali.

Professor Sassoon, siamo al capezzale di un malato, la crisi attuale dei valori democratici è connessa al rallentamento dello sviluppo economico negli ultimi quarant'anni?

«Alla fine della seconda guerra mondiale vi furono i tre splendidi decenni, dal 1945 al 1975, che gli storici francesi definirono i Trente Glorieuses, durante i quali i Paesi sviluppati, come la Germania occidentale, l'Italia e il Giappone crebbero notevolmente nel quadro del piano Marshall. La prosperità economica si combinò con un'elevata produttività, con ottimi salari medi, con l'espansione dei consumi e con un importante sistema di benefici sociali. Era assai diffusa la convinzione, sbagliata, che il progresso non dovesse finire mai e che fossero in crescita anche i diritti dei cittadini e le possibilità di influire attraverso le elezioni sulla gestione e l'andamento degli stati nazionali». 

Dopo i "Glorieuses" sono arrivati gli ultimi quarant' anni segnati da tante turbolenze. È finita l'era delle illusioni?

«È un madornale errore stabilire un rapporto diretto tra sviluppo del capitalismo ed evoluzione delle istituzioni democratiche. In Europa, per esempio, in questi ultimi decenni il numero degli Stati democratici è cresciuto. Come mai? C'è stato il crollo dei regimi comunisti. Corea del Sud, Taiwan e altri Paesi hanno iniziato la loro corsa verso il benessere. Ma lo hanno fatto sotto regimi dittatoriali. La Cina, che non è un Paese democratico, ha un tenore di vita molto più alto di quello indiano, Paese governato tramite elezioni ma dove muoiono di fame milioni di persone. Oggi il borsino dei valori democratici ha visto un calo precipitoso: come risulta da una recente ricerca fatta dall'università di Cambridge su circa quattro milioni di persone e 150 paesi, il 60 per cento degli intervistati si dichiara insoddisfatto della tenuta della democrazia nel mondo».

È l'età del malessere economico che intacca il tasso di democraticità di un Paese?

«Non, come pensa Biden, in maniera meccanica, predeterminata. Non c'è dubbio che il sistema di produzione capitalistico, per esempio, tragga la sua legittimità dal fatto che 150 anni fa il 20 per cento della popolazione fruiva delle sue conquiste, mentre oggi è l'80 per cento che vive meglio di nonni e di bisnonni. L'incremento del tempo libero, la sanità e l'istruzione per tutti hanno potenziato la libertà dei singoli cittadini. Però il capitalismo nelle sue trasformazioni seleziona vincitori e vinti. Lascia sul campo molte vittime e i cittadini credono sempre meno nella democrazia».

È così difficile stabilire cos' è oggi la democrazia?

«Ogni persona ha un voto. Ma il potere di ciascuno dipende anche dal reddito. E il reddito di un cittadino britannico non è rappresentato solo da quanto guadagna ma anche da quanto spende per lui lo Stato, ad esempio in cure mediche. Per restare all'esempio, negli Stati Uniti la sanità pubblica non supporta i singoli, salvo casi limitati di molto anziani o molto indigenti. Quale sistema è più democratico? Eppure nel vecchio continente tanti votanti sono convinti che mettere la scheda nell'urna serva assai poco».

Il cammino verso un'idea compiuta di cittadinanza è stato oggi rallentato della pandemia? In Italia pensatori e filosofi dicono che stiamo facendo passi indietro e agitano lo spettro della "dittatura sanitaria".

«In Europa gli Stati si sono affermati con la forza e l'autorità. Per esempio, le istituzioni statali gestiscono il potere fiscale oppure gli interventi in guerra e hanno sempre imposto limitazioni all'autonomia e all'indipendenza dei singoli individui. Ne condizionano la vita quotidiana. Le costrizioni originate dalla presenza del Covid hanno un analogo carattere. Non c'è protesta di filosofo che tenga. Voglio aggiungere che il Covid e i provvedimenti che si sono resi necessari hanno attenuato la spinta neoliberista che aveva dominato fino a qualche anno fa. Allora esisteva la certezza che il capitalismo potesse irrobustirsi solo indebolendo la presenza dello Stato. Il diffondersi del virus ha dato il colpo di grazia a questa convinzione. E oggi c'è un maggior peso del ruolo pubblico».

Il pensiero progressista e la sinistra riescono a tutelarci dall'aumento delle diseguaglianze?

«La sinistra purtroppo non ha saputo gestire il globalismo che ha aumentato la fragilità sociale. E dunque dilaga in tutta Europa la disaffezione verso il voto. Le istituzioni sovranazionali non contano nulla. L'Unione europea ha pochi poteri. Non ha una politica fiscale unica, non ha un esercito. Di recente si è detto che per eliminare le sperequazioni economiche in Europa bisogna puntare su un salario minimo. Ma può essere lo stesso in Italia e in Germania?» 

Come si può dar vita a vere forme di democrazia?

«Con provvedimenti drastici che eliminino veramente le diseguaglianze. In America e in Europa. Imponendo nuove tasse. Non è facile. I veri ricchi, quelli da tassare, sono difficilmente raggiungibili perché trasferiscono i loro quattrini nei paradisi fiscali e hanno mille modi per eludere il fisco. Inoltre non sono perseguiti adeguatamente. Si può cambiare». 

Le nazioni democratiche riusciranno a mettere ordine in casa propria? La crisi dei partiti è collegata a quella della democrazia: si tratta di una carenza di leadership o di idee?

«Mancano entrambe le cose. Sia in America che Europa. In Italia c'era un solido sistema dei partiti, per decenni a governare sono stati sempre gli stessi fino a Tangentopoli. Da allora non si è più trovato un nuovo equilibrio di sistema. Non a caso nelle ultime elezioni c'è stata una crescita spaventosa dell'assenteismo. E' una tendenza non solo del Belpaese». 

Esiste un modello democratico a cui guardare?

«Svezia, Norvegia, Danimarca. Questi Paesi mettono insieme un ottimo welfare e una saggia gestione politica delle libertà e dei diritti. "La democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre sperimentate finora": condivido questa celebre affermazione di Churchill. La democrazia e il capitalismo vivono in uno stato di crisi permanente e per limitarne la crisi li dobbiamo continuamente reinterpretare». 

Scelta di libertà. Lo Stato debole è il problema. Giordano Bruno Guerri il 24 Novembre 2021 su Il Giornale.  Nel gran mare di Twitter, insieme al buono viene a galla il peggio prodotto dal pensiero dei nostri contemporanei. Nel gran mare di Twitter, insieme al buono viene a galla il peggio prodotto dal pensiero dei nostri contemporanei. L'altro giorno, in una discussione sul suicidio assistito, un maschio adulto ha comunicato con parole grevi e sprezzanti che chi vuole morire lo deve fare da solo. In più, ha dato indicazioni su come comprare da Amazon la medicina usata a questo scopo nelle cliniche (olandesi o svizzere) autorizzate: 20 gocce per 80 chilogrammi di peso. Crepate come volete, ha aggiunto, ma senza coinvolgere Stato e medici. È proprio questo il punto. Lo Stato si fa vivo con noi già alla nascita, assegnandoci il codice fiscale che ci accompagnerà per tutta la vita. Poi decide quali vaccini fare nell'infanzia (per una volta non parliamo degli altri, più attuali) e impone i programmi scolastici. Lo Stato legifera su matrimonio e divorzio, adozioni e eredità, su come guidare i monopattini, su cosa è osceno e cosa no. Lo Stato ci dice se possiamo andare all'estero, assegnandoci il passaporto o negandolo, e a quale età possiamo e dobbiamo smettere di lavorare. Lo Stato, padre e madre a volte benevolo e saggio, sempre autoritario, guida e condiziona tutta la nostra esistenza, regola i nomi che possiamo dare ai figli e il modo di essere sepolti o inceneriti. Di fronte all'avvenimento più importante e tragico dell'esistenza, però, si ferma e gira la testolina dall'altra parte alla richiesta di chi vuole morire perché non sopporta più il dolore, l'umiliazione, la dipendenza, la mancanza di speranze. Da anni giace in Parlamento un progetto di legge sul suicidio assistito. I partiti lo evitano come fosse il capriccio di qualche buontempone e non la richiesta disperata di chi ha più bisogno. Persino la Corte Costituzionale sollecita da anni quella legge, ma niente. Gravi e dolorosi sono anche i motivi di tanta inettitudine: gli elettori di ogni partito non sono compatti su questo tema e soprattutto si arriverebbe a uno scontro serio con il Vaticano, che si vuole evitare, a dimostrazione che non viviamo in uno Stato del tutto laico. In questa fuga dalle responsabilità, Mario, marchigiano tetraplegico immobilizzato a letto da dieci anni, potrà finalmente ottenere quello che desidera e che è nel suo pieno diritto: morire senza un atto violento e doloroso, assistito dai suoi cari e dai medici. Lo potrà fare non grazie allo Stato e al Parlamento, ma grazie all'Associazione Coscioni e alla relazione di un gruppo di medici specialisti dell'Asur. Perché, caro il mio feroce suggeritore di acquisti su Amazon, nella legge che un giorno dovrà arrivare, i medici potranno decidere l'obiezione di coscienza, altri di svolgere fino il fondo il loro compito: il bene del malato. Giordano Bruno Guerri

Scoppia il caso dei 193 parlamentari mai proclamati. Gli avvocati: "Il Senato è illegittimo". Daniele Autieri su La Repubblica il 23 settembre 2021. Nel bel mezzo del semestre bianco, alla vigilia dell'elezione del presidente della Repubblica esplode il caso di due seggi contestati. Gasparri (presidente della Giunta): "Solo quando si risolverà il caso potranno essere proclamati gli eletti". L'avvocato Pellegrino: "In dubbio la legittima costituzione del Senato della Repubblica". L'impasse che dura da tre anni e il ruolo di Claudio Lotito. A un passo dall'inizio del semestre bianco che inaugura gli ultimi sei mesi in carica di Sergio Mattarella e anticipa l'elezione del prossimo Presidente della Repubblica, il paese rischia di trovarsi con un Senato eletto ma non proclamato. O meglio con 193 senatori (la maggioranza assoluta dell'aula) eletti nei collegi plurinominali che non possono essere "benedetti" dalla Giunta delle Elezioni e delle Immunità Parlamentari e la cui attività - almeno dal punto di vista procedurale - è irregolare.

Visto, considerato e premesso. Massimo Gramellini il 29/6/2021 su Il Corriere della Sera. Alcuni parlamentari hanno presentato una proposta di legge per tradurre le leggi italiane in italiano. È la chiusura...Alcuni parlamentari hanno presentato una proposta di legge per tradurre le leggi italiane in italiano. È la chiusura ideale di un cerchio aperto dalle gride manzoniane: l’obiettivo di non farsi capire dagli eredi di Renzo Tramaglino è l’unico che i legislatori abbiano perseguito con coerenza nei secoli. Fa stecca la Costituzione, scritta in un linguaggio talmente chiaro che i nostri azzeccagarbugli non l’hanno mai voluta applicare per ripicca. Tornando alle leggi, la loro caratteristica principale è sempre stata l’oscurità, ottenuta sia rimandando il malcapitato lettore a una litania di altre leggi citate solo per numero, sia facendo fiorire una vegetazione di commi secondari che hanno il preciso compito di ingarbugliare il primo. A questo obbrobrio di «visto», «considerato» e «premesso» intende porre rimedio un gruppo di parlamentari di tutti i partiti, che annovera fior di costituzionalisti come Ceccanti. Il loro intento è «affiancare le norme con un supplemento divulgativo che le renda fruibili». Poiché hanno perso ogni speranza di scriverle in una lingua decente, si accontenterebbero di aggiungervi la traduzione in volgare, ma intendono affidare l’impresa a un apposito «comitato di esperti in materie giuridiche, linguistiche e comunicative», pagandolo 500 mila euro. Peccato che quel comitato di esperti esista già. Si chiama Parlamento. D’altra parte, li capisco: in Italia chi non sa, ma soprattutto chi non vuole esprimersi in modo comprensibile, passa per intellettuale. Una tazzina di parole ogni giorno sul Corriere della Sera. "Il caffè è un rito quotidiano, una pausa, un piacere e anche un luogo di incontro in cui si discute, si scherza, ci si sfoga e ci si consola".

Le accuse al capo del governo. Per Massimo Giannini e la Stampa Draghi è un dittatore, scatta la resistenza all’ombra della Fiat. Michele Prospero su Il Riformista il 21 Settembre 2021. Sotto la direzione di Massimo Giannini la Stampa si è fortemente collocata nell’ambito della “sinistra illiberale” che tanto spaventa oltremanica il foglio gemello The Economist. Lo spettro di una deriva radicaloide, che l’organo della famiglia Agnelli denuncia sulle rive del Tamigi, è proprio lo stesso che la proprietà foraggia generosamente sulle calde acque del Po. Una vera doppiezza. Non è dunque il plebeo estremismo che dal basso inveisce contro l’élite a imperversare come una minaccia alla razionalità politica della vecchia Europa. È proprio il classico foglio del grande padronato a imprimere dall’alto della sua influenza una radicalizzazione che delegittima l’ordinamento costituzionale come potere alla deriva e nei suoi vertici in preda a un anomalo delirio autoritario. Agli affondi crepuscolari di Agamben e Cacciari si è aggiunto infatti un ulteriore livello di denuncia: Draghi in persona è ritenuto “una sorta di sovrano contemporaneo”. Tradotta in prosa, la definizione di Donatella Di Cesare significa che con la leadership personale di Draghi si spezzano i fili residui dello Stato di diritto per sperimentare altre forme di dominio politico. Sovrano è chi decide con il supporto della coercizione collocandosi ambiguamente oltre il codice stringente della legalità. E l’azione di Draghi è ritenuta fortemente dissolutrice, trattandosi di “un sovrano della competenza” che con le sue decisioni irrituali rompe “la forma della repubblica così com’è”. Il “premier-guaritore”, come viene chiamato da Di Cesare, è una reincarnazione del “Les rois thaumaturges” di Marc Bloch. Questa figura di un corpo regale che si sacralizza alimenta la falsa credenza di massa in una menzogna, quale è il rito della guarigione, per cui il sovrano con il tocco delle sue mani sforna attitudini taumaturgiche. Con il misticismo del capo di governo che compie miracoli con gli abiti della tecnica si entra nell’età della menzogna istituzionalizzata, della rottura di ogni ordine formale-legale ad opera di un sovrano-persona. Secondo l’editorialista della Stampa non solo la grande riforma semipresidenziale è “quasi un dato di fatto” (Draghi diventa l’esecutore testamentario di un abortito progetto di Craxi) ma nella sfera pubblica domina lo spettro della deriva autoritaria perché per molti attori la “democrazia è un optional”. Secondo Di Cesare occorre perciò, nella slavina costituzionale in corso, alzare il livello della critica e colpire esplicitamente la figura di Draghi come “timoniere di una democrazia sospesa” che ha rotto il patto repubblicano. Si sta parlando della repubblica democratica che non ha mai sfiorato i diritti ritenuti inviolabili, cioè i principi supremi che proprio in quanto valori fondativi dell’ordinamento vengono sottratti anche alle leggi di revisione costituzionale, ma sembra che la Stampa abbia presente “lo stato di pericolo pubblico”, un istituto fascista degli anni trenta o “La suspension de l’empire de la Constitution” prevista dalla legge francese post-rivoluzionaria. Eppure, in un’Italia colpita dalla pandemia, restano ben scolpiti i diritti inalienabili della persona, la libertà e segretezza della comunicazione, i diritti politici e sindacali, l’habeas corpus e nella vita di relazione non domina il sospetto, la delazione. Non si intravvede l’accentuazione repressiva del diritto penale con la sospensione della presunzione di innocenza, con il ricorso all’analogia e alla retroattività della norma, non si avvertono inasprimenti di pene con gracili fattispecie, invenzioni arbitrarie di reati (nella sanità pubblica non si riesce a sospendere dal servizio neppure il migliaio di medici no-vax). E neppure, malgrado l’efficienza logistica del generale Figliuolo che compare solo in una divisa che non evoca terrore, si avverte l’opera di commissioni militari speciali, l’intrusione repressiva di tribunali ad hoc. In condizioni drammatiche (oltre 130 mila morti) e con le limitazioni solo temporanee (e quindi ragionevoli-proporzionali allo scopo) di piccole e preziose libertà quotidiane, le risorse dell’ordinamento sono state attivate per tutelare il dovere pubblico irrinunciabile (per ogni forma politica, non solo quella democratica) di garantire il diritto alla vita. Nel mezzo della emergenza sanitaria non si è precipitati in uno sregolato stato di natura o condizione di guerra ma sono state celebrate elezioni regionali, comunali, referendum, congressi di non-partiti. E nessun organo costituzionale è stato ridimensionato nella pienezza delle proprie funzioni. Non c’ è in corso alcuna sospensione dell’habeas corpus, non si registra alcuna interruzione della vita istituzionale e restringimento del pluralismo sociale, politico, culturale. E i vaccini, come strumento di protezione del bene indisponibile della vita, che è la radice originaria della forma politica in quanto tale, non sono equiparabili ai rastrellamenti di massa perché la fila delle persone nei centri della sanità pubblica non è assolutamente la variante post-moderna della nazionalizzazione e disciplinamento totalitario di massa (vero Giuliano Ferrara evocatore, sulla inopinata scia di “filosofi effimeri e bizzarri”, di una assai immaginaria “svolta autoritaria”?). Sul foglio ribelle torinese i concetti di emergenza e di eccezione perdono la loro pregnanza analitica (riferite alle consuetudini del “doppio Stato” mirabilmente raccontate da E. Frenkel) e diventano delle vaghe espressioni semanticamente ballerine. Non l’emergenza, come in altri interventi di Cacciari e Agamben, ma proprio “l’eccezione si affaccia inquietantemente all’orizzonte” secondo Di Cesare. Le parole hanno però un significato univoco nel diritto. Per stato di eccezione si intende in dottrina una rottura profonda che altera il quadro costituzionale, una cesura cruenta o meno che spezza repentinamente l’ordine politico. Lo stato di eccezione indica per definizione l’emersione di un momento autocratico situato al di fuori della norma e quindi un esercizio del comando incompatibile con lo Stato di diritto. Esso prospetta anzi la esplicita fuoriuscita dal principio di legalità e l’avvento di una condizione estrema di dominio irresistibile in sé privo di forme. Nel caso di eccezione ricompare il sovrano che, con il recupero del monopolio della decisione ultima, rinuncia ad ogni regola e strapazza qualsiasi procedura vincolante. Lo spiega bene Schmitt: «Nel caso di eccezione la decisione si distingue dalla norma giuridica, e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto». Si tratta non di un semplice Stato assoluto (sciolto da vincoli giuridici che appaiono del tutto volatilizzati) ma di un apparato totalitario (mobilita, reprime senza limiti, si insinua nella società in modo penetrante, oppressivo) che affida al sovrano la decisione ultima non giustificata da norme vigenti. La sua volontà discrezionale e senza regole (l’eccezione è «il caso non descritto dall’ordinamento giuridico vigente») si afferma come duro fatto e appare sciolto da forme in quanto la irruzione decisionale-creatrice non è giustificata da altre norme o principi costituzionali. Secondo la Stampa il ruolo di Draghi è a tutti gli effetti quello di un sovrano schmittiano che, avendo rotto di proposito la cornice di legalità, giace al di fuori dell’ordinamento. Dinanzi a una democrazia sospesa, per via di una slealtà del titolare del potere che abusa delle proprie attribuzioni procedurali, sono possibili ben poche risposte, una volta preclusa quella adombrata dalle dottrine alto medievali che si spingevano sino al tirannicidio. Se però l’eccezione è una condizione reale della repubblica neppure sono disponibili quali argini le vie delle istituzioni di garanzia che sono state soppresse e svuotate proprio dalla situazione di eccezione. Come precisa Schmitt «nel caso di eccezione, lo stato sospende il diritto, annulla la norma». Cosa è legittimo fare allora per difendere le libertà fondamentali entro una democrazia che per Di Cesare è stata sospesa per colpa del prestigio conferito ad “una rockstar mondiale della knowledge”? Quale condotta è lecita ex parte populi per impedire che qualcuno, arroccato nel palazzo del governo, consolidi l’arbitrio del potere e prolunghi l’incertezza dello stato di eccezione? Se l’accusa a Draghi è quella di essere diventato, nel vuoto dei partiti e senza neppure il bisogno di un colpo di mano ex parte principis, il sovrano che governa discrezionalmente lo stato di eccezione, degli efficaci rimedi legali-procedurali non sono disponibili: le istituzioni di garanzia sono di per sé incompatibili con il concetto stesso di stato di eccezione (che per Schmitt implica proprio «la sospensione dell’intero ordinamento vigente»). Non resta allora che seguire le vie di fatto contro il “timoniere” guaritore e attendere che Giannini con la barba risorgimentale scenda in via Lugaro per distribuire le istruzioni per la disobbedienza civile o per fornire le direttive indispensabili per esercitare il diritto di resistenza (previsto dalla carta tedesca, ma non da quella italiana). C’è molto da temere da una sinistra illiberale, ma gli scritti dei padroni illiberali che evocano di fatto un metaforico “Draghicidio” inquietano ancora di più in questi tempi di innamoramenti per le categorie distruttive di “filosofi effimeri e bizzarri”. Michele Prospero  

D come Decisione. Giuseppe Trapani, Giornalista, su Il Riformista il 20 Settembre 2021. Se provassimo a fare il gioco nomi, cose, città aggiungendo però per ipotesi l’inedita colonna “politica” ci sarebbe da divertirsi soprattutto estraendo la lettera D. Anzitutto avremmo le risposte facili: il nome (Davide), la città (Domodossola), il frutto (Datteri) o l’animale (Daino) ma poi arriva il bello. Che mettiamo – a questo punto- alla categoria politica? D come? A qualcuno verrebbe in mente la parola “Delirio” pensando probabilmente ad un quinto del paese (20-22%) che manifesta un atteggiamento ostinato, tignoso e oppositivo per l’atteggiamento dei restanti 4/5.  Un pezzo di paese dormiente quando ci siamo rintanati dentro casa l’anno scorso ma poi emerso in tutto il suo coraggio reazionario anti-sistema quando si è trattato di fare la propria parte per riaprire. Un classico del paraculismo italico, una porzione (piccola) di paese che insieme agli altri – forse – cantava sui balconi al grido di #andratuttobene (sottinteso #coldidietrodeglialtri).  Quelli che D come Delirio in queste settimane dicono convintamente NO al vaccino (gratis) preferendo il tampone (pagato dagli altri). Sono dubbiosissimi e scettici sui sieri sottoposti a certificazioni internazionali di FDA-EMA già inoculati su milioni di persone, ma si dichiarano sicurissimi dell’efficacia dell’automedicazione con principi attivi (tra questi un antiparassitario per cavalli)  ancora non supportati da studi analitici. E la mente va all’ex presidente americano Donald Trump che consigliava di iniettarsi in vena direttamente l’amuchina durante una conferenza stampa di fronte al capo della commissione medica della Casa Bianca, Deborah Birx, ancora sotto shock da allora. Viva il libero pensiero ma se non è delirio questo, cos’altro sentiremo prossimamente? Ad altri verrebbe un’altra e più emblematica parola poco declinata in politica ed è Decisione: una categoria dell’umano e del sociale che una certa vulgata vorrebbe contrapposta alla D di Democrazia, come fosse antitetica. Una politica decidente è un tema discusso in questi anni ma “distratto” dall’equivoco di fondo per cui l’agire è l’opposto del consultare e del discutere.  Non è così, piuttosto è accaduto il contrario: sono anni che si parla e basta, che al tanto fumo non corrisponde l’arrosto, che si promette a basso costo sparando sciocchezze a caso. Di conseguenza, per i cittadini è naturale pensare che non accade nulla di quanto detto nella realtà dei fatti. Gli esempi sono già entrati nella letteratura politica (e mitologica) degli ultimi anni: Dalla mai nata rivoluzione liberale alla riforma sciagurata dei poteri regionali passando per la fine della povertà, l’abolizione delle accise sui carburanti, al sovranismo di mattina e all’europeismo di sera. Un cumulo di totem che si declamano tanto nessuno chiede il conto di nulla. Lecito fino a quando non ti arriva la pandemia che ti squaderna i piani e che ti obbliga al principio di realtà.  Siamo in un tempo di pandemia e – ci risulta  –  fino al 31 dicembre di quest’anno l’Italia mantiene uno stato di emergenza, una parentesi di straordinarietà  votata dal Parlamento e tuttora in vigore.  Pertanto il governo deve (non può) declinare il mandato a decidere norme di contrasto contro la diffusione del covid, a meno che il parlamento non stabilisca la fine di questa fase togliendo la fiducia all’esecutivo.  E i cittadini – come lo fu per il lockdown, i vari dpcm, le aperture, le fasce di rischio delle regioni eccetera – hanno rispettato le regole. Con il governo Draghi, ad aprile, è norma ordinaria (Legge 76/2021) l’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari come logica principio di attenzione nell’esercizio della professione medica ed infermieristica. Non fa una piega sapere che gli operatori chiamati a curare i pazienti non siano – anche inconsapevolmente – vettori della malattia. Come legittimo, ci si è indignati con qualche qualche gne-gne sui talk ma le lacrime sono durate, per l’appunto, il tempo di un talk.  Successivamente si è passati al green pass e anche qui una telenovela dell’assurdo col paradosso per cui mentre la gente continuava a vaccinarsi, l’urlo dei reazionari alla dittatura si faceva sempre più grottesco.  E – di estensione in estensione – giungiamo all’obbligo lasciapassare per il comparto scuola (oltre 90 per cento di lavoratori vaccinati) fino a tutto il mondo dei lavoratori pubblici e privati. Il risultato è che nonostante ore di discussioni inutili – e di cortei farneticanti o di convegni ippocratici a base di cure alternative senza responsabilità di chi le propone (fenomeni no?) – i cittadini ad un certo punto rispettano le decisioni prese. Incentivo dittatoriale? Sopraffazione dei poteri forti? Carcerazioni di massa? Non mi pare.  Ci sono milioni di italiani con 5G improbabili sul corpo? Microchip e magneti sul braccio? Niente di tutto ma semplicemente il rispetto delle regole.  Sembra assurdo ma nel nostro paese una volta tanto decidere non lede nessun diritto fondamentale delle persone, con buona pace di chi continua a stracciarsi le vesti. Decisione e Democrazia non sono – come una certa vulgata vorrebbe far passare – categorie antitetiche ma possono coesistere ed integrarsi se ordinate sempre al bene comune. Tutto il diritto di critica sia chiaro, ma vanno veicolati argomenti costruttivi per il dibattito nell’opinione pubblica evitando magari il cortocircuito di questi mesi dove si sono raggiunte vette altissime di non-sense frutto di ignoranza grassa ed insopportabile in materia scientifica (non a caso 6 studenti su 10 vanno malissimo in matematica, fisica e scienze) a cui aggiungere la disinvoltura cazzara nello spacciare le proprie opinioni (legittime ma relative) per verità mediche. Un atteggiamento che non ho paura a definire criminogeno specialmente se si tratta della salute dei cittadini; perchè va bene tutto ma nella gerarchia del tuttologismo essere immunologi o virologi un tanto al chilo è più pericoloso (direi criminale) che sentirsi economisti di giornata o commissari tecnici post partita. Non credete? Ciò detto, la politica si è trovata dinanzi ad una scelta “di campo” ineluttabile: stare dalla parte dei fatti e non accarezzare il pelo alle opinioni, applicando perciò il fattore D, il fattore decidente.  Decidere non è arbitrio dittatoriale quando è in gioco la pelle dei cittadini. Decidere quindi è democratico, contro i democratici di maniera. Decidere (nella lotta la Covid) è non mettere etichette elettorali, non è di destra nè di sinistra e nemmeno pentastellato. Decidere è esercizio gravoso di offrire una traiettoria di azioni che valgono per i molti tendendo a coinvolgere tutti. E le minoranze – quando il prezzo è la salute collettiva – si rispettano ma non possono sostituirsi alla maggioranza. Le minoranze semplicemente si adeguano. 

Il dibattito sulla "spid democracy". Referendum, il pericolo non è il click ma il plebiscito. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 30 Settembre 2021.

1. Cliccocrazia. Spid-democracy. Referendum pret-a-porter. Democrazia fai-da-te a chilometro zero. Si sono sprecati i calembour per dare un nome al terremoto provocato dalla digitalizzazione delle sottoscrizioni referendarie. Dietro i giochi di parole, emerge un diffuso allarmismo: l’uccisione a colpi di mouse della democrazia liberale e rappresentativa, soppiantata da un’inedita, piramidale democrazia digitale: totale disintermediazione politica e sociale alla base, massima concentrazione al suo vertice istituzionale. In breve: un «inasprimento della torsione populista in atto nel sistema politico» (Pallante). Davvero è così? Siamo realmente davanti a una «riforma costituzionale a Costituzione invariata» (Vassallo)?

2. Scenari simili scontano un equivoco di fondo: la firma digitale non aumenta le possibilità di riuscita dell’iniziativa referendaria. Puoi raccogliere a colpi di click anche un milione di sottoscrizioni su un quesito, ma ciò non assicura né che sarà sottoposto al voto né che uscirà vincente dalle urne. È vero, mai era accaduto che la raccolta firme si risolvesse così rapidamente. Oltre 500.000 per il referendum sulla depenalizzazione della cannabis, in soli sette giorni, sono un autentico blitz: democratico secondo i promotori; potenzialmente eversivo per i detrattori. Ma tutto ciò, collocandosi nella fase iniziale del procedimento referendario, si risolve in un’inedita forma di partecipazione diretta, non di democrazia diretta. Quel quesito, per tradursi in decisione politico-normativa, dovrà attraversare diversi semafori, solo il primo dei quali diventa verde grazie al numero di sottoscrizioni raccolte: il controllo di legittimità in Cassazione. Superato questo, la strada resta tutta in salita e l’arrivo al traguardo dipende più dal Parlamento che dal Comitato promotore.

3. Le Camere, infatti, conservano la propria permanente potestà legislativa sull’oggetto del referendum, lungo tutto il relativo procedimento ed anche dopo l’accoglimento della proposta referendaria. Possono usarla per sventare il voto popolare, anticipandone l’esito abrogativo. Oppure per dare risposta alla domanda referendaria, innovando la disciplina ipotecata dal quesito popolare. Il referendum innesca così una dialettica con il Parlamento, la cui centralità non è erosa né soppiantata. Semmai spronata a tradursi in scelte politico-legislative troppo spesso eluse. Per dire: su taluni dei temi referendari odierni (separazione delle carriere, eutanasia, depenalizzazione della cannabis) giacciono in Parlamento altrettante proposte di legge di iniziativa popolare – sottoscritte con la biro, e non a colpi di click – il cui esame non è mai iniziato o si è subito interrotto. È un’accidia legislativa non estranea al successo dei quesiti referendari in campo, a conferma che «quel che accade non è un attacco all’istituzione, ma un esito della sua debolezza» (Villone).

4. Eppure – si dice – una malsana bulimia referendaria è certamente agevolata dalla rapidità della firma digitale, che renderebbe tutto troppo facile. Calma e gesso. Come illustrato bene da Giulia Merlo (Domani, 29 settembre), la procedura telematica è più complicata di quanto si favoleggi. Richiede un’infrastruttura complessa. Comporta costi economici elevati (1,50 euro a firma digitale, che può salire a 3,50 in caso di acquisizione di dati ulteriori). Non esonera dagli oneri, previsti dalla legge, di acquisizione dei relativi certificati elettorali. Il tutto a carico dei promotori. «Chi dice che è facile “fare” un referendum online non sa di cosa parla» (lamenta a ragion veduta Marco Perduca, presidente del Comitato referendario per la depenalizzazione della cannabis). Di più. Per via referendaria non tutto si può fare: i limiti di ammissibilità fissati in Costituzione sono lì per questo, e vengono presidiati dalla Consulta con una severa discrezionalità che la dottrina non esita a ritenere addirittura eccessiva. E ancora. Il referendum in sé è strumento che sconta evidenti limiti funzionali, in ragione della sua natura comunque abrogativa: anche quando manipolativo, infatti, il quesito non può che operare su disposizioni esistenti, né può produrre un’innovazione «del tutto estranea al contesto normativo» originario (cfr. sent. n. 36/1997). Ritorna così la feconda dialettica tra referendum e legge parlamentare: il primo cancella o, al più, sagoma la normativa vigente; la seconda modella compiutamente l’esito abrogativo popolare, coordinandolo con le norme preesistenti.

5. Molti commenti, invece, hanno preferito andare al sodo: quante adesioni online saranno capaci di acquisire quesiti sovranisti, anti-immigrati, anti-sociali, anti-diritti civili? I conati di anti-politica che abitano la rete troveranno così un facile canale istituzionalizzato, un taxi per arrivare direttamente all’intero corpo elettorale. Anche qui si confondono causa ed effetto, accreditando falsi automatismi. Quesiti simili arriveranno alle urne (legittimamente, piacciano o meno) non perché sottoscritti digitalmente, ma solo se costituzionalmente ammissibili e perché il Parlamento non li avrà disinnescati prima. Sarà allora, nella campagna referendaria, che andrà abbandonato il distanziamento sociale della firma digitale, per tornare ad agire politicamente: nelle piazze, nei dibattiti, in ogni sede di confronto tra le ragioni del sì e del no al quesito. Si badi: ciò vale soprattutto per il Comitato promotore perché una minoranza, per quanto capace di raccogliere digitalmente le firme necessarie, dovrà poi riuscire nell’impresa di farsi maggioranza nelle urne. E per riuscirci, dovrà innanzitutto trasformare le firme digitali, da «flussi (momentanei e, talora, impulsivi) di intenzionalità» (Panarai) in adesioni consapevoli e in militanza contagiosa. Non è detto, peraltro, che l’inflazione in una stessa tornata referendaria di molti quesiti, facilitata dalla digitalizzazione delle sottoscrizioni, ne agevoli il successo. Si può essere favorevoli ad alcuni e non ad altri. Se informato, l’elettore è capace di esprimere un voto consapevole, differenziandolo (come nel 1993: 12 referendum, 5 approvati, 7 bocciati). In passato, l’artificiale moltiplicazione dei quesiti ha disincentivato la partecipazione, decretando l’invalidità di 24 referendum per mancato raggiungimento del quorum. E come c’è quesito e quesito, così non tutti i promotori hanno la stessa credibilità: un conto è l’iniziativa referendaria dal basso, su temi trasversali capaci di aggregare una maggioranza elettorale che non ha voce né ascolto in Parlamento; altro è un pacchetto di quesiti promossi da forze politiche che siedono in Parlamento o addirittura nel Governo.

6. Emerge così il vero problema. Fino ad oggi, l’arco temporale tra l’approvazione della legge e la sua sottoposizione a referendum tramite un’impegnativa mobilitazione politica, assicurava una giusta distanza dallo scontro parlamentare. Con la firma digitale non è più così. Il rischio potenziale è l’automatismo referendario, all’indomani della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge, su iniziativa delle forze parlamentari vincitrici o sconfitte: le prime per plebiscitarla, le seconde per contrapporre alle Camere il popolo sovrano. In entrambi i casi il referendum, da correttivo della forma di governo, si trasformerebbe in «un pezzo del gioco politico-partitico» (Adinolfi) nelle mani di chi già ha facoltà e potere d’intervento nelle decisioni parlamentari. Abbiamo già conosciuto, in passato, «la stagione partitica del referendum» (Barbera-Morrone, La Repubblica dei referendum, il Mulino, 2003, pp. 83 ss.) ma mai a ciclo continuo, come la tecnologia digitale consentirà in futuro. Questo lo scenario possibile: una versione 2.0 del pericolo – segnalato dalla Corte costituzionale fin dalla sent. n. 16/1978 – che il referendum si trasformi «in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia».

7. La firma digitale, dunque, è potenzialmente esplosiva. Come la dinamite: può far saltare in aria tutto, oppure può servire per scavare nuove gallerie di comunicazione tra cittadini e Parlamento. La sfida va raccolta, anche perché indietro non si torna. Nel 2022, anno anteriore alla scadenza delle Camere, non si potrà depositare alcuna richiesta di referendum. Tocca al Parlamento capitalizzare questa tregua temporale per valutare tutte le implicazioni della scelta fatta con l’approvazione all’unanimità dell’«emendamento Magi», evitando di banalizzare la “seconda scheda” senza snaturarne l’essenziale funzione contromaggioritaria. Andrea Pugiotto

La firma digitale e le polemiche. I referendum scuotono l’élite terrorizzata e aggrappata ai privilegi. Alberto Cisterna de Il Riformista il 23 Settembre 2021. La rivoluzione digitale è penetrata di soppiatto oltre le mura invalicabili del potere legislativo e le vestali si dimenano sconvolte innanzi al sacrilegio compiuto. La possibilità di sottoscrivere le proposte referendarie apponendo una semplice firma digitale, senza la fatica di dover trovare e di doversi poi recare in qualche lontano gazebo o, ancor peggio, in un desolato ufficio comunale sta mettendo in fibrillazione i sacerdoti della democrazia rappresentativa. In questo paese, in realtà, la partecipazione popolare nel procedimento legislativo non ha mai avuto vera fortuna; né le proposte popolari di legge, né i referendum hanno mai effettivamente inciso nella regolazione di importanti questioni che incidono sulla vita dei cittadini. Il referendum sul divorzio o quello sull’aborto sono stati significativi solo e soltanto perché falliti, sol perché ne è uscita confermata la volontà delle Camere. Bisogna volgere lo sguardo al referendum sulla responsabilità civile dei giudici dell’8 novembre 1987 o al referendum sulla legge elettorale del 9 giugno 1991, con il trionfo di Mario Segni, o del 18 aprile 1993, con il successivo via libera al Mattarellum, per trovare traccia di consultazioni popolari che hanno lasciato un segno evidente nella vita politica del paese. Segni, in verità, che poi, o sono stati cancellati da una brusca restaurazione o sono stati annacquati sino all’irrilevanza dalle corporazioni minacciate. Per il resto – incluso il referendum sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi del 2016 – è stato un frequente succedersi di fallimenti e di bocciature volte alla conferma dello status quo. Nulla di preoccupante o di rivoluzionario, quindi; un’arma spuntata dicevano in tanti. Eppure quel che è successo e sta succedendo nella sottoscrizione del referendum sull’eutanasia e sulla liberalizzazione delle droghe leggere ha messo in allarme apparati e corporazioni, tutti all’unisono preoccupati dal profilarsi di una inedita democrazia telematica che possa mettere in discussione la rappresentanza parlamentare. Strano destino quello dell’Italia, perché sinora all’incirca i medesimi ambienti lanciavano strali contro la scarsa qualità dei lavori parlamentari, contro il deficit di collegamento tra la politica e il cosiddetto paese reale, contro l’affermarsi di signorie tecnocratiche che tendono a governare le sorti della società. Al metronomo che dovrebbe misurare le alternanze fisiologiche tra la democrazia rappresentativa e la democrazia diretta e che dovrebbe vedere il corretto espandersi dell’una di fronte alla crisi dell’altra, si preferisce un immobilismo senza via di uscita. Una impasse paralizzante, ma foriera di vantaggi, in cui la rappresentanza parlamentare resta supina ai diktat delle oligarchie più agguerrite e la partecipazione popolare ha un minuscolo diritto di tribuna di cui deve guardarsi bene dall’abusare. Ci sarebbe da spiegare perché tutti si lamentino della curva sempre più decrescente della partecipazione alle competizioni elettorali; perchè tutti si dolgano dello svuotarsi dei partiti e delle loro sezioni; perché tutti vedano scenari foschi per la fuga dei giovani dell’impegno politico e poi quando si tratta di rendere più performante uno strumento di rilevanza costituzionale come il referendum si sollevano obiezioni e si urla al ribaltone populistico. Sorge il sospetto, ma il mero sospetto, che la firma digitale destrutturi molto più profondamente di quanto si immagini l’organizzazione politica del paese e che, in fondo, gli stessi circuiti che hanno fatto delle battaglie referendarie uno strumento identitario altamente simbolico, possano essere scippati di una riserva di consenso e di una identificazione ideale che il clic su uno schermo annichilisce e ignora. Se le élites del paese hanno sempre agito sul Parlamento e sul Governo per conseguire obiettivi di promozione e, molte più volte, di conservazione del proprio potere e dei propri privilegi, altri gruppi minoritari hanno agitato il ricorso al referendum come strumento per connotarsi e per distinguersi politicamente e assicurarsi così una non marginale visibilità pubblica. Entrambi i protagonisti hanno fatto del monopolio delle proprie sfere di influenza una gelosa prerogativa, poco incline a commistioni e alleanze di sorta. Una separatezza che rimetteva agli uni i piani alti della legislazione e agli altri il sottoscala della rappresentanza diretta attraverso la raccolta di firme per saltuari quesiti referendari. La digitalizzazione spiazza entrambi e li lascia privi di obiettivi di gerenza politica sul lungo periodo. Ogni conquista parlamentare – se non riguarda le materie sottratte a referendum per Costituzione – può rivelarsi precaria e rischia di essere sottoposta a una sorta di obliquo, quanto irrituale, voto confermativo mediante la chiamata referendaria del popolo. Se in pochi giorni centinaia di migliaia di elettori – in un non lontano click day – potranno decidere che si debba andare alle urne per stabilire le sorti di una qualsiasi legge, persino di quelle appena approvare (vedi la minaccia di un voto sul green pass), è chiaro che si spalanca uno scenario totalmente imprevisto e dagli sbocchi imprevedibili. Da anni non mancano sondaggi, petizioni, sottoscrizioni sulla rete che raccolgono, talvolta, un impressionante messe di adesioni. Se questa informale deep democracy si traduce in un’immediata iniziativa referendaria che punta quella legge o quell’articolo, la giustizia o la scuola, la sanità o le licenze commerciali, le banche o le assicurazioni senza neppure la mediazione di una formazione politica, senza neppure un’organizzazione che metta in piedi i gazebo, par chiaro che ci attende un mondo nuovo. Una modifica sostanziale della democrazia liberale e rappresentativa per come l’abbiamo conosciuta e di cui, in tanti, hanno dichiarato da tempo la crisi, se non la morte e che adesso, almeno nel nostro paese, ha trovato un killer silenzioso e rapido che premendo il tasto di un mouse può sparare alla tempia dei potentati che amministrano la legislazione e ne influenzano le scelte. Alberto Cisterna

Il dibattito sul referendum. Come si raccolgono le firme per il referendum, il valore della democrazia diretta. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 21 Settembre 2021. Con la Gazzetta Ufficiale dov’è stata pubblicata ancora fresca di stampa e la raccolta lampo sull’eutanasia e la legalizzazione della cannabis, i palazzi si trovano in pieno scompiglio di fronte alle novità sul referendum. Imputata: la digitalizzazione della raccolta delle firme per promuovere le iniziative popolari. E dire che si tratta di una modifica introdotta proprio dal Parlamento solo qualche settimana fa. Vabbè che si trattava di una seduta notturna (e qualche colpo di sonno non è da escludere) ma, dicono le cronache, l’approvazione è stata pur sempre all’unanimità. Cioè, tutti i partiti. È per questo che il dibattito scatenatosi in questi giorni sorprende un po’. E ancor di più sorprende la rapidità con la quale sono cominciate a fioccare le proposte per modificare le regole. Sicuramente una coincidenza. Attenzione, però, perché a volte risposte scomposte rischiano di confermare le ragioni degli altri. Intanto distinguiamo merito e metodo. I referendum in questione sono molto divisivi e nessuno può assicurare che l’exploit si ripeta se e quando si andrà a votare. Il metodo però è difficilmente contestabile. Siamo uno dei paesi a più alta digitalizzazione delle attività pubbliche. Processi civili, penali, amministrativi telematici; rapporti con l’amministrazione (anche fiscale) sempre più dematerializzati (così tanto che per trovare un funzionario in carne e ossa che ti dia un chiarimento bisogna convocare una seduta spiritica), firma digitale, identità digitale, sanità digitale. Come sì fa a sostenere che i promotori di un referendum o di una legge di iniziativa popolare debbano continuare con i timbri e i bolli dell’epoca risorgimentale? Ci riempiamo la bocca di semplificazione e bocciamo una riforma che semplifica. La Costituzione non dice come si debbano raccogliere le firme, richiede che siano raccolte. E se 500.000 cittadini sono considerati un numero troppo esiguo, com’è che ce ne accorgiamo solo oggi? Alzare l’asticella solo perché la semplificazione ha funzionato non è solo un nonsenso in sé, è anche una confessione ai cittadini: semplificare sì, ma solo quando conviene. Sarebbe come dire che digitalizzare la giustizia aumenta il numero di processi. Sarà anche vero, chissà, ma non è certo tornando indietro che si risolve il problema. Molto più serio è un discorso di rivisitazione complessiva della procedura di iniziativa popolare. Perché tutti quegli ostacoli per promuovere un referendum? Perché i referendum non possono essere presentati nell’anno antecedente le elezioni o votati in caso di scioglimento? Perché il Parlamento non si pronuncia mai sulle leggi di iniziativa popolare, pur previste dalla Costituzione? Non ci sono dubbi sul fatto che la popolazione dal ’48 ad oggi sia aumentata e il numero di sottoscrittori richiesti è percentualmente più esiguo. Riallineiamolo se necessario. Ma non perché l’obiettivo è sabotare e punire. Del resto a fronte dell’incremento demografico c’è stato un crollo della partecipazione politica. E allora riconosciamo che, anche il famigerato quorum di validità, forse ha bisogno di un tagliando. Chiedere la metà degli aventi diritto per la validità del referendum, compresi gli italiani all’estero, magari anche i defunti, è anch’essa una distorsione da sanare. L’astensionismo è in caduta libera anche alle elezioni, mentre il quorum referendario non si tocca, e i sostenitori del no al referendum (quale che esso sia) possono continuare furbescamente a invitare all’astensione annettendosi la quota cospicua di astensionismo fisiologico, senza combattere a viso aperto. Nessuno può ritenersi soddisfatto se, per approvare una disciplina sul fine vita dopo moniti, ordinanze e sentenze della Corte costituzionale, si debbano mobilitare i cittadini con uno strumento, quello referendario, che è certamente meno cesellato di quanto possa essere una legge parlamentare. Ma tant’è, è il Parlamento che se n’è lavato le mani. Un esempio? Le Camere possono varare una disciplina per evitare il referendum fino al giorno in cui si votasse. Purché non barino facendo il gioco delle tre carte (C. cost., sent. 68/1978). Ci si misuri su questo e si faccia la riforma che la Corte costituzionale ha richiesto da tempo. Il termometro della democrazia diretta va sempre confrontato con quello della democrazia rappresentativa. Se questa funziona, i referendum diventano residuali. Così come li ha pensati il Costituente, del resto. Ma perché funzioni e i cittadini siano soddisfatti è necessario che la politica faccia quelle riforme attese da decenni e abbandoni le convenienze di un gioco politico ormai decrepito, di cui però conosce tutti i trucchi. E chi lascia il noto per l’ignoto? E per favore, non mettiamo in mezzo la Corte costituzionale, costringendola a supplire alle deficienze della politica. Il sindacato di ammissibilità del referendum una volta raccolte 100.000 firme, sempre ammesso che possa introdursi con legge ordinaria (v. art. 2 l. cost. 87 del 1953), contraddice frontalmente la motivazione di chi la propone. Ma chi ci dice che valutare le prime 100.000 firme sia una scelta sensata. Magari sono le uniche, assemblate da qualche minoranza intensa, assai abile a smanettare nel mondo digitale. E così avremo fatto lavorare inutilmente la Corte costituzionale, per una raccolta che non raggiungerà mai la soglia richiesta, solo perché il palazzo non si ritiene in grado di reggere l’impatto politico di una raccolta blitz? Insomma, piuttosto che sperare nei supplementari, interveniamo in modo organico sui referendum e sulle riforme della democrazia rappresentativa? Sarà in grado la politica di questo colpo d’ala? O continuerà a inseguire, in debito d’ossigeno, quello che distrattamente si è lasciata sfuggire di mano, anche se, una volta tanto, era una buona cosa? Certo, continuando così, il solco tra cittadini e istituzioni non è destinato a ridursi. Giovanni Guzzetta 

Il "coming out" del quotidiano. Per Travaglio la democrazia è un cesso, svolta fascista del Fatto Quotidiano. Piero Sansonetti su Il Riformista il 3 Settembre 2021. Ieri Il Fatto Quotidiano ha reso il suo “coming out”, come si dice nel nuovo linguaggio inglesizzante. Cioè ha dichiarato l’essenziale della sua ideologia politica. Ha pubblicato in prima pagina una grande immagine di un gabinetto, con una fessura sulla tavoletta per introdurre la scheda elettorale. Tradotto dall’immagine alle parole, il messaggio è nettissimo: le urne sono un cesso. La democrazia è un cesso. Il voto è un cesso. Più o meno è quello che pensava Pinochet. Oppure, potremmo dire nel giorno in cui se ne va Miki Theodorakis, quello che pensavano i colonnelli greci che in una cupa notte del 1967, armi in pugno, arrestarono tutto l’establishment della democrazia greca, misero in fuga il re, presero il potere e lo esercitarono per diversi anni senza fare uso delle urne, ma solo delle celle e delle torture. Poi, se volete, per essere equanimi possiamo trovare anche tanti altri esempi novecenteschi nell’est Europa. Sull’odio per la democrazia politica, fascismo e bolscevismo si assomigliavano. Credo che Marco, rispetto a Pinochet e ai colonnelli greci, abbia una posizione molto diversa sull’argomento della tortura. Immagino che lui sia nettamente contrario. In fondo è un uomo mite, anche se un po’ rabbioso. Penso che lui si contenti delle celle e soprattutto dell’abolizione di questo metodo insopportabile e mollemente borghese di distribuire il potere che consiste nell’uso delle urne. Le urne, il voto, i candidati, il decadente sistema democratico, sono il male della modernità. Una vera modernità si libera di questi orpelli ottocenteschi e seleziona il potere, non lo distribuisce. Il potere, secondo Travaglio e molti suoi predecessori, spetta agli onesti, o ai giusti, o ai camerati, o alla classe. Lui propende per gli onesti. Chi sono gli onesti? Quelli che appartengono al partito degli onesti e che sono giudicati tali dai magistrati, dai Pm, dalle varie associazioni antimafia, da Di Battista e da Fofò. Su Di Maio bisogna stare più attenti: negli ultimi tempi ha sbandato e in lui sono evidenti netti segni di imborghesimento democratico. Un po’ di prudenza anche su Grillo, che certo non ha tentazioni democratiche, però si è dissociato da Conte, e Conte invece è un uomo puro. Come lo era Bessarione (non sapete chi era Bessarione? Ve lo racconto un’altra volta). Il tono scherzoso che sto usando per riferire della svolta dichiarata del Fatto, che in modo solenne si schiera per una ideologia comunque antidemocratica e che richiama esplicitamente i toni del fascismo mussoliniano, forse è fuori luogo. A me viene spontaneo scherzare un po’ quando parlo di Travaglio (Perché? Ve lo spiegherò un’altra volta quando vi racconterò anche di Bessarione). Il problema però è molto serio. La presenza in Italia di un nucleo di energie politiche, giornalistiche e intellettuali fortemente e appassionatamente contrarie alla democrazia è una questione che va affrontata. Quando io ero ragazzo, per molto meno si sarebbe gridato al colpo di Stato. Ma allora i colpi di Stato erano possibili, persino in Europa (come dimostrò proprio la Grecia, e più tardi – in senso inverso – di nuovo la Grecia e poi il Portogallo quando dei putsch eliminarono la dittatura per mano militare e restaurarono la democrazia). Oggi i colpi di Stato non sono possibili. Ma il progressivo deterioramento della democrazia, del suo funzionamento, delle sue garanzie, del suo legame indissolubile con lo Stato di diritto non solo è possibilissimo ma è largamente in atto. Le forze che in modo esplicito o no non amano la democrazia e lavorano per ridurne la portata e il potere sono presenti in diversi partiti. Sono fortemente maggioritarie tra i 5 Stelle, sfiorano ormai, e penetrano, nel Pd, hanno un peso discreto nella Lega. Non credo che siano presenti anche in Fratelli d’Italia, e se lo sono del tutto marginali, perché Fratelli d’Italia – paradossalmente – è un partito che affonda più di tutti gli altri le radici nella Prima repubblica e nella struttura democratica dei partiti. Fratelli d’Italia ha tendenze reazionarie nettissime, e anche giustizialiste. Sicuramente alcune sue posizioni risentono di una vaga ascendenza fascista. Ma è un partito democratico, che ama la democrazia. Si è del tutto liberato del ricordo autoritario del fascismo. Queste forze sovversive trasversali sono fortemente influenzate, e influenzano, una parte significativa del mondo dell’informazione. E trovano un interlocutore potentissimo e attento nel partito dei Pm. Perché l’idea alla quale si ispirano è quella di Travaglio: la Repubblica degli onesti, dei giusti, lo Stato etico. Qual è il rischio? Che proceda il logoramento in corso. Lo Stato di diritto ormai in Italia è ridotto al lumicino. La magistratura è in mano a una Loggia, che sia l’Ungheria o no non saprei. E ha un potere sconfinato. I partiti devono sottoporsi a cerimonie umilianti per avere l’imprimatur dei giusti. E non possono più scegliere, e non hanno autonomia, e non sono – proprio per queste ragioni, oltre che per un difetto di pensiero – capaci di elaborare strategie e politiche. La campagna del Fatto contro gli impresentabili (con il corredo dell’urna-cesso) è uno dei grimaldelli. Si pubblicano liste di proscrizione, tipiche di tutti i regimi, che si fondano sull’idea che se stai antipatico a un Pm sei un farabutto. Pensate al caso Calabria, dove i Pm hanno fatto fuori il presidente eletto, Mario Oliverio, rispettabilissima persona, erede della nobile tradizione del Pci, lo hanno arrestato, hanno poi dovuto liberarlo solo su ordine della Cassazione per inconsistenza delle accuse, e ora che, indebolito illegittimamente dai poteri occulti delle Procure, prova a ripresentarsi alle elezioni, gli tornano addosso e lo rimettono di nuovo sotto il fuoco per mezzo di Travaglio: sei impresentabile, gridano. Impresentabile? Piuttosto Oliverio è un perseguitato. Ma nei regimi la parola perseguitato è abrogata. Facciamo spallucce a tutto ciò e andiamo avanti? Sotto il ricatto continuo dei manettari? I partiti non sono in grado di reagire, vili e impauriti? La campagna contro Berlusconi ha portato a tutto ciò? Ha demolito l’attaccamento alla democrazia politica e allo Stato liberale? Gli intellettuali di sinistra sono scomparsi o si riparano dietro Montanari? Già. Poi se io dico che siamo al fascismo mi dicono che sono ottuso dalle ideologie. Non c’è niente di ideologico in quello che dico. Questa roba qui nella quale stiamo vivendo assomiglia tantissimo a un moderno fascismo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

È tutto debito buono? Lo Stato onnipresente e la fandonia del neoliberismo italiano. Istituto Bruno Leoni su L'Inkiesta il 16 agosto 2021. I numeri delle partecipazioni dirette e indirette del governo sono altissimi. Ma non basta: sono tanti i modi con cui il pubblico riesce a controllare e dirigere l’economia del Paese. Rimangono dubbi non tanto per i ritorni sull’investimento (che in alcuni casi ci sono), quanto per le conseguenze di lungo termine su dinamismo e attrattività. L’editoriale settimanale dell’Istituto Bruno Leoni su Linkiesta di Katrin Hauf, da Unsplash. Lo Stato è il più importante investitore a Piazza Affari (oltre che azionista della Borsa stessa): le partecipazioni dirette e indirette del governo superano i 57 miliardi di euro di capitalizzazione (il valore comprende anche Rai e Ferrovie, attualmente non quotate). Un’indagine condotta dal quotidiano Milano Finanza ha inoltre mostrato che, nell’ultimo anno, il peso delle quote pubbliche è cresciuto del 13,8 per cento. A questi vanno aggiunti i pacchetti azionari in pancia agli enti locali o alle regioni, per esempio nelle grandi ex municipalizzate. Inoltre, le partecipazioni pubbliche non solo si contano, ma si pesano: poiché spesso il Mef o la Cdp detengono quote di controllo, la loro influenza sulla Borsa va ben al di là del conteggio delle quote e arriva a oltre un quarto dell’intero listino. Per avere un termine di paragone, la capitalizzazione complessiva della Borsa italiana a fine luglio 2021 valeva circa 724 miliardi. Di fronte a questi dati strappa davvero un sorriso (il nostro, amaro) la costante polemica contro il neoliberismo imperante. Anche perché i numeri non rendono giustizia sulla pervasività della presenza pubblica nell’economia. Infatti, da un lato, la Cdp ha ormai ramificazioni ovunque, che si sono ulteriormente consolidate attraverso i fondi creati per sostenere la liquidità delle imprese durante la crisi del Covid e che, invece, hanno rappresentato uno strumento di penetrante espansione nel capitale delle imprese non quotate. Dall’altro lato, lo Stato non condiziona le decisioni delle imprese solo attraverso gli investimenti in equity, ma anche per mezzo di molti altri strumenti e comportamenti (dalla produzione normativa al disegno del sistema tributario, dal modo in cui le norme leggi vengono in concreto applicate fino alla moral suasion), a loro volta (spesso) orientati dagli interessi delle aziende partecipate. Insomma: dopo la fase (in chiaroscuro) delle privatizzazioni negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, non c’è dubbio che oggi ci troviamo nuovamente in un Paese, se non controllato, quanto meno fortemente condizionato dalle partecipazioni statali. In questo panorama desolante è un po’ difficile considerare il disimpegno dal Monte dei Paschi di Siena, coerente con impegni già presi con le istituzioni europee, un cambio di passo – o la prima avvisaglia del ritorno dei “privatizzatori”. Anzi, il Governo Draghi non si è tirato indietro in altre operazioni, da Tim ad Autostrade, che hanno visto il ritorno dello Stato in settori dai quali in precedenza si era ritirato. Viene dunque da chiedersi, usando le parole del premier, se e come tutto questo capitale pubblico possa essere qualificato come «debito buono», non tanto alla luce dei ritorni sull’investimento (che in alcuni casi ci sono), quanto per le sue conseguenze di lungo termine sul dinamismo e l’attrattività del Paese. Sappiamo bene che più la presenza pubblica è solida in un settore, meno i concorrenti saranno indotti a entrare e misurarsi coi rivali controllati dallo Stato, nella consapevolezza che essi sono inevitabilmente «più uguali degli altri». La fase delicata che stiamo attraversando implica inevitabilmente un incremento della spesa pubblica. Prima o poi, però, questa bolla scoppierà e torneremo a fare i conti con la realtà di una finanza pubblica drogata e insostenibile, e di un mercato egemonizzato dallo Stato. Sarebbe meglio prevenire questo problema, mettendo un freno e possibilmente ingranando la retromarcia, per evitare che l’ipertrofia pubblica divori quel che resta del nostro apparato produttivo.

Democrazia in bilico (ma non tutto è perduto). Giuseppe Trapani, Giornalista, su Il Riformista il 3 Agosto 2021. Il vero giardiniere –  ha scritto  il drammaturgo Ceco Karel Capek – non coltiva fiori ma nutre il suolo; il suo occhio non si arresta alla superficie come uno spettatore ma s’immerge in profondità a controllare la  fertilità del terreno. L’esatto contrario del terreno buono è il fango dove è facile annaspare e rimanere immobili. E dalla “palude fangosa” che prende avvio il saggio di Rossana Titone dal titolo “Democrazia in bilico” edito da  Pluriversum Edizioni : un intenso viaggio – nello spazio di un diario minimo –  dentro un paese in discernimento sempre sul filo (anzi in bilico) del “vorrei ma non posso” o – specularmente – del “potrei ma non voglio” a seconda del proprio punto di vista. Di certo è che questo libro è autentico, scritto per anime inquiete nel senso che Agostino d’Ippona intende dare al termine, ovvero non lasciarsi annichilire dalla limitatezza di sé ma assumerla per superare i momenti di crisi. Ed è un saggio dedicato quindi a coloro che sentono il disagio del tempo presente e sono vulnerabili ed incapaci di curare le ferite, atterrite dallo sconforto.  E’ quel famoso spettro della paura che apre il romanzo di Joanna Bourke, cioè uno spirito in scala di grigi che si aggira anche in forme sofisticate alimentato da un futuro incerto e complesso nel quale l’interdipendenza dei fatti e delle società hanno letteralmente terrorizzato i cittadini. Ma nella selva dei tempi “globali” va messa a terra una sorta di pietra angolare sulla quale costruire una democrazia della possibilità, un orizzonte di fiducia. Si può dire – parafrasando Renato Zero – che la globalizzazione no, non l’avevamo considerata e tuttavia l’autrice ne coglie tutti gli aspetti problematici (anche nei dettagli della sua vita quotidiana) concentrandosi su una sorta di terapia del linguaggio: le parole diventano terapia.  la terapia diventa cura e la cura ti mette in piedi. Il saggio insiste – con una prosa apparentemente istantanea invece molto pensata e pesata -sul tema dell’essere politico (più che del fare politica)  affinché si possa costruire una nuova classe dirigente all’altezza dei tempi e per contrastare i populismi e i qualunquismi inadeguati alle questioni di stretta attualità come il contrasto all’odio sociale, la tutela delle  diversità,  il cambio di passo autentico delle politiche migratorie, la crescita culturale ed economica strutturale, la cura delle nuove generazioni. Su un punto trovo l’analisi di Rossana Titone si fa sferzante come giusto che sia: per un “politichina” nutrita a pane e supponenza che tende ad arrivare a qualunque costo (un Whatever it takes al negativo, costruito su basi rovesciate), l’autrice stabilisce una distinzione e non una sovrapposizione tra coscienza politica di tutti i cittadini ed esercizio del governo che – non si offendano alcuni – non è per tutti. Come per tutti i lavori, essa richiede un cammino graduale, un cursus dall’ambito locale a quello nazionale, studio, analisi dei bisogni ascoltando le persone e far accadere quando si promette. Contro la riduzione della complessità a gossip, il libro sa volare senza distogliere lo sguardo a quanto accade sulla terra, gli occhi non si accecano alla visione estatica dei massimi sistemi ma leggono la realtà attraverso momenti 

inaspettati ai più, come passeggiando con il fidato Parker o alla luce di un gag,  in una mattinata come tante, davanti a una friggitoria palermitana…  ma non posso svelarvi di più. Per scoprire tutto il resto, leggetevi questo bel libro: il diario verace di una giornalista che non si rassegna a vivere in un’Italia nella palude.

L'articolo 88 e gli ultimi 6 mesi del settennato. Cos’è il Semestre Bianco, la norma che proibisce al Presidente della Repubblica lo scioglimento delle Camere. Antonio Lamorte su Il Riformista il 2 Agosto 2021. Da domani il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella non potrà più sciogliere le aule del Parlamento, e quindi la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica, e indire nuove elezioni. È la norma del cosiddetto Semestre Bianco, all’Articolo 88 della Costituzione: “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse. Non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura”. A Mattarella resteranno comunque i poteri di nomina di firma, di rinvio delle leggi, di inviare messaggi al Paese. La norma del semestre bianco è stata definita anche come anacronistica, figlia di un’Italia appena nata democratica e quindi ancora parecchio timorata da svolte autoritarie e fasciste. Il membro dell’Assemblea Costituente del Partito Comunista Italiano Renzo Laconi l’aveva definita come l’antidoto a una sorta di “piccolo colpo di Stato legale”, ovvero il rischio di un Presidente che per vedere prorogati i propri poteri potesse “avvalersi di questo potere prorogato per influenzare le nuove elezioni”. È stato definito anche un “buco nero” che annichilisce l’arma più potente nelle mani del Capo dello Stato. Puntuali emergono quindi alla vigilia del Semestre Bianco scenari su possibili crisi nell’esecutivo. E soprattutto perché i partiti potrebbero moltiplicare i veti incrociati gli scontri duri. A febbraio 2022 scade il mandato di Mattarella. E il toto nomi impazza già da mesi. Lo stesso Presidente del Consiglio Mario Draghi viene spesso citato tra i favoriti. Lo stesso Mattarella, secondo molti, sarebbe stato incitato a intraprendere la ri-elezione. Solo voci per il momento. Della cancellazione della norma sul Semestre Bianco si è sempre parlato ma senza mai fare niente. Il Presidente Antonio Segni, nel 1963, invitò il Parlamento a intervenire su uno strumento che “altera il difficile e delicato equilibrio tra i poteri dello Stato, e può far scattare la sospensione del potere di scioglimento delle Camere in un momento politico tale da determinare gravi effetti”. Segni era favorevole a stabilire la “non immediata rieleggibilità” del Presidente della Repubblica, una proposta citata e condivisa anche da Mattarella – considerazioni che fanno propendere per la sua rinuncia a un nuovo mandato. L’articolo 88 venne modificato solo nel 1991, alla fine del settennato di Francesco Cossiga e della X legislatura, quando venne inserita una deroga nel caso in cui gli ultimi sei mesi del mandato “coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura”. Una situazione definita di “ingorgo istituzionale”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli. 

Mattarella, il monito del Presidente della Repubblica al Governo e al Parlamento. Ilaria Minucci il 23/07/2021 su Notizie.it. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha espresso un monito rivolto a Governo e Parlamento in merito ai decreti emanati durante la pandemia. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ufficializzato la conversione in legge del decreto Sostegni bis. In questa circostanza, tuttavia, la più alta carica dello Stato italiano ha sfruttato l’occasione per inviare ai politici un importante avvertimento. Nel pomeriggio di venerdì 23 luglio, il Presidente della Repubblica ha annunciato la legge di conversione del decreto Sostegni bis, asserendo: “Ho provveduto – scrive il Capo dello Stato – alla promulgazione in considerazione dell’imminente scadenza del termine per la conversione e del conseguente alto rischio, in caso di rinvio, di pregiudicare o, quantomeno, ritardare l’erogazione di sostegni essenziali per milioni di famiglie e di imprese”. Al contempo, Mattarella ha voluto anche rendere pubblica una lettera indirizzata ai presidenti del Senato e della Camera, Maria Elisabetta Alberti Caellati e Roberto Fico, e al premier Mario Draghi. In questo contesto, il monito del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stato volto a sottolineare l’uso improprio delle leggi di conversione dei decreti e delle decretazioni d’urgenza che ha caratterizzato l’esecutivo italiano durante i mesi vissuti all’insegna della pandemia.

Mattarella, il monito del Presidente della Repubblica: la lettera ai politici. La missiva scritta dal Presidente della Repubbica riporta il seguente messaggio: La consapevolezza della straordinarietà e della gravità del momento che il Paese sta attraversando per le conseguenze economiche e sociali dell’emergenza pandemica, tutt’ora in corso, nonché della necessità di attuare speditamente il programma di investimenti e riforme concordato in sede europea non può, peraltro, affievolire il dovere di richiamare al rispetto delle norme della Costituzione. Avverto la responsabilità di sollecitare nuovamente Parlamento e Governo ad assicurare che, nel corso dell’esame parlamentare, vengano rispettati i limiti di contenuto dei provvedimenti d’urgenza, come già richiesto con analoga lettera dell’11 settembre 2020. Per quanto riguarda le mie responsabilità, valuterò l’eventuale ricorso alla facoltà prevista dall’articolo 74 della Costituzione nei confronti di leggi di conversione di decreti-legge caratterizzati da gravi anomalie che mi venissero sottoposti. Anche tenendo conto che il rinvio alle Camere di un disegno di legge di conversione porrebbe in termini del tutto peculiari – alla luce della stessa giurisprudenza della Corte costituzionale – il tema dell’esercizio del potere di reiterazione, come evocato in una lettera del 22 febbraio 2011 del Presidente Napolitano.

Mattarella, il monito del Presidente della Repubblica: le parole di Napolitano. In relazione al testo citato da Mattarella e consultabile sul sito del Quirinale, il suo predecessore Giorgio Napolitano – facendo riferimento a un ddl di conversione annesso a un dl Milleproroghe – aveva scritto: “Sono consapevole che una eventuale decisione di avvalermi della facoltà di richiedere una nuova deliberazione alle Camere del disegno di legge in esame ai sensi dell’articolo 74 della Costituzione, per il momento in cui interviene a seguito della pressoché integrale consumazione da parte del Parlamento dei termini tassativamente previsti dall’art. 77 della Costituzione, potrebbe comportare la decadenza delle disposizioni contenute nel decreto-legge da me emanato nonché di quelle successivamente introdotte in sede di conversione”.

Secondo Sergio Mattarella, quindi, il decreto Sostegni bis “contiene 393 commi aggiuntivi, rispetto ai 479 originari. Tra le modifiche introdotte ve ne sono alcune” che “sollevano perplessità in quanto perseguono finalità di sostegno non riconducibili all’esigenza di contrastare l’epidemia e fronteggiare l’emergenza, pur intesa in senso ampio, ovvero appaiono del tutto estranee, per finalità e materia, all’oggetto del provvedimento. Il significativo incremento del ricorso alla decretazione d’urgenza verificatosi durante l’emergenza Covid, anche per fare fronte alle esigenze di attuazione del Pnrr, accentua il rischio di recare pregiudizio alla qualità della legislazione, possono determinare incertezze interpretative, sovrapposizione di interventi, provocando complicazioni per la vita dei cittadini e delle imprese nonché una crescita non ordinata e poco efficiente della spesa pubblica”.

Mattarella, il monito del Presidente della Repubblica: i decreti emanati durante la pandemia. Il Presidente della Repubblica, poi, ha voluto ricordare i dl emanati nel corso della pandemia da coronavirus, sottolineando: Dal febbraio 2020 al luglio 2021, sono stati adottati dal Governo 65 decreti-legge rispetto ai 31 dei 18 mesi precedenti. Tra l’altro, i provvedimenti d’urgenza hanno comprensibilmente assunto di frequente in questa fase un’estensione eccezionale. La moltiplicazione dei decreti-legge, adottati a distanza estremamente ravvicinata, ha determinato inoltre un consistente fenomeno di sovrapposizione e intreccio di fonti normative: attraverso i decreti-legge si è provveduto all’abrogazione o alla modifica di disposizioni contenute in altri provvedimenti d’urgenza in corso di conversione e, in più occasioni, si è assistito alla confluenza nelle leggi di conversione di altri decreti-legge. In merito alle caratteristiche che è andata assumendo la decretazione d’urgenza, ha avuto modo di esprimersi più volte in senso critico il Comitato per la legislazione della Camera dei Deputati che, in particolare, ha invitato il Legislatore ad evitare "la commistione e la sovrapposizione, nello stesso atto normativo, di oggetti e finalità eterogenei" e il Governo "ad operare per evitare la confluenza tra diversi decreti-legge, limitando tale fenomeno a circostanze di assoluta eccezionalità da motivare adeguatamente nel corso dei lavori parlamentari".

Mattarella, il monito del Presidente della Repubblica a Governo e Parlamento. Il Presidente della Repubblica, infine, ha concluso la sua lettera rivolgendo un preciso monito al Governo e la Parlamento, asserendo: Invito a riconsiderare le modalità di esercizio della decretazione d’urgenza, con l’intento di ovviare ai profili critici da tempo ampiamente evidenziati dalla Corte costituzionale, nonché nelle stesse sedi parlamentari, oltre che in dottrina, e che hanno ormai assunto dimensioni e prodotto effetti difficilmente sostenibili. L’esperienza sin qui maturata ha reso ancor più evidente come il rispetto del dettato costituzionale coincida con l’interesse ad un’ordinata ed efficiente regolamentazione dell’emergenza in corso, della ripresa economica e delle riforme: ciò richiede un ricorso più razionale e disciplinato alla decretazione d’urgenza. Occorre dunque modificare l’attuale tendenza. I decreti-legge devono presentare ab origine un oggetto il più possibile definito e circoscritto per materia. Nei casi in cui l’omogeneità di contenuto è perseguita attraverso l’indicazione di uno scopo, deve evitarsi che la finalità risulti estremamente ampia. Auspico che queste considerazioni e questi rilievi siano oggetto di approfondimento e di riflessione nell’ambito del Parlamento e del Governo.

·        Parlamento: Figure e Figuranti.

Così volpi, leoni, cinocefali spiegano la giungla del potere. Matteo Sacchi il 20 Giugno 2021 su Il Giornale. Sin dall'antichità le metafore zoologiche sono uno strumento di comprensione della politica. Un animale politico. La definizione che Aristotele dà dell'uomo, politikòn zôon, ma anche la definizione che ciascuno di noi dà di chi sia un leader carismatico. La politica sarà pure una scienza ma, da sempre, le metafore che la riguardano hanno a che fare con l'animalità, ne fanno largo uso. Come si fa ad essere un re? La Bibbia ha le idee chiare: «Tre esseri hanno un portamento maestoso... sono eleganti nel camminare: il leone, il più forte degli animali, che non indietreggia davanti a nessuno; il gallo pettoruto, il caprone è un re alla testa del suo popolo». E i re della stirpe di Davide avevano come simbolo il leone. Così come nei templi egizi l'immagine di Ramesse II è accompagnata da quella del suo leone e mentre combatte indossa la khepresh che simboleggia la forza del cobra. E in egual misura, sin dall'antichità, la metafora animale è anche usata per colpire l'avversario politico, per sminuirlo. Alla fine per gli antichi greci perché non ci si può fidare dei barbari? Perché quando parlano fanno «bar-bar» il verso dei cani. Eppure proprio perché più vicini all'animalità questi uomini-altri possono anche essere temibili. Ecco allora prosperare nei secoli il mito dei temibili Cinocefali, un popolo dalla testa canina temibilissimo in guerra, selvaggio eppure dotato di caratteristiche umane. Insomma l'ambiguità del politico incarnata, il trittico uomo - volpe - leone di Machiavelli trasformato, con largo anticipo, in mito pseudoetnografico (preso però per vero per secoli). E, nei secoli, l'animale è stato associato, come vedete nell'illustrazione della pagina a precedere, dopo essere transitato dall'araldica familiare, anche alle intere nazioni. L'orso russo, il dragone cinese che ormai finisce in tutti i titoli di giornale, il leone britannico e l'aquila americana. Aquila, ad esempio, che non piaceva a Theodore Roosevelt, ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti. Lui personalmente avrebbe scelto il Grizly. Lo considerava più simile nella natura profonda agli americani e gli piaceva l'idea di avere un orso più grosso di quello dei russi...Insomma, il libro appena pubblicato da Gianluca Briguglia, professore di Storia delle dottrine politiche all'Università Ca' Foscari di Venezia ha un titolo che coglie nel segno: Bestiario politico (HarperCollins, pagg. 156, euro15). Arioso nella forma, il testo è tratto da un podcast, il volume si muove sul filo di alcune delle più interessanti suggestioni relative alla «bestialità» e alla politica. A partire proprio dall'origine, ovvero dal mito di Adamo ed Eva. Come in un bestiario - nel Medioevo si trattava di una categoria sapienziale di volumi che raccoglievano brevi descrizioni di animali (reali o fittizi), accompagnate da spiegazioni moralizzanti e riferimenti tratti dalla Bibbia- la riflessione muove sempre le mosse da una rappresentazione che nasconde altro. Così si parte dal Peccato originale di Albrecht Dürer, dal dettaglio in basso nell'incisione. Un secondo prima che la mela venga morsicata un gatto guarda il topo. Siamo all'attimo «-1» della politica. La violenza non è ancora scattata, non c'è bisogno di un potere che la controlli. Ma un attimo dopo il mondo diventerà come lo conosciamo. Pieno di mostri e di animali che sono immaginari ma sono anche l'esatta descrizione di quello che la politica genera. E in questo caso la fanno da padrone i cinocefali di cui prima accennavamo. Tornano a ripetizione. Deve ragionarci sopra persino Sant'Agostino, che alla loro esistenza non crede molto ma che prende atto: se sono razionali, se creano una civitas, vanno considerati umani. Come dargli torto, la politica si muove proprio sul discrimine dove la violenza «animale» è messa sotto controllo. E poi la narrazione prosegue passando anche da pensatrici relativamente dimenticate, come Christine de Pizan (1364-1430) e arriva sino a Nicolò Machiavelli (1469-1527). Col pensatore fiorentino il tema del bestiario politico esce dall'inconscio collettivo. Leoni, aquile, volpi, cervi dorati escono dall'araldica. Il manto di pantera dei faraoni viene deposto, così come il palco di corna indossato dai re dei celti o le pelli d'orso dei berserkir. La teorizzazione diventa chiara. La natura del centauro Chirone si svela: «Avere per precettore qualcuno che è mezzo bestia e mezzo uomo - non vuol dire altro se non che un principe deve saper adoperare l'una e l'altra natura: e che l'una senza l'altra non può durare». Ma questo terribile equilibrio che resta sospeso sulla politica di oggi non fa dormire sonni tranquilli. Briguglia cita una intervista di Bill Clinton: «Se parliamo di Osama Bin Laden - un ragazzo intelligente, ho passato molto tempo a pensare a lui - sto dicendo che l'ho quasi preso... Avrei potuto ucciderlo, ma avrei dovuto distruggere una piccola città chiamata Kandahar e uccidere 300 donne e bambini innocenti. A quel punto non sarei stato migliore di lui e non lo feci». Dopo ci fu l'11 settembre 2001 e morirono 2977 innocenti e poi ci fu la guerra in Afghanistan con un corollario di circa 600mila vittime. Maledette bestie della politica, non ci lasciano dormire, continuano a chiederci se siamo disposti ad entrare nel male, almeno quando è necessitato. E allora ogni epoca ha il suo bestiario che si spera non ci porti dritti dritti nella Fattoria di George Orwell, governata dai maiali. Preferiremmo di gran lunga il «cinghiale bianco» di Battiato. Però, non a caso, Briguglia chiude parlando della più cupa delle pandemie: la peste. Ma dalla peste, un batterio davvero bestiale, è nata una grande rinascita. Anche la Fenice è un gran simbolo politico.

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”.

La minaccia della scissione del Nord è stata presa troppo sul serio. L’errore più grave da parte dello Stato è stato affidare alle Regioni la gestione della sanità. Giuliano Cazzola il 22 giugno 2021 su Il Quotidiano del Sud. Senza pretendere di risalire al dibattito politico-culturale e alle ragioni pratiche che indussero i Padri Costituenti  ad introdurre un livello istituzionale regionale dotato di potere legislativo sulle materie di competenza e su quelle ad esso delegate dallo Stato, in Italia le Regioni sono un dono dell’autunno caldo del 1969 che determinò – come risposta al ‘’nuovo che avanza’’ – lo Statuto dei lavoratori e il completamento dell’assetto statuale in chiave di autonomia politica e non solo di decentramento amministrativo come erano stati nella storia precedente le Province e i Comuni. Fin dalla loro nascita garantirono una maggiore distribuzione del potere politico, perché a livello regionale non vi erano problemi per l’accesso al potere dello stesso Pci oggetto, sul piano nazionale, di una conventio ad excludendum. L’avvio dell’esperienza venne inaugurata da importanti figure politiche come il comunista Guido Fanti in Emilia Romagna e il democristiano Piero Bassetti in Lombardia e accompagnata da un ampio fervore di studi di diritto amministrativo quando vennero varate le leggi delegate per l’attribuzione delle competenze, dei relativi organici e delle risorse. Ma il momento di maggior gloria delle Regioni fu determinato da un contagio politico: l’emergere di una ‘’questione settentrionale’’ sollevata, con inatteso successo elettorale, di alcune Leghe sorte tra le nebbie della pianura padana, le cui popolazione erano sensibili all’accusa – un po’ sempliciotta ma non senza fondamento – ‘’siamo stanchi di lavorare per mantenere Roma ladrona e i terroni. Ce ne andiamo per conto nostro’’. La minaccia della scissione (vi furono anche alcune mascherate) fu presa sul serio.  Fino a quando non venne sdoganata da Silvio Berlusconi che convinse Umberto Bossi ormai divenuto (dopo il ‘’tradimento’’ del 1994) suo alleato stabile ad accontentarsi del ‘’federalismo’’. Il senatur fu così messo in grado (un po’ come aveva fatto il Pci nell’immediato dopoguerra) di convincere la base che si trattava di un primo passo verso la secessione. L’Italia però è uno strano Paese in cui le forze appartenenti al ‘’sistema’’ cercano di incorporare e assimilare le istanze dei movimenti ‘’antisistema’’ per rubacchiare loro un po’ del consenso che vanno raccogliendo. È stato così con l’inchiesta di ‘’Mani pulite’’, sostenuta ed alimentata dalla potenza di fuoco televisiva di Silvio Berlusconi, dalla mobilitazione dei Ds (come diceva Winston Churchill c’è sempre qualcuno che nutre il coccodrillo nella speranza di essere mangiato per ultimo) e da tutta la c.d. stampa indipendente (di proprietà di centri di potere economico). Col federalismo, poi, bastò la parola. Tanto che l’unica riforma in tal senso fu attuata da un governo di centro sinistra all’inizio del nuovo secolo: la c.d. riforma del Titolo V della Costituzione che – in mancanza del coraggio di compiere scelte nette come cercò di fare, anni dopo il governo Berlusconi con la riforma Calderoli detta della devolution e bocciata in sede di referendum  confermativo – determinò la condizione di un conflitto permanente tra Stato e Regioni nell’ambito delle tante competenze concorrenti costringendo la Corte Costituzionale ad individuare i relativi confini che il legislatore aveva dimenticato di tracciare. Ma l’errore più grave sia per lo Stato che per le Regioni è stato quello di affidare a queste ultime la gestione della sanità (non parliamo poi delle politiche attive del lavoro e della formazione), un settore che, da un lato ha condizionato i bilanci e l’attività delle Regioni, dall’altro a diviso per venti il SSN. Nella XVI legislatura si volle completare il disegno con il c.d. federalismo fiscale con l’impegno non solo della maggioranza di centro destra, ma dello stesso Pd allora all’opposizione. Ma non se ne fece nulla perché le Regioni non vollero mai rinunciare alla copertura dello Stato. L’ultima raffica del regionalismo venne sparata nella XVII legislatura da due Regioni amministrate dal centro destra: la Lombardia e il Veneto che sottoposero a referendum la richiesta di autonomia differenziata, con l’appoggio a sinistra dell’Emilia Romagna. Nella XVIII legislatura, l’attuale, quella richiesta ha rifatto capolino (in precedenza il governo Gentiloni aveva stipulato persino degli accordi con i sedicenti Governatori) ma è stata travolta dalla pandemia, che ha rappresentato – purtroppo – la prova generale di un’autonomia sempre annunciata e mai nata. Al dunque forse sarebbe stato più opportuno, anziché massacrare le Province, rivedere l’assetto delle Regioni, il cui profilo è oggi o quello di uno staterello balcanico o di un Comune, neanche tanto grande. 

ECCO LA SINDROME DELLE FEDERAZIONI, IL PASSATEMPO SBAGLIATO DEI PARTITI. Il mantra dominante è quello di aggregare voti a qualunque costo, illudendosi di mischiare moderati ed estremisti, realisti e utopisti. Paolo Pombeni su Il Quotidiano del Sud il 9 giugno 2021. La cabala dei partiti sta tutta nello studiare come raggiungere la pole position nelle griglie di partenza delle elezioni. Fusioni, aggregazioni, aperture verso destra o verso sinistra tutto dovrebbe servire allo scopo. Un sano scetticismo verso queste forme di alchimia è imposto dal realismo, ma ciò non toglie che le forze politiche vi si dedichino con il massimo sforzo disponibile. Nel centrodestra Salvini s’è messo avanti col lavoro provando a lanciare il progetto di una qualche forma di coordinamento con Forza Italia. Servirebbe, dicono quasi tutti, a far nascere il primo raggruppamento per raccolta di voti e dunque a candidare il suo leader alla guida del governo una volta espletata la tornata elettorale nazionale. Curiosamente si discute se questa forma di “federazione” (o cos’altro ci si inventerà) possa raggiungere la fantastica quota del 36-37% di consensi nelle urne. Il calcolo è ottimistico perché va ben oltre la somma di quanto attribuito dai sondaggi a Lega e FI. Così facendo si arriverebbe più o meno al 27-28%: una bella cifra, ma quasi dieci punti lontana dalle fantasie sopra ricordate, le quali non spiegano, se non con numeri al lotto, come si raggiungerebbe quel traguardo. Salvini ormai punta chiaramente sull’effetto Draghi. Ne è diventato il fan più ardimentoso e cerca di mostrarlo in tutti i modi, ma quanto sia credibile la trasformazione di questo entusiasmo in voti aggiuntivi è tutto da dimostrare. Certo il leader leghista conta che Draghi non ripeta la sbandata di Monti e si raccatti un suo partito, perché s’è visto che così non funziona. I partiti si fondano consumando le scarpe, reali e metaforiche, nel percorrere i territori alla ricerca e motivazione di adepti alla causa, operazione difficile da gestire quando si è impegnati nell’azione di governo (specie in questi frangenti così impegnativi su quel piano). Salvini lo sa, pensa dunque che alla fine il tesoretto di consenso raccolto dall’attuale premier andrà letteralmente all’asta, e cerca di comprare il maggior numero di biglietti possibile in vista della lotteria finale. È abbastanza curioso che il PD non reagisca in maniera appropriata a questa operazione. Probabilmente la sottovaluta, convinto che sia il solito fuoco di paglia. Non considera però che se lascia il campo libero a Salvini nell’ottica di un sostegno al governo convinto ma non troppo, perché crede che sia prioritario sventolare una sua agenda, le chance di perdere l’immagine dell’unico partito di massa capace di ragionamento anziché di demagogia saranno in continua crescita. Anche in questo caso a dominare è però la sindrome della federazione. Calcolatrice alla mano se si sommano sulla base dei sondaggi i consensi del PD e quelli di M5S già si arriva testa a testa con i consensi di Lega + FI, mentre se ci si aggiungono e consensi di LeU quantomeno il pareggio è assicurato. Di nuovo si tratta di conti senza l’oste, perché in tutti i casi la somma fra i consensi (per di più stimati e non reali) non da quei risultati così certi come vorrebbero gli strateghi di questa confusa stagione. Entrambi i campi poi sono lì a strologare su cosa avverrà di quell’area confusa e magmatica che va genericamente sotto il nome di “centro”. Ci si mette dentro Renzi, Calenda, Bonino, magari una spruzzata di Verdi, e ci si interroga se la neonata “Coraggio Italia” di Toti e Brugnaro si posizionerà da quelle parti, senza parlare dell’ipotesi di qualche fuga da FI verso un nuovo centro per insofferenza verso l’abbraccio coi leghisti. È un’area che sempre valutandola con la calcolatrice potrebbe valere fra il 10 e il 15%, ma è un ritornello che sentiamo ripetere da decenni senza che si sia visto quagliare qualcosa di significativo. Sarebbe opportuno che tutti i partiti invece di far di conto provassero a misurarsi con le novità di questa stagione politica. Non c’è da perdersi ad immaginare misure fantasiose per rispondere a grandi problemi reali con soluzioni di piccolo cabotaggio fatte passare per miracolistiche. Basterebbe avviare una seria opera di ricognizione non solo delle problematiche che si possono affrontare con profitto, ma delle azioni specifiche che i partiti potrebbero/dovrebbero fare per essere riconosciuti dalla pubblica opinione come partecipi delle fatiche del governo. Piuttosto che discettare su chi è più draghiano di Draghi, piuttosto che correre ad inventarsi qualche trovata per mostrarsi “addizionali” a quanto propone il premier, ci sarebbe da impegnarsi nel lavoro di bonifica delle tante storture contro cui cozzerà la realizzazione di tante cose previste nel PNRR. Anche se non sembra, una azione concorde dei partiti in questi campi otterrebbe più risultati di quelli a cui può ambire il governo, per la semplice ragione che, per dirlo in metafora, asciugherebbe l’acqua in cui nuotano quei pesci. Come sempre il timore è che mentre uno o più partiti si impegnano in quelle operazioni, gli altri approfittino del malcontento inevitabile che esse suscitano per sottrarre loro consensi. E siccome ormai a fronte di un futuro elettorale reso più che incerto fra l’altro dalla modifica dei collegi e dal taglio del loro numero (cosa già avvenuta, a prescindere se si farà o meno una nuova legge elettorale) il mantra dominante è solo quello di aggregare voti a qualunque costo, illudendosi di mischiare facilmente moderati ed estremisti, realisti e utopisti, i partiti ragionano più che altro con l’occhio alla creazione di blocchi e cartelli. Un pessimo modo per fare politica.

La politica in formato social network: tante chiacchiere e nessuna sostanza. Sofia Ventura su L'Espresso l'1 giugno 2021. I partiti e i leader si rincorrono tra hashtag e dichiarazioni virali. Ma dopo aver occupato l’agenda mediatica, resta poco o nulla. Tanto si è parlato della crisi dei partiti. Tanto si è detto della logica mediatica che ha trasformato il modo di comunicare la politica. I due fenomeni sono legati. Lo sono così tanto che seguendo oggi il gioco politico, il dibattito politico, scontri e polemiche, si ha l’impressione di rimbalzare da un social all’altro, di saltellare tra hashtag, meme, grafiche. Le parole e gli interventi sembrano fatti per essere sussunti in questi nuovi atomi del discorso pubblico, anzi, meglio, in questi frammenti nel quale il discorso pubblico è esploso, perdendo ogni natura organica e razionale, ogni coerenza e profondità, ogni nesso con una prospettiva generale, da un lato, e con la concretezza del mondo empirico, dall’altro. Scrivendo del discorso pubblico nella forma che assume su Twitter, il direttore de La7 Andrea Salerno ha acutamente osservato (in un tweet: dalla stessa piattaforma emergono ogni tanto gli strumenti per analizzare gli impazzimenti ai quali essa dà sovente luogo): «Tutta la politica che tweetta sui Maneskin e tutta la politica che tweetta su Falcone. Stesso giorno, stessa intensità. L’essenza dei social network nel linguaggio, nell’imporre agenda delle notizie, senza distinzione di sorta, senza gerarchia, è tutta qui». Si scivola tra gli hashtag. Ogni giorno ha la sua proposta. Dall’abolizione del coprifuoco all’utilizzo dell’esercito per bloccare gli sbarchi «come fa la Spagna» di Giorgia Meloni all’eliminazione dell’Imu sugli immobili sfitti e alla flat tax al 15 per cento di Matteo Salvini. Fino alla tassa di successione per i più ricchi per finanziare la distribuzione di un bonus di diecimila euro ai giovani di Enrico Letta. E vedremo quali nuove proposte ci attenderanno nei giorni e settimane a venire. Proposte che funzionano benissimo per essere riassunte nelle «grafiche» delle quali si servono ormai tutti i partiti, quelle cartoline quadrate con immagini e brevissime frasi ad effetto, scritte con caratteri enormi e colori flash, delle quali ormai ogni partito abusa: basta fare un giro sui loro siti o sulle loro pagine Instagram. Una volta lanciate nel vortice della discussione ottengono plausi o critiche, ma entrano davvero nell’agenda politica? O piuttosto nell’agenda delle chiacchiere? Ma quanto sono state ponderate quelle proposte? Quali analisi di costi e benefici? Di fattibilità? Di impatto? E soprattutto: dove sono state elaborate? Una volta c’erano i partiti, i loro uffici studi, i luoghi interni all’organizzazione partitica deputati al confronto e alla discussione, quindi alla decisione. Una volta. Ora, o il partito si schiera come un sol uomo a sostegno della boutade del leader, nei casi – ad esempio – di Fratelli d’Italia o della piccola falange di Italia Viva, oppure apre il dibattito coram populo, con l’ausilio, ovviamente, delle piattaforme social. E qui veniamo alla crisi dei partiti accennata all’inizio. I partiti non mettono più in forma esperienze di intelligenza collettiva, non sono luoghi per sviluppare visioni, tradurle in progetti, dare concreta forma politica agli interessi di riferimento, luoghi di discussione reale. Stanno, soprattutto con la voce dei loro leader, nella «nuvola delle parole chiave», nel tentativo di intercettare più consenso possibile. Con una differenza, però, tra la destra populista (quasi il 90 per cento della destra italiana) e la sinistra. La prima accompagna questo gioco con la forza di un discorso pre-politico moralistico che divide il mondo in buoni e cattivi. La seconda, che pure non disdegna certi manicheismi, oscilla tra visioni anche opposte che spesso la mandano in corto circuito e le impediscono di comunicare agli elettori anche una solo vaga idea di mondo. In entrambi i casi non si costruisce nulla. Ma gli influencer del primo genere sono più a loro agio in un gioco che tutto sommato si addice loro; il Pd per giocarlo a sua volta, si è solo impoverito.

Claudio Bozza per il "Corriere della Sera" il 31 maggio 2021. La nascita di Coraggio Italia innesca un'altra rivoluzione negli equilibri politici e la mappa del Parlamento cambia ancora in maniera sensibile. Snocciolando i dati sui gruppi di Camera e Senato, emerge infatti che, dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018, oltre 200 parlamentari hanno cambiato casacca. Il quadro è chiaro: 138 deputati e 65 senatori non fanno più parte del partito o del movimento con il quale erano stati eletti. Un totale di 203. Il «muro dei 200» è stato superato d'un colpo (con 23 cambi di casacca alla Camera) con la nascita di Coraggio Italia, movimento guidato dal governatore della Liguria Giovanni Toti sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, costituito in gran parte da fuoriusciti da Forza Italia. E presto il bilancio del «trasformismo» potrebbe ulteriormente salire ben sopra quota 203, visto che, in settimana, è attesa la nascita di Coraggio Italia anche a Palazzo Madama, dove la quota minima per formare un gruppo è di 10 senatori (alla Camera è di 20), ma le regole sono più stringenti. Da inizio legislatura, il Movimento Cinque Stelle è il partito che detiene il record di addii: 60 a Montecitorio e 33 al Senato. Una disgregazione che, oggi, ha portato i 93 ex grillini a riaccasarsi in tutti i partiti presenti in parlamento. Forza Italia è invece al secondo posto con 37 addii ufficiali (27 alla Camera e 10 al Senato). A ruota il Partito democratico, con 31 parlamentari persi (rispettivamente 18 e 13), confluiti in gran parte in Italia viva con Matteo Renzi. Scorrendo l'elenco della Camera, secondo i dati di Openpolis, emerge che ci sono numerosi casi con cambi di casacca multipli, che fanno salire ulteriormente il totale dei passaggi di gruppo a 259. Una deputata, da inizio legislatura, ha «cambiato abito» ben 3 volte. È il caso della onorevole Maria Teresa Baldini, che dopo essere stata eletta con Fratelli d'Italia è passata al Misto, poi è entrata in Forza Italia ed infine, l'altro giorno, l'ultimo salto nel nuovo spazio politico costruito da Toti e Brugnaro. Mentre Tiziana Piccolo, nel giro di 24 ore, aveva lasciato la Lega per andare pure lei con Coraggio Italia, salvo poi tornare subito nel Carroccio. E come non ricordare l'addio eccellente a Forza Italia di Renata Polverini, che lo scorso 21 gennaio, in mezzo alla bufera politica per tentare di formare un Conte ter, aveva traslocato con i responsabili di Tabacci. Ma poi, a Palazzo Chigi, è arrivato Draghi e l'ex governatrice del Lazio, pentita, è tornata con i berlusconiani. Al Senato, a detenere il record assoluto di tutto il Parlamento, si registra il caso di Giovanni Marilotti, che ha traslocato per ben 5 volte: M5S, poi Misto, a seguire Autonomie, Maie-Centro democratico, poi di nuovo gruppo Misto ed infine Pd. Quattro cambi di casacca per Gregorio De Falco (è entrato con il M5S, poi Misto, Maie e di nuovo Misto). A pari merito, tra gli altri, la senatrice Mariarosaria Rossi, già fedelissima di Berlusconi: anche lei aveva tentato la carta dei responsabili, chiamati Europeisti, per sostenere un Conte ter (tentativo andato a vuoto). Quindi era passata nel gruppo Misto con Cambiamo e nei giorni scorsi ha seguito Toti nella nascita di Coraggio Italia.

Sabino Cassese, attacco alla magistratura: "Troppo potere, così i pm violano la Costituzione". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'1 giugno 2021. È stato uno dei più autorevoli critici del governo giallorosso nonché uno dei primi a denunciare le magagne della magistratura. Oggi vede nel premier Draghi un'occasione per l'Italia e tifa perché il ministro Cartabia riesca nell'impossibile: cambiare in meglio la giustizia e fermare lo strapotere dei pm. Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale ed eminenza istituzionale italica, accetta di parlare con Libero di quello che non vuol chiamare il tramonto dell'Occidente, «perché in un modo o nell'altro poi le cose vanno avanti, e perché poi non si sarebbe mai visto un tramonto così lungo, visto che questa situazione di impasse dura da oltre trent' anni».

Professore, lei è stato molto critico nei confronti del governo giallorosso: che cosa lo ha fatto cadere davvero a suo avviso?

«L'errata gestione dei rapporti con le Regioni che ha trasformato l'Italia in un Paese ad Arlecchino. L'incertezza dell'indirizzo politico. Le molte parole e i pochi fatti. L'adozione continua di norme incomprensibili. L'imprevidenza (non si poteva partire prima con i vaccini?). L'abuso dei Dpcm. L'accentramento a Palazzo Chigi per non fare».

Cosa è cambiato con Draghi nella lotta alla pandemia e nell'azione di governo?

«Draghi ha un certificato di credibilità internazionale che nessun altro ha in Italia. Guida il governo come può condurlo una persona che conosce la politica e la macchina. Pronuncia poche parole e fa molti fatti. Ha una base parlamentare più ampia. Anche nel governo Draghi ci sono dei "nei", come l'aver adottato un Dpcm, l'aver prorogato l'emergenza, il lasciare che qualche ministro parli troppo per "comunicare", invece che per annunciare decisioni».

Che Italia sta uscendo dalla pandemia? Più abbruttita, più povera, più cinica, più spaventata, come starebbe a testimoniare la tragedia della funivia di Stresa?

«Direi più preoccupata e più provata. Quando si va in auto su una strada difficile, con molte curve, si desidera avere un autista che non abbia preso la patente il giorno prima».

Sarebbe stupito se Draghi prorogasse lo stato d'emergenza, e che cosa significherebbe?

«Sarei stupito. Significherebbe che non si è capito che, passata la fase critica, bisogna ritornare nella norma. Se ritornare alla gestione ordinaria è difficile, vuol dire che le regole della gestione ordinaria sono sbagliate e vanno cambiate. Non si può vivere di deroghe e di eccezioni».

Perché i partiti si sono ridotti in questo stato, completamente privi di autorevolezza e incapaci di qualsiasi decisione?

«Facciamo una diagnosi. Gli iscritti ai partiti oggi sono circa 1/8 di quelli di 70 anni fa. L'offerta politica dei partiti è modestissima: si procede per slogan, non vi sono programmi; e gli slogan cambiano ogni giorno. I partiti hanno perduto la base, non sono più, come prevede l'articolo 49 della Costituzione, associazioni, parte della società civile, ma organi statali».

Non è colpa della nostra Costituzione se la politica è in crisi dal crollo del muro di Berlino?

«La nostra Costituzione manca soltanto di un tassello, anche se molto importante. Uno dei più attivi membri dell'assemblea costituente, Piero Calamandrei, lo indicò chiaramente quando il progetto di Costituzione venne portato dalla commissione dei 75 all'Assemblea costituente: "di questo, che è il fondamentale problema della democrazia, cioè il problema della stabilità del governo, nel progetto non c'è quasi nulla"».

Quali riforme ci servirebbero?

«Basterebbe cominciare con queste due: un meccanismo di stabilizzazione dei governi e una fucina di produzione di classe dirigente».

C'è un deficit di democrazia nel Paese o viceversa c'è un eccesso paralizzante?

«Paradossalmente, tutti e due. Di organizzazioni democratiche ne abbiamo molte: eleggiamo i componenti dei Consigli comunali di ottomila comuni, dei Consigli regionali di venti Regioni, del Parlamento nazionale, del Parlamento europeo. Mancano, invece, gli anelli di congiunzione, il collante: pensi a quello che è successo con la pandemia nei rapporti tra Stato e Regione, ma anche nei rapporti tra le singole Regioni».

Come giudica, anche a livello di democrazia, il fatto che Draghi stia governando quasi disinteressandosi delle istanze dei partiti che lo sostengono?

«Non si sta disinteressando, ne tiene conto, ma mantiene anche l'unità di indirizzo politico del governo, che è il compito principale del presidente del Consiglio dei ministri, secondo la Costituzione, senza farsi sommergere da infiniti negoziati».

Quanto è possibile prorogare il blocco dei licenziamenti e degli sfratti senza ledere la libertà d'impresa e il diritto di proprietà?

«La Costituzione prevede, agli articoli 41,42 e 43, che sia la proprietà, sia l'impresa privata possano essere sottoposte a limiti per raggiungere fini sociali. Tuttavia, se questi limiti diventano troppo pesanti, una specie di espropriazione, lo Stato deve pagare un indennizzo. Quindi, è bene che questi limiti siano quanto più possibile temporanei».

Perché Mattarella, dopo essere rimasto a lungo in silenzio malgrado gli scandali, ha deciso di cambiare linea e dire chiaramente che la giustizia va riformata?

«Non è stato silente. Il problema è quale azione possa intraprendere per porre rimedio a questa critica situazione della magistratura».

Quali sono gli ostacoli che troverà il ministro Cartabia nella sua opera riformatrice e da dove bisognerebbe partire?

«È partita col piede giusto, cercando rimedi alla lunghezza dei processi, perché l'organizzazione e il funzionamento della giustizia sono molto rudimentali. Dovrà poi passare al più spinoso tema delle procure e del Consiglio superiore della magistratura. Qui si scontrerà contro con quel 20 per cento di magistrati che sono addetti alle funzioni investigative e che hanno trasformato gli organi di accusa in un nuovo potere dello Stato».

Nella magistratura è cambiato qualcosa dopo lo scandalo Palamara?

«Quello che è cambiato l'ha indicato molto chiaramente il presidente della Repubblica. Vi è stata una perdita di credibilità della magistratura. Basta vedere i sondaggi. La fiducia degli italiani nella magistratura è diminuita di 40 punti. Consideri, però, anche quest' altro aspetto: la magistratura ha colpito sé stessa con la stessa arma usata per mettere alla gogna cittadini onesti».

Ritiene che il potere della magistratura travalichi in qualche cosa i limiti della Costituzione?

«Bisogna distinguere. Vi sono ottimi giudici che svolgono la loro funzione giudicante e tra questi vi sono anche capi di istituto esemplari che riescono a non far accumulare arretrati. Completamente separata e diversa è la posizione dei procuratori- investigatori. Questi hanno sviluppato un nuovo potere dello Stato, che certamente va oltre il dettato costituzionale. Pensi soltanto a quella norma dell'articolo 111 della Costituzione secondo la quale la persona accusata di un reato è "informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico". Le pare una norma rispettata?»

Come si spiega la parabola di Davigo, da che non è più giudice non gliene va dritta una: è solo un caso?

«Lascerei da parte i problemi personali, che fanno parte degli epifenomeni, facendo attenzione ai fenomeni. Sia la vicenda Palamara, sia quest' altra della procura milanese hanno attirato l'attenzione per gli aspetti di superficie, mentre hanno rivelato aspetti più profondi e pericolosi, sui quali si dovrebbe concentrare l'attenzione. Un solo esempio: quali poteri ha il capo di una procura? Possono i procuratori muoversi del tutto liberamente, come se fossero giudici giudicanti?»

Se Mattarella fosse rieletto, potrebbe rimanere sette anni?

«La durata delle cariche è un elemento fondamentale della struttura delle democrazie. Pensi soltanto a quella dei poteri politici americani, due, quattro e sei anni, con i membri della Corte Suprema nominati a vita. In Italia la differenziazione delle durate, inizialmente anche quella tra Camera e Senato, è stata pensata sempre con l'occhio ad una preoccupazione di tutti i cultori della democrazia: evitare la tirannide della maggioranza e quindi impedire che in un certo anno, in un certo giorno, vi sia una maggioranza unica, a tutti i livelli e in tutti gli organi, così riducendo la dialettica interna tra gli organi».

Draghi con il suo attivismo si sta sbarrando da solo la strada per il Colle?

«Non parlerei di attivismo, ma piuttosto di un "governo che governa", senza rinviare o farsi vincere dai negoziati infiniti. Penso che una persona con l'esperienza di Draghi sappia quello che dicono i francesi sulle cariche pubbliche: non si sollecitano e non si rifiutano».

Se il premier fosse eletto al Quirinale, sarebbe opportuno andare al voto?

«E così un presidente appena eletto manderebbe a casa chi l'ha appena prescelto? Con la conseguenza, in questo caso, che un numero cospicuo di parlamentari non avrebbe neppure possibilità di essere rieletto, a causa della riduzione del numero dei parlamentari».

È giusto che il presidente della Repubblica lo elegga un Parlamento che di fatto non rappresenta più il Paese e che si è di fatto autodelegittimato con il taglio dei deputati?

«In tutti gli ordinamenti moderni, i tempi degli organi rappresentativi e le durate dei loro membri sono regolati in maniera diversificata, per il motivo che ho prima indicato. Non c'è una "democrazia istantanea"».

Si aspettava che Draghi picchiasse i pugni sul tavolo in Europa e pensa che sortirà qualche effetto?

«E chi poteva farlo meglio di lui? E non è meglio battere i pugni sul tavolo da parte di un convinto sostenitore dell'Unione europea, piuttosto che indulgere nel nazionalismo o sovranismo parolaio?»

I soldi del Recovery Fund costituiscono di fatto una cessione di sovranità senza ritorno?

«Le risorse sono date per migliorare il funzionamento della giustizia e dell'amministrazione, nonché per digitalizzare il paese e proteggere l'ambiente. Chi è contrario a questi obiettivi in Italia?»

Cosa ne sarà dell'Europa con il tramonto della Merkel e l'uscita di scena di Macron, l'Italia potrà riacquistare centralità?

«Che magnifica occasione per riconquistare il posto che spetta all'Italia nell'Unione europea! L'Italia non è solo uno dei Paesi fondatori dell'Unione, mai anche uno dei tre più grandi membri dell'Unione».

Draghi si sta sforzando di coinvolgere l'Europa nella gestione dell'emergenza immigrati: può riuscirci, come?

«Non ci si possono aspettare risultati a breve scadenza. Il problema immigrati è enorme. Occorre tener conto della decrescita demografica dell'Italia e dell'Unione europea nel suo insieme e delle previsioni di crescita demografica dell'Africa. Di immigrati ne avremo bisogno e sarebbe utile prevedere canali e priorità, come fanno da decenni gli Stati Uniti, nonché di organizzare un buon sistema di integrazione, tenendo conto che tutte le società moderne sono multietniche e che in Italia abbiamo molto meno immigrati che in altri Paesi europei».

Cosa ne pensa di Salvini, assolto a Catania e processato a Palermo per vicende analoghe?

«Vediamone gli aspetti positivi: è prova dell'indipendenza delle corti e dei magistrati e nel sistema giudiziario vi sono strumenti per risolvere diversità di interpretazioni e conflitti tra le corti. L'importante è procedere speditamente. Quindi, mi concentrerei sui tempi perché, come dicono gli inglesi, giustizia ritardata non è giustizia».

Pietro Salvatori per huffingtonpost.it il 28 maggio 2021. “Abbiamo Salvini e Meloni: non puoi sperare che diventino o siano Churchill e la Thatcher”. Alessandro Campi insegna Storia delle dottrine politiche a Perugia, da sempre attento osservatore della destra. Di fronte alla difficoltà della coalizione Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia a esprimere candidature di livello nelle grandi città ha pochi dubbi: “C’è un problema enorme di classe dirigente: erano i partiti organizzati e di massa che selezionavano, all’interno dei propri ranghi, le figure da destinare a ruoli di rappresentanza e governo. Una volta c’erano anche le grandi aziende del parastato a funzionare da scuole quadri: penso all’Eni. Ma tutti questi meccanismi sono entrati in crisi”. Fatica il modello di reclutamento di nomi di sintesi pescati all’esterno: “I civici di cui si parla oggi sembrano le terze o quarte fila della società civile. Per carità, persone rispettabilissime, ma possibile che Milano e Roma non abbiano altro da offrire?”. E allora “non restano che gli interni, spesso politici di lungo corso o vecchi marpioni sempre a galla”. Il punto è che “se si guarda fuori dai partiti non è per favorire la partecipazione o per aprirsi alle istanze dal basso (questa è fuffa retorica), ma perché ci si rende conto di non avere nelle proprie fila personalità spendibili o politicamente vincenti. Il mito della società civile è nato in Italia dal fallimento della politica”.

Professor Campi, partiamo dalle candidature a Roma e a Milano. Il centrodestra è partito da Bertolaso e Albertini, due punte di diamante di quell’area politica, ma di vent’anni fa.

L’usato sicuro non funziona più nemmeno per l’acquisto di una vettura, figuriamoci nella politica divenuta ormai spettacolarizzata e prêt-à-porter. Oggi ti danno una vettura fiammante da pagare comodamente a rate e quando ti sei stancato puoi prenderne un’altra anch’essa nuova. E come i consumatori vogliono sempre nuovi modelli, così gli elettori vogliono anch’essi facce sempre nuove, salvo poi stancarsene rapidamente. La difficoltà è evidente. I nomi rispolverati dai partiti, penso a Roma, sono quelli di Gasparri e Storace, anche questi espressione di una destra che guarda a quello che era piuttosto a quel che dovrebbe diventare. Alla fine qualcuno o qualcuna bisogna pur candidare. E se non si trova nessun esterno, non restano che gli interni, spesso politici di lungo corso o vecchi marpioni sempre a galla. Ma meglio loro, alla fine, che lo sconosciuto della porta accanto: incompetente e magari anche disonesto.

Che ne pensa dei cosiddetti civici? Racca a Milano, Michetti a Roma.

Mi sembra si stia definitivamente sgonfiando il mito della società civile come riserva dei migliori e dei più competenti che si mettono al servizio della cosa pubblica per senso del dovere. Una stagione finita che ha come ultimo esponente Beppe Sala a Milano. I civici di cui si parla oggi sembrano le terze o quarte fila della società civile. Per carità, persone rispettabilissime, ma possibile che Milano e Roma non abbiano altro da offrire? La verità è che quelli che possiedono una posizione socialmente solida e un loro prestigio intrinseco di sporcarsi con questa politica non hanno nessuna voglia. La borghesia media e grande che riteneva quasi un onore, oltre che un dovere sociale, essere coinvolta direttamente nella guida della civitas oggi se ne sta a casa o in ufficio: osserva, critica e si fa gli affari propri. L’impegno pubblico-partitico lo lascia ai parvenu o a quelli che non hanno niente da perdere.

Le faccio un’osservazione. Questo tipo di profilo civico è molto ricercato (anche se con insuccesso) da Pd e M5s, una coalizione in embrione, che ha bisogno ad oggi di piccoli papi stranieri per trovare una sintesi. Il centrodestra, pur con le stradi differenti prese con Draghi, non dovrebbe avere un bagaglio di storia e rapporti che dovrebbe rendere tutto più facile?

In effetti anche il M5S e il Pd pare abbiano difficoltà a trovare figure di esterni che possano, nel loro caso, fare da collante di un’alleanza che stenta peraltro a nascere. A Napoli in realtà sembrerebbe fatto l’accordo sul nome dell’ex ministro Manfredi, ma ancora una volta alle condizioni non del Pd ma del M5s. Tra l’altro, diciamolo una volta per tutte: se si guarda fuori dai partiti non è per favorire la partecipazione o per aprirsi alle istanze dal basso (questa è fuffa retorica), ma perché ci si rende conto di non avere nelle proprie fila personalità spendibili o politicamente vincenti. Il mito della società civile è nato in Italia dal fallimento della politica.

Veniamo al punto: c’è un problema di classe dirigente?

Enorme. E parte dai livelli più bassi: la scuola nei suoi diversi gradi sino all’Università, che per definizione dovrebbe essere il luogo dove si formano i gruppi dirigenti di un Paese (e dove si inculca la consapevolezza di farne parte). Quanto alla politica, erano i partiti organizzati e di massa che selezionavano, all’interno dei propri ranghi, le figure da destinare a ruoli di rappresentanza e governo. Una volta c’erano anche le grandi aziende del parastato a funzionare da scuole quadri: penso all’Eni. Ma tutti questi meccanismi sono entrati in crisi. Oggi è rimasta, come palestra di formazione per i ruoli direttivi politico-amministrativi, l’alta burocrazia ministeriale. Ovvero la Banca d’Italia, che non a caso è la riserva alla quale negli ultimi vent’anni si è continuamente attinto per supplire il deficit di competenze della politica. Vediamo anche i volti nuovi che hanno acquisito un certo peso negli ultimi tempi. Un esempio su tutti: Massimiliano Fedriga, quarantenne, apprezzamenti bipartisan, fresco presidente della conferenza delle Regioni. Ma anche lui è cresciuto con la generazione di Bossi. Quelli bravi, per così dire, hanno sempre alle spalle una solida formazione politica in senso tradizionale. Gli altri vanno e vengono e spesso fanno solo danni.

In questo vede differenze tra Fratelli d’Italia e Lega?

Sono in modo diverso partiti all’antica: un capo, un gruppo dirigente, quadri e militanti, una discreta presenza sul territorio, una cultura politica di riferimento, linee di comando chiare. Anche il Pd ha quest’impostazione di massima: ma negli ultimi anni gli scontri interni tra cacicchi e capi-corrente lo hanno molto indebolito, come si vede nel rapporto tra centro e periferia. I suoi governatori sul territorio – Bonaccini, De Luca, Emiliano – vanno praticamente per conto proprio, rispondono solo a se stessi.

Però Salvini e Meloni hanno due storie toste da questo punto di vista. Il primo s’è preso il Carroccio e l’ha trasformato in un partito nazionale tirandolo su dal 3/4% sul quale viaggiava. La seconda ha rotto con il centrodestra in cui è cresciuta fondando un partito che all’inizio in molti ritenevano residuale. La loro storia e i loro successi non dovrebbero aver insegnato qualcosa?

Insegnano che il professionismo politico vince sul dilettantismo. Ma insegnano anche che oggi si sale facilmente nei consensi e altrettanto facilmente si scende. I trionfi elettori sono spesso effimeri o di breve durata, come ben sanno Renzi e appunto Salvini. La Meloni, a sua volta, è avvisata.

C’è poi anche Forza Italia, che forse è un caso ancora diverso. Però anche lì il nuovo che avanza si fatica a vederlo.

Forza Italia in questo momento è alle prese con lo spettro del dopo-Berlusconi. Lunga vita al Cavaliere, ovviamente, ma il partito-padronale è giunto alla fine della sua storia e chi si chiede giustamente se possa sopravvivere a chi l’ha fondato e mai ha voluto pensare ad un suo possibile successore. In Forza Italia c’è da aspettarsi un rompete le righe verso tutte le direzioni. A meno che non emerga un federatore sufficientemente forte e credibile in grado di salvare il salvabile di quell’esperienza. Se dovessi fare un nome, direi Mara Carfagna.

Se si parte dall’era Berlusconi e si passa a Salvini e Meloni, i partiti di centrodestra hanno sempre una forte connotazione leaderistica. È il capo che comanda, decide incarichi e agenda, ma è anche il capo che sposta voti e crea opinione. Un’altra destra in Italia non è possibile?

La mistica del capo è culturalmente e psicologicamente connaturata alla destra per ragioni storiche. Ma non ne farei un residuo del gerarchismo fascista duro a morire, come talvolta si pensa. Il leaderismo è la cifra di tutte le grandi democrazie contemporanee. Il problema è semmai come si esercita questo ruolo e come si arriva ai ruoli di vertice.

Per chiamata dall’alto e per selezione dal basso?

C’è poi un problema legato al linguaggio e ai programmi. Il rischio è di limitarsi alla propaganda e alla comunicazione tralasciando l’agenda politica in senso stretto, cioè le cose da fare e la cultura di governo. Sulla questione se un’altra destra è possibile, direi che conviene arrendersi all’evidenza: abbiamo a destra quel che l’Italia odierna riesce ad esprimere (ma lo stesso può dirsi della sinistra). Abbiamo Salvini e Meloni: non puoi sperare che diventino o siano Churchill e la Thatcher.

In qualche modo ci aveva provato Fini, andò male.

Malissimo, direi, anche a causa degli errori grossolani da lui stesso commessi: un eccesso d’indolenza e di politicismo, l’eccessiva personalizzazione dello scontro con Berlusconi, la brutta storia (comunque la si voglia giudicare) della casa di Montecarlo, ecc. Aggiungo che Fini non era un capo in grado di fare e disfare a proprio piacimento: all’interno di An la sua è sempre stata una leadership di compromesso. Era un classico primus inter pares, essendo questi ultimi i cosiddetti ‘colonnelli’ con cui egli ha sempre dovuto mediare e venire a patti. Quando ha provato a fare il leader sul serio, rompendo col Popolo delle Libertà e facendosi un suo partitino, non a caso lo hanno rimasto solo. Se ricorda il film, concluda lei la frase….

Questa tendenza di cui stiamo parlando è la stessa anche nel resto dell’Europa?

La destra europea conservatrice – quel che ne restava – si è ovunque radicalizzata, nello stile e nel linguaggio, anche per contrastare la sfida ad essa portata dal nazionalismo populista. Guardiamo alla parabola dei repubblicani negli Stati Uniti, ai tories britannici, alla Francia dove la Le Pen si è sostanzialmente mangiata i gollisti, ecc.

Ci sono invece modelli a cui guardare?

La ricerca di modelli stranieri, oltre ad essere indice di provincialismo, non serve a nulla nella misura in cui non sono imitabili e replicabili. La politica nel mondo globalizzato è ancora nazionale quando alla sua ispirazione e ai fattori socio-culturali che la nutrono. In tempi recenti la destra italiana ha guardato al conservatorismo sociale di David Cameron e al nazional-conservatorismo di Sarkozy, ma guardi che brutta fine che hanno fatto entrambi. Ma anche con l’imitazione di Trump e del trumpismo non sembra andata benissimo.

Concludiamo tornando alle città. Al di là della questione in sé, anche la fatica a trovare disponibilità tra le personalità della società civile è indicativa di una poca attrattività al di fuori dello zoccolo duro o del perimetro del partito. C’entra qualcosa con quello che stiamo dicendo?

La poca attrattività della carica di primo cittadino, anche in grandi e prestigiose città come Roma, Milano, Napoli dipende da molti fattori. Innanzitutto, le casse dei municipi, piccoli e grandi, sono vuote da anni e adesso più di prima. Ti assumi grandi responsabilità per poi scoprire che non hai una lira da spendere, semmai bilanci in dissesto da ripianare.

C’è poi quella che chiamerei la ‘sindrome Marino’ con cui fare i conti: chi ha un suo autonomo prestigio sociale o un suo rispettabile status professionale perché dovrebbe vedersi distrutta l’immagine e la carriera solo perché hai sbagliato la firma su un atto amministrativo o perché un giornale che non ti ama ha deciso di prenderti come bersaglio?

Tra magistratura troppo facilmente inquirente, utenti social impazziti e stampa che alla cronaca preferisce lo scandalismo, oramai fanno politica a livello locale solo quelli che non avendo nulla da perdere hanno tutto da guadagnare, almeno in termini di pubblicità, anche se li si mette sotto inchiesta o li si copre d’insulti. Insomma, fare il sindaco è un mestiere che al momento non conviene.

Maria Lombardi per “il Messaggero - MoltoDonna” il 27 maggio 2021. «Ho avuto una vita normale». Marisa Rodano, cento anni (stesso giorno di nascita del Pci, il 21 gennaio 1921) cinque figli, 11 nipoti, tre mesi di carcere, quattro legislature da deputata e una da senatrice, due da europarlamentare, quattro sigle di partito (Sc, Pci, Pds,Ds), un primato, come donna vicepresidente della Camera. «Sì, ho avuto una vita abbastanza normale», il sorriso arriva con la voce.

Impegnativa, almeno. Come è riuscita a fare tutto questo con una famiglia così numerosa?

«Ci sono riuscita perché mio marito si occupava dei figli mentre io mi dedicavo alla politica. Era lui a sostenermi, a spingermi a impegnarmi. Un uomo straordinario, da prendere a esempio».

Suo padre era podestà di Civitavecchia. Come è nata la scelta della militanza partigiana?

«È cominciato tutto al liceo Visconti, a Roma. Noi ragazze eravamo molto irritate dal dover portare la divisa, la camicia bianca, la gonna a pieghe nere, dall' obbligo dei saggi ginnici allo Stadio dei Marmi. Cominciammo a vederci tra compagni di classe per capire cosa fare per cambiare».

Qual era la vostra attività?

«Diffondevamo manifestini, mettevamo i chiodi a tre punte per strada per bloccare i mezzi dei nazisti. Poi ci siamo spostati ai Castelli Romani, lì si è combattuta la battaglia contro i tedeschi. Con la mia famiglia avevo rotto i rapporti. Mi avevano arrestata ed ero sparita».

In carcere dal maggio al luglio del 1943. Ha avuto paura?

«Direi di no. Avevo trovato dei libri nella biblioteca del carcere, leggevo. Se uno decide di fare una battaglia, la paura non può metterla in conto. Lo sai che in battaglia si rischia. Coraggiosi?

Insomma, siamo stati mediamente coraggiosi. Altri sono stati molto più coraggiosi di noi».

Dopo la Liberazione è stata tra le fondatrici dell' Udi e ha scelto la mimosa come simbolo dell' 8 marzo 1946.

«Allora si parlava di emancipazione delle donne, il femminismo ancora non c' era. Eravamo riunite non mi ricordo dove e bisogna cercare un fiore. Sapevamo che a Parigi per il primo maggio si distribuivano mughetti. Ma erano tutti troppo costosi. Guardando delle mimose, pensammo: sono fiorite, non costano niente, le possiamo raccogliere. Quindi facciamo della mimosa il fiore dell' 8 marzo. Così è andata».

Quali sono i ricordi delle battaglie di quegli anni?

«Ricordo le battaglie per il diritto di voto, per essere elette, per conciliare lavoro e famiglia. Quella fondamentale fu la battaglia sul voto, perché gli altri diritti conquistati vengono sempre un poco contraddetti dall' insieme delle condizioni sociali».

E da prima vicepresidente della Camera?

«Un periodo molto interessante. Ho avuto dei momenti di soddisfazione, come quando ho cacciato Almirante dall' Aula perché si era comportato male».

La Repubblica fa 75 anni. Coma sta, secondo lei?

«Secondo me non sta molto bene. Si ha l' impressione che i dirigenti politici pensino prevalentemente a conservare le loro poltrone e non a disegnare uno sviluppo per il Paese. E che manchi poi un progetto: dove andare, come collocarsi sia all' interno sia nello scenario internazionale».

In che modo vorrebbe essere ricordata?

«Come una persona che si è battuta per l' emancipazione delle donne, sì senza dubbio».

Cosa manca oggi alle donne per raggiungere la parità?

«Non è che manchi qualcosa da un punto di vista formale, mancano le condizioni sostanziali per poter essere effettivamente libere, capaci di conciliare lavoro e famiglia. Quello che bisogna fare è battersi per creare queste condizioni, chiedere più asili nido, scuole materne, tempo pieno».

Che messaggio vuole lasciare ai giovani e alle giovani?

«Non chiudersi nel privato, non lasciarsi trasportare dalle cose ma impegnarsi per costruire un mondo migliore».

Il periodo della sua vita che ricorda più volentieri?

«Difficile dire, le vacanze in montagna, le passeggiate con mio marito. Quelli sono i ricordi più gradevoli».

L' amicizia più bella?

«Con Nilde Jotti e Togliatti».

Come è stato compiere 100 anni?

«È stato normale, non è che fa grande differenza tra 99 e 100. Uno pensa che oramai è arrivato vicino alla fine».

Le fa paura questo?

«No, è normale che sia così».

Una pausa, grazie, grazie a lei, i saluti, il telefono passa alla figlia Giulia. «Come sono andata?». «Benissimo, mamma».

“Un milione di voti se cacciate Conte”: Report e i messaggi tra Maria Elena Boschi e l’ex tesoriere della Lega Gianmario Ferramonti. La Notizia Giornale l'11/4/2021. “Un milione di voti se cacciate Conte”. Questo avrebbe detto l’ex tesoriere della Lega Gianmario Ferramonti a Maria Elena Boschi secondo un servizio di Report che andrà in onda lunedì e che è stato anticipato oggi dal Fatto Quotidiano. La deputata di Italia Viva ha risposto alla trasmissione di Raitre di non aver mai replicato ai messaggi di Ferramonti. Le cui affermazioni a proposito dei “milioni di voti” che avrebbe a disposizione appaiono piuttosto campate in aria. Ferramotti ha parlato con Giorgio Mottola di Report ai primi di gennaio. Gli ha detto di non essere massone ma di sentirsi un “gelliano”, nel senso di Licio Gelli, venerabile capo della P2 nel frattempo defunto. Poi il giornalista è tornato da lui il 27 gennaio, ovvero all’indomani delle dimissioni di Giuseppe Conte. E qui parte il racconto del servizio. A Ferramonti, che anni fa aveva raccontato il suo interessamento per dare una mano a Pier Luigi Boschi nell’avventura di Banca Etruria, Mottola ha chiesto dei suoi rapporti con la figlia renziana, Maria Elena: “Anche per questa crisi vi siete sentiti?”. “Diciamo che con la Boschi ho una corrispondenza”, gli ha risposto compiaciuto l’ex leghista. Report trasmetterà il dialogo domani sera su Rai3, nella prima puntata della nuova stagione. “Ci scriviamo, non ci parliamo”, ha chiarito un attimo dopo Ferramonti. “E la stai consigliando anche su questa fase?”, chiede Mottola. “Be’ – spiega Ferramonti – gli avevo dato una piccola notizia, che se buttavano giù questo cretino di Conte magari gli davamo una mano, vediamo”. “Ma gli davate una mano chi voi?”. “Allora, qui hai un rappresentante di Confimpresa – e Ferramonti indica un uomo, oscurato da Report, seduto alla sua destra davanti alla telecamera nascosta –, qui hai un rappresentante di Confimea, della Cifa – e indica se stesso… – Insieme qualche milione di voti ce l’abbiamo, no? E se decidiamo…”. “Spostarli sulla Boschi?”, chiede il giornalista. “Chi sarà al momento giusto al posto giusto…”, dice lui. Nel colloquio tra i due poi si parla di Cecilia Marogna, ex collaboratrice del cardinale Angelo Becciu. E anche di Francesca Immacolata Chaouqui e Francesco Pazienza. Nel frattempo a Report è arrivata anche la replica di Boschi. Che dice che nei mesi di gennaio e febbraio” ha “ricevuto diversi messaggi telefonici da un numero che non conoscevo ma che, secondo il mittente, corrispondeva all’utenza di tal Gianmario Ferramonti. Non ho mai risposto ai suddetti messaggi – ha assicurato Boschi, né parlato con il sig. Ferramonti, men che mai della crisi di governo”. Va sicuramente sottolineato che la frase sui milioni di voti da spostare appare una millanteria. Anche perché non basta certo avere un’associazione qualsiasi per riuscire a spostarli. E di certo gli associati a queste realtà non possono in alcun modo obbligare a votare nessuno. Nel caso di Confimpresa si parla della “Confederazione Italiana della Piccola Media Impresa e dell’Artigianato – è l’Associazione che rappresenta e tutela gli interessi delle imprese con iniziative, servizi ed interventi politico sindacali”. Confimea imprese invece  “è una Confederazione datoriale di piccole e medie imprese italiane che associa oltre 240.162 aziende per un totale di 2.471.734 addetti e rappresenta un interlocutore importante per le Istituzioni, il Sindacato e per il mondo imprenditoriale”.

Riflessioni riformiste. Piero Sansonetti e Paolo Guzzanti: “Draghi non è un uomo di ferro ma un timido”. Redazione su Il Riformista il 22 Marzo 2021. “Come è possibile che siamo finiti in mano a Beppe Grillo?“. E’ questa la domanda che fa il direttore del Riformista Piero Sansonetti all’editorialista Paolo Guzzanti nel primo video di chiacchierata tra i due "vecchi colleghi". “Grillo non è un leader, è l’Italia che l’ha consacrato leader“, risponde con amarezza Paolo Guzzanti. Sansonetti gli chiede: “Tu dici che il populismo è colpa del popolo?“, Guzzanti risponde: “La stessa democrazia è colpa del popolo“. Poi il direttore del Riformista si lascia ad una considerazione “Questa è l’unica nazione al mondo in cui il leader dei populisti è un comico“. E su Di Maio e Conte: “Non si è mai visto uno come Di Maio ministro e un avvocato che si trovava a passare e l’hanno fatto diventare presidente del consiglio…“. Guzzanti racconta l’incontro tra Conte e Mattarella: “Arrivò al Quirinale mentre un altro (Cottarelli) andava via con il trolley. Mattarella gli disse che aveva visto il suo curriculum. Curriculum che lo aveva reso odioso al New York Times poiché non tutte le cose che ci aveva messo dentro erano vere“. Sansonetti: “Non sto facendo una battuta, il ministro degli esteri è Di Maio!“, ma Guzzanti replica: “La cosa grave e triste è che ce l’hanno lasciato poiché già lo era. Quando è arrivato Draghi, che non è un uomo di ferro ma è un timido, non ha mandato via Di Maio a fare lo steward allo stadio poiché la democrazia in Italia si basa solo su un oggetto: il pallottoliere“.

Marco Sarti per linkiesta.it il 15 marzo 2021. Tanti conoscono la storia di Ilona Staller, la pornostar diventata deputata della Repubblica alla fine degli anni Ottanta. Ma non tutti sanno che il poeta romano Trilussa e il pittore Renato Guttuso sono stati entrambi senatori. Dal presentatore tv Gerry Scotti al premio Nobel Eugenio Montale, la lista delle celebrità che hanno avuto un seggio in Parlamento è lunga e in buona parte dimenticata. Il comandante Umberto Nobile è passato alla storia per le due trasvolate sul Polo Nord. Il fascismo voleva farne un eroe nazionale, ma alla caduta del regime divenne senatore nelle liste del Partito Comunista. Paradossi parlamentari. Dalla tenda rossa ai divanetti di Montecitorio, il generale del dirigibile Italia fu eletto all’assemblea costituente con 33.373 preferenze. Il secondo più votato nella sua circoscrizione alle spalle di Palmiro Togliatti. A lui, raccontano, gli italiani devono l’articolo 9 della Costituzione, dove si stabilisce che «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica». Giorgio Strehler è entrato a Palazzo Madama nel 1987. Esponente della Sinistra Indipendente, sul sito del Senato ancora si può trovare la sua scheda personale. Foto, data di nascita, gruppo parlamentare e professione: «Direttore del Piccolo teatro di Milano, direttore del Theatre de l’Europe». Lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia ha preferito la Camera dei deputati. Eletto nel 1979 con i Radicali, della sua esperienza a Montecitorio si ricorda l’attività nella bicamerale Antimafia e nella commissione di inchiesta sul sequestro Moro e il terrorismo. L’apparizione di Franca Rame a Palazzo Madama è più recente. L’attrice teatrale, moglie di Dario Fo, si è candidata con l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro alla vigilia della XV legislatura. Due anni da senatrice, poi le dimissioni senza nascondere una certa amarezza. È il destino di molti artisti, incuriositi e delusi dai palazzi delle istituzioni. A rileggerla oggi, la lunga lettera indirizzata al presidente Franco Marini per annunciare il passo indietro sembra quasi un manifesto. «Al Senato – scrive Franca Rame – non si usa ascoltare chi interviene, anche se l’argomento trattato è più che importante. No, la maggior parte dei presenti chiacchiera, telefona su due, tre cellulari, legge il giornale, sbriga la corrispondenza». Nasce anche qui la scelta delle dimissioni, una questione di coerenza nei confronti dei suoi elettori: «Proprio per non deludere le loro aspettative e tradire il mandato ricevuto, vorrei tornare a dire ciò che penso, essere irriverente con il potere come lo sono sempre stata, senza dovermi mordere in continuazione la lingua, come mi è capitato troppo spesso in Senato». Le cronache ricordano un altrettanto deluso Virginio Scotti, in arte Gerry. Giovane deejay radiofonico poi diventato volto noto della televisione italiana. Quando si candida per la Camera con il Partito socialista è il 1987, ha appena compiuto trent’anni. A Milano raccoglie quasi 10 mila preferenze. Viene eletto, ma lo scranno da onorevole diventa presto un incubo. Il periodo trascorso a Montecitorio è scandito da continue frustrazioni che Scotti ha raccontato in una recente intervista a Libero. «È stata una brutta pagina perché non sono riuscito a dare nulla. Non avevo ruoli, sono stato relegato a schiacciare un bottone. In quattro anni mi hanno fatto venire la nausea». Di Cicciolina si è già detto. La pornostar si presenta trent’anni fa con i Radicali. Candidatura scandalistica e provocatoria, secondo molti, eppure apprezzata dagli elettori. Nel collegio di Roma la Staller conquista 19.886 voti, seconda solo a Marco Pannella. In quella lista, tanto per dire, il giovane Francesco Rutelli arriva a 12 mila preferenze (c’è anche Cochi Ponzoni, fermo a 531). Dalla commissione Difesa ai Trasporti, durante tutta la legislatura l’attrice ungherese non rinuncerà mai alla sua carriera hard, alternando i suoi spettacoli alle lunghe sedute a Montecitorio. Alla Camera la giovane onorevole si concentra su alcune questioni, in particolare le carceri e la libertà sessuale. In una recente intervista, Ilona Staller ha svelato un inedito retroscena sull’argomento. «Io gli dissi: “Cicciolino Pannella, per me questa è una battaglia importante”. E lui mi rispose che dovevo portare avanti la mia opinione, le mie idee. Pannella del resto ha sempre sostenuto che l’amore è la cosa più bella del mondo, contrapponendolo alla guerra e alla violenza, e sostenendo la libertà nel fare sesso». Sono tanti anche gli sportivi prestati alla causa. Dalla campionessa di sci Manuela Di Centa al pallone d’oro Gianni Rivera. L’ex centrocampista del Milan ha giocato una parte importante della sua carriera proprio a Montecitorio, dove ha attraversato quattro legislature militando nella Democrazia Cristiana e nell’Ulivo. E se alla Camera siede ancora oggi la schermitrice plurimedagliata Valentina Vezzali, la canoista olimpica Josefa Idem ha un posto a Palazzo Madama (senza dimenticare il breve trascorso nel governo Letta). E poi ci sono i cantanti, da Sanremo al Transatlantico. Domenico Modugno, indimenticabile interprete di Nel blu dipinto di blu, è entrato al Senato nella X legislatura. Anche lui con i Radicali. Negli stessi anni era in Parlamento un altro grande interprete della musica italiana, Gino Paoli. Lui però è stato eletto alla Camera, iscritto al gruppo della Sinistra Indipendente. Franco Califano invece ha soltanto sfiorato l’elezione. Il grande cantautore si era candidato alla Camera nel 1992, in lista con il Partito Socialdemocratico. Ma il sogno di diventare deputato è svanito dopo aver conquistato solo 198 preferenze. Il Califfo non è l’unico artista ad aver tentato senza successo la scalata al palazzo. Nello stesso anno l’attore Massimo Boldi si è candidato alle Politiche con il Partito socialista. Ottenendo duemila preferenze nella circoscrizione Como-Sondrio-Varese, anche quelle insufficienti per entrare a Montecitorio. La lista delle celebrità è lunga. A elencarle tutte si rischiano accostamenti indebiti. Dai cinepanettoni alla grande pittura, è impossibile non ricordare Renato Guttuso. Senatore comunista dal 1976 al 1983, eletto a Palazzo Madama per due legislature. Solo pochi anni prima del suo ingresso in Parlamento, il grande artista siciliano aveva dipinto i funerali di Togliatti, una delle opere più evocative. Artisti e sportivi, cantanti e attori. È la stessa Costituzione ad aprire le porte del Parlamento a chi si distingue nella propria professione. L’articolo 59 della Carta attribuisce al presidente della Repubblica la nomina dei cittadini «che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». E qui l’elenco dei parlamentari coincide con la storia del nostro Paese. Arturo Toscanini, nominato senatore a vita nel 1949, rinunciò al seggio nel giro di poche ore. L’anno dopo toccò a Carlo Alberto Salustri, più noto come Trilussa. Nel 1967 entrò a Palazzo Madama il poeta Eugenio Montale, premio Nobel per la letteratura (ci rimase per cinque legislature, fino al 1981). Ma tra i senatori a vita si ricordano anche l’attore Eduardo De Filippo e la scienziata Rita Levi Montalcini. Onorevoli non per caso, ma per indiscutibili meriti.

Federico Novella per "la Verità" il 15 marzo 2021. «Il fatto che venga richiesta un'analisi politica al sottoscritto, a 94 anni, è uno dei segnali evidenti della crisi politica attuale, non trova?». Rino Formica, più volte ministro ai tempi della Prima Repubblica. Fu ministro delle Finanze nel primo e nel secondo governo Spadolini, durante il governo Andreotti 1989-92 e ministro del Lavoro durante i governi Goria e De Mita. È stato un membro di rilievo del Partito socialista italiano durante la segreteria di Bettino Craxi.

Insomma, lei resta una riserva inesauribile di memoria storica.

«Ma qui si sta disgregando tutto, a cominciare dai partiti che sostenevano il Conte bis. I 5 stelle sono messi peggio d'un corpo attaccato selvaggiamente dal Covid. Il Pd è in una condizione precomatosa, Leu si è autoliquidata, Renzi dopo aver diroccato il vecchio governo ha dismesso l'attività politica per fine missione».

E nel centrodestra?

«Da quelle parti avvengono rivoluzioni silenziose, soprattutto nella Lega e in Fratelli d'Italia, mentre Forza Italia è una monarchia in estinzione, senza eredi. Ma questo per dirle che in questo caos, il punto di Archimede, il punto di appoggio, non lo vedo».

Non è Mario Draghi?

«A Draghi non si può chiedere l'impossibile. Lui può cercare di sistemare l'organizzazione della vaccinazione, elaborare un progetto credibile di Recovery plan. Per il resto, non ha interlocutori all'altezza: tenta di trovare equilibrio tra politica e tecnocrazia. Ma la parte politica ogni giorno si autodistrugge, e dunque pesa di meno. Non è colpa di Draghi se oggi al governo non c'è un solo ministro che possa esprimere seriamente una vera volontà politica».

Secondo lei è un problema recente?

«No, il sistema partito come l'ho conosciuto io è morto nel 1989, e non è ancora nato niente al suo posto. Questo è il grande problema dei nostri tempi. Abbiamo abrogato di fatto l'articolo 49 della Costituzione, quello che riconosce i partiti come cellule democratiche della organizzazione repubblicana. La disfatta dei partiti è in atto da tempo, non solo sul piano della qualità della classe dirigente, ma anche sul piano delle dottrine teoriche».

Con quale risultato?

«Il risultato è che oggi, come nelle tragedie shakespeariane, persino il buffone dice ogni tanto qualcosa di vero. Quando Beppe Grillo si candida a segretario unico dei partiti in liquidazione, non fa una battuta. È la verità che emerge nelle fattezze dello sberleffo».

Il Parlamento è irreversibilmente depotenziato?

«Il Parlamento oggi può solo ratificare e dire signorsì. Prova ne sia che i due governi guidati da Giuseppe Conte, al di là di ciò che si dice, sono nati fuori dal Parlamento, in base ad accordi privati tra leader. E anche il governo Draghi non è una libera scelta del Parlamento: semmai è un'intuizione resistenziale del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al fine di salvare il salvabile. E i parlamentari hanno accettato per salvare la poltrona, per timore di uno scioglimento».

Enrico Letta segretario del Pd può stare sereno?

«Non capisco come un partito possa accettare di essere dichiarato in decomposizione da Nicola Zingaretti, per poi nominare un altro segretario come nulla fosse, senza congresso. Insomma passano in poche ore dal pressapochismo al miracolismo. Si stanno sottoponendo a un lento suicidio, vivendo alla giornata».

Letta verrà impallinato come i suoi predecessori?

«Ormai non c'è alcuna forza nel partito che possa toglierlo di mezzo. Così come non c'è nessuna forza che possa sostenerlo. Letta può stare sereno, ma senza serenità».

Che consiglio gli darebbe?

«Di essere chiaro sui programmi. In questa nomina Letta potrebbe intravedere un risarcimento del danno subito sette anni fa. Se non pretende un mandato politicamente ben definito, diranno che l'unica soddisfazione che ha avuto è stata quella di ricevere gli applausi da parte di chi lo aveva cacciato. Troppo poco: per lui, e per il Paese».

Non c'è mai stata armonia tra le due anime del Partito democratico: quella progressista e quella democristiana. Un vizio d'origine?

«Le turbolenze sono irrisolvibili. Queste cose si risolvono come nei matrimoni sbagliati: ci si divide. Il tentativo di coesistere non può durare all'infinito. Non vedo armi che possano evitare la disintegrazione del partito».

Che idea si è fatto della gita in Arabia Saudita di Matteo Renzi?

«Sono atti tipici della disinvoltura dell'inconsistenza. Se la politica scompare, restano solo le convenienze. E questo perché è caduto ogni condizionamento di ordine etico e morale. Ma non è solo un problema di Matteo Renzi: anzi, su questo piano ha molta concorrenza».

Il Movimento di Beppe Grillo è in subbuglio. Giuseppe Conte può avere un futuro come leader dei 5 Stelle?

«Può essere. Del resto in politica il successo dipende da due cose: le proprie capacità, e le incapacità altrui».

Il suo socialismo, oggi, da chi è rappresentato?

«Da nessuno. Il socialismo resta radicato solo nella società: in certi momenti appare come umanitario, in altri centralistico, in altri libertario. Ma l'esigenza di rimettere in comunità gli uomini, che sono stati abbandonati all'isolamento e all'individualismo, è sicuramente una domanda di socialismo».

A proposito di isolamento, lei come sta affrontando il lockdown?

«Non sono stato ancora vaccinato, e cerco di tenere un comportamento disciplinato, per non danneggiare me stesso e gli altri».

Nell'emergenza sanitaria stiamo vivendo una sospensione della Costituzione?

«Nella storia repubblicana di emergenze ne abbiamo avute, ma neanche il terrorismo venne regolato bypassando la norma costituzionale. È ciò che è accaduto in Italia negli ultimi due anni, con i governi Conte. E questo mi preoccupa perché, più si va avanti, e più diventa difficile recuperare. Per perdere la democrazia ci vuole poco: per ricostruirla, moltissimo».

Da questo punto di vista, vede continuità tra Draghi e il Conte bis?

«Continuità dettata dalla necessità. Ma a Draghi non possiamo imputare ancora nulla, se non un cambio dell'approccio comunicativo. E anche questo ha la sua importanza. Giuseppe Conte era tronfio: roboante ma vuoto. Mario Draghi è disteso: e nella sua calma introduce elementi di serietà nell'affrontare le difficoltà».

Prima tra tutte, il ritardo della campagna vaccinale?

«C'è stata una debolezza durante la gestione Conte nell'affrontare l'intensità del fenomeno. Non hanno saputo organizzare per tempo né la distribuzione né l'accelerazione della produzione».

Non teme il predominio del partito dei virologi?

«Certo che lo temo. Ma è comprensibile: quando arriva il vuoto della politica, si crea il pieno dei piccoli partiti delle specializzazioni. C'è il partito dei virologi, il partito della burocrazia, il partito dei baroni universitari tutti hanno il diritto di esprimersi, ma a decidere dev' essere la politica.

Quando al posto delle istituzioni decidono i piccoli gruppi d'interesse, siamo fuori dalla Costituzione. Riguardo ai virologi che compaiono quotidianamente sulla stampa: siamo sicuri che qualcuno non abbia interesse a un uso politico della paura?».

Cosa intende?

«Quando si diffonde la paura, il Paese è più fragile sul piano della vitalità democratica. E quindi è più disponibile a subire anche violenze democratiche. Che la paura pandemica sia stata strumentalizzata politicamente è indubbio: con quanta efficacia, poi, è da vedere».

Questo uso politico della paura le ricorda analogie con il passato?

«Diciamo che si rischia, come negli anni di piombo, una nuova strategia della tensione. Con l'aggravante che all'epoca si trattava di fenomeni ancora controllabili dalla risposta democratica, mentre oggi l'epidemia è una crisi naturale ed esistenziale, che crea crisi di panico difficilmente gestibili».

Questa settimana, con il decreto sostegni, verranno distribuiti 32 miliardi di aiuti a imprese e lavoratori. Da ex ministro delle Finanze, ci dia una mano a fare due conti. Quanto pensa potranno durare questi aiuti?

«Già nel passaggio dalla parola "ristoro" alla parola "sostegno", il governo ha voluto lanciare un messaggio di contenuti. Ristoro vuol dire risarcimento totale del danno, e non è possibile. Ma è possibile un aiuto, per l'appunto un sostegno. Adesso si farà ricorso a un nuovo scostamento di bilancio, cioè debito. Ma ricordiamoci che questo debito peserà moltissimo, se non sarà sostenuto dalla crescita. È un principio semplice che non mi invento io, ma che si studia al primo anno di economia. Altrimenti, di scostamento in scostamento, non andremo molto lontano».

Marco Belpoliti per "la Repubblica" l'11 febbraio 2021. Quanto sono importanti i capelli? Moltissimo. Per tutti noi, e ovviamente anche per i politici. Lo sa bene Silvio Berlusconi che ha contrastato in molti modi la sua calvizie iniziata all'inizio degli anni Settanta; ha provveduto a nasconderla mediante un trapianto di capelli. Se si guarda il capo degli ultimi due Presidenti del Consiglio, il dimissionario Giuseppe Conte e l'incaricato, e prossimo primo ministro, Mario Draghi, si coglie subito la differenza tra loro. Conte esibisce un ciuffo sbarazzino, che fluttua e si muove sulla parte sinistra della testa, qualcosa che gli conferisce un aspetto giovanile e in qualche modo leggero. Draghi usa invece la riga alla maniera tradizionale. Si chiama scriminatura: la linea di spartizione dei capelli, come l'appellava Pietro Bembo nel Cinquecento. Per trovare un personaggio altrettanto famoso che l'usava bisogna risalire abbastanza indietro nel tempo, al Pasolini degli anni Cinquanta. Qualcosa d'antico? L'etimo di questa parola conduce a "discriminare": "distinguere una o più persone o cose da altre". Non si può certo dire che all'ex banchiere centrale manchi questa dote. L'origine latina della parola poggia sul significato di "dividere", come accade in effetti sulla testa di chi l'adotta per pettinarsi. Che ci sia un rapporto tra i capelli e i pensieri sottostanti? Forse; tuttavia la cosa non è mai stata accertata, e non è neppure accertabile. Secondo la terza legge di Synnott, un sociologo inglese, i capelli non sono solo un simbolo sessuale, ma anche ideologico. Il suo testo è interessante e aiuta a capire tante cose intorno a questo elemento altamente visibile degli esseri umani, uomini e donne. Cosa dire dei capelli ricci di Grillo, che fanno di lui una sorta di Medusa al maschile? Sono forse il segno di una qualche potenza pietrificante in suo possesso? E Salvini con il taglio di capelli quasi da rapper bianco, o da militare in servizio permanente ed effettivo? Non è la rasatura da marines, tipica dei berluscones della prima leva, quelli provenienti dall'apparato commerciale di Mediaset, presto scomparsi da Montecitorio. Giancarlo Giorgetti ha invece un ciuffo che si sta imbiancando sulla parte anteriore; di lui colpisce la pelle del viso coperta di piccole cicatrici che ricordano quelle di Richard Burton, e gli danno l'aria di uomo vissuto. Matteo Renzi sfoggia da sempre il taglio boy-scout: corto, ordinato, da eterno ragazzo. Il corpo umano, spiega Desmond Morris, è una fonte di simboli, ma le sue forme espressive sono sempre controllate dal sistema sociale. I capelli delle donne in politica sono un altro tema interessante. Maria Elena Boschi, dopo un periodo di scriminatura al centro, ha adottato la frangetta legata alla seduzione da vamp anni Venti-Trenta, naturalmente rivista e corretta; quindi è tornata al capello precedente. Teresa Bellanova sembra appena uscita dal casco del parrucchiere: la perfetta messa in piega. Il nostro corpo, hanno scritto, è "una probabilità alla lotteria della vita". Il colore dei capelli e la loro forma l'ereditiamo per via genetica. Il modo di pettinarci, invece no; calvi compresi.

Da Crimi a Meloni, i personaggi della politica diventano protagonisti di romanzi. I protagonisti della crisi e del nuovo assetto politico come i personaggi di sei capolavori della letteratura. Antonio Polito su Il Corriere della Sera il 18/2/2021.

Matteo Salvini/«Grandi speranze». Se non fosse per la storia delle bugie e del naso che si allunga, Pinocchio sembrerebbe il romanzo di formazione adatto a Salvini. In fondo è la storia di un bambino cattivo che diventa buono, umano, amorevole e obbediente nei confronti del padre, anche quando lo sgrida («Draghi ha detto che l’euro è irreversibile? Draghi ha sempre ragione», ha sibilato l’altro giorno a un nugolo di giornalisti). Ma noi non crediamo che stia mentendo. Piuttosto che stia crescendo. Il Papeete è stato il suo Paese dei balocchi, il tentativo finito male di sfuggire alla disciplina e alla serietà che si richiedono nell’età adulta. Ora assomiglia di più a Philip Pirrip detto «Pip», uno dei grandi caratteri di Dickens, l’orfano che prova a farsi gentiluomo. Come nei romanzi di appendice, il finale è aperto.

Silvio Berlusconi/«Doppio sogno». Silvio Berlusconi, che di miracoli se ne intende, ne ha fatto un altro: non solo si è trovato dalla parte giusta della storia, avendo lanciato per primo nel centrodestra l’idea di un governo di unità nazionale, ma è anche riuscito ad approfittare del nuovo esecutivo per moltiplicare in due il suo partito. Una metà l’ha mandata nei ministeri, delegandola

ai rapporti con Draghi: i centristi Brunetta, Carfagna e Gelmini. L’altra metà l’ha delegata ai rapporti con Salvini, praticamente l’incarico affidato alla filo-leghista Ronzulli, con Tajani coordinatore e il solito Ghedini dietro le quinte. All’inizio si era sospettato che il sogno di andare un giorno al Quirinale avrebbe spinto il Cavaliere contro il «concorrente» Draghi. Ma, come si sa, la psiche del Cavaliere è abbastanza vasta da poter sognare in parallelo.

Nicola Zingaretti/«I Buddenbrook». L’ultima cosa che si ricordi del Pd è una frase in tv dell’ora ministro Orlando: «Al governo con la Lega? Neanche se arrivasse Superman». Fa concorrenza al Fassino che sfidava Beppe Grillo a «fondare un partito, così vediamo quanti voti prende». Gli uomini del Pd (le donne non le ascoltano) dovrebbero diventare più prudenti, altrimenti quando poi Zingaretti azzarda che il governo Draghi è «un nostro capolavoro» non gli crede nessuno. La storia è tiranna, tutte le grandi famiglie prima o poi declinano, soprattutto quando litigano, dissipando l’eredità delle generazioni precedenti. Ma per descrivere la linea attuale del Pd (sostenere Draghi, governare con Salvini, allearsi con il M5S e sperare in Conte) ci vorrebbe la penna di un Mann: «La vita, sapete, spezza qualcosa in noi, smentisce tante volte la nostra fede».

Matteo Renzi/«Il fu Mattia Pascal». Matteo Renzi si aggira per Roma con l’aria di uno che ha il sorcio in bocca. I giornali di tutto il mondo lo intervistano ammirati. Come ha fatto con il 3% nei sondaggi a buttar giù il traballante Conte? Come è riuscito a portare Draghi a Palazzo Chigi? Forse se lo domanda anche lui. È così soddisfatto che ha persino rinunciato per qualche giorno a una delle cose che ama di più, subito dopo il Rinascimento: le luci della ribalta. Per ora la sua partita è vinta: doveva archiviare il mondo di ieri, dove stava andando molto male (e non solo per lui), e aprire una nuova strada, anche se ancora non sa dove lo porterà. La sua resurrezione è stata degna di un personaggio pirandelliano. Credendolo tutti (politicamente) morto, si è potuto fare un’altra vita. Adesso però gli serve una nuova carta d’identità, altrimenti non lo riconosce più nessuno.

Giorgia Meloni/«La rabbia e l’orgoglio». Tutti le predicono un grande futuro all’opposizione. Prima o poi, dicono, l’effetto Draghi si attenuerà, e chi sta all’opposizione ne godrà. Ecco perché Giorgia Meloni, anche se non lo ammetterebbe mai, in cuor suo conta sul fatto che finisca come con il governo Monti, cioè con una valanga di voti ai populisti. Essendo rimasta solo lei in quella metà del campo, la messe potrebbe essere copiosa. D’altra parte lei ama presentarsi come una leader di convinzioni, senza compromessi, che sa arrabbiarsi e indignarsi: scommette sulla coerenza. Ma se l’esperimento Draghi funzionasse invece come un patto di legittimazione reciproca tra i partiti di governo, e lei ne restasse fuori, le destra italiana potrebbe rivivere l’incubo dell’emarginazione dall’«arco costituzionale»: molti voti e poco peso.

Vito Crimi/«Buio a mezzogiorno». Si sa che soltanto la realtà può superare in immaginazione la letteratura. E si sa pure che non bisogna indulgere alla fisiognomica. E però Vito Crimi ricorda troppo da vicino uno di quegli inquisitori sovietici che si trovarono a epurare i compagni per aver obbedito alle loro stesse indicazioni, solo che non avevano fatto in tempo ad aggiornarsi all’ultimo cambio di linea. In fin dei conti i quindici senatori che ha appena espulso sono stati i più rigorosi interpreti del comunicato del 2/2/2021, giorno 1 della Nuova Era, quando il Reggente dettò alle agenzie: «Pertanto, il Movimento 5 Stelle non voterà per la nascita di un governo tecnico presieduto da Mario Draghi». Poi arrivò Grillo, e lui diventò sotto-Reggente. Un buon viatico per un posto di sotto-segretario, cui pare aspiri.

I dissidenti. Le comiche di Travaglio e Zagrebelsky: Mattarella e Draghi hanno fatto un colpo di Stato. Biagio De Giovanni su Il Riformista il 14 Marzo 2021. Appena qualche giorno fa, l’altro ieri, ci siamo svegliati al canto di Bella ciao. Avevo dormito, come di questi tempi solitari e inquieti, abbandonato a pensieri un po’ tristi, non immediatamente politici, ma inquieti per una tragedia cha non vede ancora la fine, anzi. Ma poi tutto è cambiato, all’improvviso. Abbiamo appreso ciò che il sonno colpevole ci aveva nascosto, l’Italia era sotto attacco, era in atto un colpo di Stato. La cosa era ancora tale da permettere almeno a un giornale di darne notizia, e che fosse uno solo già era preoccupante, gli altri forse già costretti a tacere. Infatti proprio un giornale che si chiama Il Fatto quotidiano, e quindi non può esser sospetto di parlare di fatti passati confondendo i titoli dell’ieri e dell’oggi, ha dato notizia che la democrazia italiana era a rischio mortale. Uno, appena sveglio, con la testa ancora nelle nuvole, poteva immaginare che, nella notte, approfittando del coprifuoco, un gruppo di malintenzionati avesse dato l’assalto al nostro Palazzo d’inverno. E che un gruppo di costituzionalisti autorevoli, e di giornalisti di fama, fosse riuscito in extremis a darne notizia almeno a un giornale che nella notte affannosa riusciva a pubblicarlo, esponendosi molto. Ma la tv taceva, forse già preda degli insorti che attendevano il momento giusto per parlare, e coraggiosamente Gustavo Zagrebelsky era il primo firmatario di un appello drammatico, o il secondo dopo Sandra Bonsanti, nel momento di confusione la cosa mi restò in dubbio. E poi si dice che la cultura è in ritardo! Ma, letto bene il testo, lo scenario cambiava e per certi aspetti diventava più preoccupante. Altro che un piccolo gruppo di profittatori dell’emergenza! L’accusa toccava gli attuali vertici dello Stato, da Mattarella a Draghi, artefici e complici oggettivi del disastro costituzionale e politico in atto. Quale? Il governo Draghi che sostituiva, con empio atto dall’alto, quel bell’esempio di democrazia che era il precedente governo dell’avvocato pugliese, il quale aveva già presieduto, di seguito, due governi con maggioranze opposte, un primo governo che invitava l’avversario, poi diventato alleato nel secondo, a tornare nelle fogne (soprattutto dopo la compravendita di bambini di Bibbiano), ma tutto era a posto, la Costituzione era salva, essa non prevede impedimenti per una cosa così. È la dialettica parlamentare, bellezza!, si sentiva dire in giro, non fate i moralisti. Poi d’improvviso, il buio, la crisi, la caduta del Conte secondo, o due come si dice, e subito l’appello disperato dei molti indignati, affidati e guidati dal giudizio di tanti costituzionalisti illustri. Reduci vittoriosi dalla battaglia contro il referendum istituzionale di Matteo Renzi. Uno allora si domanda. Come è possibile che Mattarella e Draghi si siano macchiati di tanta ignominia? E con la memoria, questo “uno” ripensava i fatti. Il governo Conte 2 era andato in crisi per il venir meno della maggioranza in Parlamento, dunque non per un atto eversivo. Insomma tutto a posto secondo Costituzione. Certo, la responsabilità era dovuta a quel diavolo in persona che si chiama Matteo Renzi, non a caso richiamato nell’Appello, e probabilmente vera causa dello sfacelo, ma nemmeno questo inficiava, almeno formalmente, la fondatezza costituzionale della crisi, che non può dipendere dal nome di chi la apre. Allora iniziò, in Parlamento, il mercato al chiuso dei parlamentari, detto in volgare mercato delle vacche, al Senato soprattutto, dove si tentava di ricostituire i numeri necessari per un nuovo gruppo parlamentare. Si giunse al “prestito” di una senatrice da parte del Pd del dimissionario Zingaretti per tentare la formazione di questo gruppo. I costituzionalisti zitti, tutto a posto, la democrazia parlamentare, non prevedendo il vincolo di mandato, non è stata violata, niente da dire. È a questo punto che giunge la decisione del presidente della Repubblica che esclude la possibilità del voto in piena fase di seconda pandemia. Mattarella chiama Mario Draghi per un governo di unità nazionale, mettendo fine al mercato delle vacche; è una decisione veloce di chi, credo, non sopporta il degrado finale del Parlamento già messo a durissima prova sotto l’egida dei 5 Stelle durante le due legislature. Costituzionalisti silenti, però, le forme sembravano salve, allora. Scandalo, ora! La democrazia è a rischio! Tutto dall’alto! Non c’è più opposizione! Conte disarcionato, Conte-Allende, viene spontaneo il confronto ironicamente richiamato da Claudio Petruccioli ( e ripreso da Paolo Mieli). C’è qualcosa che non funziona più nel cervello sociale e intellettuale di questo paese. Nell’Appello si richiama l’art. 49 della Costituzione sul ruolo dei partiti, sul tradimento che sarebbe in atto: ebbene, che cosa di più applicato di quell’articolo nell’attuale situazione? I partiti tutti, meno uno, si accollano la responsabilità del governo in una fase che non si ricorda, fatte le debite differenze, dalla seconda guerra mondiale, quando Churchill chiamò la nazione all’unità nella guerra al nemico mortale, promettendo lacrime e sangue. Ma il post-azionismo italiano non muore, non contento dei danni già prodotti da decenni, e forse dal suo atto di nascita. E non muore il vezzo, per chiamarlo così, di alcuni costituzionalisti, ideologizzati al massimo, di affidarsi a un giudizio iper-ideologico sotto il manto di un formalismo che fa acqua da tutte le parti. Un costituzionalismo che non aveva aperto bocca dinanzi agli scempi costituzionali operati soprattutto dai 5 Stelle, sulla struttura del Parlamento e sulla vergognosa riforma della giustizia. “Magistero” in negativo, da paese in grave crisi di cultura giuridico-politica, cattivi maestri, per dirla in chiaro. Noi ringraziamo Mario Draghi per aver accettato una responsabilità così difficile, augurandogli buon lavoro, e Mattarella per averlo reso possibile. Nulla da aggiungere.

La vignetta da denuncia. Vignetta di Mattarella golpista? Travaglio e Mannelli andrebbero denunciati…Andrea Pruiti su Il Riformista il 10 Febbraio 2021. Sulla prima pagina de Il Fatto quotidiano di venerdì, una vignetta ha attirato l’attenzione di tanti: c’è un bel ritratto a carboncino del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con mani grandi in primo piano e con tre frasi “ho scelto il meglio”, “nessun dubbio nessuna incertezza” e “NEANCHE UN LEGGERO SENSO DI GOLPE …?”. Proprio così con le maiuscole e le minuscole, come riportate! A parere di tanti, la vignetta travalica i confini della satira e attribuisce al presidente della Repubblica un fatto preciso: essere l’ideatore di un colpo di Stato, per avere scelto di non affidare l’incarico di formare il Governo al professore gradito al Fatto quotidiano e avergli preferito Mario Draghi. La satira è forse il migliore e più efficace esercizio del diritto di critica politica. L’irriverenza dell’espressione satirica giunge al centro dell’elemento criticato e ne mette a nudo le contraddizioni più intime. La satira stimola la capacità intuitiva del lettore, molto più di quella razionale e consente di giungere ad una consapevolezza istantanea e spesso definitiva. Personalmente, ho sempre amato la satira, anche quando non ne condividevo l’oggetto, né gli obiettivi politici. Un motto anarchico di fine ‘800, poi ripreso nel sessantotto, recitava più o meno così “La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà!”. La satira è “laicamente sacra”, per chiunque si ispiri ai valori etici del liberalismo e ami la libertà sopra ogni cosa. Fatta questa doverosa premessa, voglio soffermarmi su un interrogativo che ha alimentato numerose polemiche nella cronaca politica italiana. Cosa è possibile considerare satira? Quali sono i tratti distintivi della satira? Se badiamo a quanto emerge dall’applicazione del Diritto, la satira, soprattutto quella vignettistica, potrebbe essere definita come una particolare rappresentazione paradossale della realtà, che può essere molto critica politicamente senza però attribuire fatti determinati, lesivi per il soggetto raffigurato. Tutto ciò che non rientra nel perimetro sopra indicato, potrebbe essere ritenuto censurabile sotto il profilo penale e, integrare, fattispecie di reato, soprattutto il reato di diffamazione, previsto dall’art. 595 c.p. La satira in Italia è stata soprattutto satira vignettistica, sempre collocata nella prima pagina di quotidiani blasonati, mentre quella televisiva è stata limitata a pochi programmi, spesso relegati a programmazione notturna. Sulla stampa italiana, il più celebre vignettista satirico è certamente Giorgio Forattini, che nonostante l’estrema ricercatezza e raffinatezza dei suoi disegni, ha subito la censura giudiziaria per avere dedicato vignette al magistrato Giancarlo Caselli e a Massimo D’Alema, per fare due celebri esempi. La diffamazione è un reato procedibile a querela, stabilisce l’art. 597, cioè serve una specifica richiesta di punizione che soltanto il soggetto “diffamato” può avanzare all’autorità giudiziaria. Vi sono però dei reati per i quali la procedibilità è d’ufficio, cioè non serve che la persona offesa proponga querela. Sono reati particolarmente gravi che ledono oltre che la persona offesa anche un interesse pubblicistico. Nel caso in cui i soggetti ritratti dalle vignette siano politici, i confini della satira sono stati spesso allargati – ed è giusto così – per evitare che la rigida definizione codicistica del reato possa essere motivo di restrizione del diritto di critica politica. Il più delle volte, però, i politici italiani hanno sempre ben tollerato di essere oggetto di satira, alcuni anzi, hanno persino beneficiato della rappresentazione grottesca che ne hanno fatto vari disegnatori e autori satirici. Basti pensare alle celebri maschere di Maurizio Crozza e alla celebrità che hanno regalato a molti soggetti, spesso di secondo piano della politica italiana, uno su tutti: l’ex senatore Antonio Razzi. Torniamo alla vignetta del Fatto Quotidiano, il bel ritratto non ha nulla di caricaturale, anzi il tratto risulta delicato e artisticamente pregevole, non c’è la raffigurazione di alcun paradosso e si riferisce indiscutibilmente ad un fatto determinato: l’indicazione di Mario Draghi come presidente del Consiglio incaricato. Ma dicevamo che a parere di tanti, la vignetta travalica i confini della satira e, parlando di un golpe del capo dello Stato, fa un’affermazione che sarebbe penalmente rilevante qualunque fosse il soggetto passivo del reato, perché integrante gli estremi del reato di diffamazione, per il quale risulterebbe difficile configurare la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica o di satira politica. Nel caso, essendo indirizzata al Capo dello Stato, integrerebbe il reato previsto dall’art. 278 c.p. «offesa all’onore o al prestigio del Presidente della Repubblica», che non necessita della querela di parte, ma è perseguibile d’ufficio. Non resta che aspettare, perché tra i lettori de Il Fatto Quotidiano certamente vi sarà qualche pm che lo farà.

Marzio Breda per il "Corriere della Sera" il 3 febbraio 2021. Ha un'espressione tirata ed è scuro in volto, Sergio Mattarella, quando a tarda sera annuncia che farà un governo «di alto profilo e che non debba identificarsi con alcuna formula politica». Un governo del presidente. Dunque suo. Guidato da Mario Draghi, l'estrema e la più autorevole risorsa del Paese, atteso già oggi a mezzogiorno al Quirinale. La crisi aperta 20 giorni fa con il ritiro della delegazione di Italia viva dalla maggioranza si chiude nel peggiore dei modi, per le attese di stabilità cui il capo dello Stato sperava di non dover rinunciare. O meglio, nel migliore dei modi soltanto per Matteo Renzi, il rottamatore in servizio permanente, che a questa tabula rasa mirava fin dall' inizio. E che ha fatto di tutto per vanificare le consultazioni sul Colle e la successiva esplorazione di Roberto Fico. A questo punto a Mattarella restavano solo «due strade tra loro alternative» e le spiega puntigliosamente davanti alle telecamere, per far capire com' è maturata la sua scelta e sgombrare eventuali recriminazioni. La prima strada era quella di «dare immediatamente vita a un governo adeguato a fronteggiare le gravi emergenze, sanitaria, sociale ed economico-finanziaria». L' altra era quella di «immediate elezioni anticipate... Una strada che va attentamente considerata perché le elezioni rappresentano un esercizio di democrazia». Era però controindicata perché avrebbe creato un quasi-vuoto di potere di almeno quattro mesi. Un periodo troppo lungo per galleggiare nel piccolo cabotaggio, dato che incombono urgenze e scadenze inderogabili, che gli italiani ben conoscono perché riguardano la loro salute (terza ondata di pandemia, vaccinazioni) e la tenuta economica e sociale del Paese (Recovery plan, ecc.). Ecco perché tocca a Draghi, una scelta obbligata. Sul cui nome il presidente rivolge già adesso un appello «a tutte le forze politiche», affinché gli conferiscano piena fiducia. Appello sillabato con un'enfasi per lui inusuale, perché anche se il nome dell'ex capo della Banca centrale europea è stato evocato quasi unanimemente nelle ultime settimane, non è poi detto che, alla prova dei fatti, il sostegno del Parlamento sia davvero scontato. Otterrà subito un incarico pieno. Il che significa che sarà Draghi stesso a scrivere il programma di governo e a tracciare l' elenco dei ministri, che ancora non si sa se saranno tecnici o politici. Una prova di forza devastante, questa crisi, che ha messo molto a disagio Mattarella. Non solo per lo spettacolo di intrighi, provocazioni, tatticismi, menzogne, trasformismi, azzardi e sabotaggi che hanno rafforzato nella comunità nazionale l' idea di esser dominati da poteri tribali, ma perché alla fine ne esce lesionato il prestigio delle istituzioni. Tutte. Arrivando di fatto a lambire - di riflesso, certo - perfino il santuario più alto, il Quirinale, il cui inquilino da settimane viene strattonato dai partiti senza rispetto. Perciò non sembra casuale che Mattarella abbia proprio ieri fatto diramare un ricordo di Antonio Segni a 130 anni dalla nascita, in cui ci sono un paio di passaggi eloquenti. Il primo, per sottolineare ancora una volta che la rielezione non rientra fra i suoi progetti, lo fa citando un messaggio alle Camere del suo predecessore, nel 1963. In quel testo Segni esprimeva «la convinzione che fosse opportuno introdurre in Costituzione il principio della non immediata rieleggibilità del presidente della Repubblica», definendo «sette anni sufficienti a garantire una continuità nell' azione dello Stato»...Quella riforma della Carta, scriveva lo statista sassarese, «vale anche a eliminare qualunque, sia pur ingiusto, sospetto che qualche atto del capo dello Stato sia compiuto al fine di favorirne la rielezione». Come sappiamo la proposta fu inascoltata, e con essa anche il suggerimento subordinato che conteneva: l'abolizione del cosiddetto semestre bianco, durante il quale i poteri dei presidenti vicini alla scadenza si affievoliscono al punto che non è consentito loro di sciogliere il Parlamento. E in quest'ultimo passo risuona un richiamo alla responsabilità dei partiti, in modo che abbandonino le strategie faziose degli ultimi tempi e si impegnino a dar vita a un governo in grado di durare almeno fino al prossimo anno, senza dover rimettersi ancora una volta all' arbitrato del Colle.

Da repubblica.it il 3 febbraio 2021. "Ringrazio il presidente della Camera dei deputati per l'espletamento -impegnato, serio e imparziale- del mandato esplorativo che gli avevo affidato. Dalle consultazioni al Quirinale era emersa, come unica possibilità di governo a base politica, quella della maggioranza che sosteneva il governo precedente. La verifica della sua concreta realizzazione ha dato esito negativo". "Vi sono adesso due strade, fra loro alternative. Dare, immediatamente, vita a un nuovo governo, adeguato a fronteggiare le gravi emergenze presenti: sanitaria, sociale, economica, finanziaria. Ovvero quella di immediate elezioni anticipate". "Questa seconda strada va attentamente considerata, perché le elezioni rappresentano un esercizio di democrazia. Di fronte a questa ipotesi, ho il dovere di porre in evidenza alcune circostanze che, oggi, devono far riflettere sulla opportunità di questa soluzione. Ho il dovere di sottolineare, come il lungo periodo di campagna elettorale -e la conseguente riduzione dell'attività di governo- coinciderebbe con un momento cruciale per le sorti dell'Italia". "Sotto il profilo sanitario, i prossimi mesi saranno quelli in cui si può sconfiggere il virus oppure rischiare di esserne travolti. Questo richiede un governo nella pienezza delle sue funzioni per adottare i provvedimenti via via necessari e non un governo con attività ridotta al minimo, come è inevitabile in campagna elettorale". "Lo stesso vale per lo sviluppo decisivo della campagna di vaccinazione, da condurre in stretto coordinamento tra lo Stato e le Regioni. Sul versante sociale -tra l'altro- a fine marzo verrà meno il blocco dei licenziamenti e questa scadenza richiede decisioni e provvedimenti di tutela sociale adeguati e tempestivi, molto difficili da assumere da parte di un governo senza pienezza di funzioni, in piena campagna elettorale". "Entro il mese di aprile va presentato alla Commissione europea il piano per l'utilizzo dei grandi fondi europei; ed è fortemente auspicabile che questo avvenga prima di quella data di scadenza, perché quegli indispensabili finanziamenti vengano impegnati presto. E prima si presenta il piano, più tempo si ha per il confronto con la Commissione. Questa ha due mesi di tempo per discutere il piano con il nostro governo; con un mese ulteriore per il Consiglio europeo per approvarlo. Occorrerà, quindi, successivamente, provvedere tempestivamente al loro utilizzo per non rischiare di perderli. Un governo ad attività ridotta non sarebbe in grado di farlo. Per qualche aspetto neppure potrebbe. E non possiamo permetterci di mancare questa occasione fondamentale per il nostro futuro". "Va ricordato che dal giorno in cui si sciolgono le Camere a quello delle elezioni sono necessari almeno sessanta giorni. Successivamente ne occorrono poco meno di venti per proclamare gli eletti e riunire le nuove Camere. Queste devono, nei giorni successivi, nominare i propri organi di presidenza. Occorre quindi formare il governo e questo, per operare a pieno ritmo, deve ottenere la fiducia di entrambe le Camere. Deve inoltre organizzare i propri uffici di collaborazione nei vari ministeri. Dallo scioglimento delle Camere del 2013 sono trascorsi quattro mesi. Nel 2018 sono trascorsi cinque mesi". "Credo che sia giusto aggiungere un'ulteriore considerazione: ci troviamo nel pieno della pandemia. Il contagio del virus è diffuso e allarmante; e se ne temono nuove ondate nelle sue varianti. Va ricordato che le elezioni non consistono soltanto nel giorno in cui ci si reca a votare ma includono molte e complesse attività precedenti per formare e presentare le candidature. Inoltre la successiva campagna elettorale richiede -inevitabilmente- tanti incontri affollati, assemblee, comizi: nel ritmo frenetico elettorale è pressoché impossibile che si svolgano con i necessari distanziamenti". "In altri Paesi in cui si è votato -obbligatoriamente, perché erano scadute le legislature dei Parlamenti o i mandati dei Presidenti - si è verificato un grave aumento dei contagi. Questo fa riflettere, pensando alle tante vittime che purtroppo continuiamo ogni giorno - anche oggi - a registrare". "Avverto, pertanto, il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica. Conto, quindi, di conferire al più presto un incarico per formare un governo che faccia fronte con tempestività alle gravi emergenze non rinviabili che ho ricordato".

Da notaio a decisionista, la svolta di Mattarella. Il capo dello Stato furioso è passato all'azione e ha stoppato l'opzione elezioni. Massimiliano Scafi, Giovedì 04/02/2021 su Il Giornale. Mi chiamo Mario e risolvo problemi. Dunque Mr Wolf, l'arma finale, l'asso, è in campo: «Ora lasciamolo lavorare», dicono dal Quirinale, convinti che, se salta lui, salta il Paese. Ma niente pressione, nessun perimetro prestabilito, nemmeno una linea di programma, se non il richiamo alle «tre emergenze» che l'Italia deve affrontare: vaccini, Recovery, lavoro. Insomma, «faccia lei come meglio crede», gli ha detto in sostanza Sergio Mattarella (nel tondo) al momento dell'investitura. Mario Draghi quindi «non avrà paletti» né indicazioni precise su come trovare una maggioranza. Ministri politici, tecnici, misti? L'ex presidente della Bce «è completamente libero», starà a lui sbrigarsela con le forze politiche e capire se l'operazione può andare in porto e con quale formula. La svolta in poche ore, martedì nel primo pomeriggio, quando l'esploratore Fico continuava a telefonare per spostare l'appuntamento e da Montecitorio si moltiplicavano i segnali di rottura imminente e definitiva tra Italia Viva e gli altri. I partiti sono rimasti sorpresi, choccati: dalla rinuncia del presidente della Camera al nuovo incarico è passata meno di mezz'ora. Ma non è stata una mossa improvvisata. La carta Draghi era nel mazzo del capo dello Stato da almeno un mese ed è stata tirata fuori quando si sono concretizzate le condizioni: politica in tilt, Paese in bilico. E lì che Mattarella ha cambiato il suo approccio alla crisi. Quasi una metamorfosi. Distante, quasi passivo nel corso delle consultazioni, durante le quali ha registrato con atteggiamento notarile i contorcimenti della maggioranza uscente, dal «nessun veto» al «prima i programmi». Poi però, quando la situazione è esplosa e gli stracci sono volati, il capo dello Stato si è trasformato. Furioso, amareggiato per lo spettacolo offerto, ha deciso di prendere in mano le redini e ha «assunto un'iniziativa». Come nei vasi comunicanti, non ci può essere mai il vuoto nella politica: se le forze parlamentari si bloccano, lo spazio viene riempito dal Quirinale. Mattarella aveva davanti due strade. La prima, sciogliere le Camere, l'ha esclusa subito: nel mezzo della pandemia e con il Recovery Fund da contrattare con Bruxelles, l'Italia non poteva restare a lungo senza guida. Serviva, serve subito un «governo nella pienezza della sue funzioni». La seconda strada portava a un esecutivo «di alto profilo» e sganciato dai partiti, capace di riaccendere i motori? E quale nome più forte di quello del salvatore dell'euro? Ma attenzione, non chiamatelo governo del presidente. Se parte può arrivare al 2023. E non si può sovrapporre, spiegano dal Colle, la coppia Napolitano-Monti a quella Mattarella-Draghi: diversi i caratteri e le storie personali, differenti pure le condizioni. Draghi potrà spendere, Monti doveva tagliare.

Marzio Breda per il “Corriere della Sera” il 4 febbraio 2021. Per il programma e i ministri te la devi vedere tu, in libertà. Prenditi il tempo che ti serve. Ma accetta un consiglio: trova la maniera di far capire che il tuo governo non prescinde dalla politica. Fai comprendere che non vai a commissariare il Parlamento. Questo dice Sergio Mattarella a Mario Draghi, quando sta lasciando lo studio del capo dello Stato per presentarsi nel Salone delle Feste, dove annuncerà di aver accettato l'incarico. È un'indicazione utile a segnare una differenza con altri esecutivi tecnici o istituzionali del passato anche recente, che furono spesso percepiti come troppo estranei alla sfera parlamentare. Cioè imposti dall'alto e, in quanto tali, dopo un po' rinnegabili da chi li sosteneva. L'ex presidente della Banca centrale europea accoglie la raccomandazione e la trasferisce a suo modo nel breve discorso davanti alle telecamere: «Con grande rispetto mi rivolgerò al Parlamento, espressione della sovranità popolare Sono fiducioso che dal confronto con i partiti, con i gruppi parlamentari e le forze sociali emerga unità e capacità di dare risposte». Due frasi rassicuranti, di deferenza, come si sarebbe detto una volta. Indispensabili a Draghi, per spianare la strada e trovare un sostegno al suo governo, che porterà il sigillo del Quirinale, essendo stato immaginato e promosso lassù senza neppure una consultazione. Molti, in queste ore, si esercitano a fare raffronti tra questo nascituro esecutivo e quello di Mario Monti, del 2011, ma tra i due ci sono differenze notevoli. Per esempio, il governo Monti era stato «progettato» da tempo, per rianimare un Palazzo Chigi in panne e arginare la rincorsa dello spread schizzato a 560; mentre il governo Draghi è «necessitato» dalla deriva nichilista dei partiti, che non ha lasciato margini di manovra al capo dello Stato (e non era facile, per lui, bypassare il livello politico). E poi, quando Napolitano affidò il mandato a Monti, poteva già contare su una maggioranza di centrodestra, destinata peraltro ad allargarsi. In questo caso invece Mattarella ha dovuto decidere tutto in fretta, favorendo certo la propria soluzione, ma sapendo che il punto di caduta è ignoto e Draghi se lo dovrà conquistare in Aula. Non sono questioni marginali, per il Colle, dove il tentativo dell'ex banchiere è seguito con apprensione, anche perché è senza alternative. Così, preoccupa l'alta tensione dei 5 Stelle, fra i quali serpeggiano idee bizzarre, come quella di scatenare una crociata contro Draghi per farlo fallire, nella speranza che possa esser rimesso in pista l'ormai formalmente dimesso Conte: ipotesi in ogni senso irreale, per Mattarella, quella di un governo di minoranza per fare fronte alle emergenze che ci pressano. Preoccupa anche che, attraverso certe predicazioni interessate, si faccia passare quello di Draghi come un governo dell'austerità e dei sacrifici, sull'esempio di qualche suo predecessore, quando stavolta ci sono semmai soprattutto denari sonanti da spendere (il «debito buono»). E preoccupa, infine, che alcuni giochino con il calendario, vagheggiando già un termine vicino per l'esecutivo «del presidente», nella poco responsabile illusione di lucrare vantaggi da un rapido ritorno alle urne. Adesso sta al premier incaricato fare chiarezza. Non gli sarà facile, data l'aria generale di cupio dissolvi. Il capo dello Stato, comunque, non gli ha messo né fretta né condizioni. Deciderà tutto lui, secondo un criterio più induttivo che deduttivo, costruendo una soluzione per volta rispetto a quanto gli chiederanno i partiti. E questo vale sia per la squadra dei ministri, che ancora non si sa se saranno tecnici o politici o un mix delle due possibilità, sia per il programma, centrato sul Recovery plan. Anche in questo assomiglia parecchio a Mattarella, al quale è legato da una solida amicizia. I due si danno del tu, una forma di familiarità che il presidente della Repubblica concede a pochi e soltanto quando avverte una vera affinità elettiva. Quando un paio d'anni fa Draghi lasciò la Bce, andò a Francoforte per rendergli omaggio assieme a Emmanuel Macron, Angela Merkel e Christine Lagarde, e cominciò il suo saluto così: «Caro presidente della Banca Centrale, caro Mario».

Ha vinto lui. Il governo Draghi è un capolavoro di Matteo Renzi, il Re del 2%. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Febbraio 2021. Corre voce che questo giornale sia renziano. Non è vero. È un giornale assolutamente indipendente, liberale, garantista, socialista, anti sovranista, antipopulista – mi fermo qui… -, che crede nella funzione dei partiti ma si tiene ben lontano dai partiti. Ok? È un giornale che spesso ha apprezzato le idee e le proposte di Renzi, e spesso ha criticato le sue oscillazioni su temi cruciali come l’immigrazione (mancata approvazione dello ius soli da parte del suo timido partito) e come il garantismo, terreno sul quale più di una volta gli è capitato di dondolare (a parte il peccato originale, praticamente incancellabile, di avere proposto Nicola Gratteri come ministro della Giustizia…). Poi, tra l’altro, noi siamo un giornale pluralista, e qui in redazione ci sono quelli ai quali Renzi piace molto e quelli che lo sopportano poco. Detto tutto questo, oggi come oggi è abbastanza difficile negare che Renzi abbia avuto un successo politico strepitoso. E che, a occhio e croce, nel giro breve di un paio d’anni abbia dimostrato di essere, come leader politico, di qualche anno luce al di sopra dei suoi interlocutori o avversari. Tutti. Proviamo a fare qualche confronto. Renzi e Salvini. Salvini ha avuto un successo notevole alle elezioni del 2018, conquistandosi la leadership del centrodestra. È entrato nel governo, è diventato vicepremier e ministro dell’Interno, ha raccolto attorno a se tutte le telecamere d’Italia. Cosa ha ottenuto? Niente: la svolta del Papeete (nella quale, come si dice a Roma, si è ribaltato in parcheggio), la perdita del governo, e poi il cono d’ombra, sebbene i sondaggi dessero il suo partito in costante e clamorosa crescita. Oggi Salvini guida un partito che è accreditato del 25 per cento dei consensi elettorali ed è virtualmente il primo partito: ed è immobilizzato. Renzi invece guida un gruppetto un po’ al di sopra del 2 per cento ed è il capo dell’ultimo partito (persino Calenda, dicono, l’ha scavalcato…). Eppure, con il suo 2 per cento, Renzi fa e disfa governi: dopo aver insediato Conte a Palazzo Chigi con Speranza e Franceschini, ora lo ha mandato a casa senza che lui se ne accorgesse, ha beffato e sbeffeggiato il gradasso Travaglio (padrone di La 7), ha liquidato Bonafede, ha umiliato il Pd e ha sistemato Draghi a Palazzo Chigi, probabilmente permettendo all’Italia di avere finalmente un governo dopo due anni di ribalta dominata da vari dilettanti e figuranti. Beh, sembra un po’ Ronaldo che gioca a pallone con mio cugino… È solo un giocoliere? Un talento assoluto della manovra e basta? È solo fumo? Non si può dire così. In primo luogo perché quest’ultima operazione, se andrà in porto, è una operazione politica di grandissimo peso. L’Italia stava correndo a perdifiato, allegra e instupidita, sull’orlo di un burrone. Con la pandemia, il morso feroce della crisi economica, la necessità di gestire un nuovo piano Marshall e la totale assenza di una classe politica e persino di una maggioranza. Si trovava governata da un esecutivo la cui forza si risolveva nella personalità di cartone dell’avvocato Conte. Privo di carisma, di idee, di conoscenze, di esperienza. Il rischio quale era? Di mandare a monte il piano Marshall e di trovarsi staccatissima dalle grandi potenze europee. Incapace di rialzarsi, di reagire. Ci sono dei momenti, nella storia delle nazioni, nei quali conta moltissimo il valore della propria classe politica. L’Italia purtroppo non ha più classe politica. Era un paese che nel dopoguerra aveva trovato la sua fortuna in una generazione politica formidabile. Che era stata selezionata e rappresentava la parte migliore della sua intellettualità. Espressione di una borghesia robusta e coraggiosa e di una classe operaia potente e compatta. I democristiani, i comunisti, e poi i modelli geniali del Psi e i colti e raffinati repubblicani. Forse pochi paesi dell’Occidente avevano a loro disposizione partiti e leader così preparati e forti. Persino l’opposizione estrema, quella di destra un po’ fascista e quella di sinistra sovversiva e in alcune frange violenta o addirittura sanguinaria, era una opposizione intellettualmente di grande qualità. Nessuno può negare che fosse così. La forza di questa politica era la struttura ed il radicamento dei partiti, che erano fucine di idee, di cultura, di compattezza sociale e anche di capacità di governo. Poi, lo sapete, arrivò Mani pulite e sfasciò tutto. Nessuno si aspettava che una struttura politica che aveva resistito alla guerra fredda, alla mafia, al terrorismo, alla crisi economica, finisse sbaragliata da un gruppetto di magistrati. Eppure successe esattamente questo. Il paese che temeva la rivoluzione comunista o il golpe di destra finì nel sacco di un potere che aveva esso stesso costruito al suo interno, ingenuamente e un po’ vigliaccamente. Beh, oggi i partiti non esistono più – lo spettacolo offerto dal Pd in questa crisi, capace solo di sistemarsi in seconda fila alla corte di Conte – è stato spaventoso. E non c’è più classe politica. Né la destra, né la sinistra hanno leader all’altezza. I grillini hanno Grillo e il gruppetto di avvocati che girano intorno a Conte, e poi basta. È in questo deserto che Matteo Renzi, il bullo, l’inaffidabile, il narciso, l’egocentrico, si è rimboccato le maniche, si è messo a tessere la tela. Ha fatto politica e ha trovato una soluzione. Con la stessa spregiudicatezza e capacità di sogno e di avventura che aveva Bettino Craxi. Vi piace Renzi? A me mica tanto. Mi ha deluso molte volte. Credo che abbia anche lui delle colpe nell’annientamento dei partiti politici (il modo nel quale ha liquidato il Pd e raso al suolo la vecchia tradizione e sapienza che veniva dalla Dc e soprattutto del Pci, ”ancor mi offende”). Penso anche che almeno in una prima fase abbia seguito la spinta populista e abbia delle responsabilità nel trionfo del grillismo. E però come fai a non rendergli omaggio per l’operazione-Draghi e per come si è dimostrato due o tre o quattro spanne al di sopra di tutti gli altri. È uno statista? Non so. Aspettiamo. Sicuramente, se tra i leader presenti in Parlamento ci fosse uno statista, di sicuro sarebbe lui. Questo vuol dire che Draghi è la salvezza? Non ci scommetterei. Draghi è una persona di qualità molto alte e ha più di altri la possibilità di governare. In un clima politico nel quale nessuno è in grado di definire destra e sinistra (destra e sinistra hanno entrambe il problema di ridisegnarsi e di ritrovare le proprie rispettive e distinte anime) non si capisce perché non si dovrebbe dare a lui l’incarico, visto che, a occhio, è il più bravo. I miei amici di sinistra dicono: no, Draghi è la borghesia, è la tecnocrazia, la sinistra è un’altra cosa. Grazie. Ma la sinistra forse ha qualche idea o qualche leader da mettere a disposizione del paese? Vogliamo fare un governo Speranza, un governo Zingaretti, un governo Acerbo? Siamo seri. La sinistra deve rimboccarsi le maniche e provare a rinascere. Pagando pegno per l’orrore che ha fatto mettendosi al servizio di una forza reazionaria come i 5 Stelle. Ci vorrà del tempo. E la destra? Uguale. Quando Salvini ha provato a governare ha solo combinato pasticci. Ha dimostrato di non avere visione, progetti, senso dello Stato. Di essere prigioniero della sua propaganda. Noi ora usciamo da un triennio nel quale ha governato, in modo uniforme, un gruppo di dilettanti su posizioni neo-autoritarie. In questo, tra Salvini e Conte non c’è stato un abisso. Si son dimostrati simili. Draghi si propone come governo neutro. Dico meglio: di coalizione. Nel senso vero della parola coalizione. Coalizione tra diversi. Ci sono pochi esempi nel passato. Forse l’unico esempio possibile è il governo Andreotti del 1978. Sostenuto dai comunisti. Sotto il tiro e il fuoco delle brigate rosse. Sfregiato dal rapimento Moro. Con l’inflazione che galoppava e l’America che ci odiava. Anche la Russia. Durò un po’ più di un anno. Fece la riforma sanitaria (primo nel mondo ad assicurare la sanità a tutti), la riforma psichiatrica (la più grande legge di rottura dell’autoritarismo, con un valore culturale immenso), introdusse l’aborto, riformò i patti agrari e lo stato di famiglia, istitutì l’equo canone, portò Sandro Pertini alla presidenza della Repubblica. Vi pare poco? È stato forse (senza forse) il governo più riformista della storia della Repubblica. Se Draghi facesse anche solo la metà di quel che fece quell’anno Andreotti…

(ANSA il 4 febbraio 2021) "In queste ore non ho rilasciato nessuna intervista nè dato dichiarazioni alla stampa, quindi ogni virgolettato che mi viene attribuito non è in alcun modo riconducibile al mio pensiero": lo dichiara Rocco Casalino portavoce del Presidente del Consiglio.

Estratto dell’articolo di Salvatore Merlo e Simone Canettieri per “il Foglio” il 4 febbraio 2021. (…) Alle 23.08 di martedì 2 febbraio, poco dopo la doccia fredda, subito dopo che il Quirinale ha pronunciato le sue due parole più scabrose (“Mario” e “Draghi”) ecco che Rocco risponde al telefono.  Voce allegra. Pure troppo.  “Eccomi!”. Ci speravate fino all’ultimo. “Sono sollevato. Mi riapproprio della mia vita.  L’unica che soffre è mia madre, le faceva piacere poter dire che suo figlio era il portavoce del capo del governo”. Ma Renzi? Renzi vi ha fregati. “Non lo definirei proprio ‘una merda’… direi piuttosto una… diciamo… Guarda, in politica non c’è il buono e il cattivo. Ci sono gli interessi. E Renzi è stato bravo. D’altra parte col 2 per cento dove andava? Ora ha una possibilità di salvezza”. E il presidente? Come sta Conte? “Qua a Palazzo Chigi nessuno è triste, ve lo giuro. E’ stata davvero pesante. Non pensavo. Sono stati due anni difficilissimi: il ponte Morandi, la pandemia…”. In particolare per te. Preso di mira. Anche da Renzi, che aveva chiesto il tuo licenziamento. “Assolutamente sì. C’entra l’omofobia ovviamente.  E’ chiaro”. E ora? “Io adesso  vivo. Sono libero.  Respiro.  Esce anche il mio libro tra poco”. Memorie di un portavoce, appunto. Ex portavoce.  Perché arriva Draghi. “Draghi ha i rapporti internazionali, ok. Meglio lui di un altro. Ma in questi anni mi sono reso conto di quanto sia importante la continuità al governo”. Conte farà la sua lista? “Mancano due anni alle elezioni”. Intanto Di Maio sta festeggiando per Draghi. E’ contento. “Ma chi, Luigi?”. Eh sì. Giggino. “Il gioco di Draghi non favorisce Di Maio”. Beh, insomma anche lui voleva fare fuori Conte. “Non credo volesse”. In realtà dicono che non sopporti nemmeno te.  “La sento dire spesso questa cosa. Che Luigi mi odia. Ma noi del M5s abbiamo un legame unico. Siamo nati insieme… ma non è che mi state facendo un’intervista?”.  Solo una chiacchierata. “Mi raccomando”.  (…)

Fabio Martini per “la Stampa” il 5 febbraio 2021. Si è congedato così come si era presentato: da Avvocato del popolo. Per il suo ultimo messaggio da Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte ha scartato la suggestione più ovvia. Un 'intervista "classica": al Tg1 o ad un grande giornale. O uno di quei video che nella sua stagione d'oro entravano applauditi nelle case degli italiani. Un video che lo avrebbe inchiodato alla paludata tappezzeria del Palazzo. Conte si è fatto apparecchiare per strada un tavolino, con previa raccomandazione del portavoce Rocco Casalino ai cameraman: «L' inquadratura non su Chigi, non è solo istituzionale». Quando Conte ha parlato alle telecamere, a casa qualcuno si è ricordato di Ernesto Calindri, attore toscano di squisita eleganza che negli anni Sessanta diventò celebre per un Carosello: quello nel quale appariva seduto ad un tavolino in mezzo al traffico e da lì decantava le virtù del Cynar, il liquore a base di carciofo contro «il logorio della vita moderna». Contro il logorio della vita politica Conte ha confezionato uno spot energetico, non rilassante come quello del Cynar. Ha fatto capire di non avere alcuna intenzione di tornare a Firenze dai suoi studenti e di essere pronto a prendere la guida dei Cinque stelle. Conte lo ha detto non dal suo attuale ufficio. Ma per strada. Nella migliore tradizione del populismo soft italiano: quello del predellino di Silvio Berlusconi.

Rocco Casalino, la frase "pizzicata" durante la conferenza di Giuseppe Conte: "Non riprendetelo". Libero Quotidiano il 04 febbraio 2021. Giuseppe Conte e Rocco Casalino tornano a casa. Per il premier uscente e il suo portavoce è giunta la fine della permanenza a Palazzo Chigi. Eppure l'ex capo ufficio stampa del presidente del Consiglio non perde di vista il proprio lavoro. E così ha piazzato un tavolo in strada per una piccola conferenza stampa. Da qui la raccomandazione: "Nell’inquadratura non mettete Palazzo Chigi perché non è solo un intervento istituzionale", si è affrettato a chiedere Casalino ai giornalisti. Forse però l'intento era quello di non mostrare la sede dove presto salirà il presidente del Consiglio incaricato: Mario Draghi. Non solo, in conferenza ai più maliziosi non è passato inosservato un piccolo dettaglio: dov'è finito Casalino? Mentre il premier uscente parla nel suo ultimo "discorso alla nazione", c'è chi nota che alle sua spalle non spunta mai il suo fidatissimo portavoce-spin doctor-factotum. Casalino infatti non c'è, o perlomeno non viene mai inquadrato. Un caso? Una coincidenza? Chissà. Certo è che alle critiche è subito corsa in aiuto dell'ex gieffino Marina La Rosa. L'attrice ha difeso l'amico ribadendo che le critiche ai danni di Casalino sono solo frutto dell'invidia. E che il portavoce "è una persona intelligente", motivo questo per cui "è arrivato dove è arrivato".

Governo, De Luca e il tavolino di Conte: "Ci aspettavamo il barbecue". Repubblica Tv il 05 febbraio 2021. "In questi ultimi due-tre anni abbiamo visto cose bizzarre, cose che noi umani neanche avremmo immaginato di vedere, l'ultima di queste meraviglie l'abbiamo vista quando è stato portato davanti a Palazzo Chigi, a piazza Colonna, un tavolino spoglio, mi sembrava anche con la vernice un po' scrostata. Si è immaginato che volessero far vedere che almeno un banco buono c'era in Italia". Lo ha detto il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca nel corso di una diretta Facebook. "Poi con il passare dei minuti - ha aggiunto - si è pensato che volessero accendere un barbecue, fare una bella grigliata a piazza Colonna. Abbiamo aspettato invano l'arrivo di Casalino col grembiulino, ma è arrivato Giuseppe Conte".

Da video.corriere.it il 6 febbraio 2021. De Luca non si è fatto sfuggire l'occasione di ironizzare, durante l'ormai consueta diretta Facebook del venerdì, sull'ultimo punto stampa dell'ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. "Dicendo io ci sono e ci sarò - ha affermato il governatore campano, tra le altre cose - ci ha chiaramente minacciato, come avrebbero detto Totò e Peppino". Secondo De Luca, Conte si sarebbe addirittura "autoattribuito la funzione di Mitterrand italiano, cioè federatore delle forze progressiste".

Il tavolino e l'assembramento. L'ultimo (triste) atto di Conte. All'ultimo minuto cambiano i piani per la conferenza del premier: parla in strada. E si scatena il caos sull'uscita di scena. Ignazio Stagno, Giovedì 04/02/2021 su Il Giornale. Un'uscita di scena davvero triste. Quando i social del premier dimissionario Giuseppe Conte annunciano un suo intervento alle 13,30, saltano letteralmente quasi tutti i protocolli Covid. Il premier decide all'ultimo minuto di parlare in piazza Colonna, in strada. Una scelta così last minute che le immagini in diretta dal piazzale di palazzo Chigi mostrano una confusione mai vista soprattutto tra i cronisti presenti e chi deve organizzare la postazione per Conte. Alla fine in video appare un tavolino, una piccola scrivania su cui vengono poggiati i microfoni per far parlare Conte. Una scena, come ad esempio ha commentato Ferruccio De Bortoli a Sky Tg 24, davvero "poco istituzionale". E tra i commentatori tv il parere è unanime: l'organizzazione all'ultimo minuto di questo punto stampa per le dichiarazioni del premier ha solamente favorito l'annullamento del distanziamento sociale fra i cronisti. Di fatto subito dopo l'ingresso in scena del piccolo tavolino i cronisti arretrano dietro una transenna dove però si crea ancora una volta un assembramento. Si sente la voce di Casalino: "Nell’inquadratura non mettete Palazzo Chigi perché non è solo un intervento istituzionale". Poi arriva il premier che forse si sta già abituando all'addio a palazzo Chigi. Il discorso di Conte dura molto meno dei preparativi per il triste tavolino. Il suo intervento si può racchiudere in alcuni ringraziamenti al Colle e agli alleati di governo per poi passare alla sua presa di posizione sul nuovo governo che sta per nascere a guida Draghi: "Auspico un governo politico che sia solido e abbia sufficiente coesione per operare quelle scelte politiche, eminentemente politiche perché le urgenze del Paese richiedono scelte politiche non possono essere affidate a squadre di tecniche". Poi ha di fatto rivelato il suo posizionamento politico in modo chiaro rivolgendosi agli "amici" del Movimento e assicurando loro la sua presenza sulla scena politica. A questo punto il messaggio a Pd e Leu: "E' un progetto forte concreto che aveva già iniziato a dare buoni frutti, dobbiamo continuare a perseguirlo perché offre una prospettiva reale di modernizzare finalmente il nostro paese nel segno della transizione energetica, della transizione digitale, della inclusione sociale". Il tutto però detto in un contesto davvero poco formale. L'intervento di Conte è stato preceduto ed accompagnato da una sorta di girone dantesco con un groviglio di cavi, microfoni e di cronisti che si sono assembrati per seguire l'intervento del premier dimissionario. Davvero palazzo Chigi non avrebbe potuto fare di meglio per garantire le norme Covid? Non è certo la prima volta: qualche settimana fa il premier aveva tenuto una conferenza stampa in mezzo alla strada costringendo i cornisti all'assembramento. Insomma i Dpcm, anche nel suo ultimo atto finale, hanno forse poco valore. Oppure sono solo provvedimenti che vanno rispettati fuori dal perimetro di piazza Colonna...

Giuseppe Conte, tutta la tristezza in una fotografia: quel banchetto per "vendersi". Libero Quotidiano il 05 febbraio 2021. Dopo giorni di silenzio, rispunta Giuseppe Conte e improvvisa una singolare dichiarazione alla stampa davanti a un banchetto sistemato all'esterno di Palazzo Chigi dal suo portavoce Rocco Casalino. Una sorta di scenografia studiata per mostrare che il premier dimissionario è stato messo fuori dal palazzo e per avvertire i naviganti della politica che l'avvocato del popolo è ancora in campo e non intende farsi da parte. Dopo aver ringraziato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, definito un «prezioso interlocutore di questi anni di mandato» e «gli amici della coalizione rimasti leali» (evidentemente non Matteo Renzi), Conte spiega di aver avuto un confronto aperto con Mario Draghi e di non voler sabotare nessuno: «A Draghi ho fatto gli auguri di buon lavoro. Chi mi descrive ostacolo alla formazione della nuova esperienza di governo non mi conosce, o forse parla in malafede. I sabotatori cerchiamoli altrove», ha detto il premier dimissionario. A questo punto, Conte inizia a inviare i suoi messaggi. Innazitutto, auspica la nascita di «un governo politico solido» per poter affrontare la crisi economica e la pandemia. Certe sfide, continua l'avvocato di Volturara Appula, «non possono essere affidate a squadre di tecnici». Benché, in fondo, anche lui sia un tecnico, Conte parla quasi da leader e federatore della vecchia maggioranza giallorossa in questa prima uscita non in veste istituzionale. «Agli amici del Pd e di Leu» chiede di proseguire il «lavoro avviato insieme per modernizzare il Paese e che aveva già iniziato a dare i suoi frutti». Infine si rivolge alla platea grillina, quella che in fondo l'ha portato in politica e che da giorni attende un segnale. «Mi rivolgo agli amici Movimento. Io ci sono e ci sarò» è il messaggio lanciato dal suo tavolino-predellino. Secondo alcuni un tentativo di evitare la scissione grillina, secondo altri uno sgambetto rivolto a Gigi Di Maio e alla futura leadership dei Cinquestelle. Forse semplicemente una mossa disperata per ritagliarsi ancora una parte sulla scena e magari un qualche ruolo che gli eviti di tornare a fare l'avvocato e il docente all'università di Firenze.

Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 5 febbraio 2021. Conte parla davanti a palazzo Chigi, privo di Casalino. Come uno che perso il negozio abbia aperto un banchetto per strada. In giacca e cravatta, pare l' antica pubblicità di un amaro in mezzo al traffico. Questo era il mondo di prima. Il mondo di adesso, in un attimo, è diventato quello descritto da Sergio Mattarella nel discorso agli italiani: serve «un governo di alto profilo che non debba identificarsi in alcuna forza politica». La più clamorosa bocciatura di una classe dirigente sentita in tre minuti, in diretta tv. Potete accomodarvi, non siete all' altezza. Il momento è grave e non siete capaci di pensare al Paese. Bisogna fare reset, come quando va in blocco il computer: o si butta, o si svuota. Dunque Draghi. Da entrambi - dal presidente Mattarella e dall' incaricato Draghi - poche parole: misurate, rispettose, esatte. Non eravamo più abituati, ce ne stavamo anzi quasi cominciando a vergognare. Doveva difendersi, eventualmente, chi esercitasse l' uso proprio del congiuntivo e il silenzio nel dubbio. Élite culturali. Tecnocrati usurpatori di democrazia del popolo. Ed ecco che, come sempre ciclicamente accade, dinanzi alla più drammatica crisi di sistema degli ultimi anni - il collasso di una politica al vuoto pneumatico di progetto, interessata solo al suo proprio tornaconto - quel che marca la differenza è di nuovo la semantica, la prossemica. Il modo di usare la parola e il corpo che la porta. Perché non è vero che aver fatto il commesso in un negozio di intimo autorizza a diventare ministro in quanto "uno del popolo": sapere serve, alla prova dei fatti comanda. Così, per notazione di cronaca, siamo qui oggi a segnalare la distanza simbolica fra le parole del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio incaricato e il resto del mondo: è un fatto. Esempi. Siamo stati in un passato recente governati da Danilo Toninelli, Movimento Cinque Stelle, già ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti nel Conte Uno. «Non ci vengano a chiedere di votare Draghi. Abbiamo fatto di tutto, perfino annientarci negli uffici a lavorare pur di dare una mano a chi ne aveva bisogno». Abbiamo persino lavorato, lamenta Toninelli, doglianza in linea con quella dell' unico audio reso noto tra le centinaia diffusi dal plenipotenziario di governo (portavoce, ufficialmente) Rocco Casalino che all' indomani del crollo del ponte Morandi diceva «non mi stressate la vita, mi è già saltato il Ferragosto». Si capisce che la gravità e la misura delle parole di chi ha ora preso in mano la crisi pandemica siano stranianti. Lost in translation , serve un mediatore culturale. Lo si dice a costo di essere accusati, già si sente il coro, di essere espressione dei poteri bancari, massonerie finanziare, élite dei poteri forti. Purtroppo o per fortuna non è così, è la semplice cronaca dei giorni. Giorgetti, vicesegretario della Lega, paragona Draghi a Ronaldo, a ciascuno i suoi esempi: «Non può stare in panchina»; Beppe Grillo fa inversione a U e riflette che si può anche dire sì a Draghi ma «solo se fa un governo politico»: nel senso che per i Cinquestelle questa è una «grande opportunità per tornare al governo». Diversamente, sai quanti mutui inevasi. Goffredo Bettini, segretario ombra del Pd, è dispiaciuto, Nicola Zingaretti, segretario ufficiale, è disponibile. Franceschini è come sempre al posto giusto. Renzi gongola e rilascia interviste agli amici americani in inglese incerto: Draghi is the best. Ciascuno pensa al suo privato futuro, nell' imminente governo che per essere votato deve comprenderli: che sia un governo "politico", che li reintegri o li ricollochi. Si toccano gli estremi: Giorgia Meloni e la pasionaria grillina Cinquestelle, Paola Taverna.  Mai con Draghi. Perché è un tecnocrate, competente. Uno che ha studiato, dunque un nemico del popolo. Come se sapere e potere fossero due cose diverse. Come se l' unico antidoto al messia, l' uomo della provvidenza, non fosse saperne tutti qualcosa di più - non qualcosa di meno. Così da poter discutere, eventualmente, nel merito. Invece tutti a pensare: ma a me, personalmente, cosa mi tocca.

Tapiro d'oro a Casalino e Conte. Premiata l'accoppiata delle gaffe. Il premier e il suo portavoce sono stati intercettati da Valerio Staffelli che ha consegnato loro, non senza imbarazzo, il premio di Striscia la Notizia. Novella Toloni, Giovedì 04/02/2021 su Il Giornale. Insieme hanno governato, insieme hanno lasciato le rispettive poltrone e insieme ora riceveranno il tapiro d'oro. Il premier uscente Giuseppe Conte e il suo portavoce Rocco Casalino non si lasciano, anzi raddoppiano grazie a Striscia la Notizia, che stasera consegnerà loro l'ambito premio delle gaffe. L'inviato dei tapiri Valerio Staffelli, nella puntata del tg satirico di Canale 5 che andrà in onda questa sera (4 febbraio), prenderà due piccioni con una fava. È proprio il caso di dirlo. La caduta del premier Giuseppe Conte ha fatto capitolare definitivamente anche il suo portavoce Casalino e insieme ora si apprestano a ricevere il tapiro. Oltre al danno la beffa di vedersi prendere in giro da milioni di telespettatori che negli ultimi mesi hanno assistito più a uno show che a un'azione di governo. Intercettato fuori da palazzo Chigi dall'inviato di Striscia, Giuseppi prima di prendere il premio ha voluto puntualizzare: "Dimissionario, ma ancora presidente per qualche giorno. Sono onorato di aver servito il mio Paese e terminare con un Tapiro mi rinfranca". Stuzzicato dalle domande di Valerio Staffelli su Matteo Renzi, Conte ha fatto buon viso a cattivo gioco: "È un interlocutore politico, un senatore della Repubblica e fa la sua politica". E sul tapiro ha trovato anche il tempo di scherzare: "Durante tutto il mandato mi sono chiesto: come mai non mi arriva?". Ben altro stile invece quello di Rocco Casalino, che davanti a Staffelli non si è risparmiato il suo solito atteggiamento da primadonna. Pizzicato per le vie di Roma, Casalino ha prima smentito ai microfoni di Striscia di aver telefonato ai vertici del Movimento 5 Stelle chiedendo di votare contro un governo guidato da Mario Draghi, poi ha fatto pubblicità al suo libro: "Ho ricevuto 300 chiamate, ma non rispondo a nessuno". La sua fatica "letteraria" - "Il portavoce" che ripercorre la sua vita - è pronta a finire nelle librerie il 16 febbraio nonostante gli intoppi delle ultime settimane. Di dire addio alla politica, però, Casalino non pare averne voglia e in quanto alla televisione Rocco a Staffelli ha fatto una promessa: "Mai al Grande Fratello Vip".

Conte deve tornare a lavorare, l’Università di Firenze richiama l’ex premier: “Aspettativa terminata”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 6 Febbraio 2021. Giuseppe Conte ed Elena Bonetti erano i due docenti universitari del governo uscente. Tra i due c’è però qualche differenza. Bonetti appena dimessa da Ministra ha lasciato Roma ed è tornata ad insegnare analisi matematica a Milano. Dopo averlo annunciato il 14 gennaio, con tanto di foto: lei che fa gli scatoloni, svuota l’ufficio al Ministero. E saluta con un tweet: «È stato un onore servire questo Paese nei palazzi romani delle istituzioni. Torno a farlo nelle aule universitarie milanesi. La politica è servizio». In effetti i professori universitari prestati alle istituzioni, perché chiamati ad alti incarichi, vengono posti in congedo d’ufficio. Ma lo stesso congedo termina automaticamente al decadere dell’investitura. «Dal giorno stesso in cui è uscita dal Ministero ha ripreso il lavoro: ha già preso parte alle prime riunioni, da metà gennaio», ci confermano i suoi collaboratori. È davvero rientrata?, chiediamo al dipartimento. «Una persona che lavora qui, e ha chiesto di lavorare qui perché ama la ricerca e l’insegnamento torna più che volentieri all’università», ci rispondono, un po’ sorpresi dalla domanda. E ci dettagliano le attività su cui è impegnata. Non ce ne vogliano, perché facendo le stesse domande all’Università di Firenze, le risposte cambiano. Il Rettore Luigi Dei inquadra Giuseppe Conte. «È professore ordinario di diritto privato presso il Dipartimento di Scienze giuridiche. Ha svolto il suo compito di presidente del Consiglio al meglio, adesso lo aspettiamo qui». A Firenze. Anzi a Novoli, in via delle Pandette. Un po’ diversa da quella via del Corso dove l’ex premier, accudito dalla scorta, amava richiamare gli sguardi dei passanti. «L’incarico di presidente del Consiglio dei Ministri svolto da Conte», sottolinea il rettore Dei, ha dato «sicuramente lustro alla nostra Università», ma adesso che il mandato governativo è in conclusione, per il titolare di Diritto privato sarà automatico il reintegro nella vita accademica. In base alla legge 383 del 1980, il docente che assume una carica pubblica nello Stato entra in aspettativa obbligatoria. Una volta che la Presidenza del Consiglio comunicherà al Rettorato la decadenza dalla carica, Conte deve riprendere possesso della sua cattedra universitaria. Entro due settimane. E mentre Draghi prepara il cronoprogramma di governo – si è scoperto che sul Recovery c’è tutto da rifare, conti in testa – per Conte la segreteria didattica ha pronto il cronoprogramma del rientro al lavoro. «Potrebbe tornare a svolgere attività didattica già dal 22 febbraio, inizio del secondo semestre dell’anno accademico. Ma questo sarà da vedere in base alla programmazione annuale del suo insegnamento. Nel caso in cui non fossero previste lezioni per la sua cattedra, Conte si dedicherà alla ricerca, allo studio ed eventualmente ai colloqui con gli studenti». La prossima volta che cercherà dei volontari in aula, quindi, potrebbe non essere per la Fiducia. Chiediamo agli uffici se ci siano già state interlocuzioni. No: Conte non ha parlato con il Rettore, ci confermano, negli ultimi tempi. Non ha preso contatto con le segreterie. Non ha ancora voluto comunicare la data di rientro. Ahia. Quando ha piantato il tavolino in mezzo alla piazza, per gridare “Sappiate che ci sono e ci sarò”, lo aveva capito che invece non c’è già più? Lunedì sembra dover riconsegnare le chiavi di palazzo Chigi. Per rimanere a Roma gli occorrerebbe un salvagente: un incarico pubblico, quale che sia. Ma sembra che della personalità più irrinunciabile della politica, tutt’a un tratto, si possa perfino fare a meno. E poi Firenze è bellissima, in primavera.

Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 10 febbraio 2021. Sic transit gloria Conte, però che rapidità. Ancora alla fine di gennaio - dieci giorni fa - una metà del Parlamento gridava compatta «o Conte o morte», i ciampolilli s' accalcavano alla sua corte e i sondaggi facevano a gara nel certificarne la popolarità. «Giuseppi» il leader per caso, il padre della Patria chiusa in casa, il conquistatore dei denari d' Europa, il federatore del centrosinistra e via salmeggiando. Ma appena Conte ha ricominciato a non contare, si è ritrovato in mano una lettera di licenziamento controfirmata dai suoi stessi soci, e senza neanche uno straccio di liquidazione. Il ministero degli Esteri meglio di no, altrimenti Di Maio si offende. La Giustizia, manco a parlarne. La candidatura a sindaco di Roma, ecco, se proprio ci tiene, ma tanto non ci tiene. A un certo punto Radiomercato lo ha spedito addirittura a Bruxelles come commissario europeo in cambio di Gentiloni e milioni, ma era una manovra diversiva. Restava un collegio vacante di senatore a Siena, quasi una mancia per un ex-presidente del Consiglio fresco di beatificazione come lui. Ieri Boschi e Zingaretti gli hanno negato anche quella. Boschi con qualche perfidia, ma tra avversari giurati ci sta, e il Pd con le classiche tecniche del ghosting (scomparire di colpo) e dello scaricabarile, utilizzate in amore dai meno coraggiosi per liberarsi di un partner che non serve più, senza precludersi la possibilità di richiamarlo un domani, casomai.

Conte cerca poltrone ma perde pure la cattedra. Sfuma l'Università di Roma mentre il Pd lo scarica nella corsa al seggio di Siena. Pasquale Napolitano, Giovedì 11/02/2021 su Il Giornale. Giuseppe Conte perde poltrona, seggio e cattedra. Una tripla beffa per l'ormai ex avvocato del popolo, chiamato da Salvini e Di Maio prima, Zingaretti e Grillo poi, a guidare i governi del cambiamento. Una parabola discendente, culminata il 26 gennaio scorso con le dimissioni da presidente del Consiglio. Ma la notte appare ancor più buia delle previsioni. Conte, nonostante sia stato osannato da tutti, oggi fatica a incassare dal Pd il via libera alla candidatura nel collegio uninominale per la Camera dei deputati di Siena: posto lasciato vacante dopo le dimissioni dell'ex ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan. Eppure, chi ora sbarra la strada verso il Parlamento all'avvocato di Volturara Appula, prima lo riempiva di complimenti. È la politica, bellezza. Oggi le parole al miele sono tutte rivolte al futuro capo dell'esecutivo Mario Draghi. Anche il premier dimissionario si accoda: «Se fossi iscritto a Rousseau voterei sì a Draghi», dice ai cronisti fuori Palazzo Chigi. Zingaretti (un leader che non brilla per coerenza) si era, però, spinto molto avanti il 20 dicembre 2019: «Conte è oggettivamente un punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste». Zingaretti è lo stesso segretario dem che oggi nega l'ok alla candidatura nel collegio di Siena: «Nessuna volontà di imporre dall'alto nulla. Le alleanze si decidono nei territori. Rispetteremo l'autonomia dei territori». Lo stop (in questo caso non è una novità) arriva anche dalla renziana Maria Elena Boschi che in quel collegio può esercitare la sua influenza politica: «Il destino personale di Conte francamente non è la priorità, prima vengono i 60 milioni di cittadini italiani». Il premier sente puzza di tradimento: «Non ne so nulla», ribatte. Missione Siena fallita. Resta la poltrona di capo del Movimento. Opzione rifiutata: «Io presidente del M5S? Non ambisco a incarichi personali e formali, l'importante è avere una traiettoria politica da offrire agli elettori». Conte, dopo lo sfratto da Palazzo Chigi, sta provando a resistere sul campo (politico). Non si schioda. Perché dall'Università è arrivata un'altra beffa: dovrà rinunciare alla cattedra, tanto inseguita, di diritto privato a La Sapienza che fu del suo maestro Guido Alpa. Nel 2018 Conte inoltrò la domanda per il concorso con l'obiettivo di traslocare dall'ateneo di Firenze. Nel frattempo però arrivò la chiamata di Salvini e Di Maio per la guida dell'esecutivo gialloverde. Conte provò, comunque, a presentarsi alla prova di inglese. Beccato dalla stampa, decise di rinunciare. Il concorso è andato avanti: il corso di diritto privato è stato affidato al napoletano Giovanni Perlingieri. Seconda beffa. Conte sta tentando altre vie d'uscita: la candidatura a sindaco di Roma e un incarico in Ue. Poche chance di inserirsi nella partita per il Campidoglio. Virginia Raggi non ha alcuna intenzione di cedere il passo. Sono già pronti comitati per il bis. In Europa, Conte si gioca la carta di un incarico. Quale? La poltrona di Paolo Gentiloni, commissario Ue del governo italiano, non è al momento disponibile. Resta un'ultima mossa: rientrare nella squadra dei ministri dell'esecutivo Draghi. Ma oggi sembra una missione impossibile.

Maurizio Belpietro per "la Verità" il 10 febbraio 2021. Siccome c'è il Covid, in Italia non si può votare. Così per lo meno ha deciso il presidente della Repubblica, incaricando Mario Draghi di formare un nuovo esecutivo. Tuttavia, se c'è da piazzare Giuseppe Conte per evitargli di accomodarsi sui banchi universitari, a fare il professore, si può fare un'eccezione. Ebbene sì, da giorni non si discute del futuro dell'Italia, ma di quello dell'ex presidente del Consiglio, il quale da quando è stato spodestato da Matteo Renzi, non sa bene come occupare il proprio tempo. Di tornare a insegnare non se ne parla: l'avvocato di Volturara Appula si è abituato al palcoscenico della politica e le retrovie delle aule scolastiche non fanno più per lui. Il nostro, dopo aver tentato di fomentare una rivolta contro l'ex governatore della Bce allo scopo di fargli mancare i voti dei 5 stelle in Parlamento, pare avesse preso in considerazione l'idea di rimanere come ministro degli Esteri. Ma qualche cosa deve avergli fatto capire che non era aria e che Draghi, conoscendo di persona tutti i leader del G20, non avrebbe certo avuto bisogno di qualcuno che agli incontri internazionali gli reggesse la borsa. Pare che, prima di prendere la solenne decisione di rifiutare un ministero che nessuno gli aveva proposto, Giuseppi abbia cercato di intercettare l'Elevato in missione a Roma. Non si sa se per proporgli di votare contro il nascente nuovo governo o per cercare di farsi infilare in qualcuna delle caselle rimaste libere. Sta di fatto che Beppe Grillo, dopo averlo usato per impedire che nel 2019 si andasse alle elezioni, consentendogli con una straordinaria operazione di trasformismo di dar vita al Conte bis, lo ha trattato come un kleenex usato. Risultato, al povero ex premier è toccata la sorte di cercare di imbucarsi all'assemblea grillina, per ripetere la minaccia già pronunciata al banchetto da venditore di strada allestito in piazza Colonna il 4 febbraio: «Io ci sono e ci sarò». Insomma, non vi libererete tanto facilmente di me. L'idea iniziale era di diventare presidente del Movimento. A Grillo avrebbe lasciato la qualifica di fondatore, ma a lui sarebbe toccata quella di direttore. Il progetto però si è schiantato contro le ambizioni di Luigi Di Maio, il quale ha mollato la poltrona di reggente a Vito Crimi, tuttavia come tutti sanno non vede l'ora di riprendersela e adesso che il giurista pugliese ha perso Palazzo Chigi e pure il tocco magico è convinto che sia arrivato il momento. A Conte, a cui nel frattempo è appassita la pochette e il ciuffo si è scompigliato, è stato offerto di bruciarsi con la candidatura a sindaco di Roma. Per i grillini sarebbe stato un affare, perché avrebbero preso due piccioni con una fava: liberarsi cioè di Virginia Raggi, che ha intenzione di ripresentarsi, e in un sol colpo pure delle ambizioni dell'ex premier. Ma Giuseppi, fiutando di doversi confrontare con Carlo Calenda e temendo qualche sgambetto del Pd e di Italia viva, ha preferito rispondere con un «no, grazie», aggiungendo che fare il sindaco della Capitale non sarebbe il suo mestiere. Sottinteso: io, dopo aver fatto il presidente del Consiglio, non mi posso rassegnare alla poltrona in Campidoglio. Al massimo, visto che quella di Palazzo Chigi è momentaneamente occupata, posso ambire al Quirinale. Ci siamo capiti: il caso Conte, da politico che era, sta diventando umano, in quanto il rischio è che l'avvocato si aggiri per mesi attorno a piazza Colonna senza saper bene come impiegare il proprio tempo. Una situazione incresciosa, simile a quella dei parlamentari trombati, che dopo anni la mattina presto li vedi ruotare intorno a Montecitorio come pesci nell'acquario, in attesa di incontrare qualche ex collega con cui fingere di avere ancora un ruolo.Risultato, per levarsi di torno il fastidioso questuante, a qualcuno è venuta l'idea di candidarlo alle elezioni suppletive, quelle che si dovranno svolgere per rimpiazzare l'ex ministro Pier Carlo Padoan, il quale come è noto ha lasciato il posto in Parlamento per quello più comodo e meglio retribuito di presidente di Unicredit. Conte dovrebbe correre nel collegio di Siena, guarda caso quello tanto caro ai compagni finché c'è da preservare il Monte dei Paschi e soprattutto tappare i buchi di un bilancio bancario che fa acqua da tutte le parti. Ecco, per levarsi il problema, le elezioni vietate a tutto il resto degli italiani perché i 5 stelle e il Pd, secondo i sondaggi, le perderebbero, a Siena si potrebbero fare. Potrebbero, al condizionale. Perché poi ci sono quei guastafeste dei renziani e degli ex renziani, che con Conte paiono avere un conto personale da regolare. Infatti, appena si è diffusa la voce di una candidatura nel collegio di Siena, Maria Elena Boschi si è incaricata subito di affossarla, liquidando la faccenda con un «abbiamo altre priorità». Poi è stato il turno di Dario Nardella, sindaco di Firenze, che per non avere un ingombrante rivale a due passi da casa ha suggerito all'ex premier di riprendere la via della Capitale. Sì, insomma, se si è sicuri di vincerle le elezioni si possono fare, ma Giuseppi di questo passo potrebbe finire come la Bella de Torriglia, talmente bella che nessuno se la piglia.

Francesco Merlo per “la Repubblica” il 12 febbraio 2021. Conte che si offre ai selfie per le strade di Roma sembra Benigni nel film di Woody Allen. Ricordate? Era il "Signor Qualsiasi" che all' improvviso diventava il più famoso d' Italia proprio perché era il più anonimo, il più qualsiasi. E quando di botto i giornalisti non lo cercavano più e nessuno lo riconosceva, ormai allampanato dal successo correva per Roma: "Ehi, sono io, volete un autografo, uno scoop, volete vedermi su una gamba sola?".

Vittorio Feltri su Giuseppe Conte: "Vilipeso e disoccupato. Ha fallito ma lo rispetto". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 12 febbraio 2021. Giuseppe Conte, ex presidente del Consiglio, merita una citazione latina degna di una lapide di marmo: "Sic transit gloria mundi". Traduco in volgare: la gloria che ti riserva questo mondo è effimera, la dura no, non dura. Per due anni e mezzo il premier deposto è stato adulato non solo dai politici di riferimento, bensì anche dalla maggioranza degli italiani, i quali gli hanno consacrato un oceano di consensi. Sembrava che l'avvocato fosse immarcescibile, che rimanesse al comando delle misere operazioni di governo fino alla scadenza naturale della legislatura. Poi è giunto Matteo Renzi, che ha un patrimonio di voti residuale (2 per cento), ed è riuscito a scalzarlo con facilità irrisoria. Complimenti al rottamatore per eccellenza, sempre sottovalutato dai superficiali attori della politica, il quale ricorda la vicenda di Davide e Golia. Roba vecchia eppure sempre attuale. Non appena è stato strombazzato il nome di Mario Draghi, la scena è cambiata all'istante. Le poderose leccate di terga riservate al foggiano si sono trasferite in un nano secondo verso il posteriore del grande banchiere. Sul quale una ondata spaventosa di saliva si è abbattuta. Un esercito di leccatori professionali è tuttora impegnato a umettare i glutei di Draghi, di cui immagino l'imbarazzo, conoscendo l'uomo e la sua riservatezza. Questo d'altronde è il costume nazionale: l'ultimo arrivato va portato in trionfo ancor prima si segga sul trono. Al cosiddetto Supermario vengono attribuite doti divine in grado di trasformare il Paese da sacco di letame in cesto di rose. Non dubitiamo delle capacità professionali del famoso banchiere, tuttavia sappiamo che un conto è amministrare un importante istituto di credito e un altro è guidare un gruppo di sciamannati che poltriscono in Parlamento. Quindi aspettiamo i fatti: ora non è il caso di muovere il pollice all'insù o all'ingiù. Sarebbe prematuro. Oltre che ingiusto. Per adesso condanniamo senza riserve il trattamento cui è sottoposto Conte, disoccupato e vilipeso: lo trovo disgustoso. Questo personaggio non è da premio Nobel, per lungo tempo ci ha tediato con monologhi notturni mediante cui impartiva lezioni di comportamento a tutti noi poveri tapini, egli ci ha imposto divieti assurdi per combattere il virus con metodi ruspanti e inefficaci. E ci ha inflitto Arcuri e Speranza, due pressappochisti improvvisatisi tecnici della Sanità, che hanno combinato soltanto casini senza risolvere nemmeno un decimo dei problemi sanitari. Ed eccoci qui in attesa di vaccini che non arrivano, ciò che inquieta la popolazione, per giunta alle prese con una crisi economica devastante dovuta al fatto che senza salute pubblica non può verificarsi l'agognato rilancio dell'economia. Ciò detto Conte va rispettato, ci ha provato in tutti i modi e ha fallito, come avrebbe fallito chiunque. Confidiamo in Draghi, evitando però di attribuirgli un successo che non ha per il momento ottenuto. Calma e gesso. Molto gesso. Termino pubblicando i risultati di un sondaggio significativo. Domanda: chi avrebbe preferito come prossimo premier? Mario Draghi: 52 per cento; Giuseppe Conte: 29. Giudichi il lettore. 

Ritratto di un ex Presidente. Chi è Giuseppe Conte, da prestanome della coppietta Salvini-Di Maio a leader del mai nato partito del 9%. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 7 Febbraio 2021. Letterariamente parlando, l’avvocato Giuseppe Conte è un personaggio fantastico. Fate finta per un attimo che quel che è accaduto dalle elezioni ad oggi non sia reale ma l’abbiate letto in un romanzo o visto in un come il film Il giardiniere con Peter Sellers del 1979. Chance era un giardiniere con leggero handicap mentale che l’aveva costretto a vivere sempre dentro un giardino, che curava con austera competenza ma incapace di andare oltre la visione del mondo di una patata. Si esprimeva per metafore agricole sulle stagioni, la potatura e la siccità e diventò il candidato alla Presidenza degli Stati Uniti mentre una disperata Shirley MacLaine tentava vanamente di fare sesso con lui, interessato soltanto alla sequenza dei canali televisivi. Partiamo dalla fine – provvisoria ma forse definitiva – dell’avvocato Giuseppe Conte: era solo, rabbioso e disperato sulla piazza davanti a Palazzo Chigi dove esprimeva i suoi concetti agricoli, o forse politici. Parlava al movimento, al Pd e alla sinistra, al popolo dei clandestini chiamati alla resistenza, sotto la sua leadership. Incredibile, ma assolutamente vero. Quella scena appena vista costituisce il capitolo finale dell’uomo che un giorno aveva incontrato per strada un tizio che lo aveva presentato a un tale che gli aveva detto senti, perché non vieni con noi, andiamo al Quirinale, ti presentiamo al capo dello Stato e poi da cosa nasce cosa e infatti era nato un governo. Anzi due. Era pronto per il tre. Mattarella, se ricordiamo bene, era incazzato nero quando se lo trovò davanti. Era successo infatti che i bravi ragazzi del New York Times avevano controllato il curriculum inviato alla Camera per candidarsi ad un ufficio amministrativo. Il quotidiano americano allora ce l’aveva con lo sconosciutissimo avvocato Giuseppe Conte perché era stato indicato come candidato a guidare un governo di estrema destra. Negli uffici romani del New York Times il caporedattore Jason Horovitz aveva scoperto qualcosa di comico: l’avvocato, non sapendo allora come oggi, la lingua inglese, aveva frequentato i corsi estivi della New York University e poi li aveva presentati come un titolo accademico. Sergio Mattarella quando se lo ritrovò davanti lo guardò come un varano, il lucertolone – o drago – di Komoto e gli sibilò qualcosa come spero che il suo curriculum sia stato aggiornato. Figura di merda. E allora tutta la sinistra rideva di Conte perché lo sconosciuto era il candidato a governare insieme agli odiati M5S e all’odiatissimo Salvini. Anche alla Duquesne University di Pittsburgh smentivano di aver mai visto il signor Conte, come all’University of Malta, all’Internationales Kulturenstitut di Vienna dove precisarono che nel loro istituto si insegna e si apprende soltanto in tedesco. Ciò che vogliamo sottolineare è che quando emersero queste vere o presunte gaffe, tutta la stampa si gettò a capofitto nella caccia all’uomo allora considerato di estrema destra. Perché l’incredibile personaggio uscito dal nulla era allora destinato a governare come prestanome della coppietta Salvini-Di Maio i quali, sbarrandosi la strada a vicenda, avevano scelto uno sconosciuto avvocato di Volturara Appula, da un assistente di studio dello stesso avvocato, un certo Bonafede Alfonso, DJ per vocazione ma aspirante ministro della Giustizia. Bonafede era un pentastellato e conosceva Di Maio e così finirono tutti al Quirinale in un set cinematografico che ricorda l’incipit del Cavaliere Inesistente in cui Carlo Magno passa stancamente in rassegna i suoi capi militari a ciascuno dei quali chiede: “Ecchisietevoicavalieredifrancia?” E quelli, ad uno ad uno, si presentavano alzando la celata, salvo l’ultimo che restò con la celata abbassata. «E perché non fate vedere il vostro volto?» chiese Carlo Magno. «Perché io non esisto, sire», fu la risposta alla quale il capostipite dei Carolingi non ebbe da obiettare, avendolo il sole reso assonnato e indifferente. Quando il cavaliere Conte si presentò al Presidente, le cose andarono più o meno nello stesso modo: «Ecchissietevoi, candidato al governo?». «Piripì-perepè, poropò-purupù» rispose il candidato. «Ah, va bene – rispose il Presidente – magari la prossima volta cerchiamo di essere un po’ meno paraculi, vero?». «Scusi non accadrà mai più», assicurò il candidato. Tutto accadde in una atmosfera onirica e grottesca, unica al mondo e subito dimenticata, o meglio lobotomizzata dal preciso momento in cui il cavaliere senza celata fece il gran pernacchio al capo leghista in Senato provocando così il fenomeno del rimangiamento della parola data da Zinga, l’uomo che mai e poi mai e poi ancora mai, e – se non l’avete ancora capito – mai, si sarebbe abbassato a un’alleanza coi penta siderali, manco se l’ammazzavano. Accadevano – ed era solo pochi mesi fa – eventi magnifici o almeno non previsti dallo zodiaco, dal calendario di frate Indovino e dalla Cabala. Il Conte, come il Golem di Praga, si era levato in tutta la sua fragilità gigantesca dai piedi d’argilla e tuonava, tuonava, anzi farfugliava con una loquacità che più d’una volta gli aveva sconnesso i congiuntivi, non tanto per superficialità dialettale residua, ma per una reale mancanza di considerazione per la differenza fra ciò che è ipotetico (congiuntivo) e il mondo reale dell’indicativo. Un cianfruglio, un gorgoglio indifferenziato, una torbida accozzaglia di finali di verbo e di partita. Oggi Conte è diventato un monstre molto complicato, ambizioso, pericoloso, ferito a sangue nell’identità miracolosa che gli era piovuta dal cielo come un pesce sganciato da un gabbiano in alta montagna. Abbiamo assistito alla sua metamorfosi da buon manichino a servizio della strana coppietta che lo ha generato, al nuovo Arturo Ui circondato da un manipolo di esternatori-social, da tweettaroli di borgata, facebookisti da malincontro. Alla metamorfosi parteciparono unanimi le televisioni di chiacchiericcio (quelle in cui a qualsiasi domanda venga dallo studio l’inviato sotto la pioggia risponde “Assolutamente sì”) dove si assisteva all’imposizione subliminale e sublinguale dell’immagine del Conte, che si presentava come salvaschermo a tutto, anche al posto delle previsioni del tempo. Il meteorologo diceva nebbia in val Padana e sullo schermo si vedeva la solita clip – sempre quella – in cui Giuseppe Conte pensoso avanza fra specchiere in un Palazzo Chigi adatto a Re Sole, con telecamera a favore finché non si siede da solo davanti a una dozzina di teleschermi ciascuno connesso con un grande della terra, alla peggio un nano. Sempre uguale, manicurato al dettaglio e totalizzante. Ovunque. Comunque. Dossierato. Ha sempre con sé seimila pagine stampate con dentro il nulla dettagliato. Discorsi prolissi e pontificali, ma detti con concessione alla modestia, privi di qualsiasi significato e peso specifico, ma da condividere per esaustione. Il monstre era nato, non dipendeva più dalla strana coppia che per sua fortuna si era divisa e la fata turchina, con un bacio notturno aveva trasformato il burattino in un bambino vampiro azzimato, impomatato, profumato di barberia. Un po’ era il suo DNA, giustamente ambizioso (nulla contro l’ambizione, ci mancherebbe) e un po’ il guaglione miracolato, della famiglia dei Nuovi Guaglioni della Repubblica, uno che vendeva gelati allo Stadio, un altro che azionava il macchinario da DJ, tutti con quell’espressione stupìta, quella crisi identitaria in corso. Ora il piccolo colosso, l’abbiamo visto, sa fare la faccia feroce. Ha sbagliato l’apertura e gli hanno fatto lo scacco del barbiere, lo ha fregato Calandrino Renzi che gli ha dato a bere di aver trovato la pietra elitropia che rende invisibili e lui se l’è bevuta e si è ritrovato fuori da Palazzo Chigi. Il cerchio si chiude: anche Chance il Giardiniere si era trovato fuori dal suo giardino, nel mondo che non aveva mai visto. E una bella signora lo investe, lo soccorre, lo adotta e lo introduce nel salotto di quelli che contano. Conte era arrivato ai supremi salotti dorati con stucchi e tendaggi, più un Presidente americano che gli dà una manata sule spalle storpiandone per sempre il nome, tanto chi se ne frega: e dove si ritrova? In mezzo alla piazza, davanti a Palazzo Chigi dopo un’ora e mezza col Drago che gli deve aver fatto capire come gira il mondo. Non si era mai visto un nuovo Presidente incaricato che va dal predecessore e gli spiega come gira il mondo e come si dovrà comportare lui, d’ora in poi. È stato un dialogo franco, senza peli sulla lingua. Dunque, non amichevole. E infine quella sortita davanti alle telecamere in cui – raccomandando di seguire le prescrizioni del Quirinale (cosa che tutti fanno simulando fronde e borbottii) si improvvisa capo dei Cinque Stelle (“agli amici del movimento dico…”) e ufficiale di collegamento col PD, Leu, chiunque. Un attacco di gollismo (nel senso di De Gaulle) pugliese? Gli è forse apparso Padre Pio? Avrà dietro di sé i soliti poteri forti, o l’intelligence che lui ha curato con senso familistico? E poi, tutta quella gente che lo consola, lo consiglia, lo conforta, lo confonde. Vai a sapere. Certo, gli hanno rubato il giocattolo: il suo partito mai nato del nove per cento che esiste, se esiste, come il Gatto di Schroedinger, soltanto finché non apri la scatola per vedere se è morto o vivo. Il suo partito infatti esiste soltanto se ci sono le elezioni. E non essendoci le elezioni, il palloncino si gonfia con immaginabile frustrazione da impotenza. Dev’essere molto doloroso e frustrante, lo diciamo con sincero rispetto. Ma anche con allarme. Che farà costui, ora che gli hanno smontato la testa? Bisognerà vedere nella prossima puntata se il nostro Conte ritrova la pietra filosofale, il filo d’Arianna o quel che accidenti gli occorre per non finire sulla Luna, sparato da un colpo di cannone come un famoso barone dal nome impronunciabile.

Ritratto di Giuseppe Conte, premier affetto da eiaculazione precoce del cervello. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'8 Marzo 2020.

Istruzioni per l’uso di questo articolo: se non l’avete mai visto perché siete troppo giovani, correte a vedere uno dei più bei film di tutti i tempi, che in italiano è stato titolato Oltre il giardino (del 1980) interprete Peter Seller al suo meglio. Il nostro crudele e dichiarato proposito è quello di mettere a confronto il capo del nostro governo, il professor Giuseppe Conte, con il protagonista del film, un giardiniere con un leggero ma visibile handicap mentale che va incontro a una straordinaria imprevista carriera. Sgombriamo subito il campo: il paragone fra i due ha senso, ma con una importante distinzione: The Gardner è afflitto da un ritardo mentale, mentre Giuseppe Conte è secondo noi affetto da anticipo mentale che è, in politica, l’eiaculazione precoce del pensiero. Ciò che rende accettabile metterli sullo stesso piano è l’inaspettata carriera. Nel film, un giardiniere che non ha mai visto il modo oltre il giardino in cui è nato e vissuto diventerà presidente degli Stati Uniti grazie al fatto che le sue frasi semplici, banali, tipo «quando finisce la siccità le rose possono sbocciare» non vengono prese per quel che sono – banalità al livello più elementare – ma per astutissime metafore dal contenuto densissimo, che fanno impazzire analisti e servizi segreti, incapaci di decifrare la magnifica segretezza e saggezza del giardiniere che sa sempre quando accennare all’avvicendarsi delle stagioni o alla necessità di prendere l’ombrello quando piove. Avrete dunque capito, gentili lettori e – se ci legge – lo stesso professor Conte, dove vogliamo andare a parare: per la prima volta nella storia delle democrazie moderne – ai tempi di Pericle sarebbe stato improponibile e inaccettabile – un giorno, un signore con il suo zainetto a rotelle incrocia un altro signore col suo trolley (il mancato primo ministro Carlo Cottarelli) e si presenta al capo dello Stato con cui ha una conversazione simile a quella che Carlo Magno ebbe, secondo Italo Calvino, con un misterioso cavaliere dalla lucente armatura. Questo colloquio non ha a che fare con Oltre il Giardino ma ci diverte ricordarlo per divertire il lettore con l’evidente analogia, e andiamo a memoria. Carlo Magno passando in rivista i suoi cavalieri con annesse truppe chiede a ciascuno: «E chi siete voi, Cavaliere di Francia?». E il protagonista scintillante e metallico risponde dal chiuso dell’armatura: «Emo, Bertrandino di Gallia Citeriore e Fez…» e seguita con la celata abbassata sicché Carlo Magno si spazientisce: «Perché non mostrate il volto, cavaliere?». «Perché io non esisto» risponde il Cavaliere Inesistente. Carlo Magno a questo punto borbotta qualcosa come: «Oh, be’, boh, ma guarda un po’ tu» e prosegue nella sua ispezione delle forze in campo. Ricordiamo bene quando il nostro Giardiniere, benché Conte, si presentò su al Colle. Il nostro Carlomagno del Quirinale più o meno gli chiese. «E chi siete voi, cavaliere dello Stivale?». «Avvocato, Presidente, solo avvocato». «Ho letto il vostro curriculum e ci è sembrato eccentrico» disse Carlomagnattarella riferendosi al fatto – scovato da un sagace cronista del New York Times – che l’inaspettato sconosciuto aveva fatto passare come un titolo le lezioni di inglese alla New York University, ciò che aveva onestamente fatto un bel po’ incazzare tutti, Carlo Magno compreso. Poi – andiamo a spanne, ma vicini alla riva della verità – il colloquio proseguì con: «E chi vi ha portato qui, cavaliere avvocato?». E lui: «Il signor Di Maio dello Stadio di Napoli». La fine è (quasi) nota quindi non vale la pena di insistere. Torniamo al Conte ignoto e subito primo ministro: nessuno ne aveva visto uno, prima. Ha sbagliato parecchie volte i congiuntivi e mostra una curiosità fonetica: non è sempre sicuro della pronuncia delle parole perché si avventura in una selva di luoghi comuni subordinati a grappoli in cui si perde. Una delle sue boe d’ormeggio è l’espressione “a tutto tondo”, che fa supporre una decisa avversione per i tondi parziali. E l’altra – in multiproprietà – “la trasparenza”. Tutto ciò che il nostro Giardiniere spiega è talmente trasparente che alla fine non si vede. Quando andò alla festa di “Liberi e uguali”, anfitrione D’Alema, creò imbarazzo per aver detto di aver chiesto come cortesia personale ai governi dei paesi europei, di prendersi la loro quota di migranti. Come sarebbe a dire, “per cortesia personale”? Ecco, in questo piccolo accidente, non infrequente, c’è il miglior Peter Seller involontario di Conte. È infatti escluso che avesse intenzione di dire davvero quel che ha detto, ma è vittima di arzigogoli spagnoleschi che non riesce mai a filtrare in un linguaggio limpido. Molto più di quella di De Mita, la sua eloquenza è intraducibile in inglese. La storia del suo rapporto con Salvini, dall’amour passion all’odio senza risparmio, è anch’essa unica nella storia delle democrazie, dove nessuno – mai – è succeduto a se stresso come capo di due coalizioni successive, una di destra che più a destra non si può, e una di sinistra che di più è impossibile. Ne ha risentito alla lunga il suo abbigliamento, passato da un doppiopetto da prima comunione-misto Padrino a una tenuta scamiciata ritenuta più omogenea ai nuovi alleati, perdendo la sua famosa pochette. Il Giardiniere di Peter Seller non era vanitoso. Era modestissimo e non si rendeva conto di essere oggetto di adorazione e anche di passione femminile. Conte sembra invece avido di adorazione, ma consapevole della necessità di apparire casual, amico del popolo o, come dicono i romani, scaciato. La maledizione con cui è venuto politicamente al mondo è quella di apparire un opportunista che ha vinto alla lotteria. E ne è visibilmente consapevole cosa che aggrava il peccato originario con piccole scompostezze, ma specialmente con eccessi verbali di una ridondanza alluvionale. Se mai ci leggesse, gli consiglieremmo di rivedere l’originale Oltre il Giardino, in cui il suo modello si esprime in mondo talmente breve ed elegante, da far pensare a tutti che fosse un pensatore sottile, mentre voleva soltanto dire che finché le mele non sono mature, meglio lasciarle sull’albero. Conte invece spiega la storia dell’albero, dà le ricette di quattro torte di mele e poi dimentica da dove era partito. Di sicuro non pensava – ad esempio – a quel che diceva quando si definì en passant “Presidente della Repubblica” perché voleva dire Presidente del governo di questa Repubblica. Purtroppo nella sciarada del Quirinale che costituisce il corona virus settennale italiano, una gaffe del genere è atroce e Peter Seller al suo posto avrebbe detto «Non ho con me le cesoie adatte». Prendiamolo nella sua recente conferenza stampa in cui, avendo accanto il ministro Gualtieri, annuncia la chiusura di scuole e università. Il governo ha ragione a fare l’unica cosa che si può fare per non provocare il contagio e poi la morte di centinaia di migliaia di persone perché sa che secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità il contagio potrebbe arrivare al sessanta per cento e dunque – dovendo procedere alla cieca – l’unica cosa da fare è distanziare gli esseri umani fra loro affinché le loro salive non vengano sparate a cerbottana nelle gole altrui. Ma quando una giornalista gli chiede perché l’abbia fatto, il nostro Giardiniere risponde con un pezzo di letteratura pesante: «Ieri sera ci siamo riuniti per avere un aggiornamento a tutto tondo perché credo che come prima cosa tutti i componenti del governo, che sono adesso alla guida del Paese, debbano essere periodicamente aggiornati su quello che è l’andamento della curva e delle criticità con cui l’emergenza ci sta sfidando e dopo alcune ore di confronto, poi nella parte finale, ci siamo dedicati poi al tema delle scuole e l’abbiamo sviscerato già nel corso dell’incontro e in modo molto trasparente, lo ridico, è maturato l’indirizzo della chiusura delle scuole che non è una scelta facile, è una scelta complessa: e questo governo ha assunto questa scelta con piena responsabilità e anche consapevolezza delle difficoltà perché chiudere le scuole significa anche creare dei disagi, può avere impatto sulle imprese e i luoghi di lavoro e dà un segnale se volete all’estero perché è chiaro che chiudere le scuole in Italia significa acclarare quello che è sotto gli occhi di tutti. Per completare la nostra decisone abbiamo chiesto la cortesia al professor Brusatello di farci arrivare un parere che poi ci è arrivato e da ieri tanti esperti e scienziati e altri hanno dichiarato tutti che sono misure che possono avere un impatto positivo perché anche in questo momento anche gli scienziati non hanno evidenze scientifiche su un virus le cui loro hanno difficolta, ma in ogni caso quando dico che ci basiamo su valutazioni tecnico scientifiche non dico che noi seguiamo alla lettera ma noi abbiamo una nostra responsabilità, noi valutiamo a tutto tondo e dall’indicazione sanitaria sociale anche culturale per garantire verità e trasparenza e ieri è stata una anticipazione che è filtrata ha dato per scontata una decisione finale che non era stata ancora presa…».

La vittoria dell'autoritarismo. Dal Conte uno al bis tutti i disastri combinati da Giuseppi. Angela Azzaro su Il Riformista il 4 Febbraio 2021. I due anni che abbiamo alle spalle non sono anni qualsiasi. Sono anni in cui il populismo, nella sua forma autoritaria, ha vinto e stra vinto lasciando sul campo le macerie. E a indicare questa discesa agli Inferi è forse la persona meno adatta a rappresentare il ruolo. L’avvocato del popolo, il professore ordinario cresciuto nello studio del potentissimo Guido Alpa, la persona mite, affabile, che parla con il cuore in mano. Ma proprio questo ha tratto in inganno convincendo fan ed elettori, perché dietro l’immagine costruita ad arte dal fedele e inseparabile Rocco Casalino, Giuseppe Conte ha dato vita a due governi – uno continuità dell’altro – che hanno realizzato il programma dei Cinque stelle in tutto e per tutto: distruggere la democrazia, piegare la giustizia al volere della magistratura e non dello stato di diritto, usare i migranti come arma di propaganda e di ricatto. Dalla Russia agli Usa i suoi alleati sono stati i presidenti autoritari e quel Giuseppi scritto da Donald Trump per sostenerlo non può essere archiviato a semplice folclore. Fa ridere, ma un riso amaro, triste, di chi quel Giuseppi lo ha avuto come presidente del Consiglio per più di due anni. Lo hanno tolto dal cilindro, con un gioco di prestigio per realizzare il governo giallo verde. È il 21 maggio del 2018 e l’avvocato del popolo taglia il nastro del primo governo Conte. Alle elezioni il movimento Cinque stelle ha portato a casa un bel bottino, ma non abbastanza da avere da solo la maggioranza. Il centrodestra unito ha numeri più alti, ma non sufficienti. Inizia così il gioco dei tatticismi, degli incontri, delle mosse ad effetto. Ma ancora prima del voto si sapeva che le due forze populiste, Lega e 5s, si erano incontrate e avevo predisposto un accordo che le portasse unite al governo in nome del sovranismo. Era sufficiente che la Lega rompesse con il centrodestra (ma non per sempre) e che i 5 stelle iniziassero con la lunga serie di tradimenti delle loro parole d’ordine. Il grido “mai alleati con nessuno” diventa via via alleati con la Lega, poi con il Pd, poi chissà. Accadrà lo stesso per il limite dei mandati, per il passaggio da un gruppo all’altro, per i rimborsi, per… Solo su una cosa non smettono mai di essere coerenti: l’amore innato, viscerale, potremmo anche dire patologico, per le sante manette. È la parola magica dei Cinque stelle e farà sì che il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, resti in sella sia nel Conte uno che nel bis. E che sul ter faccia crollare tutto: o Fofò o morte. È lui che ha voluto Conte alla guida dell’esecutivo, è un suo amico, e l’avvocato del popolo non lo ha mai mollato, forse anche quando avrebbe voluto, quando difendere l’indifendibile era diventato un fardello. Ma sarebbe ingeneroso dare tutta la colpa al guardasigilli: Conte non ha mai fatto niente per ostacolare le picconate contro lo stato di diritto, contro la Costituzione e contro i diritti dei carcerati, trattati come cittadini di serie zeta e non come esseri umani tutelati dall’articolo 27 della Carta. Conte non si è mai differenziato – siamo ancora al primo mandato – neanche dalla politica sui migranti. Il sadismo di Matteo Salvini contro le persone che fuggono per rifarsi una vita non ha avuto da parte sua un vero stop, anzi è pieno di interviste e video in cui il nostro rivendica le politiche su regolarizzazioni e flussi del governo giallo verde. E infatti nel passaggio al Conte bis ci vuole un anno per mettere mano ai decreti sicurezza, con alcuni cambiamenti, ma senza operare una vera e propria rottura con le politiche precedenti, basta vedere che cosa ancora oggi sta accadendo lungo la rotta balcanica. Persone che vagano nella neve, senza protezione, senza cibo, abbandonate a se stesse. E molte ci sono arrivate dopo che sono state respinte non dal leader della Lega ma dall’attuale, ministra dell’Interno, Lamorgese. Siamo così alla nuova maggioranza composta da 5 stelle, Pd (da cui poi si distacca Italia viva) e Leu. Un governo che non ha prodotto le rotture attese e che ha vivacchiato, rinviando giorno dopo giorno le grandi scelte. Un governo che soprattutto non ha fatto niente per ribaltare le spinte populiste e autoritarie. Niente sulla giustizia, niente sulla difesa della democrazia a iniziare dal ruolo del Parlamento. Così è stata gestita la pandemia, con i dpcm: decreti amministrativi del presidente del Consiglio che hanno saltato i passaggi della condivisione. A Conte mai eletto, doveva dar fastidio lo sfoggio di democrazia e per rendere ancora più lontana ogni vaga idea di rappresentanza si è inventato i comitati tecnici di ogni specie e foggia per cercare di superare l’emergenza, rendendo ancora più profonda la crisi della democrazia e della politica, già duramente messe alla prova. È forse questa la colpa più grande del partito democratico. Non certo aver provato a salvare il Paese da un Salvini in pieno delirio di onnipotenza, ma non aver capito quanto profondo fosse il baratro tracciato dal populismo. L’illusione di Zingaretti, che purtroppo perdura, è quella di curare il populismo facendolo suo, alleandosi in maniera permanente con i Cinque stelle, ormai peraltro ridotti alle ombre di ciò che furono. È una tecnica suicida, che come giustamente ha definito su questo giornale Biagio de Giovanni appartiene alla sfera della sindrome di Stoccolma: si ama chi ti sta annientando. Perché di annientamento si tratta: sulla giustizia, come sui temi sociali, i dem sono andati dietro al movimento che ha distrutto quel po’ di democrazia che ancora restava nel nostro Paese. Invece di fare le barricate per fermarli, hanno dato loro ragione facendosi trascinare nella palude. Ci si poteva anche alleare, ma sapendo che la contesa culturale e politica restava intatta, in primo luogo per salvare le istituzioni che escono da questi anni logorate, impoverite, stanche. Mario Draghi arriva alla fine di questo processo. È il sintomo di una crisi profonda, la conseguenza di un sistema politico che non regge più, in cui è saltato l’equilibrio tra i poteri dello Stato. Pensare che il suo arrivo sia una buona notizia, la fine del periodo nero, non significa credere nel potere salvifico di una singola persona, pensare che si possa ripristinare tutto con la bacchetta magica. Draghi nasce dalla crisi ma può essere l’occasione per ricostruire dalle macerie. Che sono macerie sociali e macerie politiche. La crisi sociale è appena iniziata e la gestione del Recovery fund è una opportunità per chi ha di meno, per chi rischia il licenziamento, per chi arriva da altri Paesi e viene qui a lavorare senza diritti. Si deve far ripartire tutto e bisogna farlo bene. Ma la ricostruzione riguarda anche le istituzioni e lo stato di diritto. E per farlo dobbiamo dire addio al populismo con in tasca la Costituzione.

Il portavoce di Conte. Rocco Casalino sbaracca da Palazzo Chigi: “Renzi? È stato bravo”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 4 Febbraio 2021. Rocco Casalino si sente libero. “Respiro”, dice in una chiacchierata a Il Foglio. Smonta da Palazzo Chigi, il portavoce del Presidente del Consiglio dimissionario, e ancora in carica per gli affari correnti, Giuseppe Conte. L’hanno raccontato come un premier ombra, l’eminenza nemmeno troppo grigia dell’esecutivo, il protagonista di una parabola emblematica dagli studi del Grande Fratello alla Presidenza del Consiglio. “Qua a Palazzo Chigi nessuno è triste, ve lo giuro. È stata davvero pesante. Non pensavo. Sono stati due anni difficilissimi: il ponte Morandi, la pandemia …”. E infatti il 16 febbraio esce il suo libro, Il Portavoce, per edizioni Piemme. Che storia. Per sbaraccare il suo ufficio a Palazzo Chigi servirà una ditta di traslochi, come scrive Il Corriere della Sera: è grande quanto un campetto di calcetto. Nessuno è scontento comunque, la voce allegra, ma Augusto Minzolini ha pubblicato un vocale di 3 giorni fa: “Amore, ci sarà un Conte ter, stai tranquillo”, la voce di Rocco Casalino. E invece: Mario Draghi incaricato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Meglio lui di un altro”, osserva, anche se i giornali avevano malignato che saputo dell’incarico all’ex Presidente della Banca Centrale Europea, il portavoce aveva invitato il Movimento 5 Stelle a non votare la fiducia. Maledette malelingue. Riconosce che “Renzi è stato bravo. D’altra parte col 2 per cento dove andava? Ora ha una possibilità di salvezza”. Due anni bellissimi, per citare il premier, e difficilissimi. Di “Codice Rocco”, com’è stato definito. Quello che decideva su ospitate e interviste e convenevoli con i capi di Stato; di gaffe straordinarie, dal vocale spazientito dopo la tragedia del Ponte Morandi a Genova allo screenshot della posizione in Libia per la liberazione dei pescatori; di conferenze stampa a reti unificate e con lui di poco fuori fuoco rispetto al Premier. Due anni anche di bufera: sempre al centro del bersaglio, per esempio dello stesso Renzi, che aveva spinto per le dimissioni. “C’entra l’omofobia ovviamente”, osserva Casalino nella chiacchierata. E smentisce qualsiasi tipo di astio tra lui e il leader del M5s Luigi Di Maio. Figlio di un operaio e di una commessa, emigrati in Germania, dov’è cresciuto lui, Rocco, laurea in ingegneria a Bologna, il reality che ha cambiato la televisione, alla prima edizione, 48 anni, e oggi finalmente libero. Un romanzo italiano.

Rocco Casalino, quando diceva: "Amore stai tranquillo, il Conte-ter si fa". Libero Quotidiano il 03 febbraio 2021. “Amore, ci sarà un Conte ter, stai tranquillo”. Augusto Minzolini ha pubblicato su Twitter pochi secondi di audio in cui si sente Rocco Casalino dichiarare con grande sicurezza che la crisi di governo terminerà con un nuovo mandato a Giuseppe Conte. Così invece non è stato, con il fu avvocato del popolo e il suo portavoce che sono rimasti fregati alla grande: il Pd e soprattutto il M5s non sono stati in grado di scendere a patti con Matteo Renzi e così è naufragata del tutto la possibilità di formare un nuovo governo politico con la stessa maggioranza di quello precedente, ma con assetti ovviamente diversi. “Profezie disattese”, ha commentato Minzolini in merito all’audio di Casalino. Inoltre l’editorialista del Giornale ha notato anche come Marco Travaglio, uno dei consiglieri più fidati dell’ormai ex premier, abbia reagito molto male alla fine di Conte: “Sembra uno di quei folli che prendono a calci la sabbia e inveiscono contro il sole che sorge. Se la prende con tutti meno che con se stesso che le ha sbagliate tutte e ha rovinato lo stesso Conte”. E quindi adesso toccherà a Mario Draghi provare a formare un governo di “alto profilo” che traghetti l’Italia fuori dalla crisi sanitaria, economica e sociale. “L’iter utilizzato per mettere in pista Draghi è stato corretto - ha sottolineato Minzolini - non è stata una trattativa tra partiti ma un appello del Quirinale alla responsabilità di tutti. Quindi è una cosa che viene dall’alto e che richiama alla responsabilità i partiti che hanno dimostrato di essere incapaci di dare una risposta al Paese. La figura di Draghi è particolare, ho sentito fare il seguente paragone: è come un primario che ha messo in piedi la terapia intensiva in cui il Paese è attaccato con l’ossigeno. Un eventuale no a Draghi deve essere ben soppesato - ha chiosato Minzolini - il Pd può immaginare di legare tutta la sua posizione al nome di Conte? Mi sembra un po’ ridicolo”. 

L’ufficio gigante, le sfuriate,  il passato: la parabola di Casalino giunta agli scatoloni. Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 4/2/2021. Rocco, portavoce e demiurgo di Palazzo Chigi. Le cene con Merkel e Macron in cui si metteva a capotavola. Temutissimo in Rai, decide gli ospiti dei talk e annulla interviste ai quotidiani. L’ufficio di Rocco Casalino, a Palazzo Chigi, ha le dimensioni di un campo da calcetto. Fu un bellissimo capriccio. Il funzionario gli mostrò la stanza di solito destinata al portavoce del premier. Rocco restò immobile per alcuni istanti (solo il labbro superiore iniziò a tremargli: gli succede sempre quando sta per esplodere). Poi, battendo i piedi, urlò: «Orrore! È uno sgabuzzino!». Il funzionario, mortificato, chinò il capo. Nel pomeriggio iniziarono i lavori di ampliamento e così, adesso, non sarà una questione di scatoloni. Servirà una ditta di traslochi. Rocco, entrando lì, si è da subito percepito in grande. È inutile cercare di definire il suo ruolo: demiurgo, spin doctor, eminenza grigia, sottosegretario senza aver giurato sulla Costituzione. Rocco è stato quello che gli è stato consentito di essere. Mettendo in controluce la figura di questo ex concorrente del Grande Fratello — palestrato, 48 anni portati sempre dentro abiti stretti e corti, da buttafuori di discoteca brianzola — si comprende meglio quanto quella in cui siamo precipitati non sia una crisi di governo, ma una crisi di sistema. Certo, per i cronisti politici sono stati anni stupendi. Rocco allude, tratta, corteggia, annuncia, rimprovera, minaccia, drammatizza e poi, quasi sempre, perdona. Permaloso e un po’ mitomane (tornando da Bruxelles: «Per questo benedetto Recovery avete ringraziato tutti, da Conte a Gualtieri, e vi siete dimenticati di me»), pignolo fino all’ossessione, narratore sfrenato (Lele Mora, suo ex agente: «Ha talento, è solo un filo pettegolo»). Rocco odia Wikipedia. Cova una bizzarra pretesa all’oblio. Invece fai clic, e la sua storia torna. L’infanzia in Germania, a Frankenthal. Il padre operaio, la madre commessa, pugliesi emigrati da Ceglie Messapica che si spezzano la schiena per farlo studiare. Lui si laurea a Bologna, in Ingegneria: ma non ci si vede in un cantiere. Così gira un po’ a vuoto, finché, nel Duemila, riesce ad entrare nella “Casa” di Canale 5, prima edizione del reality, milioni di italiani incollati morbosamente alla tivù: lui resiste alla segregazione 92 giorni con Pietro Taricone e Marina La Rosa (che, la scorsa estate, gli fa la cortesia di raccontare a Cruciani&Parenzo: «Rocco era bravissimo a leccarmi i piedi»). Lui diventa un puma. Perché intanto s’intrattiene con Trump, e organizza cene con Conte, Macron, Merkel: dove, senza esitare, si siede a capotavola. Poi si alza e, al cellulare, decide gli ospiti dei talk show (Il Foglio spiegò che c’era un “Codice Rocco”), in Rai è temutissimo, annulla interviste ai quotidiani («Stabilisco io se Peppino parla o no»), via whatshapp — duro come gli ha insegnato Casaleggio padre — minaccia i dirigenti del Mef: «Li cacciamo». Dannato cellulare. Non usarlo così, Rocco. Sei troppo disinvolto. Glielo dicevano: ma niente. Crolla il ponte Morandi a Genova, i pilastri in macerie ancora fumanti, la conta dei morti e dei superstiti, ma lui si lamenta con i giornalisti: «Basta, non mi stressate! Chiamate come pazzi. Io ho pure diritto di farmi un paio di giorni, che m’è già saltato Ferragosto, Santo Stefano, San Rocco...». Era un “vocale”, c’era l’audio: è costretto a chiedere scusa. Pochi giorni dopo i paparazzi lo sorprendono comunque sugli scogli con José Carlos Alvarez, il suo fidanzato cubano. Questo Alvarez è un ex cameriere, ha perso il lavoro, vive di sussidi, però un giorno viene segnalato all’Ufficio Antiriciclaggio della Banca d’Italia: il suo istituto bancario registra movimenti sospetti di cifre “rilevanti”. Panico. Rocco che urla. Crisi nervosa. Poi prova a spiegare: «José giocava in Borsa, non sapevo nulla, è vittima di ludopatia». Versione ufficiale. Non si discute. Come quando confessò a una Iena, su Italia1: «Hai mai provato a portarti a letto un rumeno? Se gli fai dieci docce, continua ad avere un odore agrodolce». Ragazzi - spiegò poi Rocco - «ma è chiaro, stavo recitando». Sparita, invece, la pagina Linkedin in cui vantava un master in business administration conseguito all’università di Shenandoah, in Virginia («Mai avuto uno studente con il cognome Casalino», comunicarono dagli Usa). Senza master, ma con un talento naturale per lo spettacolo. Conte che legge i Dpcm nella notte; le conferenze stampa in cui le telecamere sono costrette — in una liturgia rivoluzionaria — ad inquadrare un po’ il premier e un po’ anche lui, Rocco; gli Stati Generali dell’economia organizzati a Villa Doria Pamphili nello sfarzo e nella totale inutilità. La politica, però, è una roba diversa. Rocco, ad un certo punto, non ci capisce più niente. Scrive un libro autobiografico.Augusto Minzolini, tornato squalo, pubblica su Twitter un suo audio di tre giorni fa. «Amore, ci sarà un Conte Ter, stai tranquillo». Comincia a girare una notizia: subito dopo aver saputo che Mario Draghi aveva accettato l’incarico, «l’ex portavoce di Conte ha cominciato a fare pressioni sulle truppe a 5 Stelle, chiedendo di non votargli la fiducia». Rocco smentisce. Rocco è isterico. Rocco, coraggio, è finita. Vieni via, esci da quell’ufficio.

Il giorno in cui i giornalisti italiani hanno deciso che Casalino era sputtanabile. Guia Soncini su L'Inkiesta il 5/2/2021. «Come lo vede er governo?». La domanda è del terzo tassista della giornata, quello alla fine della cui corsa rielaborerò il Mike Nichols di «il primo e il quarto matrimonio sono i migliori»: il terzo tassista è la più precisa chiave di decodifica della Roma che si rivolta contro chi ha troppo a lungo compiaciuto. S’i fossi Rocco, arderei le redazioni. Magari non con letteralismo neroniano, ma come si brasa la credibilità oggigiorno: lasciando filtrare conversazioni private. Quel che fino all’altroieri non facevano con lui. Ieri, con velocità maggiorata (sarà il cambio di cavallo nell’epoca dell’instant messaging) rispetto a quando questo imbarazzante paese passava dal tifo sotto al balcone al tifo contrario a piazzale Loreto, i giornalisti italiani hanno deciso che Rocco l’intoccabile fosse divenuto sputtanabile. (A questo punto il terzo tassista interrompe i miei pensieri casalinocentrici per informarmi che, se al governo mettessero lui, lui stesso tassista, «ogni tanto dal balcone di palazzo Venezia volerebbe qualcuno». Credo gli si stiano sovrapponendo due modalità di dittatura, a scuola non ci siamo arrivati col programma ma sospetto che a far volare gli oppositori fosse un qualche sudamericano, mica quello di piazza Venezia, ma mi guardo bene dal dirglielo, taccio col rigore d’un analista freudiano). Insomma hanno passato tre anni a farsi trattare come neanche Mia Martini in Minuetto, «e lasci vocali sprezzanti quando vuoi, nelle notti più che mai, non rispondi, te ne vai, sono sempre fatti tuoi», e tutto il drammone che ben conoscono le amanti disamate e i cronisti giuseppecontici. Hanno passato tre anni di mutismo, a elemosinare un suo cenno e a non pubblicare mai uno dei suoi «amo’». Il Corriere ieri si produceva in un interessante esercizio di revisionismo storico, scrivendo che l’unica volta che qualcuno aveva scritto dei messaggi privati di Casalino, la volta del ferragosto rovinato, era perché era stato così pieno di hybris da lasciare un vocale insmentibile. Ha lasciato vocali insmentibili per anni, e voi donabbondiamente muti. («io je la pijo, ma nun se usa più: il Consiglio di Stato ha sentenziato che la legge è sbajata»: il terzo tassista, preso dopo avergli chiesto se avesse il pos, m’interrompe di nuovo, io qui che penso a Rocco e lui che pretende di farmi vedere un servizio di tg, salvato sul telefono immagino tra le cose più preziose, che dice che lui non è più multabile se non accetta la carta. Tento di spiegargli che a me della multa non me ne frega niente, io non giro coi contanti, mi dice e il caffè come lo paga, dico non bevo caffè, mi risponde che non è vero che c’è l’evasione fiscale. Da qualche parte Samuel Beckett sta prendendo appunti). Insomma pare che il libro di Casalino esca il 18 febbraio, finalmente una cosa da aspettare, chissà quanto venderà, chissà se lo ristampano in fretta e furia con un’appendice postgovernativa contando sul fatto che i costi della nuova tiratura siano coperti dal nostro precipitarci a comprarlo, ma soprattutto speriamo nell’appendice ci siano i messaggi che gli mandavano i postulanti in cerca d’un retroscena, d’un’intervista, d’un segno che contavano qualcosa dal Mazzarino in sedicesimo: se ora loro ritengono di poter sputtanare lui, pubblicandone le risposte cafone, chissà cosa potrebbe fare lui, pubblicando tutte le volte in cui pietivano. Che peccato che Abatantuono sia troppo vecchio, perché un altro così perfetto per il film biografico su Casalino mica c’è, che passando dal cangurotto di Buona Domenica salì da Ceglie Messapica a palazzo Chigi, che lui chiama Chigi e i cronisti più prostrati così lo chiamavano con lui, quando c’era l’egemonia casalina. («Io mi chiedo, co’ tutta ‘sta gente che paghiamo, ’n era mejo il re? Almeno magnava uno solo». Terzo tassista nonché guru politico, ti voglio parlare: posso pubblicare i tuoi aforismi, come fossi un Casalino decaduto?). Nel giorno in cui persino il Foglio, già gazzettino ufficiale di Volturara Appula, pubblica una telefonata di Casalino in cui l’uomo caduto dagli altari continua a dire «mica mi starete intervistando», e i suoi interlocutori fino al giorno prima ligi, scopertisi schienadrittisti di tabloid inglese, gongolano nel pubblicare un off the record, certo non posso pretendere che il sia il terzo tassista ad astenersi dal populismo. («Se guida male è de Latina», diagnostica il terzo tassista indicando un’auto impacciata quando scatta il verde. Sono tentata di chiedergli un giudizio sul suo collega che la mattina voleva mollarmi in viale Mazzini sostenendo fosse la vietta dove dovevo andare io, «questo non sbaglia mai», ripeteva indicando il navigatore, e l’avevo dovuto far guidare fin sotto la targa all’angolo del viale, lo vede che c’è scritto viale Mazzini, sì? E quello, impunito: «Mica posso conoscere tutte le strade, nun se agiti». Dov’è Nerone, perché nessuno dà fuoco a questa simpatica città? Dov’è Draghi, gli avete detto di prendersi un portavoce non romano?). Il fatto è che Rocco non è tedesco, non è pugliese: Rocco è romano. A stare a Roma si diventa romani. Persino i poliziotti a guardia delle transenne che isolano piazza Colonna, lì teoricamente a badare che il comizietto di Conte (l’avanzo, no il cantante) non venga disturbato, ma in realtà intenti a prendere per il culo le turiste fingendo avvistamenti d’un certo livello, «Guarda, è Draghi, è lui» alzano la voce rivolti a un’utilitaria che passa, persino loro ormai sono romani, da qualunque provincia remota (persino più remota di Roma) vengano. («La settimana scorsa ho portato una de Bologna, ma m’ha detto che a Bologna fa freddo». Figlio mio, veda lei, è febbraio. Qui da voi, nella parte improduttiva della California, ci son venti gradi, sarà per questo che andate a male?). Una volta, quando esistevano i giornali, un cronista politico raccontò di Rutelli (che è sempre stato innanzitutto il marito di Barbara Palombelli, ma all’epoca aveva una carriera politica) che lo riceveva mentre si faceva fare un massaggio alla spa del De Russie. Adesso, quello stesso cronista aspetta la caduta di Rocco per rendere pubblici i vocali «Amore, ci sarà un Conte ter». Forse il coraggio è un tono muscolare, con l’età declina. Forse è che oggi, a pubblicare quell’intervista a Rutelli, verresti sommerso di tweet indignati col listino prezzi della spa del De Russie. Chiederei al terzo tassista, ormai notista politico di riferimento, il suo parere, ma è impegnato a schivare le chiamate d’un collega noioso. A forza di lasciarlo squillare, persino io e il mio scarsissimo orecchio siamo costretti a riconoscere la musichetta. Sì, qualunque revisore della sceneggiatura mi segnerebbe questa scena come poco credibile. Roma si ostina a non bruciare, mentre dal telefono del terzo tassista trilla Faccetta nera.

Fabrizio Rinelli per fanpage.it il 4 febbraio 2021. Vincenzo Spadafora si è congedato da Ministro delle Politiche giovanili e dello Sport dopo il mancato accordo per un Conte ter e il conseguente incarico di formare il governo affidato da Mattarella a Mario Draghi. L'ex ministro, nel suo saluto da titolare del dicastero, ha pubblicato un post su Facebook esprimendo tutto il suo rammarico per la fine del suo mandato. Una frase in particolare però, ha riscosso grande curiosità:  "Non conoscevo invece il mondo dello sport, al quale mi sono avvicinato con curiosità, rispetto e attenzione". Ovviamente la reazione social è stata immediata. Nel suo lungo post Spadafora ha anche lanciato un appello augurandosi che il lavoro fatto finora non vada perduto ricordando però le gioie dei primi mesi: "Settimane entusiasmanti, su entrambi i fronti. Ricordo la gioia di presenziare alla storica vittoria della Ferrari a Monza dopo nove anni, ad esempio". Nelle ultime settimane del suo mandato, Spadafora era stato più volte chiamato in causa per cercare di capire se ci fosse o meno una parziale apertura per rivedere il pubblico negli stadi. Nel suo lungo post su Facebook, l'ormai ex Ministro delle Politiche giovanili e dello Sport, Vincenzo Spadafora, ha salutato tutti con una frase in cui rivela come non conoscesse il mondo dello sport al quale si era avvicinato con curiosità, rispetto e attenzione. Di certo le sue parole hanno lasciato grande stupore, specie in virtù del caos che si è generato durante la pandemia nel mondo dello sport. A tal proposito Spadafora ha detto: "Siamo entrati in una fase drammatica, abbiamo dovuto prendere decisioni dolorose e dalle conseguenze gravi ma inevitabili, a partire dalle chiusure". Ovviamente il riferimento va dritto alla decisione di chiudere gli stadi che ha creato non poche polemiche, soprattutto nel mondo del calcio. Negli ultimi giorni, questo argomento, poteva essere oggetto di discussione per cercare di trovare quantomeno una soluzione, fortemente voluta dai club di Serie A, sulla percentuale di pubblico da far entrare all'interno degli impianti sportivi. Questo il post su Facebook dell'ex Ministro delle Politiche giovanili e dello Sport: Quando diciassette mesi fa ho giurato come ministro per le Politiche giovanili e lo Sport eravamo in un’altra era, in un momento completamente diverso da questo. Per molti anni avevo seguito le questioni relative ai diritti dell’infanzia e dei giovani, è sempre stato il centro del mio impegno. Non conoscevo invece il mondo dello sport, al quale mi sono avvicinato con curiosità, rispetto e attenzione. I primi mesi sono stati entusiasmanti, su entrambi i fronti. Ricordo la gioia di presenziare alla storica vittoria della Ferrari a Monza dopo nove anni, ad esempio. Poi, un anno fa, l’esplosione della pandemia, il lockdown, i sacrifici chiesti a tutti i cittadini. Siamo entrati in una fase drammatica, abbiamo dovuto prendere decisioni dolorose e dalle conseguenze gravi ma inevitabili, a partire dalle chiusure. In questi mesi abbiamo lavorato moltissimo per dare sostegno a tutto il mondo dello sport, con i limiti del caso, sicuramente, ma facendo il massimo possibile. Stesso impegno sul fronte delle politiche giovanili: il lancio della piattaforma Giovani2030 e della Carta Giovani, tra le altre cose, e il numero più alto di posti per volontari del Servizio Civile degli ultimi anni. Il lavoro forse più delicato e più importante è stato quello di dare attuazione alla riforma dello Sport, cinque decreti sui quali per un anno abbiamo discusso con tutte le componenti, a tutti i livelli, per arrivare a un risultato condiviso e che rappresentasse davvero un avanzamento sociale e culturale. Sono norme innovative che riguardano molti temi, a partire dal professionismo femminile, dalla possibilità per i paralimpici di entrare nei corpi civili e militari, e soprattutto diritti e tutele che diano finalmente la giusta dignità ai lavoratori dello sport. I decreti sono stati votati in Consiglio dei Ministri, hanno avuto l’intesa nella Conferenza Stato Regioni, e sono ora in Parlamento per il parere delle Commissioni Cultura di Camera e Senato: erano previste in questi giorni, ma a causa della crisi le riunioni sono state sconvocate. Dopo il parere delle Commissioni andranno portati nuovamente in Consiglio dei Ministri per il via libera definitivo che deve arrivare entro e non oltre il 28 febbraio, altrimenti la delega scadrà ed il mondo dello sport perderà una occasione unica. Mi auguro che la prossima settimana le Commissioni possano esprimere il proprio parere, mi appello ai deputati e ai senatori che ora hanno la responsabilità di portare a termine nei tempi previsti un percorso importante. Consegnerò al mio successore un lavoro di fatto completato e basterà solo ripresentarlo al Consiglio dei Ministri e apporvi la firma! Il prossimo Governo avrà anche il compito di approvare il Decreto Ristori cinque, che è già scritto e darà respiro a milioni di cittadini alle prese con difficoltà economiche a causa delle restrizioni dovuto al Coronavirus. In questi mesi ho provato a rispondere alle tante istanze che quotidianamente ho raccolto da ciascuno di voi. Lascio ad altri il testimone sperando che non si perda il lavoro fatto finora e ringrazio tutti coloro che mi hanno accompagnato in questo meraviglioso percorso che non dimenticherò mai. Grazie a tutti, davvero.

Da Casalino a Fraccaro a casa anche i Giuseppi boys. Valigie pronte pure per il capogabinetto Goracci, il segretario generale Chieppa e il fedelissimo Arcuri. Pasquale Napolitano, Giovedì 04/02/2021 su Il Giornale. Nei 32 mesi a Palazzo Chigi il premier Giuseppe Conte ha dato vita a un vero e proprio governo ombra. Passando dalla Lega al Pd. Ma conservando sempre il potere nei vari rami dello Stato grazie alla rete di fedelissimi. Con l'arrivo alla guida del governo di Mario Draghi, assieme all'avvocato del popolo dovranno fare gli scatoloni anche i suoi pasdaran. Qualcuno resisterà per alcuni mesi; il tempo della transizione draghiana. Ma il cammino verso la porta d'uscita è tracciato. Il primo a fare le valigie sarà il portavoce super-pagato Rocco Casalino: l'ex concorrente del Grande Fratello, scelto da Conte «non per i legami con il Movimento ma perché (parole di Conte) era il più bravo», difficilmente sarà riconfermato. Casalino dovrà trovare una nuova sistemazione negli uffici comunicazione dei Cinque stelle tra Camera e Senato. In alternativa c'è la carriera di scrittore, inaugurata con il libro (poi bloccato) che racconta della sua esperienza di portavoce. Casalino è stato al vertice del governo ombra di Conte. Sullo stesso piano c'è Alessandro Goracci, capo di gabinetto di Conte, uscito indenne nel passaggio dall'era gialloverde a quella giallorossa. Molto apprezzato dai grillini, Conte gli ha affidato i dossier più delicati. Casalino e Goracci sono stati i due uomini chiave dell'operazione responsabili-costruttori. Un flop costato la poltrona al capo dell'esecutivo. Al numero tre c'è Roberto Chieppa, promosso dal premier grillino nel ruolo di segretario generale della presidenza del Consiglio. Chieppa resterà nei ranghi della pubblica amministrazione di Palazzo Chigi. Ma per la poltrona di segretario generale di Palazzo Chigi Draghi avrà altre opzioni. Nel governo ombra di Conte meritano due poltrone di prestigio Domenico Arcuri e Gennaro Vecchione. Il primo è il manager, vicino a Massimo D'Alema, super-commissario all'emergenza Covid. Ma prima ancora è stato capo di Invitalia e commissario Ilva. Da molti ritenuto il vero presidente del Consiglio ombra. Il ruolo di Arcuri è stato uno dei motivi che ha scatenato lo strappo con Italia viva. Con l'avvicendamento a Chigi, Arcuri sarà ridimensionato. Il generale Vecchione è un fedelissimo del premier: piazzato e riconfermato a capo del Dis, il dipartimento che coordina gli 007 italiani. Più defilato, ma negli ultimi tempi in avvicinamento al cerchio contiano, c'è Pietro Benassi, messo a capo dell'Autorità per i servizi segreti. Tre sono i ministri di stretta fede contiana: Alfonso Bonafede (ministro della Giustizia), Riccardo Fraccaro (sottosegretario alla presidenza del Consiglio) e Federico d'Incà (per i Rapporti con il Parlamento). Erano lo scudo dell'avvocato nell'esecutivo. La rete di Conte si estendeva anche a Montecitorio e Palazzo Madama. Tra i parlamentari vicini al presidente c'è (c'era) Giorgio Trizzino, interprete del pensiero contiano alla Camera. Tanto fedele che pare sia già saltato sul carro di Mario Draghi. Rischiano di restare orfani del proprio padre nobile i senatori Raffaele Fantetti e Riccardo Merlo: i due hanno fondato l'associazione Italia23. L'embrione del nascente partito di Conte. Un partito che pare non vedrà più la luce.

Dagoreport il 3 febbraio 2021. E’ la bancarotta di una classe dirigente, è il default di partiti e leader allo sbando. Come Tangentopoli, ma senza tangenti (aggravante dunque). E come nel ’93 deve intervenire un banchiere a salvare l’Italia: stavolta Mario Draghi al posto di Carlo Azeglio Ciampi. I numeri, dicono. Ballerini. Chissà se SuperMario ha i numeri in Parlamento. Lo vedremo. Ma qualche numeretto, minaccioso e incazzato, lo ha fornito ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per evitare che il suo fosse solo un appello alla Nazione caduto dall’alto: 4 mesi per formare il governo nel 2013 (120 giorni), 5 mesi nel 2018 (180 giorni). In mezzo alla pandemia!!! E alla campagna vaccinale!!! E al varo del Recovery Plan!! E alla crisi economica che esplode!! Lo schiaffo finale ai grandi sconfitti della ex maggioranza, quelli del Conte ter (già finito sabato scorso) o elezioni subito. Un modo per dire: capisco che siete poco svegli ma almeno a 2 + 2 ci arrivate? Eccola la compagnia dei #votosubitisti come li chiama Giuliano Ferrara, dei grandi feriti di guerra in questa Caporetto giallorosa: il premier col ciuffo Giuseppi; Ta-Rocco Casalino, le sue veline e i suoi vocali (amo’, tesoro et similia) che non hanno mai aiutato il suo capo a darsi un profilo più alto; Nicola Zingaretti, il segretario che confonde sempre il dito con la luna (“un doroteo senza la Dc”, lo definisce sprezzante Lorenzo Guerini, cioè uno del Pd); lo stratega Goffredo Bettini che conosce solo lo schema del consociativismo romano sinistra-Gianni Letta-Caltagirone, che è troppo in generale, troppo poco durante una crisi mondiale. E che non fosse la persona più indicata a dettare la linea si capì quando qualche mese fa, con il lockdown e il bollettino di guerra, fu l’unico politico sul pianeta cui venne in mente di creare una corrente (un paio di ministri ci cascarono pure). Iniziativa veramente fuori dal mondo. Infine, ci sono Massimo D’Alema (ma a lui qualche operazioncina è riuscita), Pier Luigi Bersani (che invece non ne ha mai fatta una col buco), insomma la pattuglia degli odiatori di Renzi in calo di lucidità. E’ la fine anche di un circo. Quello mediatico che ruota intorno al ‘’Fatto Quotidiano’’, vale a dire intorno a Marco Travaglio. Ossia tutti i talk che pendono dalle sue labbra, quasi più di Conte. Travaglio non ha risparmiato nessuno, a cominciare da questo disgraziato sito, accusando l’universo di spacciare fake news (nel più buonista dei casi). Al contrario: le bufale erano le sue, i consigli sballati al Principe pure, l’assoluta mancanza di senso della realtà anche. Una lezione di non giornalismo in purezza. Altro che Dagospia. L’altro sconfitto è Urbanetto Cairo, l’editore intempestivo, che ad aprile 2020 gasava i venditori di spot dicendo che in Italia andava tutto benissimo (mentre morivano 1000 persone al giorno) e che la scorsa settimana, con grande scelta di tempo, ha scommesso sul Conte ter, mettendo La7 e Corriere della Sera a disposizione. Poi uno dice perché non sarà mai l’erede di Berlusconi. Povera anche Lilli Gruber, a lutto ieri sera. Rientra in studio dopo aver mandato in diretta il discorso di Mattarella e sintetizza: “Allora, nuove elezioni o un governo tecnico”. Sì, buonanotte. Il capo dello Stato aveva appena scolpito: elezioni nel 2030, forse. Il gruppone dei pugili suonati è nutritissimo. Non abbiamo parlato dei grillonzi: il M5s, Di Maio, Dibba, Crimi e tutto il cucuzzaro, rischiano l’esplosione e meriterebbero un discorso a parte. I vincitori sono meno interessanti: Renzi, Berlusconi (e il sottovalutato Tajani, preso di mira da Bettini, altra mossa geniale), Giorgetti, mezzo Pd. Hanno buttato giù il bersaglio grosso: Conte. Ma anche loro, da oggi, si muoveranno in terra incognita. Non è che Draghi si mette lì al telefono a parlare con Matteuccio dei guai di Briatore o di dove piazzare certi amichetti. A proposito: avviso agli aspiranti ministri maschi (tipo Marco Bentivogli, che via Calenda e Montezemolo, sta puntando lo Sviluppo economico). Il governo di SuperMario, se nasce, sarà quasi tutto al femminile. L’ex capo della Bce ha un debole (solo professionale s’intende) per le donne. Sentimento ampiamente ricambiato dalle collaboratrici che hanno lavorato con lui.   

Travaglio come Fassino, si dà alle profezie: “Draghi? Non è disponibile a fare il premier”. Vito Califano su Il Riformista il 4 Febbraio 2021. Il Governo Draghi non esiste. Un po’ come il concetto di Dio: ci credi o non ci credi. E Marco Travaglio non ci credeva a tal punto da sbandierarlo senza troppi giri di parole, soltanto qualche settimana fa, in televisione. A Otto e Mezzo, ospite di Lilly Gruber, su La7. L’eventualità non era nemmeno in considerazione, “non è disponibile”, esisteva solo Conte, e il Movimento 5 Stelle e Rocco Casalino e Conte, sempre Conte, ancora Conte. Era il 17 dicembre 2020. In studio, insieme con il direttore de Il Fatto Quotidano, il leader di Azione ed ex ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda. Lo stesso Calenda ha riproposto il simpatico siparietto sulla sua pagina Facebook. “Ci vuole tanta pazienza”, ha scritto nel suo post Calenda. Un po’ come la profezia al contrario di Piero Fassino che nel 2009 aveva sentenziato: “Se Grillo vuol fare politica fondi un partito, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende”. Ecco. Si agitava, il direttore del Fatto. Visibilmente spazientito. La crisi politica si sarebbe aperta meno di un mese dopo, il 13 gennaio, con il ritiro dalla delegazione di governo delle ministre di Italia Viva Teresa Bellanova ed Elena Bonetti e del sottosegretario Ivan Scalfarotto. Una crisi già ampiamente annunciata dagli attriti espressi dal partito di Matteo Renzi a dicembre, in particolare sulle bozze del cosiddetto piano Next Generation EU che in Italia ci ostiniamo a chiamare Recovery Fund. Ebbene, Travaglio la piazzava lì, la sua non-profezia, senza troppi complimenti: “Se qualcuno vuole fare il governo Draghi lo lanci, chiamano Draghi così scopriranno subito che non è disponibile, e la piantano visto che è un anno che parlano di una cosa che non esiste”. E di Draghi infatti si parlava sempre più spesso dall’esplosione della pandemia da coronavirus, da quell’editoriale sul Financial Times che tutti hanno citato e ripreso in questi giorni. Per Travaglio non c’era altra via e credo che Giuseppe Conte, sempre Conte, incommensurabilmente Conte. Martedì la convocazione in Quirinale del Presidente Sergio Mattarella, l’incarico accettato con riserva da Mario Draghi e, infine, il punto stampa dall’esterno di Palazzo Chigi del compianto premier Conte. L’“avvocato del popolo”, Conte, proprio quel conte, non Paolo Conte o Antonio Conte, quello caro a Travaglio: il premier uscente che ha aperto e lanciato un appello ed esortato tutta la vecchia maggioranza a sostenere l’ex Presidente della Banca Centrale Europea. Che doccia fredda.

Dagospia il 26 luglio 2021. "DRAGHI È UN FIGLIO DI PAPÀ, UN CURRICULUM AMBULANTE, CHE NON CAPISCE UN CAZZO NÉ DI GIUSTIZIA, NÉ DI SOCIALE, NÉ DI SANITÀ" - MARCO TRAVAGLIO RIVERSA LA SUA BILE SU SUPERMARIO ALLA FESTA DI "ARTICOLO UNO" (E IL PUBBLICO DE' SINISTRA APPLAUDE): "CI HANNO RACCONTATO CHE È COMPETENTE ANCHE IN MATERIA DI SANITÀ, DI GIUSTIZIA, DI VACCINI. MA NON ESISTE L'ONNISCIENZA O LA SCIENZA INFUSA. E NON HA NEANCHE L'UMILTÀ. PERCHÉ A FURIA DI LEGGERE CHE È COMPETENTE SU TUTTI I RAMI DELLO SCIBILE…"

Intervento di Marco Travaglio alla festa di "Articolo Uno - MDP". Voi capite per quali il motivo per cui sono popolari si dice populisti. Popolare è un pregio, populista è un difetto. E' per quello che l'hanno buttato giù. Poi non è che non hanno fatto degli errori. Secondo me li hanno fatti e nel libro li ho elencati. Ma non li hanno mandati via per i loro errori ma per i loro meriti. E hanno messo al loro posto l'esatta antitesi. Che è un figlio di papà, un curriculum ambulante, uno che visto che ha fatto bene il banchiere europeo ci hanno raccontato che quindi è competente anche in materia di sanità, di giustizia, di vaccini. Mentre, mi spiace dirlo, non capisce un cazzo! (applausi della platea di Leu) Né di giustizia, né di sociale, né di sanità. Capisce di finanza ma non esiste l'onniscienza o la scienza infusa. E non ha neanche l'umiltà. Perché a furia di leggere che è competente su tutti i rami dello scibile…

Twitter. Vincenzo Manzo: Stasera alla festa di @articoloUnoMDP, Marco Travaglio ha definito Mario Draghi: “figlio di papà che non capisce un cazzo”. Ecco Mario Draghi il nostro Presidente del Consiglio è rimasto orfano all’età di 14 anni. Lo stato del giornalismo italiano #Travaglio #vergogna 

DA ansa.it il 23 luglio 2021. Appreso l'esito del sorteggio dei tabelloni del judo, in cui nella categoria dei 73 kg avrebbe quasi sicuramente dovuto affrontare, nel secondo turno, un avversario israeliano, Tohar Butbul, l'algerino Fethi Nourine ha annunciato che si ritira dai Giochi di Tokyo. Lo ha poi confermato il suo tecnico Amar Ben Yekhlef. "Non abbiamo avuto fortuna con il sorteggio - il commento di Yekhlef -. Il nostro judoka Fethi Nourine avrebbe dovuto affrontare un avversario israeliano, e questo è il motivo del suo forfait. Abbiamo preso la decisione giusta".

Federico Capurso per "la Stampa" il 27 luglio 2021. Difficile dire che la carriera di Mario Draghi sia stata favorita dalla sua famiglia. La salita, anzi, inizia quasi subito. La madre è farmacista, il padre lavora in Banca d'Italia, e questo gli evita di vivere un'infanzia segnata dal disastro economico dell'Italia del dopoguerra. Cresce nel quartiere romano dell'Eur, tra i grandi viali alberati e i palazzi bianchi di travertino, simboli del razionalismo fascista, insieme al fratello Marcello e alla sorella Andreina, di poco più giovani di lui. E con loro, viene mandato a studiare già dalle elementari nel vicino istituto dei gesuiti Massimiliano Massimo, dove resterà fino al diploma. Ben presto l'istituto gesuita diventa quasi una seconda casa e quell'ambiente lo aiuterà - per quanto possibile - a fronteggiare la perdita del padre a 15 anni e, quattro anni più tardi, quella della madre. «Il fatto di cui mio padre stesso era preoccupato - ricorda Draghi - era che lui fosse nato nel 1895. Ho avuto il privilegio di confrontarmi con una persona che veniva da una generazione lontana, ma non è durato a lungo». I drammi Due avvenimenti dilanianti, eppure «i giovani sono così - prova a raccontarsi oggi Draghi, schermendosi -, reagiscono d'istinto alle avversità, e a quello che gli succede si oppongono senza bisogno di pensarci. Questa capacità li salva dalla depressione, anche in situazioni difficili». Perdere il padre in una famiglia degli anni Sessanta è una questione anche più seria di quanto non lo sia oggi. La zia aiuterà la madre con i fratelli più piccoli, ma la figura del capofamiglia è ancora un'istituzione legata indissolubilmente alla figura maschile. Sulle sue spalle gravano così responsabilità che stravolgono ogni spensieratezza e l'attuale premier ne offre un esempio, in uno dei rari scorci di quel dramma che la sua riservatezza non ha tenuto oscurato: «Ricordo che a sedici anni, al rientro da una vacanza al mare con un amico, lui poteva fare quello che voleva, io invece trovai a casa ad aspettarmi un cumulo di corrispondenza e di bollette da pagare». Ad aspettarlo una volta tornato dalle vacanze estive, ogni anno, c'è anche il preside dell'istituto Massimo, padre Franco Rozzi. Una figura «di autorità indiscussa», come lo descrive lo stesso Draghi, a cui il futuro presidente della Bce si legherà con forza: «Erano anni in cui si passava molto tempo a scuola. Gli incontri con padre Rozzi erano frequenti, da quelli con contenuti prevalentemente disciplinari - purtroppo frequenti nel mio caso - a quelli in cui voleva essere informato dell'andamento scolastico». Il suo messaggio educativo, riconosce Draghi, «ha inciso in profondità. Diceva che la responsabilità di compiere al meglio il proprio dovere non è solo individuale, ma sociale; non solo terrena, ma spirituale». Gli anni dello studio Ci sono anche i compagni di scuola, come Luca Cordero di Montezemolo che ne tratteggia un profilo da studente modello: «Non era mai spettinato, mai trasandato. Seduti nei banchi dietro il suo, noi cercavamo di trovare almeno un dettaglio fuori posto nei suoi capelli o nei vestiti, ma lui era sempre impeccabile e curatissimo». A Draghi, però, non piace la descrizione da secchione: «Non mi sono mai considerato il migliore. Andavo a scuola perché mi ci mandavano». L'educazione gesuita segna la formazione di Draghi. L'insegnamento inculcato nelle ore di studio e di preghiera, che ancora oggi ricorda, è che «le cose andavano fatte al meglio delle proprie possibilità, che l'onestà era importante e soprattutto che tutti noi in qualche modo eravamo speciali. Non tanto perché andassimo al "Massimo", ma speciali come persone umane». Una volta uscito dall'istituto, si iscrive all'università La Sapienza. E la scelta della facoltà è semplice: «Quando da piccolo tornavo a casa da scuola, la sera, con mio padre parlavamo spesso di argomenti economici. Sapevo già cosa volevo studiare all'università». In quegli anni, l'Italia è scossa dalle sollevazioni studentesche del '68. Draghi porta i capelli più lunghi di quanto non fossero al liceo, «ma non troppo», puntualizza lui tra il serio e il faceto. E comunque, aggiunge, «non avevo genitori a cui ribellarmi». Studia, invece, per laurearsi nel 1970 sotto la guida dell'economista keynesiano Federico Caffè con una tesi intitolata "Integrazione economica e variazioni dei tassi di cambio". Arrivano subito delle offerte di lavoro, ma dal legame con Caffè, che ne coglie le potenzialità, nasce l'opportunità di un dottorato negli Usa, su invito del professor Franco Modigliani, al prestigioso Mit di Boston, dove si trasferisce con la moglie. Il problema è che la borsa di studio copre solo la retta e l'affitto: «Per fortuna però il Mit aiutava gli studenti con incarichi di insegnamento pagati - ricorda Draghi -. Più avanti, dopo la nascita di mia figlia, trovai lavoro in una società informatica a settanta chilometri da Boston». E da lì, solo da lì, la strada inizia a essere in discesa.

Marco Travaglio per il "Fatto quotidiano" il 27 luglio 2021. Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. L'altra sera ho accolto l'invito alla festa di Articolo 1 e, intervistato da Chiara Geloni, ho risposto addirittura alle sue domande. E il pubblico ha osato financo applaudire. Apriti cielo. La Lega ha chiesto le dimissioni di Speranza (giuro), il quale ha dovuto precisare che, quando parlo io, non è lui che parla (ri-giuro). Una domanda riguardava una frase di Speranza sull'estrazione sociale dei ministri del Conte-2, quasi tutti figli del popolo, diversamente da quelli che contano nel governo Draghi: tutti figli di papà, cioè del solito establishment, a cominciare dal premier, rampollo di un dirigente di Bankitalia, Bnl e Iri. La consueta combriccola di spostati, falliti e leccapiedi che bivacca sui social ne ha dedotto che ho offeso la memoria dei suoi genitori prematuramente scomparsi, dunque secondo Rep avrei fatto "una gaffe". Per dire com'è messa questa gente. Un'altra domanda riguardava la diceria, molto in voga fra i leccadraghi, sui Migliori discesi dall'empireo per salvarci dal "fallimento della politica". Siccome dissentivo, pensando che fosse ancora lecito, ho ricordato qualche "Migliore": Brunetta, Gelmini, Cingolani, Cartabia. E ho aggiunto che Draghi è un ex banchiere esperto di finanza, ma non ha la scienza infusa e i suoi atti dimostrano che non capisce una mazza di giustizia (solo ora lui e la Cartabia scoprono cosa c'è scritto nella loro "riforma" e quali catastrofi ne seguiranno), di politiche sociali (licenziamenti subito, nuova Cig chissà quando, Fornero consulente) e di sanità. Uno che fa un decreto per obbligare gli psicologi a vaccinarsi, pena il divieto di esercitare, e poi li cazzia perché si vaccinano; uno che sospende Astrazeneca mentre Ema e Aifa dicono che è sicuro e tre giorni dopo revoca la sospensione perché Ema e Aifa ri-dicono che è sicuro; uno che si fa la prima dose con AZ, prescrive il richiamo omologo per gli over 60 e poi, a 73 anni, si fa l'eterologo perché "ho gli anticorpi bassi" (in base a un test che gli scienziati ritengono farlocco); uno che vieta per decreto gli assembramenti e poi, previa trattativa Stato-Bonucci, autorizzai calciatori a violare il suo decreto con un mega-assembramento perché "con quella Coppa possono fare ciò che vogliono"; uno che pensa di convincere i No Vax a vaccinarsi dando loro degli assassini; ecco, uno così non mi pareva un grande esperto di vaccini. Ma l'unanime sdegno per la duplice lesa maestà, manco avessi detto "figlio di Tiziano", mi ha fatto ricredere: Egli è onnisciente e, a dispetto delle biografie, non è nato ai Parioli, ma a Betlemme, in una mangiatoia. 

LE FARNETICAZIONI DI MARCO TRAVAGLIO CONTRO IL PREMIER MARIO DRAGHI. Il Corriere del Giorno il 27 Luglio 2021. Matteo Renzi si sofferma soprattutto sulla definizione di “figlio di papà”: “Le parole offensive e deliranti di Marco Travaglio su Draghi, orfano di padre all’età di 15 anni, dimostrano come il direttore del Fatto Quotidiano sia semplicemente un uomo vergognoso”, spiega l’ex premier su Facebook. L’oggetto della polemica è stato un passaggio in cui Travaglio dal palco della festa di Articolo Uno a Bologna difende il precedente Governo e Giuseppe Conte. Parte dalla premessa che anche loro hanno commesso degli errori. E che lui li ha sempre elencati. Poi dice: “Non li hanno mandati via per i loro errori. Li hanno mandati via per i loro meriti. E hanno messo al loro posto l’esatta antitesi. Un figlio di papà, un curriculum ambulante, uno che visto che ha fatto bene il banchiere europeo ci hanno raccontato che quindi è competente anche in materia di giustizia, sanità, vaccini. Ma, mentre, mi dispiace dirlo non capisce un cazzo di giustizia, sanità o sociale. Capisce di finanza”. La definizione “Un figlio di papà” usata da Marco Travaglio per definire Mario Draghi ha scatenato un fuoco di polemiche che finisce per dividere la maggioranza. Il senatore Pd Andrea Marcucci sottolinea il passaggio in cui Travaglio definisce Draghi “un curriculum ambulante”: “Draghi non deve certo vergognarsi del suo curriculum, della sua competenza e della sua storia familiare.  A vergognarsi deve essere il solito Travaglio, che ha usato parole indegne”. Draghi, come scrive Aldo Cazzullo, infatti “a 15 anni ha perso il padre, Carlo, uomo di incarichi pubblici: in Bankitalia, liquidatore con Donato Menichella della Banca di Sconto, in Bnl nel dopoguerra. Poco dopo è mancata anche la madre. Draghi ha dovuto fare il capofamiglia, prendersi cura dei fratelli minori: Andreina, la storica dell’arte che nel 1999 ha scoperto a Roma un ciclo di affreschi medievali nel complesso dei Santi Quattro Coronati; e Marcello, oggi piccolo imprenditore”. Matteo Renzi si sofferma soprattutto sulla definizione di “figlio di papà”: “Le parole offensive e deliranti di Marco Travaglio su Draghi, orfano di padre all’età di 15 anni, dimostrano come il direttore del Fatto Quotidiano sia semplicemente un uomo vergognoso”, spiega l’ex premier su Facebook. Il capogruppo di Italia Viva al Senato, Davide Faraone, invita il ministro Roberto Speranza, leader di Articolo Uno, a prendere le distanze da Travaglio. “Le scuse di Travaglio non arriveranno mai, ma una cosa è leggere le volgarità sul suo giornale, che è già dura prova di resistenza umana, altra cosa è ascoltare queste parole dal palco di un partito che sta al governo proprio con Draghi e ciò – sottolinea Faraone – è francamente inaccettabile. Per non dire disgustoso. Forse le scuse dovrebbero arrivare proprio da chi siede accanto al presidente del Consiglio”. Un appello che Speranza raccoglie poco dopo: “L’uscita di Marco Travaglio sul presidente del Consiglio Mario Draghi è infelice e non rappresenta certo il punto di vista di Articolo Uno che sostiene convintamente la sua azione di governo”. Alcuni esponenti di Articolo Uno, però, sui social, hanno puntualizzato che negli spazi di dibattito è lecito esprimere il proprio pensiero. “Travaglio ha presentato un libro con il suo punto di vista, non diciamo a nessuno cosa dire e non dire”, ha ricordato Arturo Scotto. Per la Lega la precisazione del ministro non basta. “La presa di distanze di Speranza dai pesantissimi insulti rivolti da Travaglio a Draghi è quasi peggio degli insulti stessi. Domandiamo a Speranza che senso abbia stare al governo se i suoi applaudono convinti agli insulti del direttore del Fatto. Si dimetta”, ha commentato il vice segretario della Lega Lorenzo Fontana. La Lega attacca per bocca dei capigruppo Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo: “È vergognoso che la platea di un partito di governo applauda apertamente un giornalista che insulta beceramente e volgarmente Mario Draghi. Travaglio si vergogni per le sue parole e lo stesso Speranza dovrebbe quantomeno riflettere sul suo ruolo. A questo punto infatti Articolo Uno decida se sostenere il governo oppure no”. Travaglio in serata è stato contattato dall’ agenzia ADN KRONOS per commentare le critiche e le aspre polemiche sollevate sui social, dopo l’epiteto di “figlio di papà” affibbiato al premier Mario Draghi? “Non me ne frega niente” è stata la squallida risposta di Marco Travaglio, direttore del ‘Fatto Quotidiano‘, che poi chiosa: “Come diceva Arthur Bloch, non discutere mai con un idiota: la gente potrebbe non notare la differenza…“ E non, caro Travaglio in questo caso la gente sa riconoscere il perfetto idiota, che non è sicuramente il premier Draghi, ma bensì un “montato” che lavora e mangia grazie ai soldi ricevuti in prestito con la garanzia fidejussioria del Governo Italiano.

Dagospia il 27 luglio 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Travaglio ha sbagliato due volte, la prima a definire Draghi figlio di papà la seconda, come ha spiegato Chiara Geloni che lo intervistava, “nel volerlo confrontare con l’estrazione di Conte”. Ecco, Conte è passato in quattro anni – e con quasi le stesse pubblicazioni – da cultore della materia a professore ordinario, secondo i peggiori schemi non meritocratici dell’università italiana: se la scelta è tra figli di papà e figliocci di baroni non si sa di che morte morire! Quanto ai giornalisti indignati, che di parentele se ne intendono, vale il detto latino: Aut tace aut loquere meliora silentio: vero Francesco Merlo (che lavoro fa suo nipote?), vero Chiara Geloni (che lavoro faceva suo padre? L’operatore ecologico?) Lettera firmata

Da “la Repubblica” il 27 luglio 2021. Caro Merlo, «Mario Draghi è un figlio di papà che non capisce un cazzo di sanità, di sociale, di vaccini». Marco Travaglio, che partì dal vaffa di Grillo, ogni giorno supera un limite. Giorgio Villano - Milano

Il turpiloquio e l'insulto, che di Marco Travaglio sono il codice abituale di caricatura e di sbraco, sono segni di debolezza e non di forza, scorciatoie del pensiero per mancanza di argomenti, una prosa torva che, ha ragione caro Villano, ha perso anche la misura della dismisura lessicale degli esordi, quella del vaffa. È però pensiero comico-confusionale quel «figlio di papà» a un uomo di 73 anni che ha perso il padre quando ne aveva 15 e la mamma quando ne aveva 16, e tuttavia ha fatto la carriera che tutti sappiamo, non al Circolo Canottieri. Figli di papà sono i giovinastri che vivono di rendita e di cognome. I primi che mi vengono in mente sono Davide Casaleggio e Ciro Grillo. E potrei continuare. 

Travaglio non si scusa: nuovi insulti a Draghi. Luca Sablone il 27 Luglio 2021 su Il Giornale. Il direttore del Fatto rincara la dose: "Non capisce una mazza né di giustizia né di sanità, ma lui è onnisciente". E fa pure il simpatico: "È nato a Betlemme in una mangiatoia". Evidentemente Marco Travaglio non è sazio e ci tiene a punzecchiare costantemente il lavoro svolto da Mario Draghi e da molti ministri della squadra di governo. Le critiche e i dissensi sono ovviamente leciti e legittimi, ci mancherebbe. Ma nelle scorse ore il direttore de Il Fatto Quotidiano si è spinto oltre e ha definito il presidente del Consiglio "un figlio di papà", ignorando forse che è rimasto orfano sia di padre sia di madre in giovanissima età. Le considerazioni si sono fatte poi pesanti, accusando il capo dell'esecutivo di non capire "un c... né di giustizia, né di sociale, né di sanità". E adesso il giornalista ha voluto rincarare la dose, non facendo mezzo passo indietro e utilizzando anzi toni ironici per tentare di uscire fuori dalla bufera che ieri si è creata.

Travaglio rincara la dose. Così Travaglio ha intitolato il suo pezzo di oggi "Il piccolo fiammiferaio", commentando le reazioni politiche scaturite in queste ore. "Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa", è stato l'esordio del suo articolo. Il direttore del Fatto ha ricostruito il tutto: ha accettato l'invito a intervenire alla festa di Articolo uno, ha risposto alle domande di Chiara Geloni e ha ricevuto applausi dalla platea presente dopo le parole al veleno verso Draghi. Oggi ha rivendicato quanto detto in precedenza: i ministri di questo governo sono "tutti figli di papà, cioè del solito establishment, a cominciare dal premier, rampollo di un dirigente di Bankitalia, Bnl e Iri". E ha additato la "consueta combriccola di spostati, falliti e leccapiedi che bivacca sui social" di aver travisato il senso del suo discorso e di averlo interpretato come un insulto alla memoria dei suoi genitori prematuramente scomparsi.

"Adesso si dimetta". Scoppia la bufera su Speranza. Il giornalista ha voluto nuovamente ribadire che il presidente del Consiglio "è un ex banchiere esperto di finanza", ma che "non capisce una mazza di giustizia, di giustizia sociale e di sanità". Travaglio ha portato a sostegno della sua tesi esempi come il compromesso sulla riforma della giustizia, lo sblocco dei licenziamenti e il ritorno della Fornero. Poi ha fatto il simpatico e ha scritto che l'unanime sdegno per la duplice lesa maestà lo ha fatto ricredere: "Egli è onnisciente e, a dispetto delle biografie, non è nato ai Parioli, ma a Betlemme, in una mangiatoia".

"Non è esperto di vaccini". Travaglio ritiene che Draghi non sia un "grande esperto di vaccini". È probabile che il giornalista senta la mancanza dell'era targata Giuseppe Conte e Domenico Arcuri, ma ora deve farsene una ragione: a Palazzo Chigi c'è Mario Draghi e a gestire la campagna di vaccinazione c'è il Generale Francesco Paolo Figliuolo. Sono diverse le accuse mosse nei confronti del premier: il decreto per obbligare gli psicologi a vaccinarsi "e poi li cazzia perché si vaccinano"; il divieto di assembramento "e poi, previa trattativa Stato-Bonucci, autorizza i calciatori a violare il suo decreto con un mega-assembramento"; il tentativo di convincere gli italiani a vaccinarsi "dando loro degli assassini".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC.

Da liberoquotidiano.it il 27 luglio 2021. Tweet muto di Guido Crosetto. In effetti non servono parole. Il "fratello d'Italia" ha pubblicato una foto di Gad Lerner della rivista Oggi in cui è in vacanza con Carlo De Benedetti e rispettive consorti. Più sotto c'è il cinguettio di Gad Lerner in difesa di Marco Travaglio che domenica sera 25 luglio, durante la festa di Articolo Uno a Bologna ha insultato il premier Mario Draghi, un "figlio di papà" che, testuale, "non capisce un c***o". E chissenefrega se è orfano dall'età di 15 anni e se ha il curriculum che ha. Tant'è. Gad Lerner ha scritto un post che recita così: "Che Mario Draghi abbia un profilo tecnocratico-padronale è all'evidenza di tutti. E risalta nello zelo degli adulatori di ogni risma che si fingono indignati con Marco Travaglio. Li ringrazio perché oggi mi fanno sentire ancor più contento di scrivere sul Fatto quotidiano". No comment, verrebbe da dire. Ma il popolo social commenta eccome. "La sinistra da scarpe amatoriale fatte a mano da pseudo operai sottopagati ahhh con Rolex al polso su camicia... La sinistra da Unità in tasca la domenica, dove è?", scrive uno. "Avere un profilo tecnocrate padronale é uno dei pochi modi per governare con una classe politica impreparata, inetta, scialacquatrice di denaro pubblico, ignorante, che pensa solo nel breve periodo e al collegio elettorale", aggiunge un altro. "Comunisti col rolex", si legge ancora. Insomma, Travaglio sbaglia e Gad Lerner lo difende. "Un figlio di papà, un curriculum ambulante, uno che visto che ha fatto bene il banchiere europeo sarebbe competente anche in materia di sanità, di giustizia, di vaccini eccetera. Invece mi dispiace dirlo che non capisce un c***o, né di giustizia né di sociale né di sanità. Capisce di finanza ma non ha la scienza infusa. E non ha neanche l'umiltà", aveva attaccato il direttore del Fatto. Secondo il quale era meglio, manco a dirlo, Giuseppe Conte. Per Lerner, ovviamente, ha ragione.

Intellettuali e politici inghiottiti dal travaglismo. Travaglio e Scanzi sono diventati gli oracoli di una sinistra sciagurata. Michele Prospero su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Più che i liquami di Travaglio, che piovono senza fermarsi mai e tornano sempre in faccia al mittente, conta il luogo in cui le parole contro Draghi che “non capisce un cazzo perché è figlio di papà (Draghi è rimasto orfano da ragazzino, ndr)” sono state pronunciate. Che “Articolo uno” trasformi la sua festa bolognese in una passerella di Travaglio, Scanzi è un piccolo evento che dimostra come un’area politica un tempo rilevante sia ormai perduta alla prospettiva di una sinistra autonoma. Quel materiale grigiastro che il Fatto riversa contro Mattarella, Cartabia, Draghi è da tutti annusato come maleodorante e però che il movimento di D’Alema e Bersani decida di affidare il posto d’onore proprio al foglio della rivolta anti-sistema è un accadimento politico. Questa volta la massiccia campagna dei giornali più vicini ai (contro)poteri politico-giudiziari dovrebbe sortire come effetto non già l’alterazione degli equilibri politico-elettorali (come è accaduto in passato quando proprio Bersani fu indotto anche dalle “inchieste” del Fatto alla non-vittoria) ma l’aggregazione subalterna del Pd e dei vari cespugli nello schieramento a traino di Conte. La tenaglia che stringe il Pd è troppo forte perché sia spezzata da un partito così fragile nella cultura politica. E poi proprio quei settori prima interni al Pd e ora a lato di esso, che in nome dell’autonomia della politica si mostravano in passato refrattari a forme di giustizialismo antipolitico, ora si ritrovano in prima fila nel guidare la confluenza strategica della fu sinistra sotto la leadership di Conte. Del resto i toni del dibattito politico sono accesi sino all’inverosimile. Uno studioso del mondo classico come Luciano Canfora non ha remore critico-filologiche ad accostare Draghi al dispotismo di Stalin e alla sua “concentrazione di potere assoluto, monarchico”. A suo dire, questo insopportabile autocrate contemporaneo oggi arbitrariamente al governo in Italia, “potrebbe pensare di sistemare la Cartabia al Quirinale e tenersi palazzo Chigi. O fare l’inverso”. Il potere si configura come una cosa, un pacco postale da piazzare, un oggetto da spostare, un bene da dare in affidamento. Uno scolaro di Rodotà, il giurista Ugo Mattei, si sente a casa propria sotto le bandiere di Forza Nuova perché bisogna insorgere contro “le verità di sistema” e quindi contro il governo Draghi che è “la quintessenza di una visione autoritaria e ricattatoria del potere tecnocratico”. Questo accade nella élite intellettuale della sinistra. E nel popolo? Sembra che le invettive di Travaglio contro “Draghi figlio di papà” siano state accolte, tra qualche timido mugugno, con una ovazione delle persone presenti. Aristotele scriveva che l’essenza della retorica si racchiude sempre nella questione del destinatario. E il pubblico che reagisce con gesti di grande approvazione alle metafore di Travaglio rivela come sia degradato lo stato della cultura politica di massa. Se si aggiungono anche le incredibili proteste di Landini sull’obbligo di vaccino, e quindi contro la tutela pubblica della salute operaia in fabbrica, si ha la percezione di uno sviamento preoccupante della sinistra politica e sociale. Se attorno alla tregua tecnica, che ridisegna le condizioni della ripartenza del meccanismo capitalistico da trent’anni inceppato, il sistema dei partiti è lasciato al suo stato di fluidità non ci sono concrete speranze: rispetto alle flebili istanze di una ragione impotente, il populismo coltiva passioni e anche regressioni più forti. E facendo leva su pulsioni elementari esso è capace di riacquistare baldanza dopo l’illusione di un accantonamento momentaneo della fuga nella irrazionalità. Alla ricerca di un Conte perduto, e con la volontà di potenza raccolta nel tavolino attrezzato davanti a Palazzo Chigi nel giorno dell’abbandono, i partiti di centro-sinistra non tengono in considerazione la sola verità che Grillo ha sinora pronunciato e cioè che l’avvocato è un assoluto nulla. Il Pd e i suoi satelliti sono rassegnati a prendere una vacanza sudamericana (sussidi nella decrescita, ozio creativo nella de-industrializzazione, giustizialismo) e non sono in grado di costruire un supporto politico indispensabile a Draghi che procede con risolutezza ma senza una organica forza coalizionale. Il segretario venuto da Parigi non ha la capacità, e neppure l’intenzione, di fare da regista alla definizione di un nuovo centro-sinistra che assuma proprio l’opera di Draghi come fondativa. Vaga senza un progetto dietro un Conte disarcionato e da tempo mostra preoccupanti segni di irrilevanza. Tutto diventa palpabile quando con il tempo affiora l’inconsistenza di tutte le sue proposte che si dileguano perdendosi nel chiacchiericcio di un tweet. ll Pd e i suoi cespugli, inghiottiti dalla (anti) politica-rancore di Conte, sono destinati alla celere marginalizzazione. Non hanno la forza e il pensiero per riprogettare le funzioni dei soggetti della politica dopo la discontinuità qualitativa che Draghi ha immesso nella vicenda politica, sociale e istituzionale. Questo è un vuoto che per la prima volta si presenta in forme così eclatanti. Fa tristezza la notizia di una sinistra sia pure minore che pende dall’oracolo di Travaglio. Michele Prospero 

La polemica. Marco, che Travaglio: il figlio di papà divide a metà la rete. Piero de Cindio su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Marco Travaglio ne combina una nuova accusando il Premier Draghi di essere un figlio di papà. Peccato però che la rete ha impiegato poco nello scoprire che l’ex presidente della BCE sia orfano dalla tenera età adolescenziale. Tanti i commenti indignati verso il direttore del Fatto, a cui però sono giunti in soccorso il conduttore Luca Telese ed il Professore Tommaso Montanari che hanno provato a giustificare la dichiarazione che ha destato molto scalpore. A fare da contorno a tutto il resto è certamente il fatto che le parole offensive di Travaglio nei riguardi del Premier e della sua famiglia benestante sono arrivate dal palco della festa di Articolo 1 dove un imbarazzato ministro Speranza ha dovuto prendere le distanze dall’invitato scomodo. Nel giro di poche ore, il data journalist Livio Varriale ha analizzato 18.409 tweets che hanno imperversato sul social del cinguettio ed il risultato dell’indignazione non sarebbe così scontato.

Top Tweets

“La dichiarazione di Travaglio è stata forte ed ha contribuito nel far parlare una festa anonima ed irrilevante giornalisticamente parlando come quella di Articolo 1” Esordisce l’autore della ricerca “Renzi ha avuto la sua occasione per andare addosso al suo nemico storico e sorprende anche la posizione di Lapo Elkann. Bene i giornalisti Ederoclide e Capone che hanno evidenziato il fatto che fosse rimasto orfano da quando era 14 enne”. 

Sentiment draghi

Dei Tweets analizzati tramite il sentiment, c’è però un dato che preoccupa e non poco e precisamente quello che il pubblico è nettamente indeciso se appoggiare uno o l’altro. “Le ragioni di Travaglio indignano, ma Draghi non riscuote la giusta considerazione dalla massa interessata alle questioni politiche. Sui 9.313 tweets analizzati contenenti la parola Draghi e figliodipapa, solo il 54,87 per cento è positivo, contro il 45 per cento di commenti che danno ragione a Travaglio. 

Travaglio Montanari Telese

Bisogna riconoscere a Travaglio che fuori dalle bolle di moderati, liberisti e amanti del politicamente corretto, c’è uno zoccolo duro che non apprezza Draghi e ne chiede le dimissioni. “certo è che il campione è ristretto al popolo dei social, ma analizzando bene la composizione, c’è una congiunzione di elettori della lega, Fratelli d’Italia e ovviamente nostalgici del Movimento Cinque Stelle che fu”. Sui 6.906 tweets che coinvolgono il tris degli “alternativi” Travaglio, Telese e Montanari, la massa social si è spaccata mostrando una leggera positività per le posizioni contro il premier. 

Articolo Uno

Nel mentre il pubblico si scontra sulle dichiarazioni di Travaglio, chi ne esce peggio di tutti, su un campione limitato di tweets che marginalmente hanno interessato, è Articolo 1. Travaglio è un ospite di successo per animare una festa, ma non il festeggiato. 

Piero de Cindio. Esperto di social media, mi occupo da anni di costruzione di web tv e produzione di format

La gaffe alla festa di Articolo Uno. Travaglio si scaglia contro Draghi ma resta solo: Conte tace e "a mezzo Casalino" smentisce il Fatto. Claudia Fusani su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Gli ci vorrebbe un convento senza connessione wifi, “chiuderli” lì dentro tre giorni e chiarire con ciascuno, uno per uno dei 270 parlamentari 5 Stelle, cosa vogliono fare da grandi. E poi tirare la riga e scrivere il risultato, favorevoli o contrari. Avanti con Draghi o basta con Draghi. Gli ci vorrebbero tre giorni così a Giuseppe Conte per vedere di capirci qualcosa nel suo Movimento. Gli ci vorrebbe, anche, di chiarire bene i suoi rapporti con Marco Travaglio e Il Fatto Quotidiano: solo il giornale di riferimento o il direttore di quel giornale ne è anche la vera cabina di regia? Perché in entrambi i casi Conte deve chiarire il suo pensiero rispetto a quanto è uscito di bocca al direttore de Il Fatto domenica sera alla Festa di Articolo Uno: «Draghi è un figlio di papà che non capisce un cazzo». Che detto di un banchiere rimasto orfano di entrambi i genitori a vent’anni e che, cresciuto con gli zii, ha scalato prima Banca d’Italia e poi la Bce, è non solo informazione tecnicamente sbagliata (dunque grave che sia detta in pubblico) ma eticamente volgare, violenta, cattiva. Di sicuro Giuseppe Conte ha smentito il titolo de Il Fatto di domenica mattina: “O si cambia (la riforma della giustizia, ndr) o leviamo la fiducia”. Era ancora notte fonda quando Rocco Casalino ha scritto una nota per smentire tutto visto che «Conte non ha mai parlato». Ma certe smentite valgono più di altrettante conferme. È la settimana della verità (e quante ne abbiano contate in questi lunghissimi tre anni). Per il Movimento, soprattutto. La cartina di tornasole è la riforma del processo penale. Martedì 20 luglio sono piovuti sul tavolo mille e seicento emendamenti. Giovedì 22 Draghi ha chiesto al governo, ottenendola, la fiducia preventiva. L’arrivo del decreto è slittato dal 23 al 30 luglio. Tutti ad aspettare che i 5 Stelle trovino la giusta mediazione grazie alle doti maieutiche dell’avvocato di Volturana Appula Giuseppe Conte. Che deve produrre il non facile risultato entro questa settimana. Una delegazione sta trattando direttamente con la ministra della Giustizia Marta Cartabia, ne fanno parte la sottosegretaria Anna Macina, vicina a Di Maio e da annoverare tra le “trattativiste”, e la capogruppo in Commissione Giulia Sarti, pasdaran della linea Bonafede, l’ex ministro che non ne vuole sapere di retrocedere di un millimetro rispetto alla sua riforma che non ha abbreviato di un solo giorno i processi (l’Europa ci chiede di ridurre i tempi del 25% rispetto a quelli attuali) e ha introdotto il “fine processo mai”, cioè la prescrizione bloccata. Conte a partire da domattina ha deciso di incontrare per tre giorni tutti i parlamentari divisi per tematiche (e commissioni) per provare a scogliere i tanti nodi che si sono creati in questi sette mesi di sostanziale anarchia all’interno del Movimento. Il non-detto che invece emergere di continuo è «uscire dalla maggioranza pur di difendere una pietra miliare del Movimento: la prescrizione Bonafede». Parcheggiato nel frattempo Grillo, si può dire che il Movimento segua una linea di frattura precisa. C’è la linea Travaglio per cui o tutto resta così com’è perché la riforma Cartabia «è una schiforma che manda al macero 150 mila processo tra cui anche quelli per mafia» oppure tanto vale uscire dal governo di uno che «non capisce un cazzo». Attenzione però: uscire dal governo non vuole dire chiudere la legislatura (punto su cui Travaglio si troverebbe solo) ma solo uscire e mandare avanti il governo Draghi che tanto i numeri li ha comunque. Sarebbe la pacchia suprema per Travaglio & soci: poter sparare ogni giorno a palle incatenate contro la maggioranza Pd-Forza Italia-Lega e responsabili vari. C’è poi la linea Di Maio e governisti dove il mantra è “mediare”. Anche ieri pomeriggio il ministro degli Esteri, che ha già avuto un ruolo chiave nel superamento della crisi Conte-Grillo, ha ribadito la strada da seguire. «Confido molto in Giuseppe Conte che ha la mia totale fiducia e dobbiamo lavorare tutti insieme per rafforzare la sua leadership. Sono certo che troverà una soluzione all’altezza delle nostre aspirazioni: evitare che i reati di mafia restino impuniti e restare uniti perché diversamente siamo più deboli». Quello del titolare della Farnesina è un appello contro le divisioni interne e le bandierine ideologiche. È evidente che la ministra Cartabia non vuole sacche di impunità meno che mai in quel territorio largo, fatto anche di microreati, dove ingrassano le mafie. Ed è altrettanto evidente che è propaganda attribuire alla riforma Cartabia simili conseguenze. Una settimana chiave. Ogni giorno la situazione si può sbloccare o saltare del tutto. Quella di ieri è sembrata ma non è una giornata persa. La Commissione Giustizia, che deve valutare gli emendamenti e dare un ordine ai lavori prima dell’aula, non ha nei fatti lavorato. Tutto rinviato a oggi. Anche la provocazione di Forza Italia che di fronte ai 1600 emendamenti ha chiesto di «allargare il perimetro di intervento della riforma alla ridefinizione del reato di abuso d’ufficio». Contro il quale, tra l’altro, sono scesi in piazza decine e decine di sindaci. La Trattativa, quella vera, però va avanti al ministero della Giustizia. La partita è in mano a Conte. E a Travaglio. Da cui l’ex premier non ha preso le distanze, mentre ha fatto infuriare Italia viva, spingendo a intervenire in modo forse un po’ troppo blando il ministro della Salute Roberto Speranza – alla cui festa di partito è accaduto il fattaccio – che ha bollato come “uscita infelice” quella del giornalista. Non lo ha fatto per niente il Movimento 5 Stelle: non una parola a tutela della sostanza e dell’immagine del Presidente del Consiglio. Meno che mai lo ha fatto Conte. E certi silenzi valgono più di mille di dichiarazioni su presunte mediazioni.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Sono solo hooligans che invadono il campo. Conte dichiara guerra a Draghi, il rancore dell’azzeccagarbugli beniamino di Travaglio e protettore di Arcuri. Claudio Martelli su Il Riformista il 23 Luglio 2021. Premesso che il Csm non ha alcun titolo per giudicare atti del governo e del Parlamento, considerato che questo Csm è in balia delle correnti più politicizzate e più intrallazzone della magistratura e che a guidare la contestazione è un giurista di Catanzaro designato dai 5 Stelle ed esperto in diritto della navigazione ci si chiede: primo, se sia il caso di far intervenire la forza pubblica come accade negli stadi quando un tifoso squilibrato invade il campo di gioco; secondo, se questo sia il primo atto della guerriglia contro il governo Draghi di Conte Giuseppe il rancoroso azzeccagarbugli beniamino di Travaglio e protettore di Arcuri. Claudio Martelli

TRAVAGLIO? MA MI FACCIA IL PIACERE!  Dagospia il 4 febbraio 2021. BREVE SELEZIONE DELLE PROFEZIE DEL RASPUTIN DI CONTE COLTE SUL “FATTO QUOTIDIANO” SUL TEMA MARIO DRAGHI:

MA MI FACCIA IL PIACERE – 2 NOVEMBRE 2020. Il Covid alla testa. “Appena guarito ho sognato un governo di unità nazionale presieduto da Mario Draghi. Tra i suoi ministri, oltre ai capi dei partiti di maggioranza e opposizione, le più autorevoli e prestigiose personalità politiche e ‘tecniche’ di cui questo Paese dispone” (Massimo Giannini, Stampa, 1.11). Non bastava il Covid: pure gli incubi.

SCI-MUNITI – 24 NOVEMBRE 2020. Il Covid-19 ci ha regalato due ondate e, se tutto va male, a gennaio arriva la terza. Invece la cosiddetta informazione sforna un’ondata alla settimana. Ma non di virus: di cazzate. C’è la settimana del governo Draghi (la prima di ogni mese), quella del Mes (la seconda), quella del rimpasto, quella delle troppe scarcerazioni (colpa di Bonafede), quella delle troppe carcerazioni (colpa di Bonafede), quella del governo senza “anima”, quella di Conte che decide sempre tutto da solo, quella di Conte che non decide mai niente neanche in compagnia.

STORMIR DI FRONDE – 4 DICEMBRE 2020. La riforma del Mes, secondo alcuni addirittura peggiorativa di quel prestito-capestro per gli Stati in bancarotta, passerà comunque: FI o chi per essa, viste le pressioni europee, nel voto del 9 dicembre rimpiazzerà i dissidenti 5Stelle. Che così avranno ottenuto questo triplice risultato: screditare vieppiù il M5S, proprio mentre i poteri marci vogliono buttarli fuori da Palazzo Chigi e i giornaloni fanno a gara a demolire le loro conquiste (vedi le fake news del Corriere sul Reddito di cittadinanza); indebolire il governo Conte (di cui il M5S è l’azionista n.1 e che per questo è così inviso ai padroni del vapore); rafforzare il partito delle larghe intese e del governo Draghi all’insaputa di Draghi.

DRAGON BALL – 17 DICEMBRE 2020. Siccome se ne sentiva la mancanza, si riparla di governo Draghi, sempre all’insaputa di Draghi. È bastato che dicesse le solite frasi alla Catalano: guai ad aiutare “aree dove il mercato sta fallendo”, meglio “progetti utili”, “la sostenibilità del debito sarà giudicata da come verrà impiegato il Recovery”. E subito s’è levato il solito coro dei provincialotti con la bocca a cul di gallina e l’aria tra il rapito e lo svenuto che doveva avere Mosè sul Sinai dinanzi al roveto ardente. “Ripartire da Draghi si può”, “il monumentale rapporto Draghi” (rag. Cerasa, Foglio). “Sempre bello leggere Draghi” (l’Innominabile). “Le sue analisi sono una traccia” (Gelmini, FI). “Se Conte non ce la fa, c’è Draghi” (Nannicini, Pd). “Governo Draghi senza Bonafede, Catalfo e Azzolina” (Richetti-Chi? l’altro calendiano oltre a Calenda). “Il monito di Draghi, la visione che serve” (Messaggero). “Il 55% degli italiani preferisce Draghi per il Recovery” (Libero). “Draghi, serve sguardo lungo” (Fubini, Corriere). “Draghi, i partiti e la realtà urgente” (Folli, Repubblica). Insomma, il governo Draghi è fatto. Il programma è il suo intervento al Gruppo dei Trenta, l’allegro simposio di finanzieri, accademici, banchieri centrali, banchieri sfusi, bancarottieri di nazioni intere come l’ex ministro argentino Cavallo e l’ex presidente messicano Zedillo, insomma controllori e controllati (si fa per dire) e altri samaritani, fondato nel 1978 da Rockefeller, che si riunisce due volte l’anno a porte chiuse come il Gran Consiglio dei Dieci Assenti di fantozziana memoria. E la maggioranza in Parlamento? Quella non c’è, ma per i sinceri democratici de noantri è un trascurabile dettaglio. Il Giornale informa che “il Professore da qualche settimana ha lasciato la casa di campagna e s’è trasferito nel suo appartamento romano”. Mecojoni. E “il suo ufficio di rappresentanza alla Banca d’Italia è diventato la sua base operativa”. Apperò. Già ci pare di vederlo destreggiarsi festoso fra un veto dell’Innominabile, un distinguo di Orlando, un emendamento di Marcucci, una bizza della Bellanova, un capriccetto della Boschi, un tweet di Faraone, un ultimatum dei dissidenti grillini, un rutto di Salvini, una supercazzola di Giorgetti, un appuntino di Letta su Mediaset e un pizzino di Ghedini sulla giustizia. Folli però è in ambasce: “Stupisce che qualche forza politica non abbia immediatamente fatto propria e rilanciato l’analisi di Draghi”. Giusto: che aspettano i partiti tutti a recarsi in processione nel suo appartamento romano o nella sua base operativa a baciargli la pantofola e incoronarlo re? Folli non sta più nella pelle, tant’è che ha fatto pure un fioretto: se lo ascoltano, si taglia il riportino.

PULIZIE DI FINE ANNO – 27 DICEMBRE 2020. E il rimpasto? Sparito. E il governo Draghi? Mai visto. E il Mes che Conte e il M5S fingevano di non volere ma sotto sotto erano pronti a prendere di corsa? Mai preso.

MA MI FACCIA IL PIACERE – 28 DICEMBRE 2020. Tu scendi dalle stelle. “Il governo galleggerà, ma meglio un governo Draghi. Si può fare” (Paolo Mieli, Foglio, 22.12). “Il premier è un pirata. Conte usurpa i poteri di ministri e governatori. Un governo Draghi? Avrebbe autorevolezza” (Sabino Cassese, Libero, 22.12). “Il “modello italiano” ha fatto vittime e danni. Draghi? Ci può salvare” (Luca Ricolfi, sociologo, il Giornale, 27.12). “Una intera generazione di politici dovrebbe saper ricorrere a uomini di esperienza come Prodi e Draghi” (Marco Damilano, Espresso, 27.12). Draghi, Draghi, Draghi, paraponziponzipò.

CIAONE – 29 DICEMBRE 2020. Resta da decidere il premier. Draghi risponde: “Fossi matto”. E parte la mattanza fra i pretendenti, che sommati insieme non fanno un terzo di Conte nei sondaggi. Poi iniziano le ricerche di una maggioranza: uno spasso, visto che i 5Stelle si fanno incredibilmente furbi e non prestano all’ammucchiata un solo voto. Passano le settimane e l’Ue, stufa di aspettare il Recovery Plan, ci cancella la prima rata. Così Mattarella manda tutti a votare, tranne i leader che han causato la crisi, barricati in casa per paura del linciaggio. Conte, visti i sondaggi bulgari, è costretto a tornare in pista. Ma, anziché farsi un partito, accetta l’offerta di guidare il nuovo direttorio dei 5Stelle. E li riporta al 30%, rubando voti a destra, FI e Pd e mandando Iv sottozero, con una campagna elettorale di un solo slogan: “Ciaone”.

VOCABOLARIO 2021 (31 DICEMBRE 2020). Governo Draghi. Perché esista, occorre che l’attuale governo cada, che in Parlamento si formi una maggioranza disposta a votarne uno guidato da Draghi e soprattutto che Draghi accetti di guidarlo. Chi dice di stimare Draghi dovrebbe almeno chiederglielo, anziché nominare il suo nome invano per darsi un tono e fingere di esistere sulle e alle sue spalle.

PERCHÉ LO FA? (6 GENNAIO 2021) A Messer Due Per Cento han detto che Draghi non vede l’ora di mettersi al suo servizio. E lui ci ha creduto.

CONTE ALLA ROVESCIA (12 GENNAIO 2021) Noi ci ciucceremo per qualche mese un’ammucchiata con Pd, FI, Iv, Calenda e frattaglie poltroniste di Lega e M5S guidata dai premier preferiti dai giornaloni (Cottarelli, Cartabia, Amato, Cassese, robe così: Draghi non è fesso). Una sbobba talmente immangiabile che molta gente urlerà: “Ridateci Conte”. E lo costringerà a tornare in pista, come capo dei 5Stelle o di una lista al loro fianco. Allora sì che ci sarà da divertirsi. Perché si voterà prima che gl’italiani si scordino chi ha fatto cosa.

HO VISTO COSE… (21 GENNAIO 2021) Quelli che arriva il governo Draghi, anzi Cottarelli, anzi Cartabia, anzi Franceschini, anzi Di Maio, anzi Guerini (tutti i giornali) e invece niente, un’altra volta. Quelli che “il governo è morto e al Colle farò il nome di Draghi” (Innominabile) e neanche li han fatti salire, al Colle.

SÌ MA È ANCORA LUNGA (2 FEBBRAIO 2021) Tutte le chiacchiere e i fiumi di inchiostro sui governi Draghi, Cottarelli, Cartabia, Severino, Giovannini, Panetta, Fico, Di Maio, Patuanelli, Franceschini sono sprecati: la scelta del premier spetta al partito di maggioranza relativa, cioè ai 5Stelle, che l’han detto e ripetuto: “O Conte o andiamo all’opposizione”.

UN NO GENTILE MA NETTO ( 3 FEBBRAIO 2021) (…)  E meno male che non era una faccenda di poltrone. Ora, perché le cose non finiscano male con governissimi o altri orrori, basta che M5S, Pd e LeU siano coerenti e dicano un garbato ma fermo no all’ammucchiata del Colle e di Draghi, per salvare l’unica coalizione che può competere con queste destre: la via maestra è il rinvio di Conte alle Camere; e, in caso di sfiducia, il voto al più presto possibile. Di regali a Salvini & C. ne ha già fatti troppi il loro cavallo di Troia.

Marco Travaglio, insulti a Silvio Berlusconi: "Psiconano amico dei mafiosi. Il M5s si suicida a governare con lui". Libero Quotidiano il 05 febbraio 2021. A Marco Travaglio sta "sfuggendo di mano" il M5s. Insomma, dopo l'addio di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, dopo la cacciata del suo "preferito", il direttore è disperato e furibondo. Si diceva: i grillini. Sin dal principio, mister Fatto Quotidiano aveva chiesto di non appoggiare Mario Draghi. Il M5s sembrava seguirlo poi, ieri, giovedì 4 febbraio, la retromarcia introdotta da Luigi Di Maio. Nel nome della poltrona, ovviamente. Dunque oggi ecco il fondo di Travaglio, talmente disperato da "scordare" (si fa per dire...) Matteo Renzi e tornare ad insultare il nemico di sempre, l'uomo che lo ha ossessionato per una vita intera e contro il quale torna a vomitare livore nel momento per lui più duro. Chi? Silvio Berlusconi, ovviamente, protagonista assoluto della prima pagina del Fatto, il cui titolo di apertura recita: "Governare con lo psiconano?". Domanda ovviamente retorica e altrettanto ovviamente rivolta ai grillini. Nel suo fondo, Travaglio, premette: "Ci sono vari modi per suicidarsi: l'aspide, la cicuta, il gas, il cappio, il balcone, la finestra, il ponte, la clinica svizzera, i barbiturici, le vene tagliate nella vasca da bagno, il topicida, la pasticca di cianuro. Tutti tragici, ma rispettabili. Il meno onorevole è consegnarsi volontariamente al carnefice pensando o raccontando che così lo si migliora e lo si controlla. Eppure è la strada che, secondo indiscrezioni, pare abbiano scelto Grillo e parte dei 5Stelle poche ore dopo che i gruppi parlamentari che avevano deciso (a maggioranza ampia al Senato e più risicata alla Camera) di non appoggiare il governo Draghi". Insomma, per il direttore e "leader" grillino, i grillini si stanno suicidando. Come detto in premessa, a Travaglio sta "sfuggendo" il M5s. Dunque Travaglio aggiunge che il carnefice non è Draghi, ma "i carnefici sono i compagni di strada che si ritroverebbero accanto i 5Stelle con l'insano gesto. Draghi non è un drago sceso dal cielo che ripulisce, con un colpo di coda e di spugna, le lordure di un Parlamento pieno di voltagabbana, sciacalli e squali". Il direttore passa poi in rassegna quelle che definisce "le 4 alternative di Draghi". Che sarebbero: "Governo giallorosa-bis. Includerebbe M5S , Pd e LeU, che si ritufferebbero nelle grinfie dell'Innominabile, di nuovo decisivo, come se questi 17 mesi di sevizie non fossero bastati. Ammetterebbero che il problema era Conte (non una grande idea per chi lo vuole candidato premier). E ricomincerebbero a litigare su Mes, giustizia, reddito, bonus, autostrade ecc. Governo Ursula. Terrebbe insieme M5S , Pd, LeU, FI , Iv, Bonino e Calenda. "Tutta gente col pelo sullo stomaco abituata da anni a inciuciare e a far digerire di tutto ai rispettivi elettori (reali o virtuali), con un'eccezione: i 5Stelle", tromboneggia Travaglio, come se negli ultimi anni i grillini non avessero fatto digerire ai loro ormai pochi elettori tutto e il contrario di tutto. E dopo questa risibile tromboneggiata, ecco che Travaglio si gioca il jolly-Berlusconi. I grillini, scrive, "con tutti possono governare, fuorché col pregiudicato amico dei mafiosi e con l'irresponsabile che ha rovesciato Conte per espellerli dal consorzio civile, cancellare le loro riforme, sputare sulle loro bandiere, radere al suolo ogni loro traccia e spargervi il sale misto al veleno dei Calenda & Bonino". Certo, c'è anche Matteo Renzi di mezzo. Ma nel momento della disperazione, et voilà, ecco il Cavaliere, lo "psiconano", "pregiudicato", "amico dei mafiosi". Che miseria...

Otto e mezzo, Marco Travaglio fuori controllo: mani a megafono, l'insulto a pieni polmoni contro Silvio Berlusconi. Libero Quotidiano il 06 febbraio 2021. "Il tabù dei 5 Stelle si chiama Silvio Berlusconi". Marco Travaglio perde il controllo a Otto e mezzo, in collegamento con Lilli Gruber su La7. Il direttore del Fatto quotidiano mette le mani a megafono intorno alla bocca e grida contro il Cav: "È un PRE-GIU-DI-CA-TO! Nove volte prescritto, e loro sono caduti anche perché hanno bloccato la prescrizione dopo il primo grado. Ma te li vedi che fanno i ministri con gli uomini di Berlusconi che vogliono cancellare la riforma della prescrizione? Pensate veramente che la politica sia una pagliacciata a questi livelli?". Gli altri ospiti, Massimo Cacciari e Massimo Giannini, se la ridono e forse sospettano che il manicheismo di Travaglio non abbia troppo fondamento. "Dovranno trovare un altro modo per evitare la scissione, l'astensione o che ne so l'appoggio esterno. Ma se vedi i ministri dei 5 Stelle con i ministri di Berlusconi la gente gli sputerà in faccia molto più di quando hanno fatto il governo con la Lega", tiene duro Travaglio, agitatissimo dalla prospettiva. Il direttore della Stampa Giannini, però, avanza una semplicissima obiezione: "Hai ragione ma stanno per fare un governo con Draghi, che nella campagna elettorale del 2018 additavano come il nemico del popolo. Le cose cambiano, è triste ma cambiano". Travaglio ribatte: "Ma devi aggiungere che farebbero un governo con i due Matteo, Salvini che ha fatto cadere il Conte 1 per radere al suolo i 5 Stelle, e Renzi che ha fatto cadere il Conte 2 per radere al suolo i 5 Stelle. Se succede, i loro elettori gli sputerebbero in faccia. Perché sarà strano, ma ci sono partiti che hanno ancora elettori".

Marco Travaglio l'ha presa bene: "Matteo Renzi? Crisi delinquenziale, invidioso allergico alla giustizia". Libero Quotidiano il 03 febbraio 2021. Ciao ciao, Giuseppe Conte. Fatto fuori. A casa. Cacciato. Niente più Palazzo Chigi. Arriva (forse) Mario Draghi. E secondo voi come la ha presa Marco Travaglio? Ecco, maluccio, per usare un'eufemismo. Un travaso di bile, quello firmato dal direttore del Fatto Quotidiano in prima pagina oggi, mercoledì 3 febbraio, il primo giorno dell'Italia senza il "suo" Conte". Furia cieca contro Matteo Renzi, un profluvio di insulti. Insomma, per Travaglio una spettacolare, godibilissima, crisi di nervi. Di cui vi diamo un piccolo assaggio. Di seguito, l'attacco del pezzo di Travaglio: "Non è vero che l'esplorazione di Fico sia stata totalmente inutile. Non ci ha ridato un governo, ma almeno ha spiegato fino in fondo a chi ancora avesse dubbi cosa c'era dietro la crisi più demenziale e delinquenziale del mondo scatenata da Demolition Man: al netto delle ragioni psicopolitiche, dall'invidia per la popolarità di Conte alla frustrazione per l'unanime discredito che lo precede su scala mondiale (Arabia Saudita esclusa), ci sono l'inestinguibile bulimia di potere, l'acquolina in bocca per i 209 miliardi in arrivo, la fame atavica di poltrone del Giglio Magico e la congenita allergia per una giustizia efficiente e uguale per tutti", scrive il direttore. Dunque, in breve sintesi. Crisi "demenziale e delinquenziale", innescata da Renzi, al quale gli aggettivi devono essere evidentemente riferiti. Poi le ragioni "psicopolitiche", dell'"invidioso" e "frustrato" Demolition Man. E ancora, la "bulimia di potere", la "fame atavica di poltrone", e anche la "congenita allergia per una giustizia efficiente e uguale per tutti", la quale giustizia, stando al pensiero di Travaglio, sarebbe stata garantita da Alfonso Bonafede (il Bonafede che Renzi non avrebbe mai digerito). Insomma, grassissime risate. Il fondo di Travaglio ovviamente prosegue. Ma tanto basta per farvi capire come la abbia presa. Giornataccia, per il direttore...

Da vigilanzatv.it il 5 febbraio 2021. Durante lo speciale Tg1 dedicato alle consultazioni di Mario Draghi, il conduttore Francesco Giorgino ironizza con il Direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, che per settimane è andato ribadendo il suo desiderio di un Conte Ter, oltre ad aver escluso categoricamente per l'appunto la possibilità di un incarico all'ex presidente della BCE . "Posso chiederti se il tuo stato d'animo è quello di delusione dopo l'incarico a Mario Draghi?"  domanda Giorgino a Travaglio. Questi risponde seccamente: "Assolutamente no, non faccio il politico, osservo la situazione dalla mia finestra. La politica non mi provoca delusioni né particolari stati di eccitazione", per poi commentare tuttavia sarcasticamente l'entusiasmo generale che accompagna l'arrivo di Draghi, come si può vedere nel video che alleghiamo. "In questo momento sono imperturbabile" ha quindi rincarato Travaglio. Giustamente Giorgino ha ribattuto: "Hai colto il senso della mia domanda. E' assolutamente legittimo. Tu con coerenza hai sempre manifestato una posizione molto netta a favore della continuità del Governo Conte". Sì, la domanda del mezzobusto del Tg1 è decisamente legittima.

Otto e mezzo, "sei tu il grande sconfitto?". Lilli Gruber clamorosa, Travaglio balbetta: figura rovinosa. Libero Quotidiano il 05 febbraio 2021. Marco Travaglio è "il grande sconfitto di questa crisi di governo?". Lilli Gruber glielo chiede direttamente e il direttore del Fatto quotidiano, ospite in collegamento con Otto e mezzo a La7, prima sorride con una smorfia amarissima stampata in volto, poi replica un po' stizzito.

"Chiamatelo, tanto non esiste". Tutto da godere: ricordate la crisi di nervi di Travaglio per Draghi?

"Se volessi vincere o perdere, mi candiderei alle elezioni. Due anni fa mi ero battuto per un governo Conte con Pd e M5s, mi pare che abbiano dato una discreta prova tanto che ora vorrebbero correre insieme alle elezioni". 

Ora c'è Mario Draghi.

"Io sui tecnici ho avuto sempre idee critiche, i governi ammucchiata non funzionano perché si litiga, sono degli equivoci. E l'ho sempre detto, anche quando cadde Berlusconi, il governo che meno mi piaceva. E alla fine dopo qualche mese Mario Monti aveva il problema di uscire di casa perché la gente non era contenta".

Travaglio stesso aveva assicurato che Draghi "non aveva alcuna intenzione di fare il premier", previsione drammaticamente sbagliata. Ma il direttore del Fatto quotidiano si difende: "Fino a domenica scorsa non era disponibile. E la cosa mi risulta da fonti direttissime. Poi domenica pomeriggio sappiamo quello che è successo: Mattarella ha chiamato disperato Draghi, e lui non se l'è sentita di dire no"

Marco Travaglio accusa Sergio Mattarella: "Fa onore a Napolitano, ci ha regalato Draghi dopo aver fatto filtrare altro". Libero Quotidiano il 27 febbraio 2021. Adesso che il suo Giuseppe Conte è stato spodestato, Marco Travaglio se la prende con Sergio Mattarella. "Al netto di tutti i Peggiori che lo compongono, l'aspetto peggiore del Governo dei Migliori è che d'ora in poi nessuno crederà più alla parola di alcun politico", esordisce il direttore del Fatto Quotidiano nel suo editoriale che da giorni spara a zero su tutti senza alcuna distinzione. "Per esempio, Mattarella: ora, dopo aver detto e fatto filtrare mille volte "dopo Conte c'è solo il voto" e averci poi regalato Draghi&C., fa onore al suo predecessore Napolitano, che giurò e spergiurò "no al secondo mandato" e poi si fece rieleggere dopo lunghi tormenti durati 10 minuti". Peccato però che il capo dello Stato non abbia mai negato la necessità di un nuovo esecutivo, vista l'emergenza coronavirus in cui riversiamo. Non a caso Mattarella ha tentato di rincollare i pezzi giallorossi, concedendo il mandato esplorativo al grillino Roberto Fico. Evidentemente Travaglio ha già accantonato il ricordo. "Pensate - prosegue dal dente avvelenatissimo - poi a tutte le campagne del centrosinistra contro la Lega fascista, razzista, sovranista, populista, lepenista, orbanista, trumpista, bolsonarista, casapoundista ecc.: ora gli ex partigiani del Pd e LeU ci governano insieme e devono ringraziare la Meloni che s'è tirata via". Il direttore del Fatto non risparmia i suoi amati Cinque Stelle. Gli unici a poter essere graziati? Strano ma vero Nicola Fratoianni e Giorgia Meloni. Sono loro - è la conclusione - "gli unici che possono dire qualcosa agli elettori senza essere sputacchiati sono - come ha scritto Moni Ovadia - la Meloni e Fratoianni. Ai quali aggiungerei i "dissidenti", anzi i coerenti 5Stelle che si son fatti espellere pur di non ingoiare il rospo". 

Il Travaglio furioso scomunica i grillini che inciuciano col Cav. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 5 febbraio 2021. Il direttore del Fatto Quotidiano le prove tutte per bloccare l’accordo. Ma i vertici del Movimento gli voltano le spalle e tirano dritto…Non bastavano le divisioni per il ritorno al tavolo con Renzi, né la spaccatura profonda sulla figura di Draghi. Il vero dramma per il Movimento 5 Stelle si consuma fuori dal Palazzo, nel logoramento del cordone ombelicale che da sempre lega quel partito al Fatto quotidiano, il giornale di Marco Travaglio. Nati quasi in contemporanea nell’autunno del 2009, il partito e il giornale hanno intrecciato così tanto i loro destini fino a rendere a volte impossibile distinguere dove finisse l’uno e dove cominciasse l’altro. Più che l’Unità per il Pci, o Repubblica per il Pd, il Fatto è sempre stato lo spazio in cui militanti e dirigenti grillini trovavano senso politico alla loro esistenza, analizzavano il mondo attraverso le categorie secche del “buono” e “cattivo”, apprendevano slogan da spendere immediatamente in campagna elettorale. Non solo. Alleanze, strappi e svolte memorabili – racconta la vulgata pentastellata – sono sempre state concepite nella redazione di quel giornale. Travaglio è l’ideologo dell’onestà al potere come unico programma politico in cui identificarsi, il solo vero intellettuale di riferimento per una forza nata nelle piazze del Vday, la guida sicura. Almeno fino a poche ore fa, quando l’amarezza ha invaso il volto del direttore. Il bimbo che ha cullato per anni, il Movimento, ha cominciato a camminare sulle sue gambe e ha deciso di voltargli le spalle. Il sì a Draghi, pronunciato in coro da Di Maio, Conte e persino Grillo è una pugnalata al cuore. Ci sono molti modi per «suicidarsi», scrive il direttore sul suo editoriale , «il meno onorevole è consegnarsi volontariamente al carnefice pensando o raccontando che così lo si migliora e lo si controlla. Eppure è la strada che, secondo indiscrezioni, pare abbiano scelto Grillo e parte dei 5Stelle», spiega, specificando però di non avercela con Draghi, ma con «i compagni di strada che si ritroverebbero accanto i 5Stelle con l’insano gesto». Già, perché nella maggioranza Ursula entrerebbero solo partiti col «pelo sullo stomaco», ad eccezione dei grillini che, secondo Travaglio, «con tutti possono governare, fuorché col pregiudicato amico dei mafiosi e con l’irresponsabile che ha rovesciato Conte per espellerli dal consorzio civile, cancellare le loro riforme, sputare sulle loro bandiere, radere al suolo ogni loro traccia e spargervi il sale misto al veleno dei Calenda & Bonino». Sì, perché non c’è emergenza che tenga per giustificare l’abbraccio con Berlusconi, a cui il Fatto quotidiano nega persino il diritto al nome dal 2009. Su quel giornale il Cavaliere diventa semplicemente «B», o al massimo riesce a guadagnarsi qualche “scherzoso” epiteto da osteria, persino in prima pagina. «Governare con lo psiconano?» era il quesito d’apertura del Fatto di ieri, molto più vicino all’eleganza di Libero di quanto non si pensi. Insomma, per quanto Travaglio provi a minimizzare il suo stupore intervistato dal tg1, non sembra affatto che abbia preso bene l’ultima giravolta del M5S. Un dolore così forte da far perdere lucidità, tanto da pubblicare, sempre in prima pagina, una vignetta di Mannelli in cui la scelta di Mattarella viene associata a un «vago senso di golpe». Grillo, Conte e Di Maio per ora non sembrano curarsi dello strappo col direttore, ma nei prossimi due anni di convivenza con Draghi potrebbero pentirsene.

Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 19 febbraio 2021. Spunti per il nuovo spettacolo di Grillo. Belìn, c'era una volta un comico che capiva tutto prima degli altri. Tipo che la politica era marcia, la finanza anche peggio e la stampa teneva il sacco a entrambe. Così cominciò a informare la gente nei suoi show (chi ci andava scoprì che la Parmalat era fallita ben prima della Consob e dei pm). E fondò il Movimento 5 Stelle: tutti risero, poi piansero, poi passarono agli insulti, ai corteggiamenti e infine alle alleanze. E gli "scappati di casa", in tre anni, trovarono un premier più che degno e portarono a casa quasi tutte le loro bandiere prima che il Matteo maior e il Matteo minor buttassero giù i loro due governi per liberarsi di loro. Nel momento del massimo trionfo, anziché rendersi prezioso e vendere cara la pelle, Grillo sbarellò. Scambiò per "grillino" Draghi, che a suo tempo chiamava "Dracula" e voleva "processare per Mps". E spinse i grillini quelli veri ad arrenderglisi senza condizioni, in nome di un superministero-supercazzola alla Transizione Ecologica che doveva inglobare Ambiente e Sviluppo economico. Su quella promessa fece votare gli iscritti con un quesito che diceva mirabilie del Sì, nulla del No e non prevedeva l'astensione. Quelli si fidarono di lui, unico ammesso al cospetto di SuperMario, e dissero Sì al 60%. Poi scoprirono che era una battuta (quella di Draghi): il superministero era mini, per giunta diretto da un renziano per giunta indicato da Grillo; e il Mise, lungi dallo scomparire, passava semplicemente da Patuanelli a Giorgetti, noto ambientalista padano (vedi trivelle, Tav, Terzo Valico e altre colate di cemento). Molti iscritti gabbati chiesero di rivotare, ma furono narcotizzati con altre supercazzole: "i ragazzi del 2099", "la sonda Perseverance atterra su Marte e la Perseveranza atterra alla Camera", "i Grillini non sono più marziani". E i loro "portavoce" andarono al patibolo fornendo la corda al boia e dandogli pure la mancia. Donarono sangue e organi all'ex Dracula, che li liquidò con quattro perline colorate (Esteri, Agricoltura, Giovani, Rapporti col Parlamento), trattandoli peggio dei partiti con metà o un quarto dei seggi. I parlamentari coerenti col giuramento fatto agli elettori "mai con B." votarono contro o si astennero, ma, anziché essere rispettati come minoranza interna, furono espulsi da chi era andato al governo con B. (già "testa d'asfalto", "psiconano", "psicopedonano"), col Matteo maior (già "pugnalatore dell'Italia da mandare a lavorare a calci") e col Matteo minor (già "ebetino" e "minorato morale"). "Belìn", ridacchiò il comico, "è il mondo alla rovescia! È come se Ario, Lutero e fra' Dolcino avessero scomunicato il Papa! Lo dicevo io che ne resterà uno solo: io!". Applausi. The end.

Da la7.it il 6 febbraio 2021. Antonio Di Pietro contro Peter Gomez (Il Fatto Quotidiano): "Perché non vi va bene Draghi?", "Io non sono iscritto al MoVimento 5 Stelle, l'ho votato in una Camera mentre nell'altra ho votato +Europa, questo plurale per favore lo eviti".

Peter Gomez su Mario Draghi a Tagadà: "Una vittoria per l'Italia", roba da far venire una crisi isterica a Marco Travaglio. Libero Quotidiano il 17 febbraio 2021. Peter Gomez, ospite di Tagadà condotto da Tiziana Panella e in onda su La7, commenta il fatto che Matteo Renzi non parlerà in Senato nel corso della discussione della fiducia a Mario Draghi: "Non sa cosa dire.... è entrato alle consultazioni qualunque cosa faccia Mario Draghi e oggi ha detto 'avete visto che ne valeva la pena'. Ora con tutto la stima che abbiamo per Mario Draghi, pensiamo che un governo non si giudica dal discorso. Perché se io dovessi giudicare dal discorso della fiducia, direi che il 95% dei governi precedenti avevano degli ottimi propositi e delle ottime idee: un governo lo si giudica sul giorno per giorno", spiega Gomez. Gomez infatti commentava proprio le parole di Renzi, dette all'uscita di un ristorante romano dopo il discorso di Draghi. "Io penso che tutto l'intervento di Mario Draghi sia stato molto bello e da meditare. Il passaggio sullo spirito repubblicano, il passaggio sul sovranismo che non funziona, quello sul debito pubblico, ogni spreco è un torto alle generazioni successive: siamo molto contenti, un grandissimo discorso. Adesso lasciamolo lavorare". E ai cronisti che gli ricordavano, "E' una sua vittoria però". Renzi ha risposto subito. "No, è una vittoria dell'Italia. Adesso mi fate andare per piacere". E chissà cosa ne penserà Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, del fatto che Gomez definisce Draghi una "vittoria per l'Italia". Insomma, un clamoroso siluro contro Giuseppe Conte, da parte del direttore del sito del Fatto. Infine Gomez nel suo intervento a Tagadà ha voluto ricordare il dibattito acceso all'interno dei cinquestelle sulla fiducia a Draghi: "Ci saranno più astenuti che voti contrari nella fiducia al governo Draghi. Ma saranno molto pochi", ha concluso. 

Travaglio è verde di bile e insulta: «Siete tutti lecchini». Tranne il circo grillino, naturalmente. Adriana De Conto lunedì 8 Febbraio 2021 su Il Secolo D'Italia. Slurp.  Già questo termine all’inizio di ogni capoverso dà la misura dell’entità del travaso di  bile  di Marco Travaglio. Nel suo editoriale sul Fatto di lunedì 8 febbraio non informa, non analizza, ma insulta, ridicolizza, mette alla berlina colleghi, analisti e quotidiani che non la pensano come lui.  Eppure ne avrebbe di che imbarazzarsi per la piroetta pro Draghi dei grillini e del loro “garante” Beppe Grillo. Ne avrebbe di spiegazioni da dare per questo repentino cambio di passo. Invece  preferisce guardare in casa d’altri. Più comodo. Dopo la sua crisi di nervi dalla Gruber il suo stato d’animo è sicuramente agitato. “Nella sala dei busti, attigua a quella dove Draghi tiene le sue udienze, persino Enrico De Nicola e Alcide De Gasperi si guardano e sembrano sorridere” (Francesco Bei, Repubblica, 4.2). Poi leggono Repubblica e si scompisciano proprio”. Esordisce così per poi andare al “Pippo Baudo dei padroni”, ossia quel Carlo Bonomi, presidente Confindustria che sulla Stampa osò affermare: “Draghi è un patrimonio del Paese, ora superare reddito e quota 100. Io lo ammiravo già in tempi non sospetti: al meeting di Rimini ad agosto c’ero solo io ad ascoltarlo”. Slurp al quadrato, chiosa Travaglio. Per lui tutto è un cabaret, tranne lo spettacolo indecente dei  grillini. Guardare alla sceneggiata di sabato di Grillo per credere. Poi viene alla Lega e scrive: “Slurp al cubo. Il tifo di Giorgetti, il Richelieu padano: “Supermario come Cristiano Ronaldo” (La Stampa, 5.2). Giorgetti lecca Draghi e La Stampa lecca Giorgetti. Ora, per favore, qualcuno lecchi La Stampa”. Straccia la Boschi: “Conte ministro del governo Draghi? Non abbiamo messo nessun veto su nessun nome. L’importante è che si tratti di persone competenti” (Maria Elena Boschi, deputata Iv, Tg2, 6.1). Però, carina a tirarsi subito fuori. Otelmaspia”. “Flash! Mario Draghi sta avendo incontri con tutti perché tutti i leader politici de’ noantri glielo chiedono. E tutti fanno mezz’ ora di discorsi politici sui massimi sistemi per poi tirargli la giacchetta con domanda finale: ‘Ma un governo di unità nazionale?’. A tutti l’ex presidente della BCE dà la stessa risposta: ‘Grazie, non sono interessato’, con il solito sorriso che somiglia a un ghigno” (Dagospia, 10.7. 2020). Sbertucciando sbertucciando, dando dei lecchini a tutti Travaglio,  con le rassegne stampa davanti ripercorre tutte le previsioni sbagliate espresse da vari opinionisti in tempi di crisi. Come se fosse un peccato analizzare, criticare (e magari sbagliare). E come se fosse più onesto intellettualmente dare giudizio corrosivi a cose fatte. Come fa lui. Quindi prende di mira molti articoli di Dagospia. “Draghi qua, Draghi là, Draghi su, Draghi giù. Pronto prontissimo? Manco per niente! In questi giorni si sprecano i colloqui tra i vertici delle istituzioni italiane e persone che potrebbero rivestire ruoli di alto rango. Non può mancare Draghi. Che però è riluttante a ricoprire una posizione, per quanto di prestigio, in un paese rissoso come il nostro. Il problema è che le liti non sono neanche più tra schieramenti, o tra partiti. Ma direttamente nei partiti” (Dagospia, 28.10.2020)”. Poi irride chi si occupa di mercati:  “Spread, l’effetto Draghi vale già 1 miliardo” (Sole 24 ore, 6.2). E dove si può ritirarlo”? . Vabbè… prende in giro Zingarelli, la Lega, tutti fuorché i santini del grillismo. Anzi, butta un po’ di fiele  su Emilio Carelli che definisce  “Carelli della spesa”. “Io uscire dai 5Stelle per fondare un gruppo centrista che guarda a destra? Smentisco categoricamente, falsità” (Emilio Carelli, deputato M5S , Repubblica, 1.2). “Non senza sofferenza interiore annuncio la mia uscita dai 5 Stelle, un Movimento che ha perso la sua anima. Voglio propormi come aggregatore di una nuova casa accogliente: Centro-Popolari Italiani. Troppe volte ho assistito a scelte sbagliate e persone sbagliate” (Carelli, 2.2). Tipo lui. Lei non sa chi sono io”. Poi ne ha per il direttore del Giornale Alessandro Sallusti, che scrisse: “Sono curioso di vedere Travaglio fare un mazzo tanto al governo 5Stelle-Berlusconi”.  “Io ho cominciato subito. E tu?”, risponde Travaglio, come se questa crisi fosse un fatto personale tra i grillini e il resto del mondo. Il titolo dell’editoriale dovrebbe essere “Il mio ego smisurato”.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 13 febbraio 2021. Mentre il Premier Incaricato […] leggeva la lista del Governo dei Migliori con i Ministri di Alto Profilo, il primo pensiero andava a Cirino Pomicino: per reclutare una ciurma del genere, bastava e avanzava lui, senza scomodare Draghi. Il secondo pensiero era per i poveri 5Stelle e soprattutto per i loro elettori, gabbati da Grillo gabbato da Draghi, passati da partito di maggioranza relativa a partito e basta, con tanti ministri (peraltro inutili come gli Esteri o minori come gli altri) quanti il Pd (che ha metà dei loro seggi e 3 dicasteri più un tecnico d'area) e uno in più della Lega (metà dei loro seggi) e di FI (un quarto). Notevole anche l'ideona di inventare il super-ministero della Transizione Ecologica, già diventato mini perché gli manca il Mise, e regalarlo al renzian-leopoldiano Cingolani. […] All'"anima", "identità" e "purezza" di sinistra ci pensa il governo Berlusconi-4, momentaneamente parcheggiato presso il Draghi-1 nelle persone di Gelmini, Brunetta, Carfagna, Giorgetti e Stefani. All'ecologismo badano Giorgetti, le truppe forziste e altri santi patroni del partito del cemento, del bitume, delle trivelle e del Tav. Per la competenza, a parte tre o quattro tecnici […] c'è un trust di cervelli mica da ridere: dalla Gelmini e i suoi neutrini nel tunnel Gran Sasso-Ginevra; a Brunetta, grande esperto di tornelli e diplomazia; a Orlando (quello che "mai con la Lega"), che può passare dalla Giustizia al Lavoro al nulla con la stessa enciclopedica impreparazione. […] Otto ministri del Conte-2: ma quindi era vero che erano i "migliori del mondo"?

L'indagine social. Povero Marco Travaglio, da bullo diventa lo zimbello dei social. Luigi Ragno su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Per anni è stato il giornalista più temuto d’Italia a capo del giornale punto di riferimento delle Procure e dei Servizi, deviati o meno non si sa, ma Marco Travaglio adesso sta ricevendo quello che per anni ha dato a tutti quelli che ostacolavano il Movimento 5 Stelle e le riforme della Giustizia. Secondo un’analisi Twitter del data journalist Livio Varriale dal 5 febbraio ad oggi sono stati registrati 6.365 tweets, 74.211 likes, 11.913 condivisioni, 1.418 citazioni, 11.913 commenti, aventi la parola chiave “Travaglio”. Perché Marco Travaglio è diventato l’oggetto del desiderio delle frecciatine cinguettate spesso rivolte a personaggi politici come Renzi e Salvini e poche volte ai giornalisti? Secondo Varriale è difficile sbagliare previsione in merito “Se scorriamo la lista dei tweets più acclamati dalla critica, scopriamo che Travaglio ha dapprima smentito Draghi per poi trovarselo in Premier Incaricato ed ha continuato ad esprimere concetti vicino l’ala oltranzista grillina per poi trovarsi in queste ore dalla parte opposta dell’esito elettorle su Rousseau”. In effetti, dai top tweets notiamo proprio questo. Il Professore Carlo Alberto Maffè fa all in descrivendo il modus del pensiero della punta di diamante del Fatto Quotidiano citando il suo commento “Travaglio: “non sono io che ho sbagliato previsione, è colpa di Draghi che ha cambiato idea”. Meraviglioso”. Jacopo Jacoboni fa una lucida analisi politica decantando il tatticismo di Renzi “È molto chiara l’ultima battaglia avvenuta: con l’azione politica di Conte Casalino Zingaretti Bettini Grillo D’Alema Gianni Letta, sostenuta da Travaglio, avremmo un Conte ter. con l’azione di Renzi abbiamo Mario Draghi”. Anche il sito Lercio fa una sintesi perfetta dell’atteggiamento di Travaglio e del suo punto forte in video: il sorrisetto. “#LERCIOSTORY Nuovo speciale del FQ: “Come fare il sorrisetto del cazzo alla Travaglio per delegittimare l’interlocutore” – #ottoemezzo #ottoemezzola7 #Gruber #Travaglio #Rousseau”. Gli argomenti collegati a Travaglio in questi giorni sono stati quelli più disparati. Le sue uscite in tv hanno dato grande notorietà alla trasmissione Otto e Mezzo. Draghi smepre presente e declinato in più modi mentre sorprende più l’associazione a Scanzi, suo delfino che a Natale lo intervistò, che al Fatto Quotidiano. Discorso diverso invece dal punto di vista delle menzioni, il Fatto Quotidiano supera nelle citazioni il profilo di Marco Travaglio. Inutile a dirsi, ma la maggior parte dei tweets è di schernimento e di protesta nei confronti della punta di diamante del giornale fondato da Peter Gomez. Qui si apre una bella riflessione sul fatto che la strada di Travaglio, dopo anni di discese da lui percorse nel moralizzare chiunque fosse opposto al suo giudizio, è giunto il momento della salita che porta ad una vittoria politica sia di Renzi sia di Berlusconi e la caduta in disgrazia non solo del Movimento, ma del politico che ha garantito serenità economica al suo quotidiano: Giuseppe Conte.

Da liberoquotidiano.it il 13 febbraio 2021. “I 5 stelle sono delle capre, hanno sbagliato tutto”: parole dure quelle che Andrea Scanzi ha pronunciato in collegamento con Lilli Gruber a Otto e Mezzo su La7. Secondo il giornalista del Fatto Quotidiano, i 5 Stelle non ne avrebbero azzeccata una dopo la caduta del governo Conte II. In particolare, secondo lui, i grillini non avrebbero beneficiato di alcun vantaggio. Anzi, hanno perso la posizione di prestigio di cui godevano prima. "Avevano il coltello dalla parte del manico, se non ci fossero stati dentro loro non sarebbe partito Draghi. Hanno fatto tutto questo gran teatro con il ministero della Transizione ecologica e alla fine non lo hanno nemmeno ottenuto", ha spiegato Scanzi. “Hanno ottenuto quattro ministeri, di cui due senza portafoglio”, ha continuato Scanzi, riferendosi a Farnesina, Agricoltura, Rapporti col Parlamento e Politiche giovanili, destinati rispettivamente a Luigi Di Maio, Stefano Patuanelli, Fabiana Dadone e Federico D’Incà. Parole al veleno, insomma, che non hanno risparmiato nessuno. Il giornalista, infatti, ha poi puntato il dito anche contro le altre scelte dell'ex numero uno della Banca centrale europea Mario Draghi. E infatti ha detto: “Se qualcun altro continua a dire che, a livello politico, questo è il governo dei migliori imbraccio il kalashnikov, a livello metaforico”. Il riferimento è soprattutto ai ministri azzurri: “Se il meglio della politica sono Renato Brunetta, Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini allora è bene andare via da questo Paese”. Secondo la firma del Fatto, poi, i grillini hanno subito un’altra pesante sconfitta: “Giorgetti al Mise, ministero dello Sviluppo economico, che era sempre stato dei 5 stelle”, ha detto riferendosi all'importante ruolo ottenuto dal numero due della Lega.

Andrea Scanzi contro i grillini: “Sono capre, hanno sbagliato tutto”. Secondo il giornalista i 5stelle “avevano il coltello dalla parte del manico”. Valentina Dardari, Sabato 13/02/2021 su Il Giornale. I grillini sono riusciti a farsi insultare anche da Andrea Scanzi, da sempre loro sostenitore, anche quando non vi era proprio nulla da sostenere. Parole non proprio carine quelle che Scanzi ha riservato ieri sera al Movimento intervenendo alla trasmissione “Otto e mezzo” condotta su La7 da Lilly Gruber. “I 5 stelle sono delle capre, hanno sbagliato tutto” ha detto il giornalista del Fatto Quotidiano prendendo in prestito un parallelismo tipico di Vittorio Sgarbi. Insomma, secondo Scanzi i grillini non sarebbero riusciti a trarre beneficio dal momento a loro favorevole e, anzi, sarebbero riusciti a sbagliare tutte le mosse subito dopo la caduta del Conte II. Se prima potevano vantare una posizione di prestigio, adesso non hanno più neanche quella. "Avevano il coltello dalla parte del manico, se non ci fossero stati dentro loro non sarebbe partito Draghi. Hanno fatto tutto questo gran teatro con il ministero della Transizione ecologica e alla fine non lo hanno nemmeno ottenuto" ha sottolineato senza mezzi termini Scanzi, precisando che il 5stelle hanno ottenuto quattro ministri di cui due senza portafoglio. Ed ecco poi arrivare, subito dopo, la parola capre nei loro confronti, almeno per quanto hanno fatto a livello strategico e nel gestire le trattative. Termine usato in modo affettuoso, come ha tenuto a precisare Scanzi. Ma sempre delle capre si sono beccati. Non è andato leggero neanche quando si è riferito alla presenza dei ministri azzurri: “Se qualcun altro continua a dire che, a livello politico, questo è il governo dei migliori imbraccio il kalashnikov, a livello metaforico”, perché proprio l’idea che i 5 stelle governino con Renato Brunetta, Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini, non sembra riuscire a digerirla. Altro schiaffo al M5s è arrivato con l’incarico al ministero dello Sviluppo economico, sempre stato dei grillini, dato invece al numero due della Lega, Giancarlo Giorgetti. Scanzi non ha risparmiato neanche il Partito democratico che a suo dire ha pure l’aggravante di aver preso tre ministri come Forza Italia e di non aver indicato donne. Del resto, anche il direttore della sua testata giornalistica, Marco Travaglio, nei giorni scorsi non era stato particolarmente gentile con gli esponenti del M5s che “prima di calarsi le brache avrebbero dovuto chiedere qualche garanzia in più” sottolineando che da adesso in poi non conteranno più niente. E a Grillo ha fatto un complimento che tanto complimento non sembra: “Grillo è tutt’altro che scemo. Si è trattato di una circonvenzione di capace. È stato intortato da quel volpone di Draghi che lo ha intortato con la supercazzola del super-ministero della transizione ecologica”.

DAGOREPORT l'8 febbraio 2021. Ieri sui social il tweet di Selvaggiona Lucarelli, in modalità “orfanella di Conte”, in cui ha riproposto il video del 5 settembre scorso del Conte Casalino ospite della festa del “Fatto'', ha avuto un rimbalzo anche nello staff di Mattarella e di Draghi, facendo lievitare ancor di più l’irritazione della Mummia Sicula e di Dragonball nei confronti del carciofaro con banchetto davanti a Palazzo Chigi. Da perfetto statista che non rivela mai i suoi colloqui con esponenti istituzionali, flautato con il suo gné-gné preferito, Conte rivela: "Quando si è lavorato per nuova una commissione Ue fu proposto innanzitutto Timmermans ma alla fine non andò a buon fine. Subito dopo io stesso cercai di creare consenso per Draghi, lo avrei visto bene come presidente della Commissione Ue. Lo ho incontrato perché non volevo spendere il suo nome invano ma lui mi disse che non si sentiva disponibile perché era stanco della sua esperienza europea". E a mo’ di irridente epigrafe, Selvaggia commenta: ‘’Draghi s’è riposato, a quanto pare’’...

Fuori dal Coro, Augusto Minzolini vede Mario Giordano e sbrocca: "Non capisce un tubo". Libero Quotidiano il 10 febbraio 2021. Contro tutti. Un Augusto Minzolini scatenato davanti al televisore. Siamo al martedì sera, sfida per eccellenza tra talk-show sul piccolo schermo. Già, abbiamo Giovanni Floris con DiMartedì su La7. Dunque, per Mediaset, ecco su Rete 4 Mario Giordano, con il suo Fuori dal Coro. E non può mancare la Rai, che schiera Bianca Berlinguer con il suo CartaBianca sul terzo canale. Tre programmi che, però, il Minzolini scatenato proprio sembra non gradire. Il retroscenista manifesta tutto il suo dissenso poco dopo le 22, su Twitter, in un cinguettio al vetriolo nel quale scrive: "Vedi Floris, cambi per andare su Giordano, e con rammarico comprendi che non sanno un tubo e non spiegano un tubo e alla fine la scelta più politica è andare su una serie di Netflix. L’informazione in Italia". Insomma, cannonata contro Floris e Giordano. Mentre la Berlinguer non viene nominata: dunque promossa oppure neppur degna di citazione? Un piccolo mistero. Minzolini, successivamente, risponde agli utenti che commentano e chiedono lumi circa il suo cinguettio. E continua a picchiare duro, nella fattispecie su Elsa Fornero e Ilaria Capua, messe a confronto nello studio di Giovanni Floris: "Sempre la stessa narrazione, sempre lo stesso punto di vista, non un guizzo - premette -. Il problema non sono le due protagoniste, che dicono ciò che pensano, ma il conformismo culturale del programma. Fa mancare l’aria", conclude Minzolini nella sua risposta. Ma basta dare una scorsa al tweet qui sotto per vedere che ci sono altre e puntute risposte del Minzo.

Peter Gomez, rissa con Antonio Di Pietro a L'aria che tira: "Voi chi? Non sono Marco Travaglio". Libero Quotidiano il 04 febbraio 2021. Una clamorosa rissa a L'aria che tira. Rissa dai risvolti succosi. Nel programma condotto da Myrta Merlino su La7, si parla ovviamente di Mario Draghi, del suo incarico da premier. A confrontarsi ci sono Peter Gomez, direttore del sito del Fatto Quotidiano, e Antonio Di Pietro, l'ex magistrato un tempo piuttosto vicino alle posizioni del M5s, ma ora molto meno. Come è noto, il Fatto diretto da Marco Travaglio ha una linea clamorosamente pro-M5s e pro-Giuseppe Conte. Sfacciata. Incontenibile. E come è altrettanto noto, Gomez ha delle idee un poco divergenti rispetto a Travaglio. La scintilla la accende Di Pietro, che si rivolge a Gomez chiedendo: "Perché non vi va bene?". Il riferimento è a Draghi e quel "vi" è riferito a quelli del Fatto Quotidiano. Ma Gomez non ci sta. E risponde in modo netto, brusco: "Io non sono Marco Travaglio, dirigo ilfattoquotidiano.it e non sono nemmeno un grillino", spara ad alzo zero. "E quindi questo plurale per favore non lo usi. Non sono un iscritto al M5s che alle ultime elezioni ho votato solo in una camera, nell'altra ho votato +Europa. Questo voi te lo eviti", ribadisce Gomez. Insomma, un prendere le distanze da Travaglio e dalla sua linea completamente appiattita su M5s e Conte. Ma non è finita. Di Pietro ci riprova: "Io leggo tutte le mattine Il Fatto Quotidiano e per me è un punto di riferimento. Ma voi avete una linea...". Apriti cielo. Di Pietro reitera quel "voi". E Gomez esplode e urla a tutto fiato nel microfono: "Ma voi chi? Ma chi?". Costretta ad intervenire la Merlino, che fa presente a Di Pietro che Gomez è Gomez e Travaglio è Travaglio. Dunque, Peter Gomez riprende, cercando di stemperare un poco la tensione: "Marco Travaglio è il mio migliore amico e non abbiamo sempre le stesse idee. E nemmeno la linea di Marco è anti-Draghi", sottolinea. Infine, Gomez cita un servizio di Radio 24 "che nemmeno ai tempi di Stalin. È alto, bello... siamo giornalisti eh". Il riferimento, ovviamente, era all'idolatrato Super-Mario.

Non è l'arena, "vale anche per Lilli Gruber però". Gomez critica Giletti "sindaco", la clamorosa risposta. Libero Quotidiano l' 08 febbraio 2021. "Hai commesso un grave errore". Peter Gomez, in collegamento con Non è l'Arena La7, entra a gamba tesa su Massimo Giletti e lo critica per la sua (presunta) possibile candidatura a sindaco di Roma per il centrodestra. "Mi rivolgo pubblicamente perché te l'avrei voluto dire tante volte - cambia il discorso il direttore del Fattoquotidiano.it -. Si è parlato di te come sindaco di Roma e te lo dico col cuore: quando hai detto che eri disponibile hai commesso un grave errore. Noi siamo giornalisti, molti telespettatori magari sbagliando potrebbero interpretare quello che fai nella tua trasmissione con gli occhi 'ma allora è perché lui si vuole schierare da quella parte, perché sta con loro'". "Allora vale anche per la Gruber!", lo interrompe Vittorio Sgarbi, e Gomez concorda: "Certo, vale per la Gruber, per ogni giornalista e per ogni magistrato". Ma Giletti si difende in prima persona: "Scusate, se mi trovi un pezzo in cui io dirò sono disponibile a fare il sindaco hai pienamente ragione, gliel'ho detto anche a Carlo Calenda che mi aveva attaccato. Io non escluderò mai il domani, perché a differenza di tanti politici che dicono se perdo vado in Africa, se perdo il referendum vado a casa". "Non voglio dire non lo farò - conclude il ragionamento -, perché credo sempre che chi fa parte di un mondo abbia il dovere di mettersi a disposizione. Ma non ci ho mai seriamente pensato, e se l'avessi fatto avrei detto “Mi candido e me ne vado”. Però  non è che se uno si candida a destra gli è concesso lo zero e invece Sassoli, Badaloni, Lilli Gruber...". 

Estratto dell'articolo di Peter Gomez per il “Fatto quotidiano” il 5 febbraio 2021. "La politica non è l'arte del possibile. Consiste nello scegliere tra il disastroso e lo sgradevole" diceva l'economista John Kenneth Galbraith. Quando nei prossimi giorni il Movimento Cinque Stelle dovrà decidere se appoggiare o meno Mario Draghi farà bene a tenere in mente questa frase. […] Draghi è poi un esponente di spicco delle élite responsabili dell'austerità e dell'aumento delle diseguaglianze. Tutto questo lo rende in apparenza indigeribile da parte loro. […] Draghi è un uomo di grande valore, in grado di alzare il telefono per parlare subito con qualsiasi leader mondiale, e al pari del resto dell'establishment si è accorto di quali siano state le conseguenze di quelle politiche […] Come banchiere europeo ha poi difeso non solo l'euro, ma pure il nostro Paese (contro la Germania) con un programma di acquisto di titoli che ha tenuto i tassi d'interesse bassi per anni. […] Insomma il premier incaricato, come l'Europa, nel tempo ha cambiato posizione. Del resto, prima di essere stato un campione del liberismo e delle privatizzazioni, Draghi era stato l'allievo prediletto di due grandi economisti keynesiani: Caffè e Modigliani. E Keynes era solito ripetere: "Quando cambiano i fatti io cambio le mie opinioni. Perché voi che fate?". Altra frase che i 5 Stelle dovrebbero ricordare quando si tratterà di scegliere.  […] Certo […] il prezzo per i 5S potrebbe essere salato. La prospettiva di trovarsi al governo di nuovo con Renzi e per giunta con il pregiudicato Berlusconi suscita in loro e nei loro elettori un condivisibile ribrezzo. Ma solo chi è al governo e si muove con Pd e Leu può respingere le istanze peggiori di Iv e Forza Italia. Non chi fa opposizione. Anche perché se i 5S non ci saranno al loro posto ci sarà la Lega. Per questo dopo aver discusso il programma con Draghi e aver messo dei paletti, i 5S , prima di decidere, dovranno pensare ciò che conviene ai cittadini. E a quella frase di Galbraith. Poi potranno scegliere.

Michele Serra per "la Repubblica" il 4 febbraio 2021. Dice il Di Battista che Draghi è «l' apostolo delle élite». Ah, magari fosse vero, magari potessimo ancora illuderci che le élite, orco dei populisti, esistono veramente. Se poi provassimo a chiamarle una buona volta, queste famigerate élite, "classe dirigente", qualche speranza di sfangarla potremmo averla, visto che da quando sono nato sento lamentare, in Italia, la mancanza di una classe dirigente all'altezza. Insomma, il dubbio vero (ravvivato dall'esperienza del governo Monti, anche lui figlio dell'illusione che un manipolo di bravissimi e competentissimi arrivasse a salvarci, come Batman) è che ci sia l'apostolo, ma non le élite. O forse abbiamo udito, in tempi recenti, il discorso di un confindustriale più coinvolgente e nobile di quello di un politico? O conosciamo un mago della Borsa in grado di sanare il deficit pubblico? O un tycoon tecnologico capace di dire due parolette che possano finalmente mandare in archivio lo stradetto, consunto "stay hungry, stay foolish" di Steve Jobs, che ormai è diventato come i pensieri di Mao, souvenir di un'epoca remota? E dei tanti fenomenali scienziati catapultati in video dalla pandemia, non abbiamo forse ricavato l'impressione che qualcuno di loro, lontano dalle sue provette, possa anche essere un minchione? E se invece per élite si intendono i ricconi, avete presente la tradizione inossidabile dei presidenti delle nostre squadre di calcio, saga decennale di trafficoni che parlano peggio del più casual tra i deputati grillini? Ah Dibba', ma 'ndo stanno, 'ste élite? Diccelo, per cortesia, che le andiamo a cercare col lanternino.

Odio di classe contro l'"élite". È arrivato l'apostolo delle élite. Così Di Battista ha subito apostrofato Draghi come nuovo messia del Potere. Claudio Brachino, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. È arrivato l'apostolo delle élite. Così Di Battista ha subito apostrofato Draghi come nuovo messia del Potere, lui ultimo apostolo del celodurismo grillino che ci lascia troppe macerie, dai banchi a rotelle a una giustizia mai votata, dai no vax (nel senso che i vaccini proprio non ci sono) agli inutili navigator. A parte che i miei pochi risparmi, a naso, li affiderei più all'apostolo Draghi che all'apolide Dibba, che tra parentesi. A parte che, stando ai sondaggi, la pensino così più del 60% degli italiani. Ma torniamo alle manipolazioni sulla parola élite. Da un lato la semantica cristallizzata, poteri forti, banche, oligarchie mondiali, club ristretti dove si decidono i nostri destini. Qualcosa di lontano e minaccioso, che il povero cittadino non può controllare con le liturgie della democrazia rappresentativa, a cominciare o a finire dal voto. Ecco che in questa distanza si inserisce il leader populista, che, poco consono al galateo istituzionale, dice al suo pueblo: non ti preoccupare, ci penso io a ristabilire la giustizia per te. E poi, uno vale uno, nessuno vale più di me stesso per difendere i miei interessi nel mondo dei bottoni. Ciampolillo, l'uomo che sussurra agli ulivi prima del loro ultimo respiro, non fa impressione in sé. Fa impressione chi l'ha portato dentro il Senato della Repubblica. Comunque per dieci anni questo movimento anti-casta ha capitalizzato la rabbia sociale, fino alle elezioni del 2018. Poi è arrivato lui, il Covid. Dei suoi effetti si parla tutti i giorni, poco però del fatto che ha riportato al centro del governo della cosa pubblica una cosa che si chiama competenza. Questa è la semantica giusta quando si parla di élite associata a Draghi. Il corollario linguistico immediato è molto importante: credibilità, nazionale e internazionale, storia, esperienza, conoscenza. Mattarella l'altra sera è stato netto e finalmente grande: basta con il teatrino dei no incrociati, la polis, l'Italia, sta morendo. Se non vuole fallire si deve affidare a uomini così, che sappiano salvarci la vita materiale con i vaccini e quella economica con la gestione sensata dei soldi dell'Europa. Superata la dicotomia élite-interesse della gente, bisogna non indugiare sull'altra, altrettanto deviante, politica o tecnica. Chi farà per davvero il meglio per la polis Italia sarà supremamente politico, in senso etico, anche senza la tessera in tasca.

Vittorio Feltri su Mario Draghi premier: "Pensavo gli facesse orrore, può succedergli di tutto". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 05 febbraio 2021. Di seguito la risposta di Vittorio Feltri a Paolo Becchi, che su Libero di giovedì 5 febbraio scriveva: "Diamo fiducia a super Mario. Ha idee chiare". Caro professore, mi tocca sempre battibeccare con te sebbene non ne abbia voglia. Devo sottopormi a questa tortura nel tentativo di soccorrere il lettore affinché capisca cosa diavolo sta succedendo nel Paese, nulla di esaltante. Non sei un eroe per aver indicato Mario Draghi come persona preparata ad affrontare l'emergenza. Eravamo da tempo tutti convinti che quest' uomo stimato a livello internazionale fosse il più adatto a toglierci dai guai. Un particolare, io e molti altri eravamo persuasi: l'ex capo della Banca europea doveva prendersi la briga di porre in salvo la sua patria malata, a causa di una politica inconcludente o addirittura dannosa. Pensavo però che Draghi non accettasse l'incarico offertogli da Mattarella non perché si sentisse inidoneo al ruolo propostogli, bensì poiché gli facesse orrore guidare una armata Brancaleone. Egli invece si è caricato di una fascina di erba verde confidando nella protezione dello stellone dell'Italia. Non è questo il momento di compiere discorsi iettatori, ma ci corre l'obbligo di sottolineare che la partita è appena cominciata e finirà tra alcuni giorni, durante i quali potrà succedere di tutto. La politica non è disgiunta dall'aritmetica e, se il presidente incaricato non avrà in Parlamento la maggioranza, bisognerà prenderne atto e agire di conseguenza, il che significa cambiare cavallo quando la scuderia è vuota o, meglio, piena di somari. Adesso, insomma, bisogna usare il pallottoliere e contare i voti in grado di confermare Draghi alla presidenza del Consiglio. Allora, i grillini hanno già annunciato di essere ostili, Meloni pure perché punta alle elezioni anticipate, e pare irremovibile, Salvini nicchia ma non ha voglia di cedere le praterie della opposizione all'amica Giorgia, per cui il suo assenso non è pacifico. Qualora le posizioni politiche rimanessero quelle appena descritte, avere come premier l'ex banchiere di successo rimarrebbe un sogno. Il mio è un discorso arido se non cinico, tuttavia sarebbe imprudente trascurarne i contenuti. Aggiungo una curiosità. Conte è stato osteggiato da molti critici in quanto ha rappresentato per oltre un biennio il popolo da cui non è stato eletto. Adesso è arrivato Draghi, pure non eletto, ma nominato, e tutti esultano. È assurdo. C'è chi è convinto che il primo ministro debba essere scelto dagli elettori quando invece viene designato dal capo dello Stato e poi approvato in Parlamento con il voto di fiducia. Purtroppo domina l'ignoranza della Costituzione che passa per essere la più bella del mondo, mentre andrebbe riscritta e adeguata ai tempi attuali. Ad ogni modo, nel caso in cui Draghi ottenesse la maggioranza delle Camere menerebbe il torrone come desidera, altrimenti dovrebbe fare come Conte: accomodarsi a casa. Personalmente gli auguro di vincere, eppure non sono sicuro che ce la faccia.

Scettici, favorevoli e contrari: la mappa del consenso politico di Draghi. Mentre l'ex governatore della Bce Mario Draghi è a lavoro per costituire "la sua squadra", i partiti si dividono anche al loro interno sull'opportunità di sostenere il suo governo o meno. Francesco Curridori, Mercoledì 03/02/2021 su Il Giornale. “Sono fiducioso che dal confronto con i partiti e i gruppi parlamentari e dal dialogo con le forze sociali emerga unità e, con essa, la capacità di dare una risposta responsabile e positiva all'appello del Presidente della Repubblica”. In queste parole pronunciate da Mario Draghi, al termine dell'incontro col presidente Sergio Mattarella, è racchiusa tutta la difficoltà dell'ex governatore della Bce di trovare un'ampia disponibilità in Parlamento che sostenga un suo governo. Le posizioni all'interno dei singoli partiti sono note, ma in ognuno si possono ritrovare più di qualche distinguo. Se il Pd si è detto subito pronto a sostenere l'iniziativa promossa dal Capo dello Stato, il M5S pare orientato verso un No fermo e deciso a Draghi, mentre dentro LeU vi è più di una perplessità. Andiamo con ordine. “Con l'incarico a Mario Draghi si apre una fase nuova che può portare il Paese fuori dall'incertezza creata da una crisi irresponsabile e assurda”, ha dichiarato il segretario dei democratici, Nicola Zingaretti che ha aggiunto: "Non bisogna perdere la forza e le potenzialità di una alleanza con il Movimento 5 Stelle e con Leu basata su proposte comuni sul futuro dell'Italia. Per affrontare questi temi chiederemo nelle prossime ore un incontro con il Movimento 5 Stelle e Leu". Il vicesegretario Andrea Orlando, però, ha evidenziato che “Non basta dire è arrivato Draghi, viva Draghi. A Draghi occorre dargli una mano" e, a tal proposito, ha ricordato che, a Palazzo Madama, il Pd detiene solo l'11% dei senatori. E se il capogruppo Andrea Marcucci afferma con sicurezza: "A Draghi assicuriamo una collaborazione fattiva, e chiederemo un confronto a tutto campo, sulle 3 emergenze che il Paese deve affrontare: Recovery, vaccini, economia”, alla Camera c'è chi ancora punta a un esecutivo di altro tipo. Michele Bordo, vicecapogruppo del Pd a Montecitorio, twitta:"È fondamentale che Pd, M5S e Leu lavorino per assumere una posizione comune rispetto ai delicati passaggi dei prossimi giorni e all'ipotesi di un nuovo governo #Draghi. Sarebbe utile una maggioranza politica ampia ed europea non un governo tecnico". "Credo che Conte indirizzerà M5s su di lui. No al voto, salviamo l'alleanza dentro la nuova fase", è la sintesi dell'intervista rilasciata da Dario Franceschini all'HuffPost. In ogni caso sarà molto difficile che le forze che componevano la maggioranza che ha sostenuto il Conte-bis trovino una posizione unitaria. Ormai, infatti, appare chiaro che Italia Viva, abbia provocato la crisi affinché si arrivasse alla soluzione di un governo istituzionale. “Ora è il momento dei costruttori. Ora tutte le persone di buona volontà devono accogliere l’appello del Presidente Mattarella e sostenere il governo di Mario Draghi. Ora è il tempo della sobrietà. Zero polemiche, Viva l’Italia”, ha scritto oggi Matteo Renzi sul suo profilo Facebook. Dentro LeU, invece, la situazione è più composita. Da un lato, ieri, il capogruppo in Senato Loredana de Petris, invocava il ritorno alle urne, oggi il suo omologo alla Camera, Federico Fornaro appare più possibilista e spiega che l'appello di Mattarella va ascoltato: “La storia ci insegna però che non ci sono governi neutri, ma governi che devono avere la fiducia di entrambi i rami del Parlamento. Per queste ragioni ascolteremo il presidente incaricato Draghi e poi decideremo". Nicola Fratoianni, deputato di LeU e segretario di Sinistra Italiana, invece, davanti alle telecamere di Agorà si è mostrato alquanto scettico: "Mi pare molto difficile sostenere un governo di questo tipo".

Le divisioni dentro il M5S. Dentro il M5S si prevede che si consumerà la lotta interna tra “movimentisti” e “governisti”, anche se questi ultimi, al momento, sembrano piuttosto taciturni. Secondo quanto trapela, Beppe Grillo avrebbe dato pieno sostegno alla linea tracciata dal reggente Vito Crimi che prevede una contrarietà netta a un governo tecnico presieduto da Draghi e l'appoggio incondizionato al premier uscente Giuseppe Conte. Alessandro Di Battista e la sua sparuta pattuglia di parlamentari hanno alzato le barricate di fronte all'ipotesi che l'ex presidente della Bce salga a Palazzo Chigi, mentre l'ex capo politico Luigi Di Maio, parlando all'assemblea dei gruppi M5S, ha chiarito: "Io credo che il punto non sia attaccare o meno Draghi, Mario Draghi è un economista di fama internazionale che ha legittimamente e correttamente risposto a un appello del Capo dello Stato. Io credo che il punto qui sia un altro e prescinde dalla figura di Mario Draghi. Il punto qui è che la strada da intraprendere a mio avvisto è un'altra. E, come ho detto, è quella di un governo politico". Una condottiera come la senatrice Paola Taverna ha ribadito: “Il governo tecnico è un insulto alla nostra storia e a tutta l'esperienza politica portata avanti". L'ormai noto post del Danilo Toninelli, invece, ha prodotto un mix di polemiche e ironie: “Non ci vengano a chiedere di votare Mario Draghi. Abbiamo fatto di tutto. Perfino annientarci negli uffici a lavorare pur di dare una mano a chi ne aveva bisogno. Questo per noi è stato governare l'Italia. Lo abbiamo fatto avendo contro tutto il sistema organizzato di potere. Lo abbiamo fatto pur sapendo che stavamo perdendo consenso. Orgogliosi del fatto che per noi gli italiani erano prima di tutto persone, non solo elettori. E anche questa volta rimarremo seri e responsabili”, aveva scritto l'ex ministro alle Infrastrutture prima di concludere: “Ma non ci vengano a chiedere di votare Mario Draghi". La deputata Giulia Grillo, ministro della Salute nel governo gialloverde, invece, parlando con l'Adnkronos, apre al governo tecnico e dice: “Visto che fino a ieri condividevamo un tavolo di lavoro con Renzi, mi fa pensare che per qualcuno nel Movimento Cinque Stelle Renzi sia più responsabile di Draghi. Il no a priori a Draghi ci sembra eccessivo. Non pensate ci possa essere prima una discussione interna, anche nel rispetto delle indicazioni del Presidente Mattarella?". Il viceministro Stefano Buffagni, sempre all'Adnkronos, si mostra cauto e si limita a commentare: “Mario Draghi ha un profilo inattaccabile, nulla da dire”. Secondo un altro big del Movimento come Carla Ruocco “è assolutamente prematuro dire no a Draghi”. Si spinge ben oltre il deputato Giorgio Trizzino che sul suo profilo Facebook, scrive: “Non credo che il M5S possa sottrarsi all’appello alla responsabilità che è stato rivolto dal Capo dello Stato a tutte le forze politiche per fare fronte comune e compatto nel momento più difficile per il Paese dal dopoguerra. Sarebbe da irresponsabili e noi non lo siamo mai stati". La sua collega Dalila Nesci, leader della corrente 'Parole Guerriere', infine, rilancia e dice: "Basta giocare a nascondino. Per dire no alla soluzione individuata dal Presidente Mattarella bisognerebbe avere pronta una valida alternativa politica. Chi ha condotto le trattative e ci ha portato sin qui dovrebbe farsi delle domande sul proprio ruolo".

Le posizioni nel centrodestra. Il centrodestra, com'è noto, ha sensibilità differenti, ma se prima della caduta di Conte il voto sembrava essere l'unica strada percorribile soprattutto per Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ora non è più così. Il leader di FdI, che ieri aveva risposto all'appello di Mattarella dando la piena disponibilità del suo partito di lavorare “per il bene della Nazione”, “anche dall'opposizione”, oggi propone un voto di astensione per salvaguardare l'unità della coalizione. Dalla Lega, invece, per ora, si resta fedeli alla linea impostata dal Capitano Matteo Salvini: “Ascoltiamo e poi valutiamo”. Forza Italia e Cambiamo! di Giovanni Toti sarebbero propensi a sostenere il nuovo esecutivo. "Draghi è l'uomo giusto e non è la riedizione di Monti. Nelle istituzioni europee ha saputo far valere le sue idee e la sua visione particolare. Noi non ci dimentichiamo il whatever it takes quando si trattava di difendere la moneta e il debito di alcuni paesi europei più fragili", ha affermato il governatore della Liguria nel corso del programma 'L'aria che Tira' su La7. Antonio Tajani, vicepresidente degli azzurri, opta per una linea attendista: "Durante l'incontro che avremo con Draghi valuteremo i contenuti e decideremo il da farsi".

Striscia la Notizia, "Mario Draghi non accetterà mai". Pd e sinistra ridicolizzati, il video tutto da godere. Libero Quotidiano il 03 febbraio 2021. Striscia la Notizia ha trattato a modo suo la notizia dell’incarico che il presidente Sergio Mattarella ha conferito a Mario Draghi. Il tg satirico di Antonio Ricci - che va in onda come sempre tutte le sere su Canale 5 - ha subito pubblicato un video che raccoglie alcune delle frasi celebri sull’ex presidente della Bce, che per oltre un anno è spuntato puntualmente nei retroscena della stampa come possibile alternativa a Giuseppe Conte. Il video inizia con Myrta Merlino che rivolge la seguente domanda durante una puntata de L’aria che tira: “Lei auspicherebbe un maggior impegno di Draghi nella politica italiana?”. A risponderle c’era Romano Prodi, secondo cui “non accetterà mai”. A seguire c’è il parere di Andrea Orlando del Pd: “Non lo vedo un governo Draghi, non credo che sia possibile”. Poi l’intervento di Carlo De Benedetti, editore di Domani: “Non ho mai creduto neanche per un istante che Draghi fosse un’ipotesi per la presidenza del Consiglio. Conoscendolo bene l’ho sempre escluso nel modo più categorico”. Alla fine, invece, l’ex presidente della Bce a Palazzo Chigi ci è arrivato davvero, anche se non è ancora detto che possa piazzarsi lì, dato che deve verificare se ha o meno i numeri per governare: “Ringrazio il presidente della Repubblica - sono state le sue prime parole - per la fiducia che mi ha voluto accordare conferendomi l’incarico per la formazione del nuovo governo. È un momento difficile, la consapevolezza richiede risposte all’altezza della situazione. Ed è con questa speranza e con questo impegno che rispondo positivamente all’appello del presidente della Repubblica”. 

Dagospia il 5 febbraio 2021. LE ULTIME PIPPE FAMOSE (“O CONTE O VOTO”)

ANDREA ORLANDO 

Crisi di governo, Andrea Orlando: "Il voto anticipato è molto più vicino" (21 gennaio 2021) - PIAZZAPULITA

Andrea Orlando (vicesegretario PD): "Sta succedendo quello che temevamo, oggi sento il voto molto più vicino. Non c'è nessuna ipotesi di unità nazionale, non vogliamo mischiare i nostri voti con quelli di Salvini e Meloni".

PAOLO MIELI 

Le previsioni di Mieli: “Conte ter, 60% senza Renzi” (28 gennaio 2021) - PIAZZAPULITA

Paolo Mieli sulla crisi: "Serve un governo forte. La cosa migliore? Subito al voto, con l'ok del Cts" (1 FEBBRAIO 2021) - LIBERO QUOTIDIANO

ANDREA SCANZI: “MEGLIO IL VOTO DI QUESTO MISERO STILLICIDIO” (2 FEBBRAIO 2021)

Renzi vuole la rottura? Dategliela! Il tavolo è tutto in salita per colpa di Renzi. Si sta spaccando il M5S? Carelli è il primo di una lunga serie? Meglio il voto di questo misero stillicidio. Guardate e condividete!

MASSIMO GIANNINI A OTTO E MEZZO 1

Crisi, Giannini: "Abbiamo toccato il fondo. Governo del Presidente che ci porti al voto" (2 FEBBRAIO 2021) - VIDEO LA STAMPA

GOFFREDO BETTINI.

Crisi di governo, braccio di ferro tra Pd e Italia Viva. Bettini: «O Conte o le elezioni anticipate». Estratto dell’articolo di open.online (31 gennaio 2021). Bettini: «Occorre fare presto». Questo governo, secondo il Pd, dev’essere guidato da Giuseppe Conte. Dice Goffredo Bettini al Corriere della Sera: «Siamo disponibili a ricomporre la maggioranza di governo messa in crisi da Italia Viva. E Conte deve guidarla. Occorre fare presto, perché ogni giorno che passa il dibattito pubblico si allontana sempre di più dalle preoccupazioni degli italiani». Secondo Bettini, Conte è l’unica soluzione, «perché ha lavorato bene ed è popolare; ha riportato l’Italia nella sua naturale collocazione europeista; ha già ottenuto la fiducia alla Camera e un ampissimo consenso al Senato». L’alternativa, secondo Bettini, è «un governo elettorale che ci porti al voto a giugno».

Bettini, no alternative a Conte, se qualcuno rompe voto Camere E poi eventualmente urne. Premier è pilastro alleanza. (ANSA 7 gennaio 2021) Il premier è a rischio? "Assolutamente no. Per andare dove? Verso l'avventura, il trasformismo, coalizioni incerte e improvvisate? Conte è il pilastro dell'attuale alleanza che ha lavorato bene e che per il Pd non ha alternative". Lo dice Goffredo Bettini, dirigente del Pd, in un'intervista a Tpi. "Occorre, semmai, rilanciarla per dare ancora più certezza e serenità agli Italiani. Se qualcuno intende romperla, sarà il Parlamento, e poi eventualmente gli elettori, a decidere se dovrà continuare a lavorare al servizio della Repubblica". (ANSA).

Governo: Bettini, subito allargare maggioranza oppure urne. (ANSA 20 gennaio 2021) "Non è che le elezioni non si possono fare, perchè si fanno in tutta Europa. Ma se non riusciamo a rafforzare il governo, non c'è un governo della destra o con le destre; allora superata la fase acuta dell'epidemia si va alle elezioni". Lo ha detto Goffredo Bettini intervistato da Sky Tg24. Secondo il dirigente del Pd, la verifica sulla possibilità di allargare la maggioranza va fatta "rapidamente", in "poche settimane" dopo di che si potrebbe procedere ad un rimpasto, mentre la sostituzione delle due ministre di Iv andrebbe fatta "subito" con personalità "fuori dalla trattativa" per l'allargamento della maggioranza. (ANSA).

"Noi - ha spiegato - abbiamo chiesto la fiducia perchè sarebbero state sbagliate le elezioni, fuori tempo, fuori dalla sensibilità dei cittadini, ed ecco perchè vogliamo allargare i confini della maggioranza, perchè con questi numeri non si può governare fino a fine legislatura". Bettini ha giudicato impraticabile un governo di unità nazionale: "Un Governo con tutti dentro? Sarebbe incomprensibile, perchè abbiamo una destra di un certo tipo. Il Pd non lo voterebbe mai". In ogni caso o si allarga l'attuale maggioranza oppure "c'è il voto" perchè "non è che le elezioni non si possono fare, dato si fanno in tutta Europa". La verifica sull'allargamento, ha proseguito, va fatta "in poco tempo, e il tempo si misura in settimane. Si capisce in poche settimane se ci sono le condizioni per un patto di legislatura. Noi del Pd la verifica l'abbiamo chiesta già da prima, ma non in modo distruttivo come ha fatto Renzi, che ha fatto una svolta incomprensibile". Terza tappa il rimpasto: "Noi abbiamo posto il problema di un rafforzamento, Conte è d'accordo e deve avvenire dopo un chiarimento sul programma. In queste settimane dobbiamo lavorare alle emergenze, sostituendo le ministre che si sono dimesse. Suggerisco di scegliere personalità fuori dalle trattative. Poi se in corso d'opera si costruisce una alleanza numerica più ampia e vediamo un programma di legislatura, a quel punto si può pensare a un rafforzamento", ha concluso Bettini. (ANSA).

Governo: Bettini, in situazioni difficili si torna al voto. (ANSA 3 febbraio 2021) "Il Conte ter era a portata di mano. Il governo precedente non è stato mai sfiduciato, ha dimostrato di avere una fiducia assoluta alla Camera e un ampissimo consenso al Senato. Era la sola naturale base di partenza per aprire una fase nuova di stabilità , di condivisione delle priorità fino alla fine della legislatura, di riassetto della squadra per renderla più forte". Così Goffredo Bettini, dirigente nazionale del Pd, in conclusione del suo lungo editoriale sulla situazione politica pubblicato dal portale online Tpi.it- "Ecco perchè , -aggiunge - se qualcuno voleva mettere in crisi tale possibilità , era evidente prevedere uno sbocco elettorale nei tempi consentiti dall'andamento della pandemia. Anche perchè le elezioni non sono praticabili oggi. Ma a giugno si vota nelle principali città italiane e, prima di giugno, anche in Calabria. E poi, quando le cose si fanno difficili, complicate e confuse; quando, cioè , c'è uno stato di emergenza o di eccezione, è proprio il momento in cui la parola va data alla politica e alla democrazia. E non il contrario". "Altrimenti - prosegue Bettini - per senso di responsabilità , rischiamo di essere irresponsabili: nel significato letterale del termine, di rinuncia alle nostre proprie responsabilità , ampliando le zone di apatia, sfiducia, disprezzo o paura nei meccanismi fondamentali di ogni regime democratico. Tra cui quello basico, insostituibile, e alla fine decisivo: l'espressione del voto popolare, sulla base di convincimenti politici e di scelte chiare del popolo. Quando sono esaurite le condizioni di una ricomposizione nel Parlamento, tornare dai cittadini diventa una necessità, seppure in alcuni momenti difficile, incerta e anche dolorosa". (ANSA).

VINCENZO SPADAFORA.

Governo: Spadafora, se c'è crisi si va al voto. (ANSA 29 dicembre 2021) "Non è detto che se cade questo governo se ne faccia subito un altro, io davvero penso che se cade Conte non si può fare altro che andare alle elezioni": lo ha detto il ministro dello sport e esponente del M5s Vincenzo Spadafora, intervenuto stamattina al programma di Raitre Agorà.

MATTEO SALVINI.

Salvini, se salta Conte via normale il voto, no a toto-governo. (ANSA 22 dicembre 2021) - ROMA, 22 DIC - "Se salta questo governo la via normale sono le elezioni. Non è un mistero per nessuno che molti parlamentari, a differenza di me e di quelli della Lega, se si andasse a votare non verranno eletti e vorranno ogni tipo di governo. Ma l'Italia non si può permettere questo caos. O elezioni subito o il centrodestra ha le sue idee ma non facciamo toto-nomi, non mi appassiona il toto-governo". Così il segretario della Lega, Matteo Salvini a "Porta a Porta". (ANSA).

Salvini, o elezioni o governo di centrodestra. (ANSA 29 gennaio 2021) "Mezza Europa se non ha il governo va ad elezioni, fa decidere ai cittadini e in Italia invece no. Detto questo, l'unica alternativa è un governo di centrodestra che rimetta al centro l'impresa, lo sviluppo, l crescita". Lo ha detto il leader della Lega, Matteo Salvini, incontrando gli operatori dello sport che stanno manifestando a piazza Montecitorio. (ANSA).

DI MAIO.

Di Maio, senza Conte si va al voto.  (ANSA 23 dicembre 2021) "Alcuni continuano a parlare di rimpasto ma quando si apre una crisi non si può sapere come finirà . E l'esito potrebbe essere quello di andare al voto". Così in una intervista al "Fatto Quotidiano" il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. "Sento parlare di rimpasto controllato - aggiunge - ma non c'è nulla di controllato quando si aprono processi del genere. Qualsiasi azione per provare a rimuovere Conte porterebbe alle urne". 

MICHELE EMILIANO.

Governo: Emiliano, Conte è unica alternativa per il Paese.  (ANSA 4 gennaio 2021) "Io penso che Conte in questo momento sia l'unica alternativa per questo Paese. Quindi penso che è inutile andare alle elezioni per rieleggere Conte, o per eleggere Conte. Tanto vale tenerselo e non fare cadere il governo, è più rapido". Lo ha detto il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, in una intervista al TgNorba. (ANSA).

ANDREA ORLANDO.

Governo: Orlando, alternativa a attuale equilibrio è voto. (ANSA 5 gennaio 2021) "L'alternativa proposta da Renzi non si capisce qual'è . Non abbiamo detto che vogliamo il voto perchè ci piace andare a votare in piena pandemia nè, oggettivamente, perchè la Costituzione dice che si deve votare per forza. Temiamo che le elezioni siano l'unica soluzione possibile per una ragione molto semplice: tutte le altre ipotesi alternative ad una soluzione costruita sulla base dell'attuale equilibrio, pur con i necessari ritocchi, non sono una soluzione perseguibile". Lo dice, interpellato da Fanpage.it all'uscita dal Nazareno, il vice segretario Pd Andrea Orlando. (ANSA).

Governo: Orlando, Conte equilibrio in maggioranza complicata Altre strade rischiano di essere peggiori. (ANSA 7 gennaio 2021) "Quando noi diciamo elezioni non lo diciamo perchè pensiamo che siano la via d'uscita ma perchè pensiamo che si rischi di rotolare verso le elezioni. Conte è un punto di equilibrio di una maggioranza complicata, non so se ce ne sia un altro. Le altre strade rischiano di essere peggiori". Lo afferma il vicesegretario del PD Andrea Orlando a l'Aria che Tira. (ANSA).

Governo: Orlando, escluso appoggio Pd a uno d'unità nazionale. (ANSA 12 gennaio 2021) "O Conte o il voto? Noi pensiamo che Conte sia il punto di equilibrio più avanzato di questa coalizione così composita, tutte le altre soluzioni non tengono e alle elezioni spesso ci si va non perchè qualcuno le voglia ma perchè ci si finisce. (...) Escludo totalmente il nostro appoggio a un governo di unità nazionale. Dovremmo gestire i fondi europei con questa destra antieuropea e una pandemia con questa destra negazionista. E' già difficile con questa coalizione, figuriamoci con una in cui ci sono delle distanze simili". Così Andrea Orlando (PD), ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7. (ANSA).

GIANFRANCO ROTONDI.

Governo: Rotondi, se si va alla conta elezioni inevitabili. (ANSA 8 gennaio 2021) "Se si va alla conta al Senato, le elezioni sono inevitabili. Avevo previsto questa mossa di Conte: se a uno punti la pistola alla tempia, è naturale che, se può , lui te la gira e spara. Appare evidente che l'obiettivo del premier sono le elezioni, non la sopravvivenza del governo al Senato". Lo afferma Gianfranco Rotondi della Dc. "I responsabili non sono mai esistiti. Li ha inventati Renzi sussurrandoli ai giornalisti più affezionati a lui. All'inizio pensavo che temesse la nascita di questi gruppi, poi ho capito che la inseguiva: gli avrebbe consentito libertà di opposizione senza compromettere la legislatura. Ma alle strette i numeri non ci sono, al Senato si è espresso a favore del governo solo chi già lo sosteneva", rileva. "Altro discorso in caso di elezioni anticipate. Esiste un cantiere aperto per un'area 'centrale' che potrebbe essere la novità politica in eventuali elezioni nel 2021; in quel caso potranno nascere "gruppi tecnici" per l'esonero della lista dalle firme, e i numeri ci sono in abbondanza, sia alla Camera che al Senato", conclude Rotondi. (ANSA). 

PIER LUIGI BERSANI.

Governo: Bersani, dopo Conte ci può essere solo Conte o voto. (ANSA 12 gennaio 2021) "Dopo Conte ci può essere solo Conte o si va a votare. Io sono per andare avanti, perchè trovo demenziale immaginare 3-4 mesi di stallo per avvicinarsi alle elezioni". Così Pier Luigi Bersani (Articolo Uno), a "Oggi è un altro giorno", su Raiuno. "Se fossi Conte e si dimettono i ministri, - aggiunge - andrei in Parlamento: non per una sfida all'Ok Corral, ma con il Recovery Plan sulle cose da fare per gli italiani, senza neanche nominare Renzi". Infine, una battuta sul vaccino: "Per me deve essere facoltativo fino a prova contraria, cioè fino a quando chi lavora in certi luoghi, come ospedali e Rsa, deve garantire la salute di chi viene curato". (ANSA). 

ROMANO PRODI.

Prodi, crisi inconcepibile, Conte fa bene. (ANSA 12 GENNAIO 2021)  "E' inconcepibile dal punto di vista razionale questa crisi". Lo dice l'ex premier Romano Prodi a Di Martedì su La 7. Ma qual è l'obiettivo di Renzi? "Lui ha la sicurezza che non si andrà ad elezioni e che alla fine qualcosa la ottiene. Questo è il suo punto di vista e io credo che abbia fatto bene Conte a dire 'se poi rompe, rompe...'. Non è che si possa poi riprendere dentro le cose", aggiunge. (ANSA).

MARIASTELLA GELMINI. 

Governo: Gelmini, se Conte cade si va al voto - Non ci sono condizioni per governo unità nazionale. (ANSA 15 gennaio 2021) - "Se nel 2020, con tutto quello che è successo, non è maturato un clima di unità nazionale, faccio fatica a pensare che possa crearsi adesso". Lo ha detto Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati, intervenendo a "Studio24", su RaiNews24. "Se Conte la prossima settimana non dovesse avere la fiducia dal Parlamento, ci si deve affidare al presidente Mattarella, e lavorare ad un governo di scopo che traghetti il Paese alle elezioni in primavera. Non penso - conclude - ci siano le condizioni per governi di unità nazionale". (ANSA)

MASSIMO CACCIARI. Roma, 18 gen. (askanews) – “Conte non ha bisogno di chiedere i voti a nessuno. I voti li ha già e ce li aveva comunque. Non c’è bisogno di alcuna compravendita”. Queste le parole di Massimo Cacciari in merito alla crisi di governo, intervistato da “Quarta Repubblica”, in onda questa sera, in prima serata, su Retequattro. E aggiunge: “Tutto questo Parlamento ha interesse a non andare a casa, per motivi di poltrona, per motivi umani, "troppo umani", diceva quel tale”.

MASSIMO D'ALEMA. Governo: D'Alema, non vedo alternative a questo esecutivo.  (ANSA 20 GENNAIO 2021) "Penso che il Governo abbia affrontato la prova della pandemia bene, meglio di molti governi europei, e soprattutto non vedo alternative. L'opposizione propone le elezioni, domani. Precipitare il paese in piena pandemia e con l'Europa che attende il Recovery Plan in campagna elettorale non è saggio. Da cittadino dico che bisogna aiutare il governo che c'è. Il governo vive un momento difficile, certo, ma l'alternativa dove è? Dove sarebbe questa sfolgorante classe dirigente pronta a prendere le redini del governo?" Lo ha detto Massimo D'Alema a Porta a Porta su Rai 1. "Credo che la passione di distruggere - ha aggiunto - è più forte di quella ricostruire e il sistema dell'informazione ha responsabilità, ma a furia di distruggere ci troviamo nella situazione in cui siamo. Io mi sento di fare argine a una deriva distruttiva in cui non c'è alcuna proposta. E' il governo possibile e nella mia posizione di persona che studia, cerco di dare una mano". (ANSA).

PAOLA DE MICHELI.

Governo: De Micheli, Conte punto equilibrio Con giochetti rischio voto. (ANSA 25 gennaio 2021) "Ci sono delle forze politiche e dei singoli parlamentari e senatori che invece vogliono dare un contributo al patto di legislatura? Questa è la domanda cui dare la vera risposta. Credo che le risposte arriveranno. E' un contributo individuale o di forze politiche per risolvere i problemi". Lo ha detto la ministra delle infrastrutture e trasporti Paola De Micheli a "Oggi è un altro giorno" su Rai 1. Interpellata sull'ipotesi che senza Conte si vada al voto, la ministra ha detto: "Conte è un punto di equilibrio.  Ciascuno può avere il suo giudizio, ma ha rappresentato per questa maggioranza un punto di equilibrio importante perché è' una maggioranza oggettivamente eterogenea". Il rischio, ha evidenziato De Micheli, "è che nella crisi al buio ci sia uno scivolamento verso le elezioni. Il Pd non le ha chieste, anche se non le temiamo e non ne abbiamo paura. Ma il punto vero è che quando aumenta il livello della confusione, con ultimatum e giochetti, il rischio di rotolare ad elezioni diventa molto forte". (ANSA).

STEFANO FASSINA.

Governo: Fassina, sia Conte-ter, alternativa voto è male minore. (ANSA 31 gennaio 2021) "Costruiamo il Conte Ter. In alternativa, l'unica, le elezioni sarebbero il male minore. Giuseppe Conte non è' Che Guevara. Ma e' condizione per strutturare e qualificare l'alleanza tra M5S-Pd-LeU: obiettivo di fase storica. Il punto politico ai fini della rinascita, riveduta e corretta, del Governo Conte non è la riammissione dell' "inaffidabile" Italia Viva. Il punto politico, al quale lavora con saggezza e passione il Presidente Fico, è il programma di legislatura.", Così dichiara Stefano Fassina, deputato LeU. "Ma attenzione al suo principio fondativo: insistere sull'ortodossia europeista porta al “Governo Ursula”, presieduto da Draghi o da una figura istituzionale trendy, così da normalizzare o dividere il M5S e riportare il Pd a servizio degli interessi più forti. Implica scomunicare metà del campo elettorale e i governi di 14 Regioni, cancellare le differenziazioni in esso evidenti, allontanare ancor di più classi medie spiaggiate da riconquistare, temere le elezioni come l'apocalisse, quindi consegnarsi alla misericordia del sen Renzi e predisporre ammucchiate elettorali senz'anima e senza risposte alle domande di protezione sociale e identitaria raccolte, in assenza di alternative, dalla destra", conclude Fassina (ANSA).

ANTONIO TAJANI.

Governo: Tajani, maggioranza Ursula non esiste. (ANSA 2 febbraio 2021) "Non esiste la sostanziale unità del Paese se manca mezzo Paese. Voglio dire una cosa chiara e netta: la maggioranza Ursula in Italia non esiste. Si è realizzata a Bruxelles perchè a guida Partito Popolare Europeo, che ha vinto le elezioni, al quale gli altri si sono accodati". Lo dice il vicepresidente di Fi Antonio Tajani ad Affaritaliani.it sull'ipotesi che Forza Italia possa partecipare a un governo con Pd, M5S e Italia Viva ma senza Lega e Fratelli d'Italia. (ANSA).

(ANSA il 5 febbraio 2021) Sul tavolo di Mario Draghi durante le sue consultazioni a Montecitorio c'è il "facciario" dei suoi interlocutori che via via si alternano ad incontrarlo: si evince dalle foto diffuse alla stampa dove, sul tavolo del presidente del Consiglio dei ministri incaricato insieme all'elenco dei consultati, all'ipad ed allo smartphone si vedono alcuni fogli con i ritratti dei componenti delle delegazioni. Davanti al premier incaricato, poi, una bottiglia d'acqua, un telefono ed un portapenne. All'occhiello della giacca scura, Draghi indossa la "rosetta" di Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana, l'onorificenza di cui è stato insigito su iniziativa del presidente della Repubblica il 5 aprile del 2000. Si tratta della più alta onorificenza dell'Ordine al Merito della Repubblica italiana.

Consultazioni, sulla scrivania di Draghi spicca il "facciario". Per riconoscere interlocutori e componenti delle delegazione dei partiti il presidente incaricato ha utilizzato una sorta di album con le foto dei vari esponenti politici. Novella Toloni, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. L'avvio delle consultazioni a Montecitorio ha acceso ufficialmente i riflettori su Mario Draghi. L'ex governatore della Bce ha iniziato il secondo giorno di colloqui con i capigruppo e le varie delegazioni, ma a saltare all'occhio è stata la sua scrivania e gli oggetti "scelti" da Draghi per accompagnarlo in questa prima giornata di lavori. A guardar bene, infatti, quel tavolo svela più di quanto si potesse pensare. E un po' come avviene in occasione del discorso della regina Elisabetta - dove si studiano i particolari della scrivania e del contesto - anche Mario Draghi non è sfuggito alla curiosità degli osservatori. Tra una classica bottiglia d'acqua e bicchiere, un portapenne stracolmo, il tablet e lo smartphone d'ordinanza a spiccare è il "facciario" dei suoi interlocutori. Una sorta di promemoria visivo (con tanto di fototessere) per aiutarlo a riconoscere coloro che, via via, si sono alternati ad incontrarlo. In fondo anche i migliori cantanti e attori hanno bisogno del gobbo. E in questo caso un aiutino non può certo nuocere, anzi. Soprattutto se la stanza in cui si tengono le consultazioni è una distesa infinita che ha posto più di dieci metri tra Draghi e i suoi interlocutori. Roba che se non porti gli occhiali, quasi ti servono per capire con chi stai parlando. Quindi ben venga il prontuario con le foto: facile, snello e senza intoppi (che di questi tempi è oro colato). Un'astuzia già utilizzata dal premier uscente Giuseppe Conte, che nel maggio del 2018 non rinunciò all'ausilio del "facciario" dei parlamentari eletti per aiutarsi nelle consultazioni di allora. Dalle foto diffuse dalle agenzie stampa, che hanno immortalato la seconda giornata di consultazioni dell'ex governatore della Bce, spicca anche il look scelto da Mario Draghi. Camicia bianca, cravatta prugna e giacca scura sul quale fa bella mostra di sé la "rosetta" di Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana, l'onorificenza ricevuta dal presidente della Repubblica il 5 aprile del 2000 e che rappresenta la più alta onorificenza dell'Ordine al Merito della Repubblica italiana.

Il nuovo governo. Governo Draghi verso una maggioranza bulgara, resta fuori solo la Meloni. Claudia Fusani su Il Riformista il 6 Febbraio 2021. Dalla scarsità all’abbondanza, che non sempre è sinonimo di qualità. In 72 ore, che in politica sono tantissime, il governo Draghi passa dal timore di non avere voti e la prospettiva non felice di partire con un governo di minoranza, allo scenario opposto, un all in a due facce, diverse e ciascuna a suo modo rivoluzionaria nel quadro politico italiano ed europeo. Nel primo caso si potrebbe arrivare addirittura al tutti-dentro esclusi Fratelli d’Italia ancorati all’opposizione più per convenienza elettorale che per convinzione. Nel secondo caso si tratterebbe di un’alleanza ancora più rivoluzionaria di quella Ursula che nel 2019 portò i 5 Stelle all’interno delle grandi famiglie storiche europee. Al posto dei 5 Stelle, infatti, o insieme ai 5 Stelle ci sarebbe la Lega. Che in Europa è alleata della Le Pen ma in Italia andrebbe a votare Draghi. Si chiama governo di unità nazionale. E l’unica ideologia che conta è salvare il paese. Sono ore frenetiche con continui ribaltamenti e improvvisi ripensamenti. Sarà tutto più chiaro oggi, a fine mattinata, quando prima la Lega e poi il Movimento 5 Stelle siederanno davanti al presidente incaricato per comunicare le rispettive decisioni. La prima delegazione guidata da Matteo Salvini, a tu per tu con l’incarnazione dell’euro e dell’europeismo, incubi – a quanto pare – di un’altra vita. La seconda delegazione guidata dal garante politico del Movimento, quel Beppe Grillo che ha guidato per dieci anni Vaffaday al grido “banche killer”, “finanza assassina” e varianti varie circa “l’odiato establishment”. È un fatto che la carta Mario Draghi ha fatto “esplodere” il quadro politico parlamentare dopo tre anni di equilibri instabili, quasi volatili, figli della frammentazione dei numeri e di uno “schema nuovo”: europeisti contro antieuropeisti. Adesso si potrebbe rimescolare tutto. E l’Italia diventare un laboratorio inedito per capire dove va la politica. Una pax politica che ha un padre, il presidente Sergio Mattarella: «Chiedo ai partiti e alle forze politiche di andare oltre le tradizionali appartenenze» aveva detto il martedì sera annunciando l’incarico a Draghi. E un agente provocatore, quel Matteo Renzi che ieri, dopo la consultazione con Draghi incontrando i giornalisti ha sollevato per un attimo la mascherina e ha mostrato per un attimo la faccia sorridente per dire: «Io adesso sono rilassato. Italia viva non è più rilevante in una maggioranza larga? Avremo meno ministri? L’unica cosa che conta è che sarà un signore che si chiama Mario Draghi a decidere come spendere i 209 miliardi del Recovery plan. E questa è la migliore polizza assicurativa per il paese, i nostri figli e i nostri nipoti. E ora arrivederci, ci vediamo nel 2023». Italia viva darà il suo sostegno al governo Draghi senza se e senza ma. Molto probabilmente con la Lega di Salvini e i 5 Stelle di Crimi. Ma anche con la Lega e senza i 5 Stelle. Senza limiti e gabbie ideologiche. Per qualcuno “il grande caos”. Per altri “il governo di salute pubblica” tante volte invocato. Mario Draghi si è confrontato per tutto il giorno a Montecitorio con le varie delegazioni alternandosi tra la sala della Lupa e la biblioteca del Presidente per consentire la sanificazione. Il presidente incaricato, assistito dal dottor Nuvoli caposervizio degli Affari generali della Camera, è stato percepito come “gentile”, “affabile” e “molto attento”. Ha ascoltato più che parlare, ha preso appunti su un bloc notes e con una bic nera, ha accolto le varie delegazioni tenendo davanti a sé il “facciario” dei deputati. Per guardare in faccia, spesso per la prima volta, i componenti dei vari gruppi. A fine giornata sul bloc notes è rimasto il sì con riserva di Leu («mai alleati con chi ha negato la pandemia ed è stato fino a ieri antieuropeista») che però in serata si è già molto ammorbidito. Il sì senza riserve dei gruppi delle Autonomie, di Italia viva, di Forza Italia, del Pd. Nessuna di queste delegazioni ha sollevato questioni sulla natura dell’alleanza pro Draghi. L’unico No è quello di Fratelli d’Italia. «Non possiamo votare la fiducia a Draghi e ad un governo con dentro Pd e 5 Stelle. La via maestra per noi resta il voto. Daremo comunque una mano senza avere nulla in cambio» ha detto Giorgia Meloni. Fratelli d’Italia rischia di essere l’unico gruppo all’opposizione. La scena si sposta quindi su domattina. Su quello che diranno Lega e 5 Stelle. Salvini sta cedendo il passo, ora dopo ora, alla linea Giorgetti e dei governatori, a cominciare da Zaia. Il no di quattro giorni fa è diventato il “vediamo” di tre giorni fa con sempre maggiori aperture («andiamo ad ascoltare quello che ci darà Draghi») fino all’apertura di ieri pomeriggio. Quando ha parlato di “ministri leghisti” e ha negato ipotesi di appoggio esterno. «Noi non facciamo le cose a metà, se ci siamo ci siamo» ha detto. «Siamo pronti a metterci la faccia senza condizioni. Chi sono io per dire io sì e tu no. Noi con Draghi non diremo non voglio tizio». Non è un Sì o un No a prescindere, ma «in questo momento l’interesse del Paese deve venire prima di quello dei partiti. E gli italiani oggi ci chiedono coraggio e serietà». È chiaro che la Lega non potrà autorizzare patrimoniali, aumento di tasse o l’azzeramento di Quota 100. Ma è altresì chiaro che Mario Draghi non comincerà da questi dossier, i più divisivi, la sua operazione di salvataggio dell’Italia. È un riposizionamento totale di Salvini rispetto al quadro politico. In qualche modo atteso e auspicato da larghe fette dell’elettorato leghista, soprattutto quel nord rimasto spiazzato e deluso dalla svolta statalista e assistenzialista della Lega nei quattordici mesi in cui ha governato con i 5 Stelle. Svolta che Giorgetti, sponsor di Draghi almeno tanto quanto Renzi (e i due si sono molto parlati in questo periodo) ha curato nei vari passaggi fin dall’autunno dopo la sconfitta alle regionali. Sarà invece ancora una notte di travaglio per i 5 Stelle. Beppe Grillo è arrivato a Roma, anche con Casaleggio. Ieri sono stati braccati dai cronisti in tutta la città. Senza successo. Nei momenti topici, il leader torna dai suoi ragazzi. Il Movimento sarà ascoltato per ultimo. E sembrano lontani secoli gli streaming prima con Bersani e poi con Renzi rilanciati dalle stesse stanze dove ora lavora Draghi. Il Movimento è diviso tra chi dice «andiamo a vedere cosa propone Draghi, siamo un partito di governo e i no a prescindere sono irresponsabili, l’Italia e l’Europa hanno bisogno di noi». E chi insiste, da Di Battista in giù, «mai con Draghi, mai con le banche». In mezzo una schiera di indecisi davanti all’ennesima decisione storica per il Movimento. Se il Movimento dovesse accettare di appoggiare il governo Draghi, al netto anche di una piccola scissione già messa in conto, non sarebbe una sconfitta per chi entrò in Parlamento con la promessa di “aprirlo come una scatoletta di tonno” (cit. Grillo). Ma la crescita responsabile di un Movimento che ha saputo, tra mille difficoltà, riconoscere errori e mettere al bando rigidità. Draghi farà un secondo giro di consultazioni. A partire da lunedì. Più veloce di questo. Sarà quello il momento delle proposte. E degli indizi sulla formazione della squadra di governo. In ogni caso sarà un governo molto politico. Il governo, questa volta sì, dei migliori. Il modello è quello del governo Ciampi, premier tecnico, ministri politici, fuori all’epoca, le “estremità” di allora, Msi e Prc. Oggi Fratelli d’Italia e qualche piccola frangia grillina o ex grillina. Un governo, quello di Draghi, sostenuto da maggioranze bulgare alla Camera e al Senato. Prendiamo le tre ipotesi. Tutti-dentro tranne Fratelli d’Italia significa un maggioranza di 595 voti alla Camera e 296 al Senato. Tutti dentro tranne Fdi e M5s, segna una maggioranza di 406 alla Camera e 204 al Senato. Anche con un improbabile, a questo punto, passo indietro della Lega che resterebbe fuori con Fdi, la maggioranza sarebbe larga alla Camera (466) e anche al Senato (223). Un autostrada per il governo del Presidente.

Le consultazioni. Draghi incassa i primi sì dei “big”, Grillo e Salvini alla prova con il premier incaricato. Carmine Di Niro su Il Riformista il 6 Febbraio 2021. Una maggioranza che "rischia" di essere ampia, ampissima per Mario Draghi. Dopo il secondo giorno di consultazioni l’unico no secco, chiaro, è quello di Giorgia Meloni. Fratelli d’Italia si tira fuori dall’ipotesi di sostenere con la fiducia l’esecutivo dell’ex numero della Bce, che incassa invece i sì di  Pd, Italia Viva, e Forza Italia. Via libera anche da Leu, il partito del ministro della Salute Roberto Speranza, pur storcendo il naso all’eventualità di trovarsi al tavolo con i sovranisti, mentre oggi è il turno di Movimento 5 Stelle e Lega, che venerdì hanno lanciato segnali incoraggianti. A conti fatti è pur vero che l’unico ad assicurare sostegno a Draghi “indipendentemente dal nome dei ministri e da quanti tecnici e quanti politici” è Renzi. Nicola Zingaretti ribadisce la fiducia all’ex Bce ma “abbiamo anche espresso le nostre preoccupazioni e in parte le nostre proposte”. Insomma “piena disponibilità”, ma non a tutti i costi: “Invieremo nelle prossime ore un documento per un programma di Governo forte, di lunga durata”. Lunga durata che viene confermata all’uscita dalle consultazioni da Giorgia Meloni. “Abbiamo chiesto al premier incaricato se il suo sarà un governo a termine, che consenta di riportare al voto gli italiani a giugno. Non è così, l’orizzonte è più lungo, di legislatura”, spiega la leader di FdI ribadendo il no a Draghi. Nel campo dei sovranità all’italiana la posizione di Matteo Salvini si fa invece più sfumata: “A me piacerebbe che nel Governo ci fossero tutti, mi dispiace che altri mettano veti”. Il pressing dell’area riferibile a Giancarlo Giorgetti si fa sentire e il Carroccio è passato dal ‘no’ ad una decisa apertura, ma per esserci la Lega vuole prendere parte all’esecutivo: “Non sono per le mezze misure: se sei dentro, sei dentro e dai una mano, ti prendi onori e oneri. Se stai fuori, stai fuori”, dice Salvini, che dovrebbe però saltare il giro nel “totoministri” a favore di Giancarlo Giorgetti, che con Draghi peraltro ha un ottimo rapporto. Restando nel centrodestra, da Forza Italia è arrivato l’appoggio a Draghi ad un “governo dei migliori”, assicura Antonio Tajani, che sostituisce come capodelegazione Silvio Berlusconi, costretto a tirarsi indietro per precauzione sanitaria, ma chiarisce anche che “non è una nuova maggioranza politica”. Resta quindi il rebus Movimento 5 Stelle. Per tentare di non sfaldare il tutto, Beppe Grillo è arrivato a Roma e guiderà oggi la delegazione all’incontro ma prima farà il punto con ministri, capigruppo e Vito Crimi. Riunione che vedrà anche la partecipazione del premier dimissionario Giuseppe Conte. Tra i grillini Davide Casaleggio punta al voto sulla piattaforma Rousseau per evidenziare la spaccatura e puntare alla scissione dei “duri e puri” assieme ad Alessandro Di Battista. Quanto a Draghi, dopo gli incontri con Lega e M5s, potrebbe aggiornare il Colle, poi lunedì mattina incontrare le parti sociali – sono preallertati Confindustria e sindacati – e subito dopo iniziare un nuovo giro con i politici.

Renzi si autoincensa per la vittoria politica: "Sì incondizionato, siamo accanto al premier". Show di Matteo: "Draghi è una polizza assicurativa per i nostri figli e nipoti". Pasquale Napolitano, Sabato 06/02/2021 su Il Giornale. È il giorno del vincitore: Matteo Renzi guida la delegazione di Italia Viva (Maria Elena Boschi, Teresa Bellanova e Davide Faraone) alle consultazioni a Montecitorio con il presidente del consiglio incaricato Mario Draghi. Si gode il successo politico, arrivato al termine della lunga crisi di governo, culminata con le dimissioni di Giuseppe Conte. Renzi è in palla. Decide lui il numero (massimo due) di domande da parte dei giornalisti. Scherza con il capogruppo dei senatori Iv Davide Faraone. Si autocelebra come «modello per le future generazioni». Al termine delle consultazioni si lascia andare a un siparietto con i cronisti: «Io sono rilassato. Abituatevi a non vedermi più, ci vediamo nel 2023». Tira giù la mascherina: «Volete vedere come sto? Ecco il mio sorriso smagliante», dice prima di essere richiamato all'ordine da un assistente parlamentare. «Dicono che Iv non sarà più rilevante? Ne sono entusiasta». Il leader Iv gongola per il nervosismo che trapela dagli ambienti vicini al segretario dem Nicola Zingaretti. Anche se da una ricerca condotta da Spin Factor di Tiberio Brunetti Renzi risulta ultimo nella classifica che registra il sentimento positivo nei confronti dei leader. All'ex numero uno della Bce la delegazione Iv non consegna alcun suggerimento. Ma la semplice rassicurazione: «Noi siamo al tuo fianco». Un via libera incondizionato al governo Draghi: «Mi auguro che tutte le forze politiche esprimano lo stesso sostegno a Draghi. Chi pone veti non fa solo un errore politico ma rifiuta l'appello del presidente della Repubblica». Colloquio breve: mezz'ora. Pochi punti programmatici, senza richiesta di ministri: «Gli manderemo tutto il nostro materiale e ulteriori elementi. Nel colloquio abbiamo sottolineato in particolare le questioni legate al lavoro e le politiche del lavoro con Bellanova, con Boschi il funzionamento delle regole parlamentari, con Faraone tutto il tema del piano shock e delle infrastrutture», spiega Renzi. Il nocciolo dell'intervento del rottamatore è sul cambio di scena: «Aver individuato in Mario Draghi l'interlocutore per formare il governo ha portato immediatamente una ventata di credibilità e fiducia nel Paese, Mario Draghi presidente del Consiglio è una polizza assicurativa per i nostri figli e per i nostri nipoti, chi meglio di lui può gestire questo passaggio in cui il Paese ha più soldi da spendere che in tutta la sua storia repubblicana». Una garanzia. «Per chi ama la politica internazionale l'idea che la presidenza del G20 sia affidata all'italiano che più di ogni altro ha partecipato a summit del genere è un elemento di grande serenità e solidità. Il fatto che Draghi sarà l'uomo che rappresenta l'Italia è molto importante. Nel 2021 Merkel lascerà, Macron attende un anno di campagna elettorale molto impegnativo. L'idea che Italia sia alla guida anche delle Istituzioni europee ci dà fiducia», sottolinea l'ex premier. Toglie dal tavolo il capitolo Mes e ritorna sulle ragioni della crisi: «Meglio se 209 miliardi li spende Draghi e non altri». Il Renzi day è un'orgia di autoelogi.

Massimo Recalcati per “la Stampa” l'8 febbraio 2021. Non senza nascondere un certo compiacimento Massimo D' Alema aveva riconosciuto, nei giorni precedenti la crisi di governo, in Conte il politico più popolare in Italia e in Renzi il più impopolare. Questo a seguito della decisione del leader di Italia Viva di sfiduciare il governo ritirando i suoi ministri. D' Alema si è fatto interprete di un coro che, soprattutto nei giorni precedenti la caduta di Conte, è apparso unanime e rabbioso: Renzi sarebbe vittima patologica del suo Ego, irresponsabile a generare una crisi di governo al buio in un tempo di emergenza sanitaria ed economica, abbagliato dalla necessità solo tattica di recuperare visibilità politica, indifferente alle conseguenze collettive dei suoi scellerati passaggi all' atto. Quando i giudizi si compattano in modo così conformistico contro qualcuno, uno psicoanalista, abituato a diffidare da ogni forma di pensiero unico, non può non interessarsene. La soluzione Draghi ha forse raffreddato gli animi consentendo un' altra lettura dell' azione politica di Matteo Renzi? Non abbiamo forse in questi giorni la sensazione di una risposta finalmente adeguata alla crisi sanitaria ed economica senza precedenti che ha travolto il nostro Paese? Aveva allora davvero torto Italia Viva a porre le critiche nei confronti del governo Conte? Immobilismo, esautoramento del Parlamento, errori di fronte alla emergenza sanitaria e, soprattutto, nella programmazione dei futuri investimenti, per non citare il tema del Mes. Davvero la crisi che ha innescato la nomina di Draghi è stata avvertita come incomprensibile da parte degli italiani, come si è sentito ripetutamente dire in ogni occasione? Davvero è stata una pura manovra di palazzo? Non poteva esserci una giusta istanza in quelle critiche grazie alla quale abbiamo oggi l' occasione di avere un presidente del Consiglio che non potrà più essere rappresentato da Casalino per evidente incompatibilità estetica ed etica? Nessuno dei critici più severi e implacabili di Renzi nutre dei dubbi su questo punto? A proposito di Renzi è toccato a Bersani nelle settimane della crisi a lasciarsi sfuggire il Witz che raduna attorno a lui una generazione di sconfitti. Non credevo alle mie orecchie di psicoanalista quando in televisione l' ho ascoltato definire Renzi, in modo allusivo, come un eiaculatore precoce, ovvero come qualcuno che non si saprebbe trattenere, come un ragazzo alle prime armi di fronte al marasma dell' eccitazione erotica. Eccoli, ho pensato. Ti giri un attimo e ritorna immancabile il paternalismo della sinistra tradizionalista e il suo immancabile livore! In un attimo questo Witz ha radunato attorno a sé tutti gli ex-rottamati da Renzi che hanno avuto l' ennesima occasione per ribadire che avevano visto lungo, che il ragazzo è un corsaro, una canaglia, un poco di buono, un figlio bastardo e, soprattutto, la prova più evidente della loro innocenza. Il livore antirenziano segnala come ripeto da tempo un problema storico del centro-sinistra assai più serio di quello della diagnosi psicopatologica di Renzi. In gioco è l' identità stessa del Pd, di ereditare autenticamente la propria storia, della sua capacità o incapacità di interpretare il suo tempo. Nonostante Renzi militasse nel loro stesso partito i vecchi comunisti lo hanno vissuto sempre come un corpo estraneo, facendogli la guerra in modo militante e organizzato. Questo non ha solo contribuito alla caduta del sogno riformista che Renzi ha rappresentato, seppur per un breve tempo, per l' Italia, ma - ben al di là di Renzi - ha mostrato tutti i limiti interni relativi all' identità politica del Pd. Oggi non siamo in un tempo molto diverso da quello. Almeno dal punto di vista delle dinamiche psicologiche del centro-sinistra. Ieri D' Alema e soci brindavano nelle sedi del Pd alla sconfitta del loro stesso partito al referendum, felici di avere frenato l' ambizione smodata del figlio ribelle e di aver salvato la Costituzione, ieri esultavano di fronte al suo ennesimo passo falso, quello di avere provocato una crisi al buio non rendendosi conto però che nel buio eravamo già tutti. La demonizzazione del figlio bastardo di Rignano è oggi il paravento dietro il quale nascondere la propria dipendenza politica dal M5S. Sarebbe invece dovuto essere proprio il Pd a sollevare la crisi assumendosi la responsabilità di dare al Paese una nuova speranza. Non è questo storicamente il suo compito? In molti dei suoi militanti condividevano le tesi critiche di Renzi senza avere il coraggio politico di assumerle pubblicamente. Nel nome dell' emergenza, ovviamente. Ma non è l' emergenza a imporre sempre cambiamenti drastici? A insegnarci che il coraggio delle proprie idee merita la luce? A imporre di voltare pagina?

IO LA VEDO COSÌ - Perché tanto odio contro Renzi? Lidia Marassi Il Quotidiano del Sud l'8 febbraio 2021. Matteo Renzi è ora, probabilmente, l’uomo più impopolare di Italia, o ci si avvicina. A seguito dei recenti avvenimenti, le vicissitudini politiche che lo hanno visto protagonista non hanno che alimentato il malcontento diffuso che già si concentrava, soprattutto in rete, attorno al leader di Italia Viva. Rispetto alle scelte del suo partito, Renzi ha più volte ribadito che sono state dettate dall’impossibilità di un confronto serio con gli ormai ex alleati di Governo, la cui mancanza di contenuti avrebbe reso impraticabile ogni tentativo di dialogo. Quali che siano state le sue motivazioni, valide o meno, sembra che ormai non abbia più importanza. Negli ultimi giorni, sui social si è scatenato un fortissimo odio mediatico contro il senatore fiorentino; lo stesso Renzi ha parlato di “aggressione mediatica” nei suoi confronti, che avrebbe stavolta percepito in modo più duro rispetto al solito. Se qualsiasi personaggio politico può godere o meno di un buon consenso, chiunque sia malvisto dall’opinione pubblica è suscettibile, specialmente online, di critiche e attacchi da parte dell’elettorato. L’eccessiva esposizione mediatica della classe dirigente comporta del resto la conseguente reazione degli utenti che, se scontenti, hanno la possibilità di esprimere il proprio dissenso quasi senza remore. Eppure, in questo caso, se da un lato l’ex Premier ha spesso corso il rischio di apparire come un vittimista, d’altra parte basta controllare qualsiasi piattaforma online per rendersi conto che, nel caso di Italia Viva, sembra esservi una aggressività verbale incontrollata. Non è il caso di parlare di “attacco mediatico” non solo per non strizzare l’occhio ad un qualche – insensato – complotto ai danni del partito di Renzi, ma soprattutto perchè non vi è alcuna azione organizzata che voglia danneggiarne l’immagine, quanto piuttosto siamo davanti al prodotto di anni di esacerbato malcontento, fomentato anche dalla stampa italiana. Intendiamoci, se un politico non riesce ad ottenere consenso, di base deve aver fatto qualcosa che lo ha reso sgradevole agli occhi dei cittadini, ma la legittimazione di un tale accanimento passa soprattutto attraverso il giudizio dell’opinione pubblica. Vi sono correnti di pensiero che, nell’immaginario comune, appaiono meno accattivanti di altre, alcune che invece sembrano essere realmente condannabili, ma, se tutte sono criticabili, ad oggi nessun insulto pare grave quanto dare a qualcuno del “renziano”. Persino provare ad interessarsi a questa particolare dinamica sociale potrebbe far nascere, in un eventuale interlocutore, la convinzione che si voglia in qualche modo fare una apologia dell’indifendibile. Ma come si è costruito, al netto dei suoi errori, questo stigma contro Matteo Renzi? Questi, suo malgrado, è diventato fortemente impopolare a seguito degli anni del suo governo, duranti i quali il rancore nei suoi confronti sembrava però trovare giustificazione nelle azioni, poco condivise dai più, della sua gestione politica. Adesso, da qualche tempo, sembra di trovarsi davanti ad un Signor Malaussène (dall’omonimo libro di Daniel Pennac), utilizzato come capro espiatorio anche quando, a conti fatti, è chiamato in causa per giustificare gli errori collettivi di una cattiva gestione politica. La crisi, indubbiamente, è stata aperta da Renzi, ma sarebbe quantomeno irrealistico ritenerlo il responsabile primario degli errori dell’ormai ex-Governo, così come della mancanza di una maggioranza solida. Pare difficile riuscire a giustificare l’eclisse di popolarità di Matteo Renzi basandosi su errori commessi in questa o quella circostanza, soprattutto quando i più autorevoli commentatori internazionali, avulsi dallo scenario politico italiano, descrivono spesso le sue azioni come ponderate e meritevoli. Ci deve essere dunque qualcosa di più strutturale di una condivisa antipatia, che getta semmai le sue basi in un carattere non certamente accomodante, in bilico tra battute mordaci ed il noto egocentrismo esasperato. Ma la leadership si accompagna spesso a personaggi carismatici e presuntuosi, più o meno apprezzati ma difficilmente tanto ghettizzati. Resta il dubbio che il motivo principale possa essere che Renzi, pur avendo commesso errori, abbia comunque mostrato ad una certa sinistra la sua inadeguatezza. Se gli ideali di un tempo resistono come sottotraccia dello scenario sociale, la sinistra idealizzata è forse decaduta, ormai da anni. Quella classe politica che ha cristallizzato e infine disilluso il proprio paradigma, senza accorgersi che si stava consumando col passare del tempo, ha avuto la colpa di non essere stata all’altezza delle sue stesse aspettative. Renzi, da contro, ne ha sottolineato le mancanze, non provando a curarle, ma piuttosto proponendo un’alternativa politica che si pone agli antipodi e, per molti, non è perciò meritevole d’esser detta “di sinistra”. Allora, al di là di queste dissertazioni, forse è solo il caso di limitarsi a sottolineare che, quando si è detto che l’ex Premier Conte aveva evitato il confronto con Italia Viva, tale sdegno è stato condiviso da gran parte dell’opinione pubblica, secondo il monito per il quale estromettendo il senatore dal confronto politico, “finalmente”, lo si sarebbe potuto allontanare. Questo modo di ragionare, tuttavia, sembra essere molto pericoloso. Forse, trattandosi di Renzi, è stato difficile comprendere la gravità di un così forte accanimento ai danni di un partito politico che era parte della squadra di Governo. E che, che piaccia o meno, è stato sufficientemente scaltro da farlo cadere. 

Il Cav salva di nuovo la democrazia. Dando via libera a Draghi anche a costo di provocare malumori fra gli alleati, Silvio Berlusconi completa il secondo ciclo storico. Paolo Guzzanti, Sabato 06/02/2021 su Il Giornale. Dando via libera a Draghi anche a costo di provocare malumori fra gli alleati, Silvio Berlusconi completa il secondo ciclo storico. Il primo fu bloccare all'ultimo istante l'operazione che avrebbe dovuto consegnare al vecchio Partito comunista la Repubblica, decapitata da un'impresa giudiziaria. Berlusconi costruì allora una macchina da guerra liberale che batté quella dell'ultimo segretario del Pci, che la definiva «gioiosa». A Berlusconi gliela fecero pagare carissima, e questa è storia nota. Adesso siamo al secondo salvataggio in extremis della democrazia liberale per metter fine al secondo ciclo perverso: quello del populismo dell'uno vale uno, cioè niente; della decrescita infelice, del reddito alla ndrangheta e del progetto dichiarato di aprire la democrazia come una scatola di tonno, impresa che è già cominciata e in parte è riuscita. Affinché ciò avvenga, occorre un capitano, non un raccattapalle che metta insieme tutti i «punti di caduta», visto che l'Italia intera è un Paese in caduta libera, visto che «il morbo infuria e il pan ci manca» - pandemia e crisi economica - come ai tempi della guerra e peste di Venezia del 1849. La scelta di sostenere questo governo ha non solo lo scopo di rimettere a posto sanità ed economia a pezzi, ma di ridare vita alla democrazia liberale che Grillo e i suoi hanno cominciato a distruggere. Questo è il punto non di caduta, ma di riscossa su cui l'intero centrodestra dovrebbe ripartire senza svenarsi sulle differenze.

Simona Ravizza per corriere.it il 6 febbraio 2021. Il problema è sempre lo stesso: la fibrillazione atriale parossistica, ossia un’alterazione del ritmo del cuore che l’ex premier Silvio Berlusconi si trascina da tempo e si riacutizza di tanto in tanto (per tenerla sotto controllo da anni ha il pacemaker). L’assenza del leader all’incontro con Mario Draghi, però, assicura chi gli è più vicino, non è dovuta a un nuovo episodio, bensì alla necessità di mantenere il «riposo assoluto» che gli è stato prescritto dal medico di fiducia Alberto Zangrillo in occasione dell’ultimo attacco: è il 14 gennaio quando Berlusconi viene ricoverato al Centro cardiotoracico del Principato di Monaco per un paio di giorni proprio per questo problema. Quel periodo di «convalescenza» non è ancora trascorso. Così niente incontro. Berlusconi, 84 anni, era risultato positivo al Sars-CoV-2 nel settembre dello scorso anno, e aveva sviluppato i sintomi del Covid-19, tra cui una polmonite bilaterale. Anche i figli Luigi, Barbara e Marina erano in seguito risultati positivi al virus. Uscito dal ricovero, Berlusconi aveva parlato della malattia come di una battaglia durissima, aveva precisato di essere stato in angoscia per figli e nipoti, e aveva invitato i malati a «non lasciarsi andare».

Flavia Perina per "La Stampa" il 10 febbraio 2021. Silvio Berlusconi rientra a Roma dopo un anno di quarantena e la crisi politica si tinge immediatamente di show perché c'è il tweet presidenziale sulla scaletta dell'aereo («Arrivato a Roma»), le riprese a villa Zeffirelli con il cane Dudù e persino il video musicale per celebrare l'evento, con lui che appare dietro un vaso di geranei, saluta facendo capolino, poi si mostra a figura intera, col sole che lo illumina mentre sorride. È Evita Peron, al suo trionfale ritorno in Argentina, oppure Gloria Swanson nell'ultima scena di Sunset Boulevard («Eccomi De Mille, sono pronta per il mio primo piano»)? Si dovrà decidere. Intanto i cameramen gridano «Daje Silvio», i parlamentari forzisti si affollano emozionatissimi nei corridoi della Camera, i commessi si inchinano. Ecco, prima di lui la crisi era troppo seria, triste, "europea", con lui torna un po' più italiana e funambolica. L'improvvisa riapparizione del Cavaliere nel teatro delle consultazioni oscura persino Beppe Grillo (pure lui di nuovo a Palazzo Chigi per il secondo giro) e si impone sulle immagini decisamente stanche di Matteo Salvini e Nicola Zingaretti. Nessuno dei big ha molto da aggiungere alle cose già sentite, e anche Silvio ripete frasi scontate sulla necessità di un governo di unità nazionale. Ma, nel suo caso, il messaggio non è nelle parole. È nella postura, nell'estetica, nella colonna di macchinoni che lo trasporta a Montecitorio, nel gesto rapido con cui si leva la mascherina per farsi riprendere bene dai fotografi. «Sì, sono proprio io». O anche: «Quando la Patria chiama, io ci sono» (non l'ha detto davvero, ma il sottotesto era palese). Tornare a Roma per Silvio Berlusconi è stata probabilmente una necessità politica. Fino a una settimana fa, pensava di poter costituire la colonna portante del governo Mario Draghi nel formato della "maggioranza Ursula". A Forza Italia sarebbe toccato il ruolo prima esercitato dai renziani: quello di partito numericamente indispensabile, e quindi titolare della golden share dell'esecutivo. Poi Matteo Salvini ha fatto il suo giro di valzer e Forza Italia è diventata assai meno importante. Era la reginetta della festa, in cinque minuti si è trovata a far tappezzeria. Allora, come sempre, è toccato al Cavaliere riaccendere i riflettori su se stesso e sui suoi trasformando la partecipazione alle consultazioni in una celebration lunga un giorno. In mattinata l'arrivo nella Capitale con jet privato: la foto in total black sulla scaletta viene spinta ovunque sul web. «Stai come un picchio!» commentano i fedelissimi, e ognuno ha un suggerimento, compreso chi dissente dalla scelta delle scarpe («Presidente, però le Hogan no» - segue dibattito con 25 commenti sull'importanza del calzare italiano e sulla collocazione politica del brand, che per qualcuno è comunista). Poi la corsa nella sua nuova residenza romana, la villa sull'Appia Antica che fu di Franco Zeffirelli, ed è qui che si gira il video dei geranei mentre i fotografi riescono a riprendere il cane Dudù insieme a Dudina. Di nuovo in auto, ed è subito Montecitorio: esterno Camera con folla, interno con le feste dei forzisti e la tappa nell'ufficio della vicepresidente Mara Carfagna, dove scoppia l'applauso. Il colloquio col premier incaricato diventa un dettaglio (anche se servirà per mostrare la gran confidenza, il fatto che si danno del tu) in una giornata programmata per avere un solo titolo: «Lui c'è». Il successo mediatico della resurrezione, oltreché il trasporto a Roma dei cani, fa pensare che Berlusconi sia tornato per restare, almeno un po', e tentare l'ultimo colpo della sua carriera conquistando un ruolo di protagonista nell'operazione di salvezza nazionale che sta per aprirsi. Dopo un anno di buen ritiro a Nizza forse si è stufato, forse ha capito che la conversione di Salvini rischia di produrre un disastroso sorpasso al centro con l'immaginabile e temutissimo ingresso del Capitano nel Ppe. Un Salvini "merkeliano" cancellerebbe l'ultimo plus rimasto a Forza Italia dopo il declino elettorale: l'apparentamento "in esclusiva" con la famiglia che guida il Continente. Brividi. E così, ecco lo show, i cani, i video, la photo-opportunity sulla scaletta, ecco la necessità di mostrarsi di nuovo vivo e vegeto dopo un anno di lockdown in quel di Nizza, con lo scopo evidente di restaurare l'immagine del leader sempre-in-piedi e (forse) il desiderio occulto di fare un dispetto a Pd e grillini («ecco, dovete ingoiare anche questo rospo»). Non è la prima volta che succede. Il titolo «Silvio is back» lo abbiamo letto a cadenza quasi annuale fin dal 2013, l'anno dell'addio al Parlamento, perché ogni campagna elettorale era una ri-discesa in campo, ogni momento topico un nuovo predellino, sempre seguito da sparizioni sempre più lunghe e preoccupanti per i suoi (vai a vedere che, così come ha dismesso il Milan, vuole liquidare per esaurimento pure il partito?). Anche in questa occasione, come nelle precedenti, il dubbio sulla natura della rentrée resta. Uno show occasionale o un nuovo progetto? Il primo atto di una nuova storia, o l'ultimo ciak, luccicante e malinconico, di un grande divo che ha visto esaurirsi la sua stagione? Insomma, Evita o Gloria?

Fabrizio Roncone per il "Corriere della Sera" il 10 febbraio 2021. Montecitorio, quello che avete visto alla tivù è niente. Pomeriggio con un tasso di situazionismo pazzesco. A parlare con Mario Draghi sono venuti tutti. Ma tutti. «Andiamo a salutare lo Zio Silvio!», urla un fotografo buttandosi giù per le scalette di via della Missione, mezzo ironico e mezzo sincero, con quel po' di nostalgia canaglia per i tempi in cui Silvio Berlusconi faceva tutto in grande, politica opere e peccati, anche se poi in effetti eccolo che ancora arriva dentro un corteo da sultano, il pulmino blindato in coda a cinque macchine, la sua che si infila subito nel garage. Ma come: non si fa vedere? Ragazzi, calma: vi siete dimenticati del senso di Berlusconi per lo spettacolo? E infatti, nemmeno il tempo di finire la frase, lo Zio Silvio è già qui fermo sul portone, con le capogruppo di FI Anna Maria Bernini e Mariastella Gelmini alle spalle, le sue spalle ormai un po' curve dentro il solito magnifico doppiopetto blu di Caraceni. Si scatena un mischione. «Presidente, è un piacere vederla!». «Grande!». «Bella Silvio!». Microfoni nell' aria, le luci delle telecamere accese. Lui se la gusta tutta questa scena antica, d' un tempo andato, s' abbassa pure la mascherina anche se non dovrebbe, e così tutti notiamo le rughe belle dell' età che nemmeno un dito di cerone riescono più a nascondere. Ma va bene, gli anni passano per tutti e anche per Berlusconi, che è voluto venire in volo privato dalla Provenza, che dopo aver dato la linea al suo partito adesso con Draghi vuole parlare personalmente, nonostante appena quattro giorni fa i medici siano stati perentori dicendogli: no, presidente, il suo cuore ogni tanto saltella e lei, a Montecitorio, non ci va. Un quarto d' ora dopo. Sala della Lupa. Qui può darsi che qualcosa siate riusciti a guardarla, nei tigì. Draghi va incontro a Berlusconi - che avanza leggermente incerto, come ciondolante - e poi si danno il gomito, e si sente l' ex grande capo della Bce che dice con tono accogliente: «Ciao, grazie per essere venuto». È una di quelle scene destinate a restare (uscendo Berlusconi dichiarerà: «L' ora è grave. Totale sostegno. Governo di unità»). Il tempo di scrivere due appunti sulla Moleskine. E di vedere, subito, laggiù, Nicola Zingaretti. La delegazione del Pd ha preceduto quella di FI. Con Draghi, raccontano i democratici, l' incontro stavolta è stato assai fruttuoso e così adesso se ne stanno andando tutti abbastanza soddisfatti - Zingaretti, Orlando, alcuni componenti dello staff. Ma, all' improvviso, compare Beppe Grillo. Il capelli bianchi. Il viso bianco. Lo sguardo cupo. Preoccupato? Sì, molto preoccupato. «Avete consegnato tutte le cartuccelle?» (Grillo è rimasto, sostanzialmente, un comico, e da comico pensa sempre di dover far ridere: così prova a ironizzare sul corposo dossier che il Pd ha appena consegnato a Draghi). «Sì, gli abbiamo consegnato tutte le carte», risponde Zingaretti, mettendo su un' aria simpatica, ma che in realtà è di pura cortesia. Ancora Grillo: «Com' è andata?» (cerca di capire come va agli altri, mentre sta per decidere che sarà meglio rinviare il voto sulla piattaforma Rousseau, che lo lascerebbe penosamente appeso insieme a Di Maio). Zingaretti: «La situazione si muove, si muove», replica un po' vago il segretario del Pd, che comunque qualche pensiero ce l' ha pure lui (da ore gli arrivano i siluri interni della coppia Bonaccini&Gori, che con grande sensibilità politica pensano di assaltare la segreteria del partito mentre qui non c' è ancora nemmeno un governo; poi, ma questo Zingaretti non lo ammetterà mai, poi c' è che gli tocca venire a parlare con Draghi insieme ad Andrea Marcucci, il capogruppo al Senato legato da profonda amicizia a Matteo Renzi, il sorriso dolciastro, la richiesta di un congresso formulata mentre ancora il Paese viaggia alla media di 400 morti al giorno; Zingaretti gli ha dovuto rispondere duro: «Parlare di congresso, ora, è da marziani»). Ecco, appunto. E Renzi? Ci sono tutti, c' è pure lui. Partecipa all' incontro con il gruppo di Iv. Ma poi davanti ai microfoni lascia Maria Elena Boschi, sempre vestita di nero. Renzi va via mollandoci comunque un paio di notizie niente male. La prima: è già una settimana che non cambia idea. La seconda: saluta dicendo «Sono felice. I love you», e bisogna ammettere che la pronuncia in inglese, sì, la imbrocca (non è molto portato per le lingue straniere, fatica tanto, i miglioramenti vanno segnalati). Nient' altro. A parte Giorgia Meloni e i suoi che restano da Draghi mezz' ora in più del consentito. E Matteo Salvini che esce e viene al microfono. Canticchia. Se ne va. Poi torna, è un po' sudato e ha un accenno di fiatone (può essere un po' di stanchezza; ma se ricapita, qualcuno avverta la fidanzata, Francesca Verdini) .

Così Silvio Berlusconi l’immortale è tornato al centro della scena. Francesco Damato Il Dubbio il 7 febbraio 2021. Silvio Berlusconi è tanto orgoglioso quanto geloso dei suoi successi e gli dà fastidio doverli condividere e rivendica l’indicazione di Draghi alla Bce. Figuriamoci se Silvio Berlusconi non si lasciava perdere l’occasione per partecipare in qualche modo alla festa del “suo” Mario Draghi. Al quale ha telefonato di persona per anticipargli l’appoggio che la delegazione forzista gli avrebbe espresso nelle ore successive e scusarsi del divieto impostogli da medici e familiari di muoversi dalla villa in Provenza. Dove la figlia Marina lo ha affettuosamente e metaforicamente chiuso a chiave per proteggerlo dal Covid. Quel “suo” nasce dalla convinzione di Berlusconi di essere stato lui nel 2011, ancora presidente del Consiglio, a volere e saper portare Draghi alla presidenza della Banca Centrale Europea. Certo, il curriculum già internazionale dell’allora governatore della Banca d’Italia era tanto consistente da rendere difficile alla Cancelleria di Berlino o all’Eliseo una resistenza oltre un certo limite alla candidatura avanzata da Berlusconi. Al quale i vertici comunitari, a dire il vero, guardavano ormai più con diffidenza che con simpatia, preferendo spesso interloquire direttamente col presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sino a metterlo qualche volta in imbarazzo. Ma, per carità, non ditelo al Cavaliere, convinto di essere stato lui, e soltanto lui, l’artefice di quel trasferimento di Draghi a Francoforte. Si sa che Berlusconi è tanto orgoglioso quanto geloso dei suoi successi e gli dà fastidio doverli condividere con altri. D’altronde, ai tempi della sua sostanziale defenestrazione da Palazzo Chigi, sempre in quel fatidico autunno del 2011, egli fece buon viso al cattivo gioco della crisi del suo ultimo governo di fronte al nome del successore: Mario Monti. A proposito del quale Berlusconi non perse un istante per vantarsi di averlo voluto, da presidente esordiente del Consiglio nel 1994, a rappresentare l’Italia con Emma Bonino nella Commissione Europea. Anche Monti era in qualche modo “suo”, e continuava ad esserlo anche dopo essere stato confermato a Bruxelles dai governi successivi, di segno politico opposto. Fu tanto orgoglioso di dovergli cedere Palazzo Chigi che Berlusconi, contrariamente alla prassi, volle controfirmare personalmente il decreto del Presidente della Repubblica con cui Monti veniva nominato a senatore a vita per alti meriti prima di ottenere l’incarico di presidente del Consiglio. Così peraltro quel poco che era, ed è, rimasto dell’immunità parlamentare poteva in qualche modo mettere al riparo il capo del nuovo governo da qualche iniziativa avventata di un sostituto procuratore della Repubblica. E chi più di Berlusconi poteva capire e condividere una simile cautela? Va detto che Monti non si mostrò per nulla imbarazzato da tanto calore. E si compiacque della decisione di Berlusconi di interrompere, diciamo così, l’alleanza con la Lega di Umberto Bossi pur di votargli la fiducia. Quella del Carroccio fu invece opposizione dura, alla quale tuttavia si convertì pure Berlusconi in vista delle elezioni ordinarie del 2013. Che il Cavaliere, col fiuto e l’ostinazione che gli riconoscono anche gli avversari, ritenne di poter vincere se affrontate con la Lega. E ci sarebbe riuscito se Monti, per una sostanziale ritorsione in nome della difesa della propria “agenda” politica, non fosse sceso in campo pure lui con un movimento che poi si dissolse come neve al sole nella nuova legislatura, non prima però di impedire – come poi egli stesso si sarebbe più volte vantatouna candidatura vincente di Berlusconi al Quirinale per la successione a Giorgio Napolitano. Che infatti, fallite le corse di Franco Marini e di Romano Prodi, entrambi azzoppati dai soliti “franchi tiratori” dello schieramento di appartenenza, fu confermato. Lasciatemi esprimere con tutta franchezza la convinzione che Berlusconi, se fosse riuscito ad andare al Quirinale, difficilmente sarebbe finito dopo solo qualche mese in quella curiosa storia di un processo per frode fiscale celebrato in ultima istanza, quasi al limite della prescrizione, e conclusosi con la condanna del primo o fra i primi contribuenti italiani. Quello che è uscito proprio in questi giorni dai ricordi di Luca Palamara sugli intrecci fra magistratura e politica avvalora, a dir poco, la mia impressione. Ma torniamo a Draghi e al suo governo, di cui si può dare ormai per scontato che nascerà con l’aiuto, a dir poco, di Berlusconi. Che è tornato d’altronde sulla scena già da qualche tempo, se mai ne è stato davvero allontanato, col progressivo logoramento del secondo governo di Giuseppe Conte. E’ un Berlusconi di cui non si capacita – giustamente dal suo punto di vista – il pugnace Marco Travaglio. Che ieri sul Fatto Quotidiano, nervoso anche coi pentastellati refrattari ai suoi consigli e ormai prenotatisi, secondo lui, al “suicidio assistito”, si chiedeva se davvero Draghi e persino Beppe Grillo, con tanto di fotomontaggio, si apprestassero a “governare con lo Psiconano”. Che naturalmente è diventato nel testo dell’editoriale, non bastando il dileggio fisico, il solito “pregiudicato amico dei mafiosi”.

Mario Draghi e l'incontro con Silvio Berlusconi: audio rubato, dopo le risate quella frase che svela molte cose. Libero Quotidiano il 09 febbraio 2021. A sorpresa, Silvio Berlusconi è arrivato a Roma. Il leader di Forza Italia ha voluto condurre in prima persona il secondo giro di consultazioni con il premier incaricato, Mario Draghi, dopo aver disertato all'ultimo secondo il primo giro di incontri. Un faccia a faccia franco, quello tra il Cavaliere e l'ex governatore della Bce, al termine del quale Berlusconi ha posto dei paletti piuttosto chiari: gli azzurri chiedono un governo di unità nazionale, dunque non politico, e dagli orizzonti limitati, ossia che duri solo per il tempo strettamente necessario per superare la crisi di governo. Ma al di là dei paletti, dei dati politici, è spuntato anche il video dell'incontro tra Draghi e Berlusconi, il video che li mostra quando dopo tanto tempo si ritrovano faccia a faccia, l'uno davanti all'altro. E, come si vede nelle immagini qui sotto, sono subito risate, quasi da vecchi amici. Dunque il saluto gomito a gomito, così come imposto al tempo del coronavirus. "Come si deve salutare...", si sente la voce di Draghi. Dunque uno scambio di "ciao", infine sempre Draghi si rivolge a Berlusconi e afferma: "Grazie di essere venuto". Insomma, pochi secondi che dimostrano la grande confidenza che c'è tra Draghi e Berlusconi, due che si vedono e chi si frequentano da tanti, moltissimi anni. Dopo l'incontro, nel punto stampa, Berlusconi si è rivolto a Draghi parlando di "una risposta credibile di fronte all'Europa e al mondo, una risposta anche unitaria che avevamo chiesto per primi e che trova piena corrispondenza nell'invito rivolto dal Capo dello stato a tutte le forze politiche ad assumersi la loro responsabilità". E ancora: "Noi faremo la nostra parte con lealtà e spirito costruttivo. La gravità dell'ora impone a tutti di mettere da parte calcoli, tattiche e interessi elettorali per mettere al primo posto la salvezza del paese. Se questo avverrà sono certo che l'Italia riuscirà ancora una volta a risollevarsi e ad andare avanti", ha concluso Berlusconi.

Claudicante e con voce bassa e affannata: "Che Dio ce la mandi buona...". “Grazie di essere venuto”, Draghi sorride a Berlusconi: l’ex premier baciato e coccolato dai suoi. Redazione su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. “Grazie di essere venuto”. Così il premier incaricato Mario Draghi accoglie il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi che ha guidato la delegazione azzurra al secondo giro di Consultazioni nella Sala della Lupa a Montecitorio. Il video, diffuso sui social, riprende i due entrambi che si salutano con il gomito ed, entrambi sorridenti, prendono posto a sedere. Nonostante l’età, 84 anni, e i recenti problemi di salute, che hanno reso necessario a inizio gennaio il ricovero in ospedale a Montecarlo per problemi cardiaci, Berlusconi non ha fatto mancare la sua presenza in un momento così delicato per il Paese. Seppur claudicante, visibilmente provato e con un un tono della voce basso e affannato, l’ex premier non ha risparmiato battute ai parlamentari di Forza Italia presenti all’esterno della sala Regina dove l’ex cavaliere ha incontrato la stampa.  

“Che Dio ce la mandi buona…” ha detto sorridendo ai suoi deputati e senatori arrivati a salutarlo. Annagrazia Calabria, Francesco Sisto, Maria Tripodi, Annaelsa Tartaglione, Stefania Prestigiacomo, Giorgio Mule’, Alessandro Cattaneo, Renato Brunetta, Andrea Orsini. Così come riporta l’agenzia Dire, alcuni di loro tirano fuori i telefonini per riprendere la delegazione di Fi che parla dopo il colloquio con Mario Draghi. C’è chi, nonostante il Covid, lo bacia (una deputata forzista), altri invece sembrano tanti giovani ammassati in prima fila per un concerto, emozionati dalla sorpresa di Berlusconi. “Come state?”, domanda. La voce è bassa, per farsi sentire meglio mette via la mascherina per qualche secondo. “Torna presto presidente- gli gridano- come stai?”. “Tutto apposto”, risponde lui. Poi sorride: “Che Dio ce la mandi buona…”. In precedenza alla stampa, al termine dell’incontro con Draghi, ha dichiarato: “Faremo la nostra parte con lealtà e spirito costruttivo, mettendo da parte calcoli elettorali per pensare solo al bene del Paese. L’Italia saprà risollevarsi”. Berlusconi ha però chiarito che il sostegno largo a Draghi non sarà anche la nascita di una nuova maggioranza politica, perché i partiti “sono alternativi per loro natura e storia” e che quindi l’esecutivo “durerà solo per il tempo necessario a superare questa drammatica crisi”.

Crisi di Governo, Silvio Berlusconi: «Con Draghi senza calcoli di parte». Il Quotidiano del Sud il 9 febbraio 2021. “Circostanze eccezionali richiedono risposte eccezionali. Impongono alla classe dirigente del Paese di mettere da parte le distinzioni, gli interessi di parte, i calcoli politici o elettorali e di dare una risposta di alto profilo, adeguata alla gravità della situazione. Il momento è davvero gravissimo, per l’Italia e per il mondo intero, certamente è la fase storica peggiore dopo la Seconda Guerra mondiale”. Così Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, in un’intervista al quotidiano La Repubblica, motiva il sì al Governo Draghi. Per Berlusconi il presidente del Consiglio incaricato “ha davanti un compito davvero difficile ma deve riuscire”. “Su Draghi non mi sono mai sbagliato. E sono certo di non sbagliare neppure questa volta”, aggiunge. Per l’ex premier “questo non è un governo tecnico, è un governo di unità nazionale per fronteggiare l’emergenza. I governi tecnici in passato hanno dimostrato di non avere il polso della realtà del Paese. Per questo auspico un giusto equilibrio di competenze tecniche e di rappresentanza politica. Ma soprattutto suggerirò al presidente Draghi di tenere conto delle indicazioni dei partiti, come è giusto, ma di decidere sulla base di un solo criterio: la qualità”. “Quando ho indicato la strada dell’unità delle migliori energie del Paese come unica soluzione possibile, ho espresso l’auspicio che tutto il centrodestra condividesse la scelta di privilegiare la salvezza della nazione rispetto all’interesse di parte – sottolinea Berlusconi -. Sono contento che un grande partito come la Lega abbia maturato questa scelta. Non so se definirla una svolta, in fondo la Lega ha già governato con i Cinque Stelle, ma è certamente un atto di saggezza che anche in Europa sarà apprezzato”.

Leu, Nicola Fratoianni apre a Draghi: "Governo solo senza Salvini e Meloni, coi razzisti mai". Giovanna Casadio su La Repubblica il 4 febbraio 2021. Il segretario di Sinistra italiana: "I timori di Mattarella sono molto seri. Ma ogni esecutivo è politico. Il nostro voto dipenderà dalle scelte del premier incaricato e dagli alleati".

"Considero impraticabile sommare i nostri voti a quelli della destra nazionalista di Salvini e Meloni. Perché con i razzisti proprio no: c'è un limite a tutto". Nicola Fratoianni, riconfermato segretario di Sinistra italiana e deputato di Liberi e uguali (Leu), vendoliano di formazione, chiude la porta a governi di unità nazionale. 

Fratoianni, Leu è spaccata: voi di Sinistra italiana direte no a Draghi mentre i bersaniani sono propensi al sì?

"Vedremo cosa accadrà in queste ore. Intanto bene ha fatto il segretario dem Nicola Zingaretti a riunire gli alleati Pd-Leu-5Stelle. Scardinare questa alleanza è stato l'obiettivo principale dell'atto di vero e proprio teppismo politico di Renzi". 

Insomma il no a Draghi non è ancora deciso?

"Non l'abbiamo ancora detto. L'evoluzione di questa crisi nata sotto il segno negativo di Renzi, ci ha fatto transitare da un governo politico con una maggioranza giallo-rossa a un lido che non conosciamo. Non credo personalmente che esistano governi tecnici o tantomeno neutri, perché ogni governo è un governo politico".

E lei come ritiene sarà il governo Draghi?

"Dipende evidentemente dalla maggioranza che lo sosterrà. Considero impraticabile sommare i nostri voti alla destra nazionalista di Salvini e Meloni. Perché con i razzisti proprio no: c'è un limite a tutto. E poi ci sarà da valutare l'aspetto dei contenuti, di programma". 

Cosa vorreste nel programma?

"Se il governo che nasce continuerà nella difesa di chi è più debole dentro la crisi e quindi prorogherà il blocco dei licenziamenti, la cassa integrazione, il sostegno al reddito, gli investimenti nella sanità pubblica, è un conto. Se invece il governo a cui si lavora vuole il Ponte sullo Stretto, la flat tax ed è il governo di chi considera l'Arabia Saudita il nuovo Rinascimento, è tutt'altra cosa e non ci piace". 

Fino al punto di lasciare cadere nel vuoto il drammatico appello del presidente Mattarella?

"Le preoccupazioni del capo dello Stato sono estremamente serie. Fintanto che è stato possibile, ci siamo battuti per difendere il governo Conte. In ogni caso è massimo il rispetto per il presidente della Repubblica, a prescindere dalla scelta se appoggiare o meno Draghi. Comunque noi non diciamo no a Draghi perché è un banchiere come ha sostenuto il grillino Di Battista: questa è una sciocchezza". 

Preferireste andare alle urne?

"In questo momento è evidente che il voto sarebbe problematico, però appena possibile, può diventare una opzione necessaria". 

In generale è la politica che ha fallito?

"Il rischio è che questa crisi per come si è svolta dia un colpo alla politica e alla sua credibilità. Perciò questo passaggio va politicizzato e il modo per farlo è rendere più evidenti le priorità su cui la politica si qualifica". 

Immagina un governo tecnico o politico?

"Dico che serve un governo politicamente connotato. L'unità nazionale non mi convince. Non si può fare un governo "un po' e un po'", perché non può esserci un governo della flat tax e della riforma fiscale in senso progressivo, le due cose non stanno insieme". 

Crede davvero che l'alleanza giallo-rossa possa continuare?

"È molto difficile. Ma difendere questa alleanza è uno sforzo che bisogna fare". 

Ma la sinistra è diventata contiana di ferro per mancanza di leadership alternative?

"Conte ha lavorato bene in un momento di grande difficoltà ed è stato garanzia di sintesi dell'alleanza". 

Ignazio La Russa: "FdI mai con gli ex stalinisti di LeU". Ospite in tv nel secondo giorno di consultazioni, Ignazio La Russa ha cercato scompiglio nello studio de L'aria che tira parlando di ex stalinisti in riferimento a LeU. Francesca Galici, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. Ignazio La Russa è un politico di lungo corso, conosce perfettamente i meccanismi di Palazzo de quelli della politica. In queste frenetiche giornate di consultazioni, oggi è stato anche il turno di Fratelli d'Italia, che nel primo pomeriggio ha incontrato Mario Draghi. Un incontro cordiale e costruttivo, durante il quale però Giorgia Meloni ha ribadito al presidente del Consiglio incaricato la ferma volontà del suo partito di non votare la fiducia al governo nascente. Non è esclusa l'astensione, ma è un discorso di cui si parlerà successivamente. Per il momento il partito di Giorgia Meloni ha confermato le posizioni di contrarietà già ampiamente espresse nei giorni precedenti. Ed è proprio sulle posizioni di Giorgia Meloni che Ignazio La Russa è intervenuto in diretta su La7 a L'aria che tira, appoggiando la linea politica segnata dal leader di Fratelli d'Italia. "Noi non possiamo andare 'male accompagnati' in questo governo: il problema non è Draghi, che noi rispettiamo, ma il fatto che, problema per problema, dovrà mettere d'accordo partiti che la pensano in maniera opposta. Se è stato difficile per Conte. E più aumentano i partiti...", ha detto il vicepresidente del Senato. La Russa ha ricordato quali sono stati i principi di valore e di merito che hanno messo le basi alla nascita del partito di Giorgia Meloni: "Fdi è nato dicendo mai più un governo tecnico, mai con il Pd . È normale che adesso vada, male accompagnato, con il Pd e gli ex stalinisti di Leu, i Cinque Stelle, con Renzi...". Come spesso accade, Ignazio La Russa non si è lasciato condizionare dal contesto e ha espresso in maniera chiara e senza troppi giri di parole il suo pensiero. La parola "ex-stalinisti" ha creato qualche rumore in studio ma il senatore non ha fatto un passo indietro. Ignazio La Russa ha ribadito il suo pensiero: "Post stalinisti di Leu? Sì, ho detto qualcosa di strano? I comunisti erano stalinisti. Voglio vedere quando hanno preso le distanze da Stalin...". Ribadendo la richiesta di Giorgia Meloni di astensione per tutto il centrodestra, Ignazio La Russa non ha chiuso le porte a Mario Draghi ma a una condizione: "Se Draghi dovesse dirci fra tre mesi, cioè entro luglio, io faccio il Cincinnato, come avveniva nell'antica Roma e finisce il mio governo" e si va a votare...". Una condizione posta anche da Giorgia Meloni, che ha però sottolineato la volontà del presidente incaricato di non avviare un governo a termine.

Giorgia Meloni: "All'opposizione sarò una sentinella. Salvini? Escludeva il sì..." Intervistata dal Corriere della sera, Giorgia Meloni ha ribattuto quanto già detto ieri a seguito delle consultazioni e il suo "no" a Draghi. Francesca Galici, Sabato 06/02/2021 su Il Giornale. Ieri, Giorgia Meloni ha ribadito a Mario Draghi che lei non appoggerà il suo governo. Non una presa di posizione contro il presidente incaricato, che Giorgia Meloni si augura possa fare il bene del Paese, ma una contrarietà al metodo e alla possibilità di essere insieme a Pd e M5S. Nell'intervista rilasciata al Corriere della sera, il leader di Fratelli d'Italia ha ribadito proprio questo concetto. "Si tratterebbe di tradire quello che siamo, fin dalla nostra nascita. Fratelli d'Italia fu fondato in polemica con il Pdl per l'appoggio al governo Monti. Sulla base di convinzioni profonde: non posso governare con il Pd e il M5S, dal quale mi divide tutto. E non voglio far passare per inevitabili troppe cose che non lo sono", ha spiegato. Le basi delle convinzioni di Giorgia Meloni sono molto forti: "Non è vero che non è possibile andare a votare, non è vero che governando con gente con cui non si condivide nulla si possa fare bene, non è vero che un esecutivo tecnico, seppur autorevolissimo, faccia per forza meglio di uno che nasce con un mandato popolare, come la storia degli ultimi anni ci ha insegnato. La nostra non è solo una posizione di principio, è una salda convinzione". Il presidente di Fratelli d'Italia ha rimarcato la coerenza che da sempre guida le sue azioni e si è già schierata all'opposizione di questo governo in formazione: "È sempre bene che esista un'opposizione in una democrazia. Lo è perfino per chi governa, e l'ho detto anche al presidente incaricato. E' bene avere una sentinella, una voce libera, qualcuno che non deve seguire una linea per forza, in un senso o nell'altro". Per la Meloni, però, opposizione non vuol dire ostruzione: "A Draghi ho assicurato che se un provvedimento ci convince ci saremo, anche se si tratterà di votare in passaggi difficili per altri. E lo faremo senza chiedere nulla in cambio". La leader di Fratelli d'Italia è l'unica che al momento ha risposto negativamente e in maniera decisa a Mario Draghi: "Mi stupisce non poco che tutti gli altri dicano entusiasticamente, ed acriticamente, sì senza sapere nulla sul programma o sulla squadra: un uomo solo, seppur di grande valore, può fare molta differenza nel contesto giusto, meno in quello sbagliato". L'analisi della Meloni è molto lucida: "Sarebbe stato più facile per noi entrare al governo, nessuno avrebbe potuto rimproverarci nulla, saremmo stati tutti nella stessa situazione, nessuno avrebbe potuto fare le pulci all'altro. Ma se io faccio una cosa di cui non sono minimamente convinta, contraria a quello che ho sempre sostenuto, come potrebbe domani un elettore fidarsi ancora di me?". Sul voto a Draghi, la coalizione di centrodestra è divisa. Forza Italia ha già annunciato il suo voto di fiducia a Mario Draghi e Matteo Salvini parlerà oggi con il presidente incaricato. Una spaccatura che non impensierisce Giorgia Meloni: "Sarà utile fare un punto tra di noi prima del secondo giro di consultazioni. Sulle divisioni poi: di là si detestano e stanno insieme per necessità, noi siamo sempre stati insieme per scelta. Io penso ancora che presto andremo al governo insieme". La leader di FdI non giudica le decisioni dei suoi alleati: "Se mi aspettavo che Berlusconi e Salvini avrebbero detto sì a Draghi? Da Berlusconi me lo aspettavo, lo aveva lasciato intendere. Dalla Lega meno, lo avevano escluso, sempre che poi finisca così come sembra in queste ore...".

Mario Draghi, o "l'abbraccio mortale del Loden" (Meloni unica a capirlo). Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 06 febbraio 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

C’è un che di tenero  e di irritante al tempo stesso in questa generale fascinazione per Mario Draghi. Emerge, rugiadosa, quell’infantile propensione dell’italiano medio verso l’”Uomo competente”, (sorta di upgrade postmoderno dell’”Uomo forte”) catalizzata in una voglia di rassicurante, avvolgente lana cotta che avevamo già conosciuto con il loden di Monti e che poi si è visto quali disastri abbia prodotto. Una propensione emotiva unita, però, a una seccante mancanza di visione strategica e di memoria storica. Infatti, oltre l’ipnotico scintillìo della “competenza”, appare imperdonabile come non si voglia approfondire al servizio di quali obiettivi questa – pur oggettiva - sia stata dedicata. Non staremo qui a ripercorrere il percorso professionale di Mario Draghi, ma ci limiteremo a raccogliere la spuma dell’attualità: guarda caso, dopo mille ritrosie negli anni scorsi, il banchiere oggi ha accettato subito, senza colpo ferire, la chiamata del Capo dello Stato. Ursula von der Leyen lo ha immediatamente sponsorizzato in un modo così goffo e spudorato che, ai più, avrebbe dovuto sembrare abbastanza sospetto. Per non parlare del fatto che Draghi, uno dei tanti allievi dei gesuiti (ormai è chiaro: se volete avere successo nella vita, che vogliate fare gli showman o i politici, studiate dai gesuiti) è uno dei beniamini di Bergoglio che lo ha da tempo nominato perfino membro dell’Accademia Pontificia delle Scienze sociali, un onore che non aveva ricevuto nemmeno Giuseppe Conte, cocco del cardinale Silvestrini, a sua volta membro della Mafia di San Gallo. Improvvisamente, tutti i poteri che mirano all’annichilimento della sovranità italiana, dal punto di vista economico, geopolitico, identitario, demografico, etnico, culturale portano Draghi sulla sedia gestatoria come se fosse l’Uomo della Provvidenza. Ma … farsi una domanda? Guarda caso, lo spread, la garrota con cui era stato strangolato Berlusconi, è calato improvvisamente, come se fossero le acque del Lago di Tiberiade calmate da Gesù Cristo. Per non parlare dei media generalisti che, ormai, riservano al banchiere toni messianico-agiografici da Tg nordcoreano, e già solo questo dovrebbe far scattare l’allarme rosso. L’unica ad aver colto strategicamente il quadro e ad essersi smarcata da tattiche di piccolo cabotaggio è Giorgia Meloni, che, con eleganza ha sostanzialmente detto a Draghi: “Egregio, molta stima per le Sue capacità, ma lei viene da un mondo che per noi è NEMICO, per noi Lei è l’antimateria”. Dopo un periodo in cui gli italiani sono stati portati oltre i livelli di nausea umanamente sopportabili da ogni sorta di tradimenti, trasformismi, elusione di promesse, cambiamenti di casacca, incoerenze, la Meloni ha ben intuito che gli italiani hanno fame di posizioni chiare, nette, granitiche e incorruttibili. Vogliono GENTE CHE NON FIRMA PATTI COL DIAVOLO, anche a costo di rimetterci. In breve: vogliono la DIGNITA’ della politica. Dopo che il centrodestra è stato trattato come una pezza da piedi prima, durante e dopo le elezioni (l’ipotesi della formazione di un sua possibile governo non è stata nemmeno presa in considerazione da Mattarella) la Meloni ha fin troppo educatamente detto “no grazie” o si va a elezioni, oppure tenetevi quello che vi meritate. Questa è strategicamente la strada giusta, a nostro avviso, che infatti sta premiando la giovane signora spinta da razzi nei sondaggi mentre Salvini, imborghesitosi da tempo sulle Nutelle, sui “papà e le mamme”, fiaccato dai processi, ha perso diversi punti. E troppi ne perderà accettando – agli occhi degli elettori - di far parte di un’ammucchiata che solo apparentemente è di salvezza nazionale, ma che nei fatti si tradurrà nella traduzione puntuale degli obiettivi di poteri sovranazionali. La Meloni sa che l’Italia è divisa in due grandi fazioni: una europeista e una che riconosce nell’euro e nella Ue la radice di tutti i mali. O con il mondo, o contro il mondo; o di qua, o di là: vedrete quanti voti intercetterà FdI – ormai proiettato verso il ruolo di unico partito credibilmente sovranista  - non solo dall’elettorato della Lega, ma anche da una gran massa di ex elettori cinque stelle, poveri cittadini pieni di ideali e di aspettative, truffati da una corte dei miracoli che ha fatto tutto e il contrario di tutto di quanto si era prefissata. E su questa battaglia “escatologica” fra due modelli di pensiero, uno centrifugo e uno centripeto quanto all’Italia e ai suoi interessi, gli elettori sopra citati non sono più disposti ad accettare tatticismi. E’ uno scontro molto più profondo di quanto i fumogeni della immediata convenienza politica facciano percepire, ne abbiamo parlato qui (ed è comico che nella vera Apocalisse si parli del “grande drago rosso” (la Cina?) e che il nome del prossimo premier faccia appunto “Draghi”. Ci manca solo che il prossimo candidato euro-progressista si chiami “Luigi Anticristi”). Difficile convincere il piccolo imprenditore distrutto dall’euro e dalla concorrenza cinese o il commerciante fatto a pezzi da Amazon, della necessità di collaborare con Draghi per racimolare qualche miserabile ministero o qualche posticino di sottosegretario. In questo senso, la Meloni è l’unica che ha mantenuto il polso emotivo di una larghissima parte del Paese, cosa che alla fine conta più di tutte, a livello elettorale. Vedrete che nomi di ministri tirerà fuori Draghi. Già filtra quello della Bellanova, la promotrice della sanatoria per gli immigrati: da far tremare i polsi. Sarà un Conte Ter al quadrato, solo più apparentemente presentabile e molto più abile ed efficiente nel perseguire gli obiettivi di Ursula von der Leyen. Sarà un governo che piacerà all’Europa, alle borse, ai media conformisti, (cartina al tornasole infallibile) a Bergoglio, il quale, con l’ultima enciclica “Fratelli tutti” ha praticamente dichiarato guerra all’Italia come stato-nazione. L’agenda di quello che viene chiamato “il Grande Reset” proseguirà a tappe forzate. Anzi, a tal proposito, infischiandocene bellamente del sospetto di complottismo – dato che ormai la realtà supera di gran lunga la più fervida fantasia cospirazionista - segnaliamo un libro molto ben fatto, “Il Grande Reset”, della “bocconiana redenta” Ilaria Bifarini, dedicato al piano preciso, ufficiale e documentato, sul quale istituzioni internazionali, filantropi, organizzazioni non governative e mega-aziende private collaborano apertamente già da tempo per organizzare una società in cui “nulla sarà come prima”. Buon loden a tutti.

Sei meloniani su dieci tifano Draghi. Ma gli italiani condannano Renzi. Giorgia non cede alle pressioni: "Voteremo solo i temi condivisi". Fabrizio De Feo, Domenica 07/02/2021 su Il Giornale. Reale o illusoria che sia, la luna di miele di Mario Draghi con gli italiani è certamente iniziata nel modo migliore. I sondaggi lo accreditano infatti di un consenso ampio e trasversale, condiviso da elettorati molti diversi. L'indicazione è chiara: l'ex presidente della Bce rappresenta una figura che ispira fiducia e autorevolezza, può essere l'uomo in grado di fare la sintesi di istanze e identità diverse. È la rilevazione di Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera a fotografare la percezione che gli italiani hanno in questo momento di Draghi: la maggioranza dei cittadini, il 60%, pensa che un governo di alto profilo guidato da una personalità di livello internazionale sia la giusta strada da percorrere. Una convinzione sposata da cittadini di tutte le convinzioni politiche, visto che il consenso non scende mai sotto il 50%. In particolare tra chi vota Pd il gradimento al governo Draghi sale all'80%, tra gli elettori di Forza Italia raggiunge il 78%, all'81% tra le altre liste di centrosinistra. Gli elettori dei Cinquestelle lo promuovono con un buon 55%. Il dato più sorprendente è, però, il 60% dei consensi che Draghi ottiene tra gli elettori di Fratelli d'Italia, l'unico partito che finora ha annunciato che non voterà la fiducia all'ex governatore di Bankitalia. Ultima la Lega con il 51%, una percentuale che comunque significa che più della metà degli elettori salviniani vede di buon occhio questo esperimento. Il sondaggio indaga anche sul modo in cui i leader politici hanno gestito la crisi. Chi esce meglio da questa fase? Il primo è Giuseppe Conte con il 28%, seconda Giorgia Meloni con il 10% e terzo Matteo Salvini con il 9%. Su chi esce peggio non sembrano esserci molti dubbi: Matteo Renzi, secondo il 48% degli italiani. Un altro risultato sorprendente visto che il merito dell'operazione Draghi ricade largamente sulle sue spalle e sui suoi azzardi politici. Secondo il sondaggio Ipsos, quasi un italiano su tre il 28% degli intervistati vorrebbe un governo sostenuto da tutti i partiti. Il 13% vorrebbe un governo formato da tutte le forze politiche eccetto il M5S, mentre il 9% vorrebbe la conferma della maggioranza uscente e l'8% auspica la formazione della cosiddetta «maggioranza Ursula» (Pd, M5S, Forza Italia, Italia Viva e liberali).

Nel giorno in cui a Bologna Fratelli d'Italia è costretta a registrare una aggressione ai danni dei suoi militanti, arriva anche una lettera-appello a Giorgia Meloni per convincerla a votare la fiducia a Draghi. È l'associazione Rifare l'Italia, presieduta da Viviana Beccalossi, con il contributo di ex parlamentari come Massimo Corsaro e Gennaro Malgieri a ricordare che «ventisette anni fa nasceva la destra di governo. Ventisette anni dopo sarebbe irragionevole assistere alla regressione di quella svolta storica». I dirigenti di Fdi, però non sembrano intenzionati a cedere alle pressioni. Ed è la stessa Giorgia Meloni a ribadire al Tg5 la posizione di Fratelli d'Italia. Con una apertura, però, a Draghi. «Nessuna pregiudiziale nei confronti di Mario Draghi - dice -: Anzi in caso il suo governo riesca a portare in Parlamento provvedimenti condivisibili non faremo mancare il nostro voto».

Ugo Magri per huffingtonpost.it il 7 febbraio 2021. A volte Giorgia Meloni, donna intelligente e capace, dà l’impressione di vivere in un mondo a sé, dove accadono cose che riesce a vedere soltanto lei e agli altri, invece, non risultano affatto. Per cui le capita di sostenere tesi magari coraggiose, certamente originali, però difficili da accettare in base al cosiddetto senso comune. Ad esempio Meloni motiva il suo «no» a Mario Draghi sostenendo che dovremmo precipitarci a votare. Le risulta inaudito che Sergio Mattarella, invece di dare immediatamente la parola al popolo, abbia richiamato dalla pensione l’ex presidente della Bce incaricandolo di mettere in piedi un accrocco. Giorgia non riesce a spiegarsi in base a quale arcano l’intero mondo dell’economia, l’intera trincea del lavoro, abbiano festeggiato unanimi l’arrivo di Draghi. Le sembra assurdo, e del suo stupore non fa mistero. Capisce l’entusiasmo del Cav, che è sempre stato in fondo un po’ comunista; meno comprende Matteo Salvini, il quale potrebbe sedersi al tavolo di governo con i grillini, col Pd, addirittura coi quelli di Leu. Come si permette? Chiaramente qualcosa non quadra, impossibile darle torto: ai suoi occhi tutti viaggiano contromano, tutti hanno imboccato la corsia sbagliata dell’autostrada, tutti tranne lei si capisce. Forse farebbe bene a domandarsi il perché. Mattarella ha provato a spiegarlo con le parole più semplici: andare alle urne ci costerebbe il Recovery Fund. Sciolte le Camere, come pretende Fratelli d’Italia, tra un impiccio e l’altro resteremmo senza Parlamento e senza governo fino a giugno; ma la richiesta dei 209 miliardi andrà messa in bella copia e presentata in Europa entro fine aprile, dopo le elezioni saremmo già fuori tempo massimo. Per il gusto di anticipare le urne, ci saremmo fumati i denari di una vita. Senza contare che, nei tre mesi successivi alla presentazione del piano, ci vorrà qualcuno in grado di trattare con Bruxelles e con le altre capitali Ue (dove sono in molti a non fidarsi di noi). Draghi viene reputato la persona più adatta a sconfiggere i pregiudizi, a rintuzzare i paesi cosiddetti «frugali», a farsi mettere il timbro finale perfino da chi ci ha sempre odiato. Aggiudicarci in fretta quei maledetti miliardi è la sua unica vera «mission», che ha poco di politico in senso mediocre. Anzi: un traguardo più patriottico, più nazionale, più «sovranista» di quello affidato a Draghi in questa fase storica sarebbe impossibile da immaginare. Dargli i pieni poteri dovrebbe essere il Santo Graal di una destra generosa e intelligente. Con l’aiuto di Giorgetti, il Capitano ha colto il problema; si rende conto che non ci sarebbe da vergognarsi a sedere insieme con gli avversari, semmai andrebbe giustificato il contrario. Giorgia ripete invece che è meglio andare a votare, insiste che non  esistono ostacoli: come se potessimo permetterci il lusso di rinunciare a 209 miliardi tra gli sghignazzi di quanti, in Europa, scommettono che non riusciremo nemmeno a incassarli. Una leader giovane, dinamica, ambiziosa come Meloni sta perdendo l’occasione di mettere al primo posto l’Italia. Pensando di giustificarla, qualcuno ipotizza scenari politologici sofisticati tipo: in questo modo ruberà voti alla Lega. Profitterà dell’opposizione contro tutto e tutti per catalizzare la protesta anti-sistema, scavalcherà Salvini come candidato premier alle prossime elezioni. Forse andrà proprio così. Ma potrebbe accadere il rovescio: che una volta al governo, se ci tornerà, Salvini ritrovi la centralità politica smarrita al Papeete. E riesca a concentrare i riflettori nuovamente su di sé, relegando nel cono d’ombra i seguaci della Meloni. Difatti chi conosce Giorgia nega che, dietro la scelta di mettere radici all’opposizione, ci siano calcoli elettoralistici. Semplicemente ha seguito il suo istinto, è andata là dove la porta il cuore. Ecco, appunto: il cuore dove la sta portando? Nonostante gli apporti di moderatismo e le iniezioni di cultura liberal-democratica, recati da Raffaele Fitto e da Guido Crosetto, al fondo dei Fratelli d’Italia sembra prevalere qualcosa di irriducibile, di tuttora irrisolto. Negli accenti forti del «no» a Draghi si avverte uno spirito identitario mascherato da orgoglio; un rifiuto dei compromessi spacciato per coerenza; un richiamo della foresta distillato come coraggio; un timore di integrarsi pienamente nel sistema declinato come scelta “in purezza”; un gusto plebeo ostentato quale titolo aristocratico (Meloni giorni fa si vantava del titolo di «pesciarola»). Si percepisce l’orrore di contaminarsi, la perdurante voglia di sentirsi “altro”, la rassicurante sensazione di star chiusi nell’antico ghetto della destra-destra. Perfino quando le porte del mondo sono finalmente spalancate.

"Figlia prodotta col compagno": ​l'ira di FdI per l'attacco a Meloni. Dopo lo scoppio del caso, La Stampa chiede scusa. FdI si compatta attorno alla leader: "Offesa in quanto mamma". Francesca Galici, Domenica 07/02/2021 su Il Giornale. Giorgia Meloni è l'unica leader che per il momento ha dichiarato apertamente di schierarsi all'opposizione del governo Draghi. Non ha ancora sciolto le riserve su come intenderà procedere, se con l'astensione o il "no" ma quel che è certo è che non parteciperà alla formazione dell'esecutivo istituzionale. Una decisione senza pregiudizi nei confronti di Mario Draghi ma figlia della linea che da sempre Fratelli d'Italia persegue e che nemmeno ora Giorgia Meloni vuole tradire. La sua presa di posizione ha scatenato le polemiche e La Stampa le ha dedicato un lunghissimo articolo dal titolo "Meloni, la lotta e non il governo. La sovranista del gran rifiuto". Un pezzo che ha fatto infuriare gli esponenti di Fratelli d'Italia, che si sono compattati attorno al loro leader. L'incipit del pezzo, tema portante dell'articolo, è la chiave attorno alla quale si sono innescate le polemiche da parte di FdI: "Nella corsa a dire di sì a Draghi, l'unico partito a dirgli di no è anche l'unico a guida femminile". Successivamente, il giornalista riporta alcune delle esternazioni degli ultimi mesi di Giorgia Meloni, tra le quali: "La differenza fra un uomo e una donna è che noi donne non ci facciamo prendere la mano dal successo. Il testosterone dà alla testa: noi restiamo con i piedi per terra". In un excursus tra le varie frasi della leader di Fratelli d'Italia riporta anche l'ormai celebre: "Io sono Giorgia. Sono una donna, sono cristiana". Tutto, ovviamente, condito dal commento giornalistico che pretende (senza riuscirci) di fare dell'ironia. Ma fin qui si tratterebbe di uno dei tanti articoli di esibizione del machismo. Il passaggio che ha maggiormente indignato Fratelli d'Italia arriva dopo: "[...]Comprensivo di sensi di colpa perché la politica la tiene lontana dalla figlia piccola, Ginevra, prodotta con la collaborazione del compagno autore Mediaset di quattro anni più giovane e mai sposato (però è curioso: tutti questi campioni della famiglia tradizionale ne hanno una irregolare, almeno davanti a Dio. Lei però ribatte che è colpa di lui, che non vuole sposarsi)". Quel "prodotta con la collaborazione", in riferimento alla figlia di Giorgia Meloni, proprio non è andato giù a Fratelli d'Italia. Tra i più combattivi al fianco di Giorgia Meloni c'è il senatore Giovanbattista Fazzolari: "Oggi il quotidiano 'La Stampa' del direttore Massimo Giannini tocca uno dei livelli più bassi mai visti nel giornalismo italiano con l'attacco a Giorgia Meloni 'colpevole' di non aver partecipato alla beatificazione del governo Draghi". Il senatore entra poi nello specifico: "Non avendo argomenti politici, questo giornalismo spazzatura si permette di attaccare il presidente di FdI in quanto donna e peggio ancora nella sua qualità di madre, arrivando a mettere in mezzo la piccola figlia parlando di lei come 'prodotta con la collaborazione del 'compagno'. Solidarietà a Giorgia Meloni per questo disgustoso attacco". Accalorato è anche l'intervento di Isabella Rauti, senatrice di FdI: "Esprimo solidarietà a Giorgia Meloni come madre e come donna per l'attacco di bassissimo profilo che giunge oggi dalle colonne de La Stampa, che pubblica un articolo dove pur di colpire politicamente il presidente di Fdi si entra nella sua vita privata e si argomenta addirittura sulla figlia. [...] Considerare un figlio, perché così si legge nell'articolo pubblicato da La Stampa, come il 'prodotto di una collaborazione' è quanto di più grave e degradante oltre che evidentemente meschino. E, aggiungo, che lo stesso trattamento non sarebbe tributato a nessun leader padre, solo perché uomo!". Le senatrice sottolinea anche la disparità nel difendere le donne in base al loro schieramento: "Senza dubbio assisteremo al solito silenzio delle femministe e in servizio permanente, che quando è una donna di destra ad essere sotto attacco scelgono di stare zitte, il che equivale a condividere quanto scritto". È intervenuto anche Edmondo Cirielli, presidente della Direzione di Fdi: "Siamo di fronte all'ennesimo atto di sciacallaggio mediatico contro Giorgia Meloni, che, questa volta, ha toccato il fondo arrivando a coinvolgere la sua vita privata e finanche la piccola figlia Ginevra. Un attacco, quello rivolto dal quotidiano 'La Stampa', davvero disgustoso e ignobile su cui è doveroso un intervento immediato da parte della Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi), sempre pronta ad intervenire in altri casi riguardanti, però, politici di sinistra". Galeazzo Bignami, deputato di Fratelli d'Italia, incalza: "Con lo squallido articolo pubblicato oggi dal quotidiano 'La Stampa' che definisce la figlia di Giorgia Meloni "prodotto di una collaborazione", il giornalismo militante di sinistra mette a segno un altro squallido colpo. Mi domando cosa ne pensino non solo il direttore de 'La Stampa' ma anche le tante femministe di sinistra che sono sempre pronte a levate di scudi solo se chi viene colpito da tale violenza e disprezzo è una donna della loro area politica. A Giorgia Meloni e alla sua famiglia giunga la mia solidarietà". Il direttore de La Stampa, Massimo Giannini, alla luce delle polemiche, è intervenuto personalmente per porgere le sue scuse, e quelle del quotidiano, a Giorgia Meloni: "In un pur ottimo articolo su Meloni e sul no al governo Draghi, oggi su La Stampa il nostro Alberto Mattioli usa parole inappropriate in un passaggio su sua figlia Ginevra. Ce ne scusiamo con la leader di Fdi. Non è il nostro stile".

L'attacco al trucco della Meloni. Bufera sull'incoerente Selvaggia. Lucarelli pubblica un post sull'ombretto della Meloni. Lei che definì "battuta scema" il servizio di Striscia sulla Botteri. Giuseppe De Lorenzo, Martedì 09/02/2021 su Il Giornale. Che Giorgia Meloni non attiri le simpatie dei più è ormai cosa nota. Penso lo sappia pure lei, e credo anche se ne sbatta altamente. La “caciottara”, la pescivendola, la “calva” con eccesso di testosterone. Sono più le volte in cui viene denigrata per come è, o come lo dice, di quelle in cui le contestano ciò che fa o le idee che esprime. Ieri su una pagina social da 1,5 milioni di follower, nel pieno di una crisi politica, Selvaggia Lucarelli le ha dedicato un post. Poche parole. Non per commentare la scelta della leader di FdI di restare sola all’opposizione di Mario Draghi, ma per sottolinearne l’ombretto sfoggiato in stile “trousse Deborah dell’85”. Confesso subito a Dio Onnipotente che ho molto peccato: per me si può criticare il trucco della Meloni così come la pochette di Conte o le felpe poco istituzionali di Salvini. Non sopporto neppure chi ogni due per tre tira fuori frasi del tipo “se fossi un uomo non lo avresti detto”: fa talmente comodo prendersela col "sessimo machista" che ormai criticare una donna è diventato più pericoloso di fidarsi di Renzi. Quello che tuttavia sorprende, e a giudicare dai commenti ha colpito anche diversi follower, è la rapidità con cui Selvaggia è passata dal giudicare “sgradevole” il servizio di Striscia la Notizia sui capelli di Giovanna Botteri ad usare lo stesso identico metro contro Meloni. Se venisse eletta in Parlamento potrebbe accodarsi ai Responsabili: le giravolte le vengono discretamente bene. Ricordate cosa accadde a maggio dell’anno scorso? Striscia sbertucciò Botteri per la capigliatura mostrata in diretta ed esplose un finimondo. Era bodyshaming, dissero in molti, spesso a sproposito. Pure Selvaggia se ne occupò. Spiegò che il servizio di Ricci era sgradevole “perché è evidente” che “a casa ci dovremmo occupare semplicemente" di ciò che uno dice e non di come appare in video. Giusto. Certo Lucarelli difese il diritto di fare battute su chiunque, dalle "amazzoni di Berlusconi" alla "tinta di Cacciari", ma spiegò anche che tutto dipende dai contesti, dal momento, dal ruolo: il "buonsenso" dovrebbe far capire "da soli dove arrivare e dove fermarsi". Quindi la "battuta fessa" sulla Botteri "si poteva fare", ma "era meglio non farla". Perché "se una donna che va in tv a raccontare il mondo in un momento in cui il mondo è così difficile da raccontare si dimentica di pettinarsi, più che prenderla per il culo, merita un applauso". Amen. Viene automatico pensare che la nostra, sempre così pronta a seminare giudizi, applichi rigorosamente alle azioni i propri ideali. Invece ieri s’è seduta davanti alla tv, ha ascoltato quel che Meloni aveva da dire, e anziché criticarne le scelte politiche ha preferito puntare sul make up. Lecito, lo ripeto. Ma incoerente. Sui social infatti s’è scatenato un pandemonio con innumerevoli commenti di reprimenda. Selvaggia ha replicato piccata negando che "una battuta su un ombretto" possa essere considerato bodyshaming. Infatti è solo una "battuta scema", come lei stessa la definiva, contro una leader già oggetto di ogni sorta di offesa. Si poteva fare, ma era meglio non farla a poche ore dagli insulti de La Stampa. Scrive un utente: "Non sarà bodyshaming, ma fa comunque cagare che una donna della tua levatura faccia le stesse scemenze che fa mia figlia di 16 anni". Chapeau.

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 9 febbraio 2021. Il 9 febbraio è una di quelle date da segnare sul calendario e da celebrare ogni anno perché ricorrenza di una grande scoperta. E cioè: Fratelli d’Italia e i suoi elettori e rappresentanti hanno una loro sensibilità. Un loro punto di fragilità. Un tema su cui si stringono commossi e compatti. Un argomento su cui non accettano cinismo e aridità: IL GLITTER. Ebbene sì, a loro non frega nulla dei migranti, delle navi delle ong che vanno affondate, dei gay che non devono adottare e delle famiglie tradizionali, di elettori e buona parte della classe dirigente nostalgica del fascismo, dei fratelli d’Italia finiti in galera per ‘ndrangheta. No. Loro si offendono se dici che la loro leader donna-mamma-cristiana è pure glitterata. Un’offesa indicibile. Una ferita insanabile. Un dolore inconsolabile, per la povera Giorgia, che da ieri, per il mio tweet sul suo ombretto glitterato che sfoggiava ieri in tv (“La Meloni ha rispolverato la trousse Deborah dell’85”) non chiude occhio. Forse anche perché non è ancora riuscita a struccarsi, tanta è la sofferenza che l’affligge. Dire che il suo trucco in tv era anni ’80, che frase terribile. “Bodyshaming”, “Cyberbullismo!”, “E la solidarietà femminile?”, tuonano i suoi. Ed è bizzarro per due motivi: primo perché non si capisce bene quale sia il concetto offensivo. L’anno 1985 è insultante? Ma è un anno incredibile il 1985! Sono nati Ronaldo, Mario Bros e Ritorno al futuro, nel 1985. Potrei capire, che so, se avessi fatto riferimento a una trousse del 1924, anno delle prime elezioni fasciste, ma cosa avete contro il 1985, amici di Fratelli D’Italia? Di sicuro non ce l’avete con la marca “Deborah”. Avrei potuto dire “Huda” ma ho privilegiato il made Italy, come piace a voi. Il glitter che ha di intrinsecamente offensivo? Cioè, se dico che una si veste anni ’50 è bodyshaming? Quando dicono “Monti col suo loden anni ’70” è cyberbullismo? Quando scrivono che un’attrice o una cantante ha un look vintage è accanimento? Ma siete tutti scemi? Ah già, no, siete Fratelli d’Italia. Viene da chiedersi con quale terrore affronteranno Sanremo i commentatori social di tutto il paese. Basta un “Nina Zilli ha rispolverato una pettinatura anni ’30” per finire sodomizzati con una rosa spinata sanremese a gambo lungo. La Meloni, per giunta, è un leader politico e non serve spiegare che la satira si fa sui potenti, mica sulle mezze calzette (fermo restando che questa era una blanda battuta, manco satira). E la satira, sull’estetica della Meloni parte dai tempi del suo amato photoshop, sulla faccia piallata, la luce mariana, la sua somiglianza con Charlize Theron sui 6×3. Una satira, direi, più che gentile, che non ha mai turbato nessuno, nemmeno la Meloni. Ma Fratelli d’Italia, col suo comprensibile complesso di avere un manipolo di commentatori aggressivi, sessisti, violenti spesso spalleggiati da vari esponenti del partito sia a livello locale che nazionale, collezionisti di figure di merda epocali e di ignobili frasi L’iste, è alla ricerca disperata di scuse per fare un po’ di vittimismo facile. La Meloni truccata anni ’80? Bodyshamiiiiiing. Tra parentesi, ora sappiamo che i fratellini d’Italia hanno imparato la parola “bodyshaming”, chissà che non imparino presto anche cosa significhi “antifascismo”. Tra i tanti indignati che stanotte hanno faticato a dormire, così in pena per la Meloni, c’è Guido Crosetto, uno che usa i social retwittando i suoi commenti, tanto per intenderci. Uno che dopo essersi comicamente inventato di avere una laurea tempo addietro, continua a inventarsi cose per dipingere la Meloni come una povera vittima dell’odio della rete, quell’odio da cui i fratellini d’Italia si dissociano, notoriamente. E quindi, l’ancello Crosetto commenta il mio osceno, imperdonabile insulto “Gorgia Meloni con quel glitter ci sta dicendo qualcosa”, così: “La "signora" Selvaggia ci da un’ennesima prova della sua capacità di scandalizzarsi il lunedì e dare scandalo il martedì, indignarsi per la violenza social la mattina ed esercitarla la sera. Odia e non riesce a nascondere il suo sentimento”. A parte che se c’è una cosa che io odio è quel “da” senza accento che fa venire il sospetto che si sia inventato pure il diploma, vedere il Crosetto fondatore del partito che dell’odio si abbevera e abbevera i suoi elettori, in versione femminista-pacifista-pacificatore è tra i momenti più comici degli ultimi anni. Quasi quanto quella volta che il direttore del Museo egizio Greco spiegò alla Meloni la differenza tra lingua araba e religione musulmana. Crosetto, quello che a una giornalista de la Stampa disse in un fuori onda: “L’argomento che devo usare con te lo sai qual è… È che a te non ti spoglierebbe nessuno”. Il femminista. Lui e le sorelline d’Italia, altrettanto indignate e femministe, quelle che meriterebbero di venire catapultate nel ventennio fascista e provare l’ebrezza di non contare nulla, di dover fare le mamme, le donne, le cristiane e la calza. Quelle che “povera Meloni, povera piccoletta mortificata da un riferimento orribile al suo glitter” ma non hanno nulla da dire sulla piccoletta indifesa che teme il cous cous nelle mense scolastiche, che vuole l’abolizione del reato di tortura perché impedisce agli agenti di LAVORARE, che preferirebbe non avere un figlio gay, che basta con questa identità lgbt, che i migranti se ne tornino a casa loro, che portano il Covid, che affondiamo le navi delle Ong, che no alle adozioni gay, che blablabla, povero angioletto indifeso, promotore di campagne d’amore e tolleranza. Quella che ha tra i cavalli migliori della scuderia il presidente della Regione Marche, quello che passava a salutare gli amici nel ristorante in cui accanto allo spallino di vitello al tartufo, sul menù, campeggiavano nell’ordine: un fascio littorio, un’aquila con la scritta “Per l’onore dell’Italia”, il motto “Dio, patria e famiglia”. Quella che ha tra gli elettori anche i tanti bandierini che attaccarono la migrante salvata in mare perché aveva lo smalto. Lo smalto, non il glitter. Ma lì non era bodyshaming, e ve lo dico io. Lì era schifo, e basta. Era delegittimare il dolore. Insomma, alla fine, in fondo, avete ragione voi: il problema della Meloni non è il suo glitter anni ‘80, il problema è la mentalità anni ’20. Quella brutta, quella peggiore, magari mascherata da indignazione femminista. Quella che in queste ore mi sta dando della puttana, vacca, zecca, comunista, per difendere la Meloni dagli attacchi sessisti. Certo. E no. Non sarà un po’ di glitter a mascherare quello che siete.

Governo, gli ex An contro il no di Meloni a Draghi: "È un suicidio politico, significa portare i voti di Fdi nel frigo". Giovanna Casadio su La Repubblica il 6 febbraio 2021. Cresce il malumore nella destra che fu: da Beccalossi a Landolfi, l'appello di 24 esponenti del vecchio partito di Fini affinchè la leader di Fratelli d'Italia cambi idea sul sostegno al nuovo esecutivo guidato dall'ex presidente della Bce. E sui social il dibattito si accende: botta e risposta tra Crosetto e Storace. Mario Landolfi, ex ministro delle Comunicazioni, uno degli ex colonnelli di Gianfranco Fini, la dice così: "Oggi è come una guerra e ci sarà chi l'ha combattuta e chi no. Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia devono combatterla. Non appoggiare Draghi è un suicidio politico, è portare i voti nel frigo". Nella destra che fu - poi sparpagliata in vari rivoli -  c'è molto malumore per il no di Meloni a Draghi. Al punto che un gruppo di 24 ex An, che si riconoscono nell'associazione Rifare Italia - e capitanati dalla consigliera regionale lombarda ex Fdl, Viviana Beccalossi -  ha inviato una lettera-appello a Meloni perché ci ripensi. Non solo. Sui social il dibattito si accende. Guido Crosetto, uno dei fondatori di Fratelli d'Italia, sostiene la posizione di Meloni. Francesco Storace, storico esponente della destra sociale e vice direttore del Tempo, lo bacchetta. Daniela Santanché, senatrice e coordinatrice lombarda di Fratelli d'Italia, convintamente sostiene la coerenza del no: "Saremo l'opposizione patriottica". E via così, fino ad accapigliarsi sul sondaggio di Pagnoncelli sul Corriere della sera, che fotografa un elettorato di Fdl al 50% a favore del sostegno a Draghi da parte di tutte le forze, senza esclusione. Nella lettera dell'associazione "Rifare Italia"-  nata su iniziativa tra gli altri di Landolfi per il no al referendum sul taglio dei parlamentari - è scritto: "Ventisette anni fa nasceva la destra di governo".  Era il marzo del 1994 (nel gennaio ci sarebbe stato il congresso di Fiuggi) e per la prima volta compare il simbolo Msi-An. Quindi "ventisette anni dopo sarebbe irragionevole assistere alla regressione di quella svolta storica astenendosi o addirittura negando la fiducia al costituendo governo guidato da Mario Draghi. Tanto più se si considera che allo stesso è affidata l'imponente missione di ricostruire una nazione funestata dalla pandemia e dalla crisi economica". La strada da imboccare è un'altra per gli ex aennini, che ricordano a Meloni  l'eredità che Fratelli d'Italia non deve dimenticare. "Ostinarsi a invocare elezioni anticipate in un contesto come quello appena tratteggiato rischia di apparire come una fuga dalle responsabilità. Un atteggiamento che mal s'attaglierebbe a chi dice di avere il patriottismo nel proprio Dna politico-culturale. Per questo ci ostiniamo a ritenere non ancora definitivo l'annunciato no o la ventilata o la ventilata astensione di Fdl al governo Draghi. Ritirarsi sotto la tenda e di lì abbaiare alla luna equivarrebbe a un suicidio culturale, morale e politico. Un atteggiamento che gli italiani di oggi non capirebbero e che quelli di domani non mancherebbero di condannare". Gli ex aennini avvertono che "l'utilizzo di ingenti risorse europee richiederanno un forte processo di riforme e di innovazione. Da cui la destra non può escludersi, affinché tutto avvenga finalmente fuori dalle logiche clientelari che hanno caratterizzato il precedente esecutivo. In questo caso il tentativo affidato a Draghi è autenticamente patriottico: chiunque vi parteciperà, contribuendo al suo successo, avrà dato prova concreta di riuscire ad anteporre la nazione alla fazione". Ed ecco le firme, molti ex parlamentari della destra come Giorgio Bornacin, Antonio Cilento, Massimo Corsaro, Giovanni Collino, Nicola Cristaldi e poi Fabio Chiosi, Andrea Fluttero, Gennaro Malgeri, Lucio Marengo, Matteo Masiello, Giuseppe Menardi, Leo Merola, Riccardo Migliori, Giovanni Miozzi, l'ex presidente della Provincia di Roma Silvano Moffa, Sabino Morano, Franco Nappi, Rosario Polizzi, Cosimo Proietti, Daniele Toto, Vincenzo Zaccheo, Marco Zacchera. Su Twitter, Crosetto invece rilancia la scelta: "Veramente qualcuno preferirebbe che non ci fosse alcuna opposizione parlamentare? Mi pare che la posizione di Giorgia Meloni sia seria e coerente, qualsiasi governo vorrebbe avere una opposizione così". Storace contrattacca: "Se Fdl fosse entrata, l'opposizione sarebbe stata a sinistra". Santanché, dal canto suo: "Capisco che la coerenza è fuori moda: Draghi è un fuoriclasse, ma noi con Boldrini, Zingaretti e Di Maio non ci stiamo. Però se farà cose che condividiamo, le voteremo". 

"Io sono della Lazio", "Io so' de la Roma": siparietto calcistico tra FdI e Mario Draghi. Giorgia Meloni ha detto no al governo Draghi ma con il presidente incaricato il clima è disteso e si è scherzato anche sulla rivalità tra la Lazio e la Roma. Francesca Galici, Domenica 07/02/2021 su Il Giornale. Giorgia Meloni ha detto no al governo di Mario Draghi. Fratelli d'Italia ha mantenuto la linea che fin dal principio ha tracciato la leader del partito. Già dal primo giro di consultazioni, Giorgia Meloni ha annunciato al premier incaricato che lei e Fratelli d'Italia si schiereranno all'opposizione ma in modo responsabile, senza negare l'appoggio nel caso in cui le proposte dovessero essere in linea con quanto chiesto dal partito. "Per una ragione di metodo e di merito non voteremo la fiducia, ma non per un pregiudizio nei confronti del presidente Draghi", così il presidente di FdI al termine dell'incontro con il presidente incaricato. Non c'è ostilità, non c'è un clima d'odio che troppo spesso si respira nella politica italiana e lo dimostra il siparietto riportato da Repubblica quest'oggi. Gli animi sono stati distesi per tutto l'incontro tra la delegazione di Fratelli d'Italia e Mario Draghi. Al momento dei saluti, ormai sulla porta, il capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida avrebbe fatto un ultima battuta al presidente del Consiglio incaricato, notoriamente di fede romanista. "Io comunque sono della Lazio", ha detto il deputato a Mario Draghi, chiudendosi la porta alle spalle. Un fuori programma simpatico, un modo per saldare ulteriormente i rapporti e dimostrare apertura. Repubblica riporta che il presidente incaricato abbia accolto bene l'esternazione di Lollobrigida. Draghi si sarebbe alzato dalla sua poltrona e avrebbe riaperto la porta per rispondere a tono a Lollobrigida: "Ma io so' de la Roma". Un siparietto in dialetto romanesco che ha strappato qualche sorriso, chiuso da un'ultima battuta da parte di Giorgia Meloni: "Presidente, lo lasci stare. È di Tivoli...". Tutto questo dimostra il clima comunque disteso con il quale si stanno svolgendo le consultazioni per la formazione della nuova maggioranza. La battuta di Giorgia Meloni rimarca ulteriormene le ancestrali rivalità calcistiche tra i tifosi della Roma e della Lazio. I primi sono notoriamente i tifosi dell'Urbe, i romani de Roma per i quali esiste un'unica fede nei colori della Maggica. Per i tifosi della Roma, chi tifa Lazio vive solitamente oltre i confini della Capitale, al di là del Raccordo anulare e da qui nasce la battuta di Giorgia Meloni nei confronti del suo capogruppo alla Camera nato, appunto, a Tivoli.

Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 5 febbraio 2021. Mario Draghi, domani alle 12.15, chiuderà il giro delle consultazioni incontrando a Montecitorio la delegazione del Movimento 5 Stelle guidata da Vito "orsacchiotto" Crimi (il copyright del soprannome è di Roberta Lombardi, raro esemplare di grillina ironica, nata ad Orbetello e però cresciuta a Boville Ernica, in Ciociaria). Draghi e Crimi. Uno di fronte all' altro. Qualcuno scatti una foto. Crimi, pazzesco, sempre lui. Immagini in dissolvenza: le consultazioni del marzo 2013, Bersani, i grillini che imposero un confronto in diretta streaming, la Lombardi e il nostro "orsacchiotto" dall' altra parte del tavolo a fare i duri e puri (dopo: al governo prima con Salvini e poi con il Pd, le auto blu, la bava da potere, le poltrone da prendere). Crimi ha preso anche qualche chilo. E, nel frattempo, è diventato il capo provvisorio, il reggente del Movimento: ma conta meno di un curatore fallimentare. La sua carriera, in questi irripetibili anni di governo a 5 Stelle, dopo un avvio promettente, si è fermata. Lo ignorano, lo mortificano. Mai invitato da Beppe Grillo nella suite dell' hotel Forum con vista sul Colosseo. Mai una citazione da Dibba nelle sue dirette Facebook. E poi Paola Taverna, ormai tutta in ghingheri, con la Louis Vuitton e il tailleur giusto, ma i modi di fare che sono sempre gli stessi: «A Vitooo! Ma che stai a dì? Nun te se capisce quanno parli». Lui allora viene avanti con questa aria da falso pacioccone, lo sguardo torvo, la vendetta covata. Un giorno lo beccano a Radio Luiss che confessa: «I giornalisti mi stanno sul cazzo». Se la prende con noi. Non sarebbe l' unico: c' è però il problemino che intanto l' hanno fatto Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all' Editoria. Populista, cattivello, minacciosetto. Ha un'idea efferata: chiudere una leggenda, Radio Radicale. «Sei un gerarca minore», lo gela Massimo Bordin, il fuoriclasse che la dirigeva. Polemiche, stupore. Crimi intuisce l' antifona, china il capo: «Chiedo scusa a tutti i giornalisti bravi e seri, che sono davvero tanti». Si specializza in gaffe: deve chiedere perdono anche all' allora Capo della Stato, Giorgio Napolitano. «Non volevo offenderlo quando ho detto di averlo trovato piuttosto sveglio». Due giorni dopo un fotografo appostato sulla tribunetta di Palazzo Madama punta il teleobiettivo su uno che dorme e russa a bocca spalancata. La testa ciondoloni. Le braccia corte, e conserte. Un orsacchiotto in letargo. È lui: Crimi. Cominciano a imitarlo: Crozza, Fiorello. Su twitter parte l' hashtag: #romanzocrimi. Lui reagisce innamorandosi: si fidanza con una collega del Movimento, la deputata Paola Carinelli, e insieme hanno un figlio. Ma un' anima pia a 5 Stelle spiffera: non avete idea del suo primo matrimonio. Una pacchianata. Spunta un raccontone: Vito il frugale che arriva davanti alla chiesa di Santa Maria della Stella, ad Albano Laziale, a bordo di una Rolls Royce Excalibur grigio perla. Ricevimento nella più lussuosa villa sull' Appia Antica, prato all' inglese, e lui - quello che ai meet-up si presentava scamiciato - in tight. Ha 48 anni, è nato a Palermo, quartiere Brancaccio: secondogenito di due genitori impiegati all' Upim, boy-scout nella parrocchia carmelitana San Sergio I, il liceo scientifico, la facoltà di Matematica lasciata per trasferirsi a Brescia («Avevo vinto il concorso nella locale Corte d' Appello»). Poi il rettilineo che porta diritto in Parlamento. Sei contento, adesso, Vito? No. Pensa che poteva andargli meglio. La fonte fa un po' di capricci, ma poi scodella un colloquio riservato. Primi di settembre di due anni fa (mentre accroccavano il nuovo governo giallo-rosso e Luigi Di Maio spiegava la scena). «Vito caro, allora: tu farai il vice ministro dell' Interno e». «Vice? No, scusa: e perché non il ministro?». «Per una ragione di equilibri. Però guarda che essere il vice al Viminale è tanta roba». «Ma io voglio essere ministro!». «No, Vito. Mi spiace, non è possibile» (Di Maio, se necessario, sa essere molto duro). «Persino Toninelli farà il ministro». «Vito, dai non fare così non piangere, Vito». La Lombardi ci aveva preso: immaginarselo che singhiozza deluso, proprio un «orsacchiotto». Però dai suoi occhi ecco che subito si sprigiona un guizzo di inatteso furore. Gli hanno appena riferito che Grillo e Di Maio, sia pure piantando qualche paletto, avrebbero aperto all' ex presidente della Bce. Vito scuote la testa. Ancora una volta: smentito (poche ore fa, la sua dichiarazione era infatti stata definitiva: «I 5 Stelle non voteranno la fiducia a Draghi»). Ma ormai è andata. Adesso scegli la cravatta giusta, Vito. E ricordati di chiedere una foto. Con Draghi, non ti ricapita.

Giuseppe Conte apre il tavolino in piazza, Luigi Di Maio si schiera con Mario Draghi. L'ex premier non si oppone al nuovo incaricato e si propone come leader dell'alleanza giallorosa: ma, più che un predellino, è una resa. Il M5S, crollate le resistenze, è in piena inversione a U. A breve, tutti con l'ex presidente della Bce purché sia un governo «politico». Ma Giggino si è posizionato prima di tutti. Susanna Turco su L'Espresso il 04 febbraio 2021. È la foto della débacle di Conte, la sua finale capitolazione: l'avvocato del popolo apre il tavolino in piazza, davanti a Palazzo Chigi. Parla in piedi, solo, giacca e mascherina, sembra un banditore. Dice che a lui Draghi va bene, e agli alleati che lui c'è. Provano a raccontarlo come un predellino: ma è al massimo un predellino-wanna-be. Fuori da un palazzo dove non tornerà più, e con un giorno e mezzo di ritardo rispetto ai normali tempi di cortesia istituzionale, il premier dimissionario Giuseppe Conte scioglie finalmente all'ora di pranzo quello che rischiava altrimenti di diventare un seccante inciampo nella costruzione del futuro. Assicura di non essere un ostacolo: «i sabotatori cerchiamoli altrove». A M5S dice: «Ci sono e ci sarò». A Pd e Leu: «Dobbiamo lavorare insieme». Fa sua, infine, la formula cui si è avviticchiato il Movimento: «Auspico un governo politico». È il via libera finale. Il segno che anche la più strenua fra le resistenze del mondo grillino è caduta, anche se naturalmente le polemiche interne e il dibattito continueranno ancora. Eppure ci aveva provato fino all'ultimo, il presidente del Consiglio uscente e l'intera cordata che lo sostiene. Una filiera trasversale di consiglieri, che va dalla comunicazione (Rocco Casalino) all'informazione (Marco Travaglio), dal partito che l'ha espresso (Rocco Crimi) a quella degli alleati (Goffredo Bettini, ma anche Andrea Orlando nel Pd, e poi Roberto Speranza di Leu). E che anche dopo che Draghi aveva ricevuto l'incarico esplorativo, ha continuato a lavorare, ognuno al suo livello: dentro ai Cinque stelle per provare a consolidare «l'o Conte o morte», magari addirittura un «no» al governo dell'ex presidente della Bce, nella speranza incongrua di far risorgere, ancora, il premier dimesso; fuori dai Cinque stelle, per ridimensionare l'operazione Draghi e la portata del governo che si prepara a costruire e, di nuovo, proporre Conte come «unico punto di equilibrio possibile» per M5S, Pd e Leu, come se il quadro generale fosse ancora quello di prima. Un'operazione, questa di Conte, uguale e contraria rispetto a quella di Luigi Di Maio. Favorevole alla prospettiva che Draghi porta con sé, più in asse anche quanto a traiettorie internazionali, il ministro uscente degli Esteri sin dalle prime ore dell'incarico ha lavorato a traghettare verso il sì i singoli deputati e senatori (contemporaneamente oggetto delle chiamate dell'altra sponda e d'obiettivo opposto). Tenendo anche informalmente, a quanto trapela, contatti con un Quirinale particolarmente attento a osservare il trattamento riservato al presidente incaricato. E lavorando anche per sé, naturalmente, come testimoniano le voci che danno un possibile suo ingresso nel nuovo esecutivo. Non è comunque affatto un caso che, alla fine di questo processo incrociato, di questo scontro sordo dentro al Movimento, la sospirata dichiarazione pro Draghi di Di Maio preceda di un'ora e mezza quella di Conte col suo tavolino: il ministro uscente degli Esteri dice che che M5S ha il dovere di ascoltare l'ex presidente della Bce e ringrazia il capo dello Stato Sergio Mattarella prima che lo faccia il suo ex premier. Un segno eloquente di come siano distribuiti i pesi tra i due in un Movimento comunque sempre più disorientato. Ecco dunque l'inversione a U di M5S, particolarmente vistosa nel caso del reggente Vito Crimi e del fondatore Beppe Grillo. Il comico genovese, che fino a mercoledì pomeriggio faceva trapelare «avanti con Conte, mai con Draghi», ha preso poi precipitosamente a telefonare tutti sostenendo la linea opposta della «grande opportunità» di tornare al governo. Crimi, che martedì sera a due ore dal messaggio di Mattarella aveva scritto su Facebook un chiaro e tondo no al «governo tecnico» dell'ex presidente della Bce, adesso è attestato su un assai più modesto: «porteremo al tavolo il M5S e la sua storia. Il reddito di cittadinanza è uno dei punti fermi». La questione del no al governo «tecnico», ma sì al governo «politico» è, alla fine, l'ultima ridotta dentro cui si stipa il Movimento Cinque stelle ormai persuaso ad accettare quello che Alessandro Di Battista chiama «apostolo dell'elite». L'aggettivo scelto («politico») è particolarmente paradossale, se pensiamo che i grillini erano entrati in parlamento proprio nel nome della fine della politica, con l'idea di arruolare «gli esperti» a suon di «curriculum» e aprire così i palazzi come tante scatolette, e arrivati a scannarsi per chi decide la prossima delegazione di governo senza nemmeno avere la soluzione.

Tutti i vaffa di Grillo a Draghi. Oggi il faccia a faccia col premier incaricato, con quello che fino a poco tempo fa apostrofava nei peggiori modi possibili. Domenico Ferrara, Sabato 06/02/2021 su Il Giornale. Chissà se Beppe Grillo gli dirà che è "un banchiere mai eletto da nessuno" che lavora "per conto della finanza, di chi vuole la garanzia che gli investimenti nelle imprese italiane comprate in questi mesi per un pezzo di pane e la quota di debito pubblico non vengano perduti". Questo pensava il comico di Draghi nel 2014 etichettandolo come colui che "detta ordini al signor Napolitano che esegue prontamente nominando a destra e a sinistra tizio e caio senza passare dalle elezioni in funzione dell'obbedienza cieca e assoluta ai voleri della Troika e al trionfo della finanza sugli Stati sociali e sulle Costituzioni nate dalla guerra contro il nazifascismo e ormai considerate obsolete, come ricordato dalla JP Morgan". Non proprio sviolinate. Anzi. All'epoca il presidente della Bce era quello che "auspicava una diminuzione di sovranità nazionale" e che "ricompensa il crack finanziario azzerando il welfare dei paesi" perché "per loro la Sanità è un costo, la pensione è un costo, la scuola è un costo. Stanno tagliando tutto questo per pareggiare il crack finanziario con l'economia reale. Il ricatto sull'articolo 18 è sulla Bce. Noi siamo sotto scacco di questa gente qua. Che sia giusto o sbagliato non sta a me dirlo ma io non accetto nessun tipo di ricatto da una banca centrale". Chissà se oggi gli dirà anche questo. Chissà se gli rammenterà che lo definì "una Mary Poppins un po’ suonata che tira fuori dalla sua borsetta sempre le stesse ricette" (il riferimento era ai continui tagli del costo del denaro da parte della Bce). E soprattutto chissà se gli ricorderà che nel 2017 ospitò sul suo blog un articolo dall'eloquente titolo: "Comanda il popolo, non Draghi" in cui sostanzialmente si sosteneva la necessità di "rompere la gabbia, riappropriarsi della sovranità svenduta a cleptocrati, tecnocrati, oligarchi. Ricostruire dalle macerie l'Europa dei popoli. Chiamando i cittadini ad esprimersi col referendum. Il presidente Bce, invece di affermare che l'euro è irreversibile continuando a foraggiare le banche con migliaia di miliardi di euro, regalati ai banchieri 'amici' per taglieggiare le imprese e drogare i mercati, farebbe meglio a proporre una revisione dei Trattati europei "capestro". L'unica strada per il futuro dell'Italia è quella di uscire da questa gabbia di strozzinaggio europeo ad egemonia tedesca (non certo dall'Europa), che ha imposto il primato di una moneta 'l'Euro' a misura del 'marco', il dominio di banche e finanza sulla sovranità popolare". Chissà. Purtroppo, non ci sarà alcuna diretta streaming che possa rispondere a queste curiosità. Sono lontani i tempi del confronto con Matteo Renzi trasmesso sui social. I più informati dicono che Beppe Grillo si sia scapicollato a Roma per fare da scudo al Movimento 5 Stelle, per evitare la sua implosione e per accettare un governo politico. Il garante sarebbe pronto a scendere a patti col diavolo. Almeno con quello che fino a poco tempo prima era considerato così. Uno vale uno, ma Grillo vale più di tutti. La sua faccia è quella giusta da contrapporre a Draghi. Basterà a far digerire ai suoi elettori l'ennesima giravolta di un Movimento che negli ultimi anni ormai ha detto e fatto tutto e il contrario di tutto? Il rischio sembra calcolato. C'è da salvaguardare gli scranni dell'Aula, ancor di più che l'anima del Movimento stesso.

Francesco Bonazzi per la Verità il 7 febbraio 2021. «Penso che sia una brava persona, ma cosa fa tutto il giorno alla Bce, quando non alza i tassi dello 0,25%?». Parole di Beppe Grillo su Mario Draghi del 2013. Poi ci si chiede da quale recesso dell'inesplicabile umano sia spuntato uno come Luigi Di Maio, con il suo ormai leggendario: «Draghi? Mi ha fatto una buona impressione». Grillo comunque ha fatto il comico per larga parte della sua vita e adesso è planato sulla Capitale per diradare le nuvole sui giorni più bui del Movimento. Dovrà metterci la faccia Beppone, oggi, quando guiderà la delegazione pentastellata, in compagnia (da quanto si apprende) dell'ormai ex premier, Giuseppe Conte, per dare il via libera alla «brava persona» e impedire che il M5s venga polverizzato dalle elezioni. E pazienza se non solo il popolo grillino ricorda bene la quantità di insulti e prese in giro che in passato Grillo, il più puro dei puri, ha riservato a Draghi, che «andrebbe processato per il crac del Monte dei Paschi di Siena», al Pd («Gente sporca dentro») e a Matteo Renzi («buffoncello» ed «ebetino»). La verità è che la mossa di Sergio Mattarella ha frantumato tutti i principali partiti e la coerenza, ovviamente, al momento di negoziare le cadreghe va a farsi benedire. Per lunghi anni, Draghi è stato un bersaglio facile di Grillo e del grillismo. Ma Grillo stesso lo è stato, almeno nel caso del leggendario meeting sul Britannia del 1992, nel corso del quale l'allora direttore generale del Tesoro spiegò a una platea di investitori e banchieri anglosassoni perché dovevano puntare sulle privatizzazioni italiane. Negli anni, quel discorso per molti sarebbe stata la prova della «svendita» della nazione agli stranieri, ma è successo anche che a bordo di quel panfilo di Sua Maestà, le teorie complottiste abbiano fatto salire un po' chiunque, come se fosse una novella Loggia P2.  Perfino Beppe Grillo è stato accusato di essere stato presente, anche se è un falso clamoroso. Non sono invece dei falsi le cosucce che l'ex comico di Sant' Ilario diceva sull'ex banchiere di Goldman Sachs. Uno dei primi dossier che Draghi dovrà affrontare, se riuscirà a formare un governo, è quello della privatizzazione del Monte dei Paschi di Siena. Beppe Grillo ne chiede la nazionalizzazione dal 2013 e negli anni non ha risparmiato neppure Draghi, che è stato anche governatore di Bankitalia. «Per il caso Montepaschi dovrebbero essere messi sotto processo», chiedeva sotto elezioni il 13 febbraio 2013, «i vertici del Pd dal 1995 a oggi, la Banca d'Italia, Draghi e la Consob». Un anno più tardi, il 29 aprile 2014, Grillo andò all'assemblea della «banca dei compagni», per dire che di quel disastro «sono responsabili la Consob, la Banca d'Italia e forse anche Draghi». Probabilmente, sul futuro premier, gli era cominciato a venire qualche dubbio, tipo che non facesse parte della «banda Mussari». Quello che Grillo non perdonava a Draghi era più che altro il perfetto allineamento con l'Ue. Grillo, quel che ha detto ha detto e ora ci si prepara al prossimo giro di valzer nel salone delle feste del Quirinale. Un Draghi in versione affamatore del popolo è quello che emerge da vari attacchi di Grillo sul suo blog. «Draghi e la Bce ricompensano il crac finanziario azzerando il welfare dei Paesi», attacca Grillo su La 7 il 22 settembre 2014, parlando di oscuri «ricatti della Bce» sull'abolizione dell'articolo 18, perorata da Matteo Renzi. Il capolavoro degli attacchi a Draghi, però, è quello all'apparenza più garbato. Intervistato dalla tv americana Cnbc International (17 maggio 2013), Grillo gli fa la seguente pubblicità: «Noi non contiamo nulla qua, non succede nulla che i grandi poteri finanziari non decidono. Decidono loro, Jp Morgan, le agenzie di rating, la Bce non proprio Draghi». Poi aggiunge: «Penso che lui sia una brava persona, ma quando non aumenta i tassi dello 0,25% che fa? Cosa fa tutto il resto della giornata?». Gli attacchi più diretti alla «brava persona» li ha sempre lasciati fare ad altri sul suo blog. A cominciare dal senatore Elio Lannutti, fondatore dell'Adusbef ed esperto conoscitore di magagne bancarie, per il quale «Mario Draghi è colui che nel marzo 2008, da governatore, autorizzò Monte dei Paschi ad acquistare Antonveneta per il prezzo folle di 9 miliardi». E poi, visto che il presidente della Bce aveva definito la scelta dell'euro «irreversibile», lo stesso Lannutti gli ricordò che «comandano i popoli, non Draghi» (Blog delle stelle, 7 febbraio 2017). Quanto alla storia di «Draghi massone», diretta conseguenza dell'epifania sul Britannia, in ambito M5s è stata evocata dal sedicente «massone democratico» Gioele Magaldi, intervistato dal blog di Grillo il 5 gennaio 2015 e ripreso dall'agenzia Ansa del medesimo giorno. Comunque, capita di cambiare idea. Ne sanno qualcosa nel Pd, vittime preferite delle intemerate grilline prima di governare tutti insieme appassionatamente. A marzo del 2017, il deputato pd Michele Anzaldi ne fece una raccolta sull'Huffington Post: «Il Pd è il partito preferito dalla Camorra» (14 gennaio 2016); «Partito di lotta e di massoneria» (28 ottobre 2014); «Il Pd? Tutti collusi. Tutti complici. Con le mani sporche di denaro e di petrolio» (31 marzo 2016); «Gli elettori tipo del Pd sono ex broker o ex Banda della Magliana» (20 gennaio 2015); «Il Pd? Gente sporca dentro» (22 aprile 2016). Quanto a Matteo Renzi, negli anni da premier si è beccato dell'«ebetino», dell'«ebolino», della «scrofa ferita». Di tutto questo, alla fine, è rimasto il tavolino di Giuseppe Conte davanti a Palazzo Chigi, che si candida a guidare M5s e Pd nel governo Draghi. Con la benedizione di Grillo, il quale, alla fine, è anche lui «una brava persona».

Il comico e la "Mary Poppins un po' suonata". “Draghi una bravissima persona”: anche Grillo, dopo Di Maio, ha avuto una buona impressione. Antonio Lamorte su Il Riformista il 7 Febbraio 2021. “È proprio una bravissima persona”, Mario Draghi, il Presidente del Consiglio incaricato dl Capo dello Stato Sergio Mattarella. A pensarlo e a dirlo è Beppe Grillo, il garante del Movimento 5 Stelle sceso a Roma per partecipare alle consultazioni con il premier incaricato. “Proprio una brava persona”, avrebbe detto, come ha scritto in un retroscena Il Foglio. Una toccata e fuga, quella del comico, che terminato l’incontro non ha parlato con i giornalisti. Non è passato dalla Sala della Regina. È andato verso il garage della Camera, e via. Lasciando dietro di sé e in mano a un M5s a pezzi le sue buone impressioni e una consueta frase enigmatica. “Non conosco una via infallibile per il successo, ma una per l’insuccesso sicuro: voler accontentare tutti”. È di Platone, la citazione. Ignoti invece i destinatari: forse una Lega che dovrebbe essere esclusa dall’esecutivo, come vorrebbe il Partito Democratico; più probabilmente la fronda anti-governista guidata da Alessandro Di Battista interna al M5s. L’ermeneutica si spreca. Quello che sembra certo è invece l’idea di Grillo dei 5 Stelle del futuro, sul modello dei Verdi tedeschi, come ha scritto sul suo blog. Un partito cui mettere capo Giuseppe Conte. Subito però un ministero per la Transizione Ecologica da affidare allo stesso “avvocato del popolo”. Prima ancora dei Grunen in salsa grillina, quindi, la partecipazione all’esecutivo Draghi, “non possiamo non essere della partita, che dobbiamo imporre i nostri temi” avrebbe detto durante i 45 minuti di riunione pre-consultazioni. Draghi è “la nostra salvezza”, avrebbe aggiunto il garante, secondo il Corriere della Sera. Da uomo dei “vaffa-day” a sarto, artefice di cuciture all’interno e all’esterno del Movimento per formare il governo. Un altro Grillo. Altra idea per Conte è quella di ministro al Recovery Fund. Si vedrà: lunedì parte la seconda tornata di consultazioni. Davide Casaleggio intanto prova a tornare nel gioco spingendo per il voto su Rousseau. Un’accoglienza tiepida per il figlio del guru Gianroberto. Gli indecisi potrebbero essere ancora troppi, una 40ina al Senato, forse. Per niente indeciso Grillo che su Draghi è passato da una “Mary Poppins un po’ suonata” a una “bravissima persona”. Un’ottima impressione insomma, la stessa che l’ex Presidente della Banca Centrale Europea fece all’attuale ministero degli Esteri Luigi Di Maio. Chi l’avrebbe mai detto.

Niccolò Carratelli per la Stampa il 7 febbraio 2021. «Perché ci sono i giornalisti?», ha chiesto infastidito Beppe Grillo sbirciando dentro la sala della Regina di Montecitorio. È un fastidio atavico per lui, a meno che non siano giornalisti stranieri. Comunque, era appena uscito dal lungo colloquio con Mario Draghi, un' ora e un quarto di confronto, grande curiosità: cosa avrà detto il fondatore M5s al banchiere "Dracula" che fino a poco tempo fa voleva mandare in galera? Niente da fare, forse l' idea di apparire davanti alle telecamere in silenzio, a fianco di Vito Crimi, lo deprimeva. È comprensibile. Il punto è che le delegazioni, dopo aver incontrato il premier incaricato, sono tenute a presentarsi al completo per riferire all' opinione pubblica l' esito del colloquio. Vale per tutti ma non per Grillo, che sceglie a suo piacimento quando fingersi istituzionale e quando riesumare l' antico "Vaffa" che alberga in lui.

Fughe, urla e monologhi. ​Il triste teatrino di Grillo. Beppe Grillo è voluto tornare sulla scena politica con il suo solito stile. Il comico sta provando in tutti i modi a tenere unito il MoVimento. Serena Pizzi, Sabato 06/02/2021 su Il Giornale. Beppe Grillo è un comico. Quindi, è abituato a mettere in scena teatrini e show. Anche questa mattina lo ha fatto. Anzi, ha iniziato ieri sera quando ha fatto trapelare che era arrivato a Roma, ma non si è fatto beccare. Questa mattina, però, ha messo in atto quello che ha imparato nella sua carriera. Prima ha pubblicato sul suo blog un post dal titolo "In alto i profili", una sorta di piccolo documento programmatico (che proprio nel momento in cui scriviamo è stato allungato ulteriormente), chiuso con una classica frase ad effetto ("Le fragole sono mature. Le fragole sono mature"), poi ha incontrato alla Camera i vertici del M5S (con il nuovo ingresso di Giuseppe Conte) e infine sono partite le consultazioni con Mario Draghi. E se ciò che ha scritto sul suo blog si commenta da sé, è interessante capire cosa ha fatto dopo. Il vertice con il MoVimento è durato circa 45 minuti. L'Adnkronos riferisce che abbia "motivato i big con un monologo-show di 45 minuti" e che le sue urla si siano sentite anche a diversi metri di distanza. Tanto che giornalisti e videomaker hanno tentato in tutti i modi di allungare le orecchie per carpire le frasi, ma senza successo. Si sa: Grillo non ama passare inosservato. Il suo ritorno sulla scena politica deve fare effetto ed essere ad effetto. Altrimenti chi si accorgerebbe di lui? Chi starebbe ad ascoltare tutto e il contrario di tutto? Ma torniamo al vertice 5 Stelle. Come dicevamo, il comico pare abbia svolto principalmente il ruolo del motivatore e di colui che tiene compatta la squadra (?). "Vi voglio uniti e compatti! Dobbiamo difendere i nostri temi e mettere l'ambiente al centro", avrebbe detto. Secondo una fonte pentastellata riportata dall'Adnkronos, Grillo avrebbe anche citato "Radio Londra" come simbolo della "resistenza". Dopo il suo show, pochi altri avrebbero parlato. Giuseppe Conte avrebbe detto un timido "sarà importante il perimetro della maggioranza, al momento non è importante sapere se io farò parte del governo", mentre Roberto Fico - collegato telefonicamente - si sarebbe limitato a un "non possiamo stare a guardare, dobbiamo esserci e gestire il Recovery Plan". Fine. Terminato qui lo spettacolo? Macché. Dopo le consultazioni con Draghi (sembra che ci siano stati anche diversi momenti di ilarità durante l'incontro) e prima di riferire alla stampa, Grillo è scappato. O meglio, ha fatto finta di scappare in modo da attirare ancora di più l'attenzione su di sé. Un suo classico giochetto, insomma. Ma una volta lasciato Montecitorio non poteva far spegnere così - come se nulla fosse - i riflettori che lo puntavano con quelle luci abbaglianti. Per questo, è volato su Facebook e si è improvvisato filosofo. "Non conosco una via infallibile per il successo, ma una per l'insuccesso sicuro: voler accontentare tutti" (Platone). Wow, verrebbe da dire. Ma il senso di queste parole? Forse Grillo con questo messaggio vuole riferirsi alla fase travagliata che sta vivendo il MoVimento. Non tutti, infatti, sono entusiasti dell'apertura a un esecutivo guidato dall'ex presidente della Bce. Chi in chiaro e chi per bocca di altri fa sapere che non voterà la fiducia al nuovo governo. Ma il comico non può permetterlo. La sopravvivenza del 5 Stelle è legata al premier incaricato. Così si "giustifica" il suo ritorno a Roma tra i grandi palazzi. Così Beppe è ritornato a fare il suo triste show.

Da repubblica.it il 6 febbraio 2021. Show di Beppe Grillo durante il vertice con lo stato maggiore M5S alla Camera. Un lungo monologo (ben 45 minuti) in cui il garante pentastellato ha invitato il Movimento ad essere compatto: "Vi voglio uniti e compatti! Dobbiamo difendere i nostri temi e mettere l'ambiente al centro". Ad un certo punto la voce del fondatore si è sentita anche in strada, nella via sottostante alle finestre della sala Tatarella. Si sono sentite le urla dell'ex comico ma anche i suoi applausi. E, secondo una fonte pentastellata, Grillo anche citato "Radio Londra" come simbolo della "resistenza". "Sarà importante il perimetro della maggioranza, al momento non è importante sapere se io farò parte del governo", avrebbe aggiunto Giuseppe Conte. "Non possiamo stare a guardare, dobbiamo esserci e gestire il Recovery Plan", avrebbe detto Roberto Fico, collegato telefonicamente.

 (Adnkronos il 6 febbraio 2021) "Non conosco una via infallibile per il successo, ma una per l'insuccesso sicuro: voler accontentare tutti". Beppe Grillo, cita Platone su Facebook al termine delle consultazioni con il premier incaricato Mario Draghi. L'apertura dei vertici M5S a un esecutivo guidato dall'ex numero uno della Bce sta creando infatti fibrillazioni e divisioni all'interno del Movimento e il messaggio di Grillo sembrerebbe proprio riferirsi a questa fase travagliata. Silenzio totale invece per Davide Casaleggio che oggi, a sorpresa, ha preso parte al vertice con i big del Movimento. Il presidente dell’associazione Rousseau dopo aver lanciato la proposta di far votare gli iscritti su un appoggio o meno a un eventuale governo Draghi, oggi ha mantenuto la bocca cucita. Fonti presenti all'incontro sostengono infatti che anche nel corso della riunione Casaleggio non abbia proferito parola, limitandosi ad ascoltare gli interventi che si sono susseguiti, a partire dal 'monologo' di Beppe Grillo durato ben 45 minuti e che abbia poi lasciato la Camera quando tutto il resto della 'truppa' era ancora dentro ad attendere il termine dell'incontro tra Draghi e la delegazione M5S.

Ritratto di Beppe Grillo: comico che non c’è più, politico che non c’è mai stato. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 2 Febbraio 2020. In genere quando si fa il ritratto di un grande o anche di un ingombrante personaggio, si usa la ricetta agrodolce: ha fatto questo, questo e questo di bello. peccato che abbia avuto anche questo, questo e quest’altro difetto. Un’arguzia al cerchio e una alla botte. Così facendo si rischia il vizio ambientale dell’ipocrisia. Forse a Beppe Grillo stesso, parlandone da vivo, non piacerebbe. Perché, di certo, il comico è morto. Da molto. E il capo politico che era – un po’ Bertoldo e un po’ Fra’ Dolcino – è andato a fuoco lento insieme a tutta la biblioteca delle sue ardenti sciocchezze, alcune geniali, altre sciocche-sciocchezze, utili per la ribalta, pessime per questo inimitabile Paese che è il nostro. Ha preteso e recitato troppe parti in commedia: ha voluto essere la bocca della verità e un Lenin che non trova la porta del palazzo d’Inverno, il profetico rivelatore e l’organizzatore rivoluzionario saltando dal palcoscenico al carro del vincitore, senza neanche consultare su Google le condizioni del tempo storico. E adesso, con Luigi di Maio che lo batte in illusionismo con il numero della cravatta scomparsa, guardatelo: è finito fuori strada come finirono fuori strada per sua colpa coloro che morirono nell’incidente di cui porta la colpa penale che gli preclude i pubblici uffici e il diritto di rappresentanza. Il fatto che sia sparito può, potrebbe, essere un improvviso segnale di saggezza. O almeno, di prudenza. Persino, hai visto mai, di pudore. Ma non è una prova di coraggio. Grillo non ci mette mai la faccia, né il barbone o il naso da muppet. Ferocissimo con i perdenti, applica a se stesso la terapia dell’indulgenza. Una Spa di autoindulgenza. Dove prima ardeva il suo inferno dove lui se fosse stato foco e se fosse stato acqua, e persino morte… ma invece era Grillo Giuseppe e adesso tende a mimetizzarsi col paesaggio, che è sempre un a trovata ecosostenibile. Sarà nella casona al mare? Sarà col figlio che gli ha dato tante preoccupazioni? Risponderà al telefono criptato? Indovinala grillo. Per rispetto del lettore, devo confessare un pregiudizio che è un mio limite: da comico, non mi ha mai fatto veramente ridere. Da politico, ha fatto paura a molte persone sane di mente. La sua trovata-pretesa di aver arrestato appena in tempo una sanguinosa rivoluzione che avrebbe portato a un bagno di sangue ma che grazie al suo dirottamento si è trasformato in allegro hotel a cinque stelle movimento, è la dichiarazione di un codardo: in Italia non scoppia mai alcuna rivoluzione, mica siamo la Francia da Robespierre ai gilet jaunes. Al massimo, abbiamo avuto dei tristi brigatisti che sparavano alla nuca degli innocenti e poi chiedevano aiuto psicologico. Ma Grillo è stato amato dalle sue parti ed ha fatto ridere milioni di persone più intelligenti di me e dunque è colpa mia se non l’ho mai trovato irresistibile, azzardato, futurista, satanico, ma piuttosto un ragioniere diplomato che ha visto la vita da una bottega certamente pregiata, ma pur sempre bottega. La sua complicata macchina di scena è consistita in una costruzione alternata di banalità e verità curiose, poche genialità improvvise e poi tonnellate di plastica, una aritmetica planetaria da “Lo sapevate che?” alla capacità mimica di trasmettere stupore per la modernità che non capisce, ma che gli piacerebbe capire. Prova ansia e trasmette ansia, convinto di aver rivelato al mondo ciò che il mondo e l’umanità contengono. Così è nato il pollaio dei social, dei fan, dei like, della valutazione on line, dell’affratellamento con la piattaforma degli imprenditori che hanno costruito – loro sì – una start up che somiglia al Paese dei Balocchi in cui Pinocchio e Lucignolo vengono deportati dall’omino di burro per diventare somari e pelle per tamburo. Quando già aveva fatto il disastro e messo in ginocchio un Paese dalle caviglie di fango e la testa di legno, venne a Roma al Brancaccio per un ultimo spettacolone pieno di finta sincerità. Voleva incarnare il disarmato, il disincantato, il “davvero io ho fatto tutto questo e non me ne sono nemmeno accorto?”. I fedeli paganti battevano le manine, felici. Fece finta di prendere per il culo il pubblico chiedendo: ci avete preso sul serio? noi scherzavamo… Era una bugia di scena, naturalmente, ma conteneva una realistica confessione come capita a chi sviluppa un ego prostatico da Barone di Münchhausen e vuole spiegare l’ingombro che occupa. Ma dietro tutte le facezie abbiamo visto – intravisto – un uomo crudele, un individuo che adora insultare i cronisti, umiliare chi gli sta intorno, essere insomma veramente cattivo. È a nostro parere un tipo di cattiveria molto popolare in Italia perché ha radici cattoliche e comunarde: l’idea della “decrescita felice” non è soltanto una grandissima stronzata, ma un furto con scasso dell’altrui ingenuità. Ha cercato di incarnare il razionalizzatore che, seguendo un vago principio modernista, prometteva una posizione non ideologica, ma in realtà sempre ideologica ma anche auto-contraddittoria, con risultato differenza di potenziale zero, troppo fracasso per nulla. Ma si è preso, gli va riconosciuto, delle enormi soddisfazioni. Ha condotto una vita da predicatore e da dominatore e anche nel momento del tracollo ha sempre trovato una sala trucco dove andare a rifugiarsi. Sono finiti (chissà perché) i tempi in cui decine di sventurati giornalisti venivano comandati dalle loro testate di stazionare nel freddo e nel caldo e nella sabbia davanti alla sua casa per vederlo uscire e porgere implorando i microfoni e sentirsi trattati come pezzi di merda. Creò l’ideologia dell’antigiornalismo: non parlate ai giornalisti. Guai a chi va in televisione. Guai a chi parla, pensa, discute. Il movimento è come Scientology, ha le sue regole, sue di Grillo e di quelli della piattaforma in disparte. In suo nome è stato creato il terrorismo parlamentare: siete dei beneficati, non sarete mai più rieletti, dovete mollare quel che guadagnate. Ha cercato di sottoporre la natura umana a una prova da stress che si è conclusa in uno spettacolo ridicolo e, quello sì, risibile, se ci fosse da ridere. Certo, la legislatura va avanti e finché la barca va, la capra campa. Ma il comico non c’è più. E il politico non c’è mai stato. La sua visionarietà è scomparsa persino in teatro. Manca soltanto una mesta fanfara felliniana che giri intorno alla sua casa marina suonando le note più clownesche di Nino Rota, dei pagliacci che piangono e della donna cannone con le caviglie gonfie.

Francesco Curridori per ilgiornale.it il 7 febbraio 2021. "Ancora tu? Non mi sorprende, lo sai...Ma non dovevamo vederci più?". Le mosse politico-comunicative del portavoce per eccellenza, Rocco Casalino, ormai evocano la famosa canzone di Lucio Battisti. All'interno dei gruppi parlamentari Cinquestelle c'è una notevole insofferenza verso l'ex gieffino che, secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, avrebbe spinto il premier Conte allo scontro finale con Matteo Renzi, sicuro del fatto di poter "asfaltarlo" in Senato attraverso la nascita di un gruppo di "responsabili". Come sappiamo, questo piano è miseramente fallito, ma ora Il portavoce (titolo della sua autobiografia che è stata subito ritirata dalle librerie) sembra intenzionato a ritornare presto in sella. "È partita l' 'operazione paracadute' per Giuseppe Conte", confida a ilGiornale.it una fonte di maggioranza che ha subito inquadrato la situazione. Il manovratore sarebbe "ovviamente Rocco Casalino", conferma la stessa fonte, che ci chiede di rimanere anonima. Sembrerebbe che il portavoce dell' 'avvocato del popolo', in queste ore, vada "dicendo a tutti che bisogna spingere per Conte dentro il Movimento 5 Stelle". Lo scopo è sempre lo stesso: ottenere una poltrona per l'ex premier. Una mossa che "comporterebbe una nuova posizione lavorativa per Casalino a capo della comunicazione dei 5stelle. Un ritorno alle origini per lui", ci spiega la nostra fonte. Secondo un parlamentare giallorosso il principale scoglio di una simile operazione è lo stesso Conte che "non vede di buon occhio una sua entrata nella bolgia grillina, tra peones da accontentare e big da tenere a bada". L'ex premier "ha una volontà diversa, manifestata anche apertamente, che è quella di fare da federatore alla coalizione di centrosinistra con PD, 5stelle e LeU". Le dichiarazioni, sia ufficiali sia 'rubate', ora come ora, andrebbero tutte nella stessa direzione. Da un lato c'è una versione 'materialista' della vicenda che vede Casalino banalmente in cerca di un nuovo lavoro e dall'altro lato c'è "Conte che, per opportunità politica' desidera avere un ruolo europeo o internazionale per continuare a fare politica attiva ma super partes", chiosa l'esponente della maggioranza del Conte bis. In alternativa, sono in molti a sostenere che l'avvocato di Volturara Appula sia intenzionato a correre come sindaco di Roma, appoggiato ovviamente da Pd e M5S. Non è un mistero, infatti, che Conte, avendo studiato nella prestigiosa Villa Nazareth, abbia notevoli addentellati Oltretevere. In questo scenario si inseriscono i gruppi parlamentari grillini che, secondo fonti beninformate sarebbero a dir poco "imbufaliti" nei confronti di Casalino. Più di un pentastellato avrebbe esternato il proprio disappunto per come è stata gestita la crisi sbottando in faccia al portavoce di Palazzo Chigi: "Hai sbagliato la strategia, ci siamo schiantati con Renzi e, adesso, siamo costretti a sorbirci un governo Draghi...Ancora parli?". Ai Cinque Stelle insomma, "Conte è rimasto sul groppone", per dirla con una voce autorevole di maggioranza.

Amedeo La Mattina per “la Stampa” l'8 febbraio 2021. Uno dei "miracoli" che dovrà fare Mario Draghi è quello di far convivere l' ambientalismo dei 5 Stelle e il partito del cantiere sempre aperto interpretato dalla Lega, da Italia Viva e da una buona parte del Pd. Non sarà facile per Beppe Grillo ottenere quel ministero per la Transizione Ecologica ipotizzato nei 10 punti programmatici proposti al presidente incaricato: un super dicastero che dovrebbe fondere l'Ambiente e lo Sviluppo economico. Non sarà facile soprattutto per la visione del Green Deal che ha il fondatore di M5S. Sicuramente diversa da quella della Lega. Bisognerà vedere se coincide con quella dell'ex numero uno della Banca centrale europea. Matteo Salvini è convinto che Mario Draghi abbia una visione dell'Italia e di come rimettere in moto l'economia italiana che coincide con la sua. Lo ha detto sabato dopo avere incontrato l'ex presidente della Bce, lo ha ripetuto a tutti i dirigenti della Lega che lo hanno chiamato per capire le vere impressioni del capo, al di là delle dichiarazioni di rito. E tutti si sono sentiti ripetere di avere trovato Draghi molto pragmatico, attento al tema delle opere pubbliche da far partire presto, sia quelle vecchie rimaste ferme al palo e le nuove da finanziare con il Recovery Fund. «La pensa come noi: va bene l'ambientalismo ma senza ideologie», ha confidato il capo del Carroccio. La Lega è pronta alle larghe intese per vari motivi, ma tra gli obiettivi di fondo c'è la spinta dei una base elettorale, di un mondo economico di riferimento che vuole vedere aprire i cantieri delle infrastrutture e neutralizzare l' ideologia ambientalista dei «signor no» che ispira i 5 Stelle, la stessa che ha portato al fallimento del primo governo Conte, quello della maggioranza giallo-verde. Ne sa qualcosa l' ex viceministro leghista Edoardo Rixi che per un anno ha dovuto ingaggiare un corpo a corpo quotidiano con Danilo Toninelli, allora responsabile delle Infrastrutture e i Trasporti. «Bloccava ogni iniziativa - ricorda il capo dei leghisti liguri - non nominava i commissari. Sono ancora fermi 14 miliardi di investimenti privati, nessuna iniziativa fino ad oggi sull' alta velocità, i corridoi europei, la Gronda, l'Ilva. Ecco - osserva Rixi - Draghi non è Conte: ha l'autorevolezza di mandare avanti tutti i nodi non risolti per crescere il Pil e creare occupazione. Per questo io sono d' accordo con Salvini che dobbiamo partecipare al governo Draghi». Rixi è convinto che anche Giorgia Meloni alla fine voterà i «provvedimenti giusti». «Grillo e i grillini cercheranno di bloccare tutto, come hanno fatto nel primo Conte e nel secondo dove c' era un Pd accondiscendente». Non sarà facile per Draghi mettere d' accordo tutti, ma Salvini si è fatto due conti: c' è una maggioranza schiacciante a favore del partito del Pil, della riapertura delle attività economiche, dei cantieri aperti sparsi per tutto lo Stivale. Somma i parlamentari della Lega, quelli di Renzi, ovviamente FI e buona parte dei Democratici. «Dietro quel partito c' è un mondo economico emiliano-toscano che non vede l' ora di mettersi a lavorare», spiega Salvini ai suoi.

Paolo Colonnello per “la Stampa” l'8 febbraio 2021. Per capire perché la base della Lega, nonostante qualche mal di pancia e nonostante tutto, alla fine non si metterà di traverso alla scelta di Matteo Salvini di appoggiare il governo Draghi, basta andare nelle anticamere dei sindaci del Nord. «E vedere - come spiega Giovanni Malanchini, ex sindaco di Spirano (Bergamo) e attuale responsabile degli enti locali lombardi del partito, 228 sindaci sul territorio - la gente che ha perso il lavoro e chiede aiuto. Allora si capisce che non è più tempo di fare gli schizzinosi o di campagne elettorali. Questo è il momento di lavorare tutti insieme per uscire dalla crisi». E le liti col Pd? E le incomprensioni con i 5Stelle? E la alleanza con la Meloni? La crisi morde le caviglie a tutti, ma tra il pragmatismo della Lega lombarda e le rivendicazioni autonomiste della "Liga" veneta, le differenze sono palpabili. «Loro, i lombardi, hanno meno problemi con queste cose...», dice Claudio Silvestrin, partita Iva e segretario di sezione di Oderzo, Treviso. Il quale, tossisce a lungo prima di rispondere: «Mi scusi, sono i postumi del Covid ma anche l' argomento, insomma». «Se devo essere sincero, è una decisione che mi sorprende questa di Salvini: abbiamo sempre dichiarato che eravamo contro l'euro e adesso andiamo a governare con il padre dell' euro? Diventa difficile da giustificare, soprattutto alla base Se poi andiamo a vedere le dichiarazioni di Borghi, mi cascano le braccia: prima Draghi era l' uomo nero dell' euro, ora dovrebbe essere il nostro allenatore Per me la via principale era andare al voto». Il segretario Silvestrin la vede dura: «Su Salvini bisogna stendere un velo pietoso, che poi non è tanto lui quanto Giorgetti. Non so come ne usciremo, ti voglio vedere governare col Pd e venire a parlare di assistenzialismo ai veneti. Oppure coi 5Stelle: il governo con loro è stato un abominio. Per non parlare delle autonomia, che solo noi siamo rimasti a volere». Non tutti ovviamente sono così duri e puri come Silvestrini. Il segretario della lega di Ormelle, sempre in provincia di Treviso è, per esempio, possibilista con riserva: «Io direi di aspettare martedì e vediamo cosa esce davvero da questo governo». Perché fidarsi e bene ma poi si sa a Roma le cose come vanno. «Spero che si mettano in chiaro nomi e principi, che ci siano dei paletti sul recovery, che questo Draghi sia un po' diverso da Monti e che i ministri non siano tutti "i loro". » Dove per "loro, s' intende il Pd, il partito con cui bisognerà digerire il governo. «Ma cosa ci possiamo fare, fijoi! Io per me rimarrei fuori e andrei a votare». C' è sempre qualcuno più puro degli altri. Ma anche più pratico, come Guido Dussin, sindaco di San Vendemiano (Treviso) un comune che, come si capisce dal nome, è leader nella produzione del prosecco docg «Ma è anche un distretto industriale dell' acciaio. E qui pensiamo che Draghi presidente del Consiglio sia una buona idea, penso che la virata fatta fare da Giorgetti sia una cosa giusta. È un momento storico e va interpretato così. Siamo tutti in difficoltà e piuttosto che rimanere in queste condizioni, vanno abbattuti gli steccati e messe in sicurezza le realtà produttive». Entusiasta, a conferma però delle differenze tra Lombardia e Veneto, è Matteo Bianchi, ex sindaco di Morazzone (Varese) parlamentare e segretario provinciale della Lega. «Questa è una svolta che condivido. Abbiamo colto l' occasione per mostrare il nostro senso di responsabilità verso il Paese. Ora dobbiamo sederci a tavolino e cercare le cose che ci accomunano non quelle che ci dividono». Per esempio? «La necessità di far ripartire il mondo del lavoro. Dopodiché, continueranno a dividerci i temi e i valori di natura ideologica ma prima di arrivare a quello bisogna sistemare l' essenziale».

Da repubblica.it il 6 febbraio 2021. Nell'ultimo giorno delle consultazioni, Matteo Salvini supera le incertezze e apre a Mario Draghi: "Siamo a disposizione, non poniamo veti", ha detto il leader leghista al termine del colloquio con il premier incaricato. E il Pd valuta ora l'appoggio esterno al governo. L'intenzione dei dem è di non indicare nessun ministro politico, votare la fiducia al nuovo esecutivo e appoggiare provvedimento per provvedimento. Dopo oltre un'ora di consultazioni i Cinquestelle hanno dichiarato il loro appoggio al governo Draghi: "Noi ci saremo con lealtà", ha detto il capo politico Vito Crimi nelle dichiarazioni post-incontro alle quali Beppe Grillo, che ha guidato la delegazione 5S, non ha partecipato. Prima di presentarsi al colloquio con Draghi i cinquestelle si sono riuniti con il fondatore, che ha pubblicato sul suo blog una sorta di mini documento programmatico in un post intitolato "In alto i profili. Le fragole sono mature". Al vertice pentastellato - durante il quale il garante del Movimento ha regalato ai big uno show di 45 minuti, urlando per motivarli e invitarli all'unità - hanno partecipato anche Giuseppe Conte e Davide Casaleggio, che vuole il voto su Rousseau per salvaguardare almeno formalmente il richiamo alla "democrazia diretta" e tenere insieme le diverse anime del Movimento, che rischia la scissione con almeno 30 senatori ribelli. In merito Luigi Di Maio ha lanciato l'ennesimo appello all'unità. "Oggi è un momento di compattezza con la presenza di tutti, di Grillo, Casaleggio e anche di Conte. Oggi la famiglia si allarga" ha detto prima di entrare al vertice. E su Facebook scrive: "La posta in gioco è alta, saremo responsabili".

Da huffingtonpost.it il 6 febbraio 2021.  “Abbiamo ribadito il concetto che quando e se si formerà un nuovo governo noi ci saremo sempre con lealtà.” Lo ha detto il capo politico M5S Vito Crimi dopo le consultazioni con il premier incaricato Mario Draghi. “Abbiamo ribadito al presidente Draghi che in questo anno e mezzo alcune forze della maggioranza hanno lavorato insieme e ottenuto risultati importanti con esigenze e criticità reciproche e con capacità di mediazione e comprensione e tanta lealtà mai mancata da parte nostra. Questo ci ha consentito di superare contrasti con la giusta mediazione. Quindi si deve partire da questa base e su questa deve formarsi un nuovo governo”. Così Vito Crimi al termine delle consultazioni con il premier incaricato. Il nuovo governo deve avere “un’ambizione solidale, ambientalista, europeista. E partendo da quello che è stato già realizzato. Abbiamo trovato da parte sua la consapevolezza di partire con l’umiltà di chi accoglie quanto fatto prima. Abbiamo ribadito la nostra volontà che non siano indebolite misure come il reddito di cittadinanza”. 

Simone Canettieri per il Foglio il 6 febbraio 2021. Non suda, si sa. E l' abito-sartoria napoletana del Vomero è immacolato. Nemmeno una piega. Ha questa cravatta blu poi, nodo scarpino. Perfetta. Eppure Luigi Di Maio sta guidando a mille all' ora il M5s verso l' ultimo bivio. "Mario Draghi è un nome di alto profilo -dice il ministro degli Esteri al Foglio-e di fama internazionale: ha salvato la zona euro, riconosciuto da tutti, e con un approccio alla politica economica...". Come? Pausa. Sorriso da guitto: "Un approccio distante da quello di Mario Monti". Il ragazzo di Pomigliano d' Arco c' è arrivato prima di Beppe Grillo, all' opzione Draghi. Ma alla fine anche il Garante si è convinto, e questa mattina alla Camera (ci sarà anche Paola Taverna che ha brigato tantissimo) guiderà la delegazione grillina al cospetto di "Dracula", come il Blog chiamava l' allora presidente della Bce. E' spuntato fuori anche Davide Casaleggio che ha rispolverato dal garage di casa (no, non è Steve Jobs) il suo carillon: la piattaforma Rousseau. L' Italia, Draghi e il Quirinale (rassegnato a queste liturgie) attenderanno il voto di qualche decina di migliaia di iscritti. Domenica o lunedì l' ordalia. Ma poi ci sono Alessandro Di Battista, che non ci dorme la notte, Danilo Toninelli, Nicola Morra, Barbara Lezzi e altri senatori - tipo Lele Dessì - che comunque vada non voteranno la fiducia. Con Vito Crimi che intanto chiede "spunti in giro" per cercare di "dettare le condizioni a Draghi ". Insomma l' aereo più pazzo del mondo. Più interessante parlare con il pilota: Di Maio. Un tutt' uno con la sua grisaglia da ministro degli Esteri, una muta.

Partiamo da Rousseau: vi fate sempre riconoscere.

"Ricordo che si è votato sia per il Conte I che per il Conte II, se sarà richiesto anche questa volta gli iscritti si esprimeranno in tempi rapidi".

Va bene ma questo sabato Grillo, arrivato trafelato a Roma, cosa dirà?

"Parteciperà alle consultazioni perché la posta in palio per il paese è altissima e Grillo in questi momenti ha sempre dimostrato di guardare oltre, di avere una visione".

Viene il dubbio che subito diventa una provocazione nel fissare Di Maio: ma cosa state diventando voi del M5s?

"Credo che il M5S non possa più nascondersi dietro ai pregiudizi. Da tempo ha intrapreso un percorso di maturità e questa maturità va condivisa. Aprirsi e dialogare non significa vendersi, il confronto è l' essenza della democrazia ". Quindi vi state rimangiando tutti i vaffa di una vita ?"È miope faredi tutta l' erba un fascio, è miope non considerare che il Paese sta attraversando uno dei momenti più bui della sua storia recente".

Lei sembra così rassicurante, ma il suo partito spruzza lapilli: finirete come Pompei?

"Il mio è stato un appello al rispetto istituzionale, per la carica che ricopro credo sia doveroso. E comunque a decidere saranno i parlamentari. Il parlamento è sovrano. Ma mi creda, sarebbe facile prendere una decisione o intraprendere una strada pensando solo ai propri interessi. È più difficile sforzarsi di capire che davanti a noi c' è molto altro, c' è il futuro, il futuro di tutti e quello della settima potenza mondiale. Dobbiamo puntare ad aumentare la nostra competitività internazionale e il M5S deve poter incidere in questo momento perché ne ha la possibilità, ma i temi vengono prima di tutto. Beppe affronterà i temi, la nostra visione di Paese, il M5S ce l' ha, glielo assicuro".

A Di Maio per sfruculiarlo si può provare a chiedergli di Conte, futuro leader del M5s, ma non ci casca.

"Ha un fatto grande lavoro, in un momento storico incredibile, ora una grande opera di mediazione. Lo sostengo". Sull' agenda del governo: "Vaccino, economia, debito buono". Perimetro del governo: "Salvaguardare l' alleanza del governo uscente, per il resto è tutto prematuro".

Lei potrebbe non far parte del governo :"In Farnesina ho trovato diplomatici e funzionari straordinari. Al segretario generale Elisabetta Belloni e al mio capo di gabinetto Ettore Sequi sono riconoscente". Il vestito è ancora intonso. Sorride. Composto.

Da repubblica.it il 6 febbraio 2021. "Volevo dirvi che non ho cambiato idea. Se fossi in Parlamento non darei la fiducia al Presidente Draghi". Lo scrive Alessandro Di Battista in un post su Facebook ricordando le "scelte, propriamente politiche, che il Professor Draghi ha preso in passato da Direttore generale del Tesoro (privatizzazioni, svendita patrimonio industriale pubblico italiano, contratti derivati) e da Governatore di Banca d'Italia, quando diede l'OK all'acquisto di Antonveneta da parte di MPS ad un valore folle di mercato". "Per quanto mi riguarda - conclude - io non posso accettare 'un assembramento parlamentare' così pericoloso. Non lo posso accettare perché la stragrande maggioranza delle forze politiche che si stanno inchinando al tredicesimo apostolo non rappresenta le mie idee".

DiMartedì, Concita De Gregorio ridicolizza Vito Crimi: "Quando Mario Draghi si trova davanti uno come lei..." Libero Quotidiano il 10 febbraio 2021. Una sorta di pungiball, il povero Vito Crimi ospite di Giovanni Floris a DiMartedì, il programma in onda su La7 ieri, martedì 9 febbraio. Il leader grillino prova a difendere le indifendibili posizioni del M5s nel corso delle consultazioni con Mario Draghi. Prova anche a giustificare e legittimare il voto sulla piattaforma Rousseau per decidere sul governo, tentativo davvero avventuroso. Dunque incassa i fendenti di Alessandro Sallusti, che nel corso di un intervento lo ha impallinato  a ripetizione. Insomma, un incubo per il leader reggente. E a peggiorare l'incubo di Vito Crimi ecco anche il "fuoco amico" di Concita De Gregorio, la firma di Repubblica che si è recentemente fatta notare per la querelle con Nicola Zingaretti. Concita prende la parola e sottopone una serie di domande al grillino."È molto chiaro che Draghi a Grillo è molto piaciuto. A lei è piaciuto? E avete chiesto tre ministeri? Che impressione le ha fatto Draghi?". Crimi, dunque, risponde smentendo il fatto che il M5s abbia chiesto tre ministeri, derubricando le affermazioni di Grillo a una sorta di boutade. Successivamente, entrando nel merito delle domande di Concita, ecco che sull'ex governatore della Bce, Crimi afferma: "Devo dire che mi è sembrato una persona che ha ben chiaro cos'ha davanti. Secondo me le difficoltà le troverà in Parlamento". A quel punto, però, la De Gregorio lo interrompe: "Ma ha ben chiaro cos'ha davanti anche quando ha davanti lei?", chiede a bruciapelo. E Crimi: "Certamente, lo abbiamo rappresentato con chiarezza. Non siamo persone facili. Anche Giuseppe Conte ha dovuto confrontarsi con noi, con la nostra forza", chiosa il grillino. Insomma, se la cava. Ma quel "ha ben chiaro cos'ha davanti quando davanti ha lei" è un colpo da ko tecnico. Già, il M5s oggi è tutto e il contrario di tutto. Ovvero, il nulla politico.

Alessandro Sallusti a DiMartedì, stoccata a Vito Crimi: "Allora Toninelli vale Draghi?", gelo del grillino. Libero Quotidiano il 10 febbraio 2021. Una sorta di pugile suonato, Vito Crimi, il leader del M5s che non sa più cosa dire per difendere e giustificare l'operato del suo partito alle prese con le consultazioni con Mario Draghi. Alla fine, pare, a decidere sarà il voto-pagliacciata su Rousseau, la fantomatica piattaforma dell'uno-vale-uno. Roba da mani nei capelli. E proprio di questo imminente voto si parla a DiMartedì, il programma condotto da Giovanni Floris su La7, dove troviamo il pugile suonato Crimi a confronto con Alessandro Sallusti. E il direttore de Il Giornale, contro il pentastellato, picchia durissimo, al solito senza scomporsi. "Glielo dico sinceramente, senza doppio senso: apprezzo il suo coraggio, perché mettere la sua faccia fuori stasera, per come è messo il M5s, ci vuole coraggio", premette un corrosivo Sallusti. Che a strettissimo giro di posta aggiunge: "La prendo alla lontana: lei è ancora convinto che uno vale uno in politica o che forse il merito vale più di uno vale uno?". "Sono sempre convinto che uno vale uno - replica Crimi -. L'uno non vale l'altro, ma uno vale uno quando c'è da prendere delle decisioni. In questi casi l'importanza dell'intelligenza collettiva non mi ha mai deluso". Ed ecco che Sallusti sgancia il montante decisivo: "Dunque Danilo Toninelli vale Draghi?". E Crimi, visibilmente imbarazzato: "Guardi, andare a fare questi paragoni... Io dico che Toninelli ha fatto bene il suo lavoro da ministro, lo sottoscrivo". "E perché non lo avete confermato?", lo incalza Sallusti. "Forse ha dimenticato che il ministero dei Trasporti era poi stato preso dal Pd", replica il grillino. A porre la pietra tombale ci pensa Floris: "Come se Toninelli fosse un esperto di trasporti...". Cala il sipario.

Da liberoquotidiano.it il 10 febbraio 2021. Una sorta di pugile suonato, Vito Crimi, il leader del M5s che non sa più cosa dire per difendere e giustificare l'operato del suo partito alle prese con le consultazioni con Mario Draghi. Alla fine, pare, a decidere sarà il voto-pagliacciata su Rousseau, la fantomatica piattaforma dell'uno-vale-uno. Roba da mani nei capelli. E proprio di questo imminente voto si parla a DiMartedì, il programma condotto da Giovanni Floris su La7, dove troviamo il pugile suonato Crimi a confronto con Alessandro Sallusti. E il direttore de Il Giornale, contro il pentastellato, picchia durissimo, al solito senza scomporsi. "Glielo dico sinceramente, senza doppio senso: apprezzo il suo coraggio, perché mettere la sua faccia fuori stasera, per come è messo il M5s, ci vuole coraggio", premette un corrosivo Sallusti. Che a strettissimo giro di posta aggiunge: "La prendo alla lontana: lei è ancora convinto che uno vale uno in politica o che forse il merito vale più di uno vale uno?". "Sono sempre convinto che uno vale uno - replica Crimi -. L'uno non vale l'altro, ma uno vale uno quando c'è da prendere delle decisioni. In questi casi l'importanza dell'intelligenza collettiva non mi ha mai deluso". Ed ecco che Sallusti sgancia il montante decisivo: "Dunque Danilo Toninelli vale Draghi?". E Crimi, visibilmente imbarazzato: "Guardi, andare a fare questi paragoni... Io dico che Toninelli ha fatto bene il suo lavoro da ministro, lo sottoscrivo". "E perché non lo avete confermato?", lo incalza Sallusti. "Forse ha dimenticato che il ministero dei Trasporti era poi stato preso dal Pd", replica il grillino. A porre la pietra tombale ci pensa Floris: "Come se Toninelli fosse un esperto di trasporti...". Cala il sipario.

Da huffingtonpost.it il 10 febbraio 2021. “Sei d’accordo che il MoVimento sostenga un governo tecnico-politico: che preveda un super-Ministero della Transizione Ecologica e che difenda i principali risultati raggiunti dal MoVimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi?”. Questo il testo del quesito che domani verrà votato dagli iscritti M5s sulla piattaforma Rousseau. C’è tutto: il come, il dove e il quando. C’è anche qualcosa di molto di più in quel quesito secco - sì o no, senza previsioni di astensione - per votare domani su Rousseau sul governo Draghi. C’è, infatti, la soluzione del rebus sulla formula del governo (definito “tecnico-politico”) e anche una neanche troppo velata indicazione implicita di voto, laddove si descrive il governo che potrebbe essere vicino alla nascita non solo dotato “di un super-Ministero della Transizione Ecologica”, chiesto ieri da Beppe Grillo, ma anche con il compito di difendere “i principali risultati raggiunti dal Movimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi”.

Da huffingtonpost.it il 10 febbraio 2021. “Sei d’accordo che il MoVimento sostenga un governo tecnico-politico: che preveda un super-Ministero della Transizione Ecologica e che difenda i principali risultati raggiunti dal MoVimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi?”. Questo il testo del quesito che domani verrà votato dagli iscritti M5s sulla piattaforma Rousseau. C’è tutto: il come, il dove e il quando. C’è anche qualcosa di molto di più in quel quesito secco - sì o no, senza previsioni di astensione - per votare domani su Rousseau sul governo Draghi. C’è, infatti, la soluzione del rebus sulla formula del governo (definito “tecnico-politico”) e anche una neanche troppo velata indicazione implicita di voto, laddove si descrive il governo che potrebbe essere vicino alla nascita non solo dotato “di un super-Ministero della Transizione Ecologica”, chiesto ieri da Beppe Grillo, ma anche con il compito di difendere “i principali risultati raggiunti dal Movimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi”.

La faida dei grillini. I 5 Stelle ostaggio di un sito privato, su Rousseau va in onda lo scontro finale tra Grillo e Casaleggio. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. Il Movimento si muove su un terreno minato. Grillo e Casaleggio non vanno più d’accordo da tempo e Rousseau è l’ultimo duello tra il fondatore e il figlio del padre nobile. Alla fine il dissidio partorisce un didascalico quesito: “Sei d’accordo che il MoVimento sostenga un governo tecnico-politico: che preveda un super-Ministero della Transizione Ecologica e che difenda i principali risultati raggiunti dal MoVimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi?”. Questa la domanda alla quale sono chiamati a rispondere gli iscritti al M5s. Si voterà sulla piattaforma Rousseau dalle ore 10 alle ore 18 di domani. Potranno votare solo gli iscritti da almeno sei mesi, con documento certificato. Ciascun iscritto può verificare il proprio stato di iscrizione facendo login e controllando il bollino colorato accanto al nome (in alto a destra): se il bollino è verde l’utente è certificato e abilitato al voto. Beppe Grillo vuole dire di sì a Mario Draghi, ma lo statuto gli impone di passare attraverso Rousseau. Marco Canestrari, ex socio di Casaleggio, la inquadra così: «Chiedono la ratifica della decisione a una piattaforma privata, tecnicamente manipolabile e gestita in maniera non trasparente». La base è in subbuglio: secondo sondaggi attendibili, ben pochi voteranno per l’ingresso nel governo. E sono guai. Beppe non può mandare il suo Vaffa ai grillini, mentre quelli sono pronti per il Vaffa a Draghi. Ed ecco che si cercano nuove bandiere, facili slogan da far digerire. La sola trovata è quella del Ministero per la transizione ecologica, il Superministero, lo chiama Grillo. Niente di originale, nessuna panacea: esiste in Francia da molti anni ed è l’accorpamento dei ministeri dell’Ambiente, energia e opere pubbliche. Il risultato che ha dato Oltralpe non è clamoroso: ha finalizzato la Tav nella tratta Marsiglia-Lione e ne sostiene la realizzazione nella tratta finale Lione-Torino, dopo aver fatto scavare la Francia in lungo e in largo. Ma poco importano i dati di realtà, è il momento della suggestione. E poi è tutta comunicazione interna, vanno rassicurati i dissidenti. Fonti parlamentari parlano di un incontro con Crimi, di un altro con Di Maio, riferiscono che Grillo ha sentito anche Casaleggio. Il partito di Grillo è lacerato ormai anche in streaming. Su Zoom si danno appuntamento i dissidenti, aizzati da Alessandro Di Battista e in aula da Barbara Lezzi e da Elio Lannutti (“Siamo al golpe”). Va in onda una chiassosa gazzarra che prende di mira i big. Dietro le quinte, succede che Mario Draghi ha fatto capire quale sarà la composizione dell’esecutivo: niente numeri uno, tanti tecnici scelti da lui e dal Movimento, un solo ministro noto. Il nome che circola è quello di Patuanelli. Lo stesso Di Maio tornerebbe al partito, come capo politico che deve sedare il conflitto interno. D’altronde si è fatto un’esperienza da diplomatico. E il ritardo con cui il Paese intero sta facendo i conti, con il governo che aspetta il via libera grillino, si dovrebbe proprio alle trattative che cercano di tenere in piedi i rapporti di forza interni e quelli – ormai notoriamente logori – tra Grillo e Davide Casaleggio. Rousseau sarebbe diventato il titolo di credito attraverso il quale l’azienda privata che ne è proprietaria tratterebbe la sua onorevole uscita. Se la proprietà si allineasse con la governance del Movimento, l’esito di Rousseau non sarebbe sfavorevole a Draghi. L’unica alternativa è per Grillo quella di ottenere subito un esito sbandierabile: come detto, il Superministero. Per questo, come animali in via d’estinzione, puntavano gli occhi colmi di speranza sul Wwf. Donatella Bianchi, la presidente, esce ieri sera dalle consultazioni con Draghi annunciando che il presidente incaricato ha dato la sua parola sulla nascita del nuovo dicastero verde. «Per noi è sufficiente questo», si affretta a sancire una fonte autorevole M5S. Passa la nottata, Draghi aspetta Rousseau, dunque Casaleggio. Questa sera alle 18 sapremo.

Sì da Rousseau a Draghi: finita la sceneggiata del M5s. Antonio Lamorte su Il Riformista il 11 Febbraio 2021. Il Movimento 5 Stelle approva la nascita del Governo di Mario Draghi. O almeno lo approva la piattaforma Rousseau. E’ stato comunicato intorno alle 18:45 il risultato, come era stato previsto. Hanno votato circa il 70 per cento degli iscritti. Circa il 59,3%, 44.177 voti, degli iscritti ha detto sì a Draghi. Il voto era partito alle 10:00 di stamattina, in corso fino alle 18:00.  A spingere per il voto era stato il dominus della piattaforma, Davide Casaleggio, figlio del guru e fondatore dei 5Stelle Gianroberto Casaleggio. Lo stesso Casaleggio era arrivato a Roma la settimana scorsa in vista delle consultazioni con il Presidente incaricato Mario Draghi del partito, come era arrivato Beppe Grillo, il comico e garante che si era detto favorevole all’esecutivo, e che alle consultazioni ha partecipato. Tutto lo Stato Maggiore nella capitale evitare una frattura definitiva nei 5 Stelle. E stando ai risultati la frattura c’è, il Movimento spaccato quasi a metà. Lo stesso Grillo ha praticamente dettato il quesito esposto sulla piattaforma: “Sei d’accordo che il MoVimento sostenga un governo tecnico-politico: che preveda un super-Ministero della Transizione Ecologica e che difenda i principali risultati raggiunti dal MoVimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi?”. Due le opzioni: Sì o No. L’ambiente era tra l’altro tra le 5 Stelle della fondazione. In un video messaggio il Garante aveva parlato, ieri sera, proprio del “super” dicastero, sui modelli di quelli che esistono in Francia e in Spagna, come la condizione primaria per formare l’esecutivo. Un veto poi sulla Lega, che di ambiente secondo Grillo non ci capisce molto, al governo proprio i grillini nel primo esecutivo Conte. Al dicastero si lavora, come confermato in conferenza stampa dalle associazioni ambientaliste che hanno incontrato Draghi ieri. A questo punto il premier incaricato potrebbe sciogliere la riserva e salire al Quirinale dal Presidente Sergio Mattarella e presentare la squadra di governo. Attesi sviluppi nel fine settimana se non prima. La prima reazione, via social, al risultato è stata quella del ministro degli Esteri ed ex Capo Politico Luigi Di Maio: La responsabilità è il prezzo della grandezza. Oggi i nostri iscritti hanno dimostrato ancora una volta grande maturità, lealtà verso le istituzioni e senso di appartenenza al Paese. In uno dei momenti più drammatici della nostra storia recente, il MoVimento 5 Stelle sceglie la strada del coraggio e della partecipazione, ma soprattutto sceglie la via europea, sceglie un insieme di valori e diritti di cui tutti noi beneficiamo ogni giorno e dietro ai quali, purtroppo non di rado, si nascondono egoismi e personalismi. La fedeltà alla Nazione, oggi, si è mostrata più forte della propaganda. Questo è il M5S. Questo è il Movimento che riconosco e in cui ho scelto di spendere tutto me stesso. Voglio ringraziare ogni singolo attivista e iscritto alla piattaforma Rousseau che ha espresso il proprio voto. L’intelligenza collettiva ha prevalso sul singolo e ha mostrato nuovamente la sua forza, una forza buona e adulta, che deve spronarci a fare meglio, ancora di più, per la nostra Italia. La legalità, la giustizia, lo stop ai privilegi, la protezione dell’ambiente, lo sviluppo sostenibile, l’acqua pubblica e molto altro. Siamo ancora questo. Anzi, da oggi lo siamo con maggiore consapevolezza. Ringrazio anche Beppe Grillo per il grande contributo offerto in questa fase. Il pensiero è libero solo quando libere sono le persone. Viva il Movimento 5 Stelle. Viva l’Italia.

Povera Italia, costretta a prendere sul serio la buffonata di Rousseau. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Ieri mattina qui al Riformista abbiamo fatto un gioco. Ciascuno di noi ha scritto su un foglietto di carta quelli che prevedeva sarebbero stati i risultati della votazione sulla Rousseau. Qualcuno ha scritto 60 a 40, qualcuno 61 a 39, qualcuno 59 a 41. Tutta qui l’oscillazione dei pronostici. Che poi alle sette della sera si sono dimostrati tutti vicinissimi al risultato reale. Questione di decimali. Possibile che tutti noi redattori del Riformista siamo così attenti conoscitori della realtà del popolo a 5 Stelle, tanto da prevedere quasi al millimetro i rapporti di forza e le opinioni? È più probabile che semplicemente siamo dei discreti conoscitori del vertici dei 5 Stelle, in particolare di Grillo e Casaleggio. Che sono, in fondo, persone piuttosto semplici, non sofisticatissime, e quindi abbastanza prevedibili. Diciamo la verità: quasi nessuno crede che i risultati della consultazione con la piattaforma Rousseau siano stati spontanei. Siamo un po’ tutti convinti che l’esito del voto fosse stato trattato l’altra sera dai due capi del Movimento 5 Stelle e decisi a tavolino. Né Grillo né Casaleggio erano interessati a una roulette russa. In una situazione così delicata per il Movimento, affidarsi alla dittatura della sorte era troppo pericoloso. Grillo aveva bisogno di vincere il voto su Rousseau e dare il via libera a Draghi. Casaleggio – che è contrario all’ingresso nel governo Draghi – non poteva permettersi un clamoroso insuccesso. Meglio trattare e decidere un onorevole 59 a 41, giusto? Poi può anche darsi che le cose non siano andate così, e che il voto ci sia stato davvero e sia stato libero, e solo per puro caso si sia concluso con le cifre che un po’ tutti prevedevano. Il problema è che nessuno ci crederà mai. Soprattutto perché nessuno può controllare la piattaforma Rousseau se non chi la gestisce, cioè Casaleggio, e quindi non ci sarà mai una prova della correttezza di questa operazione. Poco male. Se esiste un movimento che decide di affidare le proprie sorti a una ditta privata alla quale consegna risorse e cervelli e che delega a pensare e a decidere al proprio posto, e se poi questo movimento si presenta alle elezioni e ottiene più del 30 per cento dei voti, bisogna prenderne atto e basta. Non si può impedire alle persone di rinunciare ai propri diritti politici e nemmeno alla propria libertà. Il paese dopo le elezioni del 2018 è andato alla deriva. Ha rinunciato ad avere una classe dirigente e si è affidato a piccole bande che si univano o si scontravano seguendo logiche che non avevano nessun rapporto con la politica. Così è nato il governo di estrema destra Salvini-Di Maio (che ha tagliato fuori il centro liberale berlusconiano) e poi è nato il governo rosso-bruno (come dicono i politologi per definire le alleanze tra reazionari e progressisti) con il Pd che ha accettato di accodarsi in posizione subalterna ai 5 Stelle. Naturalmente questa disinvoltura politica ha prodotto una situazione di ingovernabilità e anche notevoli danni sociali ed economici. Aggravati per altro dalla pandemia, che ha aperto, oggettivamente, una crisi molto profonda che comunque qualunque governo avrebbe faticato a dominare. Ora la mossa del cavallo di Mattarella e Renzi, e cioè l’incarico di formare il governo a una personalità di alto livello, come quella di Mario Draghi, può in parte essere una soluzione e può frenare lo sbando. Ma non sarà una cosa semplice. Perché a Draghi nessuno può dare un mandato in bianco, sarà in Parlamento che si combatteranno le battaglie politiche. E il Parlamento in questo momento è una bolgia dove piccole squadrette di 5 stelle o ex Cinque stelle o dissidenti 5 stelle si affrontano all’arma bianca e si fanno guerra fino all’ultimo sangue. Ed è proprio qui che nasce il secondo problema. Quello della democrazia. L’esperienza di questi tre anni ha provocato una caduta verticale del tasso di democraticità di questo paese. I Cinque Stelle hanno portato in tutte e due le alleanze (quella con il Pd e quella con la Lega) una forte dose di neo-autoritarismo. Che poi è la sostanza vera del populismo antico e moderno. Sia sul piano della tendenza a smantellare lo stato di diritto, sia su quello della lotta ai partiti, ai sindacati, al volontariato, all’associazionismo. E non hanno trovato molti oppositori. Prima la Lega e poi il Pd hanno assunto una posizione subalterna e reverente nei confronti del partito di Grillo e Casaleggio. Rinunciando alla propria identità, alla propria autonomia, a buona parte della propria storia. Forse il Pd lo ha fatto più ancora della Lega. E il Pd non è un partito qualsiasi: è l’unico vero erede della Prima Repubblica, del miracolo italiano, della stagione dello sviluppo del paese e delle grandi conquiste sociali. Cos’è rimasto di quel partito. Ha disperso una immensa eredità politica, di sapere, di tradizioni. Un giorno bisognerà ragionare bene sulle responsabilità di questo sfacelo. Al quale non sono estranei gli intellettuali e in particolare la macchina dei mass media, interamente sottomessa ai nuovi vincitori. Per ora però c’è una cosa più urgente da fare: provare a rimettere in moto la politica e a riaprire la battaglia politica. Anche quella tra destra e sinistra. Tra liberali e autoritari. Tra nazionalisti e europeisti. Non tocca certo a Draghi questo compito. Lui è stato chiamato per svolgere un altro ruolo. Rimettere ordine, riparare, rilanciare l’economia strapazzata per anni dal dominio dei moralisti e dei magistrati e dei burocrati. Non è lui che può ridare anima e linfa alla democrazia morente. I partiti che ancora esistono si limiteranno a dire signorsì al premier, o approfitteranno di questo grande armistizio, per ritrovare voce e pensiero? Altrimenti lasciamo ancora campo libero ai comici, ai commedianti che sono riusciti a impancarsi a maestri di politica e di cultura e ancora non smettono. Però allora sarà davvero la rovina del paese. Non basterà Draghi ad evitarla.

Uno schiaffo alla democrazia. Il voto sulla piattaforma Rousseau è uno schiaffo alla democrazia. Una duplicazione delle liturgie di una nazione dentro gli schemi di un movimento. Claudio Brachino, Giovedì 11/02/2021 su Il Giornale. Il voto sulla piattaforma Rousseau è uno schiaffo alla democrazia. Una duplicazione delle liturgie di una nazione dentro gli schemi di un movimento per creare una sorta di avvertimento al presidente incaricato Draghi. Ma possono 60 milioni di italiani dipendere, in una fase drammatica del paese, da meno di 200mila iscritti a una sorta di simulacro dell'abolizione del meccanismo rappresentativo che invece non ha nessuna autorevolezza istituzionale? Da un lato in sintesi c'è il sogno irrealizzabile dell'iperdemocrazia on line di Casaleggio padre, dall'altro la nostra democrazia reale, cristallizzata in una carta costituzionale. Imperfetta, in crisi, strattonata dalla rivoluzione tecnologica del nostro secolo, ma pur sempre il faro dei cittadini della penisola. A garanzia di questa democrazia c'è un signore, il capo dello Stato, che finalmente stanco delle liti in salsa giallorossa e della caccia ai Ciampolilli, ha chiesto a tutti uno scatto. La polis prima delle logiche di partito, i vaccini che salvano la vita, i progetti del Recovery fund che salvano l'economia e il futuro delle prossime generazioni. Quasi tutti hanno sentito questo richiamo. Il Pd si è liberato dell'ossessione piscoanalitica di Giuseppi e ha detto siamo Con te, intendendo Mattarella. Italia viva aveva questo, secondo me, come approdo fin dall'inizio, magari con il sussurro di Biden, tanto che per trovare un elogio all'intelligenza politico-machiavellica di Renzi si è dovuto scomodare il New York Times. Berlusconi è venuto di persona a Roma accolto come una pop star per suggellare la stima reciproca con l'ex capo della Bce e blindare un partito che per primo si era detto disponibile al bene del paese al di là degli steccati. Salvini, ricordiamolo ancora in testa ai sondaggi nazionali, ha fatto una scelta simile sul piano della maturità personale e della maturazione istituzionale della Lega. La Meloni segue legittimamente la sua coerenza, regge la dialettica dell'opposizione a tutti i costi (ma Draghi non è e non sarà Monti). E Grillo che fa? Prima lodi sperticate, poi colpo di freno. Sentiamo un po' che dice il grande banchiere e poi votiamo su Rousseau. Quando? Vediamo, lo dico io. Intanto rilancia l'idea di un superministero green, e siccome sulla rivoluzione sostenibile ci finiranno circa 70 miliardi di euro, chi ci mette il cappello... Fosse così, più che di iperdemocrazia parlerei di ipermercato!

Perché Grillo e Salvini sono passati con Draghi? “Se il tuo avversario è troppo forte passa dalla sua parte…”. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. Fanno finta tutti: eccellente di qua, competentissimo di là, bravo bravissimo per carità, lui sì che rimetterà in armonia le sgangherate opinioni, i gusti demenziali e le fragranze retoriche della banda di sciamannati che hanno agito come i Proci ad Itaca pensando che Ulisse non arrivasse mai con il suo arco e i suoi dardi. Mario Draghi non è un bravo messia sceso sulla Penisola per armonizzare la quadra e il punto di caduta, come dicono quelli della banda. Draghi è semmai il “fixer”, quello che affronta la scena del delitto per far sparire cadaveri, bossoli, impronte e anche un paio di sprovveduti che non avevano capito. È un uomo in “suit” per eccellenza: sempre in completo scuro con cravatta, mai un soprabito nemmeno quando si gela. Quando parla, usa segmenti di discorso sperimentati e tradotti dall’inglese. Lo ha mandato l’Europa, ovvero è stato mandato da se stesso, essendo il più pregiato “fixer” del mondo ed è stato spedito per riportare il Paese nella comunità, visto che la comunità sta per sganciare un malloppo che non vorrebbe veder sprecato. Matteo Renzi è stato il suo Giovanni Battista ma anche il suo cavallo di Troia. Renzi è in carriera per cariche internazionali ed ha accelerato il collasso già in atto, responsabile dello stato della pandemia e dell’economia, fuori controllo. Mattarella ha fornito al “fixer” le password d’accesso e ci sono voluti almeno tre giorni prima che il serraglio governativo per caso realizzasse che non era arrivato l’uomo angelico e provvidenziale venuto per mediare e rimettere insieme i cocci, ma quello che avrebbe ripulito la scena del delitto degli ultimi due anni e mezzo. Matteo Salvini l’ha capito al volo e anche Beppe Grillo, sorprendendo il suo popolo di zombie di provincia, ha colto il concetto ed è corso a Roma, ricorrendo all’antica massima secondo cui quando il tuo avversario è troppo forte, passa dalla sua parte: “Noi siamo con Draghi, proprio perché che è venuto per farci fuori e dobbiamo stare dalla sua parte per sopravvivere”. È lo scenario dei film di Quentin Tarantino, o del filone francese di Nikita o Leon. Il povero Pd, non sapendo che faccia fare, simula di aver battuto Salvini sull’Europa e anche Salvini recita a soggetto. L’importante è far finta di non aver capito e simulare di chiedersi se il governo Draghi sarà tecnico, politico o ibrido. Il punto è che questo governo, se ce la farà come sembra a passare gli esami di ammissione, ha il compito di liquidare la stagione dei populisti resettando la politica italiana, con il cortese aiuto dei condannati. Soltanto così si spiega lo straordinario fenomeno della corsa olimpionica per saltare sul carro del vincitore prima ancora che lui arrivi e sempre a favore di telecamera. Che l’Europa accompagni l’operazione Draghi è sotto gli occhi di tutti perché a Bruxelles sono terrorizzati all’idea di sganciare all’Italia il Piano Marshall di duecento e passa miliardi, così come aveva fatto una pessima impressione l’appropriazione indebita dei servizi segreti da parte dell’avvocato Conte e del suo circolo di amici. L’insistenza di Renzi su questo punto è stata chiarissima. È poi toccato a Mattarella compiere tutti i riti e gli accertamenti per giustificare l’assunzione dell’uomo in grado di chiudere la partita dell’avvocato Conte e dei suoi amici di studio. La colonna sonora è quella del vecchio western di Sergio Leone quando tutti capiscono che se un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto. Ma senza alzare la voce e con garbo istituzionale.

Francesco Merlo per “la Repubblica” l'8 febbraio 2021. Forse potremmo chiamare "paternalismo buffo" il potere totale che Beppe Grillo ha sul suo "popolo" , un potere che nessun capo partito in Italia ha mai avuto, neppure Silvio Berlusconi che, ricco e padrone, si è sempre imposto anche grazie a un prurito di interessi, a un conflitto di pruriti, a un conflitto di interessi pruriginosi. E invece a Beppe Grillo, pur essendo il leader che fisicamente non c' è, basta parlare, vale a dire urlare, ghignare e tossire che è appunto il suo modo burlesco di vivere, di recitare e di comandare. Grillo, che non partecipa più alla vita politica perché - spiegò lui stesso - lo rendeva "stanchino", gli scaricava cioè le pile, lo mandava in luna calante che per un comico è crisi creativa, è però l' uomo del momento fatale. Stefan Zweig ne aveva contati 14: quattordici vite che riassumono il mondo. Ebbene Grillo è il quindicesimo Momento Fatale. E infatti sabato, nel quarto giorno dell' era Draghi, il Garante, carica a vita non sfiduciabile e non revocabile, ha lasciato la sua tenda nera nella spiaggia di Bibbona e in soli 45 minuti di scorreria romana ha imposto "un contrordine grillini" che neppure a Togliatti sarebbe riuscito senza almeno un congresso e un lunghissimo dibattito su Rinascita e sull' Unità. Grillo è invece arrivato, ha riunito tutti i frati del convento, da Di Maio sino a Conte, e li ha subito scaldati. Con quella tonalità in escalation che tutti gli conosciamo e con la recitazione epica e giullaresca della "Banda dei sospiri" descritta nel racconto di Gianni Celati, li ha maltrattati e conquistati. Quale leader politico picchia per sedurre (condurre a sé) i suoi devoti? Non ha risparmiato a Conte l' ironia da Bagaglino, «per rilanciarti ci vorrebbe un Recovery fund apposta per te», e a tutti ha imputato la sconfitta come un delitto, «se si vota adesso, il Movimento è finito, e la colpa è solo vostra, tutta vostra; senza Draghi siete fi-ni-ti"». Ma sicuramente non ce l' avrebbe fatta senza quella grande sintonia che a volte si crea tra chi le dà e chi le prende: più Grillo li malmenava e più i loro applausi soffocavano le sue parole. E infatti il suono di quest' accordo arrivava ai cronisti in strada sotto forma di urla e di risate, che non erano scoppiettii di liti e di scontri ma al contrario la prova dell' armonia tra chi convinceva e chi voleva essere convinto, tra l' aggressività paternalistica del capo e la remissività gregaria dei figli bastonati, proprio come a teatro dove il capocomico e il suo pubblico si ingravidano a vicenda. Escludendo ovviamente i modelli dittatoriali, da Stalin a Mussolini, davvero nessuno è mai riuscito a dissuadere e a persuadere e dunque a rovesciare in 45 minuti un piccolo grande mondo come ha appunto fatto Grillo sabato scorso a Roma: «Nunzia Catalfo e Federico D' Inca, davvero credete che un giorno vi faranno di nuovo ministri?». E non pensiate che sia un caso irripetibile. Grillo ci riesce sempre. Era già accaduto, per esempio, nel 2019 (sembra una vita fa) quando impose l' accordo con il Pd a tutti i 5stelle, anche a Di Maio che si piegò nonostante Salvini gli avesse promesso la presidenza del Consiglio: «Lo so, non sei d' accordo e mai lo sarai, ma si fa così». E davvero non è disciplina militare, comando cieco e sordo, ma è leadership, forza e politica, sia pure sciamannata. Ovviamente Grillo non somiglia all' idea che Grillo ha di se stesso , vale a dire di scienziato della politica, una somma di Totò e del professor Sartori, ma c' è qualcosa che, per strade ancora inesplorate dalla dottrina, ha pur sempre a che fare con il carisma in questo suo tenere il comando, nella velocità con cui impone la linea e dà ogni volta una forma al movimento informe. Davvero, neppure Enrico Berlinguer poteva disporre del proprio mondo come ne dispone Beppe Grillo. E pensate a quanta fatica impiegò e di quanti anni ebbe bisogno Berlinguer prima per convincersi e poi per portare il partito alla discontinuità, allo strappo dell' amicizia con la Dc. Pensate alle parole per dirlo, pensate a quel giorno in cui, in casa e in pigiama, come raccontò Tonino Tatò ( pagina 312 , Qualcuno era comunista di Luca Telese,), Berlinguer fumando mille Turmac, trovò finalmente l' aggettivo epocale da aggiungere alla parola compromesso: storico. E invece , come sono le fragole?, si è chiesto sabato Grillo per spiegare l' accordo con Draghi, l' odiato banchiere, «il nostro Mary Poppins suonato». Ed ecco la frase che ha consegnato alla storia: «Le fragole sono mature». Aldo Moro impiegò otto ore per scrivere il discorso sulle convergenze parallele che avrebbe cambiato l' Italia. Più svelto, Grillo ha beccato un Platone nel dizionario delle citazioni: «Non conosco una via infallibile per il successo, ma una per l' insuccesso sicuro: volere accontentare tutti». Diciamo la verità, Platone ha scritto di meglio. In questa estenuante fine dell' epoca a 5stelle, Grillo si è dunque rivelato il leader politico più solido d' Italia ma alla testa del partito più fragile d' Italia. A Draghi ha regalato i voti come un dono personale, e al Paese ha dimostrato che quel piccolo universo di sbandati solo grazie a lui è ancora maggioranza relativa. Ha pure ricordato agli aspiranti scissionisti che non c' è fallimento senza tentativo di rifondazioni, di restyling, di lifting, sempre spacciati come ritorno agli ideali e ai valori delle origini (vaffa, gogna, turpiloquio.). Grillo ha infine fermato il "referendum su Draghi" che era previsto su quella piattaforma Rousseau che, inventata per sostituire la democrazia parlamentare, sarebbe invece diventata non l' Arca di Noè dei sopravvissuti, ma la Zattera della Medusa, il dipinto che racconta tutti i naufragi.

La farsa è finita: il 59,3% dice sì a Draghi. Di Maio: “Vince l’intelligenza collettiva”. Gli altri tutti cretini. Stefania Campitelli giovedì 11 Febbraio 2021 su Il Secolo d'Italia. “Abbiamo scelto la strada del coraggio e della partecipazione“. Alle 19,03 Luigi Di Maio dà il grande annuncio. Il popolo grillino ha detto sì all’ingresso nel governo Draghi. Un’ora dopo la chiusura dei ‘seggi’ virtuali sulla piattaforma Rousseau il leader azzoppato dei 5Stelle canta vittoria. E spaccia un esito scontato, eterodiretto dai capi, come uno straordinario successo di democrazia. Senza un minimo di decenza. Ma davvero qualcuno poteva pensare che le consultazioni online degli iscritti pentastellati potessero dare un risultato diverso? Con quel quesito imbarazzante? Prodotto dalla mente furbetta e pericolosa del duo Grillo-Casaleggio junior. Con il sì già annunciato. Con il calendario del premier incaricato già pronto. Governo e fiducia lampo per dare subito lo start al "governo della provvidenza". Su oltre 74mila votanti la percentuale dei sì è stata pari al 59,3 per cento. Tanto basta, meglio non strafare, per far vincere la linea governista. Favorevoli all’esecutivo di “alto profilo”  44.177 mentre, contrari 30.360. Non proprio una schiacciante vittoria per la nomenklatura 5Stelle. Nessuna percentuale bulgare come per le passate consultazioni online. Quella sull’alleanza di governo con la Lega e sulla successivo abbracci con il Pd. Una volta spalancate le porte all’esecutivo dell’amico delle banche, l’odiato ex numero uno della Bce, i vertici 5Stelle hanno messo in scena la solita arlecchinata. “Faremo decidere gli iscritti”. Ma certo, saranno loro a sciogliere i nodi della posizione del primo partito in Parlamento (non certo nel paese, visti i sondaggi). Tutto secondo copione. La piattaforma dei miracoli intitolata al filosofo del bon sauvage, i ritardi cronici, lo slittamento del voto appeso al ministero ‘green’. Lo stupore finale. Sullo sfondo quel rompiscatole di Di Battista ad abbaiare alla luna. Non cambio idea – ha detto fino all’ultimo. No al governo dei tecnocrati. Il primo step è andato. Ma ora per Grillo sarà impossibile evitare la scissione. Giggino da il meglio di sé. Gongolante per l’esito che gli permetterà, forse, di restare ancora in sella con un ministero. “Voglio ringraziare ogni singolo attivista e iscritto alla piattaforma Rousseau che ha espresso il proprio voto”, scrive su Facebook parlando di ‘intelligenza collettiva’ che prevale sul singolo. E ancora. “La legalità, la giustizia, lo stop ai privilegi, la protezione dell’ambiente. Lo sviluppo sostenibile, l’acqua pubblica e molto altro. Siamo ancora questo. Anzi, da oggi lo siamo con maggiore consapevolezza”. Infine, noblesse oblige, il ringraziamento a Beppe. “Per il grande contributo offerto in questa fase”. “Non ho ancora parlato con Grillo, adesso lo chiamo”. Così Davide Casaleggio dopo il voto degli iscritti sulla piattaforma che ha dato il via libera all’esecutivo Draghi. Lo stesso che poco prima aveva messo le mani avanti nel caso, molto remoto, il no a  fosse stato maggioritario. “Le valutazioni politiche le rimando agli organi politici del M5S” ha aggiunto. Senza svelare il suo voto.

Marco Imarisio per il "Corriere della Sera" l'11 febbraio 2021. La tentazione di ricorrere a facili giochi di parole va sempre evitata. Ma che qualcosa potesse generare confusione fu chiaro fin dall'inizio, quando all'improvviso i bordelli divennero una priorità del M5S. La piattaforma Rousseau debuttò il 5 luglio 2016 chiedendo agli iscritti di formulare proposte da portare al più presto in Parlamento. Al secondo posto si piazzò a sorpresa la riapertura delle case chiuse. Quel risultato, accolto con qualche sconcerto dai vertici di allora, non scalfì la mitologia nascente della struttura tecnologica che all'epoca si definiva Sistema operativo del Movimento 5 Stelle. «Una formica non deve sapere come funziona il formicaio, altrimenti tutte le formiche ambirebbero a ricoprire i ruoli migliori e meno faticosi, creando un problema di coordinamento». Questo passaggio di Tu sei rete , il libro di Davide Casaleggio che è una summa del pensiero paterno, rappresenta anche l'ambiguità concettuale di una struttura che viene presentata come simbolo di democrazia diretta ma in realtà ha funzione di reclutamento, profilazione dei dati, raccolta di fondi. E non di vera e propria partecipazione. Perché a decidere infine sarà solo il Capo, al quale infatti è affidata la possibilità di capovolgere gli esiti sgraditi delle votazioni, oppure di indirizzarle scrivendo i quesiti in un certo modo. Rousseau nasce nella tempesta. Lo statuto dell'associazione viene scritto nella stanza dell'ospedale Auxologico di Milano dove Gianroberto Casaleggio si sta spegnendo. L'ultima telefonata con Beppe Grillo è una lite feroce, senza riappacificazione finale, il culmine negativo di un rapporto ormai logorato. La piattaforma, destinata a prendere il posto del blog dell'ex comico, risente di questo dissidio feroce, perché viene concepita soprattutto per blindare il Movimento da ogni tentativo di scalata, per conservarne lo spirito delle origini, e da ultimo per affidarne controllo e gestione in via dinastica. È uno strumento di potere interno, che come tale funziona alla perfezione, anche in tempi di declino e di relativa rappresentatività. All'interno del M5S non è certo un mistero il fatto che nel gennaio del 2020 Luigi Di Maio si dimetta da capo politico anche a causa dello scarso risultato ottenuto dalla votazione sul «team del futuro», il suo ultimo tentativo di mediazione con l'ala più radicale rappresentata da Davide Casaleggio. Poco riscontro, poco entusiasmo, addio. Eppure, c'è stato un tempo in cui queste tare così evidenti non contavano, e i destini del Movimento sembravano sovrapponibili a quelli di Rousseau. I primi due anni di vita sono il momento di massimo splendore. La piattaforma accoglie l'eredità del Sacro blog e dei Meet up, i 391 gruppi virtuali dai quali si è generato il M5S. Alla vigilia delle elezioni politiche del 2018, concentra il lavoro sulla selezione dei candidati, con le Parlamentarie che a oggi restano il suo maggior successo. Poco importa se la piattaforma presentata come un prodigio di tecnologia mostra falle e distorsioni evidenti. Nel 2017 tre attacchi hacker ne dimostrano la vulnerabilità, con tanto di sberleffi assortiti, come l'inserimento nel database di una falsa donazione da un milione di euro fatta dall'allora segretario del Pd Matteo Renzi o la finta vendita dei dati in cambio di bitcoin. Vengono cambiate le password, salvo poi scoprire che gli espulsi del Movimento, definiti «utenti dormienti» da un curioso comunicato, hanno ancora accesso a Rousseau. L'anno seguente, l'istruttoria del Garante della privacy stabilisce che i nomi degli iscritti sono stati comunicati «a soggetti terzi, in mancanza del consenso degli interessati», stigmatizza «l'indiscutibile obsolescenza tecnica» ed evidenzia come «le misure di sicurezza per il controllo delle operazioni di voto destino perplessità». Ma il garante si chiama Antonello Soro, ex deputato del «Pd meno elle», il nemico giurato. Così va la vita. A prevalere è piuttosto l'alone di purezza che circonda Rousseau. La piattaforma diventa un simulacro del vecchio M5S, è il cordone ombelicale che lega il Vaffa alle nuove grisaglie governative, le giustifica con la sua esistenza. E proprio per non toccare uno statu quo che va in direzione opposta all'intransigenza di Casaleggio, aumenta le sue contraddizioni. Il quesito sul caso della nave Diciotti, che vede coinvolto l'alleato Matteo Salvini, viene cambiato nottetempo per essere trasformato in un rebus da Settimana enigmistica, chi vuole dire sì all'imputabilità del ministro dell'Interno deve votare no, e viceversa. Ma siamo già nel 2019. L'era del bieco realismo è cominciata da un pezzo, le case chiuse non sono mai state riaperte. Tanto più che Rousseau non decolla. Gli iscritti sono sempre quelli, poco più di centomila, i parlamentari sono insofferenti a questo collo di bottiglia virtuale e ai suoi costi. La mitica piattaforma diventa ben presto un orpello, un passaggio obbligato utile giusto a togliere il M5S dall'imbarazzo certificando scelte indigeste. E comunque se qualcosa non va come deve, a norma di statuto non è solo possibile rivotare, ma anche annullare la decisione. Mario Draghi può dormire tranquillo.

Rousseau travolge i 5 Stelle. Dibba se ne va: "Inaccettabile". Il voto della base per l'ok a Draghi apre la frattura tra i grillini. Di Battista annuncia l'addio. Altri già pronti a seguirlo. Francesco Boezi, Giovedì 11/02/2021 su Il Giornale. Gli iscritti della piattaforma Rousseau hanno detto la loro sul prossimo esecuvito, ma le previsioni non parlano di concordia interna: il MoVimento 5 Stelle è nel caos. E il rischio dietro l'angolo è quello di una scissione bella e buona. L'ala purista - quella per intenderci che guarda ai valori fondativi della formazione pentastellata - non ci sta. Dopo l'espressione del 59% circa degli iscritti, che hanno guardato con favore del governo con Mario Draghi premier, le strade, per i massimalisti, sono due: restare all'interno del grillismo pur mantenendo dei distinguo ideologici, dovendo però sottostare alla volontà politica dei vertici e della base che ha votato su Rousseau, oppure fuoriuscire, dando vita ad una scissione. Le acque sono agitate: nulla può essere dato per scontato. La frattura arriva con l'annuncio del pasionario, Alessandro Di Battista, che ha usato i social per comunicare la sua posizione: "Rispetto il voto degli elettori – ha fatto sapere attraverso un video – ma da ora in poi non parlerò in nome del M5s, perché il M5s non parla a nome mio. Questa scelta non riesco a superarla. Non posso fare altro che farmi da parte. Vedremo se un giorno o l’altro le nostre strade si rincroceranno". "Questa scelta politica di sedersi con determinati personaggi, in particolare con partiti come Forza Italia, con un governo nato essenzialmente per sistematizzare il M5S e buttare giù un presidente perbene come Conte... questa cosa non riesco proprio a superarla. D'ora in poi non posso far altro che parlare a nome mio e farmi da parte. Se poi un domani la mia strada dovesse incrociarsi di nuovo con quella del M5S, vedremo: dipenderà esclusivamente da idee politiche, atteggiamenti e prese di posizione". "Grazie a Beppe Grillo, è lui che mi ha insegnato a prendere posizione, anche controcorrente. E io oggi non ce la faccio proprio ad accettare un Movimento che governa con questi partiti, anche - per l'amor di Dio - con le migliori intenzioni del mondo", ha detto. "È stata una bellissima storia d'amore, con gioie e battaglie vinte, ma anche diverse delusioni e qualche battaglia disattesa o persa. Io, con tutto l'impegno del mondo, non possono non considerare determinate mie convinzioni politiche. Poi magari mi sbaglierò su questo governo, ma non posso proprio andare contro la mia coscienza", aggiunge Dibba. Bisognerà attendere, adesso, l'eventuale principio di un percorso che porti alla formazione di un'altra forza politica. L'ultimo a parlare è stato Pino Cabras, un parlamentare pentastellato. Il gioco ormai è a carte scoperte: "Non voterò la fiducia a Draghi se le premesse sono queste, nessuno conosce il programma. Per convincermi, Draghi dovrebbe stupirmi con effetti speciali", ha esordito il deputato, che ha rilasciato dichiarazioni all'Adnkronos. Poi un avvertimento neppure troppo velato dal punto di vista politico: "Quello di oggi su Rousseau è un referendum che non è avvenuto con le regole del referendum, dal momento che il quesito era inquinato dalla risposta che implicava. E' stata una manipolazione", mentre l'esito "dà una indicazione del fatto che il M5S è spaccato. C'è un evidente orientamento di moltissimi iscritti". Ventilare l'esistenza di una spaccatura è di solito un buon modo per veicolare una scissione. Anche su questo Cabras non si nasconde: Il parlamentare gillino ha confidato di non essere tra i fautori di una divisione intestina, aggiungendo tuttavia che quando si parla di scissione ci si riferisce ad "una dinamica che non è da escludere. Io - ha aggiunto il deputato del MoVimento- non sto lavorando per la scissione. Fin dall'inizio ho lavorato per sostituire una politica che ci ha portati a cedere su tutto. Ora bisogna vedere quali sono le condizioni. Crimi dice che l'indicazione degli iscritti è vincolante. Per me è vincolante il voto di 11 milioni di persone che non volevano quei governi in cui ora ci impelaghiamo!". Rispetto alla parabola politica ormai conclusa (almeno quella con i grillini), Di Battista ha aggiunto che è stata una "bellissima storia d'amore, piena di gioie e battaglie vinte. Anche con diverse delusioni e qualche battaglia disattesa o persa però questa è la politica. Non posso andare avanti, non posso non considerare determinate mie opinioni, determinate mie convinzioni politiche. Non posso proprio andare contro la mia coscienza", ha chiosato. Due visioni, dunque: chi intravede nel risultato della piattaforma Rousseau il lasciapassare in grado di fornire qualunque giustificazione politica ai grillini e chi, invece, proprio non riesce a sedersi al tavolo con altre forze che verranno coinvolte nella costruzione di una solida maggioranza parlamentare in grado di reggere il governo Draghi. Il MoVimento 5 Stelle non è mai stato così vicino all'implosione. Difficile che qualcuno faccia questo nome dinanzi alle telecamere dei giornalisti, ma è chiaro che tra i palazzi romani si guarda soprattutto all'atteggiamento di Alessandro Di Battista. Ma quanto è rimasto delle convinzioni del primo grillismo? La risposta è nei fatti politici della giornata. Sì, ma i vertici potrebbero rispondere, sottolineando come Draghi abbia immediatamente annuito dinanzi alla richiesta posta da parte grillina: quella della istituzione di un ministero per la transizione ecologica. Un punto che Beppe Grillo ritiene con tutta evidenza fondamentale. Cabras però ha argomenti da esibire pure in relazione a questo punto: "Ma cosa significa in concreto? Semplice: un decreto-legge sposterà dipartimenti e direzioni generali che adesso sono in altri ministeri (con tanto di strutture, risorse e personale) e li accorperà sotto un'unica nuova sigla. Saranno cambiate alcune targhe in ottone e la carta intestata. In cambio di questo Tetris di ufficetti, si cede su tutto quello per il quale erano stati chiesti e ottenuti i voti". Da giorni, peraltro, si parla di una ventina di parlamentari pronti a salutare la formazione politica con cui sono stati eletti o comunque fortemente contrariati dall'ipotesi di votare la fiducia ad un governo Draghi. L'area massimalista qualcosa farà, Oppure, in questo processo di normalizzazione politica, le beghe verranno messe da parte, favorendo la dialettica correntizia. Come farebbe un partito tradizionale. Quello che il MoVimento 5 Stelle, stando alla visione promossa, non sarebbe mai dovuto diventare.

Un Ministero per la Transizione ecologica.

Finalmente la politica parla di transizione ecologica: perché l’Italia è già (troppo) in ritardo. Il passaggio a un’economia più sostenibile è il primo punto del nuovo governo, e il 37 per cento dei fondi del Recovery Plan servono a questo. Ma il nostro Paese al ritmo attuale mancherà gli obiettivi europei. Stefano Liberti su La Repubblica l'11 febbraio 2021. La strada l’ha indicata chiaramente il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Nominando un inviato speciale per il clima, nell’autorevolissima persona dell’ex segretario di stato John Kerry, ha fatto seguire alle parole della campagna elettorale i fatti. Nel “climate plan” da 1.700 miliardi di dollari che dovrà essere supervisionato proprio da Kerry, si prevede tra le altre cose il raggiungimento della totale neutralità climatica per il 2050 e il superamento dell’utilizzo di combustibili fossili nel settore elettrico già nel 2035. Che detto dagli Stati Uniti, primo produttore al mondo di petrolio, non è poco. Anche l’Unione europea nel suo Green New Deal ha indicato l’orizzonte del 2050 per raggiungere la neutralità climatica, prevedendo per il 2030 una riduzione delle emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55 per cento rispetto ai livelli del 1990. La transizione ecologica e il contrasto alla crisi climatica sono tra le priorità dei governi in diversi paesi europei. In Germania, la cancelliera Angela Merkel - soprannominata “klimakanzlerin” per la sua attenzione al tema - ha lanciato un programma di de-carbonizzazione estremamente ambizioso. In Francia e in Spagna è stato istituito un ministero per la transizione ecologica. In Italia siamo ancora parecchio indietro: la questione ha difficoltà a trovare spazio nel dibattito pubblico. Compare nelle agende delle principali forze politiche in modo episodico, sempre in posizione ancillare rispetto a quelli che sono considerati temi più stringenti. Per questo la proposta del fondatore del Movimento Cinque Stelle Beppe Grillo di istituire anche da noi un super-ministero simile a quelli francese e spagnolo, che governi le politiche ambientali ed energetiche, ha avuto il merito di mettere la questione al centro delle discussioni alla vigilia della nascita del nuovo governo presieduto da Mario Draghi. Quanto il tema della transizione ecologica dominerà l’azione del prossimo esecutivo? Quanto si sceglierà di utilizzare i fondi del Next Generation-Eu per disegnare effettivamente un nuovo modello di sviluppo, basato su de-carbonizzazione, economia circolare, mobilità sostenibile e cura dell’ambiente? I fondi europei - 209 miliardi di euro, di cui il 37 per cento vincolati a “progetti green” - rappresentano da questo punto di vista un’opportunità unica per recuperare il terreno perduto. Se nell’ultima bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) da presentare a Bruxelles una parte cospicua di risorse (67,5 miliardi di euro) è destinata alla transizione verde, come prevedono i vincoli europei, nel documento sembra mancare una visione sistemica, che dia un reale indirizzo alle politiche da realizzare. Manca, come fa notare il Forum disuguaglianze e diversità che fa a capo all’ex ministro Fabrizio Barca, un’indicazione di obiettivi da raggiungere e una misurazione degli impatti. «Nella sua bozza attuale, il Piano non usa il linguaggio dei risultati attesi, l’unico che interessa non solo l’Unione europea ma anche le persone comuni, impegnate a ricostruire le proprie vite nei tempi difficili che ci troviamo a vivere», sottolinea Barca. I tempi che viviamo - con la duplice crisi pandemica e climatica in pieno svolgimento, quella sociale ed economica alle porte - imporrebbero scelte radicali. La transizione ecologica dovrebbe tradursi in un ripensamento delle modalità di produzione dell’energia, della mobilità, del sistema agricolo e industriale, del modo in cui sono organizzate le nostre città. Richiederebbe un approccio olistico, visionario e ambizioso, che sappia guardare al mondo del futuro. «Purtroppo per ora la politica non ha colto la profondità della sfida che abbiamo di fronte. Il Next Generation-Eu è stato interpretato come una grande legge di bilancio pagata dall’Europa e non per quello che in realtà è: un piano volto a promuovere un cambiamento strutturale delle società secondo linee guida ben precise», rincara Edo Ronchi, ex ministro dell’ambiente e presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile. «Il pilastro principale di queste linee guida è proprio la transizione ecologica, a cui nella bozza del piano italiano sono destinate risorse tutto sommato limitate e in buona parte per progetti pre-esistenti», continua Ronchi. A ben guardare, esclusi i progetti già in essere, alla cosiddetta rivoluzione verde sono dedicati 6 miliardi l’anno. «Una cifra», sottolinea ancora l’ex ministro, «del tutto insufficiente per raggiungere l’ambizioso target di riduzione delle emissioni indicato dalla Commissione europea». Uno degli ambiti cruciali per la futura de-carbonizzazione è quello energetico, ancora fortemente dipendente dai combustibili fossili. All’attuale ritmo di crescita delle fonti rinnovabili difficilmente raggiungeremo i nuovi obiettivi fissati dall’Ue. «L’anno scorso i Paesi Bassi hanno installato impianti fotovoltaici per una potenza di 2.9 Gigawatt, circa quattro volte di più di quanto si è fatto in Italia. Il fatto che un paese infinitamente più piccolo e meno soleggiato del nostro ci sorpassi in modo così vistoso è un segno inequivocabile del nostro ritardo», analizza Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola. «C’è un problema di farraginosità nel sistema nei permessi. Se per avere l’autorizzazione per un piccolo parco eolico devi attendere cinque anni, hai già sforato gli orizzonti temporali fissati dal Next Generation-Eu». Oltretutto, la tanto decantata rivoluzione energetica viene sistematicamente contraddetta dal mantenimento di politiche anacronistiche, come i sussidi ai combustibili fossili - che, secondo quanto calcolato in un recente rapporto di Legambiente, ammontano complessivamente a 35,7 miliardi di euro tra sussidi diretti e indiretti. Una cifra astronomica, che pregiudica investimenti in altri settori e difende rendite di posizione di aziende inquinanti. Anche sulla mobilità sostenibile c’è molta strada da fare. Dopo il piccolo Lussemburgo, l’Italia è seconda in Europa per densità di auto private. Secondo uno studio Eurostat, nel nostro paese circolano quasi 40 milioni di autoveicoli, per la precisione 646 ogni 1000 abitanti (compresi i bambini). Per ridurre questo numero esorbitante, si dovrebbe puntare su mobilità dolce, sharing e trasporto pubblico. Invece, nell’ultima legge di bilancio si è scelto di sussidiare nuovamente con fondi statali (circa 700 milioni di euro per l’anno in corso) l’acquisto di nuove autovetture. Se da una parte favorisce lo svecchiamento del parco auto con veicoli meno inquinanti, la misura esacerba quello che rimane il principale problema della nostre città: la congestione. «Per la mobilità urbana sostenibile sono stati previsti 760 milioni di euro l’anno, che dovrebbero servire per un numero elevato di misure (le piste ciclabili, il rinnovo della flotta autobus, le tranvie, i treni e i trasporti navali regionali) con quasi nulla sul tema cruciale della sharing mobility», analizza ancora Ronchi. La scarsa sensibilità ecologica della classe politica si rispecchia insomma in una serie di misure contraddittorie e, per quanto riguarda il Pnrr, in un elenco di progetti poco articolati che in larga parte non sembrano frutto di una visione d’insieme ma quasi una forzatura imposta dall’Europa. «Per un vero cambiamento, bisognerebbe far passare il messaggio che l’ambiente non è una materia di nicchia, ma una questione strategica per la buona società e pure per l’economia», sostiene Paolo Pileri, professore di pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano. Una convinzione che in realtà innerva già da tempo una parte non marginale del mondo produttivo. Se la politica ci sente poco da questo orecchio, sono molte le imprese in sintonia con l’aria del tempo. Nel settore agricolo, l’Italia ha raggiunto ragguardevoli traguardi nella diminuzione nell’uso di pesticidi e nell’abbattimento delle emissioni. Nel settore industriale, tanti sono gli esempi di aziende grandi e piccole che hanno fatto della sostenibilità una bandiera. «Negli ultimi 5 anni, 432mila imprese hanno investito in prodotti e tecnologie green. L’Italia è una super-potenza dell’economia circolare: è il paese europeo con la più alta percentuale di riciclo di rifiuti. È una propensione che fa parte del nostro Dna di paese tradizionalmente manifatturiero ma privo di materie prime», sottolinea ancora Realacci. «Questi record andrebbero messi a sistema, valorizzati e incentivati». Saprà la politica cogliere l’occasione? Riuscirà il governo Draghi a guidare il paese attraverso l’attuale contesto di crisi e promuovere una transizione ecologica seria, in linea con gli obiettivi europei e con le tendenze globali? L’Italia ha fino al 30 aprile per presentare a Bruxelles il nuovo Pnrr. A novembre si terrà a Glasgow la Cop26, la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, di cui il nostro paese è co-organizzatore. Il tempo stringe e il momento delle scelte radicali sembra non più rinviabile.

Paolo Baroni per “la Stampa” il 12 febbraio 2021. L' idea non è nuova: già nel 2018 il portavoce dell' Alleanza per lo sviluppo sostenibile, l' ex ministro del Lavoro Enrico Giovannini, in un saggio pubblicato da Laterza intitolato «L' Utopia Sostenibile», proponeva di creare un ministero per la Transizione ecologica. E non a caso oggi Giovannini è dato in pole position per guidare questo nuovo dicastero, il classico coniglio tirato fuori dal cilindro da Draghi giusto in tempo per tenere bene agganciati i 5 Stelle e che a tutti gli effetti rappresenta la vera novità del nuovo governo che si sta formando. Non solo questa operazione segna un netto salto di qualità delle politiche di governo ma metterà a disposizione del nuovo ministro una potenza di fuoco notevole, sia in termini di competenze che di risorse. Ai 68-70 miliardi stanziati col Recovery plan, posto che Bruxelles raccomanda di investire non meno del 37% delle risorse nelle politiche green, vanno infatti aggiunti altri 19 miliardi di sussidi «ambientalmente dannosi» che ora si conta di cancellare e reimpiegare meglio.

Il modello francese. Nel suo saggio, oggi quanto mai attuale, Giovannini proponeva di «ripensare la distribuzione delle competenze dei diversi ministeri alla luce del "modello" dello sviluppo sostenibile» richiamando esplicitamente la scelta fatta dalla Francia, dove «il ministero dell' Ambiente è stato trasformato in ministero della Transizione Ecologica e Inclusiva, con competenze anche nei campi dell' energia, della prevenzione dei rischi, della tecnologia e della sicurezza tecnologica, dei trasporti e della navigazione, della gestione delle risorse rare». Un altro modello a cui ispirarsi è quello spagnolo, dove il «vecchio» ministero dell' Ambiente è diventato ministero della Transizione ecologica e della Sfida demografica, con competenze che vanno dalla lotta al cambiamento climatico alla prevenzione delle contaminazioni, dalla protezione del patrimonio naturale allo spopolamento dei territori.

Gli accorpamenti. Nel nostro caso si tratterebbe di accorpare al ministero dell' Ambiente le competenze nel campo dell' energia che oggi fanno riferimento al ministero dello Sviluppo, e volendo aggiungervi le competenze sui trasporti in capo al Mit e le politiche forestali che oggi sono sotto il Mipaf. Ma non si esclude nemmeno la possibilità di fondere Ambiente e Sviluppo e creare per davvero un nuovo superministero. La formula finale, come tutte le altre alchimie di governo, ce l' ha in testa però solo Draghi e per ora se la tiene ben stretta. Di certo non si parte da zero perché già oggi all' Ambiente c' è un Dipartimento per la transizione ecologica, mentre da inizio anno il Comitato per la programmazione economica si è evoluto nel nuovo Comitato Interministeriale per lo Sviluppo Sostenibile, col preciso scopo di assicurare un migliore orientamento degli investimenti pubblici agli obiettivi dell' Agenda 2030. Il primo obiettivo del nuovo dicastero sarà allineare il nostro Recovery plan al Green new deal europeo che di qui al 2030 punta a ridurre del 55% le emissioni di gas serra con programmi che spazieranno dall' agricoltura sostenibile all' economia circolare, dalle energie rinnovabili a idrogeno e mobilità sostenibile, dall' efficienza energetica degli edifici alla tutela di territorio e risorse idriche. «Un ministero della transizione ecologica alla francese - ha spiegato la vicepresidente della Commissione Ambiente della Camera Rossella Muroni - aiuterà a coniugare il rispetto dell' ambiente con lo sviluppo sostenibile, a tenere insieme programmazione, investimenti pubblici, politiche di sviluppo, lavoro di qualità e tutela degli ecosistemi ed ad affrontare con una visione complessiva e competenze trasversali tutte le questioni ambientali aperte, a cominciare dalla crisi climatica». In pratica la «rivoluzione verde» interesserà tutti i settori produttivi, la manifattura, la meccanica e l' acciaio. «Per noi - sostiene la responsabile ambiente del Pd Chiara Braga - l' emblema è il rilancio dell' ex Ilva di Taranto dove accanto al rilancio della produzione e del lavoro è necessario gestire le ricadute ambientali e sulla salute dei cittadini».

Applausi e critiche. Dopo l' annuncio arrivato mercoledì al termine dell' incontro del premier incaricato con Wwf, Legambiente e Italia nostra, tutto il mondo ambientalista ha festeggiato. Qualcuno ha però avanzato anche dubbi sull' efficacia dell' operazione, come il presidente dei costruttori dell' Ance Gabriele Buia «molto preoccupato» per la creazione di un superministero. «È un sforzo titanico - ha spiegato - e conoscendo i tempi con cui si muovono i nostri ministeri avrei paura ad unificare così tante competenze. Immaginatevi la bolgia».

Diodato Pirone per "Il Messaggero" l'11 febbraio 2021. Un feticcio. O un drappo rosso. Supercazzola o cosa seria? Un'idea valida per alcuni, molto meno per altri, spuntata sul palcoscenico politico con l'obiettivo evidente di spingere una parte del popolo dei 5Stelle a inghiottire il rospo Draghi. Comunque sia, il progetto di istituire un ministero della Transizione Ecologica ieri è montato come la panna. Legittimato persino dal meno ecologico dei partiti, la Lega di Salvini («Potremmo essere d'accordo anche se non basta emulare la Spagna», ha dichiarato Paolo Arrigoni, responsabile Energia del Carroccio) nonostante al momento nessuno sia in grado di stabilire cosa sia e soprattutto cosa farà questo nuovo ministero. Nelle ultime 24 ore sono persino spuntati due possibili ministri per il nuovo dicastero. C'è chi ha fatto girare il nome di Walter Ganapini, fra i fondatori di Legambiente, con una enorme esperienza nella gestione delle aziende di raccolta rifiuti (è stato anche presidente dell'Ama nel 1997). A sera è spuntato anche il nome di Catia Bastioli, amministratrice delegata di Novamont, inventrice della cosiddetta chimica verde. La Bastioli è notissima per la fabbricazione dei sacchetti di plastica riciclabile (tecnicamente fatti con un materiale vegetale che si chiama Mater-Bi) che dal 2018 sono obbligatori per la frutta sfusa venduta nei supermercati. I sacchetti riciclabili Novamont, un vanto del made in Italy, sono esportati in tutto il mondo. La Bastioli finì nel tritacarne della polemica politica perché fu nominata da Matteo Renzi alla presidenza di Terna, la società che trasporta l'energia elettrica, ma alcuni mesi dopo fu molto elogiata da Beppe Grillo dopo una visita alla Novamont. Ma quale dovrebbe essere il profilo di questo ministero della Transizione Ecologica? Le scuole di pensiero sono due. I 5Stelle caldeggiano - sia pure a grandi linee - l'idea di accorpare ministero dello Sviluppo, ministero dell'Ambiente e quella parte del ministero delle Infrastrutture che si occupa di Trasporti. I detrattori di questa ipotesi sottolineano che si tratterebbe di far nascere un moloch della spesa pubblica che, oltre a concentrare una quantità di fondi pubblici perlomeno anomala, sommerebbe competenze che con l'ambiente ci azzeccano poco come ad esempio la gestione dei regolamenti del commercio o del profilo giuridico dei trasporti. Per i poco esperti di profili burocratici va detto che già oggi il ministero dello Sviluppo gestisce molti progetti ecologici come quegli degli incentivi per chi riduce i consumi energetici delle abitazioni oppure quello della produzione di idrogeno verde. La seconda ipotesi sulla quale il professor Draghi starebbe lavorando è invece un allargamento delle competenze del ministero dello Sviluppo che avrebbe una missione ecologica mentre il ministero dell'Ambiente manterrebbe l'attuale missione forse con un nuovo nome. A far pendere il bilancino delle probabilità verso questa soluzione c'è il fatto che già nel 2019 il governo Conte presentò un progetto in Parlamento, poi abbandonato per decisione della stessa maggioranza, per trasformare il ministero dell'Ambiente in ministero della Transizione ecologica. Del progetto resta traccia nella struttura del dicastero che prevede tre l'altro un Dipartimento per la transizione ecologica e gli investimenti verdi (DiTEI) articolato nei seguenti quattro uffici di livello dirigenziale: Direzione generale per l'economia circolare (ECi); Direzione generale per il clima, l'energia e l'aria (CLEA); Direzione generale per la crescita sostenibile e la qualità dello sviluppo (CreSS); Direzione generale per il risanamento ambientale (RiA). Sul sito del ministero la missione del Dipartimento è descritta così: «Il Dipartimento esercita le competenze in materia di: politiche per la transizione ecologica e l'economia circolare e la gestione integrata del ciclo dei rifiuti; strategie nazionali di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici; mobilità sostenibile; azioni internazionali per il contrasto dei cambiamenti climatici, efficienza energetica, energie rinnovabili, qualità dell'aria, politiche di sviluppo sostenibile a livello nazionale e internazionale, qualità ambientale». Decisamente un super-ministero. O no?

Il dipartimento fantasma (per i 5 Stelle). Ministero della Transizione ecologica, l’ultima trovata di Beppe Grillo che in realtà già c’era (guidata da un altro Grillo). Carmine Di Niro su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. Era la richiesta principale del Movimento 5 Stelle, la creazione di un “superministero” della transizione ecologica “come lo hanno in Francia, Spagna, Svizzera, Costarica e altri paesi”, aveva strillato sul suo blog il fondatore e garante Beppe Grillo. E Mario Draghi, l’ex numero della Banca centrale europea incaricato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella di formare un governo di “alto profilo”, è intenzionato a seguire il “consiglio” grillino, come anticipato dalle associazioni ambientaliste ricevute ieri dal presidente incaricato per le consultazioni, con la presidente del WWF Donatella Bianchi che ha anticipato l’intenzione di Draghi di creare nel futuro esecutivo “il ministero della Transizione ecologica”. Una notizia che il Movimento 5 Stelle si è subito intestato come una vittoria e utilizzato in chiave strumentale per dare il via al voto sulla piattaforma Rousseau in merito alla fiducia all’esecutivo dell’ex numero uno dell’Eurotower di Francoforte. Peccato però che questo ministero della Transizione ecologica in Italia ci sia già. Esiste infatti in forma di dipartimento e fa parte del ministero per l’Ambiente guidato da Sergio Costa, ex Generale di brigata dei Carabinieri Forestali entrato in politica proprio con il Movimento 5 Stelle. Il colmo? A guidarlo come dipartimento è un altro Grillo, Mariano. Il dipartimento guidato dal quasi omonimo Grillo si occupa, come si legge dal sito del dipartimento, di “investimenti verdi” e “cura le competenze del Ministero in materia di economia circolare, contrasto ai cambiamenti climatici, efficientemente energetico, miglioramento della qualità dell’aria e sviluppo sostenibile, cooperazione internazionale ambientale, valutazione e autorizzazione ambientale e di risanamento ambientale”. Al di là delle facili ironie sui due Grillo, per ora l’unica certezza sul tema del futuro ministero della Transizione ecologica è l’incertezza: attualmente non solo Draghi non ha confermato la creazione del ministero, ma non è chiaro neanche come potrebbe essere strutturato. Le ipotesi vedono la possibilità di unire i ministeri di Ambiente e Sviluppo Economico, oppure potenziare radicalmente il ministero guidato attualmente da Sergio Costa per fare fronte ai tanti miliardi a disposizione col Next Generation EU. Proprio il piano sul Recovery presentato dal governo Conte prevede di stanziare 67,5 miliardi di euro per l’economia verde e la transizione ecologica, ma è stato pesantemente criticato in questa parte delle stesse associazioni ambientaliste.

Da video.corriere.it il 12 febbraio 2021.  “C’è per tutti quanti noi un elemento di grande consolazione. Abbiamo appreso da Beppe Grillo che si realizzerà il Ministero della transizione ecologica, nulla di meno. Ministero della transizione ecologica. Dunque dovremmo aspettarci questa grande novità in Italia avremo il Ministero alle Galassie che credo sarà affidato a una persona di alto profilo - Giordano Bruno, credo, che sta aspettando a Campo dei fiori da qualche tempo di essere convocato.” Così il Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca in un video in diretta su Facebook.

La Transizione ecologica esiste già. È al Ministero e la guida proprio un Grillo. Il Tempo il 10 febbraio 2021. Beppe Grillo vuole creare un Ministero nuovo di zecca da dedicare alla Transizione ecologica. Lo ha detto personalmente al premier incaricato Mario Draghi durante le consultazioni. Un ministero che dovrà essere al centro della svolta ambientalista del Movimento 5 Stelle, uno dei capisaldi su cui Grillo vorrebbe basare l'appoggio al nuovo esecutivo. Ciò che probabilmente Grillo non sa è che il suo nuovo cavallo di battaglia non è affatto una novità. La Transizione ecologica esiste già, ed è un dipartimento del Ministero dell'Ambiente. E chi guida questo dipartimento della Transizione ecologica? Il dirigente, guarda che coincidenza, si chiama proprio Grillo, nome di battesimo Mariano. Il dottore Mariano Grillo si occupa, come si legge dal sito del dipartimento, di "investimenti verdi" e "cura le competenze del Ministero in materia di economia circolare, contrasto ai cambiamenti climatici, efficientemente energetico, miglioramento della qualità dell’aria e sviluppo sostenibile, cooperazione internazionale ambientale, valutazione e autorizzazione ambientale e di risanamento ambientale". Inoltre,  " il Dipartimento esercita (...) le competenze in materia di: politiche per la transizione ecologica e l’economia circolare e la gestione integrata del ciclo dei rifiuti; strategie nazionali di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici; mobilità sostenibile; azioni internazionali per il contrasto dei cambiamenti climatici, efficienza energetica, energie rinnovabili, qualità dell’aria, politiche di sviluppo sostenibile a livello nazionale e internazionale, qualità ambientale, valutazione ambientale, rischio rilevante e autorizzazioni ambientali; individuazione e gestione dei siti inquinati; bonifica dei Siti di interesse nazionale e azioni relative alla bonifica dall’amianto, alle terre dei fuochi e ai siti orfani; prevenzione e contrasto del danno ambientale e relativo contenzioso; studi, ricerche, analisi comparate, dati statistici, fiscalità ambientale, proposte per la riduzione dei sussidi ambientalmente dannosi". Bastava che Grillo avesse alzato il telefono e avesse chiamato il ministro dell'Ambiente Sergio Costa, il quale tra l'altro è stato scelto proprio dal M5s.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 12 febbraio 2021. Parlano come se il famigerato e inventato Ministero della «transizione ecologica» dovessero darlo a uno di loro, a un grillino, parlano come se questo ministero dovesse avere una rilevanza rispetto alla missione che Mario Draghi è chiamato a compiere, ma soprattutto parlano come se il ministero parente stretto, quello dell'ambiente, non l'avessero gestito loro sino a ieri: coi meravigliosi risultati a tutti noti. Certo che no, non possiamo ascrivere al macchiettistico ministro Sergio Costa tutti i macro-disastri nazionali che per il grillismo hanno rappresentato un fallimento perfetto rispetto alle velleità sbandierate in campagna elettorale: però - prima ancora di chiedersi verso che cosa si possa ecologicamente transigere, se dicono sempre di no a tutto - qualche catastrofe va menzionata, così, velocemente. I grillini dovevano bloccare ogni trivellazione petrolifera nell'Adriatico e nel 2016 avevano sostenuto il referendum sulle trivelle, costato 300 milioni: poi, dopo non averne bloccata nessuna, il governo ha autorizzato altre tre trivellazioni nel mar Ionio: che in effetti non è l'Adriatico. Tre decreti di fine dicembre 2018 hanno accordato a una compagnia americana trivellazioni per 2.200 km quadrati tra Puglia, Basilicata e Calabria: tutte zone dove i grillini avevano preso consensi facendo gli ecologisti integerrimi, tanto che in tutta la Puglia «No-Triv» presero quasi il 43 per cento. A proposito di Puglia: il famoso Tap, il Gasdotto Trans-Adriatico che attraverserà Grecia e Albania per approdare nella provincia di Lecce, «con il governo a 5 stelle, in due settimane non si farà più» dissero Di Maio e Di Battista. Beh, si farà. A Lecce i grillini avevano conquistato il 67 per cento, poi, dopo il via all'opera, nell'ottobre 2018, un gruppo di militanti bruciò le bandiere del Movimento. Del Tav, per pietà umana, non diremo nulla. Diciamo qualcosina del famoso «Terzo Valico» a cui, secondo i grillini, andava preferito «un potenziamento della linea ferroviaria esistente», disse Di Maio: si farà anche quello, perché «l'analisi costi-benefici ha previsto che il totale dei costi del recesso ammonterebbe a 1 miliardo e 200 milioni di euro, di conseguenza non può che andare avanti». Si farà. E «Taranto senza Ilva, pienamente bonificata»? Con relativa «chiusura delle fonti inquinanti, senza le quali le bonifiche sarebbero inutili»? l'Ilva c'è ancora ed è più forte di prima, mezza statalizzata e bonificata solo dalle inchieste giudiziarie. Ma queste sono sciocchezze da poche decine di miliardi di euro. Veniamo alla «transizione ecologica» in senso stretto (?) e alla famosa economia circolare, la raccolta differenziata, le energie alternative, la direzione verso cui dovremmo transigere (nota: nell'accezione usata, il sostantivo transizione in realtà non accetta coniugazioni) e insomma vediamo che cazzo hanno fatto, oltre al niente. Risposta a sorpresa: niente. Inceneritori, termoutilizzatori o termovalorizzatori, rigassificatori: niente, non li volevano e non li vogliono. L'entourage eco-giustizialista, capitanato da Sergio Costa, ha escluso ogni lontana ipotesi di termovalorizzatore anche quando c'è stato il dramma della monnezza a Roma (di Napoli non parliamo più) e sono rimasti fedeli al film del «rifiuto zero» che in concreto significa immobilismo; lo dimostrano anche i dati sulla raccolta differenziata per cui l'Europa seguita a sanzionarci. La media italiana è 58 per cento, con estremi in Veneto (74 per cento), Campania (52) e Sicilia (29). Forse si potrebbe aggiungere che poi, la sera, si corre a guardare qualche gomorresco serial tv in cui la malavita organizzata ingrassa proprio per la mancanza di impianti: dello stoccaggio abusivo si occupano loro. Ma dicevamo la transizione. Verso dove, verso che cosa? «No agli inceneritori, incentivi alle rinnovabili» è sempre rimasto il motto. Nell'attesa, il ministro Costa ha cercato di aumentare il costo dei prodotti petroliferi per rendere il gasolio più caro della benzina, ciò che avrebbe aumentato anche il costo del petrolio agricolo. Senza contare - notizia Ansa - che la produzione mondiale di litio, fondamentale per produrre le batterie per auto elettriche, rischia di far aumentare la produzione di anidride carbonica (CO2) di almeno 6 volte, tra estrazione, produzione, trasporto e fabbricazione: ciò che triplicherebbe entro il 2025 le emissioni di CO2. Quanto alle energie rinnovabili, che per ora sono poca cosa, si registra un prevedibile fenomeno: le centrali energetiche alternative sono tutte (tutte) contestate indipendentemente dal loro potenziale di inquinamento, anche le più pulite. Non importa se sono centrali a biomasse o impianti eolici o fotovoltaici: è la vicinanza fisica a far scattare la protesta. I comuni attigui a una centrale progettata - ha notato l'osservatorio Nimby - si oppongono il 50 per cento delle volte, mentre i comuni confinanti nel 90 per cento dei casi. Ma forse sono comuni di destra.

Il ministero buffo...Il ministero della transizione ecologica esiste già, l’ultimo sketch del comico Grillo. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Il più bel castello – marcondiro-ndirondella- è lo sfolgorante Nuovo Ministero Immaginario che ora tutti giurano di riuscire a vedere lassù, sulla collina. In realtà, la miracolosa visione consiste soltanto un’accorpata di vecchie baracche, legate dal miracoloso collante della “narrazione” che, come la vernice di Pier Lambicchi, lega e nasconde quel che si vuole: lavoro, energia, strade, treni, mulattiere, meccanica quantistica e politiche agricole inevitabilmente verdi come l’insalata, trasporti per trasbordi, visioni ambientali anche di ambienti malfamati ma ecosostenibili, cioè fuffa. La trattativa sull’oggetto misterioso funziona come il test delle macchie d’inchiostro di Rorschach le quali, in sé, non significano nulla, ma in cui ciascuno può – se crede – vedere quel che vuole e poi lo racconta allo psichiatra – o al drago – che ne prende diligente nota e riassume: «Lei desidererebbe dunque una transumanza ecologica con connotazione energetica verde ma sostenibile, così da promuovere sviluppo industriale e posti di lavoro nel più scrupoloso rispetto dell’ambiente?». «Sìì», risponde l’interlocutore dalla vasta capigliatura a macchia mediterranea: «Come ha fatto a saperlo?». «Psicologia, anzi sintonia. Vada pure e consideri la cosa fatta». La buona novella fiabesca viene subito diffusa: esisterà il Ministero di tutti i Ministeri ed esso stesso sarà sia mistero che ministero, laddove lo spazio-tempo di Einstein si incontrerà con i nativi Inps ed Empas dei sotterranei e sarà festa grande. È evidente che si tratta di uno sketch per vendere ciò che già esiste, comunque la si chiami, ma è utile per l’acchiappo di un’ottantina dei miliardi europei. Però, il maquillage teatrale permette di soddisfare le esigenze di scena di Beppe Grillo il quale sa anche di poter contare sulla comprensione dello stesso circo mediatico-televisivo che ha sempre tifato per il governo più bello del mondo, lo stesso che è stato appena fatto cadere con un calcio nel sedere ben concordato e teleguidato da Renzi; e solo a partire da quel momento dichiarato nefasto, da sostituire di corsa con l’arrivo di un demiurgo che è anche un chirurgo. E poiché tutti sanno che la narrazione del mistero dei ministeri accorpati in una trasudazione ecologica dei luoghi comuni è soltanto una chiacchiera con cui i grillini possono convocare quarantamila insetti sulla tastiera, ecco che il circolo mediatico-televisivo evolve in un movimento decorativo e dadaista che drappeggia questa scemenza teatrale con bofonchiamenti pensierosi ma positivi. Però, ancora non basta, perché occorre un altro elemento di supporto: il dirottamento su un obiettivo finto, ovvero l’astuta ma inattaccabile conversione a U di Matteo Salvini che ha aderito al governo senza se e senza ma, alla maniera dei gesuiti “perinde ac cadaver”: passivo come un cadavere, seguendo la prescrizione del Quirinale. Più che una mossa da cavallo, è stata quella dell’alfiere: dritto come una diagonale. A questo punto lo schieramento che aveva in precedenza steso tappeti rossi al governo Conte e poi si era istantaneamente dichiarato mario-draghista, ha avuto un cenno d’infarto: come sarebbe a dire che Salvini ci sta? Bisogna assolutamente opporsi a questo indegno stato delle cose perché, va bene il “bene del Paese”, ma qui si rischia di perdere la faccia davanti a un elettorato pronto a spacchettarsi. È stato così che alla questione irreale del ministero immaginario è stata garantita realtà, mentre la scelta di Salvini è stata declassificata al rango di realtà non accettabile, ovvero di provocazione. I lettori sanno quanto poco ci piaccia Salvini e la sua paccottiglia dei pieni poteri, madonne crocefissi e tequila, ma la doppia manipolazione cui abbiamo assistito ci fa trasalire perché ha finora castigato il principio di realtà e premiato il comedian, il cantastorie proprio quando ci avevano fatto sognare il ritorno alla competente concretezza, il che è più preoccupante che frustrante, ma abbiamo pazienza e aspettiamo, non perinde ac cadaver, ma a orecchie dritte e occhi spalancati.

Non sarà un inutile Ministero della Transizione ecologica a salvare l’ambiente. Carmine Gazzanni su Notizie.it l'11/02/2021. Il M5s vincola il sì a Draghi alla nascita del super-Ministero, ma un Dipartimento per la Transizione ecologica esiste già e in tre anni di governo il Movimento non ha saputo mantenere nessuna promessa in ambito ambientale. La domanda è d’obbligo: che cos’è e cosa sarà il ministero per la Transizione ecologica, così fortemente voluto da Beppe Grillo? E soprattutto: era così necessario? Il dubbio, infatti, è che il Movimento cinque stelle abbia posto una condizione tanto di facciata e poco impattante nel concreto soltanto per mettere sul governo di Mario Draghi la propria bandierina più in alto delle bandierine degli altri partiti. Il dubbio nasce per varie ragioni. Innanzitutto pare strano che la questione ambientale – di cui, seppure sia uno dei temi cardine dell’anima M5S, non si è mai parlato fino a due settimane fa – proprio ora diventi così esiziale, al punto da oscurare un tema centrale nell’agone politico come quello della giustizia. Detta in altri termini: un ministero per la Transizione ecologica val bene una prescrizione? Già, perché uno dei primi scogli della nuova maggioranza sarà in Parlamento con la conversione in legge del decreto Milleproroghe, provvedimento al cui interno c’è lo stop alla prescrizione voluto dal Guardasigilli uscente Alfonso Bonafede. Già sono stati presentati da varie forze politiche emendamenti per cancellare la norma vessillo del Movimento. Cosa succederà allora? Difficile pensare che Forza Italia e Italia Viva (e lo stesso Pd) possano confermare (e dunque prolungare) lo stop alla prescrizione. Molto più facile supporre che la norma salterà. E a quel punto cosa farà il Movimento? A sentire le voci che si rincorrono tra i pentastellati “critici”, più di qualcuno è convinto che si metterà una toppa. E questa toppa risponde per l’appunto al nome di “Transizione ecologica”. Ecco perché l’insistenza sull’ecologia in questo frangente sembra tanto una sorta di “velo di Maya” finalizzato a coprire i potenziali nervi scoperti dell’esecutivo del tutti dentro. E non possono sfuggire altri curiosi dettagli. Pochi sanno che all’interno del ministero dell’Ambiente già c’è un dipartimento specifico, il “Dipartimento per la Transizione ecologica e gli investimenti verdi”. Sarà forse che il capo dipartimento si chiama Grillo (ma Mariano, non Beppe), ma ciò non giustifica che un dipartimento interno a un Ministero ora assurga a ruolo di dicastero sintetizzando peraltro due Ministeri centrali come Ambiente e Sviluppo economico. Ultimo appunto, ma forse il più importante. Se proprio i pentastellati avessero voluto rendere l’ambiente centrale nell’azione di governo avrebbero potuto farlo già nei due e più anni in cui sono stati al governo. E invece abbiamo assistito nell’ordine: all’ok alla Tap in Puglia, alla mancata riconversione ambientale nell’area dell’Ilva a Taranto, all’ok definitivo alla Tav Torino-Lione. Tutte opere che, piaccia o non piaccia, sorridono semmai agli interessi economici, industriali e infrastrutturali ma che non tengono per nulla in conto (o poco) l’aspetto ambientale. Non è un caso che in campagna elettorale i candidati del Movimento – e in primis Luigi Di Maio – avevano chiaramente detto che non ci sarebbe stata alcuna Tap ma politiche di tutela degli uliveti pugliesi; che lo stabilimento siderurgico di Taranto sarebbe stato completamente riconvertito; e infine che l’alta velocità non avrebbe mai avuto il parere favorevole dei 5 Stelle. Alla fine, nonostante dettagliati report di analisi costi-benefici di cui tanto abbiamo sentito parlare, nessuna promessa è stata mantenuta. Ma c’è di più. A scorrere per bene i dati dell’Ufficio per il Programma di Governo (che fa capo direttamente a Palazzo Chigi), si scopre che tanti altri piccoli (ma importanti) provvedimenti “ambientali” sono stati annunciati, messi su carta, approvati e poi bloccati. Tutta colpa dei cosiddetti “decreti attuativi” che rappresentano una sorta di secondo tempo legislativo: molto spesso dopo che una norma viene approvata occorre che il ministero di riferimento (in questo caso quello dell’Ambiente) intervenga per rendere quel provvedimento operativo. E invece? Invece niente. Doveva a esempio nascere un Comitato per la finanza ecosostenibile e non è mai nato; dovevano essere predisposte nuove modalità per gli studi di impatto ambientale e non è mai avvenuto; mai partito il progetto delle autostrade ciclabili né quello per la rete urbana delle ciclabili, due idee lodevoli per cui peraltro erano stati stanziati decine di milioni di euro. Annunciato e mai partito anche il “Programma strategico nazionale per il contrasto ai cambiamenti climatici e il miglioramento della qualità dell’aria”. La “transizione ecologica”, insomma, poteva avvenire senza annunci eclatanti nel corso di questi due anni. E invece, ancora una volta, abbiamo l’annuncio eclatante col dubbio che poi i fatti restino a zero. Purtroppo, non basta un nome o un titolo per fare una politica.

Dagospia il 12 febbraio 2021. Ferdinando Cotugno: Piccoli smottamenti ideologici: qui Di Maio con i gilet gialli nel 2019, la cui protesta era nata avendo come bersaglio le nuove tasse sul carburante, proposte dal Ministero per la transizione ecologica, lo stesso che oggi è la bandiera politica del Movimento 5 Stelle.

Marco Antonellis per Dagospia il 10 dicembre 2018. Beppe Grillo pare proprio essersi innamorato dei gilet gialli: "Sono come noi" ha tuonato dalle pagine del Fatto Quotidiano. "I Gilet gialli hanno venti punti di programma, non parlano solo di tasse, vogliono il reddito di cittadinanza, pensioni più alte...tutti temi che abbiamo lanciato noi", dice il fondatore del Movimento 5 Stelle. Ma l'innamoramento non è destinato a fermarsi qui. Perché tra i pentastellati più vicini al leader c'è chi confida che "ci si possa alleare con i Gilet gialli a livello europeo dato che hanno espresso l'intenzione di trasformarsi in Movimento politico". Capito i 5Stelle dove vogliono andare a parare? Perché i sondaggisti d'oltralpe danno gli anti Macron addirittura in doppia cifra se si candidassero alle prossime elezioni europee. Insomma, ne verrebbe fuori un bottino notevole che messo assieme a quello dei pentastellati nostrani potrebbe diventare "ago della bilancia" nel prossimo europarlamento per decidere, di volta in volta, se stare con i sovranisti alla Salvini o con i partiti tradizionali. "Cambiare l'Europa, che è quello che ci proponiamo di fare, con i Gilet gialli sarebbe molto più facile" spiegano dal Movimento che nel frattempo ha già iniziato la stesura del programma elettorale in vista delle elezioni di fine Maggio: tra i punti qualificanti dovrebbe esserci l'abolizione del Fiscal Compact (bye bye Mario Monti), l'esclusione dal limite del 3% per gli investimenti in innovazione così come -si sta ragionando- la modifica dello Statuto della Bce con buona pace di Angela Merkel e per la gioia di Donald Trump: si vorrebbe una Bce sul modello dell'americana Fed, la banca centrale degli Stati Uniti d'America. Intanto, i 5Stelle si stanno già attrezzando anche sotto il profilo delle candidature in vista delle elezioni per il parlamento di Strasburgo: tra i probabili candidati, in molti danno per sicuro il sindaco di Livorno Nogarin che già ne avrebbe parlato con il numero uno del Movimento, Luigi Di Maio.

Alberto Clò per rivistaenergia.it, fondata con Romano Prodi, il 26 novembre 2018. Le violente proteste dei "gilet gialli" francesi contro l’aumento dei prezzi dei carburanti deciso dal governo di Edouard Philippe dicono molto sullo scarto nella popolazione francese (ma non solo) tra il dichiararsi contro i cambiamenti climatici ed accettarne le misure per combatterli. Le proteste sono scaturite nei territori agricoli ma a dire dei sondaggi godono del sostegno del 74% della popolazione. Eppure, il gasolio aumenterà di (appena) 6,5 cent €/lt e la benzina di 2,9 cent €/lt portando il prezzo medio a circa 1,53 €/lt. Prezzi comunque inferiori, e di non poco, a quelli medi italiani: 1,63 €/lt per la benzina e 1,55 €/lt per il gasolio (dati al 15 novembre, Staffetta Quotidiana). Dichiararsi contro i cambiamenti climatici è una cosa, accettarne le misure per combatterli un’altra. A fine agosto il Ministro francese per la "Transizione ecologica e solidale" si dimise perché non aveva più intenzione di ‘mentire a sé stesso’, non essendo riuscito ad adottare misure significative, a partire dal rinvio della riduzione del nucleare nella generazione elettrica. Fu sostituito da Francois de Rugy, Presidente del Parlamento francese e a lungo membro del partito "Europe ècologie – Les Verts", moderato ma comunque desideroso di agire. Da qui, la decisione del governo, col sostegno del Presidente Emmanuel Macron, di aumentare la carbon tax, denominata, "Contribution Climat Energie" (CCE), nella complessiva ‘Taxe interieure de consommation sur le produit energetique’ (TICPE). La tassa sul carbonio fu introdotta nel 2014 – Presidente Francois Hollande, Ministro dell’ambiente Segolene Royal – e da allora è aumentata di oltre 6 volte, da 7 a 44,6 €/tonn CO2, con la previsione di portarla a 55 € nel 2019 sino a 100 nel 2030. Attualmente la TICPE è pari a 0,94 euro/litro (di cui fa parte la CCE per il 63%) su un prezzo finale medio intorno a 1,50 €/lt Prezzo grosso modo simile tra benzina e gasolio, per la decisione del governo francese di ridurre gli sgravi fiscali a favore delle auto diesel, motivato dai loro presunti danni ambientali e dal prossimo avvento dell’auto elettrica. Motivazioni entrambe inconsistenti. Il gasolio in Francia aumenterà di (appena) 6,5 cent €/lt e la benzina di 2,9 cent €/lt, portando il prezzo medio a circa 1,53 €/lt: prezzi comunque di non poco inferiori a quelli medi italiani. Cosa insegna la protesta dei gilets jaunes? Più cose. 

Primo: “la transizione energetica come ogni altra rivoluzione, perché di questo si tratta – scrivevo oltre un anno fa nel mio ‘Energia e Clima’ (pag. 32) – attraverserà in modo diseguale le varie componenti economico-sociali interne ad ogni paese […]. Si avranno vincitori e vinti nella distribuzione dei costi e dei benefici – tra imprese, industrie, lavoratori, consumatori, contribuenti – con tensioni politiche e sociali”. Come va accadendo e sempre più accadrà.

Secondo: la benzina o il gasolio sono un bene essenziale per una larga parte della popolazione, specie quella pendolare che ogni giorni deve andare a lavorare o studiare. In Italia ammonta a 29 milioni di persone. La maggior parte usa l’automobile. Questo accade anche in Francia, nonostante la maggior efficienza del suo sistema ferroviario. Da qui la rabbia dei ‘rurali contro i parigini con il metrò sotto casa’. I cittadini/consumatori non fanno poi solo il pieno, ma usano l’elettricità o il metano, i cui prezzi in Italia stanno diventando sempre più insopportabili per milioni di famiglie. L’economia dei divieti e della burocrazia realizzata col pretesto dell’ecologia è un’economia percepita come punitiva e perciò stesso respinta.

Terzo: l’accettabilità sociale della transizione energetica diminuisce con l’intensificarsi delle misure per realizzarla. Non solo prezzi, ma anche restrizioni, proibizioni, sanzioni. Sarà allora interessante vedere, ad esempio, come reagiranno i 2,2 milioni di parigini al Piano ambientale approvato lo scorso anno dal loro sindaco Anne Hidalgo dal suggestivo nome ‘Paris change d’ère. Vers la neutralité carbone en 2050’ che mira a ridurre le emissioni clima-alteranti del 50% al 2030 e dell’80% al 2050 in larga parte con una miriade di misure coercitive.

Ne riportiamo le principali:

limitare l’aumento degli abitanti nel 2030 a non più di 160.000 (come?);

dimezzare le 600 mila vetture in circolazione (chi e come deciderà?), che dovranno avere dal 2030 almeno 1,8 (sic!) occupanti (idem);

aumentare in ogni modo i "costi di utilizzazione delle autovetture";

eliminare i parcheggi;

incoraggiare l’andare a piedi o in bici;

puntare a un’“alimentazione meno carnosa” col divieto di distribuire la carne due giorni la settimana;

“orientare più massicciamente le scelte dei parigini verso regimi alimentari plus durables” (?);

bloccare la circolazione nei week-end organizzando grandi feste popolari per le strade.

Il tutto, mirando a “conquistare i cuori e gli spiriti” dei parigini e a “nutrirne l’immaginario […] mutualizzando gli acquisti o sincronizzando le decisioni”. Non so quanti dei circa 34 milioni di turisti che visitano annualmente Parigi o gli stessi parigini gradiranno queste restrizioni dei gradi di libertà individuale. Rivoluzionare dall’alto economie e modi di vivere richiederebbe rigidi sistemi di pianificazione scarsamente accettabili dalle società moderne. L’economia dei divieti e della burocrazia realizzata col pretesto dell’ecologia è un’economia percepita come punitiva e perciò stesso respinta. I gilets jaunes anche questo insegnano.

(ANSA l'11 febbraio 2021) "Accetto la votazione ma non posso digerirla. Da tempo non sono d'accordo con le decisioni del Movimento 5 Stelle e ora non posso che farmi da parte". Così Alessandro Di Battista in un video su Fb dove saluta e ringrazia i suoi ex colleghi e Beppe Grillo. "Non posso far altro, da ora in poi, che parlare a nome mio e farmi da parte, se poi un domani la mia strada dovesse incrociare di nuovo quella del M5s lo vedremo, dipenderà esclusivamente da idee politiche, atteggiamenti e prese di posizione, non da candidature o ruoli. Faccio un grande in bocca la lupo ai miei ex colleghi". Lo ha detto Alessandro Di Battista su Facebook. "Questa scelta di sedersi con determinati personaggi, in particolare con partiti come Forza Italia, in un governo nato per sistematizzare il M5s e buttare giù un presidente per bene come Conte non riesco a superarla". Lo ha detto Alessandro Di Battista su Facebook

Paolo Mieli a PiazzaPulita: "Alessandro Di Battista, il dittatore del M5s. Ecco quando tornerà a farsi avanti". Libero Quotidiano il 12 febbraio 2021. Che cosa significa l’addio di Alessandro Di Battista al Movimento 5 Stelle? È l’interrogativo che Corrado Formigli ha posto a Paolo Mieli, ospite nello studio di La7 di PiazzaPulita. “Di sicuro non creerà problemi al governo di Mario Draghi, ma sia Dibba che Giuseppe Conte si sono messi di riserva perché pensano che prima o poi le elezioni arriveranno”, è stata l’analisi dell’editorialista del Corriere della Sera, che ha poi aggiunto: “Il M5s è l’unico partito che ha un gruppo dirigente di riserva solido. Conte ufficialmente non ne fa parte, però io sono malizioso e lo vedo come il Prodi dei 5 Stelle”. E Di Battista invece? “Lui è il loro dittatore, quello che in caso di tracollo della leadership è pronto a farsi avanti. Tra l’altro per la prima volta si è espresso in maniera alternativa a Beppe Grillo, che in questo caso si è speso molto per il governo Draghi”. Non riuscendo però a convincere uno sponsor del calibro di Marco Travaglio della bontà dell’operazione, dato che il direttore del Fatto Quotidiano ha espresso un giudizio molto severo da Lilli Gruber a Otto e Mezzo. “Per i 5 Stelle è più grave andare al governo con Berlusconi che con Salvini”, ha dichiarato Mieli ricordando che il Cav rappresenta tutto ciò che il Movimento ha sempre combattuto: “Alla fine con il leghista ci sono stati per un anno e anche il Fatto ha difeso ciò che accadeva nel Conte uno. Berlusconi, invece, è una questione identitaria forte, è colui il quale ha caratterizzato la seconda Repubblica e anche gli anni in cui si è sviluppato il M5s”. 

 (ANSA l'11 febbraio 2021) "Da Dell'Utri a Bontate: il curriculum di Berlusconi ci impone di dire No al nuovo governo". E' questo il titolo del nuovo articolo di Alessandro Di Battista su Tpi. "Non è accettabile dividere questioni economiche da questioni morali. Perché nella nostra Italia vi sono stati esempi virtuosi: imprenditori che hanno chiuso, non solo per scelte politiche sbagliate, ma perché assassinati per essersi opposti al pizzo. E l'hanno fatto mentre un imprenditore che oggi viene ricevuto con tutti gli onori nelle stanze del potere romano non ha fatto altro che pagare, pagare e ancora pagare. Ed oggi rischia di tornare al governo del Paese". "Oggi su Rousseau ho votato NO. Per evitare di sedersi al tavolo con certi personaggi che sono tra i motivi per cui è nato il Movimento 5 Stelle". Lo scrive Danilo Toninelli in post su Fb in cui riporta la prima pagina de 'il Giornale' che titola "In mano ai Toninelli". "Ricordo che il quotidiano , che mi dedica la prima pagina di oggi 11 febbraio, è di proprietà della famiglia Berlusconi. Di cui fa parte quel Silvio Berlusconi che potrebbe diventare nostro futuro alleato di governo se prevalesse il sì nel voto su Rousseau".

(ANSA l'11 febbraio 2021)  La senatrice M5s, Barbara Lezzi, sostenitrice con Alessandro Di Battista dell'opzione "astensione" del M5s al governo Draghi, torna in campo e rilancia sui social la posizione espressa in proposito da Casaleggio ("Qualora vincesse il no, ci sarà da stabilire se il voto sarà negativo o di astensione"). Anche Lezzi ricorda il governo della "non sfiducia" del '76 e dice: "ora siete voi, iscritti al M5S, che potete decidere se accomodarvi accanto a Berlusconi, Salvini, Renzi, Calenda e gli altri oppure pretendere che tutto passi dal M5S che avrebbe forza e mani libere per negoziare e trattare ogni voto". "La storia ci riporta a chi si assunse responsabilità senza entrare nel governo e lo fece per senso di responsabilità verso un paese piegato dalla crisi economica e dal terrorismo. Lo fece perché aveva la consapevolezza che la rilevanza politica l'avrebbe potuta esercitare al meglio costringendo il Governo a negoziare e a trattare ogni singolo provvedimento per conquistare il voto di chi aveva scelto l'astensione", scrive Lezzi che ricorda: "Era il 1976, nacque il governo della non sfiducia grazie all'astensione di Berlinguer che non si andò a sedere con Andreotti". "Caro Giuseppe Conte, il tuo appello di ieri a votare Sì al quesito Rousseau ha, ancora una volta, dimostrato che sei un vero signore. Dato il tuo ruolo, dato il tuo garbo istituzionale non avresti potuto fare altro . Per me è diverso. Voterò un NO convinto". Così la senatrice Barbara Lezzi in un lunga 'lettera aperta' indirizzata dal suo profilo Fb all'ex premier, in cui "motiva" le regioni del suo voto contrario. "Giuseppe, ora tu non puoi dirlo, ma non posso credere che tu sia convinto che questa accozzaglia sia fatta per il bene del Paese. Un Paese stremato, stanco e indebolito, al quale non possiamo restituire i Renzi, Salvini e Berlusconi potenziati, senza alcuna forma di controllo parlamentare. La responsabilità impone di far tutto ciò che serve per impedirlo" scrive Lezzi.

La profezia di Travaglio invecchiata malissimo. Travaglio e la "rosicata" sul M5S al governo con Draghi: “Grillo si è fatto intortare, non conteranno nulla”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Il Movimento 5 Stelle? Nel governo Draghi “non conteranno più niente” e “prima di calarsi le brache avrebbero dovuto chiedere qualche garanzia in più”. Marco Travaglio è un fiume in piena nel salotto televisivo di ‘Otto e mezzo’, dove è praticamente di casa, nel commentare il "Sì" sulla piattaforma Rousseau alla fiducia all’esecutivo dell’ex numero uno della Banca centrale europea. Il direttore del Fatto Quotidiano, ideologo-ombra del Movimento 5 Stelle, è visibilmente sconvolto dalla svolta di “responsabilità” dei grillini e in particolare dei loro vertici, da Luigi Di Maio a Vito Crimi, fino al fondatore e garante Beppe Grillo. Proprio sul comico genovese arrivano le parole più dure: “Si è trattata di una circonvenzione di capace. È stato intortato da quel volpone di Draghi con la supercazzola del super-ministero della Transizione ecologica”, accusa Travaglio. Quanto al futuro del Movimento, il direttore del Fatto prevede una spaccatura, perché “ci sarà qualcuno che non ha lo stomaco così forte da andare al governo con Berlusconi e con chi gli ha buttato giù i due precedenti governi”.

LA PREVISIONE SBALLATA DI TRAVAGLIO – Nello studio di "Otto e mezzo" riecheggiano ancora le parole di Travaglio smentite dai fatti di queste ultime ore. Giovedì 5 febbraio, soltanto una settimana fa e prima della chiamata al voto degli iscritti sulla piattaforma Rousseau, Travaglio era certo delle future mosse del Movimento: nessuna fiducia a draghi perché “il tabù numero uno dei Cinque Stelle è Berlusconi, un pregiudicato”, diceva il direttore del Fatto scandendo ogni sillaba e mettendosi le mani alla bocca a mo’ di megafono. Non solo. Per Travaglio, che si rivolgeva alla Gruber, era letteralmente impossibile vedere in futuro prossimo i grillini al governo con ministri forzisti: “Te li vedi che fanno i ministri insieme agli uomini di Berlusconi che vogliono cancellare la riforma della prescrizione. Cioè, ma pensate veramente che la politica sia una pagliacciata a questi livelli? È evidente che devono trovare un altro modo se vogliono evitare la scissione, che potrà essere l’astensione o un appoggio esterno. Ma certamente la gente se vede dei Ministri dei Cinque Stelle con i Ministri di Berlusconi gli sputerà in faccia”, diceva il buon Marco. Ebbene, come da risultato della piattaforma Rousseau, il Movimento 5 Stelle sarà al governo proprio col “pregiudicato Berlusconi”. Vedremo se i sostenitori grillini avranno la saliva pronta…

Otto e Mezzo, “e allora quei voltagabbana del Pd?”: Marco Travaglio, crisi di nervi per difendere la farsa-Rousseau. Libero Quotidiano l'11 febbraio 2021. Marco Travaglio ha rispolverato un grande classico: “E allora il Pd?”. Ospite di Lilli Gruber a Otto e Mezzo, il direttore del Fatto Quotidiano ha sparato sul partito di Nicola Zingaretti per difendere la votazione-farsa sulla piattaforma Rousseau che ha sancito il via libera da parte degli iscritti all’ingresso del M5s nel governo di Mario Draghi. “Far votare 74mila persone - è la versione di Travaglio - è sempre meglio che far decidere a 3-4 persone. Quanti hanno deciso nel Pd che la linea che Andrea Orlando ha enunciato due settimane fa fosse cambiata?”. Il riferimento è alla dichiarazione “non aggiungeremo mai i nostri voti a quelli leghisti neanche se il premier fosse Superman”. “Ma questa è democrazia rappresentativa, Marco”, ha provato a ricordargli la Gruber. Ma Travaglio ha tirato dritto per la sua strada: “No, quello significa essere dei voltagabbana a casa mia. È meglio sentire ogni tanto anche i propri iscritti: in Germania Spd li fa votare per posta, il M5s li fa votare online”. Poi il direttore del Fatto ha risposto alla domanda della conduttrice di La7 su una possibile spaccatura tra i 5 Stelle dopo il voto su Rousseau: “Credo che ci sarà per forza qualcuno che non avrà lo stomaco così forte da votare un governo con Berlusconi e con quello che gli ha buttato giù i precedenti due”. 

Travaglio demolisce il MoVimento: "Si è calato le brache, non conterà più niente". È un Marco Travaglio critico contro il Movimento 5 Stelle quello che ha parlato da Lilli Gruber e che non ha risparmiato commenti al veleno per i grillini. Francesca Galici, Giovedì 11/02/2021 su Il Giornale. Marco Travaglio in rotta con il Movimento 5 Stelle? Uno dei più leali sostenitori del partito di Beppe Grillo sembra aver cambiato idea e ospite di Otto e mezzo non ha risparmiato critiche, anche ben argomentate, al M5S che fino a pochi giorni fa elogiava. Il pomo della discordia per Marco Travaglio è la decisione di appoggiare il governo di Mario Draghi, soprattutto perché in quella stessa maggioranza ci saranno anche Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, che i grillini da sempre contestano. Solo pochi mesi fa sembravano rabbrividire all'idea, escludevano categoricamente l'ipotesi di un'alleanza e adesso l'appoggio a Draghi ha cambiato tutto, facendo storcere il naso a Marco Travaglio. "Prima di calarsi le brache avrebbero dovuto chiedere qualche garanzia in più", ha sbottato Marco Travaglio con Lilli Gruber, commentando il voto du Rousseau che ha di fatto dato il via libera al Movimento 5 Stelle di appoggiare Mario Draghi. "Non conteranno più niente", ha sottolineato il direttore de Il fatto quotidiano ai microfoni di Otto e mezzo, forse anche mettendo in evidenza il malumore di gran parte dei grillini, che quando iniziò l'avventura del M5S decisero di appoggiarlo proprio perché in apparenza diversi dalla politica classica. Marco Travaglio è molto duro nel suo giudizio sull'appoggio al governo nascente: "Grillo è tutt'altro che scemo. Si è trattata di una circonvenzione di capace. È stato intortato da quel volpone di Draghi che lo ha intortato con la supercazzola del super-ministero della Transizione ecologica". Per Marco Travaglio, quindi, i grillini si sarebbero fatti abbagliare da promesse e da piccolezze che hanno però fatto perdere al MoVimento il suo slancio e la sua identità. Ma non è solamente l'appoggio a Draghi a infastidire Marco Travaglio, è soprattutto la composizione della maggioranza: "Una spaccatura ci sarà per forza, ci sarà qualcuno che non ha lo stomaco così forte da andare al governo con Berlusconi e con chi gli ha buttato giù i due precedenti governi". Secondo l'analisi del giornalista, quindi, prossimamente si assisterà a una scissione importante all'interno del MoVimento, soprattutto perché secondo lui con il nuovo governo "i 5 stelle non toccheranno palla, non contano più niente". Travaglio ha un pensiero anche per Giuseppe Conte: "È una fortuna il fatto di tenersi a distanza da questa ammucchiata. A prescindere da Draghi che è un santo e cammina sulle acque, fa la fila al supermercato invece di farsi largo con il machete, ma tutto il resto ci riserverà tali spettacoli che chi ha la fortuna di avere un mestiere, un bel mestiere come insegnare all'università, è un bene se si tiene fuori".

Marco Travaglio a Otto e Mezzo, "non conteranno più niente" e insulti a Berlusconi: crisi di nervi dopo aver perso il M5s. Libero Quotidiano il 12 febbraio 2021. La disperazione e la rabbia di uno sconfitto, ovvero Marco Travaglio. Il "suo" M5s si è ribellato al re dei Manettari e, dopo la farsa del voto su Rousseau, si è consegnato a Mario Draghi. Tutto ciò che il direttore del Fatto Quotidiano, a suon di insulti contro Silvio Berlusconi e Matteo Salvini e deliri sul "complotto dei giornaloni", non avrebbe mai voluto vedere. E così, il direttore capo-ultrà di Giuseppe Conte, mostra tutta la sua disperazione ospite in collegamento con Otto e Mezzo di Lilli Gruber, nella puntata in onda su La7 ieri sera, giovedì 11 febbraio, proprio pochi minuti dopo la chiusura del voto sulla piattaforma pentastellata. "Prima di calarsi le brache avrebbero dovuto chiedere qualche garanzia in più", ha sbottato il Travaglio disperato. E ancora: "Non conteranno più niente". Brutto colpo, per Travaglio, prendere atto che il suo partito di riferimento è ridotto al nulla. Dunque, su Beppe Grillo: "È tutt'altro che scemo - ha premesso -.  Si è trattata di una circonvenzione di capace. È stato intortato da quel volpone di Draghi che lo ha intortato con la supercazzola del super-ministero della Transizione ecologica". E qui, Travaglio, mente sapendo di farlo. Cerca infatti di spacciare la vicenda del ministero "verde" come un argomento in grado di persuadere il M5s, quando in verità è stato semplicemente uno strapuntino chiesto e ottenuto dai pentastellati per poterselo rivendere ai votanti su Rousseau per ottenere il "sì". E ancora, il Marco Manetta scaricato dai grillini punta il dito per la composizione della maggioranza: "Una spaccatura ci sarà per forza, ci sarà qualcuno che non ha lo stomaco così forte da andare al governo con Berlusconi e con chi gli ha buttato giù i due precedenti governi". Insomma, il M5s destinato allo scissione per colpa della presenza di Berlusconi, quel Berlusconi che Travaglio è tornato a insultare con violenza dalle colonne del suo Fatto Quotidiano. Insulti che sarebbero dovuti servire a convincere i vertici M5s a non andare mai al governo con Berlusconi. Ma Travaglio ha fallito. 

Da liberoquotidiano.it il 6 febbraio 2021. Matteo Salvini e la delegazione della Lega a Montecitorio ha parlato con il premier incaricato anche di Europa, e quello che è emerso è un quadro sorprendente, sicuramente spiazzante per Pd e M5s che vorrebbero usare il tema come alibi per tenere fuori dalla maggioranza il Carroccio. "Noi europeisti e difendiamo interessi Italia a testa alta. Siamo atlantisti, stiamo con gli Usa, Israele e l'Occidente democratico, pur mantenendo buoni rapporti con tutti". Il riferimento alle sbandate filo-cinesi del Movimento 5 Stelle è evidente. "Noi vogliamo un governo che vada a trattare a Bruxelles per difendere gli interessi dell'Italia, e su questo la condivisione col professor Draghi è totale". Con Salvini c'erano anche i capigruppo di Camera e Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo.

Quelle chat dei leghisti: "In gioco il futuro dei nostri figli". Ancor prima dell'uscita di Salvini dal confronto con Draghi i parlamentari già si dicevano convinti di ciò che sarebbe stato deciso a favore di un governo Draghi. Federico Garau, Sabato 06/02/2021 su Il Giornale. L'entusiasmo di Giorgetti ("Draghi è un fuoriclasse, come Cristiano Ronaldo, non può stare in panchina") deve aver contagiato tutti nella Lega, che pare proprio intenzionata a spalancare le porte all'ex vice presidente e managing director della Goldman Sachs: così tanto che anche nelle chat di deputati e senatori pare evidente il giubilo, se si esclude qualcuno più prudente. Il "pragmatismo" dell'ex presidente della Bce ha quindi convinto i più accaniti euroscettici, mandando letteralmente nel pallone anche coloro che, nella ex maggioranza giallorossa, mai si sarebbero attesi un'apertura del genere. "Siamo a disposizione, non poniamo veti", ha detto il leader del Carroccio dopo il confronto con Draghi. Quindi l'ex vicepremier torna sulla stessa linea d'onda del partito dell'ex collega con cui aveva creato il primo governo Giuseppi. "Noi ci saremo con lealtà", ha infatti spiegato Vito Crimi dopo l'incontro con Draghi. "Abbiamo chiesto di non indebolire il reddito di cittadinanza per un nuovo esecutivo solidale, ambientalista ed europeista". A patto, ovviamente di essere protagonisti nella gestione del Recovery Fund: "Con le nostre caratteristiche valoriali verificheremo che l'attuazione di quei fondi sia fatta con onestà, traparenza e nell'interesse dei cittadini". Insomma, "pragmatismo" a gogò. Ancora prima dell'uscita di Matteo Salvini, tuttavia, deputati e senatori del Carroccio, come riportato da AdnKronos, avevano iniziato a discutere del confronto in corso con Mario Draghi e di ciò che sarebbe potuto accadere al partito dopo il faccia a faccia. La linea prevalente tra i leghisti, come spiega l'agenzia di stampa, è quella del "va bene così". Qualcuno in chat avrebbe invece invitato i colleghi alla calma:"La partita è lunga, andiamoci piano". O ancora: "Siamo all'inizio del percorso, la mossa è di responsabilità e di ascolto del Paese, ma lo scenario è ancora apertissimo". Tra le varie posizioni assunte dai parlamentari del Carroccio anche quella di chi esprime il suo consenso per un 'meglio dentro che fuori'. "Tanto un governo lo fanno, per cui val la pena esserci", spiega ai colleghi un leghista, ricalcando le parole dello stesso segretario, che ha dichiarato di preferire trovarsi all'interno, ovvero"dove si decide come spendere i 200miliardi del Recovery". Un altro parlamentare "verde" dichiara che lo scopo è quello di "decidere insieme il futuro dei nostri figli", ecco perché aprire a Mario Draghi. Aprire all'ex vice presidente e managing director della Goldman Sachs significa dimostrare"coesione e responsabilità", spiega in chat un altro rappresentante del Carroccio. Ed il concetto di "credibilità" viene ribadito in più di un'occasione, per puntare sui "contenuti e sui risultati" dell'ormai prossimo governo Draghi. La svolta del Carroccio ha sorpreso positivamente anche Andrea Marcucci, capogruppo in Senato del Partito democratico:"La nostra posizione e le nostre priorità sono note. Se la Lega combia idea, diventa europeista e capisce che ha sbagliato per anni, meglio per tutti", ha cinguettato il dem sul suo profilo Twitter. Più cauta la Bonino, che a SkyTg24 ha dichiarato: "La trovo una giravolta molto rapida, spero non sia solo di facciata. È chiaro che la Lega ha visto fino ad ora un atteggiamento molto antieuropeista".

I miserabili. La destra italiana è una barzelletta che non fa ridere. Il leghista Borghi, noto alle cronache per le grottesche enormità su euro e lotta alla pandemia, ora sfotte in modo indecente e disumano sia i disperati sbarcati a Lampedusa sia i siciliani costretti da quelli come lui a rivivere in zona gialla. Christian Rocca il 30 Agosto 2021 su L'Inkiesta. Ci sono Miserabili e miserabili. Ci sono i perseguitati e i derelitti, i profughi e gli ultimi della terra alla ricerca di riscatto e di redenzione, come li raccontava Victor Hugo e come li vediamo all’aeroporto di Kabul e sui barconi dei migranti. E poi c’è Claudio Borghi, la cui epica al massimo può essere materia da talk show di La7 e di Retequattro. Borghi è uno dei più stravaganti prodotti dell’improbabile talent show politico di dilettanti allo sbaraglio Made in Padania, ai cui impresari va riconosciuta la primogenitura merceologica rispetto a quella dei colleghi di bipopulismo grillini. Ho conosciuto per caso il Borghi a una cena di ricconi milanesi cui l’allora ex candidato presidente sconfitto alle regionali toscane annunciava le mirabili e progressive sorti per l’economia che avrebbe generato ai commensali l’uscita dell’Italia dall’euro. I ricconi milanesi, meno baluba degli americani immortalati da Tom Wolfe in Radical chic, non lo hanno coccolato al modo di Lenny Bernstein con le Pantere Nere invitate nel suo attico sulla Fifth Avenue, si sono limitati a compatirlo come si usa fare con i matti del villaggio mentre a mezza bocca hanno spiegato ai vicini di portata che se a un allocco del genere avessero dato una qualche responsabilità di governo certamente avrebbero trasferito bagagli e capitali in sicure zone euro. Borghi è un No Euro e No Vax o No GreenPass, che è la stessa cosa, perché le scemenze non agiscono mai da sole, noto per le sue favolose figure di palta sull’Internet dove si vanta come un personaggio di Carlo Verdone di cantarla chiara a tutti, soprattutto sui temi di cui dice di essere esperto. E più dice di essere esperto, più dice enormità, tra i fragorosi applausi di anonimi bandierini sovranisti e di saltimbanchi vari. A un certo punto, durante il governo più stravagante della storia repubblicana, il Conte uno, Borghi è stato eletto presidente della Commissione Finanze della Camera, un incarico dove Salvini lo ha relegato perché ritenuto meno pericoloso per il paese rispetto a posti più esecutivi cui il mitomane aspirava.  Ma Borghi è dotato di un innato talento per le figuracce, sicché anche da quel ruolo istituzionale periferico le sue insensatezze quotidiane riprese dalle agenzie di stampa hanno fatto danni, parecchi danni, contribuendo ad alzare lo spread dei nostri titoli rispetto a quelli tedeschi a discapito dei risparmi degli italiani che lui voleva ricompensare con mini Bot e altre corbellerie. Cose che a scriverle in una sceneggiatura da commedia all’italiana verrebbero scartate per eccesso di fantasia e di sospensione dell’incredulità. L’asticella Borghi è notoriamente rasoterra, ma ieri l’onorevole è andato oltre commentando su Twitter una foto tragica dei disperati in attesa di sbarco a Lampedusa. Un’immagine di migranti ammassati su un barcone nel mare di Lampedusa può suscitare indignazione e compassione o anche indifferenza e paura, tutto è legittimo e tutto comprensibile, ma la reazione di Borghi appartiene a una sfera politica e morale di disumana indecenza. Borghi ha commentato l’assembramento dei migranti a Lampedusa con un «Mi raccomando, in Sicilia zona gialla quindi non più di quattro al tavolo al ristorante e mascherine all’aperto», con il suo classico spirito di patate che non faceva ridere nemmeno in terza media e legando in un unico tweet la ferocia contro i disperati e il negazionismo sul Covid (avesse aggiunto una battuta delle sue sui mini Bot avrebbe fatto triplete di stronzate, ma – come detto – è incapace anche sulle sue cose). A chi, su Twitter, gli ha fatto notare quanto fosse miserabile per un deputato della Repubblica inveire contro chi ha attraversato prima il deserto e poi il mare per mettersi in salvo e poi sfottere chi, come i siciliani, a partire da oggi è costretto dalla propaganda antiscientifica dei tanti Borghi di questo paese a rimettere la mascherina anche all’aperto a causa della diffusione dei contagi, l’onorevole ha replicato con un perfetto (e sgrammaticato) non sequitur: «Lei grande uomo quanti ne ospiterà a casa sua di questi?», dimostrando ancora una volta di essere stato assente quando a scuola spiegavano i rudimenti di logica. Il dramma della destra è questo: o è neo, ex, post fascista oppure è una barzelletta alla Borghi. Fosse un problema soltanto della destra, non sarebbe così grave. Ma è un guaio per la democrazia italiana.

Claudio Borghi, "ma quale scroccone del tampone?". Pubblica la busta paga e poi cancella tutto: la figuraccia. Libero Quotidiano il 23 settembre 2021. Claudio Borghi non ci sta a passare per "onorevole scroccone". Se è vero, è il suo ragionamento, che per i parlamentari senza green pass i tamponi, sono gratis, c'è anche da dire che gli stessi pagano il fondo di solidarietà e l'assistenza sanitaria integrativa. E pubblica i cedolini. "Scusate, posto che l'argomento mi interessa il giusto, però vedo il solito grillismo trasversale che si indigna perché i tamponi per i parlamentari sarebbero gratis perché a carico del fondo di solidarietà. Il prelievo per alimentare il fondo è 780 euro al mese", scrive il leghista indignato su Twitter. Post che è stato tolto da Borghi in fretta e furia - forse si è vergognato della "indennità parlamentare"? - ma non abbastanza perché passasse inosservato. Tanto che il leghista no green pass è stato quindi costretto a metterci una pezza (che è risultata peggio del buco): "Niente, tolto tweet con cedolino e prelievo fondo di solidarietà perché tanto vedo che il grillismo è così stratificato che non basta mai. Proponiamo che i parlamentari invece che con il fondo di solidarietà paghino i tamponi il doppio e direttamente così tutti contenti...". Inutile ironia. Forse Borghi dovrebbe prendere in considerazione tre cose. Innanzitutto qualsiasi assicurazione sanitaria non copre al cento per cento i tamponi così come altre prestazioni. Di solito c'è un limite massimo di visite, esami, eccetera e un tetto per i rimborsi. Che difficilmente corrispondono al 100 per cento della spesa. Non solo, qualsiasi assicurazione sanitaria ha un peso considerevole sulla busta paga. Non è un problema che riguarda solo i parlamentari. In secondo luogo, la cassa mutua che viene pagata dai parlamentari è di fatto pagata con i nostri soldi. Infine, un'ultima riflessione: conti alla mano, un tampone costa 15 euro. Considerando che i deputati lavorano quattro giorni a settimana, spenderanno circa 120 euro al mese. "Cifra rilevante per chi guadagna 1200 euro, irrisoria per chi, come loro, viaggia attorno ai 15mila netti più benefit", come sottolinea Alessandro Sallusti nel suo editoriale su Libero.  Osservazione che in forma diversa viene rivolta a Borghi dal popolo social: "Si ma Claudio... In proporzione un operaio da 1200 euro al mese e paga Inps regolarmente...non ha gli stessi privilegi no? Con massimo rispetto per le cariche dello stato e i deputati e senatori.... Non puoi fare questo paragone", commenta uno. "Il problema non è certo questo. Il problema è che chi 780 euro li prende di stipendio i tamponi a pagamento non li può proprio fare. Ma anche 1000 o 1500 con famiglia monoreddito. Dica al Capitano di fare un po’ di più. Non è grillismo è tentare di sopravvivere", sottolinea un altro. Ma Borghi non vuole capire. 

Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” il 3 settembre 2021. «Certo che sono contrario», ha scandito ieri pomeriggio quando in tanti l'hanno chiamato per chiedergli che cosa pensasse dell'obbligo vaccinale appena prospettato da Mario Draghi in conferenza stampa, tra l'altro a ventiquattr' ore dal suo voto in commissione Salute contro il green pass che ha fatto pericolosamente zigzagare la macchina della maggioranza. «Suo», s' intende, di Claudio Borghi, presidente della commissione Bilancio di Montecitorio, «Signor No» apparentemente più inflessibile del vecchio giudice di Rischiatutto e frontman di quell'anima della Lega che presidia il fronte del pollice verso mentre il resto della ciurma, magari dalle postazioni di governo, quello stesso pollice l'ha appena alzato. Gli ultimi tre anni da testa di ponte leghista nel mare di tutte le opposizioni possibili - all'Europa, all'euro, a Conte, a Mattarella, qualche volta a Draghi, alla Lamorgese, a Speranza, a tutti i Cinquestelle, ai lockdown, alle chiusure, alle zone rosse, arancioni, gialle e a volte anche a quelle bianche - l'hanno consegnato in perfetta forma all'ultima trincea, quella pericolosamente prossima al fronte no Vax, in cui si eleva a massima difesa della libertà individuale il no al lasciapassare verde che diventerà presto, Draghi dixit, una misura ancora più stringente. Ecco, quando succederà, Borghi potrà dire di averlo detto in anticipo, «l'avrà deciso il governo»; ma di essersi mosso in direzione ostinatamente contraria, come pedina della tattica di un partito di governo (in questo caso, la Lega) in cui il leader (in questo caso, Salvini) prevede l'occupazione di tutti gli spazi, maggioranza e opposizione, governo e lotta, green pass sì e green pass no, lasciando che parte dello spazio - quella di tutti No possibili - sia occupata per l'appunto dall'irriducibile Borghi. D'altronde, che possa vantare un'abilità retorica fuori dal comune, unita a una fantasia rara in termini di elaborazione politica, lo si era capito qualche anno fa con l'ingiustamente dimenticato teorema dello sfilatino a credito. Teorizzando uno dei tanti scenari della retromarcia euro-lira, di fronte a chi gli prospettava i rischi per l'economia delle banche bloccate nel ricalcolo della valuta, Borghi scrisse: «Scusi, eh, non è che se le banche chiudono un mese, il panettiere lascia seccare gli sfilatini. Si segna a credito». A segnare le volte che un suo disegnino politico-economico è finito fuori dall'album, non basterebbe la carta di cento panettieri. «L'uscita della Grecia dall'eurozona è inevitabile, una cambiale a tempo determinato», disse sei anni fa. «Probabilmente accadrà già ad aprile», aggiunse subito dopo, evitando prudentemente di indicare l'anno dell'aprile in questione, tanto si sa di aprile ce n'è uno ogni dodici mesi e ogni aprile è buono per celebrare una Grexit. Stessa storia su Mario Draghi, dove s' è cimentato in uno slalom tra porte strettissime, da «Draghi dovrebbe smetterla di parlare di euro» (ottobre 2018) a «Draghi premier è la scelta più sovranista che potessimo fare» (febbraio 2021). Qualcuno, anche dentro la Lega, sostiene che Borghi faccia di testa sua, che molte delle sue uscite non siano concordate con Salvini e che nemmeno l'ultima, votare contro il Green pass, lo fosse. Di certo, all'alba del sodalizio, è stato il secondo a cercare il primo. Era una sera di otto anni fa, 10 luglio 2013, il telefono dell'economista squilla. «Buonasera, scusi per l'orario, sono Matteo Salvini. Disturbo?». Il giorno dopo erano di fronte a un caffè a discutere dell'impatto sui mutui sulla prima casa del ritorno alla lira. L'inizio di una serie infinita di scenari immaginati, teorie elaborate, cospirazioni temute e sentieri battuti, tutti rigorosamente all'insegna del No. E che poi sono finiti nel bel mezzo del nulla, proprio come l'opposizione al green pass. 

Fabrizio Roncone per corriere.it il 6 febbraio 2021. I convertiti della Lega vengono giù per via degli Uffici del Vicario, uno avanti e l’altro dietro. Ogni conversione di solito scatena tormento, dubbio, ansia da martirio. Ma su questi due ha sortito l’effetto del Lexotan, almeno 20 gocce. Rilassati, positivi, di ottimo umore. Dopo aver odiato l’euro e la Bce, aver scritto e detto cose terrificanti sull’Unione Europea, i due economisti adesso camminano in completa letizia verso Mario Draghi. Quello basso (Claudio Borghi): eccolo che arriva davanti alle telecamerine, ai microfoni, il sospiro e lo sguardo di uno che prova fastidio per questi idioti di giornalisti che fanno sempre domande idiote. «Io avrei cambiato idea? In che senso?». Santo cielo: come in che senso? «Draghi è Ronaldo, è un fuoriclasse». Allora c’è uno di noi che si volta e camminando all’indietro dice no, scusate, ragazzi, mi sa che non ho capito: ha detto che Draghi è come Ronaldo? Quello più alto e dall’aspetto elegante (Alberto Bagnai, però poi vedremo cosa nasconde questa sua scorza oxfordiana): «Draghi? Ma io Draghi l’ho sempre stimato». Cala un brevissimo silenzio di stupore, si sentono i passi sui sampietrini. Un giovane cronista prova a dire che beh, forse, veramente. Allora Bagnai diventa arrogante, è proprio così, arrogante e grifagno, gli viene naturale: «Provate a fare un piccolo sforzo visto che sicuramente avete studiato...». La scorsa estate Bagnai è subentrato a Borghi alla guida del «dipartimento economia» della Lega. Salvini, all’epoca, voleva che il partito continuasse ad essere decisamente orientato: e Bagnai, 58 anni e modesto suonatore di clavicembalo ai festival di musica barocca, senatore e docente all’università di Pescara, è noto alla comunità scientifica e politica solo ed esclusivamente per la sua forsennata battaglia contro l’Eurozona. Una pubblicazione di successo: Il tramonto dell’euro, otto anni fa (quindi scarsamente profetica). Poi convegni e interviste. Sempre con tono minacciosetto. Contro chiunque osi criticarlo. Il collega Tommaso Monacelli della Bocconi ci prova. E Bagnai, su Twitter: «Gli facciamo un bel cappottino di abete» (per alludere a una bara). Un’altra volta, soliti toni cimiteriali, sul suo blog: «L’unica Bce buona è quella morta». Su Draghi, all’epoca presidente della Banca europea: «Dice sciocchezze. Non ha alcun titolo per dettare la linea economica di uno Stato sovrano». Poi se la prende con i partigiani dell’Anpi: «Sono pro euro... Da antifascisti a piddini, il passo è breve, per gli amabili vegliardi». Chiarissimo con un autore tivù: «Stampati bene in testa che a me, se non mi invitate più, non me ne frega un beneamato cazzo». Claudio Borghi è meno iracondo, meno volgare. Un furbacchione con la parlantina del furbacchione (in tivù, nei talk, va fortissimo): ex fattorino, ex agente di cambio, ex broker, ex agente della Deutsche Bank, ex docente a contratto di Economia e mercato dell’arte all’Università Cattolica e, per hobby, a sua volta mercante d’arte. La vita gli cambia una notte. Con il cellulare che inizia a vibrare. Voce leggermente impastata. «Ciao, sono Matteo: hai voglia di spiegarmi queste tue strane idee sull’euro?». La mattina dopo, Borghi gli tiene una lezioncina. E gli suggerisce: leggiti il libro che ha scritto il mio amico Bagnai. Salvini comincia a fidarsi di Borghi. E Borghi prova a incassare: si candida con il Carroccio alle Europee del 2014, però non ce la fa. Un anno dopo cerca di diventare governatore della Toscana, ma niente: riperde. Nel 2017 si accontenta del consiglio comunale di Como, però poi eccolo subito, finalmente, sbarcare a Montecitorio con il suo mantra: dobbiamo uscire dall’euro. Che tipi. Economisti sempre con un pensiero buono per il prossimo. Alle 21.10, Borghi twitta: «Sto vedendo Travaglio che sta per avere un travaso di bile. Sempre meglio. #ottoemezzo». Bagnai prova invece a farci il gioco delle tre carte (ma quelli bravi li trovate sulla Roma-Napoli, nell’area di servizio Teano): «Draghi? Io e Draghi veniamo dalla stessa scuola... E non ho mai trovato nulla da obiettare sulle sue scelte e analisi di politica economica». Nemmeno mezzo tentativo per nascondere il trucco. Zero. Vogliono quasi convincerci che la sera s’addormentano con la biografia di Altiero Spinelli sul comodino. Va bene: sono giorni frenetici, complessi, memorabili. La Moleskine è piena di appunti. Draghi incontra Grillo, Conte con un banchetto davanti a Palazzo Chigi, Renzi che non cambia idea da 48 ore, il silenzio di Bettini, Unterberger delle Autonomie che assicura: «Draghi? È più tedesco dei tedeschi» (pensando di fare una battuta divertente). Però, davvero: questa storia dei leghisti convertiti. Che storia. Bagnai e Borghi. Meno male che non vi avevamo mai preso sul serio.

Quando Salvini era "razzista e cafone". Il Capitano era il bersaglio preferito della sinistra per le sue uscite. Massimo Malpica, Lunedì 08/02/2021 su Il Giornale. Ieri insulti, domani alleati nel governo che verrà. Lo scenario che vede il Pd fianco a fianco a Salvini nell'esecutivo guidato da Draghi manda i dem sull'orlo di una crisi di nervi. Difficile spiegare al proprio elettorato, e pure a se stessi, come si può governare insieme all'oggetto di tanti strali e attacchi, visto che Salvini è stato un bersaglio privilegiato del Pd, a tutti i livelli, sia quando era al governo che come leader del Carroccio all'opposizione. Restando solo alla storia recente, basta ricordare gli attacchi sui temi come immigrazione e sicurezza, che sono valsi al segretario leghista epiteti come squadrista, fascista, razzista. Ma ogni tema era terreno di possibile scontro con l'avversario per antonomasia. A giugno 2018, quando Salvini si dice contrario all'obbligatorietà dei 10 vaccini, ecco la senatrice dem Simona Malpezzi ironizzare sullo «sceriffo Salvini» e sul suo «delirante spaghetti western». Quando il leader del Carroccio era al Viminale, ecco Delrio punzecchiarlo perché più che al ministero era in giro per comizi, ricordando che «il problema di Salvini in Europa e al ministero dell'Interno in Italia, è sempre lo stesso: è sempre assente», mentre altri nel Pd lo inseriscono ad honorem tra «i furbetti del cartellino». E Salvini è «cialtrone» e «irrispettoso delle istituzioni» quando lascia il governo ad agosto 2019, secondo la deputata Pd Chiara Gribaudo, che pure su Facebook esulta per la «buona notizia». Così buona che, mesi dopo, il capogruppo al Senato dei dem, Andrea Marcucci, commentando una vecchia foto di Salvini con un estremista di destra, sospira per «i rischi che l'Italia ha corso fino all'agosto scorso». Ci va pesante, sotto Covid, anche il governatore campano Vincenzo De Luca, che dopo le polemiche di Salvini per i festeggiamenti in strada a Napoli dopo la vittoria degli azzurri in Coppa Italia, replica pur non citandolo mai per nome, definendolo un «somaro che ricominciato a ragliare», un «cafone politico» con una forte «propensione allo sciacallaggio e al razzismo» e con «la faccia come il suo fondoschiena peraltro usurato». E se sul sito web del Pd erano frequenti le foto di Salvini contornate da «vergogna», anche il segretario dem Zingaretti non si è tirato indietro. Ipotizzando, ad agosto scorso, che se sotto Covid avessimo avuto al governo il leader leghista e Giorgia Meloni «che ogni giorno attaccano l'Europa e che sul virus hanno gli atteggiamenti negazionisti dei loro amici Bolsonaro e Orban», probabilmente oggi saremmo «con le fosse comuni sulle spiagge». E se i big non ci vanno leggeri, la base pesta anche peggio. Come il vicesegretario Pd di Bareggio, nel milanese, che in un post a giugno scorso bolla Salvini come «suino razzista». O come il gruppo consiliare Pd di Foggia, furioso per il passaggio del sindaco alla Lega, tanto da definire in una nota il primo cittadino «ducetto» e Salvini «razzista». Celebre anche la vicesindaca di Proserpio, provincia di Como, che immortala in video e pubblica su Facebook un battibecco in spiaggia a Milano Marittima tra lei e il «cazzaro verde», apostrofandolo perché «rovina il nome di questa bellissima città». Ultima, l'ex presidente della Camera, Laura Boldrini, che pochi giorni fa ha spiegato su twitter come la pensa. Sì a una «maggioranza ampia e coesa», ma «mai» con la destra sovranista, «come ha detto Zingaretti». E invece, stai a vedere che aveva ragione James Bond: mai dire mai.

Giancarlo Giorgetti, l'uomo dietro la svolta europeista di Matteo Salvini: ecco come lo ha convinto a dire si a Mario Draghi. Libero Quotidiano il 07 febbraio 2021.  Il 16 dicembre Giancarlo Giorgetti, in una intervista al Corriere della Sera, faceva tre considerazioni: il governo Conte cadrà, il centrodestra non è pronto a governare, un governo "con dentro i migliori, guidato dal migliore", che poi sarebbe la descrizione di  Mario Draghi. In pratica il numero due della Lega aveva previsto tutto e proprio per questo motivo stava lavorando ai fianchi Matteo Salvini per fargli accettare l'idea di entrare al governo con cinquestelle (con cui c'era già stato) ma anche con l'odiato Pd. E di non  preoccuparsi di lasciare scoperta l'ala destra a Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia. Giorgetti voleva far capire a Salvini che in questo modo si poteva far cambiare l'immagine internazionale della Lega, "e dare a Salvini la credibilità e l'affidabilità che ancora non ha", scrive il Corriere della Sera. Salvini, infatti, dopo aver incontrato Draghi per le consultazioni ha insistito sul fatto che con  SuperMario si può parlare di cantieri, di lavoro, di taglio delle tasse. "Non puoi governare l'Italia se non fai parte delle forze di governo in Europa", gli spiegava da tempo Giorgetti. Il quale ha cercato proprio questo; cercare di far capire i punti politici in contatto che Salvini poteva avere con Draghi. C'è chi sottolinea, per dare un segno a questa svolta liberale di Salvini, che il leader del Carroccio potrebbe guidare nel prossimo giro di consultazioni una delegazione unitaria del centrodestra di governo, con Berlusconi e i popolari, e senza la Meloni: così dimostrerebbe di non avere paura di avere un concorrente a destra. E p0i, ricorda sempre il Corriere, quando Matteo Salvini è stato al governo, titolare del dicastero dell'Interno ha visto raddoppiare i suoi consensi elettorali, portando la Lega a quella che è oggi: il primo partito italiano. Per Salvini potrebbe essere una altra scommessa da vincere.

DAGONEWS l'8 febbraio 2021. Occhiali tondi, barba, panciotto di rigore, un’innata capacità di mediazione ed uno spiccato senso delle istituzioni: sono i segni particolari di Raffaele Volpi, il “gregario” di Giancarlo Giorgetti nell’operazione che ha portato Matteo Salvini ad assicurare il consenso “whatever it takes” della Lega a Mario Draghi per la formazione del nuovo governo. Bresciano, riservato per vocazione e per “ufficio” (è il presidente del Copasir), l’ex sottosegretario alla Difesa nel governo Giallo-Verde è un mediatore nato: un’arte che ha imparato militando in Franciacorta nella corrente di Emilio Colombo della Democrazia Cristiana. Quando per la Lega c’è da mediare e da scegliere, Volpi c’è sempre. “Obelix”, come lo chiamano affettuosamente alcuni giovani deputati della Lega di cui Matteo Salvini gli ha affidato la “formazione istituzionale” non appena eletti alla Camera, ascolta, parla sottovoce, fuma decine di sigarette seduto sulle panchine del Cortile d’Onore di Montecitorio. Sempre un passo indietro a Giancarlo Giorgetti, lui soppesa, valuta, media e parla dentro e fuori il Carroccio. Al fianco del 'capo' Giorgetti, che nel governo del cambiamento giocò da sottosegretario alla Presidenza del Consiglio il ruolo a suo tempo svolto da Gianni Letta, in tutta la partita delle nomine c'è stato lui. Stava al fianco di Giorgetti in tutti i tavoli di maggioranza. A partire da quello, in un afoso sabato di inizio luglio, in cui è stato deciso chi avrebbe dovuto occupare le caselle più importanti nel 'risiko' delle nomine. Davanti a loro, a trattare per il Movimento Cinquestelle c'erano il capo politico Luigi Di Maio, Vincenzo Spadafora e Alfonso Bonafede. Da quel tavolo uscì un impianto di nomine che alla fine è stato sostanzialmente rispettato fino alla fine. Teorico dell'understatement ad ogni costo, Volpi approda alla Lega tanti anni fa, dopo aver imparato la politica nelle file della Democrazia cristiana della Franciacorta. Preciso fino alla maniacalità, talent scout naturale, è stato lui a far muovere i primi passi nel Sud alla Lega. Nella scorsa legislatura in Senato si è 'smazzato' le riforme costituzionali, sempre con un filo diretto aperto con Giorgetti e Matteo Salvini. E sempre un passo indietro rispetto al “Capo”.

Massimo Franco per il "Corriere della Sera" il 9 febbraio 2021. La Lega che a Bruxelles difende Mario Draghi dall' attacco dell' ultradestra tedesca, sua alleata, magari è un episodio minore. Eppure potrebbe suonare come il primo sintomo di un avvitamento del gruppo sovranista: una nebulosa della quale il partito di Matteo Salvini è da almeno due anni, dalla vittoria alle Europee del 2019, la formazione di punta; e che ora, in nome dell' ingresso nella maggioranza guidata dall' ex presidente della Bce, promette di diventarne l' anello debole. La contraddizione esiste da sempre. Molti dei referenti di Salvini rimangono i più ostili agli aiuti all' Italia. Ma in precedenza il Carroccio non voleva vedere i contrasti. La virata successiva alla caduta del governo di Giuseppe Conte, però, ha cambiato lo schema. E il gruppo che appena l' 11 gennaio scorso si era astenuto sul piano anti-crisi europeo, Lega inclusa, bollandolo come rigorista, ora entra in tensione. I ventinove eurodeputati salviniani sono osservati con sospetto da tutti. Se dicessero sì a quel piano eviterebbero l' imbarazzo per la delegazione del Carroccio, attesa oggi per la seconda volta da Draghi. In caso contrario, destabilizzerebbero il gruppo a cui appartengono anche con Marine Le Pen. Si tratta di un passaggio delicato. AfD smentisce la rottura con la Lega. Ma fonti leghiste a Bruxelles fanno sapere che decideranno dopo l' incontro odierno con Draghi. La tensione sottolinea quanto le sponde estremiste del Carroccio aspettino di capire se sia una svolta tattica, o strategica: quella che dovrebbe avvicinarlo al Ppe. La strada è irta di incognite. Ma fa impressione assistere alla polemica con AfD, che ieri ha attaccato Draghi alla Bce «per la spesa senza controlli» di cui «la Germania pagherà il conto». Marco Zanni, leghista e presidente del gruppo Identità e democrazia, gli ha replicato: se Draghi ha difeso «economia lavoro e pace sociale», ha detto Zanni, senza privilegiare interessi nazionali, è «un titolo di merito». Sono scarti che riflettono quello in politica interna, e il tentativo di ridefinire un' identità. È una virata tardiva e in qualche misura obbligata; simile, peraltro, a quella che il Movimento 5 Stelle fece nel 2019 in occasione dell' elezione della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. Ma va registrato lo slittamento di due forze fino a pochi anni fa contrarie all' euro, verso posizioni filoeuropee. Ieri Salvini è arrivato a dire: «Se qualche potere forte dell' Europa aiuta l' Italia a curarsi, evviva». Le prossime mosse faranno capire quanto ci sia di tatticismo e di opportunismo; e quali altri passi dovrà compiere. Una volta preso atto di un cambio di scenario e di fase sul piano internazionale, dall' Europa agli Usa, tornare indietro comporterà un costo alto. La domanda è se il vertice della Lega saprà interpretare un europeismo che non sia solo decorativo e posticcio.

Non è l'arena, "Mi stai riprendendo?". Vittorio Sgarbi, indiscreto clamoroso: cos'ha risposto a Draghi durante le consultazioni. Libero Quotidiano l'8 febbraio 2021. "Che fai mi riprendi?". Vittorio Sgarbi ricostruisce in studio a Non è l'Arena su La7 il divertente siparietto con il premier incaricato Mario Draghi alla Camera, per le consultazioni. Massimo Giletti lo stuzzica: "Ma che è successo nel vostro incontro ravvicinato?". La vicenda è nota: il telefono di Sgarbi si è illuminato e l'ex governatore della Bce, insospettito, gli ha chiesto: "Non è che mi stai riprendendo?". Quello che non si conosceva era la risposta di Sgarbi: "Avevo il telefono dove tengo gli appunti, si è accesa la luce perché stava morendo. Glio ho detto: Sono talmente narciso che lo farei con me e non con te". Il faccia a faccia è andato benissimo: "Un dialogo di persone che si vedono, e la cui intesa è immediata. Aveva gli occhi che brillavano, io gli dicevo devi aprire i musei sabato e la domenica e i teatri, dando il contingentamento di cui loro (l'ex governo, ndr) non sono stati in grado". Ultima immagine: "Gli ho dato il libro di mio padre, il quarto e ultimo, in cui parla con mia madre dopo la sua morte. Draghi voleva una dedica, io gli ho risposto 'Ma l'ha fatto mio padre...". Però mio padre era una persona talmente dolce e gentile, farmacista, si sarebbe fatto sicuramente vaccinare, mi è sembrato bello che la discussione tra me e Draghi abbia riguardato non i fatti contingenti ma le cose eterne".

Francesco Maria Del Vigo per “il Giornale” l'8 febbraio 2021. Mario rosica per Mario. Alla faccia della sobrietà, del Loden e dell' austerità. Di fronte al successo raccolto da Draghi, ancor prima di essersi insediato, Monti si scompone e si scalda, perdendo qualche grado della sua celeberrima freddezza. Da quando l'ex numero uno della Bce è stato convocato al Colle una sorta di quiete e di speranza hanno avvolto l'opinione pubblica. Certo, Salvini è ancora troppo brutto e cattivo perché le educande del Pd possano sedersi tranquillamente al tavolo con lui, la Meloni si mette cautamente di traverso, i Cinque Stelle sono allo sfascio e Giuseppe Conte non è felice di vedersi sostituito e scavalcato nei sondaggi così, in quattro e quattr'otto. Ma quello che rosica di più è l' altro Mario. Quello che nessuno, non a caso, ha mai chiamato Supermario. Pure lui economista, pure lui professorone, pure lui con solidi studi negli Stati Uniti e importanti esperienze politiche nelle istituzioni europee. Anche lui presidente del Consiglio. Profili simili, ma contesti totalmente diversi. Uno (al momento) amato, l' altro (da tempo) detestato. Monti fu paracadutato a palazzo Chigi da Giorgio Napolitano per imporre agli italiani una politica di sacrifici e austerità, passata alla storia come un periodo di lacrime e sangue. Non che adesso ci si aspettino sorrisi e tsunami di champagne, ma lui era stato chiamato per tagliare (cosa che, ammettiamolo, ha fatto anche con un certo sadico e malcelato compiacimento) mentre Draghi è stato convocato per gestire, senza sperperare, gli oltre 209 miliardi del Recovery fund. Vedremo cosa combinerà. Ma questa cosa, al professore, proprio non va giù. Parliamoci chiaro: se il suo governo è stato considerato come uno dei più impopolari di sempre, qualche motivo ci deve essere. Gli italiani, e le loro tasche, ne sanno qualcosa. Ma Monti non lo accetta e ieri, ospite a In mezz' ora in più su Raitre, si è tolto un acidissimo macigno dalla scarpa: «Questo non è il momento di fare le puntualizzazioni, ma all' epoca del governo di Mario Monti (prende anche lui le distanze da se stesso?, ndr), la punta di diamante dell' austerità in Europa era proprio la Bce, prima con Trichet e poi con Draghi per un certo periodo». Insomma, signori, se Monti ha dissanguato gli italiani la colpa non è sua, ma di Draghi, dopo quasi un decennio ha avuto il coraggio di vuotare il sacco: il vampiro era l'altro. Non pago, inizia a gufare: «La campana di anestetico, creata dalla Bce, si ridurrà, riemergerà la realtà dei problemi. Penso che si presenteranno dei momenti difficili». Un'uscita poco austera e alquanto menagrama per un ex premier. Anche perché al governo dei professori gli italiani hanno già consegnato la loro pagella nel 2013, quando Scelta Civica, la lista di Monti, si assestò sotto un misero 10 per cento. Tutti bocciati. Lui, da allora, non ha smesso di rosicare.

Filippo Facci, "vince chi lecca di più Mario Draghi". Premier assediato dai partiti: "La differenza tra lui e l'omino Conte". Libero Quotidiano il 10 febbraio 2021. C'è un premier incaricato di nome Mario Draghi che viene descritto come se avesse camminato sul lago di Tiberiade (soprattutto se raffrontato al suo predecessore) e che per colpa di una banale legge fisica - il tempo terrestre non è comprimibile o dilatabile - avrà giusto modo di fare tre o quattro cose importanti: tra queste c'è una gestione decente del Piano vaccini, che per ora naviga a vista, e la preparazione del cosiddetto Recovery plan, un piano che serve a finanziare una ripresa economica degli stati europei con progetti strutturali; l'Italia figura tra i maggiori beneficiari di questo fondo (209 miliardi) ma a differenza degli altri stati non ha ancora elaborato un'idea. Draghi, nel tempo disponibile della residua legislatura, cercherà ovviamente di prendere altre misure importanti per rilanciare l'economia, magari investire, insomma rendere più presentabile il nostro Paese agli occhi dell'establishment europeo e globale; magari cancellerà qualche eminente stronzata fatta dal governo precedente (esempio: una bella sbianchettatura sull'ignobile riforma della prescrizione) ma per il resto abbiamo una gradita certezza: che non avrà tempo né voglia di occuparsi delle rogne tra i partiti e dentro i partiti, dei veti e controveti, delle singole pretese dei singoli partiti cui non è chiaro, forse, che il premier potrebbe formare un governo anche senza di loro, e che in questo potrebbe avere tutto l'appoggio dell'unico alleato fondamentale del premier, cioè il capo dello Stato Sergio Mattarella. Le rogne dei partiti, gli stessi veti e controveti e le varie pretese partitiche sono probabilmente le stesse che Mario Draghi ha dovuto e dovrà sorbirsi in questi giorni di cosiddette «consultazioni», ciò sarebbe stato bello evitare, ma per un tecnico esterno al Parlamento, che varerà un governo essenzialmente tecnico, forse sarebbe sembrato troppo. Le consultazioni con partiti e partitini e parti sociali e presidenti ed ex presidenti (due settimane perse) tuttavia non sono obbligatorie: sono solo una consuetudine e un galateo istituzionale, ma la Costituzione non impone questa procedura. Draghi, guardando il bicchiere mezzo pieno, potrà trarne beneficio assistendo rispettivamente ai vari baci dell'anello (una gara a chi lo elogerà di più, prima di avanzare pretese) e poi comprendendo meglio perché questi partiti hanno costretto a ricorrere a uno come lui. Da quanto inteso, ci sono ancora forze e movimenti convinti davvero di poter dettare delle condizioni, discutere su chi possa fare il ministro e comporre una maggioranza, infinite e frammentate delegazioni (basti pensare all'arcipelago della sinistra) che sbrodolano e sbrodoleranno dopo essersi prostrati davanti a un uomo a cui in realtà avrebbero continuato a preferire un omino, Giuseppe Conte.

Mal di pancia - Così il secondo giro di consultazioni è iniziato con un censimento dei vari mal di pancia partitici (sui giornali, più che altro) che per Draghi si sarà tradotto in un terribile bagno di consapevolezza. I vari leader sono lì che, di ora in ora, segnalano insormontabili difficoltà, ostacoli alle possibili alleanze, veti riveduti e corretti, tattiche e pretattiche in un gioco a cui in realtà non giocano più: sono stati espulsi. C'è chi non l'ha inteso, e ancora cerca di ottenere condizioni, regole d'ingaggio, poltrone e sgabelli, ma ciò che più conta è già accaduto. Il leader della Lega Matteo Salvini ha aperto al governo Draghi senza troppi preamboli, pur precisando che gli sarebbe difficile governare con chi «vuole mandarmi in galera», e cioè i grillini: ma tutti a parlare di «svolta europeista» di Salvini e al tempo stesso a dire che Salvini vuole imporre al nuovo dicastero delle scadenze.

Rispunta pure Conte - I grillini come al solito sono i più dilaniati e ridicoli, e l'intervento di Beppe Grillo pro Draghi ha solo parzialmente ricomposto l'eterna riunione condominiale dei cento satelliti grillini: chi a parole è possibilista e chi viceversa è contrario (nomi non val la pena di farne) e chi pone come condizione che non ci sia la Lega, altri che Draghi faccia una riforma elettorale, altri che, comicamente, invocano un voto decisivo della «base» che vota sulla piattaforma Rousseau; c'è persino Giuseppe Conte che si è autoannesso ai grillini e fa il possibilista pur ponendo anche lui dettami e condizioni. I Cinque Stelle e il Partito Democratico sono quasi una coalizione, ma ciascuno pone veti alla Lega in modo diversamente variegato: e magari uno come Draghi dovrebbe tenerne conto, come se ne gliene importasse qualcosa. Ospite del programma Mezz' ora in più di Lucia Annunziata (Rai3) il segretario del Pd Nicola Zingaretti vedeva ancora come problematica un'alleanza di governo che unisse centrosinistra e Lega. Tutti problemi che ufficialmente non esistono, visto che nessuno sa dire che cosa Draghi voglia fare: se un governo solo di tecnici (speriamo) o se uno tutto politico (difficile) o se uno misto tecnici-politici (sconsigliabile). Figurarsi che senso possa avere il totonomi che circola e cambia repentinamente in questi giorni: sottosegretari, nuovi ministri, ministri riconfermati, tecnici d'area: come se dell'ultimo governo, e delle indicazioni dei rispettivi partiti, ci fosse molto di cui salvare. Ma fa niente: aspettando l'unica cosa che conta (il programma) la Lega parla di tasse e preferibilmente di Flat Tax (invisa al Pd) e il Pd parla di lavoro e di fisco più equo e progressivo, i grillini parlano di un po' di tutto ma difendono strenuamente il reddito di cittadinanza (altro disastro epocale da sciogliere nell'acido) e in ordine sparso c'è chi tira in ballo ancora l'immigrazione. Se scoprissimo che durante le consultazioni Mario Draghi avesse avuto dei tappi di cera nelle orecchie, no, non ci stupiremmo e anzi: saremmo contenti, perché abbiamo capito, almeno noi, che l'unico in grado di porre delle condizioni è proprio lui, assieme a un certo Sergio. 

Tutti alla corte del drago. Con diverse motivazioni (e c’entra anche Biden). Cristiano Puglisi il 9 febbraio 2021 su Il Giornale. Tutti alla corte del drago. Nessuno escluso. L’epilogo dell’agonia del Governo Conte bis, giunto al termine di una gestione dell’epidemia che, negli ultimi mesi, si era fatta addirittura imbarazzante (incomprensibile il continuo andirivieni di aperture e chiusure) non poteva forse essere più scontato, per chi minimamente “mastica” i grandi e i piccoli misteri del potere. Che sarebbe stato Matteo Renzi a staccare la spina era piuttosto evidente fin dalle prime battute dell’esperimento “giallo-rosso”. Che a rimpiazzare l’avvocato pugliese a Palazzo Chigi sarebbe stato un tecnico gradito al mondo della finanza, pure (i nomi che circolavano erano quelli di Mario Draghi e dell’ex Fmi Carlo Cottarelli, che del primo potrebbe diventare ministro). Altrettanto scontato era che questo tecnico, stante la riduzione incombente dei seggi parlamentari per effetto della legge votata in corso di legislatura (tale che neppure i partiti con maggiore consenso avrebbero potuto confermare con certezza tutti gli attuali eletti), avrebbe raccolto un elevato consenso parlamentare. E, così, al termine di due giri di consultazioni, l’esecutivo guidato dall’ex presidente della Banca centrale europea, Draghi appunto, sembra pronto a nascere con una maggioranza bulgara, che potrebbe andare dagli iper-progressisti di Leu alla Lega, da Laura Boldrini a Matteo Salvini. Ma a cosa (o, per meglio dire, a chi) è dovuta la scelta di Draghi? Davvero Sergio Mattarella ha operato in totale autonomia, spiazzando i contendenti dell’agone politico nazionale? Un’interessante disamina è quella proposta su Formiche.net da Germano Dottori, consigliere scientifico della rivista di geopolitica Limes, che collega l’avvento di Draghi con l’avvio dell’era Biden negli Stati Uniti d’America. Quando si tratta di vicende politiche italiane, infatti, non bisognerebbe mai dimenticare il fattore “c”. Che, in questo caso, non sta per un volgare sinonimo del termine “fortuna”, ma, piuttosto, per “colonia”. “Per quanto Washington sia lontana – scrive Dottori – quanto vi accade è destinato a ripercuotersi prima o poi anche da noi. Lo dimostra bene quanto è successo negli anni della nostra cosiddetta Seconda Repubblica, durante i quali i periodi di asimmetria cromatica tra le amministrazioni americane e i governi italiani sono stati l’eccezione piuttosto che la norma. (…) Va sottolineato altresì come il clima da guerra civile strisciante affiorato in America abbia potuto acuire l’urgenza di promuovere la rimozione di un premier che aveva cercato sin dal proprio insediamento di stabilire un’interlocuzione privilegiata con Trump, per sostituirlo con una personalità più vicina al mondo dei liberal d’Oltreoceano. (…) Draghi soddisfa al meglio anche questa esigenza di discontinuità. È infatti un economista keynesiano con importanti trascorsi accademici a Boston, un progressista che gode di un’ottima reputazione presso tutti coloro che fecero parte delle amministrazioni Obama”. L’uomo del “whatever it takes”, tornando a Dottori, “sarà sostenuto da tutti coloro che intendono assicurarsi l’accesso al nuovo arco costituzionale in gestazione attorno al rigetto internazionale del populismo, che sarà atlantista ed europeista come quello storico”. Un’altra lettura è quella data dal professor Giulio Sapelli, per il quale “gli Stati Uniti sono preoccupati per i rapporti che l’Ue (vedi Germania e Francia, nda) ha intrapreso con la Cina e così Draghi per loro è l’argine che può mettere fine a questa deriva”. Tra chi aderisce a questa visione, purtroppo per chi si era illuso circa una possibile concretizzazione della svolta sovranista (mai realmente decollata con un reale progetto culturale se non nella propaganda), c’è anche la Lega di Matteo Salvini. Che, con il pressing di un esponente di peso e notoriamente filo-atlantista e apprezzato nelle stanze che contano, quale Giancarlo Giorgetti, che già a novembre 2020 aveva chiarito che la Lega sarebbe stata vicina a Washington anche con Biden, ha cambiato radicalmente linea. Dallo scontro con Bruxelles e i “poteri forti” al “ci interessa che si faccia l’interesse italiano in Europa con spirito europeo” del dopo-consultazioni di oggi, c’è una svolta clamorosa. Evidente l’imbarazzo di chi, in testa l’economista Alberto Bagnai, oggi senatore del Carroccio, era entrato nel partito sulla scia delle critiche alla moneta unica e all’austerità. Tempi lontani. Anche perché oggi di austerità non si parla più. Ci sono da gestire i (tanti) fondi del Recovery fund. Che, però, sono vincolati da linee di investimento ben definite: economia green e digitalizzazione su tutte. Sono le linee (ben note ai frequentatori di questo spazio) del “Grande Reset” auspicato, sulla scia del Covid, dalle multinazionali hi-tech e dall’olimpo della finanza mondiale riunito nel World Economic Forum di Davos. Un futuro utopico per i “big”, ma distopico per i “piccoli”, che è stato sposato ante-litteram dal Movimento Cinque Stelle, che spinge in questa direzione fin dal suo concepimento. Non è un caso che, pare, si stia pensando di chiedere per Giuseppe Conte, “mister lockdown”, un “Ministero della Transizione ecologica” (lo riporta, tra gli altri, Liberoquotidiano.it). Del resto che il fattore Draghi per i pentastellati sia importante lo testimonia la presenza del fondatore in persona, Beppe Grillo, alle consultazioni con l’ex Bce. Con il quale, peraltro, secondo alcune ricostruzioni mai confermate, avrebbe presenziato alla famigerata riunione sul panfilo Britannia del 1992, durante la quale, secondo la vulgata, furono dettate dai “British Invisbles“, il gotha della finanza britannica, le linee guida per le privatizzazioni del patrimonio industriale italiano, nel bel mezzo della tempesta di Tangentopoli. Per questo a Draghi toccarono, nel 2008 e nel corso di una trasmissione televisiva, le “picconate” (a posteriori) dell’ex presidente della Repubblica democristiano Francesco Cossiga, che lo definì un “vile affarista”. “Non si può nominare premier – disse allora Cossiga – chi è stato socio della Goldman Sachs, grande banca d’affari americana“. “Male, molto male – proseguì – io feci ad appoggiarne, quasi a imporne la candidatura a Silvio Berlusconi, male, molto male!“. Questo perché, per Cossiga, Draghi era “il liquidatore, dopo la famosa crociera sul Britannia, dell’industria pubblica” italiana. Ma i tempi, da allora, sono probabilmente cambiati. Certo, per capirci qualcosa di più sarebbe utile apprendere quale sarà il programma del nuovo inquilino di Palazzo Chigi, al momento piuttosto nebuloso. Chi vivrà saprà.

Alessandro Rico per “la Verità” l'8 febbraio 2021. Roberto D'Agostino celebrerà, il 23 maggio, i 21 anni di Dagospia, che ha fondato e che dirige.

Il sì di Matteo Salvini a Mario Draghi è una mossa astuta. Manda in tilt i giallorossi.

«Salvini è un miracolato che deve solo accettare in maniera umile tutto ciò che Draghi proporrà alla Lega».

Per quale motivo?

«Fa parte del tirocinio obbligatorio che gli serve per ottenere il semaforo verde di Bruxelles».

Un'agibilità politica?

«Esatto. Palazzo Chigi lo vedrà col tavolino a tre gambe, se non rientra nell'ovile dell'Unione europea che ha tanto schifato con il suo sovranismo al caviale (made in Russia)».

Lo vede subordinato?

«Intanto, per evitare la rissa dei veti incrociati, Draghi sceglierà i suoi ministri fuori da partiti e appartenenze. Quindi le indiscrezioni su Salvini che pretende ministri sono mere cazzate giornalistiche. Deve stare lì, buono e tranquillo come una pecorella, e ringraziare Giancarlo Giorgetti: con il sì a Draghi, Salvini riporta la Lega Nord al governo».

Se lo dice lei...

«Non avete capito una cosa».

Ci faccia capire, allora.

«Il famigerato addio di Salvini al governo, nell'agosto 2019, mica ebbe origine dall'ubriacatura di mojitos al Papeete: era vicepremier e ministro dell'Interno, Giuseppe Conte era un semplice passacarte e i 5 stelle venivano asfaltati nei sondaggi dalla Lega. Il Truce aveva tutto il potere: perché mandare tutto all'aria, sapendo bene che Sergio Mattarella era contrarissimo al voto prima dell'elezione del nuovo presidente della Repubblica?».

Perché?

«Mettiamola così. A Bruxelles un sovranista filo Putin, alleato con Marine Le Pen e Alternative für Deutschland in Europa, cioè i due partiti che stanno sul gozzo a Emmanuel Macron e ad Angela Merkel, rappresentava un incubo. Magari saranno arrivati dei tipini "nerovestiti" che gli hanno detto: "O esci da Palazzo Chigi, o entri da un'altra parte un po' meno gradevole..."».

Allude ai processi?

«Secondo me, non si è dimesso: è stato costretto a dimettersi».

Quindi?

«Ora, con il sì a Draghi, fa il primo passo del tirocinio per ritornare nelle grazie di Merkel e Macron. A seguire, prima che sia troppo tardi, deve mollare Le Pen e Afd».

Il problema dell'Italia è Salvini?

«Fa parte anche lui di quella classe politica italiana che ha ricevuto in tre minuti, in diretta tv, da parte del capo dello Stato, la più clamorosa bocciatura che abbia visto nella mia vita. E io ho 73 anni».

Mattarella ha sfiduciato tutti? Destra e sinistra?

«Li ha tutti buttati nel cesso, ha tirato la catena e ha chiamato Draghi per formare "un governo di alto profilo che non debba identificarsi in alcuna forza politica". Amen».

E questo cosa comporta?

«Che possono sparare tutte le cazzate che vogliono, ma questi politici scappati di casa non vanno da nessuna parte. Perché non sarà un governo Draghi, ma il governo del presidente con il contributo di Draghi. Mentre talk e giornali sparavano "Conte o voto" e "Draghi non accetterà mai", su Dagospia l'avevo detto, come sarebbe andata a finire».

A che si riferisce?

«Non era pensabile che l'Europa lasciasse i 209 miliardi del Recovery fund in mano a gente buona a niente ma capace di tutto come Conte, Casalino, Arcuri, Azzolina, Paola De Micheli e compagnia cantante. Ovvero: l'incompetenza al potere che ha rovinato il Paese».

La vedo molto soddisfatto dell'arrivo di Draghi.

«Scusi: è come se a casa oggi dicessi a mia moglie: "Non preparo io la carbonara, arriva Carlo Cracco". Beh, sarebbe festa».

Non è esagerata, la retorica dell'uomo della provvidenza?

«Draghi non è Gesù Cristo, ma di fronte a questa marmaglia di nani e ballerine è una personalità che ha uno standing internazionale. È amico di Janet Yellen, ex capo della Fed e ora segretario al tesoro per Joe Biden. Alza il telefono e parla con Macron e Merkel... E questi qua, con la terza media, iniziano a discutere su chi può stare in maggioranza e chi deve fare il ministro? Si mettano in testa una cosa».

Che cosa?

«Se questi qui, dopo aver fallito con la loro asineria politica, fanno i bulletti sborroni, Mattarella fa un governo pure senza fiducia».

È un'iperbole.

«Tranquilli, non succederà. La maggioranza a sostegno c'è: appecoronato il Pd, il M5s umiliato, Silvio Berlusconi è quello che mandò Draghi alla Bce, Salvini serve e apparecchia. Resta fuori Giorgia Meloni: rasperà un po' di voti ma è impresentabile».

Il Parlamento resta quello uscito dalle politiche del 2018.

«Dopo aver ricevuto il cartellino rosso da Mattarella, i partiti credono di poter andare da Draghi a dettare le loro condizioni. Devono solo inginocchiarsi e dire: "Ave Mario, morituri te salutant"».

La composizione del governo, allora, sarà solo tecnica?

«La cazzata più grande che può fare il duplex Mattarella-Draghi è un governo misto alla Ciampi, con dentro tecnici e politici».

Lei crede?

«Sì, perché a quel punto inizieranno i veti incrociati e le risse. Faccia un governo di tecnici. Chi ci sta, ci sta, chi non ci sta se lo prende in quel posto perché non va più da nessuna parte: un altro passo e c'è il baratro».

Tecnici per fare cosa?

«Le priorità le ha indicate Mattarella. Bisogna mandare in porto in tempi brevi il Recovery plan e occuparsi del piano vaccinale. Draghi questo farà».

Un governo di scopo?

«Un governo d'emergenza, che deve fare quattro cose e basta. Questi disgraziati non sono riusciti a chiudere nessuna partita, da Alitalia a Ilva, dalla Rete unica ad Autostrade; politici dementi che non riescono ad aprire un cantiere, a rimettere in moto l'economia, a dare un futuro ai giovani. Gli Zinga e i Di Maio non riescono ad aprire nemmeno le raccomandate».

Draghi approderà al Colle?

«Io lo metterei pure al posto di Bergoglio».

Non è Cristo, ma il suo vicario?

«È una delle poche persone serie che ha questo Paese. Infatti, mi domando come sia possibile che sia nato a Roma, che di solito esprime una classe dirigente così cafonal che confonde allegramente i Medici di Firenze con gli infermieri della Usl, che scambia il Parmigianino con il pecorino, che è convinta che Tintoretto sia il gestore di una tintoria e rifiuta sdegnata l'Ultima cena di Leonardo perché ha già mangiato».

A chi sta pensando?

«Soprattutto ai 5 stelle, alle Azzolina, ai Fraccaro, ai Buffagni, alle Castelli e "Tontinelli" vari. Certo, Marco Travaglio replicherebbe: prima avevamo i ladroni».

Non è così?

«Ma almeno i "ladroni" sapevano scrivere una legge, capire un bilancio, costruire l'Autostrada del Sole. Noi vogliamo andare avanti con Arcuri? Zingaretti? Bettini? Orlando? Franceschini? Speranza? Ma che stamo a fa', Striscia la notizia?».

Inadeguati?

«Sarà antipatico, ma io ringrazio Matteo Renzi, che ha mandato all'aria tutto, svelando questo bluff dei Conte, dei Casalino, dei Travaglio. Invece di andare a fare i pavoni dalla Gruber, preparate il Recovery plan! Gli altri Paesi l'hanno già presentato».

Senza dubbio.

«Siamo un Paese senza vergogna, senza palle, senza dignità. Vorrei dire una cosa a Salvini e Meloni».

Cosa?

«Voi dite che l'Europa fa schifo? Ma l'Italia fa ancora più schifo: metà Paese che non paga tasse e poi frigna se manca un posto in ospedale. Un Paese di magliari».

La Meloni è coerente.

«È quell'opposizione che non serve né apparecchia».

Perché?

«Almeno, ai tempi del Pci, l'opposizione portava all'attenzione dell'opinione pubblica un governo ombra. Il Recovery plan non va bene? Ne scrivo uno io alternativo. Lei è stata solo capace di dire: «Vojo vota', vojo vota'». Alla fine andrà a vota' il secchio dell'immondizia».

Be', in democrazia si vota.

«Ma dove va con i La Russa e le "Santadechè"? Ma che è, La famiglia Addams?».

Che hanno di male?

«Gianfranco Fini scivolò sulla buccia di banana di Elisabetta Tulliani. Ma aveva creato una destra con Franco Cardini, Filippo Rossi, Pietrangelo Buttafuoco, Alessandro Campi... Qual è la classe dirigente della Meloni? La destra italiana è "cerebrolesa"».

«Cerebrolesa»?

«Non ha classe dirigente, non ha quadri, non ha gente in grado di creare un partito conservatore. Gliel'ho detto alla Meloni».

Che le ha detto?

«Se si va a votare e lei e Salvini per caso vincono, durano mezza giornata. La Bce chiude i rubinetti e loro rimangono a trastullarsi con le macerie».

Anche quando arrivò Mario Monti, c'erano aspettative messianiche. E poi andò come andò.

«Monti era un professore ed è arrivato in un momento in cui i tagli servivano, avendo il Paese accumulato un debito pubblico enorme. Draghi, il contrario di Monti».

Cioè?

«A parte che conosce meglio la politica, arriva nel pieno di una pandemia globale in cui non occorre tagliare, ma rilanciare l'economia, investire e garantire un Paese agli occhi dell'establishment euroglobale».

È una fase in cui ci è consentito fare «debito buono»?

«Fosse per me, a gente come Roberto Gualtieri non avrei dato un euro da gestire. Ma qui il punto cruciale è un altro».

Quale?

«Se non riparte l'economia, s'indebolisce anche la democrazia. Ecco perché mai prima l'Europa aveva concesso risorse ai Paesi membri con tale generosità. L'Europa vuole una cosa soltanto».

Ovvero?

«Un Paese serio, un Paese normale. Senza tipini fini che si presentano in piazza con la pochette e il banchetto per truffare la gente con il gioco delle tre carte».

Raffaele Marmo per “Quotidiano Nazionale - la Nazione - il Resto del Carlino - il Giorno” l'8 febbraio 2021. Il gruppo dirigente del Pd poteva fare peggio? Pausa.  «No». Altra pausa. Altra botta. «Sarebbe stato davvero difficile fare peggio. E, ora, fatto il governo, scoppierà un conflitto mai visto nel partito». A bocciare senz' appello e senza fronzoli mosse, strategie e uscite di Zingaretti, Bettini & Co. è uno che li conosce bene, da vicino e da lontano: Claudio Velardi, gioventù comunista, l'Unità, eterno spin doctor e uno dei Lothar di Massimo D'Alema a Palazzo Chigi («ma è roba di venti anni fa»), però anche riformista duro, puro e flessibile, sdoganatore a sinistra del lobbysmo all'americana, soprattutto eretico napoletano.

Perché questa deriva «peggiorista»?

«Dietro ci sono ragioni di fondo che attengono alla cultura politica dominante attualmente nel Pd: che è quella post-comunista, quella della 'ditta', per capirci. Una cultura straordinariamente politicista, regolata dalla logica ottocentesca e novecentesca della lentezza, dei processi, dei tempi lunghi. Mentre oggi la politica è veloce, è comunicativa. È rapsodica, è fatta di momenti, di scarti. Tant' è vero che, quando hanno dovuto subire la guida di Matteo Renzi, con le sue sollecitazioni quotidiane, impazzivano. Ma, quando lo hanno potuto ridimensionare, è tornata la loro cultura. Dietro questi fallimenti, però, non c'è solo questo».

Quale altra ragione, più o meno oscura, c'è dietro?

«C'è che il Pd, dal '94 a oggi, in molteplici forme, è stato al governo per circa sedici-diciassette anni. Il Pd è nel bene e nel male l'architrave del sistema: il garante non solo della politica, ma anche dell'alta burocrazia pubblica e degli apparati dello Stato. Questa è tutta roba del Pd. E, dunque, il gruppo dirigente non concepisce proprio la possibilità di perdere il potere del quale è innervato».

Tiriamo le somme.

«Mettendo insieme queste due cose, deriva che quelli che guidano il partito si muovono come un pachiderma. Mentre il mondo va velocissimo. E da qui tutti gli errori di questi mesi. Diciamolo, le hanno sbagliate tutte: O Conte o morte, mai più con Renzi, mai con Salvini, fino a Draghi. Non ne hanno imbroccata una».

Facciamo nomi e cognomi: perché la regia è stata in mano a Goffredo Bettini, che Renzi definisce il «capo della corrente thailandese del Pd»?

 «Goffredo Bettini, che è mio caro amico da quarant' anni, senza alcun titolo, senza essere stato eletto a nessun ruolo, ha dettato e detta la linea in maniera sempre più esplicita e anche in maniera arrogante. Dietro la schiena di Bettini si intravede l'ombra di Massimo D'Alema, che ha decretato all'inizio della crisi che non era possibile che l'uomo più popolare venisse cacciato da quello più impopolare».

E però è finita che «l'uomo più impopolare» ha cacciato «quello più popolare». Che cosa non ha funzionato nello schema degli ex comunisti di scuola romana?

«Sono brave persone. Ma sono fuori dal mondo. La loro inadeguatezza nella comprensione della realtà deriva dalla loro cultura politica morta e sepolta. E però continuano a pensare di saperla più lunga degli altri. Questa è la lue della sinistra: la presunta superiorità morale, che ha fatto diventare la conservazione del potere un assoluto totem, senza che vi sia un fondamento reale».

Abbiamo lasciato alla fine Nicola Zingaretti: che parte gioca?

«È una brava persona. Ma è una figura debole. Come gli altri della 'ditta' che guidano il partito, si tratta di professionisti dell'amministrazione e della politica, ma non hanno assolutamente né il taglio della leadership né una visione. Hanno fatto del Pd un partito di gestione, senza un'idea dell'Italia di domani. Ora, però, fatto il governo, si aprirà il grande conflitto nel Pd: gli ex renziani e quelli di derivazione cattolica non staranno né zitti né fermi».

GIALLOROSSI ADDIO. Bettini, Crimi, Rocco Casalino: quanti sono i Gattopardi sconfitti. La fine dei governi Conte ha lasciato un mucchio di macerie. Susanna Turco su L'Espresso il 9 febbraio 2021. In momento di distrazione e rischiamo di trovarceli candidati sindaci nelle città: a Roma Roberto Gualtieri oppure perché no lo stesso Nicola Zingaretti che già era atteso tredici anni fa, Andrea Orlando a La Spezia, Vito Crimi pronto l’anno prossimo per Palermo (a Volturara Appula si voterà solo nel 2024). Chi può escluderlo, a questo punto. Ammonisce, infatti, l’eterno Ciriaco De Mita: «Nei momenti di difficoltà ritìrati dove sei più forte. Se è la tua regione, fai il leader regionale, se è la tua città, fai il sindaco. Se non sei forte da nessuna parte, torna a casa da tua moglie. E aspetta». Un adagio praticato da colui che infatti oggi, ultranovantenne, fa il sindaco nella natìa Nusco, una parabola che in questi giorni potrebbe ispirare molti in evidente difficoltà. Assieme al balzo oltre i governi Conte - che per un attimo sono parsi moltiplicabili modello Invasione degli ultracorpi - l’arrivo in carne ed ossa di Mario Draghi ha lasciato macerie come dopo un uragano. Là dove una volte era tutta Speranza. Ostinatamente avviticchiata attorno a Giuseppe Conte come non avrebbe fatto nemmeno per un Salvator Allende, la sinistra sembra accogliere la sua fine con uno sperdimento da svolta della Bolognina. La spaccatura, rito d’ordinanza, celebrata subito, neanche il tempo per Draghi di accettare l’incarico dalle mani di Sergio Mattarella: e già Nicola Fratoianni si diceva arroccato sul no, modello movimentista anti tecnocratico, già Roberto Speranza, ministro uscente, cognome degno di miglior causa, si stringeva ancor più alla famosa alleanza Pd-M5S-Leu. O a quel che ne resta, vista pure la reattività di ciascun partito preso per sé. Spaventoso l’effetto accartocciamento che ha colto il Pd guidato da Nicola Zingaretti, più che ogni altro partito. Roba da far riecheggiare, dopo secoli, il famoso urlo di Nanni Moretti che echeggiò a Piazza Navona il 2 febbraio del 2002, esattamente 19 anni prima dell’arrivo di Draghi («Con questi dirigenti non vinceremo mai», attualissimo). Oltre al soffice, etereo immobilismo del segretario in persona - di cui già quasi tutto s’è detto, non potendosi come al solito dire granché - eccezionale in questi giorni è stato lo slancio verso la costruzione del futuro da parte di un politico pure non privo di abilità, come Andrea Orlando. Mentre Zingaretti, pensoso, rifletteva sull’asserita imminenza del ritorno alle urne, il suo vice, pur di affacciarsi nel nuovo governo, s’era risolto a mettere da parte il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, 35 anni, eccezione totale in un partito a vocazione gerontocratica - e giudicato, quindi, sacrificabile. Un gesto insomma di grande lungimiranza e generosità politica: e che non ha potuto realizzarsi soltanto perché poi il crollo del Conte ter ha tirato giù anche le ambizioni orlandiane (provvisoriamente, sia chiaro). Strepitosi certi toto-nomi, che val la pena di ricordare come emblema di un’epoca. Nel pomeriggio in cui l’alleanza giallorosa si arenava, una manciata di ore prima che Mattarella convocasse l’ex presidente della Bce, un nome si ostinava a brillare sul tavolo-fantasma del rimpasto: Goffredo Bettini, dirigente nazionale del Pd cui è stata informalmente affidata quasi una grossa fetta di gestione della crisi, era infatti in predicato di entrare nel mai nato Conte ter nientemeno che come sottosegretario alla presidenza: «in quota Conte» naturalmente. E di chi altri sennò? Del resto Bettini si è fatto alfiere, in queste settimane, di una delle più spettacolari previsioni clamorosamente smentite dalla cronaca. Una previsione che ha plasmato con maggior decisione quando, alla vigilia del ritiro della delegazione di Italia viva dal governo, diede all’opzione responsabili un peso e una credibilità che sin lì non aveva: «Ci sono delle forze che vogliono contribuire nel segno di un rapporto con l’Europa e penso che al momento opportuno queste forze possano palesarsi», spiegò in tv a Barbara Palombelli che gli chiedeva di eventuali arrivi a sostegno di Giuseppi da parte di Forza Italia. Ecco, nel concreto, l’apporto azzurro si è incarnato nelle persone di Maria Rosaria Rossi, Renata Polverini, Andrea Causin. Non propriamente una folla. E il resto è andato come sappiamo: l’alternativa «o Conte, o voto» è stata per settimane agitata alla stregua di una minaccia in telefonate parallele: Bettini di qua, Gianni Letta di là. Con quale credibilità è stata la storia a stabilire. Quanto al Pd di Zingaretti (o si dovrebbe dire di Bettini) è arrivato a prestare direttamente una sua senatrice, Tatjiana Rojc: passata di botto ai responsabili perché avessero il decimo soggetto per formare il gruppo, l’ha dovuto fare con una tale fretta da trovarsi a celebrare in Aula i cento anni del Pci da esponente non del Pd ma degli Europeisti-Maie-Centro democratico. Ed in questa veste ha citato in aula Antonio Gramsci: «L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera (…) ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare» eccetera, ha detto in Aula. Parole che potrebbero risuonare come clave contro quel Pd che, in nome dell’alleanza coi grillini e del premierato di Conte «unico punto di equilibrio», ha accettato di approvare all’ultima lettura il taglio dei parlamentari, dopo aver votato per tre volte no. Salvo che nessuna rivolta arriverà ad abrogare quella legge, soprattutto dopo una così intensa dimostrazione di abilità politica, da parte degli eletti. Proprio con la fine di Conte, si è avuta del resto riprova di quanto possa essere virtuoso l’apporto di soggetti mitologici come Massimo D’Alema. Ricomparso quatto quatto dalle parti del premier-avvocato, come consigliere occasionale ma di rango, l’ex premier è finito anche lui nel grande vortice di anti-materia che a un certo punto ha cominciato a girare su Palazzo Chigi. E meno male che, come ebbe a dire in un’intervista a Repubblica, «non si manda via l’uomo più popolare del Paese per volere del più impopolare». Rottamato di nuovo da Renzi, direbbero i renziani. Risucchiato per l’ennesima volta dalla solita ambizione - comune al suo mondo - che ha il nome collettivo di egemonia culturale («Io impegnato a salvare Conte? No, ci pensa Bettini, uomo serio», chiarì nella stessa leggendaria intervista). Debolezze alle quali uno d’altra formazione, come il capodelegazione dem Dario Franceschini, ha saputo sottrarsi per tempo: un attimo prima dell’ingresso nell’Ade, se non altro. In questo senso, a ben pensarci, è ancora più mostruoso l’esito della crisi innescata da Matteo Renzi, con l’obiettivo poi riuscito di rosolare Giuseppe Conte (obiettivo al quale uno come l’ex capo dei Cinque stelle Luigi Di Maio è meno estraneo di quanto non abbia smentito lui stesso, dacché ci sono stati giorni in cui a parlare di una fine prossima dell’avvocato del popolo erano solo due aree: renziani e dimaiani). In pratica quell’alleanza di governo tra M5S, Pd, Leu (e Iv), ancora non davvero incarnata e articolata in liste e voti - erano infatti in alto mare le trattative sulle prossime elezioni amministrative - si è cementata e trasferita nell’anti-materia, giù nel vortice di nulla che ha avvolto il piccolo impero di Rocco Casalino a Palazzo Chigi, portando via con sé coloro che ambivano governare quell’anomalia. Così, al momento buono, non c’era nessuno - tra tanti consiglieri - pronto a pensare di esprimere il proprio istituzionale sostegno al Quirinale, quando Mattarella proclamava fallita l’esplorazione di Roberto Fico e convocava Draghi. Sarebbe stato cerimoniale, mero sostegno tra istituzioni ma niente: da Palazzo Chigi non è volato un comunicato. E anche il Pd ha faticato non poco, a riprendersi dalla sorpresa: tanto che uno lesto come il governatore dem dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, è arrivato a ringraziare il capo dello Stato prima del vicesegretario dem Orlando. Coincidenza che si può tranquillamente indicare come il precoce segno del prossimo congresso Pd, quello chiamato ad archiviare l’era Zingaretti. E se il mondo di Casalino è in caduta libera - un effetto liberazione salutato persino dal leader della Lega Matteo Salvini - il post-Conte ha gettato nella disperazione i Cinque Stelle. La crisi, e il suo esito, ha naturalmente favorito, e tiene al riparo, personaggi che giocano a fare i battitori liberi tentando di trarre vantaggio da uno svantaggio, come Alessandro Di Battista (non a caso si è affrettato descrivere Draghi come «apostolo dell’élite»). Leggiadria, quella dell’ex deputato, che deriva dalla certezza di non dover votare in Parlamento pro o contro un governo guidato dall’ex presidente della Bce. Si apre al contrario un baratro di dubbi per chi, nel M5S, ha sostenuto l’alleanza coi dem e, in ultimo, la sua versione dannunziana «o Conte, o morte». A partire dal leader accantonato Beppe Grillo, primo fautore della svolta giallorosa nell’estate del 2019, fino al perenne reggente Vito Crimi. Primo degli imbarazzi: chi è il capo? Chi parla a nome di chi? In una nave già in estrema difficoltà, i 191 deputati e 92 senatori sembrano in balia di un’alternativa impossibile, due strade sbarrate entrambe. Né con Draghi, né senza. Anche di questo, la notte in cui l’«apostolo dell’élite» arrivò rappresenta un emblema che vale la pena di tenere a mente. I vertici grillini s’affannavano infatti ancora, in quelle ore, a far di conto, tra gruppi e sottogruppi, per vedere se fosse stato possibile rimettere insieme quello che si era appena rotto. Arrivando persino a contattare le prime file del Pd, per sondare la possibile convergenza su ulteriori governi politici. «Ma voi ci state a votare no al governo Draghi?», si domandava ai dem. Come chi non sappia che si è fatta un’ora tarda, e cerchi ancora di racimolare i soldi per il biglietto di un treno che è già arrivato a destinazione.

Qual piume al vento. La giravolta dei giornaloni: Corriere, Repubblica e Stampa scaricano Conte e diventano zerbini di Draghi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. Stavo facendo uno sforzo di memoria per provare a ricostruire quale fosse lo schieramento politico dei giornali, delle Tv, dei partiti, all’inizio della settimana scorsa. Già, la settimana scorsa, dico: non il secolo scorso. Ho le idee un po’ confuse, però mi pare che fosse piuttosto netto. In Parlamento, se non sbaglio, la destra si opponeva a Conte e chiedeva elezioni; tutti gli altri – sinistra, centro e grillini – come una testuggine a difesa del premier. Addirittura si iniziava ad aprire qualche breccia filo-Conte, o persino filo-Di Maio, persino nella destra storica. Qualcuno sussurrava che Di Maio fosse uno statista. Il Pd era il partito più granitico. Conte o Morte, diceva. È lui – sostenevano i suoi leader – l’unico punto di equilibrio. È lui che salverà l’Italia. Lo dicevano sostenuti da un bel dispiegamento di cannoni da parte dei mass media. La7, naturalmente, guidata da Lilli Gruber e da Travaglio. E poi quotidiani di massa o di elite, storicamente anche molto distanti tra loro, come Corriere – schieratissimo – Repubblica, Stampa, e in sinergia l’ex quotidiano berlusconiano Il Foglio e il comunistissimo il manifesto. Il manifesto, addirittura, fece inorridire molti suoi ex pubblicando un appello a favore del governo e contro gli intellettuali disfattisti. I quali intellettuali disfattisti non si sa bene chi fossero. A parte quelli di destra, non molti, credo che ci fossero solo quelli che scrivono su questo giornale. I quali, isolatissimi, osservavano che tre anni di governo a Cinque stelle aveva prodotto essenzialmente tre risultati: la scomparsa dello Stato di diritto; la trasformazione del welfare in un centro confusionario di clientele e di distribuzione di mance e di favori elettorali; il passaggio dal metodo di governo democratico e parlamentare a quello degli editti e dei pieni poteri al premier. Timidamente facemmo notare che dal 1943 in poi nessun presidente del Consiglio aveva goduto di poteri così pieni come questo avvocato pugliese, fino a poco tempo fa sconosciuto e titolare, a occhio, di doti politiche modeste. Ci sentivamo molto soli in questa denuncia. Lontani dal Pd, lontani dalla sinistra radicale, lontani dai giornali che consideravamo i più simili a noi per impostazione politica. Cominciavamo anche a pensare di avere sbagliato tutto. Quando in qualche trasmissione Tv provavamo a fare il nome di Draghi, venivamo sommersi dalle contumelie o dall’ironia. Ci dicevano – anche con molta gentilezza mista a disprezzo – che noi non capivamo niente di politica, che la politica è un’altra cosa, che Draghi tutto può fare ma non il premier e anche che – oltretutto – aveva confidato ai suoi amici – moltissimi – che lui neanche ci pensava a Palazzo Chigi. Poi c’è stato il miracolo. L’impressione è che il miracolo lo abbia fatto Matteo Renzi, ma questa cosa è meglio tenerla riservata, perché se dici una cosa su Renzi che non sia una buona insolenza, ti prendono a schiaffi e dicono che sei un vassallo del bullo, dell’impostore, del manigoldo, dell’innominabile, del narciso. Perciò non lo diciamo. Shhhh. Però il miracolo c’è stato. Conte è caduto. C’è chi dice che sia caduto sulla giustizia, chi dice che sia caduto sui servizi segreti, chi dice che sia caduto perché era diventato evidente che mai e poi mai sarebbe stato in grado di organizzare l’operazione vaccini. Comunque è caduto. Mattarella ha chiamato quel bravissimo ragazzo che ora fa il presidente della Camera – al posto di Pertini e Ingrao – parlo di Roberto Fico, il quale doveva mettere insieme una operazione di acquisto senatori a destra per realizzare il Conte ter. Tutti dicevano che solo il Conte ter era la soluzione. E che meglio di Conte, in Italia, non c’è nessuno. Ok. Fico, che probabilmente è una persona assai onesta, tornò da Mattarella e gli disse che comprare parlamentari non era il suo mestiere e che una maggioranza per Conte non si vedeva neanche col cannocchiale. E oplà. Mattarella chiamò Draghi. E noi pensammo: poveretto, ora si troverà sommerso dalla furia dei contisti, solo noi lo difenderemo. Lo bastoneranno. Macché. Saranno trascorsi sette o otto minuti, e tutte le majorette di Conte erano passate con Draghi. Possibile? Sì, sì. Non solo, ma tra loro – come gli asini di Collodi – si prendevano in giro: che orecchie lunghe che hai…, si dicevano. Cioè si dicevano l’un l’altro – Gruber, Travaglio, Il Foglio, i giornalisti del Corriere, della Stampa, di Repubblica – ma tu stavi con Conte, perché ora sostieni Draghi? Per carità, rispondeva l’altro: fingevo. E così tutti giù a prendere in giro il povero Casalino, messo alla gogna immediatamente, lui che i grandi giornali non avevano mai neppure sfiorato per tre anni, e poi tutti a sbeffeggiare Conte, e Di Maio, e Bonafede, e l’intera compagnia. In primis Travaglio, naturalmente, che da deus ex machina del giornalismo italiano, in dieci minuti è stato trasformato in zimbello, e lui ha subito reagito prendendosela col Pd: ma come – ha detto al Pd – sei capace di accettare un governo con la Lega, cioè con il partito che aveva combattuto le Ong? Indignato, Travaglio. Caspita, ma non era Travaglio quello dei taxi del mare, che difendeva a petto nudo Di Maio e il procuratore di Catania che aveva scacciato tutte le navi di soccorso dal Mediterraneo? Lo spettacolo più singolare e inedito, comunque, è stato proprio quello offerto dal Pd. Pare che abbia presentato a Draghi, molto impettito, il suo programma di governo. Dice che bisogna smontare le leggi sulla sicurezza, e la Bossi Fini, e bisogna riformare il carcere, ristabilire la prescrizione, ridurre la carcerazione preventiva… Insomma, bisogna fare tutte le cose che il governo col Pd non ha fatto, anzi ha fatto al contrario. Il Pd ha detto tutto questo con l’aria molto seria. Come quella che spesso assumono le persone che tengono poco ai giochetti in cortile e fanno cosa sacra dei principi. Intangibili.

Mario Draghi circondato da lacchè: "politici morti che si fingono vivi", la danza macabra secondo Renato Farina. Renato Farina su Libero Quotidiano il 06 febbraio 2021. In numerose chiese medievali, specie quelle delle valli alpine, singolari affreschi inghirlandano l'edificio sacro. Scheletri sfilano in attitudine ballerina. I teschi appaiono persino sorridenti. Ai tempi la danza macabra, o trionfo della morte, scegliete voi come chiamarla, aveva un intento pedagogico. Era un invito per il viandante che scorgeva questa processione sepolcrale a comportarsi tenendo conto del giudizio divino. Ed eccone un''altra. A cosa paragonare se non a quella sfilata di ossa traballanti il corteo dei venditori della propria anima a Mario Draghi? Che pena. Sono morti che fingono di essere vivi. In prima fila Giuseppe Conte e Beppe Grillo si producono nella «mossa» inventata da Ninì Tirabusciò e resa sublime da Maurisa Laurito. Resta inspiegabile, essendo gli scheletri notoriamente privi di lingua, come costoro riescano a praticare il leccaculismo da cui la parola lacchè, ma forse la funzione ha creato l'organo. A ridosso del duo, che siccome sono 5 Stelle si credono étoile, ecco l'altra coppia: Nicola Zingaretti e Andrea Orlando mimano simpatici inchini, e indicano con il dito i grillini per far sapere a Draghi: te li abbiamo portati noi, adesso devi accettare i nostri aut-aut, guai se includi la Lega. Non è finita la processione. Dispiace, e duole il cuore osservare persino il più amabile dei comunisti, Pierluigi Bersani, osare il tip tap in compagnia della gentilissima senatrice Loredana De Petris che aveva appena detto: «O avanti con Conte o elezioni».

DISCIPLINA OLIMPICA. Proprio così. Era un coro. Tutta gente che ritmava: o Conte o morte. Dopo Conte il diluvio. E ora professano fede assoluta e incrollabile nel neo-salvatore della patria. Hanno cambiato solo la prima paroletta dello slogan e il gioco per loro è fatto: o Draghi o morte. Il problema è che sono loro la morte, sono stati i protagonisti di un naufragio che ha affondato la nave degli italiani, e ora vogliono proporre i loro servizi da ciurma di annegati quasi arrivassero profumati di gloria olimpica. Ehi figlioli. Gloria olimpica un par di balle. Siete campioni di salto sul carro del vincitore, ma è uno sport che non è previsto alle prossime Olimpiadi di Tokio. Peccato, perché sarebbe stata una tripletta tricolore, specie nella specialità acrobatica, con avvitamento e capriola tripla prima di accomodarsi sulla biga del nuovo imperatore. Chi li scusa fa riferimento a una tradizione nazionale in fondo identitaria: naturale perciò che questo esercizio ginnico della coscienza sia praticato pure davanti a Mario Draghi. Il contorsionismo da bambole snodabili è stato inaugurato infatti ai vagiti della neonata Repubblica: il giorno prima (quasi) tutti fascisti, quello dopo (quasi) tutti partigiani. Dunque perché stupirsi? Nessuna meraviglia, ci mancherebbe. Ma qui sta accadendo qualcosa di speciale e peggiore. Questa gente sta perpetrando una truffa con la sua danza macabra. Vuole assecondare Draghi pretendendo che indossi la maschera di Conte-ter: come se le elezioni ci fossero state davvero e le avessero vinte loro. Una settimana fa erano unanimi nel respingere l'ipotesi di un governo dei migliori con Draghi in testa. Ora vogliono farci bere il filtro della dimenticanza e ripetono: ci stiamo, siamo d'accordo, evviva il Governo Draghi + i migliori, cioè noi (Pd, M5S, Leu), ovvio.

CAMBIARE IDEA. Zingaretti, nel colmo di questa immotivata arroganza, è stato lesto a mettere in testa il suo cappello rosso a Draghi. Non ha aspettato neppure di sentire le proposte di Super-Mario. Pretende già di trattarlo come roba di famiglia. Radunando la direzione, oltre a maledire Renzi e a porre veti alla Lega, ha detto: «È tempo di un nostro protagonismo per mettere in campo i contenuti e una visione chiara». Il tono è quello del bollettino della vittoria da Maresciallo Diaz, invece è Cadorna dopo Caporetto. È convinto con Draghi di poter dirigere la sua biga e la nostra sfiga. È lecito cambiare idea. Tutti noi siamo vedovi di qualche opinione. In tanti abbiamo perduto scommesse e toppato pronostici. Ma i tipi di cui a mo' di esempio abbiamo fatto il nome non stavano all'opposizione, la quale aveva e ha il diritto di chiedere al presidente della Repubblica la dichiarazione di fallimento della legislatura e il voto. No, questi qua avevano il potere. E ora pur di non perderlo, dato che l'esito del voto li vedrebbe annichiliti, cercano di incartarsi Draghi e portarselo nel loro club. Ma va' là, la danza macabra è finita.

DiMartedì, Edward Luttwak fa a pezzi Mario Draghi: "Vietato decidere per la misera plebe", il paragone da brividi con Mussolini. Libero Quotidiano il 10 febbraio 2021. Nella minuscola riserva indiana di chi spara ad alzo zero contro Mario Draghi c'è Edward Luttwak, tra i pochissimi a criticare apertamente il premier incaricato. L'affondo del politologo americano arriva nel corso di un collegamento a DiMartedì, il programma di Giovanni Floris in onda su La7, la puntata è quella del 9 febbraio. Nel mirino di Luttwak, ci finisce l'assenza di programma ma anche una certa attitudine "finanziaria" di Draghi. "Io non ho visto il suo programma economico, non ho visto la riforma della giustizia: io attendo una sentenza di Cassazione da cinque anni. Non c'è la riforma dell'amministrazione pubblica, che dimostra considerevole arretratezza. Quindi non ha nessun programma ma tutti lo vogliono", parte in quarta Luttwak. E ancora: "Si vede che lui è uno che non ha un programma, a parte ascoltare Beppe Grillo attentamente, su ogni oggetto. Non ha un programma, quindi è Babbo Natale - si lancia nel peculiare paragone -. Infatti voglio prendere il libro di Bruno Vespa e voglio vedere se si può sostenere il nome di Benito Mussolini con quello di Draghi", picchia durissimo Luttwak, riferendosi all'ultimo libro di Vespa (ospite in studio) sul Duce. "Cioè, c'è la persona - riprende Luttwak: non lasciamo alla misera plebe di decidere. Non lasciamo alla plebe la possibilità di eleggere: per carità, poi eleggono persone sbagliate", rimarca con evidente sarcasmo. "E invece generiamo Conte, generiamo Draghi. Draghi è Babbo Natale: ha le chiavi della Bce, quindi non bisogna riformare lo Stato, non bisogna riformare le banche. C'è Babbo Natale: va col suo sacco alla Bce, porta soldi, dà da mangiare a tutti", rimarca.  Infine, una considerazione su come il premier incaricato sarebbe visto negli Stati Uniti: non nel migliore dei modi, secondo il politologo. "Forse Barack Obama rispettava Draghi, ma la finanza americana no. La finanza americana vuole dare soldi a chi investe in aziende. Il sistema che Draghi ha creato è che la Bce dà soldi alle banche italiane, che poi comprano Bot e non prestano agli imprenditori", conclude Luttwak. Insomma, una bocciatura a tutto tondo per Draghi.

La complessa parabola di Draghi alla Bce. Andrea Muratore su Inside Ober il 27 febbraio 2021. Yannis Varoufakis in queste settimane è molto aperto al confronto con i media italiani, e ha un bersaglio preciso: Mario Draghi. Prima ai microfoni di Radio Popolare e poi in un’intervista al Fatto Quotidiano l’ex ministro delle Finanze greco e fondatore di Diem 25 si è espresso in maniera critica sull’ascesa a Palazzo Chigi dell’ex governatore della Bce, definendolo nel primo caso come un uomo “al servizio dell’ordine finanziario” di Bruxelles, Francoforte e Berlino che “eseguirà tutti i loro imperativi” e caricando a testa bassa nel secondo sul comportamento tenuto da Draghi verso il suo Paese nel 2015. Draghi, ricorda Varoufakis, è stato accusato dal governo greco di aver delegittimato l’esecutivo di Alexis Tsipras tagliando fuori a inizio febbraio le banche greche dalle linee di credito e facendo pressione per evitare che Atene sfuggisse dai memorandum firmati con la Troika nell’estate successiva. Ma la sinistra radicale non è l’unico mondo da cui Draghi, su scala europea, ha ricevuto critiche. Nel momento del suo insediamento dopo la chiamata da parte di Sergio Mattarella, in Germania la Bild, quotidiano solito parlare alla “pancia” dei tedeschi, ha ironizzato sull’ascesa al potere del “Conte Draghila” accusato di aver, in passato, succhiato il sangue ai connazionali con le politiche monetarie espansive; la Frankfurter Allgemeine Zeitung, quotidiano di riferimento del mondo finanziario germanico, ha invece chiosato sottolineando di “non aspettarsi miracoli” dall’uomo del Whatever it takes. Questi due casi esemplificano la natura estremamente complessa del giudizio sull’operato di Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea, un giudizio sulla cui effettiva costruzione si fonda, in sostanza, la visione che diversi ambienti politici, economici e mediatici hanno del nuovo premier italiano. Raramente era successo che una figura tanto apicale in una grande istituzione internazionale passasse in seguito a un ruolo istituzionale nel suo Paese d’origine, a meno che si parlasse di figure di precedente estrazione politica (come è stato il caso di Romano Prodi). E l’eterogeneità di giudizi sul lungo mandato di otto anni con cui Mario Draghi, dal 2011 al 2019, ha condotto la Bce testimonia la complessità e la rilevanza di un incarico che sarebbe ingenuo definire estraneo alla politica. Draghi è stato un governatore della Bce divisivo e innovativo. Ha ereditato i limiti e le problematiche della gestione di Jean-Claude Trichet, il banchiere francese suo predecessore che seppe avviare timidissime operazioni monetarie espansive (le Outright monetary transitions) ma incappò in errori macroscopici come l’aumento del tasso d’interesse europeo nel 2011 che avviò la tempesta dello spread sull’Italia. Ha dovuto barcamenarsi tra la tenacia del partito del rigore a guida tedesca, che non concedeva sconti sull’austerità, e la disorganizzazione dei Paesi del Sud sul fronte politico. Pragmaticamente, con il discorso del “Whatever it takes” nel 2012 e con l’avvio del quantitative easing tre anni dopo Draghi ha preso atto del fatto che un’Unione Europea costretta al rigore senza nemmeno il ristoro di uno stimolo monetario continuo era destinato all’implosione. E ha creato le condizioni politiche perché nell’Unione venissero importate le politiche monetarie espansive che Paesi come Giappone, Regno Unito e Stati Uniti praticavano già da anni su vasta scala per rispondere alla Grande Recessione. Del resto anche il Premio Nobel Joseph Stiglitz nel 2016 riconosceva che consentire maggiore flessibilità nella variazione dei valori della moneta unica aumentando la base monetaria rappresentava uno dei pochi strumenti rimasti a disposizione dell’Unione per salvare l’euro e le sue economie asfissiate dalla crisi. Né funambolo né improvvisatore, Draghi ha avuto in mente un preciso progetto politico: trasformare l’Eurotower nell’autorità commissaria per eccellenza dell’Unione, spezzare le indecisioni e il pantano venutosi a creare puntando sull’agilità esecutiva garantita alla Bce, il cui governatore può attuare politiche in maniera meno ingessata della Commissione, e fornire un controbilanciamento all’ideologia tedesca del rigore. Complessivamente, la Bce nell’era Draghi ha investito 2,15 trilioni di euro e diretto 362 miliardi verso i titoli italiani, tra i più sostenuti, espandendo oltre i 4mila miliardi il suo bilancio. Un diluvio di denaro che ha, senz’altro, ridotto i tassi di sconto, che ha funzionato da antidoto all’austerità e restituito fiducia alle economie. Anche il rivale per eccellenza di Draghi, il ministro delle Finanze di Angela Merkel, Wolfgang Schauble alla cerimonia d’addio del banchiere romano ne ha riconosciuto i meriti e la visione, e salutandolo come il salvatore dell’euro. Ma da chi, in fin dei conti, Draghi ha salvato l’euro? Dal rigorismo tedesco, ça va sans dire. E per farlo ha dovuto mettere in campo un progetto politico-finanziario capace di apparire positivo anche per Berlino e i suoi partner nordici oggi riuniti nella Nuova lega anseatica. Va da sé che l’obiettivo di Draghi era salvare l’euro, non le economie dell’Eurozona. Non avrebbe del resto potuto farlo, mancando la Bce di uno strumento per il finanziamento diretto dei deficit nazionali. E i limiti del quantitative easing che i tedeschi hanno (con grande ipocrisia!) a lungo stigmatizzato come un regalo sostanziale alle “cicale” del Sud Europa sono invece legati principalmente al fatto che esso ha fornito un volano alla Germania per consolidarsi in Europa. Portando buona parte dei denari lontano dall’economia reale, nel gioco finanziario, e favorendo con la svalutazione dell’euro la piattaforma commerciale tedesca. Vengono in questo modo meno le dure critiche provenienti da Paesi che si trovano agli antipodi nel contesto degli equilibri di potere europei. Dalla fragile e depauperata Grecia, Varoufakis ha accusato Draghi di essere un esecutore, quasi un sicario per conto dell’Europa per l’economia italiana. Nulla di più fuorviante. Chiaramente, ampi sistemi di potere su scala globale riconoscono in Draghi un loro insider e dalle cerchie politiche di Bruxelles a quelle della finanza internazionale il nuovo premier è considerato un punto di riferimento. Ma di questi gruppi di potere Draghi è, semmai, un uomo di punta e non un portavoce. Al contempo, la Bild esagera nel paragonare Draghi a un Dracula intento a prosciugare l’economia tedesca con le politiche monetarie espansive. Pur in un contesto di stagnazione della domanda interna, il Qe ha tenuto a livello elevato, sopra il 45% il rapporto tra le esportazioni tedesche e il Pil in un contesto segnato da un euro sempre più competitivo perché svalutato dalla politica monetaria espansiva. Come ogni progetto politico, quello di Draghi è occorso in contrasti e in errori. Più volte la fronda nei suoi confronti in seno alla Bce è venuta da Jens Weidmann, inflessibile falco tedesco del rigore a capo della Bundesbank, a cui si sono accodati i governatori di Paesi come Olanda e Finlandia. E sul fronte greco, Varoufakis non ha torto a ricordare come controversi lo stop alle linee di credito che mise in difficoltà le banche greche e l’allineamento di Draghi alla Commissione Juncker e al Fmi in occasione del referendum del 2015. Purtroppo per Atene, il quantitative easing della Bce non era nel primo caso ancora iniziato (sarebbe partito a inizio marzo 2015) e stava, nel secondo, iniziando a far dispiegare i propri effetti: dunque il governatore della Bce necessitava del capitale politico negoziale per poter dar forma al suo progetto. Sul fronte politico e umano siamo assolutamente comprensivi del dramma del popolo greco e capiamo anche la frustrazione e lo scoramento di chi, come Varoufakis, si è trovato defenestrato dal governo che ha finito per applicare i più violenti e duri memorandum di austerità. E la Bce ha a lungo trattato Atene in maniera meno comprensiva anche sul fronte dell’acquisto titoli rispetto a quanto fatto con gli altri Paesi mediterranei. Ma non possiamo dare a Draghi tutte le colpe di questo processo, iniziato sei anni prima con la commissione Barroso e Trichet e già avviato da tempo quando, tra il 2012 e il 2015, Draghi ha spostato verso la Bce il baricentro della politica europea. Responsabilità ed errori si riconoscono e vanno identificati: ma nella carriera di una figura istituzionale essi sono l’ordinarietà e, nel quadro di Draghi, si inseriscono in un bilancio complesso. Che, è bene ricordarlo, è frutto del lavoro compiuto con gli strumenti operativi e la potenza di fuoco di un’istituzione come la Bce. Ben diversa da quelli di cui può avvalersi lo Stato italiano.

La ragazza che mise paura a Draghi. Daniele Castellani Perelli su La Repubblica il 26 febbraio 2021. Josephine Witt è l'attivista tedesca che nel 2015 saltò sul tavolo dell'allora capo Bce. Oggi lo rifarebbe? "No, ma con il dovuto rispetto gli chiederei: sicuro che io avessi torto?". La ragazza che sfidò il drago. La ricordate? In queste settimane è tornata in auge la foto che l'ha resa famosa: nelle gallery dei giornali dedicate al neopremier Mario Draghi, sfila subito dopo lo scatto al liceo con Giancarlo Magalli e quello al supermercato con la moglie. Era il 15 aprile 2015, e Josephine Witt, studentessa 22enne di Amburgo, durante una conferenza stampa a Francoforte saltò sul tavolo dell'allora presidente della Banca centrale europea per protestare contro le misure imposte alla Grecia dalla Troika: "Bce, master of the Universe, non siamo fiches sul tuo tavolo da gioco" aveva scritto nei fogli che lanciò. Ex Femen, in precedenza aveva manifestato in topless davanti a Vladimir Putin, poi a Tunisi per la liberazione della compagna di lotta Amina Tyler (sarebbe stata lei stessa tenuta in carcere per un mese), in un talk-show tedesco contro i Mondiali di calcio in Qatar (in studio c'era pure un divertito Giovanni Trapattoni), e nella cattedrale di Colonia durante la sacra messa di Natale. Abbiamo rintracciato Josephine Witt, che per le sue performance è stata minacciata di morte dall'estrema destra tedesca, e le abbiamo chiesto di rievocare quel giorno. E cosa prova, da attivista europea e di sinistra, nel vedere Draghi in questa sua nuova veste.

Sono passati sei anni.

"E sono ancora sorpresa per come riuscii a entrare, fingendomi giornalista, alla prima conferenza stampa nel nuovo palazzo della Bce. Un paio di settimane prima c'era stata una manifestazione anti-austerity contro le politiche della Bce e della Troika. I miei amici dicevano: 'Non ce la farai mai'. Tra me pensavo: si sbagliano. Draghi era scioccato, paralizzato dalla paura. Deve aver pensato volessi ucciderlo. Diversamente da Putin, per fare un esempio, non era preparato a difendersi, non ebbe la prontezza di alzarsi".

Però non perse neppure l'aplomb e continuò a spiegare il quantitative easing. Perché gli tirò dei coriandoli?

"A differenza di un frutto o di un uovo sarebbero passati ai controlli. Poi non fanno male e non è reato lanciarli. Mi sembrava anche una metafora per il 'lancio' di  euro con cui la Bce decide il destino dei Paesi europei".

Non è neppure un po' pentita?

"No. Sono felice di aver fatto scoppiare per un attimo la bolla astratta in cui è immersa la finanza internazionale. Mi dispiace però non sia servito a nulla, che nulla sia davvero cambiato".

Qual era il suo messaggio?

"Volevo ricordare come la Troika, e dunque anche la Bce di Draghi, istituzione non democratica, avesse ricattato la Grecia. Ovviamente Atene aveva bisogno di riforme, ma le condizioni dell'aiuto europeo hanno umiliato i greci. A pagare non è stato chi aveva provocato la crisi, ma i lavoratori e la classe media. In termini di disoccupazione, risparmi e copertura sanitaria, per non parlare dei suicidi".

La sua azione si spiega anche con una specie di senso di colpa da tedesca per la linea dura di Berlino?

"Più con un senso di solidarietà. Sono nata nel 1993 e ho sempre pensato a me stessa come a un'europea".

Draghi apprezzerà. Ma torniamo a lui. Come sa, è diventato primo ministro, alla guida di una grossissima Koalition. È lì in quanto tecnocrate al di sopra dei partiti e adorato da Bruxelles. In Germania sarebbe impossibile. Che effetto le fa?  

"Mi sembra che ci siano delle somiglianze con il 2015 e le ragioni della mia protesta di allora. Davanti a un'emergenza economica ci si affida a dei tecnici. Sembra il trionfo dell'astrattezza del neoliberalismo, un regime senza volto guidato da decisioni prese dietro le quinte. Non sono un'economista, ma da quanto ho letto il mito di Draghi che ha salvato l'euro, e il suo Whatever It Takes, è appunto un mito. Nessuno può salvare l'euro da solo. Il presidente della Repubblica Mattarella ha detto che non si poteva votare. Ma perché?".

La Costituzione lo consente. C'è la pandemia. E ci metta pure che avrebbe vinto Salvini...

"Capisco che la politica italiana sia un caos. E anche in Germania, per la presenza di forze populiste come l'Afd, il sistema si giustifica con la 'mancanza di alternative'. Ma è una narrazione preoccupante a livello democratico".

Ora lei è regista di teatro a Berlino. Fosse ancora attivista full time, per cosa si batterebbe nell'Europa di oggi?

"Contro le disuguaglianze economiche, di genere, etniche e nazionali. La crisi dei rifugiati, ad esempio. Mi ispirano persone come Carola Rackete, la capitana tedesca pro-migranti. E Greta Thunberg, sì, certo. E poi i giornalisti investigativi, come quelli che in Germania hanno rivelato lo scandalo finanziario Wirecard".

Da ex Femen è contenta che oggi ci siano così tante leader donne? Quel giorno sulla sua maglietta c'era un attacco alla "Dick-tatorship" della "fallica" Bce, ma oggi alla sua guida c'è una donna, Christine Lagarde.

"E lei pensa che la battaglia delle Femen si riduca a una questione di quote femminili nelle classi dirigenti?".

Che cosa direbbe a Draghi se lo incontrasse?

"Gli parlerei seriamente, con il rispetto dovuto a un primo ministro. Lo ascolterei e gli chiederei di difendere le categorie che più stanno soffrendo la crisi: lavoratori essenziali come insegnanti e infermieri, e poi madri e bambini. Che non succeda come in Grecia, insomma. Gli direi che ho poca fiducia, ma che spero possa dimostrarmi che avevo torto".

Non è che gli salterebbe sul tavolo. Può stare tranquillo?

"Eh, ormai ho smesso".

Sul Venerdì del 26 febbraio 2021

Scaramucce e intolleranze: l'ira di Sergio Mattarella verso i partiti. L'appoggio di Matteo Salvini a Mario Draghi ha spiazzato il centrosinistra, che ora fa le bizze e mugugna mettendo a dura prova la pazienza di Mattarella. Francesca Galici, Lunedì 08/02/2021 su Il Giornale. Tutti i partiti, tranne Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni, hanno dato il loro consenso alla formazione del governo istituzionale di Mario Draghi, fortemente voluto da Sergio Mattarella per risolvere la crisi di governo. In apparenza un buon risultato per il presidente della Repubblica se non fosse che tra i partiti della nuova maggioranza in composizione permangono acredini e vecchie ruggini che già lasciano presagire sportellate per far fuori gli antagonisti. Uno scenario che, come riporta Marzio Breda sul Corriere della sera, lascia interdetto e innervosisce Sergio Mattarella. D'altronde la sua richiesta nell'ultimo discorso pubblico, fatto subito dopo la constatazione del fallimento di Roberto Fico, era stata molto chiara. Il capo dello Stato vuole "un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica". Invece si sgomita per mettere la firma politica e, ancora peggio, si pongono condizioni. "Se ci sono loro non possiamo starci noi", hanno detto in più occasioni alcuni partiti e il più delle volte "loro" era la Lega. Tutto questo è contrario all'idea di Sergio Mattarella e alla richiesta di responsabilità ai partiti, che sta alla base della decisione di optare per un governo di alto profilo senza sciogliere le Camere. In queste ore c'è chi ha proposto di offrire a Mario Draghi solo un appoggio esterno e c'è chi si dice interdetto per la forma che sta prendendo la nuova maggioranza. Un atteggiamento che toglie qualsiasi fondamento al principio alla base della scelta di Mattarella, che pare non stia vivendo con serenità la tensione tra i partiti. L'ex maggioranza era convinta di poter giocare la parte del leone in quella nuova al fianco di Mario Draghi, ricostruendo gli equilibri del governo precedente. "Tutto cambia per non cambiare mai", si saranno detti dalle parti del Nazareno. Invece no, Matteo Salvini ha riferito al presidente incaricato la decisione della Lega di rendersi disponibili con un "sì convinto, privo di pregiudizi o nomi". Una mossa inaspettata che ha completamente disorientato il Pd, il M5S e i loro alleati. Berlusconi, Salvini e Renzi hanno sparigliato le carte di Zingaretti e dei grillini e sarà ora compito (arduo) di Mario Draghi raffreddare il clima per costruire quanto più serenamente possibile la nuova maggioranza. Mario Draghi in tal senso ha carta bianca. Non ci sono veti, come hanno ripetuto tutti i leader dopo averlo incontrato e non ci sono paletti per le sue decisioni. Marzio Breda riferisce che in queste ore l'ex governatore della Bce sente con frequenza Sergio Mattarella. Sono colloqui informali, ricchi di consigli da parte del presidente della Repubblica, volti soprattutto a trovare una quadra per la squadra di governo. Le prime indicazioni sono in direzione di un governo misto tra politico e tecnico, che ricalchi le orme di quello messo in piedi da Carlo Azeglio Ciampi nel 1993. Il totoministri di queste ore pare indisponga il Colle e non è escluso che ci possano essere importanti conferme nell'esecutivo, soprattutto nei ministeri chiave nella lotta alla pandemia.

 Marzio Breda per il “Corriere della Sera” l'8 febbraio 2021. Resistenze, riserve, incompatibilità e ansie di esclusioni, con il terrore però di autoescludersi. C'è sorpresa, al Quirinale, per i tormentati umori politici emersi alla chiusura del primo giro di consultazioni di Mario Draghi. Vedere i partiti quasi unanimemente (tranne FdI, di Giorgia Meloni) concordi sul sostegno al premier incaricato, ma fra loro contrapposti e ansiosi di tagliare fuori dal perimetro della maggioranza qualche vecchio «nemico», è un esito che sconcerta Sergio Mattarella. Perché aveva chiesto «a tutti» un impegno diverso: dare la fiducia a «un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica». Ecco il punto. La guerra a mettere il proprio sigillo sull' esecutivo, alzando un veto su qualcun altro pronto alla coabitazione e obiettando che «se ci sono loro non possiamo starci noi», va contro i presupposti da cui il presidente della Repubblica ha maturato questa soluzione d' emergenza. Infatti, si ragiona sul Colle, stavolta non sono gioco le diverse famiglie politiche con le loro identità, ma l' Italia. E se non si spezza la catena degli interdetti e si minaccia magari di offrire a Draghi solo un appoggio esterno, si rischia di insidiare alla radice il suo tentativo. A far salire la tensione è stato Matteo Salvini, con il «sì convinto, privo di pregiudizi o nomi» della Lega. Una mossa che ha spiazzato il centrosinistra. Tuttavia sentimenti malmostosi serpeggiano pure nel centrodestra verso i 5 Stelle (già pronti a «lealtà totale») e tra i grillini verso altri potenziali partner, come Berlusconi e Renzi, tralasciando i leghisti. Sarà Draghi stesso, osservano gli intimi di Mattarella, a stemperare le tensioni con l' autorevolezza della sua proposta. Cioè con quel che si dice «la forza delle cose». Dopotutto non è forse un successo che, grazie a lui, le due prime formazioni politiche di questo Parlamento (5 Stelle e Lega) abbiano mutato opinione e si siano convertite all' ancoraggio europeo? Per il resto deciderà lui come gli parrà meglio, senza vincoli o preclusioni, senza un disegno precostituito e senza i citatissimi «paletti». Nessuno insomma, tantomeno al Quirinale, gli lega le mani anche se, certo, con il capo dello Stato Draghi si sente continuamente al telefono, per consigli che toccano i temi della squadra e della formula di governo. Chiarito che non avrà la natura di un esecutivo di coalizione, al momento sembra probabile che l' ex presidente della Bce opti per un mix tra tecnico e politico, su modello e con lo spirito) di quello che mise in piedi Carlo Azeglio Ciampi nel 1993. E, mentre imperversa un totoministri irritante per il Colle, non è escluso che, per garantire una continuità in alcuni dicasteri chiave nella pandemia (come quello della Salute) ci sia qualche conferma del gabinetto Conte 2. Alla fine, come gli ha raccomandato Mattarella e come Draghi ha ripetuto ai suoi interlocutori, l' importante è «risolvere tutti insieme i problemi che abbiamo davanti».

Giuseppe Marino per il Giornale il 7 febbraio 2021. Clemente Mastella signorilmente non gongola. Ma ammette che sì, la scelta di sua moglie di non salire sul carro dei «contiani» diretto verso l' irrilevanza «è stata giusta». I 15 minuti di notorietà evocati da Andy Warhol per i «volenterosi» del Senato sono stati quasi letterali: un quarto d' ora sotto i riflettori e poi i «costruttori» si sono trasformati in umarell. Si apprestavano a entrare da protagonisti nel cantiere del Conte Ter, si sono ritrovati a guardare i lavori del Draghi Uno da dietro la rete, come pensionati della politica. Sembra incredibile, ma sono passati appena otto giorni dalla sera in cui la senatrice Sandra Lonardo ha sorpreso con il suo gran rifiuto i nuovi compagni di avventura. Fiuto, fortuna, o la semplice constatazione che il nuovo gruppo di Palazzo madama, Europeisti-Maie-Centro democratico, aveva più nomi che componenti. «Si sono mossi troppo presto», spiega Mastella che di esperienza in materia ne ha da vendere. Per qualche ora è parso che il destino dell' Italia dipendesse da loro. Nomi semi sconosciuti si sono ritrovati sulle prime pagine dei giornali, con schiere di analisti pronti a scrutarne i gesti, a interpretarne le motivazioni, a giustificarne filosoficamente le ragioni. Altri finiti in secondo piano, hanno ritrovato centralità. Il comandante Gregorio De Falco che ha incitato a «salire a bordo, cazzo» e poi si è ritrovato alla deriva. O Renata Polverini che, dopo l' adesione al gruppo di Tabacci alla Camera, si aggirava instancabile a Palazzo Madama, in coppia fissa con l' altra transfuga di Forza Italia, Maria Rosaria Rossi, in cerca di senatori vacillanti. Da onnipresenti a sparite. A ogni allargamento della maggioranza, gli «Europeisti» perdono peso. Perfino lo statuario Andrea Causin, il senatore ex montiano che, dopo quattro cambi di casacca era approdato nel centrodestra. Contro di lui si era scatenato sul web il responsabile di Forza Italia in Veneto Michele Zuin: «Sei un gigante fisicamente...ma sei proprio un piccolo uomo». Ma ora prevale l' ironia. «L' anatema del presidente Berlusconi non si smentisce mai -scherza, ma non troppo, Giorgio Mulè- tradire Forza Italia non porta fortuna». C' è chi la prende con ironia, come il capo del Maie, l' italo-argentino Ricardo Merlo. «In aula ho detto che stava per nascere il governo Di Maie -racconta Maurizio Gasparri- e lui poi mi ha ringraziato, dicendo che sua moglie aveva molto apprezzato la battuta». Ma il destino più singolare è quello di Tatiana Rojc, la senatrice che il Pd ha dato «in prestito» per sostituire Sandra Lonardo in extremis e far nascere il gruppo. Il suo sacrificio le è valso anche il sarcasmo via web di Giorgio Gori: «Ma la povera @tatjana_rojc è rimasta ostaggio dei Costruttori per #Conte? Liberatela!». Costruttrice. Della sua prigione. 

Da video.corriere.it il 18 febbraio 2021. Sembra una scena già vista appena qualche settimana fa. La presidente del Senato, Elisabetta Casellati, dichiara chiuse le dichiarazioni di voto. Ma subito dopo le sue parole in Aula scoppiano brusii e risate e prende la parola Lello Ciampolillo, l'ex M5s ora nel Misto, diventato famoso per aver votato a favore dell'ultima fiducia al governo Conte in extremis. Ora Ciampolillo, nel primo voto di fiducia al governo Draghi, ci riprova e chiede di intervenire: «Lei non era iscritto a parlare», replica Casellati. «Ero iscritto, non mi sono prenotato all'ultimo».

L'intervento del senatore ex M5s. Ciampolillo dà spettacolo, di nuovo in ritardo al Senato: “Salvini pagliaccio, cannabis contro il covid”. Vito Califano su Il Riformista il 17 Febbraio 2021. Non doveva parlare, il senatore Lello Ciampolillo, come ha ricordato la Presidente del Senato Maria Alberti Casellati. E invece Ciampolillo – onorevole ex Movimento 5 Stelle, ora al Gruppo Misto, diventato famoso per il suo voto in extremis, rivisto al Var, a favore del governo Conte – ha insistito. Quando la Presidente aveva chiamato il voto sulla mozione – “lei non era iscritto a parlare, arriva sempre all’ultimo momento. Va bene, parli in dissenso però ogni volta …” – è arrivato il senatore no-xylella e pro-cannabis e ha quindi parlato. Prima di attaccare con il suo intervento, una stilettata al senatore e segretario della Lega Matteo Salvini che arrivando aveva ironizzato: “Noi ci siamo, la Lega c’è. Convintamente. Non vediamo il senatore Ciampolillo, ma tanto ha tempo per arrivare in Aula prima del fischio finale… Già è cambiato il mondo, rispetto alla compravendita dei senatori di un mese fa. È questo è già un suo storico merito, aver riportato la serietà in questa Aula e per questo la ringraziamo”. Proprio a Salvini Ciampolillo ha replicato senza mezzi termini. ”Caro Salvini, che credo non abbia mai lavorato in vita sua, continua ad offendere la mia persona. Mi ha offeso per aver votato Conte l’altra volta” e ora “cambia idee e giustifica il suo voto annunciando la mia fine. Denuncio questa becera e violenta campagna di odio di questa specie di politico da strapazzo, un pagliaccio, nei miei confronti”. Casellati ha invitato Ciampolillo a moderare i termini. Il senatore ha quindi fatto il suo intervento, citato la cannabis terapeutica come cura per il coronavirus, come già aveva fatto in passato. Altra battaglia, nella carriera politica dell’onorevole pugliese, quella contro l’abbattimento degli ulivi malati di Xylella. Ciampolillo ha quindi annunciato il suo “no” al governo Draghi come i senatori del M5s Mattia Crucioli, Bianca Laura Granato, Luisa Angrisani, Elio Lanutti, Virginia La Mura, Fabio Di Micco e gli ex 5 stelle Luigi Paragone (Misto), Michele Giarrusso (Misto), Lello Ciampolillo (Misto), Paola Nugnes ed Elena Fattori (Leu). L’ex M5s Tiziana Carmela Rosaria Drago (Misto) ha invece annunciato l’astensione dal voto. Una trentina quindi, con quelli di Fratelli d’Italia, i voti contrari annunciati.

La figuraccia e il triste destino dei voltagabbana: che fine hanno fatto Ciampolillo e i Responsabili? Alberto Consoli lunedì 8 Febbraio 2021 su Il Secolo D'Italia. Che fine ha fatto Ciampolillo? Bella domanda. Già, che fine hanno fatto i costruttori, i responsabili che dir si voglia? Per settimane si è parlato di loro come di “pilastri” delle istituzioni, riserva preziosa per salvare l’ex premier Conte e l’Italia, i traghettatori verso il Conte ter. E ora ? Che figura barbina. Sui social va in rete l’irrisione. Con l’avvento di Mario Draghi sono stati spazzati via. Ora nessuno più li nomina, niente più titoloni né interviste a questi novelli padri della Patria. Sono durati lo spazio di un mattino, giusto il tempo di una figuraccia inutile. Si occupa di loro e li strapazza bene bene Alessandro Giuli su Libero. “L’irruzione di Mario Draghi con il suo incarico presidenziale, ha seppellito nel retrobottega dell’inutilità l’intero manipolo di voltagabbana”, scrive l’editorialista. “Effigiati come una figura retorica dall’ex grillino Lello Ciampolillo, il senatore che sconfiggerebbe il Covid con la dieta vegana, hanno vissuto i loro giorni di celebrità autoproclamandosi “Costruttori”; e immaginando per sé un ruolo salvifico da ricompensare con le più alte onorificenze”. Ciampolillo è un po’ il portabandiera di questa ineffabile schiera, che pure ha avuto persino degli estimatori. Giuli si diverte con la sua penna acuminata a descrivere il loro “regista” Bruno Tabacci, “il più sveglio della banda e non per caso l’unico destinato a sopravvivere all’impresa squinternata”. Poi passa in rassegna i vari Responsabili  “raggrumati da diverse latitudini con la medesima volontà di trasformare lo spettro delle elezioni anticipate nell’occasione di una carriera fulminea”. A scanso di equivoci Giuli rende giustizia a Sandra Lonardo, lady Mastella, “che ha compreso prima di altri la mala parata e si è dissolta con tempismo”. Guarda invece alla ex berlusconiana di ferro  Maria Rosaria Rossi o Luigi Vitali, Andrea Causin o Riccardo Nencini. Naturalmente a  Renata Polverini e a lui:  Ciampolillo. Il suo nome richiamato più volte nell’aula del Senato per il voto dato in extremis a Conte, resterà indelebile nel sebnso più ridicolo del termine. Ognuno di loro – leggiamo –  “ha immaginato di regolare conti pregressi con il proprio passato (…); di sfangare la legislatura ritagliandosi un percorso nomadico sempre premiante”, scrive Giuli rievocando la parabola di Causin, che ha circumnavigato l’Aula, passando dal Pd a Forza Italia e infine ai centristi per Conte. C’è chi ha cercato di salvare “capra e cavoli”, come si dice in modo ruvido ma efficace: è il caso del socialista Nencini. Che ha cercato di “tornare al vecchio ovile senza abbandonare del tutto il nuovo”, ricorda nell’articolo: “ha votato la fiducia a Conte accanto al Pd senza rompere con Italia Viva, di cui è socio contraente con tanto di simbolo”. Il filo conduttore di questo ventaglio di posizioni era perpetuare le rendite di posizione, dal Maie ai rappresentanti delle minoranze linguistiche: “ovvero gli eterni sostenitori di una maggioranza purchessia”. Come dimenticare il caso di Vitali, “traditore per una notte recuperato in extremis da una telefonata del Cavaliere”. C’era di tutto in questa schiera: l’antirenzismo, la promessa di qualche ricompensa nell’ipotetico Conte ter, e poi la cosiddetta “lista Conte”, apice del progetto politico  trasformista. Adesso che i riflettori non li illuminano più  di loro resta ben poco. E di quel poco, come chiosa implacabilmente Giuli, non c’è certo di che andare fieri. “Mancò la fortuna, non il disonore. Ma a ben vedere, sia pure loro malgrado, nel piccolo pascolo trasformista resta intatta una non trascurabile greppia consolatoria: quei circa 350mila euro di stipendio ancora da intascare da qui a fine legislatura. Non tutte le sfortune riescono col buco”.

Alessandro Giuli per “Libero quotidiano” l'8 febbraio 2021. I Responsabili? Ma chi se li ricorda più? Tempo una settimana e il paesaggio della politica italiana, ribaltato dall'irruzione di Mario Draghi con il suo incarico presidenziale, ha seppellito nel retrobottega dell'inutilità l'intero manipolo di voltagabbana dal quale aveva cercato di attingere Giuseppe Conte per tenere in piedi il simulacro della sua maggioranza allo sbando. Effigiati come una figura retorica dall'ex grillino Lello Ciampolillo, il senatore che sconfiggerebbe il Covid con la dieta vegana, hanno vissuto i loro giorni di celebrità autoproclamandosi "Costruttori" e immaginando per sé un ruolo salvifico da ricompensare con le più alte onorificenze. Guidati idealmente dal centrista Bruno Tabacci, il più sveglio della banda e non per caso l'unico destinato a sopravvivere all' impresa squinternata, i Responsabili si erano raggrumati da diverse latitudini con la medesima volontà di trasformare lo spettro delle elezioni anticipate nell' occasione di una carriera fulminea. E qui non ci riferiamo tanto all'ex berlusconiana Sandra Lonardo, dama di mondo e moglie dell'intramontabile Clemente Mastella, la quale ha compreso prima di altri la mala parata e si è dissolta con tempismo. Guardiamo piuttosto alle figure di Maria Rosaria Rossi o Luigi Vitali, Andrea Causin o Riccardo Nencini, all'ex camerata Renata Polverini e ovviamente all'ineffabile Ciampolillo. Ciascuno di loro ha immaginato di regolare conti pregressi con il proprio passato (la Rossi con il suo "ex badato" Silvio Berlusconi); di sfangare la legislatura ritagliandosi un percorso nomadico sempre premiante (Causin passato dal Pd a Forza Italia e infine ai centristi per Conte); di tornare al vecchio ovile senza abbandonare del tutto il nuovo (il socialista Nencini che ha votato la fiducia a Conte accanto al Pd senza rompere con Italia Viva di cui è socio contraente con tanto di simbolo). Il comune denominatore di queste scelte è ovviamente l'agiata sopravvivenza dei protagonisti che si sono allineati alla ragione sociale governista espressa subito dal Movimento Associativo Italiani all'Estero (Maie) e dai rappresentanti delle minoranze linguistiche, ovvero gli eterni sostenitori di una maggioranza purchessia. Nel caso di Vitali, traditore per una notte recuperato in extremis da una telefonata del Cavaliere, s'indovinava la caratteristica compresenza dello stato confusionale e di un tariffario (metafora) disponibile alla migliore offerta fino all'ultimo istante. Non che mancassero aspirazioni più alte dello status quo: è verosimile che più d'un responsabile conservi ancora ben riposto nell'armadio l' abito buono per un giuramento da sottosegretario nell'abortito Conte ter. Dopotutto l'operazione, nelle premesse dell' ex premier e di Tabacci e dei Mastella, oltre a neutralizzare il ribellismo di Matteo Renzi doveva preludere a un ambizioso progetto di lunga gittata: la cosiddetta "lista Conte", punto d'arrivo del raggruppamento parlamentare trasformista. Ma ecco che, a distanza di così pochi giorni, il nucleo di questo nuovo partito personale incoraggiato da sondaggi benevoli si è rivelato l'ennesimo soggetto smarrito della politica italiana. Poteva forse essere la polizza d'assicurazione sul futuro dell'avvocato di Volturara Appula nelle trattative con i Cinque Stelle e il Pd, ma alla fine lui ha preferito obbedire al richiamo all'ordine di Beppe Grillo e si è riunito al gregge di Luigi Di Maio. E adesso? Sparite le telecamere, usciti dal cono di luce mediatico che ne illuminava i sorrisi enigmatici e ne scandagliava più o meno improbabili curricula, dei Responsabili non resta che il rarefatto ricordo, come il bagliore di un sogno interrotto nel dormiveglia. Mancò la fortuna, non il disonore. Ma a ben vedere, sia pure loro malgrado, nel piccolo pascolo trasformista resta intatta una non trascurabile greppia consolatoria: quei circa 350mila euro di stipendio ancora da intascare da qui a fine legislatura. Non tutte le sfortune riescono col buco.

Da liberoquotidiano.it il 12 febbraio 2021. Fallito il Conte ter voteranno sì al governo Draghi, ma poi non si conosce ancora bene il loro futuro politico. Sono  gli Europeisti, il gruppo di dieci responsabili pro-Giuseppe Conte creato in brevissimo tempo attorno a due componenti politiche del Misto, il Maie di Ricardo Merlo-Raffaele Fantetti, il Centro democratico dell’ex pentastellato Gregorio De Falco, nome preso in prestito dall’omonimo della Camera, che fa capo al deputato Bruno Tabacci, e rinforzato con due transfughi da Forza Italia come Maria Rosaria Rossi e Andrea Causin. Dicono di avere un progetto politico di stampo moderato liberale ed europeista e che potranno tornare utili anche a SuperMario, visto che mettono al centro proprio i valori dell’Europa. Ma Draghi si appresta ad avere una maggioranza così ampia sia alla Camera e, soprattutto, al Senato dove si trovano gli Europeisti, che può fare benissimo a meno di loro. Loro però si sono sistemati a Palazzo Madama e, come tutte le forze politiche rappresentate al Senato, hanno diritto a 90 metri quadrati, tra Palazzo Madama, palazzo Giustiniani e palazzo Cenci. In più i responsabilì di Conte hanno una loro "consistenza economica: ognuno di loro vale circa 59mila euro, che moltiplicato per dieci arriva a un totale di 590mila euro che corrispondono al cosiddetto contributo annuale che spetta a ogni gruppo parlamentare", scrive l'AdnKronos. Infatti ogni senatore che aderisce a un gruppo vale 59mila euro, mentre alla Camera ogni deputato viene valutato meno, quasi 49mila euro l’anno. Una somma che diventa la metà con l’iscrizione a al gruppo Misto (circa 24mila euro). La settimana scorsa proprio il gruppo del Maie era stato ricevuto da Draghi per le consultazioni: "Mi sono portato dietro Mariarosaria e De Bonis perché alle consultazioni non avevano mai partecipato. Mi creda: è un’esperienza incredibile", aveva detto Riccardo Merlo al Corriere della Sera.

(ANSA il 20 maggio 2021) - ROMA, 20 MAG - Renata Polverini torna in Forza Italia da cui era uscita il 21 gennaio scorso per aderire al gruppo Centro democratico-italiani in Europa (poi abbandonato il 25 febbraio per restare al misto). L'annuncio lo dà su Twitter Roberto Occhiuto, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati.; "Renata Polverini da oggi torna a far parte del gruppo di Forza Italia alla Camera e del nostro partito. Riabbracciamo un'amica e una collega di grande valore ed esperienza. Siamo pronti ad affrontare le nuove sfide con una freccia in più al nostro arco. Bentornata Renata", conclude. (ANSA).

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 13 febbraio 2021. Ricordati che Polverini sei e Polverini ritornerai. Biblicamente, da ora in poi - fatto fuori Conte e con Draghi dio onnipotente ed eterno - per Renata Polverini e gli altri "responsabili", le animelle perdute del Parlamento, sarà un eterno mercoledì delle Ceneri. Tornati alla nuda terra, recita la Genesi; e condannati «alla fatica del lavoro e alla morte (politica)», invece che a un posto da sottosegretario. Esiliatasi, dopo anni di comizi fascistosi, dal Giardino dell' Eden del centrodestra per transumare con sofferenza nella componente del Centro Democratico-Italiani in Europa, Polverini è diventata il simbolo di quanto il cattivo tempismo, in politica, possa dimostrarsi impietoso. Sempre con quel suo volto arcigno da indiano Navajo della Garbatella, sempre con quella astuzia politica spacciata per estremo sacrificio patriottico, l' ex governatrice del Lazio, in queste ore, sta mordendosi le mani. Anche perché ha preso una sequela di sberle che neanche Gianni, l' incassatore dei Brutos. Aveva lasciato il centrodestra per sostenere il governo Conte e probabilmente assicurarsi una futura candidatura nel paventato partito "del 26%" dell' ex Presidente del Consiglio; e ora non c' è più Conte, figuriamoci il partito di Conte. Aveva voltato le spalle al Berlusca che la sottrasse più volte all' oblio; e invece ora, non solo si ritrova Silvio davanti ma anche Salvini didietro (ed entrambi hanno, per i tradimenti, la memoria del cardinal Mazarino), entrambi alleati in un esecutivo che mai lei avrebbe immaginato. Si era spinta, sotto l' egida di Forza Italia, verso un progetto politico tutto suo, con simbolo paraculissimo, un cerchio rosso pennellato di tricolore, e uno slogan "Con te", che, col senno di poi, letto tutt' attaccato, ne avrebbe disvelato il vero destino: ottenere almeno un posto di sottogoverno nel Conte-ter. Ma andrà già bene se adesso la destineranno al sottoscala. Aveva giustificato, Renata, l' atto eversivo di iscriversi al Misto componente "democratica" di Tabacci (proprio lei che teneva i comizi davanti a militi di Casa Pound e camerati di varia foggia) come «un atto di responsabilità» contro i deliri di Renzi. E si è ritrovata con l' uomo di Rignano vincitore assoluto, che in ogni occasione mediatica non perde occasione di trattarla come una colf senza permesso di soggiorno. Aveva guardato dall' alto in basso Sandra Lonardo in Mastella - altra "responsabile" ma con la vista immensamente più lunga - che si era sfilata dalla sgangherata banda dei "costruttori" appena era apparsa chiara la loro immensa confusione in tema di giustizia. E ora la Lonardo, rispetto a Renata e a quella comitiva raccogliticcia e priva del senso della semantica, appare una statista con la coerenza di Giovanna D' Arco. Polverini non va neanche più in tv, che era la sua forza. Perché se proprio urge rappresentare il partito dell' atomo, be', al limite invitano il frontman, quel vecchio volpone di Bruno Tabacci il quale almeno in materia economica ne sa di molto. In queste ore, suggerisce il collega Fabrizio Roncone sul Corriere della sera, Polverini, prima avvezza a fare l' allegrona davanti ai cronisti è scomparsa dal radar ritrovandosi probabilmente con l'amica Maria Rosaria Rossi ex "badante" di Silvio a sospirare sui vecchi tempi in cui respiravano potere. C' è da dire che Polverini non è sola. I dieci senatori superflui che per una settimana s' erano illusi di poter mettere in scacco l' intero Parlamento tornano ad essere pallide figure. Passano il funambolo Causin e il maestro di galleggiamento nautico De Falco. E fa quasi tenerezza osservare Ricardo Antonio Merlo presidente del Maie mentre balbetta la sua stizza nel «vedere che il 90% del Parlamento italiano è diventato europeista e costruttore»; e mentre invoca, senza particolare convinzione, «una politica vera per gli italiani all' estero» da parte di Draghi. E via via tutti gli altri. Polverini siete e Polverini ritornerete

I responsabili: ininfluenti ma benestanti. I vantaggi di avere un gruppo, anche se non contano più. Giovanna Casadio su La Repubblica il 12 febbraio 2021. Ricardo Merlo, l’italo argentino del Maie: "In questa nuova maggioranza credo che nessuno sia centrale”. Non vogliono neppure sentirsi dire che sono "orfani" di Conte. I furono "responsabili" si affacciano a nuova vita sostenendo il governo Draghi. Sanno bene che la missione per la quale erano nati - ovvero la sopravvivenza della maggioranza giallo- rossa a sostegno del governo Conte 2, in barba allo strappo di Renzi - è fallita. E loro, riuniti nel gruppo di 10 senatori con il nome di Europeisti-Maie. Centro democratico, da indispensabili sono diventati ininfluenti. "Eravamo centrali? Sì, ma in questa nuova maggioranza credo che nessuno sia centrale", risponde Ricardo Merlo, l'italo argentino del Maie, che dell'operazione responsabili è stato una delle anime. Merlo è sottosegretario agli Esteri. Lo è stato sia con i gialloverdi, quando ministro era Enzo Moavero, che con il grillino Luigi Di Maio. Punta a restare alla Farnesina? "Il momento è così grave per il Paese che non sono queste le cose a  cui pensare". Tuttavia i senatori responsabili in un sottosegretariato sperano. Durante la crisi del Conte 2 erano accreditati per un ministero. Adesso proprio a mani vuote non sono rimasti. Perché il gruppo che è nato a Palazzo Madama - anche con l'aiuto del Pd che ha "ceduto" una sua senatrice Tatiana Rojc perché arrivassero al numero minimo indispensabile, appunto di dieci  - potrà godere di alcuni vantaggi. Innanzitutto siedono in conferenza dei capigruppo, e quindi decidono il calendario dell'aula. Hanno a disposizione 90 metri quadrati di uffici, che dovevano scegliere tra Palazzo Madama, Palazzo Giustiniani e Palazzo Cenci. Si trasferiranno a Palazzo Cenci, così da avere una organizzazione tutta per sé con ufficio legislativo e ufficio stampa. A questo punto hanno anche un loro budget a disposizione, che non è aggiuntivo rispetto al passato, solo che è a loro esclusiva disposizione, pari a 590 mila euro. Ogni senatore porta in dote infatti al gruppo di appartenenza 59 mila euro, che moltiplicato dieci, fa circa 600 mila. Altri vantaggi sono i tempi a disposizione in aula per i gruppi parlamentari, diversamente a quanto accade se si è nel Misto. Quindi ininfluenti, ma benestanti. Il tesoriere, l'ex grillino Maurizio Buccarella spiega che "era necessario provarci" e fare un gruppo di responsabili. Poi è andata come è andata, il progetto di allargamento dei giallo-rossi è finito in un buco nell'acqua. "Però l'idea di un'Europa federalista è l'orizzonte in cui ci muoveremo". Per ora il gruppo resiste. Tatiana Rojc, pur ammettendo di avere "il cuore nel Pd", non lascia i nuovi compagni. Senza di lei, il gruppo Europeisti-Maie-Cd naufragherebbe. Gregorio De Falco - il comandante che redarguì il capitano Schettino a non abbandonare la nave Concordia e che è stato eletto con i 5Stelle - ancora più convintamente vuole proseguire la navigazione con i responsabili. "Non siamo stati i figli di Conte, quindi non ne siamo gli orfani. La nostra sommessa non può essere derubricata a gossip: ci rendiamo conto dei morti, di cosa sta comportando la pandemia?" Con i corrispettivi responsabili della Camera si raccordano, certo. De Falco del resto ha chiesto a Bruno Tabacci di potere usare il nome del Centro democratico. Certo la sfida politica a questo punto è tutta da rivedere.  Maria Rosaria Rossi, la berlusconiana che ha accudito per anni con devozione Silvio Berlusconi, e poi è passata con i senatori responsabili lasciando Forza Italia, ne discute di certo con l'altra forzista Renata Polverini che a Montecitorio per prima ha fatto lo stesso percorso. Renata Polverini, ex presidente della Regione Lazio, ex sindacalista della destra sociale, scommette in positivo: "Non sappiamo cosa farà Conte, ma noi non ci fermiamo".

Giuseppe Alberto Falci per il "Corriere della Sera" il 25 marzo 2021. Indispensabili per salvare il governo Conte e ora irrilevanti nell'esecutivo di Mario Draghi. C'erano una volta gli «Europeisti-Maie-Centro democratico», i responsabili ai tempi dell'ultimo scorcio del secondo esecutivo dell'avvocato del popolo. Nel pieno della crisi politica di gennaio arrivano a essere dieci, numero minimo per poter costituire un gruppo parlamentare a Palazzo Madama. Ci sono gli ex grillini Saverio De Bonis, Maurizio Bucarella, Gregorio De Falco, Gianni Marilotti; gli eletti all'estero Ricardo Merlo, Raffaele Fantetti e Adriano Cario. Completano la lista la (ex) democrat Tatjana Rojc, il forzista Andrea Causin e la berlusconiana Mariarosaria Rossi. Un gruppo eterogeneo ma centrale. E ora, che fine hanno fatto? La senatrice Rossi ha aderito al movimento di Giovanni Toti, Cambiamo. Eppure l'ex assistente del Cavaliere risulta ancora iscritta nel gruppo degli Europeisti. «Come d'accordo con loro - spiega Rossi - passerò nella componente Cambiamo la settimana successiva alle festività pasquali». E lo stesso farà la senatrice Rojc che ha deciso di tornare nel Pd: «Ho detto ai colleghi che lascerò il gruppo dopo Pasqua». La ragione di questo rallentamento sta tutta nei regolamenti del Senato. Senza Rossi e Rojc gli Europeisti non esisterebbe più. Lo sa bene il vicecapogruppo De Bonis che si serve di una metafora: «Nelle partite di calcio quando qualcuno si fa male entrano le riserve». Tradotto, gli europeisti per Conte pur di non scomparire stanno provando a reclutare nuovi senatori. «Diversi sono pronti a entrare» giura De Bonis. Ne servirebbero due. Ma il tempo stringe.

Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 12 febbraio 2021. I «responsabili», santo cielo. Ma che fine hanno fatto? Ciampolillo è diventato un modo di dire. «Sembri Ciampolillo». «No, dai, manco Ciampolillo». «Ciampolillo: e ci siamo capiti». Alfonso Ciampolillo, uno dei tanti senatori che si aggirano nei corridoi di Palazzo Madama come dentro una fermata della metropolitana. Qualche sciocchezza (voleva curare gli ulivi pugliesi attaccati dalla Xylella facendogli lo shampoo), una chiacchiera con i colleghi del Gruppo Misto (espulso dal M5S perché non versava i soldi alla piattaforma Rousseau), un caffè alla buvette. La sera del 19 gennaio, alle 22.23, Ciampo diventa però improvvisamente famoso: è lui quello arrivato in scivolata nell'ultimo voto di fiducia al governo Conte II. La presidente Casellati è persino costretta a far intervenire la Var. Ciampo, l'aria compiaciuta, spiega che ha votato a favore del governo traballante in cambio della promessa che anche Conte, come lui, diventerà vegano. Fingiamo di credergli. Il mattino seguente aprono il mercato. Scene disgustose. Cercano almeno una ventina di tipetti alla Razzi e Scilipoti (devono sostituire i senatori di Italia viva che Matteo Renzi ha ritirato dalla maggioranza). Sono talmente disperati che vanno da Paola Binetti e le offrono, addirittura, un ministero. «Pensaci, Paolina: il dicastero della Famiglia tutto per te». Sottovalutano che è una donna di rango, una neuropsichiatra, e soprattutto che vive in un centro dell'Opus Dei: quindi conosce la tentazione, e sa perfettamente come non caderci dentro. Altri ci cascano. Ci sono cascati. E hanno fondato un accrocco: Europeisti-Maie-Centro democratico. Sono la formazione più piccola e, perciò, sono sempre i primi, nel doppio giro di consultazioni, a presentarsi al cospetto di Mario Draghi. Nessuno saprà mai cosa ha pensato il presidente incaricato quando si è trovato davanti la loro delegazione. A destra, l'ex grillino Gregorio De Falco, il comandante della Capitaneria del porto di Livorno che Schettino sogna tutte le notti; a sinistra, Andrea Causin, un galantuomo della politica (ha cominciato nel Pd, poi una capriola dietro l'altra: Italia Futura, Scelta civica, Forza Italia); e al centro lui, il capo, Ricardo Merlo da Buenos Aires: riporto dei capelli a destra, 58 anni, l'accento di don Diego de la Vega/Zorro nella serie tv anni Settanta, una scorza di cortesia caramellosa e l'aria furbetta che però, forse, è proprio solo un'aria. «Siamo/ il nuovo/ partito/ di Conte!»: in falsetto, con malcelato entusiasmo, la frase cult. Davanti a Draghi, opportunamente, ha usato toni meno enfatici. Del resto lo vediamo tutti Giuseppe Conte, la voce sempre più sottile, le occhiaie, le mani in tasca, che gira un po' a vuoto. Non lo vogliono i grillini, non lo vogliono quelli del Pd a Siena, e insomma non si sa se scateni più tenerezza politica lui o questi qui che s' erano immaginati chissaché mettendosi al suo seguito. Per dire: resta un mistero assoluto cos' abbia spinto Mariarosaria Rossi da Arcore - nota per aver accudito con discrezione e affetto lo Zio Silvio quand'era ancora il tempo spensierato dei bunga bunga - ad abbandonare FI nel volgere di una notte per accodarsi a questa comitiva così avventata, scombiccherata, visionaria. Eccola laggiù, la senatrice Rossi. Senatrice, permette? Ma no, niente, nemmeno un sospiro. Incassa le spalle e allunga il passo. Probabilmente - racconta uno di quei faccendieri che battono i vicoli intorno a Montecitorio e che sanno tutto, hanno visto tutto - probabilmente raggiunge Renata Polverini, un'altra diventata improvvisamente responsabile democratica, dopo anni trascorsi dentro FI e molti comizi, quand'era governatrice del Lazio, con un pubblico destrorso e anzi certe volte proprio di camerati, perché quelli di CasaPound ci tengono ad essere chiamati camerati, fasci, sempre con le loro teste pelate, vestiti di nero e il braccio teso nel saluto romano. Draghi ha dovuto sorbirsi il senatore Merlo che, a nome di Polverini, Rossi, Causin, De Falco e qualche altro parlamentare, chiedeva «una giusta continuità delle politiche per gli italiani all'estero anche nell'attività del nuovo governo». Ma davvero questi ci tengono così tanto agli italiani all'estero? Polverini e Rossi hanno di botto a cuore le sorti degli italiani di Brooklyn? Una sera, la senatrice Sandra Lonardo, moglie di quella leggenda che è Clemente Mastella, trova i «responsabili» tutti riuniti in una stanza del Senato. Vogliono farle firmare una cartuccella con cui lei e suo marito, i Mastellas, aderiscono al pattuglione. Ma a Donna Sandra sono sufficienti certi sguardi, certi ghigni. «Voi vorreste fare fessi a noi?»: poi si volta e se ne va. Gli altri sono rimasti e adesso stanno qui, confusi e ancora un po' emozionati, a raccontarsi com' era Mario Draghi visto da vicino.

Dagonews il 17 marzo 2021. Gli aficionados alla soap di Arcore si chiedono come mai Maria Rosaria Rossi, dopo un breve camouflage da "responsabile", sia approdata alla striminzita camarilla che fa capo a Giovanni Toti. Come la popputissima Rossi ha rivelato in un'intervista al "Fatto quotidiano", è stata Marina Berlusconi a disarcionarla, dopo che Francesca Pascale ha tolto le tende dal lettone del Cav. Ma lei - la fu "badante" - quando ha capito che il Conte-ter sarebbe naufragato prima ancora di nascere, ha chiamato Berlusconi per chiedergli di tornare in Forza Italia. Sua Emittenza - vista l'opposizione di Marina - ha dovuto respingere la proposta ma ha indicato il partitino di Toti come ideale "parcheggio". Un risciacquo che potrebbe essere propedeutico a un riavvicinamento. Considerando i segreti di cui è custode, meglio avere Maria Rosaria Rossi più vicina possibile…Checché ne dica Marina...

Mariarosaria Rossi, "chi mi ha fatto cacciare da Forza Italia". Fango sul "Fatto", nomi e cognomi: un terremoto. Libero Quotidiano il 16 marzo 2021. Da Maria Rosaria Rossi una valanga di fango su Forza Italia. Firmata, ovviamente, Fatto quotidiano. Il giornale diretto da Marco Travaglio si tuffa a pesce sulla rottura tra Silvio Berlusconi e la sua ex segretaria personale, senatrice azzurra che ha rotto clamorosamente col partito alla vigilia del voto di fiducia al governo Conte bis. La Rossi passò ai responsabili, i "costruttori", venendo espulsa da Forza Italia a tempo di record. Ora, rimasta senza orizzonte politico, si è avvicinata a Giovanni Toti, suo ex compagno di partito e oggi leader di Cambiamo. "Da anni mi chiamano "badante", ma vista l'accezione negativa data dai giornalisti, a offendersi dovrebbe essere la categoria stessa", spiega la Rossi. Ironia della sorte, è stato proprio Travaglio a sdoganare l'espressione, "badante del Cav", e a usarla a ogni pie' sospinto. Al Fatto, ribatte alle accuse mossele dagli azzurri: "Se dono diventata contiana? È quello che hanno sostenuto coloro che non vedevano l'ora di cacciarmi, screditarmi e farmi passare da traditrice. Gli stessi che pur di fare la pelle a Conte avrebbero messo il Paese in pericolo andando a votare con la terza ondata in corso". Dopo una scalata continua nel partito iniziata nel 1994, accusa la senatrice, "la mia utilità è venuta meno così come le mie cariche". "Giusto. per un principio di rinnovamento", mette in chiaro lei, facendo buon viso a cattivo gioco. Ma poi conferma le (delicatissime e velenosissime) indiscrezioni sul motivo del suo siluramento: "Dicono sia stata opera di Marina Berlusconi", suggerisce l'intervistatore. "Risulta anche a me". L'accusa, pare, è che non si sia accorta dei problemi cardiaci dell'ex premier. "Ho svolto tanti incarichi al suo fianco ma non quello di cardiologo, non sono un medico - replica lei, con una punta di sarcasmo -. Di medici il presidente ne ha abbastanza, e lo seguono h24". La rottura con Forza Italia però non va considerata un fulmine a ciel sereno: "Da quando è scoppiata la pandemia ho sempre espresso al presidente la mia posizione, quella di una opposizione responsabile". Restano i rapporti personali con Berlusconi, che non sente da quando è stata cacciata: "Impossibile litigare con lui, alla fine ho solo anticipato i tempi". E restano, a sorpresa, anche quelli tra Francesca Pascale, ex compagna del Cav, e Silvio: "Certi sentimenti nascono per non finire mai. Non credo torneranno insieme, ma non smetteranno mai di cercarsi e di volersi bene".

Estratto dell'articolo di Alessandro Ferrucci per “il Fatto Quotidiano” il 16 marzo 2021.

Il potere lo conosce da molto vicino. "Quando ero ai vertici di Forza Italia la richiesta ricorrente era quella di incontrare Berlusconi, addirittura mi fermavano per strada per avere un contatto con lui". […] Il 19 gennaio ha […] ha votato sì alla fiducia al governo Conte. Per questo è stata cacciata.

Dal 19 stesso resta il mistero di questa sua decisione.

[…] Ero e sono convinta che […] le energie dovevano concentrarsi sulla pandemia e a come uscirne al più presto.

Invece è stata espulsa.

Esattamente 5 minuti dopo il voto […] Antonio Tajani, ha preso questa decisione.

È diventata contiana.

È quello che hanno sostenuto coloro che non vedevano l'ora di cacciarmi, screditarmi e farmi passare da traditrice. […] In Forza Italia non era una qualunque. […] poi la mia utilità è venuta meno così come le mie cariche.

[…] Il suo ridimensionamento dicono sia stata opera di Marina Berlusconi.

Risulta anche a me. 

L'accusa: non si è accorta del problema al cuore di Berlusconi.

Ho svolto tanti incarichi al suo fianco ma non quello di cardiologo, non sono un medico. Di medici il presidente ne ha abbastanza, e lo seguono h24 .

[…] La Pascale la sente?

Tanto vuole solo sapere dei rapporti tra Francesca e il presidente […] Certi sentimenti nascono per non finire mai […] non smetteranno mai di cercarsi e di volersi bene.

[…] È una portatrice di segreti.

Non è vero.

Impossibile.

C'è una riservatezza in ognuno di noi. […]

Andrea Cionci per “Libero quotidiano” l'8 febbraio 2021. Lo spettro di Badoglio torna a far sentire la sua voce: non è una metafora per commentare l' attuale situazione politica, con "costruttori" e "responsabili" che cambiano disinvoltamente casacca, ma la cronaca dell' effettivo ritrovamento - ad opera di chi scrive - di un documento storico di cui si erano perse le tracce da 77 anni e che vi proponiamo in esclusiva. È il disco originale sul quale il Maresciallo d' Italia Pietro Badoglio, dal 25 luglio '43 capo del governo (dopo la deposizione - e l' arresto con l' inganno - di Mussolini) incise il famoso Proclama dell' Armistizio diffuso via radio l' 8 settembre. Per la precisione, si tratta di un "Decelith", il vinile autarchico del Terzo Reich - una tecnologia appena precedente al nastro magnetico, che consentiva di incidere il sonoro su un supporto pronta-resa. Il proprietario è l' architetto Roberto Cottini, nipote di Gino Orsini, all' epoca importante funzionario dell' EIAR che, nel dopoguerra, diverrà anche direttore tecnico RAI. La testimonianza di Orsini anticipa l' operazione di un giorno rispetto alla storiografia ufficiale. «Mio zio ci raccontava - spiega Cottini - che la mattina del 7 settembre '43, Badoglio si presentò alla sede Eiar, in Via del Babuino 9, accompagnato dalla scorta. Fece uscire tutti chiedendo a mio zio e a un tecnico del suono di registrare un messaggio. Una volta inciso il disco, Badoglio ordinò di trasmetterlo in radio solo quando sarebbe stato al sicuro e dietro precisa comunicazione. Così andò: l' 8 settembre mattina mio zio ricevette una telefonata - forse dallo stesso Badoglio - che diceva qualcosa come "lei sa cosa fare" e la sera il proclama fu diffuso dalla radio, una volta ogni quarto d' ora». Il proclama fu registrato in anticipo per dare tempo al corteo reale di fuggire a Pescara e da lì a Brindisi. Badoglio, addirittura, precedette il Re senza avvertirlo.

Il parere. Abbiamo sottoposto il Decelith ai tecnici della Discoteca di Stato di Roma che, con grande disponibilità, lo hanno riversato in digitale. Appena posata la puntina sul disco, siamo stati tutti proiettati in quei giorni convulsi: «Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell' intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza". La voce è chiara, si percepisce un vago accento del Monferrato e l' incerta pronuncia inglese: "Aisenover". La resa incondizionata agli Alleati era stata firmata già il 3 settembre a Cassibile (ancor oggi l' anniversario viene incredibilmente festeggiato nella cittadina, persino con spontanee partecipazioni di mafiosi inneggianti a Lucky Luciano). Nonostante l' armistizio, dato che Badoglio tergiversava nel divulgarlo, gli Alleati, forse anche come "sollecito", bombardarono indiscriminatamente Frascati, quartier generale di Kesselring, uccidendo oltre 600 civili italiani. La sera, alle 18.00, l' emittente alleata Radio Algeri, annunciò l' armistizio con l' Italia che venne subito intercettato dai tedeschi. Alle 19.42 anche l' Eiar diffuse il comunicato di Badoglio. Sono le ultime dieci parole del proclama ad agghiacciare per la loro tragica ambiguità. Spiega lo storico Marco Patricelli, già autore di Settembre 1943 - i giorni della vergogna (Laterza): «L' ipocrisia della formula sugli "eventuali attacchi da altra provenienza" paralizzò le nostre Forze Armate, privandole di qualsiasi iniziativa. Il piano segretissimo OP 44, stilato pochi giorni prima per prendere le armi contro la Germania, non ricevette l' ordine esecutivo: Badoglio si illudeva che i tedeschi avrebbero semplicemente lasciato l' Italia e ne aveva una gran paura, tanto che a Crecchio disse, guardando meditabondo gli alberi: "Chissà a quale di questi ci impiccheranno". Quanto alla registrazione del proclama il giorno 7, è plausibile, dato che Badoglio si aspettava la pubblicazione dell' Armistizio, condivisa con gli Alleati, per il 12. Il Gen.Castellano, che non parlava inglese, a Cassibile aveva infatti equivocato. Il 13 ottobre 1943, il definitivo passaggio al nemico verrà comunicato con una dichiarazione di guerra alla Germania lasciata nella portineria dell' Ambasciata tedesca a Madrid, ma non avrebbe avuto alcun effetto giuridico, poiché il Regno del Sud non era riconosciuto da nessuno. L' Italia, infatti, a febbraio del '47 venne trattata solo ed esclusivamente da paese sconfitto. Un completo disastro».

Caporetto. Del resto Badoglio non è mai stato un personaggio limpido. Già nella Grande Guerra era stato corresponsabile della ritirata di Caporetto mancando di difendere con l' artiglieria il tratto di fronte a lui assegnato. Al processo, gli incartamenti su di lui sparirono misteriosamente, salvandolo, cosa che fece parlare di una protezione da parte della Massoneria. Nonostante le pesanti ombre sul suo conto, raggiunse i vertici della gerarchia militare e fece il pieno di onori, guadagnandosi i titoli di marchese del Sabotino e di duca di Addis Abeba. Nella Campagna d' Etiopia, usò il gas contro gli abissini per autonoma scelta; ne deportò 100.000 e anche in questo caso non verrà mai processato per crimini di guerra come chiesto dal negus Hailé Selassié. A fine 1940, Badoglio, criticato dal gerarca Farinacci per gli insuccessi nella guerra di Grecia - che, pure, aveva sconsigliato, ma senza far nulla per impedirla - diede le dimissioni da Capo di Stato Maggiore Generale (credendo che Mussolini non le avrebbe accettate) per tornare a galla solo nel '43 con questa presunta patente di antifascismo. È vero che è più difficile perdere le guerre che vincerle, ma la storia dovrebbe insegnare a respingere certi esempi. Forse per questo - quasi come un monito junghiano - è oggi riemersa questa "reliquia" dall' inconscio collettivo italiano? Chissà.

Il tempo delle verità.  Alessandro Bertirotti l'8 febbraio 2021 su Il Giornale. È tutta questione di… verità. Penso cominci a farsi chiarezza nella mente dei cittadini italiani circa i livelli ai quali è giunta la politica partitica italiana (forse, è sempre stata così… ma ora appare in tutta la sua ineludibile miseria). E tutto questo grazie a Sergio Mattarella e Mario Draghi, i quali stanno lavorando assieme, e molto più di quello che può sembrare. Le persone intellettualmente serie, ossia quelle che possiamo definire capaci di interpretare cognitivamente l’esistenza umana (anche con riflessioni antitetiche, ma pur sempre frutto di ragionamenti aristotelici), comprendono ora quanto marketing elettorale caratterizzi le dichiarazioni politiche dei rappresentanti parlamentari. Dicono ciò che all’occorrenza serve loro per rastrellare (utilizzo questo verbo con cognizione di causa…) il maggior numero di elettori creduloni. A loro, gli attuali politici e leader di partito, sostanzialmente, non interessa nulla di quello che dicono; nemmeno di passare alla storia come persone degne di essere ricordate, proprio perché non fanno uso della memoria, se non quando verificano il saldo del proprio conto corrente.

Andiamo quasi per ordine. Il Movimento Cinque Stalle e il Partito para-Democratico (quest’ultimo acefalo e senza progetti futuribili per la Nazione) hanno un nuovo federatore, che si è presentato, senza grembiule, con un banchetto in Piazza Colonna, per vendere pesce marcio; la Lega, che gioca alla presentazione di ruoli europeisti (con Giorgetti, Zaia e forse Maroni) ed antieuropeisti estremi (Salvini e Borghezio) si sta rifacendo un look assai vicino alla vecchia Democrazia Cristiana, senza averne ovviamente lo spessore intellettuale; Forza Italia, con il senso della sopravvivenza mutuato dal loro fondatore Silvio Berlusconi, accetta qualsiasi cosa pur di sopravvivere a favore dei propri affari, legittimi o meno; Fratelli d’Italia, poiché deve far finta di essere coerente con un’idea stantia, inutile e desueta di patria, avrà forse un futuro europeo, in nome del ruolo internazionale che sta assumendo Giorgia Meloni; Italia Viva cercherà di prendersi più voti possibili, con qualche accordo internazionale che garantisca la sopravvivenza economico-finanziaria alla sua élite, che continua, invece, a vendere fumo politico, senza dichiarare di fare il lavoro sporco che gli altri non si sentono di portare avanti, come quello di fare cadere i governi. Ecco, questa è la mia visione. Certo, condivisibile o meno. Porta, comunque, ad una ulteriore e finale considerazione: non penso sia utile andare a votare, mentre potrebbe essere, secondo le leggi statistiche dei grandi numeri, interessante ed innovativo proporre una Lotteria Nazionale, abbinata alla Befana oppure al Festival di Sanremo (facce diverse della stessa medaglia folclorica italiana), che mandi individui qualsiasi in Parlamento. Sono sicuro che saremmo governati da una sorte migliore di quella che ci impongono con l’idea che esista una democrazia in cui è sovrano il popolo. Ma, sovrano di cosa? Della demenza e del marketing elettorale in malafede? No, grazie. Preferisco una lotteria.

Natalia Aspesi per la Repubblica il 6 febbraio 2021. A noi pensionati questo Draghi ci fa un po' paura perché sinceramente avevamo fatto l' abitudine a personaggi più roboanti, mai zitti, sprizzanti superiorità, sempre in tv mai a proporre rosee soluzioni ai vari disastri, ma solo a rivelare gli orrori degli avversari. Thriller su thriller, horror un horror, commedia e tragedia. Se questo uomo è davvero eccellente come dicono, molto apprezzato dall' Europa e dagli Stati Uniti e probabilmente anche dal resto del mondo, salvatore dell' euro, dovremo per questo diffidarne, in quanto professorone che sa quel che fa, uno dell' establishment e quindi nemico del popolo? O addirittura, Dio non voglia, un radical chic, frase già usata nei papiri contro i pericolosi Sapienti e non sostituita neppure nell' attuale era tecnologica. (Sono stata accusata anch' io di quel misfatto in quanto si è scoperto che leggo). Così, senza rimuginare, Draghi appare invece come una persona che ti viene voglia di chiamare personalità, per quel sorriso quasi angelico, il modo di parlare elegante, l' aria da gentleman affabile ma inafferrabile, la distanza educata, con una moglie di gran classe che non parla neppure se non interrogata come fanno tutti gli altri; però un "tecnico", che orrore, non insulta, non schernisce, non abbaia, non dice parolacce, non risponde alle domande inutili quali la più frequente è: ci dica una battuta. Ha anche il difetto che non si riesce o almeno non si è riusciti sino ad ora a trovare una crepa nella sua vita intemerata; ma se sei un Toninelli o uno di quei brutti giovanotti che rendono i talk show inguardabili, puoi arrivare, salvo retromarcia, ad accusarlo di non essere un politico, uno come loro che autonominandosi politici hanno distrutto la politica, tanto che ormai sul web si usa quella parola diventata parolaccia per dire ladro, magnaccia, sfruttatore, magna magna, ecc. Tecnico allora, e sia, anche se subito c' è giustamente chi dà una spazzolata alla nostra confusione (milioni di informazioni al giorno sullo stesso argomento) e ci riporta sulla retta via, spiegando che se un tecnico ha presieduto con successo la Banca europea, forse di po' di politica capisce, soprattutto se dichiara di capirla anche Di Battista. Siamo ormai talmente assuefatti al disordine sconclusionato che ci governa che siamo arrivati a considerare eccellenti certe mezzecalze pasticcione o insignificanti nullità con in mano città, regioni, ministeri, e adesso che le cose potrebbero cambiare, non riusciamo a credere che ci sarà una vera luce. Chi ha detto no a Draghi almeno si è già schierato e resterà fuori dal mercato. Ma noi che negli ultimi anni ne abbiamo visto e sopportato e odiato di ogni colore, e lo sento dire da persone ormai esauste, non osiamo quasi sperare che le cose cambino, e quindi la paura non se ne va. In tanti sappiamo poco di Mario Draghi perché lontani dal mondo finanziario, ma il solo fatto che l' eroe Mattarella gli abbia affidato l' immane compito, ci ha di colpo risvegliato il cuore, diradato il grigiore dei giorni, consentito una speranza. Per una volta non abbiamo arricciato il naso come ormai si fa sempre perché se non sei contro devi far la fatica di trovare le parole ormai perdute dell' approvazione. Come sempre nel governo appena sciolto c' erano i bravi e i cattivi, gli scemi e i volonterosi, ma forse era sbagliato l' insieme, stridente, sbandato, incattivito, sfiduciato, tanto da non avere più senso. Però i suoi componenti sono ancora tutti lì, affamati di poltrona e prestigio, in attesa di una nuova collocazione ministeriale o altro potere, quasi nessuno conscio del fallimento personale e di tutti, di aver preteso troppo dalle proprie modeste forze, e di aver dimenticato la favola "Una poltrona non è per sempre" raccontata un tempo lontano lontano, dai grillini. Così almeno appare dalla ressa di tutti questi "fu" che si spintonano per arrivar davanti a qualsiasi video anche solo come comparse, per non tornare nel buio. Anche dopo la fine del loro governo, mentre il coraggioso Draghi tenta di metterne insieme uno capace, nessuno di loro parla del paese, ma solo di sé, di quel che vuole e gli spetta se no guai: forse diranno no a Draghi, forse Draghi, per quanto appassionato servitore dello Stato, lascerà perdere. È quindi chiaro perché abbiamo paura.

Mario Giordano per “La Verità” il 5 febbraio 2021. Noi tutti mai paghi gridiam viva Draghi. C'era una volta l'uomo con il loden, ora c'è l'uomo con la «panda tra vigne e campi di zafferano», il bambino prodigio che a scuola compiva già i miracoli, non faceva mai la spia, era un asso in matematica e probabilmente mormorava il suo primo «whatever it takes» per salvare dal fallimento il bar dell'oratorio. Una specie di san Domenico Savio, però più devoto, capace di trasformare in oro le merendine dei suoi compagni, per poi fermarsi alla chiesa preferita, inspiegabilmente ancora intitolata a Gesù anziché a superMario. In sintesi «l'esatto opposto del contismo», come dicono tutti coloro che fino a ieri inneggiavano al contismo. E oggi, come in ogni perfetto 8 settembre italiano, sono già convertiti al draghismo. Giornali, commentatori, Cei, Confindustria. Lo spettacolo è meraviglioso. Prendete padre Antonio Spadaro, uno degli uomini più vicini a Papa Francesco, gesuita direttore della Civiltà Cattolica. Per mesi e mesi si è spupazzato Conte come se fosse il suo miglior amico, se lo è portato in giro alle presentazioni dei libri, lasciando filtrare l'idea di farne il leader del partito dei cattolici, lo ha difeso a spada tratta quando il premier ha impedito per decreto le celebrazioni liturgiche e quando con un dpcm ha cancellato la tradizionale messa di mezzanotte di Natale. Poi Conte è uscito da Palazzo Chigi. E padre Spadaro ha prontamente commentato: «Draghi garanzia di solidità», speriamo che «finalmente possa rispondere ai cittadini» e che «la democrazia trovi una sua normalità di esprimersi». Lasciando intendere, insomma, che fino a ieri, con Conte, non c'erano garanzie di solidità, non si rispondeva ai cittadini e la democrazia non si poteva esprimere. Peccato solo che padre Spadaro non se ne sia accorto un po' prima. Altrimenti glielo poteva dire direttamente, mentre se lo coccolava all'ombra del Vaticano. In effetti: fa un po' effetto vedere i vertici della Chiesa affannati nello sbarazzarsi della divisa grillo-contista per indossare in tutta fretta quella vincente dell'euro-draghismo. Sembrano Alberto Sordi in «Tutti a casa». Per esempio la Sir, l'agenzia della Cei, oggi fa un tifo spudorato per superMario, «motivo di fiducia», «figura di alto profilo», dotato di «autorevolezza internazionale». Eppure dev' essere la stessa Sir che il 7 aprile scorso celebrava i «750 miliardi» (sic) del Cura Italia di Conte con atti di fede e parole di pia devozione: il decreto non era nemmeno ancora stato scritto, ma già l'agenzia dei vescovi sentenziava «è innegabile che l'operazione sia di portata straordinaria» e «sono numeri per i quali è difficile trovare confronti storici». Si è visto. Eppure la stessa Sir ancora il 13 gennaio difendeva il governo Conte, attaccando chi aveva aperto la crisi e ispirando i titoli dei quotidiani sedicenti cattolici benedicenti la ricerca dei responsabili. Ora si scopre che non ci credevano nemmeno loro. Non potevano dircelo prima? Non potevano dirci prima che il vero «motivo di fiducia» non erano né i 750 miliardi (per altro inesistenti) del Cura Italia né la ricerca dei responsabili ma solo e soltanto l'ex presidente della Bce, «figura di alto profilo» e dotato di «autorevolezza internazionale»? Noi tutti mai paghi gridiam viva Draghi. La corsa sul carro del vincitore non è certo una novità, ma forse non è mai stata così smaccata. E frettolosa. E totale. Dai vescovi cattolici ai cardinali dell'imprenditoria, il passo è breve. Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ci fa sapere attraverso un'intervista alla Stampa che Draghi «ha le qualità che auspicavo in un politico», che è «una persona seria, autorevole ed efficace», che è (ovviamente) un «patrimonio del Paese» (nota bene: urge cambiare copywriter per ridurre il tasso di banalità) e che lui «ammirava Draghi da tempi non sospetti». Probabilmente, infatti, lo ammirava già quattro giorni prima, domenica scorsa, quando è andato in Tv da Lucia Annunziata. Soltanto che anziché Mario Draghi gli è venuto da dire Roberto Gualtieri, chissà perché. E ha aggiunto: «Abbiamo bisogno di stabilità». Ed è meraviglioso scoprire che fino a domenica, cioè quando dominava l'ipotesi di un Conte Ter, per il presidente di Confindustria avevamo bisogno di Gualtieri e di stabilità, mentre oggi abbiamo bisogno di Draghi. A volte le idee cambiano in fretta, però, ecco va detto che lui Draghi «lo ammirava da tempi non sospetti», anche se fino all'altro ieri preferiva elogiare il ministro in carica per non farsi scoprire. E la terza gamba dell'establishment, cioè i giornaloni? Ovviamente non sono da meno. Stamattina il Corriere della Sera ci faceva sapere tramite editoriale di Mario Monti che «a tutti conviene aiutare» Draghi. Ed è un po' strano perché qualche giorno fa Urbano Cairo, parlando alla radio, aveva detto che a tutti conveniva aiutare Conte a fare un nuovo governo («Fa bene a cercare responsabili», le sue parole testuali). Ora, capisco che quello di Monti potrebbe anche essere considerato come il bacio della morte, ma è indiscutibile che le pagine uscite in queste ore da via Solferino grondano di elegia nei confronti dell'ex presidente Bce, l'uomo che viaggia in Panda, che va al supermercato, che è sposato da 48 anni con la moglie Serena (un nome che è già un programma per il Paese) con la quale a volte va persino a Milano «per abbracciare le nipotine» (dev' essere un altro miracolo come il salvataggio dell'euro). E poi naturalmente i compagni di liceo, lo sport (era un campione ovviamente «a calcio e a pallacanestro» e chissà cos' altro ancora), e persino «i capelli pettinati con la riga come adesso». E la domanda è: perché, avendo a disposizione tutto questo bendiddio, riga nei capelli compresa, fino a ieri dovevamo andare a caccia di responsabili per salvare il Conte Ter?Fra l'altro nell'euforia della svolta si rischia di essere anche un po' ingenerosi. Prendete il portavoce del premier, il celebre Rocco Casalino. Ieri è stato sbeffeggiato, sempre sul Corriere, da un articolo feroce che ha tirato fuori tutte le sue pecche. Rocco e le sue gaffe, Rocco e le sue pretese («aveva un ufficio con le dimensioni di un campo di calcio»), Rocco lui e i suoi vestiti che appaiono improvvisamente stretti «da buttafuori di discoteca brianzola», Rocco e la sua isteria, Rocco che mente sui master, «permaloso e un po' mitomane», Rocco che odia il suo passato e che è «troppo disinvolto» nell'usare il cellulare. «Glielo dicevano: ma niente», chiosa velenoso l'autore dell'articolo. Il quale forse gliel'avrà dette davvero tutte quelle cose a Rocco, prima di ieri. Ma solo in privato. Perché in pubblico noi leggevamo sul Corriere altre cose. Leggevamo che Rocco Casalino era «il grande regista di tutte le operazioni» del governo. Che sedeva «biblicamente alla destra del padre». Che «come Hitchcock metteva il suo cameo nei film del premier». Che era «così bravo da essere portavoce più famoso della voce». Leggevamo così, fino a ieri. Forse perché Rocco Casalino era potente e passava le veline e dunque andava incensato. Ora che fa gli scatoloni, invece il Corriere gli intima bruscamente «esci da quell'ufficio» e scopre all'improvviso che è «mitomane» e che gli si sono pure ristretti i vestiti. Così va il mondo, si capisce. Noi tutti mai paghi, gridiam viva Draghi. Ma che schifo.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 5 febbraio 2021. Nomen omen, dicevano gli antichi per indicare, attraverso il nome, un indizio, un presagio, un destino. Senza scomodare coincidenze, sincronie ed ermetismi vale anche per Mario Draghi, e infatti da tre quattro giorni la rete e i social, riflesso e ricettacolo del senso comune, vanno riempendosi di serpentoni, alcuni alati, altri sputafuoco, tutti comunque trasmutati nell'attualità del potere e dedicati al presidente in pectore. Il destino dei draghi, appunto, ma pure di Draghi, tecnocrate gettatosi nella mischia e quindi anche nel ribollente calderone emotivo che agita questo tempo. Creature immaginarie della grande pittura ripristinate per l'occasione, vedi l'arcangelo di Raffaello che il filosofo sovranista Diego Fusaro ha utilizzato nell'atto di trafiggere l'emblema della grande finanza malvagia; così come si prestano invece al riciclaggio in funzione di lieto augurio per l'incaricato i draghetti dei fumetti, cartoni o Pokémon, tipo il benigno Dragonite che riceve il campanello da Conte nella prossima cerimonia a Palazzo Chigi. Draghi senza tempo disponibili nelle tradizioni di paesi fra loro lontanissimi e che le ultime generazioni sentono in qualche misura famigliari attraverso Il Signore degli anelli, Never ending story o Il trono di spade (celebre l'ordine che la regina dava ai suoi di draghi per incenerire i nemici: "Dracarys"); e tuttavia anche funzionali al mondo dei consumi e delle merci, per cui nel giorno dell'incarico di Mattarella la birra Ceres, che fa instant marketing sui social, ha postato un tappeto di bestioline stilizzate e il claim: "Ti svegli, vedi draghi ovunque, ma non sei in hang-over". Ora, ci si vergogna un po' a dirlo, specie al cospetto dei più drammatici problemi, ma sempre più questa roba bizzarra e condivisa, questa spontanea e irrefrenabile forma di partecipazione digitale dal basso è entrata a far parte della politica. Con le sue visioni immediate e semplificate, l'immaginario è una scorciatoia potente per la costruzione del senso. Né vale chiederne conferma al nutrito staff di Casalino, ai martellatori social di Meloni o alla potenza milionaria di fuoco della "Bestia" di Salvini. Dopo la mitologia, la favolistica, l'araldica, la fantasy e i videogiochi, la prima ondata memetica e pop di cui ieri il sito di Repubblica ha dato conto a proposito di Mario Draghi, è ormai un elemento del paesaggio su cui sarebbe vano mantenere un atteggiamento di ripulsa o superiorità. E non solo perché, anche solo a sfogliare i dizionari dei simboli, si scopre subito che la figura del drago è strettamente connessa al potere. In un antico testo ebraico se ne parla come di "un re sul trono"; in Cina è la sua parola è preziosa come una perla, «Non si discute la perla del dragone», parola di Mao Tse Tung. Acquatico e terragno, sotterraneo e insieme celeste, in linea di massima il drago è un severo guardiano di tesori, e anche per questo in parecchi cercano di fargli la pelle. Al netto delle riserve finanziarie e del deficit, come tutti i grandi simboli, è tuttavia ambivalente, circostanza che non dovrebbe influire sull'orientamento dei gruppi parlamentari rispetto a ogni possibile immedesimazione presidenziale. Lui, Draghi, ci deve essere abituato fin dai tempi delle elementari. Dieci anni fa, quand'era ancora a Bankitalia, alcuni studenti indignados si accamparono a via Nazionale con un enorme drago gonfiabile, in verità più disneyano che orrorifico, che avrebbe dovuto testimoniare il battesimo del "Movimento dei draghi". Lui disse: «Il nomignolo è carino», anche se subito dopo ebbe il coraggio o l'imprudenza riconoscere che quei giovani avevano ragione. Ma quel che lo aspetta è peggio. Ieri Crozza gli ha fatto l'imitazione inaugurale. Ci sono già la prima opera street art (imperatore romano), il finto profilo Instagram (112 post!), le immancabili appendici "Daddy Draghi" e "Bimbe di Draghi", più vibrazioni già meno simpatiche tipo "Drag-hi queen" (la sua faccia sulla sagoma della regina Elisabetta), "Drag me to hell "o una collage in cui assomiglia parecchio al terrorista Cesare Battisti. Dice: non è tipo da prestare attenzione a queste scemenze. Nella sua lunga carriera di servitore dello Stato, Draghi ha sbrigato con onore questioni della massima importanza. Ma non ha mai avuto da rendere conto a un pubblico che nel cupio dissolvi italiano a volte ricorda, in scala, quello del Colosseo: una turba selvaggia, assatanata di odio e di spettacolo, insieme manipolabile e truffaldina. La razionalità dei numeri e dei sistemi non copre l'intera gamma del comando, il silenzio è arduo: dunque ignorare, assecondare o magari pilotare? Il caso del professor Monti è lì a monito. Arrivò con loden e trolley, sobrietà-sobrietà, e dopo un po', durante un'intervista in tv, gli piazzarono una specie di Dudù in braccio, da adottare in diretta. La bestiola fu chiamata "Empy", da empatia - nomen omen tutto da dimostrare.

Nando Pagnoncelli per corriere.it il 5 febbraio 2021. La decisione del presidente Mattarella di dare l’incarico per la formazione di un nuovo governo a Mario Draghi incontra il consenso del 60% degli italiani: l’apprezzamento della scelta è trasversale, prevale tra tutti gli elettorati. Non era un dato scontato tenuto conto che, come abbiamo potuto leggere nei sondaggi pubblicati su queste pagine nelle ultime settimane, la crisi di governo è risultata incomprensibile alla maggioranza dei cittadini. Non solo: il presidente Conte e l’esecutivo riscuotevano un gradimento elevato, ancorché inferiore rispetto alla prima fase dell’emergenza sanitaria. Nel complesso, poco più di un italiano su quattro (28%) si esprime criticamente riguardo all’incarico dato all’ex presidente della Bce. I più critici risultano gli elettori della Lega (42%) e di FdI (36%), che presumibilmente auspicavano nuove elezioni, e i pentastellati (40%), forse per il timore di avere un ruolo meno rilevante in un prossimo esecutivo. Al momento non è dato sapere se il tentativo di Mario Draghi andrà in porto e da quali forze politiche potrebbe essere composta una nuova maggioranza. La soluzione preferita (28%) sarebbe quella di un governo che comprendesse tutte le forze politiche; a seguire risulterebbe gradita una maggioranza con le principali forze ad esclusione del M5S (13%); le altre possibili maggioranze ottengono un consenso inferiore al 10%: dalla continuazione di quella uscente allargata al gruppo europeista guidato da Bruno Tabacci (9%), all’inclusione di Forza Italia, la cosiddetta «maggioranza Ursula» (8%), fino all’inclusione di tutte i principali partiti tranne la Lega (7%). Da notare che uno su tre (35%), non esprime alcun gradimento, e tra astensionisti e indecisi la quota sale al 51%. Nei diversi elettorati le opinioni sono molto differenziate. I più diversificati sono gli elettori del Pd, che si dividono in tre gruppi di uguale entità: a favore della continuazione della maggioranza uscente, di un esecutivo Ursula e di uno di unità nazionale; i pentastellati privilegiano la continuazione della maggioranza uscente; i leghisti preferirebbero una maggioranza con tutti tranne il M5S e in subordine l’unità nazionale, mentre tra gli elettori di FI e FdI si registra un’inversione tra queste due opzioni. Quanto ai pronostici degli italiani, le opinioni sono molto frammentate. E al 34% che non è in grado di fare previsioni si aggiunge il 12% che ritiene che il tentativo di Draghi fallirà e si andrà a nuove elezioni, nonostante il messaggio fermo ed estremamente chiaro del presidente Mattarella che ha ritenuto di mettere in guardia rispetto ai rischi di tale eventualità nel contesto attuale. Ma come valutano gli italiani i protagonisti di questa fase politica? Le opinioni dipendono non solo dalla loro visibilità e dalle posizioni avute nella crisi politica, ma anche dal giudizio pregresso sui singoli leader, quindi indipendentemente dal ruolo assunto nelle ultime settimane. Conte prevale nella graduatoria di coloro che ne escono meglio (viene citato dal 28%), seguito da Meloni (10%) e Salvini (9%), quindi Zingaretti e Renzi appaiati al 5%, Fico (4%), Berlusconi (3%) e Di Maio (2%). Uno su tre (35%) non indica alcun esponente che si sia distinto positivamente, e questo la dice lunga su come stiano vivendo la situazione. Nella graduatoria tra chi è uscito peggio Renzi prevale nettamente (viene menzionato da quasi un italiano su due), seguito da Conte (12%), Salvini e Di Maio (7%), Zingaretti (4%), Meloni (2%), Berlusconi e Fico, entrambi con l’1%, mentre il 18% non ne indica nemmeno uno. Qualora il tentativo di Draghi andasse in porto, una delle principali sfide sarà costituita dal Recovery plan e a questo proposito abbiamo voluto rilevare il giudizio sul Piano nazionale di ripresa e resilienza messo a punto dal governo uscente. Ebbene, l’importanza attribuita ai sei temi specifici considerati è decisamente elevata, a partire dal capitolo della salute (62%), seguito dall’istruzione e ricerca (56%), da inclusione e coesione (50%). I restanti tre capitoli (ambiente, innovazione e competitività, infrastrutture) sono giudicati molto rilevanti da quasi un cittadino su due. Ma la vera scommessa per il (possibile) prossimo esecutivo sarà sull’atteggiamento che verrà assunto dalle forze che comporranno la maggioranza. Se prevarranno logiche di parte, la rivendicazione di «questioni irrinunciabili» e i veti incrociati, il Paese non andrà molto lontano. L’auspicio è che prevalga quella ricerca di «compromessi alti» che ha consentito all’Italia di uscire dai momenti più drammatici della sua storia, dal secondo dopoguerra alla «concertazione» di Carlo Azeglio Ciampi, con il quale come è noto il presidente incaricato ha a lungo collaborato.

SPREAD: DA DRAGHI 1 MILIARDO DI RISPARMIO PER LO STATO. (ANSA il 5 febbraio 2021) Il calo dei rendimento del Btp registrato, in parallelo con la contrazione dello spread, in questi tre giorni da quando è uscito martedì sera il nome di Mario Draghi per un nuovo governo, si traduce in una risparmio teorico di quasi 1 miliardo per le casse dello Stato quest'anno. La stima fatta dall'Osservatorio sui Conti Pubblici riguarda i minori interessi che il Tesoro dovrà pagare sui circa 500 miliardi di titoli da rinnovare nel 2020 se si guarda al picco toccato dal rendimento del Btp con l'esplodere della crisi di governo. Nel confronto col rendimento della prima metà di gennaio il risparmio annuale è invece di 100 milioni di euro. Chiusura in calo per lo spread tra Btp e Bund tedeschi. Dopo essere sceso nel corso della seduta a un minimo di 94 punti base, il differenziale fra titoli di stato ha chiuso a 98,1 punti. Un calo di 17,9 punti rispetto alla chiusura di martedì scorso, prima del conferimento dell'incarico per formare un governo all'ex-presidente della Bce Mario Draghi, e di 1,9 punti rispetto alla vigilia. In calo di 1,2 punti base il rendimento dei titoli decennali, sceso allo 0,532%.

Giuliano Balestreri per businessinsider.com il 5 febbraio 2021. Per le casse dello Stato, la semplice ipotesi di un governo Draghi vale 1,3 miliardi di minori spese sugli interessi a servizio del debito in tre anni. Un risparmio secco, immediato. Che arriva ancora prima che l’ex presidente della Bce sia in grado di sciogliere la sua riserva sulla formazione di un esecutivo. Ai mercati è bastato vedere salire Mario Draghi al Quirinale per incontrare il presidente della Repubblica per aumenare gli acquisti sui titoli di Stato italiani: e in una sola giornata la differenza di rendimento tra Btp e Bund tedeschi è scesa di 10 punti in area 100, su minimi degli ultimi 5 anni anni. Insomma, le fiammate del primo governo Conte a cavallo tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019 – quanto lo spread tornò a quota 300 punti – sembrano solo un ricordo. L’impatto sui conti pubblici è già stato calcolato dall’Ufficio parlamentare di Bilancio secondo cui un aumento dello spread di 100 punti costa il primo anno 1,8 miliardi di maggiori interessi sul debito pubblico, 4,5 miliardi il secondo anno e 6,6 miliardi il terzo. Un calo di 10 punti, quindi, si traduce in una minor spesa per 1,3 miliardi nel triennio. Ma secondo gli analisti si tratta solo di un inizio. E la situazione – con la formalizzazione di un governo – dovrebbe solo migliorare. “Una volta in carica, ci aspettiamo importanti flussi sul nostro Paese sia sullo spread Btp/Bund” dice Antonio Amendola, Fund Manager Equity Italia ed Europa di AcomeA Sgr. Per Fabio Castaldi, investment manager di Pictet Asset Management, “sul Btp le prospettive più favorevoli possono far ipotizzare una convergenza (ancorché non completa) verso i rendimenti dei titoli governativi spagnoli che trattano, al momento, ad uno spread di 60 punti base contro il Bund tedesco. Ipotizziamo quindi un’ulteriore compressione dello spread BTP/Bund fra i 20 e i 30 punti base con obbiettivo l’area 70/80 bps qualora la strada di Draghi”. Un ritorno alle urne, invece, causerebbe un aumento di circa 50 punti base. In sostanza per gli esperti di Pictet, solo la figura di Draghi vale un risparmio di altri 3,9 miliardi nel triennio. Anche perché secondo Adrian Hilton, responsabile tassi e valute globali di Columbia Threadneedle Investments, “una maggioranza per il governo Draghi garantirebbe una continua stabilità dei prezzi dei BTP, specialmente alla luce di un supporto continuo agli asset purchase programmes della Banca Centrale Europea”. Certo, Draghi non sarebbe la panacea di tutti i mali anche perché sullo sfondo rimangono le sia per quanto riguarda l’uso del Recovery Fund – che dipenderà dal voto parlamentare – sia per il piano vaccinale che continua a procedere al rilento. Motivo per cui, ancora oggi,  è difficile stimare l’impatto che avrà sulla crescita del Pil. “Sono incertezze che rimangono in secondo piano rispetto alla riduzione del rischio politico – prosegue Hilton –  abbiamo mantenuto le nostre posizioni di sovrappeso sui Btp, con la convinzione che nuove elezioni fossero e restino improbabili. Potrebbe essere difficile ottenere un’ulteriore stretta dello spread, ma rimane comunque un minor rischio di un allargamento significativo”. D’altra parte anche Diego Toffoli, senior portfolio manager di Intermonte Sim, sottolinea come “il rendimento del Btp decennale italiano è ancora tra i più alti in Europa ed è probabile che questo gap andrà a ridursi ulteriormente”. Michele Morra, Portfolio Manager di Moneyfarm si aspetto un effetto positivo nel medio termine frutto della “capacità (o dalla percezione che ne hanno gli investitori) di Draghi di sfruttare la sua autorità e la sua capacità negoziale a livello europeo per facilitare il dialogo sul programma di investimenti europeo, rafforzando la relazione tra i paesi core dell’Eurozona. Nel lungo periodo, qualora la percezione del sistema italiano da parte degli investitori tornasse a livelli pre-2008, ci potremmo aspettare una sovra-performance dei BTP rispetto ad obbligazioni governative di altri Paesi, grazie al potenziale restringimento degli spread (0,15% pre-crisi) e a una componente cedolare più elevata”. Anche perché Mohammed Kazmi, Portfolio Manager, Macro Strategist, di Union Bancaire Privée (UBP) vede spazio “per un rialzo dei rendimenti dei bund tedeschi dato che i flussi di stanno spostando dall’Europa centrale verso la periferia”. Come a dire che da un governo Draghi, l’Italia ha solo da guadagnare.

Mario Draghi, chi ha fatto i soldi con lo spread? Tutto è iniziato con lui. Giuliano Zulin su Libero Quotidiano il 17 febbraio 2021. Adesso lo spread non fa più notizia. Siamo intorno a quota 90. Cioè significa che il rendimento di un Btp decennale, debito tricolore che sarà restituito all'investitore nel 2031, è vicino a quello di un solidissimo Bund tedesco. Il Tesoro paga "appena" lo 0,6% circa all'anno a un fondo, una banca o un semplice risparmiatore che decide di tenersi un pezzo del disavanzo pubblico per un decennio. Miracolo. Nonostante il rosso pubblico sia cresciuto di 159 miliardi nel 2020. Con questi "costi" è inutile ormai che il governo nascente adotti il Mes sanitario, non converrebbe finanziariamente. Il merito di questo raffreddamento? Tutto è iniziato con Mario Draghi presidente della Bce. Nel luglio 2012 pronunciò la famosa frase «whatever it takes», a qualsiasi costo avrebbe salvato l'euro. Poi nel 2015 il famoso Qe, ovvero la creazione dal nulla di oltre 2mila miliardi di euro utilizzati per comprare debiti statali e societari. Una cifra simile a quella che fino al prossimo anno tirerà fuori dal cilindro madame Lagarde col Qe anti-pandemia. Se c'è un grande, immenso, compratore sul mercato è matematico che il prezzo del titolo di Stato salga, mentre inversamente crolli il rendimento, l'interesse che si paga per ottenere i soldi in prestito. Sembra dunque preistoria il 2011-2012 quando lo spread arrivò a 576 punti e il Tesoro, per piazzare un Btp decennale, necessario per mantenere la spesa pubblica, doveva promettere cedole del 6-7%. In quel periodo si paventava addirittura il rischio default per l'Italia. La Bce non aveva ancora iniziato a pompare denaro. Ma chi invece non ha avuto paura dello spread ha fatto i soldi. Se un risparmiatore avesse acquistato un Buono decennale in quel periodo si sarebbe portato a casa rendimenti mai più visti. Se invece lo stesso investitore avesse deciso di vendere il titolo di credito prima della scadenza naturale, avrebbe comunque incamerato una bella plusvalenza, poiché appunto l'intervento massiccio della Banca centrale sul mercato ha incrementato il prezzo. Sono stati dei patrioti coloro i quali hanno scommesso sulla solidità della Penisola? No, però era pure sciocco credere ai catasfrofisti: l'Italia non aveva problemi con banche greche, spagnole o irlandesi, inoltre gli italiani sono poco indebitati e vantano invece ingenti patrimoni mobiliari e immobiliari. Insomma, non c'era rischio. Eravamo in presenza di una bolla, all'epoca negativa, che negli anni è scoppiata a vantaggio di chi guardava ai fondamentali e non a un titolo di giornale. Il nostro Paese, nonostante i politici è solido, e adesso è tornato alla normalità. Meglio però che i piccoli risparmiatori non comprino titoli di Stato ora. Ci perderebbero. La montagna di liquidità irrorata dalla Bce ha creato un'altra bolla.

Da huffingtonpost.it il 7 febbraio 2021. “L’Italia e l’Europa sono fortunate che Mario Draghi abbia accettato la sfida di aiutare a mettere fine alla crisi economica e sociale dell’Italia, in un momento in cui questa è il Paese dell’Eurozona colpito più duramente dalla pandemia”. Lo dice Christine Lagarde, presidente della Bce, a proposito dell’incarico a formare il governo dato al suo predecessore all’Eurotower. “Ho piena fiducia - dice Lagarde in un’intervista al francese Journal Du Dimanche - che Mario Draghi sarà all’altezza della sfida. Ha tutte le qualità che ci vogliono: ha la competenza, il coraggio e l’umiltà necessarie” per “far ripartire l’economia italiana con l’aiuto dell’Europa”.

Marco Bresolin per “La Stampa” il 5 febbraio 2021. Bisogna «lavorare senza sosta» al Recovery Plan italiano. Perché il tempo a disposizione è poco e i soldi da utilizzare tanti. Ma soprattutto perché ci sono ancora molti dettagli da definire, obiettivi da fissare e riforme da concordare. Ursula von der Leyen cerca di tenersi fuori dalle dinamiche politiche romane, ma il sorriso che compare sul suo volto quando sente pronunciare la parola «Mario Draghi» fotografa alla perfezione il sentimento di fiducia che si respira nel Palazzo Berlaymont verso il nuovo capo del governo. Dal quartier generale della Commissione europea, la presidente difende il piano Ue sui vaccini che le sta costando parecchie critiche. Ma per la prima volta - nel corso di un'intervista con "La Stampa" e altri media europei - ammette i passi falsi: l'Ue ha sottovalutato i problemi legati alla produzione e soprattutto ha contribuito ad alzare più del dovuto le aspettative dei cittadini.

In Italia sta per nascere un governo guidato da Mario Draghi: per voi è l'opzione migliore?

«Alt. Si tratta di un affare italiano. E come sapete abbiamo una regola d'oro: non commentiamo mai le questioni politiche interne. Posso solo dire che Draghi alla Bce ha svolto un ruolo straordinario e di questo ne sono tutti consapevoli. Non solo in Italia».

Con il precedente governo italiano avevate avviato la discussione sul Recovery Plan: che impatto avrà il cambio della guardia a Palazzo Chigi?

«Da settimane, per non dire mesi, lavoriamo con le autorità italiane e con le parti interessate per sviluppare i dettagli della bozza. E il lavoro è ancora in corso. Lo dico per sottolineare quanto dettagliato sia questo lavoro, visto che si tratta di un ammontare enorme di fondi da spendere in un periodo di tempo relativamente limitato, in pochi anni. Dobbiamo andare in profondità nei dettagli, definendo obiettivi e tabella di marcia. Per questo siamo pronti e impegnati con l'amministrazione italiana per lavorare senza sosta e andare avanti perché il tempo è prezioso e non vediamo l' ora di vedere come sarà formato il nuovo governo».

Vi aspettate continuità sul piano italiano?

«Questa sarà una decisione del nuovo governo. Ma la cornice del piano è chiara perché è stata concordata da Consiglio e Parlamento sulla base della proposta della Commissione. Serve un mix di riforme e investimenti legati al Semestre europeo che rispetti il Green Deal, al quale va destinato il 37% delle risorse. Il 20% deve andare alla digitalizzazione e poi c'è la parte relativa alla resilienza che rappresenta un pilastro importante. Si tratta di obiettivi comuni, condivisi da tutti gli Stati con il Parlamento: contiamo che ci sia continuità nell'attenersi a questi princìpi».

Il piano Next Generation EU ha rappresentato una svolta per l'Europa: è un primo passo che verrà ripetuto in futuro oppure sarà soltanto una parentesi?

«La sua struttura è molto chiara: si tratta di un progetto "una tantum". Per la prima volta possiamo andare sui mercati e raccogliere capitali da distribuire agli Stati in base a dei progetti chiari, con obiettivi e tabelle di marcia precise. Credo sia una grande conquista, storica. Perché durante l'ultima crisi finanziaria del 2008-2010 si decise di muoversi con un accordo intergovernativo e non a livello europeo. Questa volta abbiamo fatto un grande passo avanti, ma è chiaro che è stato costruito per essere uno strumento da usare "una tantum". Così ha deciso il Consiglio. Che ovviamente potrà essere libero di prendere altre decisioni in futuro, ma al momento è così».

Sul Recovery bisogna correre, mentre sui vaccini si procede a rilento: cosa non sta funzionando nel piano Ue?

«Un singolo Paese può muoversi come un motoscafo, mentre l'Ue è più una petroliera. Ma questa è la nostra forza. Sono profondamente convinta che l'approccio europeo sia quello giusto e comunque abbiamo lavorato molto più rapidamente del solito. E non riesco a immaginare cosa sarebbe successo se uno, due o tre Stati avessero avuto accesso al vaccino e gli altri no. Quali conseguenze ci sarebbero state per il mercato unico o per l'unità dell'Ue? Impensabile».

Da “la Repubblica” il 5 febbraio 2021. Perché il governo Draghi abbia «successo » è necessario «il coraggio e l' impegno a lungo termine dei politici dei diversi schieramenti. Se la nuova amministrazione fallisce nell' usare in maniera ottimale le ingenti somme dei fondi Ue, le conseguenze per l' Europa e l' Italia saranno profonde». È l' analisi del Financial Times che dedica alla crisi italiana un editoriale dal titolo: "Una missione di salvataggio dell' Italia per Mario Draghi". Per il quotidiano britannico, tuttavia, il pericolo per Draghi è che la premiership si riveli un «calice avvelenato »: come tecnico non eletto in epoca di populismo potrebbe essere vulnerabile alle critiche secondo cui «le sue politiche non sono in linea con la volontà popolare e, con le elezioni all' orizzonte, rischierà di diventare ostaggio dei partiti politici prima che il suo governo abbia la possibilità di attuare le riforme di cui l' Italia ha disperatamente bisogno ». Le sfide che attendono Draghi hanno occupato ieri le prime pagine dei giornali europei, e non solo. Per lo spagnolo El País «Draghi ha un vantaggio rispetto all' ultimo esecutivo tecnico: Mario Monti aveva dovuto varare provvedimenti duri, mentre Draghi ha soldi europei da spendere. In cambio dovrà realizzare delle riforme che l' Italia aspetta da decenni». "Un Draghi per ogni occasione" è il titolo che ha scelto ieri in prima pagina, invece, il tedesco Die Welt, che spiega: «Potrebbe ancora una volta non solo salvare l' Italia, ma anche plasmare a suo favore l' intera Unione europea». Oltreoceano è il Wall Street Journal ad «augurare buona fortuna» all' ex capo della Bce: «dopo aver salvato l' euro con un trucco da prestigiatore, ora dovrà tentare lo stesso, come fosse David Copperfield, da nuovo primo ministro ». Mentre il New York Times si chiede: «può l' uomo che ha salvato l' euro ora salvare l' Italia? La politica è un luogo pericoloso per un enigmatico tecnocrate». 

Daniele Manca per il "Corriere della Sera" il 3 febbraio 2021. «Coraggio», una parola che ricorre spesso parlando con Mario Draghi. La userà in uno dei ricordi della sua infanzia riferiti al padre. «A cavallo tra le due guerre, in Germania, mio padre vide un' iscrizione su un monumento. C' era scritto: se hai perso il denaro non hai perso niente, perché con un buon affare lo puoi recuperare; se hai perso l'onore, hai perso molto, ma con un atto eroico lo potrai riavere; ma se hai perso il coraggio, hai perso tutto». Mario Draghi perde a breve distanza l' uno dall' altra entrambi i genitori. Ha 15 anni. Suo padre Carlo, una carriera iniziata in Banca d' Italia e proseguita in Bnl, muore nel 1963. Sarà una zia a prendersi cura di lui, di sua sorella Andreina e di suo fratello Marcello. Studia al liceo Massimiliano Massimo di Roma dai gesuiti. Nel 1970 si laurea con Federico Caffè, keynesiano, uno degli economisti più in vista in Italia, la cui scomparsa resta ancora un mistero, ma che farà in tempo ad avviare Draghi verso il Mit di Boston affinché studi con il premio Nobel Franco Modigliani.

Di coraggio ne ha avuto bisogno. E di coraggio Draghi ne avrà ancora bisogno per affrontare l' accidentato percorso che dovrà portarlo a dare un governo a questo Paese che sembra aver smarrito la strada del buon senso. Ha sperato fino in fondo che la politica riuscisse a ritrovare quella forza che è apparsa perduta in queste settimane, nelle quali si è srotolata la crisi più incomprensibile delle 67 maggioranze che hanno caratterizzato l' Italia dal Dopoguerra. Non è stato così. La telefonata dal Quirinale è infine arrivata ieri. E Mario Draghi stamattina salirà al Colle: sapeva che non poteva tirarsi indietro. In una delle sue ultime apparizioni pubbliche, parlando agli studenti dell' Università Cattolica, nell' ottobre del 2019, si è augurato «che molti studenti di questa università decidano un giorno di mettere le loro capacità al servizio pubblico. Se deciderete di farlo, non dubito che incontrerete ostacoli notevoli, come succede a tutti i policy maker. Ci saranno errori e ritirate perché il mondo è complesso. Spero però che vi possa essere di conforto il fatto che nella storia le decisioni fondate sulla conoscenza, sul coraggio e sull' umiltà hanno sempre dimostrato la loro qualità».

Ci sono 110 giornalisti a seguirlo, 22 radio e televisioni ad ascoltare le sue parole: sono i giorni del passaggio di testimone a Christine Lagarde. Tutti sentono scandire quella parola, coraggio, associata questa volta all' umiltà. Perché del Draghi pubblico si conosce tanto, ma di quello privato molto meno. Verrà scoperto tra le file di un supermercato assieme alla moglie Serenella conosciuta a 19 anni sulle rive del Brenta, dove ha una villa la famiglia di quella ragazza che non lascerà più. Faranno il giro del mondo le foto del presidente della Banca centrale europea che come qualsiasi altro cittadino spinge il carrello assieme alla moglie, con la quale ha due figli, Federica e Giacomo, riservati quanto lui. È lo stesso signore che nel luglio del 2012 con tre parole salverà l' euro. È il celebre «Whatever it takes», «faremo qualsiasi cosa perché l' euro resista» alla speculazione che in quei giorni sta attaccando la moneta senza uno Stato. Conosce i mercati. Sa chi sono gli avversari della moneta unica. Chi si muove sui mercati - in modo rapido, a volte incomprensibile, più spesso strategico - per trovarne le falle e poterci guadagnare. Li conosce anche perché ha lavorato per loro. Nel 2002 per pochi anni è in Goldman Sachs, una delle banche d' affari più potenti e ramificate al mondo. Quei tre anni avrebbero potuto persino costargli lo sbarco alla Bce. Ma non è così. Piuttosto ha un passaporto che gioca contro di lui, quello italiano. La Bild , il quotidiano tedesco che senza peli sulla lingua interpreta la pancia profonda della Germania, scriverà: «Draghi è quello della lira! per la memoria: questa era la moneta con un numero infinito di zeri». L' 11 maggio del 2011, tuttavia, il portavoce di Angela Merkel annuncia che appoggerà la candidatura di Draghi. La porta d' ingresso per l' istituto centrale di Francoforte non è spalancata, ma è aperta. Vent' anni prima era stato richiamato in Italia da Guido Carli. Da sei era direttore esecutivo della Banca mondiale. Ma Carli lo vuole al Tesoro, è il ministro del settimo governo Andreotti. E in Italia le tensioni economiche, finanziarie non sono esplose ma i più accorti sanno che la stagione del consociativismo ha portato il Paese su una china difficile. Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore della Banca d' Italia, ha l' intuizione di far arrivare il nome a Carli. Saranno dieci anni di scosse quelli trascorsi in via XX Settembre. La speculazione contro la lira. Le maxi manovre del governo Amato. A Palazzo Chigi passeranno Berlusconi, Dini, Prodi, D' Alema, ma Draghi rimarrà al suo posto. Il suo far domande piuttosto che propalare false certezze si trasformerà in un mix di preparazione accademica e diplomazia che lo renderà indispensabile a qualsiasi inquilino di via XX settembre. Stefania Tamburello lo racconterà nel suo "il Governatore" mentre fa parte dei negoziati che porteranno al trattato di Maastricht. Dovrà sostenere l' uscita della lira dallo Sme. Arriveranno le grandi privatizzazioni. E sarà attaccato per aver voluto vedere gli investitori finanziari sul panfilo Britannia della regina Elisabetta. Guiderà la Banca d' Italia. E sarà lui a essere chiamato alla guida del Financial Stability Forum dai capi di Stato del G20 per capire che cosa è accaduto nella crisi del 2008. E soprattutto a tentare di comprendere come uscirne e fare in modo che non riaccadesse. E' in quegli anni che matura i convincimenti che ancora oggi fanno da fondamenta all' azione della Banca centrale europea. Che lo porteranno a ideare prima e a gestire poi quegli stimoli economici che hanno fatto da barriera a una crisi che poteva portare anche alla fine dell' Europa come l' abbiamo conosciuta in questo millennio. Il presidente Sergio Mattarella gli è stato vicino in questi anni. Chissà quante domande avrà ascoltato. E da quali di quei quesiti avrà tratto la spinta a fare la telefonata che probabilmente né il Colle avrebbe voluto fare, né Draghi avrebbe voluto ricevere.

Quando Andreatta "segnalò" Draghi all'Unical. Il Quotidiano del Sud il 15 settembre 2021. «Le cose vanno fatte perché si devono fare, non per avere un risultato immediato». Mario Draghi prende in prestito una frase di Beniamino Andreatta, che «non ha esitato a prendere decisioni necessarie anche quando impopolari», per sintetizzare quella che sembra essere anche la sua mission di governo. Costantemente alle prese con la sua maggioranza, nella diversità di vedute e posizioni, il premier approfitta del ricordo del politico trentino – cui la business school di Bologna ha intitolato l’aula magna – per mandare un messaggio chiaro sui tanti temi urgenti, dalla lotta al Covid alla ripresa economica: e del resto anche Andreatta esortò «anche la propria parte politica a dire molti no e pochi sì per evitare che tutto sia travolto nella irresponsabilità». Ma nel ricordo del politico trentino, fondatore dell’Unical, c’è anche un passaggio dedicato alla nascita di Arcavacata e un retroscena poco conosciuto legato alla nostra regione. «Andreatta è stato un riformatore paziente e lungimirante dell’economia italiana ma la sua personalità era molto più vasta, lui voleva riformare lo Stato, i comportamenti delle persone e lo faceva istintivamente», ha detto il premier nel ricordare il politico trentino. Poi l’aneddoto. «A Bologna, con la riforma della facoltà di Scienze politiche e la fondazione dell’Istituto di scienze economiche. Nel Mezzogiorno, con la fondazione dell’Università della Calabria a Arcavacata, di cui cinquant’anni fa fu eletto primo rettore. La generosità di Andreatta ha toccato anche la mia carriera – ha continuato Draghi – enza conoscermi personalmente, come era nel suo stile, prima mi segnalò per l’Università della Calabria, e poi indicò a Federico Caffè l’esistenza di una posizione di politica economica alla facoltà di Sociologia dell’Università di Trento – ricorda – fu il mio primo incarico di ritorno dal MIT. Un anno prima, in quell’università si era laureato Pulce, potete immaginare la difficoltà di adattare quel modello a quel tipo di studenti Durante la mia esperienza a Trento, ho avuto finalmente l’occasione di conoscere Andreatta di persona, e di frequentare Bologna, ero regolarmente ospitato a casa Baseli, la vita intellettuale della facoltà era molto vivace a quell’epoca, era un punto di riferimento». Nel suo intervento, poi, Draghi ha ricordato «gli anni a Via XX Settembre, al Bilancio e al Tesoro, tra il 1980 e il 1982 – continua – alla sua critica alla degenerazione delle politiche di bilancio. Al suo sostegno alla scelta dell’indipendenza della banca centrale dal governo. Alla soluzione della crisi del Banco Ambrosiano. Andreatta ha attraversato le tempeste di quegli anni con autonomia, indipendenza e immediatezza». Responsabilità è una parola chiave per Draghi. «Le ingenti risorse del programma Next Generation EU devono richiamarci al senso di responsabilità, non solo verso l’Europa, ma verso noi stessi e le nuove generazioni». Abbiamo il dovere, sottolinea, «di spendere in maniera efficiente e onesta. E di avviare un percorso di riforme per rendere l’economia italiana più giusta e più competitiva, capace di riprendere un sentiero di crescita.

Draghi, i guai del Sud al centro delle sue analisi già nel 2009. Adriano Giannola su Il Quotidiano del Sud il 6 febbraio 2021. Lasciata la Banca d’ Italia nel 2011 per assumere la presidenza della BCE Mario Draghi è chiamato dopo poco più di nove anni alla guida del Paese per affrontare l’ emergenza che ha visto il precipitare della crisi politica nel pieno di quella economica e sanitaria. Non è privo di significato andare con la memoria ad un importante atto del suo mandato di banchiere centrale quando, a meno da un anno dalla sua partenza, il 26 novembre 2009, alla presenza del Presidente della Repubblica presentò un importante lavoro della Banca d’Italia su “Il Mezzogiorno e la politica economica dell’ Italia”. Le considerazioni e le riflessione in apertura di quei lavori meritano oggi di essere attentamente riprese per l’ attualità nell’ analisi a dieci anni di distanza e perché esse hanno ad oggetto il vero convitato di pietra – il Mezzogiorno- totalmente ignorato prima e durante queste giornate tanto incomprensibili ma dall’ esito ampiamente prevedibile e, direi, auspicabile. In questi dieci anni l’ UE ha messo più volte in mora l’ Italia incapace di fare i conti con i motivi del proprio logorante declino che – sotto l’ improvviso e devastante impatto della pandemia- è ormai impossibile ignorare. A ben vedere il tema centrale che proprio l’ Europa pone all’ Italia nel concedere i famosi 209 miliardi del Recovery Fund, è proprio il coagulo di disuguaglianze, disgregazione, enorme spreco di potenzialità che hanno come principale -ma non solitario- nome “Mezzogiorno” e che, negli anni, hanno alimentato un generale pesante arretramento del Paese dando luogo a quel “secondo divario” con l’ UE del quale non è stato finora politicamente corretto parlare. Se, quando partiva, Draghi dedicava al Mezzogiorno una preoccupata riflessione e proponeva un preciso prontuario di metodi e norme per confrontarsi con l’ ostinato dualismo economico e sociale, oggi le dinamiche del Sistema Italia segnalano con chiarezza il progredire di una deriva disgregatrice anche di parti rilevanti del Centro-Nord. Dieci anni fa Draghi chiarisce la natura e la gravità del problema con valutazioni che sono oggi ancora più nette e preoccupanti: “Mentre le altre regioni europee in ritardo di sviluppo tendono a convergere verso la media dell’ area, il Mezzogiorno non recupera terreno”: questa era allora una verità oggi da aggiornare; infatti, non solo il Mezzogiorno non recupera ma a perdere invece rispetto a tutte le regioni dell’ Area UE sono tutte le regioni italiane nessuna esclusa e con una evidente accelerazione che non ha consentito a quasi nessuna di tornare ancor oggi ai livelli segnati nel 2007 appena prima della crisi finanziaria. Quanto poi allo scenario interno “Il divario tra il Sud e il Centro Nord nei servizi essenziali per i cittadini e le imprese rimane ampio”, una pesante constatazione di allora da qualificare dopo dieci anni verificando che la distanza si fa ormai baratro per tutti i servizi essenziali, con l’ aggiunta che non è più evidente che “il divario deriva chiaramente dalla minore efficienza del servizio reso, non da una carenza di spesa”; su questo aspetto infatti il dettaglio dei Conti Pubblici Territoriali certifica che da anni ai persistenti divari di efficienza si sommano altrettanto evidenti divario di spesa. Se “alla radice dei problemi …è carente quello che viene definito ‘capitale sociale'” oggi si conferma che ad alimentare questa carenza contribuisce il progressivo razionamento di quei servizi essenziali – scuola, salute, mobilità – che, come detta la Costituzione, sono fondamentali per l’ accumulazione di capitale sociale. E’ quindi di assoluta chiarezza e del tutto condivisibile la stringente deduzione che l’ allora Governatore trae da quell’ analisi: “…le politiche regionali …non possono sostituire il buon funzionamento delle istituzioni ordinarie. Non è quella delle politiche regionali la via maestra per chiudere il divario tra il Mezzogiorno e il Centro-Nord. Occorre dirigere l’ impegno soprattutto sulle politiche generali, che hanno obiettivi riferiti a tutto il Paese…A Sud come a Nord lo scopo del nostro agire deve …..garantire una cornice, un clima uniformi nel Paese: scuole, ospedali, uffici pubblici che assicurino standard comuni di servizio da un capo all’altro dell’ Italia”. Questo cogente ed impegnativo proposito la cui conferma è il miglior viatico per un concorde impegno comune del Paese detta la linea di un PRRN, finalmente esplicitata con semplicità e chiarezza, che certamente troverà conferma di impegno e di azione nel Presidente Draghi.

Draghi, il profetico articolo sul Financial Times che sembra un programma di governo. Jacopo Bongini su Notizie.it il 03/02/2021. Nel marzo del 2020 Mario Draghi scrisse un articolo sul Financial Times in cui illustrava cosa avrebbero dovuto fare i governi per superare la crisi. A poche ore dall’accettazione dell’incarico con riserva da parte di Mario Draghi in molti sul web si sono ricordati di quando, nel marzo 2020, l’ex presidente della Bce scrisse un lungo articolo sul Financial Times dove illustrava ciò che secondo lui i governi europei avrebbero dovuto fare per uscire dalla crisi economica causata dalla pandemia. Un discorso che se letto alla luce degli avvenimenti degli ultimi giorni appare quasi come un vero e proprio programma di governo per quello che a breve potrebbe essere il terzo esecutivo tecnico nella storia dell’Italia repubblicana. Nell’articolo scritto a marzo, Draghi ritiene che l’unica soluzione possibile per superare la crisi sia che i governi si prendano carico di proteggere l’economica attraverso un significativo aumento del debito pubblico: “La perdita di reddito nel settore privato, e tutti i debiti che saranno contratti per compensarla, devono essere assorbiti, totalmente o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e andranno di pari passo con misure di cancellazione del debito privato”. Facendo l’esempio della Prima Guerra Mondiale finanziata con l’aumento del debito pubblico dalle potenze europee dell’epoca, Draghi sostiene che in un periodo così difficile è necessario offrire ai cittadini un immediato sostegno in termini di liquidità che vada oltre i semplici sussidi: “La priorità, infatti, non deve essere solo fornire un reddito di base a chi perde il lavoro, ma si devono innanzitutto proteggere le persone dal rischio di perdere il lavoro. Se non lo faremo, usciremo da questa crisi con un’occupazione e una capacità produttiva danneggiate in modo permanente, ma le famiglie e le aziende faticheranno a riassestare i bilanci e a ricostruire patrimonio netto”. “Se si vogliono proteggere i posti di lavoro e la capacità produttiva […] i governi dovranno assorbire gran parte della perdita di reddito causata dalla chiusura del paese”, afferma Draghi illustrando le due ipotesi attualmente sul tavolo per cui i governi possono o compensare le spese di chi si indebita oppure compensare le garanzie degli insolventi. Delle due, la prima soluzione sarà migliore per l’economia, mentre la seconda meno onerosa per i bilanci. Verso il finale, l’ex presidente di Bankitalia ribadisce che nell’immediato futuro: “I debiti pubblici cresceranno, ma l’alternativa – la distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e, in ultima analisi, per la credibilità dei governi”. Draghi ricorda inoltre come i paesi europei siano attualmente ben attrezzati per affrontare una crisi di questo tipo, ma per farlo è necessario un profondo cambiamento di mentalità.

Jacopo Bongini. Nato a Milano, classe 1993, è laureato in "Nuove Tecnologie dell’Arte" all’Accademia di Belle Arti di Brera. Prima di collaborare con Notizie.it ha scritto per Il Giornale.

Antonio Socci rivela il 17 Dicembre 2018 su "Libero Quotidiano": "Vogliono commissariare l'Italia. Mario Draghi parla già da premier". Mario Draghi si laureò nel 1970, alla Sapienza di Roma, sotto la guida del grande economista Federico Caffè, con una tesi intitolata: «Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio». In sostanza Draghi, con Caffè come relatore, sosteneva «che la moneta unica (europea) era una follia, una cosa assolutamente da non fare». La cosa deve imbarazzarlo, oggi che è presidente della Banca centrale europea, cioè "Mister Euro", infatti quando gli viene ricordata la liquida con una battuta. Ma senza spiegare perché ha cambiato idea. Non poteva certo essere una tesi campata per aria quella che fu presentata - nientemeno - da Caffè. Del resto negli anni successivi, quando la moneta unica europea cominciò davvero a essere realizzata, fior di premi Nobel per l'Economia affermarono che era una follia (come aveva argomentato il giovane Draghi). Personalità come Milton Friedman («la spinta per l'Euro è stata motivata dalla politica, non dall' economia esacerberà le tensioni»), Paul Krugman («adottando l'euro, l'Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera con tutti i danni che ciò implica»), Joseph Stiglitz («questa crisi, questo disastro è artificiale e in sostanza ha un nome di quattro lettere: euro»).

I NOBEL ANTI-EURO - Poi Amartya Sen: «L'euro è stata un'idea orribile Un errore che ha messo l'economia europea sulla strada sbagliata Quando tra i diversi Paesi hai differenziali di crescita e di produttività, servono aggiustamenti dei tassi di cambio. Non potendo farli, si è dovuto seguire la via degli aggiustamenti nell'economia, cioè più disoccupazione e taglio dei servizi sociali. Costi molto pesanti che spingono verso un declino progressivo". Addirittura James Mirrless rivolto agli italiani, ha dichiarato: «Guardando dal di fuori, dico che non dovreste stare nell' euro, ma uscirne adesso». E Christopher Pissarides, un tempo sostenitore dell'euro, oggi è passato sul fronte opposto: «La situazione attuale non è sostenibile ancora per molto. È necessario abolire l'Euro per creare quella fiducia che i Paesi membri una volta avevano l'uno nell'altro». L'euro più che una moneta è un progetto politico e non ha giustificazioni economiche, riflette solo la strategia tedesca di egemonia continentale. Per questo crea divisione e conflitti. Non a caso la Gran Bretagna (che non ha mai aderito all'euro, perché secondo la Thatcher era una minaccia per la democrazia) si è tirata fuori pure dalla Ue. A vent'anni dalla nascita dell'euro è toccato proprio a Mario Draghi, l'altroieri, celebrare il funesto evento con una conferenza a Pisa. Ha affermato che «l'unione monetaria è stata un successo sotto molti punti di vista». Una perifrasi che, tradotta, significa: è stata per metà Europa una sciagura, ma non possiamo dirlo. Anche se la gente se n'è già accorta da sola, sulla propria pelle e sulle proprie tasche, come dimostra (dopo il disastro della Grecia) la sollevazione popolare in Francia e il voto del 4 marzo in Italia, dove vent'anni di moneta unica hanno prodotto milioni di poveri, ci hanno fatto perdere più del 20% di produzione industriale, hanno messo in ginocchio il ceto medio e hanno fatto sprofondare nella disoccupazione o nella sotto occupazione un'intera generazione di giovani.

IL NUOVO MONTI - Per cascare in piedi, Draghi ha pure ammesso che il «successo» dell'euro tuttavia non ha «prodotto i risultati attesi in tutti i Paesi». L'ennesima perifrasi per dire che la Germania con l'euro ha fatto un affarone, mentre gli altri hanno preso il pacco. Peraltro proprio Draghi è tornato a parlare di uscita dall' euro («uscire dall' euro non garantisce più sovranità»). Ma non dicevano che era irreversibile? Si può considerare il discorso di Draghi come sintomo della disperazione di una Ue che sta esplodendo. Ma è anche vero che il suo è stato un discorso da politico. E c'è chi, nel Palazzo, pensa a lui, presto in uscita dalla Bce, come a un nuovo Monti per "commissariare" il nostro Paese nei prossimi mesi. È più di un'ipotesi ed è molto preoccupante. Antonio Socci

Mario Giordano per “la Verità” il 30 marzo 2020. Caro Mario Draghi, ora che tutti (anche questo giornale) la invocano come salvatore della patria, mi permetta di ricordare una sua telefonata nel dicembre 2013. Mi aveva chiamato perché le dava fastidio che in un libro e in alcuni articoli io avessi citato la sua pensione d' oro dalla Banca d' Italia (14.843 euro lordi al mese), che percepiva pur essendo presidente Bce, io colsi l'occasione per fare due chiacchiere sulla situazione generale, come era capitato qualche volta in passato. Ricordo che lei era molto preoccupato per l'«avanzata dei populisti». Non ebbi a cuore dirle che io ero più preoccupato dell'avanzata di certi europeisti. Da quel giorno non ci sentimmo più. La sua recente intervista al Financial Times in cui ha invocato più debito è certo un passaggio epocale al pari del suo ormai mitico «whatever it takes», che ormai sta scolpito nella nostra storia come le leggi di Mosè. Un cambiamento non da poco, in effetti, per uno che, nonostante la formazione keynesiana e la successiva manica larga monetaria, è sempre stato identificato come un fan del rigore di bilancio. «Ricordo che quando ci trovavamo in interminabili riunioni a cinque (Ciampi, Monorchio, Draghi, Carli e io) in cui venivano affrontati i nodi della spesa pubblica quello che insisteva per tagliare era Mario Draghi che spesso mi sussurrava in un orecchio di spingere ancora di più contro le preoccupazioni di chi voleva difendere pensioni, scuola, sanità», ha raccontato Paolo Cirino Pomicino nel suo libro Strettamente riservato. Adesso, chissà quanti, insieme a noi, hanno cambiato idea su quei tagli. Specialmente quelli della sanità. Per carità: che lei sia un uomo capace non lo mette in dubbio nessuno. Che abbia salvato l'euro neppure, anche se io non sono così convinto che sia stato davvero un bene. Ed è altrettanto sicuro che lei guiderebbe l'Italia con mano più ferma del sor TentennaConte. Eppure a me resta un tarlo nella testa. Quel tarlo sono le parole che pronunciò un giorno l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, durante una telefonata in diretta tv. Era il 2008 e già si parlava di una sua possibile ascesa a Palazzo Chigi. «Impossibile», tuonò Cossiga, ricordando pure il suo passato a Goldman Sachs. «Non può diventare capo del governo uno che è stato a Goldman Sachs», disse. E aggiunse parole durissime: «Draghi è un vile affarista, il liquidatore dell'industria pubblica italiana. Svenderebbe quel che rimane». Sono sicuro che l'ex capo dello Stato stesse esagerando, come di tanto in tanto gli capitava. Ma nel caso dovessero continuare gli appelli alla sua mistica apparizione a Palazzo Chigi, caro Draghi, potrebbe per cortesia rassicurarci che non sarebbe quello il nostro destino? Per l' Italia il rischio di essere svenduta, purtroppo, è una realtà. E, ci perdoni, ma il suo curriculum, in questo settore, non ci tranquillizza proprio per nulla.

Massoneria, il libro choc di Gioele Magaldi: "Società a responsabilità illimitata", scrive “Libero Quotidiano”. Sarà presentato domani a Roma il libro, anticipato ieri dal sito affaritaliani.it, "Massoni società a responsabilità illimitata" a cura di Gioele Magaldi. L'opera, che ha tutte le carte in regola per figurare come il manoscritto più sconcertante, inaspettato e comunque disorientate dell'anno, esce con il seguente sottotitolo: "La scoperta delle Ur-Lodges", come recita il font bianco su copertina violacea edita da Chiarelettere Editore. Ma cosa sono le Ur-lodges? "Superlogge sovranazionali che vantano l'affiliazione di presidenti, banchieri, industriali" in cui "nessuno sfugge a questi cenacoli" a dirla con Il Fatto quotidiano di oggi che, proprio sul cartaceo di questa mattina, mercoledì 19 novembre, analizza l'opera di Magaldi, presentato dal quotidiano di Antonio Padellaro come "libero muratore di matrice progressista". Ad essere particolarmente interessante è proprio il capitolo finale del libro in cui è presente un colloquio tra Magaldi e altri confratelli collaboratori con quattro supermassoni di queste fantomatiche "Ur-Lodges". Uno di loro, racconta: "Per far inghiottire simili riforme idiote e antipopolari alla cittadinanza, la devi spaventare come si fa con i bambini. Altrimenti gli italiani, se non fossero stati dei bambinoni deficienti, non avrebbero accolto con le fanfare i tre commissari dissimulati che abbiamo inviato loro in successione: il fratello Mario Monti, il parafratello Enrico Letta, l’aspirante fratello Matteo Renzi". Mario Draghi, governatore della Bce, sarebbe, a sentire quel che dice Magaldi "affiliato a ben cinque superlogge." Poi nella parte finale del manoscritto,  l'autore snocciola, l'elenco degli italiani inseriti nelle Ur-Lodges, in cui, oltre al già citato Mario Draghi, figurerebbero "Giorgio Napolitano, Mario Monti, Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan, Massimo D’Alema, Gianfelice Rocca, Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi, Marta Dassù, Corrado Passera, Ignazio Visco, Enrico Tommaso Cucchiani, Alfredo Ambrosetti, Carlo Secchi, Emma Marcegaglia, Matteo Arpe, Vittorio Grilli, Giampaolo Di Paola, Federica Guidi. Berlusconi, invece, avrebbe creato una Ur-Lodge personale, la Loggia del Drago".

Dagospia il 12 febbraio 2021. Da “Un giorno da Pecora – Radio 1”. “Draghi? Mi piace più di Conte, ha più stile e, cinematograficamente, ha un volto molto cinematografico, un volto da attore americano, interessante, affascinante”. A parlare è il regista Dario Argento, che oggi è intervenuto a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1. Che ruolo potrebbe avere Mario Draghi in un suo film?  “Un ruolo simile a quello che sta facendo, ad esempio il presidente degli Stati Uniti”. Sarebbe l'assassino o l'assassinato? “Potrebbe essere quello che sta per esser assassinato, ad esempio da uno che potrebbe somigliare a Donald Trump, ma che poi ce la fa a divincolarsi, magari aiutato da una guardia del corpo che potrebbe essere un attore Jason Statham. Oppure, restando in politica, da una persona che potrebbe somigliare ad uno come Giorgetti della Lega”. E, sempre restando in tema di metafore cinematografiche - politiche, chi potrebbe assassinare il governo Draghi? “Forse Giorgia Meloni”.

L’Europa a un bivio. In Italia ora spunta il grand commis. Matteo Carnieletto su Inside Over l'11 febbraio 2021. È un periodo di grandi cambiamenti non solo in Europa (si veda la voce Brexit), ma anche in Italia (Mario Draghi è ormai prossimo a diventare presidente del Consiglio). Cosa sta accadendo davvero? Ne abbiamo parlato con il professor Arduino Paniccia, analista e presidente della Scuola di guerra economica e competizione internazionale.

Professore, partiamo dalle basi: qual è la differenza tra Europa e Unione europea?

«C’è una differenza tra le due. Intanto è utile individuare una triade composta da tre concetti distinti: le democrazie, molto vive nel mondo anglo-sassone, il nuovo esperimento tecnocratico dell’Ue e le autocrazie che oggi condividono l’Eurasia, e in cui ormai mettiamo dentro anche la Turchia. Nel mondo anglo-sassone inseriamo anche l’India, che sta riscoprendo una radice di democrazia. Nuova Delhi ha scelto di non seguire le autocrazie dell’Eurasia, e la sua è una scelta tanto complessa quanto molto interessante. L’Europa sta sperimentando una forma tecnocratica che è assolutamente nuova e diversa, i cui risultati, per il momento, non sono però molti confortanti. La tecnocrazia non può esistere in modo a sé stante, si basa su un asse: quello franco-tedesco, che ha dato via, assieme ai Paesi satelliti – a partire da quelli del Nord – alla tecnocrazia in cui viviamo oggi. È un esperimento che avrebbe dovuto assicurare, da Maastricht in poi, la stabilità sociale, la difesa comune e la crescita attraverso la moneta comune. Mi pare che questi obiettivi non siano stati raggiunti».

Ad esempio?

«La difesa comune è inesistente, vi è solo un tentativo dello Stato maggiore francese di far diventare la difesa comune europea una spina nel fianco degli Stati Uniti. La base del patto asse-tedesco non è solo economico ma di potenza: i francesi hanno la bomba atomica, possono usarla quando vogliono e, allo stesso tempo, coprono i tedeschi con un ombrello. L’Ue si è involuta in una autoalimentazione burocratica sempre più forte. L’Ue è spaccata: c’è un Nord che segue una sua strategia condizionata dall’asse franco-tedesco e c’è poi un Mediterraneo nel quale si vede il vuoto lasciato da varie potenze e che è stato riempito da Russia e Turchia, due Paesi sempre meno amici dell’Ue».

Chi sono allora gli amici dell’Unione europea?

«L’Ue è un alleato misterioso degli Stati Uniti, visto il rapporto con i cinesi. Sostanzialmente oggi l’Ue è divisa in due: ha un vuoto in un’area pericolosissima, non è più amica degli Usa, non è amica dei cinesi se non in modo obliquo, è in conflitto latente con Russia in Ucraina, ed è alle corte con Recep Tayyip Erdogan che pensavamo di comprare con quattro soldi. La Gran Bretagna è uscita dall’Ue, in Spagna la Catalogna voleva fare una secessione, l’Italia è spaccata, i Balcani sono un punto interrogativo, a est c’è il Patto di Visegrad mentre le Repubbliche baltiche vivono con la paura dei russi. Il quadro non è affatto entusiasmante».

Raccontata in questi termini, l’Unione europea sembra più morta che viva…

«L’Unione europea esiste, seppur in queste condizioni. L’Italia è lo specchio di molte delle vicende più generali. Come il nostro Paese, l’Ue ha bisogno urgente di una revisione totale della sua politica di difesa e di alleanze, nonché di una revisione dei rapporti economici perché si trova nel mezzo di una guerra economica. In più, l’Ue non è attrezzata militarmente. Deve fare scelte strategiche vere che la tecnocrazia non è in grado di fare. La pandemia ha inoltre mostrato che il re è nudo. Il Covid è stato l’acceleratore di un processo di decrescita e di crisi latente nel quale l’asse centrale sta reggendo solo per i motivi che abbiamo detto. Contrariamente ai grandi proclami di 30 anni fa, l’Ue ha fallito nella riduzione delle diseguaglianze. Anzi: le ha amplificate».

Europa e Unione europea: perché sono diverse?

«Iniziamo a pensare che l’Ue non possa coincidere con l’Europa. Questa trasformazione sta riguardando molte delle potenze mondiali. Le potenze fanno molta fatica a ritrovare se stesse. Anche gli Usa non sono più quelli che abbiamo conosciuto. Anche la Russia deve riconoscersi in una autocrazia che si è genuflessa alla Cina. I cinesi sembrano essere gli unici che per il momento ritrovano se stessi. Nonostante i mille interrogativi sulla pandemia – con i morti per strada – loro sembrano di “stare nella loro pelle”. L’Europa, invece, non so se riuscirà a trovare se stessa, soprattutto nei panni dell’Ue».

E l’Italia? Qual è il suo rapporto con l’Unione europea?

«Noi abbiamo due strade nei confronti dell’Unione. Una sarebbe quella di riuscire a portare sul tavolo, con grande capacità, gli interessi molto delicati nel Mediterraneo. È difficile far capire all’Europa del Nord che cos’è il Mediterraneo. L’altro cammino: avere un rapporto con l’Europa nel quale riusciamo a integrarci. Perderemo delle caratteristiche, ma l’integrazione non riguarderebbe più Maastricht bensì l’alleanza con gli Usa, l’integrazione sulle tecnologie e la concentrazione delle risorse. Draghi può essere una medicina amara dell’Europa, ma è anche italiana, americana e potrebbe in qualche modo fare qualcosa che fino a ora non siamo mai riusciti a fare. Draghi ha molti difetti ma non è un provinciale: conosce l’Italia, l’Europa, l’alleato americano e potrebbe triangolare. Bisogna vedere se Draghi riuscirà in questa missione o se si dedicherà soltanto a rimettere in ordine il debito e tranquillizzare l’Europa».

La Francia ha scelto Macron, il piccolo Napoleone, l’Italia invece Draghi. A chi paragonerebbe l’ex capo della Bce?

«La scelta del piccolo Napoleone è una scelta da sempre francese. Ognuno cerca di ritrovare un periodo storico in cui i rispettivi Paesi erano al centro di un’epoca d’oro e di emularlo. Anche l’Italia è alla ricerca di qualcosa di simile. Abbiamo però un problema: il nostro Paese è diviso in Nord e Sud. Per tornare a dei grandi statisti, dobbiamo tornare a gente come Giolitti o De Gasperi. Entrambi hanno vissuto gli eventi delle due guerre mondiali, cioè emergenze forti. Mi piacerebbe che qualcuno assomigliasse a Giolitti. L’Italia non può affidarsi a scelte autocratiche, deve trovare uomini di una capacità importante e di un certo carisma, in grado di guidare la parte finanziaria del Paese. Questa figura deve avere presente l’interesse nazionale, la ricerca di alleanze – l’Europa è imprescindibile perché ci dà i soldi – i legami con i fondi anglo-sassoni, il tutto unito a un pragmatismo nel quale ci presentiamo preparati. Mentre la Francia può ricreare piccoli Napoleoni, la Germania ritrovare lo spirito prussiano e l’Inghilterra fare scelte sui generis in virtù della propria particolare democrazia, l’Italia non può far altro che affidarsi alla figura del commis. L’ultimo grand commis dell’Italia è stato Giolitti. Draghi ha molte caratteristiche che lo accomunano ai grand commis del passato: conosce il mondo amministrativo, i bilanci dell’Ue, dello Stato e via dicendo. La scelta, insomma, rientra nella storia e nella tradizione del nostro Paese. Non basta richiamarsi a una democrazia millenaria, fare i piccoli Napoleoni, rifarsi all’animo prussiano e via dicendo. Quando gli italiani pensano al Paese ordinato che funziona, la Cina, fanno inoltre un errore gravissimo».

Draghi, i poteri forti e i poteri occulti. Mario Furlan il 3 febbraio 2021 su Il Giornale. Quando sento gridare al pericolo che i “poteri forti” – di cui Mario Draghi sarebbe una delle massime espressioni – prendano il potere, mi sento preso in giro. Per un motivo molto semplice: chiunque vada al potere diventa forte. Per il solo fatto che manovra le leve di comando. Se le hai in pugno, sei forte. Come se impugnassi un bazooka: questo ti rende molto più forte di chi circola disarmato. Chi ha i soldi ha, ovviamente, potere. I banchieri, i grandi imprenditori, le multinazionali e i grandi finanzieri fanno di diritto parte dei poteri forti. Così come chi comanda i servizi segreti, l’esercito, le forze dell’ordine. Per non parlare di chi domina il mondo della comunicazione. Soprattutto quella che conta di più, perché arriva alle masse: la comunicazione online. Poche persone al mondo sono potenti come Mark Zuckerberg, che ha nelle sue mani Facebook, Instagram e Whattsapp. Quindi le principali fonti d’informazione di miliardi di esseri umani. O come la dirigenza di Google. Che decide cosa farci vedere, e cosa no, nelle nostre ricerche. Anche chi guida il governo di un Paese fa parte dei poteri forti. Nelle dittature, ovviamente: il tiranno fa il bello e il brutto tempo nel suo Paese, ed è talmente forte che quasi nessuno osa ribellarsi. Ma anche nelle democrazie: la decisione di un premier può cambiare radicalmente il destino di una nazione. E più uno Stato conta nello scacchiere mondiale, più il suo capo è un potere forte. La Merkel è più forte di qualunque premier italiano, perché la Germania conta più dell’Italia. E Xi Jinping conta più della Merkel, perché la Cina conta più della Germania. Inoltre la Merkel sta terminando il suo mandato, mentre Xi resterà in sella a vita. Qual è il contrario di potere forte? Potere debole, ovviamente. Ma se un potere è debole, che potere è? E’ come l’insegnante che cerca di tenere a bada la classe indisciplinata, ma nessuno se lo fila. Mentre è un potere forte il prof che mette tutti in riga con le note, e sbattendo fuori dalla classe chi fa casino. Per questo è un controsenso prendersela con i poteri forti. Può essere corretto, semmai, rimarcare che chi governa dev’essere stato eletto dal popolo, e non scelto da altri. Ma una cosa è inevitabile: chi va al potere diventa, automaticamente, per il solo fatto di essere nella stanza dei bottoni, un potere forte. Se ha una maggioranza forte, e un governo forte, che lo sostengono. Basta seguire un ragionamento elementare per capire che un potere forte è meglio di un potere debole. Perché il potere forte può agire, mentre quello debole non combina nulla: non ha la forza di realizzare nulla. A patto, ovviamente, che il potere forte faccia il bene del popolo. Mentre il potere debole non fa il bene di nessuno, se non di chi riscalda una poltrona: perché, per male che vada, si porta a casa un bello stipendio. Se per poteri forti intendiamo quelli che vengono chiamati i poteri occulti – ce ne sono mille:  la massoneria, il gruppo Bilderberg, gli Illuminati, i Rosacroce, i Rosarossa e così via –  mi viene da fare una duplice considerazione.

1) Se non vedo, non credo. Sono troppo vecchio per abboccare alle teorie cospirative alla Quanon, che ricordano il “complotto giudoplutodemomassonico” di mussoliniana memoria;

2) Come dice il proverbio, chi si somiglia si piglia. Le persone di potere si frequentano tra di loro; così come i cantanti, gli sportivi, gli attori, gli studenti si frequentano tra di loro. Quando ero adolescente frequentavo un gruppo di coetanei che le ragazze chiamavano “la sfigation corporation”: il gruppo degli sfigati. Ero uno sfigato anch’io, e frequentavo atri sfigati come me. Invece i fighetti si frequentavano tra di loro. Li invidiavo. Perché avrei voluto essere come loro, e insieme a loro. Loro si scambiavano gli inviti nelle loro ville al mare; noi della sfigation dormivamo nel sacco a pelo in riva al mare. Siamo in un mondo classista, o a strati: si tende a frequentare le persone simili a noi, e a sposarsi tra simili. Infatti Chiara Ferragni ha scelto come marito Fedez, mica un senzatetto. Non perché discrimini, ma perché frequenta gente bene, come lei, e non poveracci.

Il ragionamento da fare non è “poteri forti si o no”, ma “politici competenti si o no”. Non credo che uno valga uno, cioè che uno valga l’altro. Ogni essere umano ha lo stesso valore davanti a Dio, che si tratti di un miliardario o di un morto di fame. Personalmente, grazie al mio volontariato nei City Angels, conosco molti più morti di fame rispetto a miliardari. E ho più simpatia per i primi che per i secondi. Ma non metterei un clochard a capo del governo. Preferisco che mi governi una persona competente e capace. Non un pirla come me, ma uno migliore di me. Uno che prima di entrare in politica abbia già dimostrato cosa sa fare. Draghi, o chi per lui, risponde ai banchieri, alle multinazionali, ai massoni, agli Illuminati, ai Rosacroce, ai Rosarossa? Può darsi. Ma siamo davvero così ingenui da pensare che un altro al posto suo, una volta a Palazzo Chigi, risponda agli operai, ai contadini, ai disoccupati, ai cassintegrati, ai senza fissa dimora? Non prendiamoci in giro. A parole, tutti si proclamano gran patrioti e giurano che vogliono servire il popolo. Poi, una volta al potere, la musica cambia. E se al governo ci va qualcuno che riesce a non farci sprofondare nella miseria, ma anzi a spendere bene i soldi in arrivo dall’Europa, e a creare ricchezza, io mi accontento. E tu?

Lettera di Paolo Cirino Pomicino a Dagospia il 2 settembre 2021. Era il novembre del 1990 quando un mio collaboratore dell’epoca, il professore Lucio Scandizzo, mi presentò al ministero del Bilancio un giovane poco più che quarantenne, Mario Draghi, che di lì a poco sarebbe stato nominato direttore generale del tesoro. Draghi veniva dalla Banca mondiale dove da alcuni anni era diventato direttore esecutivo. Fu un incontro piacevole fuori dai convenevoli di rito parlando subito dei problemi della finanza pubblica e di quello che avevamo fatto in quasi due anni di governo. Carli mi aveva già parlato del suo arrivo tessendone le lodi e l’intesa tra me e Carli è stata sempre non solo completa ma anche sincera ed affettuosa. Dopo quel primo incontro nel gennaio del 1991 Draghi prese possesso del suo nuovo incarico e cominciammo subito a lavorare insieme riunendoci spesso insieme a Carli. In verità in quel tempo avevamo un metodo di lavoro per cui ogni mese facevamo un briefing sull’andamento della finanza pubblica e quello dell’economia reale. Con Carli me e Formica si riunivano anche Andrea Monorchio, ragioniere generale dello Stato, Mario Draghi e spesso Carlo Azeglio Ciampi governatore della Banca d’Italia. Nei momenti più delicati ricordo che Draghi mi sollecitava riservatamente ad intervenire così come quando preparavamo la legge finanziaria facevamo un confronto serrato con i ministri di spesa per far quadrare i conti. Devo dire che quella squadra azzerò per la prima volta il disavanzo primario e l’anno successivo consegnò ad Amato presidente del consiglio un bilancio con un piccolo avanzo primario avendolo ricevuto tre anni prima dallo stesso Amato con un disavanzo di 38 mila miliardi di vecchie lire. Il racconto dei vinti della storia negli anni è stato tutto un altro e quando dieci anni dopo la società italiana degli economisti italiani disse che il primo governo che aveva iniziato a risanare i conti pubblici era quello di Andreotti, Carli, Pomicino e Formica fu proprio Draghi a chiamarmi per darmi questa notizia. Forse la nostra intesa derivava dal fatto che eravamo nati il 3 settembre, io del 1939 e lui del 1947, e quindi entrambi del segno della Vergine, segno della razionalità e della concretezza. Io, però’, essendo democristiano ero due volte Vergine perché avevo l’ascendente dello stesso segno. Un sincero augurio di buon compleanno al presidente del consiglio.

Dagospia il 9 febbraio 2021. Pubblichiamo un estratto dell’intervista a Mario Draghi realizzata da Federico Carli, presidente dell’Associazione di cultura economica Guido Carli, e contenuta nel volume La figura e l’opera di Guido Carli (Bollati Boringhieri, 2014).

Intervista di Federico Carli pubblicata da "la Verità".

Presidente, qual è il suo ricordo dei rapporti fra Guido Carli e Federico Caffè?

«Il primo ricordo che ho è legato alla mia tesi di laurea con Caffè. Mi laureai nel febbraio 1970 con una tesi sul Piano Werner. Il succo della tesi era questo: il Piano Werner è stato un fallimento perché le politiche economiche e le situazioni istituzionali dei vari Paesi dell'Unione sono ancora troppo diverse per poter avere dei cambi fissi; in sostanza è troppo presto per pensare a una moneta unica. Anche Carli la pensava così. Io lo seppi proprio da Caffè, il quale, durante la seduta di laurea, fece riferimento all'idea del governatore della Banca d'Italia che "guarda caso, coincide con la sua": fu un semplice complimento alla fine della tesi, ma indicava molto chiaramente il rapporto che c'era fra i due. [...] Erano due conoscitori della liquidità internazionale e delle istituzioni finanziarie internazionali [...]».

Torniamo al rapporto con Carli.

«Carli, come Caffè, non era acriticamente liberista: nutrivano entrambi un sostanziale scetticismo a proposito del funzionamento di un mercato non sorvegliato, non accudito da norme adeguate. Lo scetticismo in Caffè diventò poi sempre più netto, fino alle invettive contro la Borsa. [] Ora il mio rapporto con Carli. Mio padre cominciò la sua carriera con Donato Menichella negli anni Venti, negli uffici di liquidazione della Banca italiana di sconto. Poi entrò in Banca d'Italia, dove fu ispettore di vigilanza per una decina d'anni; lasciò la Banca per l'Iri, dove ritrovò Menichella come direttore generale, e con lui lavorò negli anni Trenta, fino alla guerra. In seguito gli offrirono un posto alla Banca nazionale del lavoro con Imbriani Longo, dove rimase fino alla morte. È chiaro che, in famiglia, dei governatori della Banca d'Italia si parlava. Ricordo che quando avevo solo cinque anni feci un viaggio in treno fino a Padova con Menichella [...]. Anche di Carli - a un certo punto venne fuori questo nome - si parlava molto; per una persona come mio padre, che aveva l'età circa di Menichella - era nato nel 1895, Menichella nel 1896 -, Carli era un po' troppo giovane, questa era l'idea che circolava. Poi, alla morte di mio padre, mia madre curò una raccolta di suoi scritti di tecnica bancaria, io avevo 15 o 16 anni; ci fu una bella prefazione di Alberto De Stefani, il vecchio ministro del fascismo, che mio padre, che era di Padova, conosceva perché De Stefani aveva studiato e insegnato a Padova, avevano fatto tutti e due la prima guerra mondiale, erano stati tutti e due decorati. Portai a casa di Carli una copia di questo libro: ci fu una stretta di mano e poco più, arrivederci e grazie. Ci si rivide nel 1990 quando io tornai dalla Banca mondiale. Avevo fatto già quattro anni (più uno) a Washington. Uno dei governors della Banca mondiale per l'Italia è, de iure, il governatore della Banca d'Italia. Quindi all'inizio del 1989 chiamai il governatore Ciampi e gli dissi che avevo intenzione di andare via. Lui mi chiese: "Dove va?". Risposi: "Probabilmente vado a lavorare in una banca a Los Angeles, quindi, tempo cinque-sei mesi, vorrei chiudere qui alla Banca mondiale, sono rimasto anche troppo". Ciampi mi rispose: "Aspetti un momento". Mi richiamò dopo tre o quattro giorni e mi fece un'offerta per venire a lavorare come consulente in Banca d'Italia. Ne parlai con mia moglie, alla fine si decise e si venne qui. Potei così continuare per uno o due anni l'insegnamento all'università, che altrimenti avrei lasciato. Dopo circa un anno di lavoro alla Banca, verso la fine del 1990, ci fu un dissidio fra Carli e il direttore generale del Tesoro, Mario Sarcinelli, alla fine del quale Sarcinelli diede le dimissioni. La questione era la Sace, della quale Sarcinelli era presidente, in quanto direttore del Tesoro. C'erano forti pressioni di alcuni esponenti del governo (il presidente era Giulio Andreotti) per far affluire dei finanziamenti a imprenditori per esportazioni. Questi finanziamenti potevano essere concessi dalle banche solo se assicurati dalla Sace. Questa, con Sarcinelli, continuava a opporsi. Allora fu proposta una legge che poneva la decisione direttamente in capo al governo, sempre però previa valutazione della Sace. Le difficoltà continuarono e ci fu un voto contro Sarcinelli nel consiglio della società. Sarcinelli, non sentendosi sostenuto da Carli, si dimise. Fu allora che Ciampi mi chiamò e mi chiese se fossi interessato al posto di direttore generale del Tesoro. La mia prima risposta fu che non avevo la più pallida idea di cosa fosse questo lavoro. Esitai parecchio, circa un mese e mezzo. [] Alla fine di queste conversazioni, che tenemmo nell'ufficio che aveva in via Due Macelli, sia Carli che Ciampi mi dissero: «Si decida, per cortesia». Accettai l'offerta []. Per me erano i primi passi nell'amministrazione pubblica in una posizione di grande responsabilità, in un momento in cui il sistema si stava sgretolando rapidamente. E la prima questione fu proprio la Sace, di cui andavo ad assumere la presidenza. Io, abituato alla Banca mondiale dove i documenti per le decisioni arrivavano molto ben costruiti, precisi, almeno due settimane prima della riunione nella quale si doveva deliberare, arrivai lì e mi trovai sul tavolo alla prima riunione qualcosa come 200 schede in cui non si vedevano neanche bene i nomi e le cifre, perché erano tutte sbiadite. Ero molto a disagio. Alla fine dico: "... ma scusate, questo è come se uno sta lì, apre la porta con la lingua di fuori e tu passi col francobollo e l'attacchi!". Risata di tutti. E io: "Voi ridete, ma francamente non mi sento di approvare niente". Diventai direttore generale del Tesoro, e quindi presidente della Sace, il primo marzo 1991: la Sace non approvò niente fino al giugno-luglio di quell'anno».

Peggio che con Sarcinelli!

«Molto peggio! Tanto che ci furono delle reazioni molto vocali, molto esplicite da parte di parecchia gente. Ebbi telefonate anche la notte []».

E Carli la sostenne?

«Certo, assolutamente sì. [...] Non mi fece alcuna obiezione. Un'altra cosa bloccai subito, sempre con il consenso di Carli. Il Tesoro aveva un piano di emissioni obbligazionarie in valuta estera abbastanza strutturato [...]; io prevedevo, dopo aver visto le vicende di tanti Paesi in Banca mondiale, che qualcosa sarebbe successo al cambio della lira. Perciò l'altra cosa che bloccai fu il programma di emissioni di titoli pubblici in valuta estera. Lo bloccai completamente fino alla fine del 1992, fino a dopo la svalutazione. Questa fu una decisione che causò notevoli reazioni da parte della comunità finanziaria internazionale; al Tesoro c'era un viavai di banche estere che volevano partecipare ai collocamenti. Una questione sulla quale Carli molto si impegnò in prima persona fu il Trattato di Maastricht. [] Durante il mio primo anno al Tesoro, per lo meno due giorni a settimana ero a Bruxelles per discutere di questo. Devo dire che non trovai il terreno vergine, perché c'era stato il Rapporto Delors e c'era già un ampio coinvolgimento sia della Banca d'Italia sia del ministero degli Esteri. [] Carli, e questo è stato dimostrato tante volte, sperava molto nell'azione del vincolo esterno. Lui riteneva che, una volta che ci fossimo legati, questo avrebbe portato un cambio di politica economica».

Andreotti le concedeva incontri?

«Andreotti me li concedeva senza batter ciglio, perché c'era quest'entente con Carli, il quale teneva molto che io ogni volta andassi, informassi il presidente del Consiglio, gli dicessi anche che occorreva muoversi su tanti fronti, soprattutto sul fronte previdenziale, pensionistico, della spesa corrente. La situazione di partenza era spaventosa. Noi stavamo viaggiando verso un rapporto deficit/Pil dell'11 per cento. Tenete presente che il prestigio di Carli nell'Ecofin era molto alto. Carli era ricordato per il ruolo che aveva avuto negli anni Settanta, negli anni Sessanta, e prima ancora come presidente dell'Unione europea dei pagamenti []. Il suo prestigio era tale che veniva considerato sempre più come l'ultima spiaggia per l'Italia [...]. Quel governo veniva visto dal resto d'Europa come animato da due figure centrali: Carli da un lato e Andreotti dall'altro, quale rappresentante massimo della Dc europea, al livello di Helmut Kohl. [...] Torno alla domanda sul vincolo: se lui teneva così tanto a che io parlassi con il presidente del Consiglio, vuol dire che veramente pensava che il vincolo esterno potesse essere efficace e aiutare il Paese e lo stesso presidente del Consiglio, il quale era molto convinto dell'importanza del processo europeo».

Il mistero irrisolto di Federico Caffé, l’economista che fu maestro di Draghi. Il Dubbio il 14 febbraio 2021. 1Il professore del premier Mario Draghi sparì nel nulla il 15 aprile 1987. Suicidio o fuga volontaria? Parla il poliziotto che all’epoca guidò le ricerche. Quello della scomparsa dell’economista Federico Caffè, il professore del premier Mario Draghi sparito nel nulla il 15 aprile 1987, è un caso rimasto irrisolto e a cui nessuno è mai riuscito a fornire anche un minimo indizio per la soluzione. Che fine ha fatto? Si è suicidato o magari, trovando rifugio in un monastero, si è volontariamente allontanato? Uno dei poliziotti impegnati nelle ricerche sembra propendere per l’ultima tesi. Docente di Politica economica e finanziaria della facoltà di Economia e Commercio dell’Università La Sapienza, Federico Caffè ha formato generazioni di economisti e manager del nostro Paese. È stato sotto i suoi insegnamenti che l’ex presidente della Bce Draghi, e attuale presidente del Consiglio, si formerà fino a laurearsi nel 1970. Quando scomparve, Federico Caffè aveva 73 anni e aveva abbandonato l’insegnamento da un paio di anni. A dare l’allarme alla polizia fu il fratello Alfonso, che conviveva con il professore nell’appartamento di via Alberto Cadlolo al civico 42, a Monte Mario. Antonio Del Greco in quegli anni dirigeva, da funzionario di polizia, la settima sezione della squadra mobile della Questura di Roma e oggi con l’Agi rievoca le ore frenetiche che seguirono la denuncia della scomparsa dell’economista. «Ricordo che ci alternammo con le altre sezioni della Mobile a turni di sette ore per rintracciarlo», racconta Del Greco, oggi a riposo dopo aver ricoperto come ultimo incarico quello di dirigente della Quinta Zona della Polizia di Frontiera. «La palazzina da dove si era allontanato il professore Caffè si trovava al confine della riserva di Monte Mario – spiega -all’epoca c’erano meno edifici di oggi e la zona era ancora più impervia. Ci siamo messi alla sua ricerca nel parco con l’aiuto dei cani e anche di elicotteri dall’alto». Alla stampa la scomparsa di Federico Caffè venne annunciata solo una settimana dopo con un comunicato del fratello Alfonso che chiedeva aiuto a chi avesse avuto sue notizie. Intanto le ricerche del professore proseguivano anche con iniziative degli stessi ex allievi dell’Università che dettero una mano per indicare tutti i luoghi solitamente frequentati dal professore quando insegnava. «Quello che ci sorprese è che Caffè si era allontanato da casa senza portare via nulla – prosegue Del Greco – sulla scrivania vennero ritrovati gli occhiali da vista, le chiavi di casa e l’orologio. Impossibile ipotizzare che si era potuto allontanare di molto da casa, per questo lo si cercò soprattutto nell’area vastissima del parco». Le indagini sulla scomparsa del professore vennero condotte dalla Mobile di Roma che all’epoca era diretta da Rino Monaco, un poliziotto di razza divenuto, anni dopo, Questore della capitale; e videro in prima linea, in particolare, gli investigatori della terza sezione che era guidata da Nicola Cavaliere, anch’egli futuro Questore di Roma. Federico Caffè stava attraversando un periodo di depressione – aveva confidato ai poliziotti il fratello – sicuramente dovuto a una serie di lutti che lo avevano particolarmente colpito: prima la morte della madre, e poi quello della sua affezionatissima tata novantenne. Inoltre, erano scomparsi nel giro di poco tempo anche gli allievi Ezio Tarantelli, assassinato dalle Br nel 1985, Fausto Vicarelli, vittima di un incidente stradale, Franco Franciosi, ucciso da un tumore. A questo si aggiungeva il pensionamento che lo aveva separato dall’ormai unica ragione di vita, l’insegnamento. «Le ricerche andarono avanti per giorni ma senza esito – racconta ancora Del Greco – nessun indizio. Del resto, non emersero elementi per pensare che ci si trovasse davanti a un omicidio e anche sull’ipotesi del suicidio rimasero perplessità visto che non si è mai ritrovato il corpo». In quei giorni, pensando a un tragico gesto compiuto dal professore, gli investigatori controllarono anche il fiume Tevere con le imbarcazioni della polizia di Stato seguendo il corso delle acque fino alla secca di via Marconi e poi giù fino a Fiumicino, nei punti dove solitamente il fiume restituisce i corpi di chi si è suicidato. Ma di Federico Caffè nessuna traccia. I poliziotti con l’aiuto di alcuni studenti ex allievi esaminarono anche gli appunti e centinaia di carte lasciati nello studio e la scrivania dell’abitazione del professore, cercando qualche traccia o frase di commiato, ma anche questo senza alcun esito. Il fratello riferì che pochi giorni prima di sparire nel nulla in casa si commentò il suicidio di Primo Levi: «Che brutta maniera di uccidersi, farsi trovare così dai parenti». Infine, non vennero trascurati anche tutti i pronto soccorso della capitale per verificare se fosse stato ricoverato qualche anziano smemorato, così come furono chieste informazioni ad alcuni istituti religiosi. «Alla fine l’ipotesi più plausibile fu quella dell’allontanamento volontario», conclude Del Greco. La dichiarazione di morte presunta fu dichiarata dal tribunale di Roma il 30 ottobre 1998. Ad oggi il mistero resta ancora in piedi.

Il giallo dell'economista mai ritrovato. Il mistero di Federico Caffè, il maestro di Draghi scomparso nel nulla e mai ritrovato. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. Sul comodino di Federico Caffè vennero ritrovati il suo orologio, le chiavi, gli occhiali, il passaporto e il libretto degli assegni. Nessuna traccia, a parte qualche avvistamento, l’incontro che racconterà un allievo e una sfilza di ipotesi che non porteranno mai a una soluzione. Alle 5:30 del 15 aprile del 1987, un mercoledì, l’economista e accademico abruzzese usciva dalla sua casa sulla Balduina, a Monte Mario a Roma, e spariva nel nulla. Non è stato più ritrovato. Un nuovo caso Ettore Majorana, quarant’anni dopo la scomparsa del geniale fisico siciliano su un piroscafo da Napoli a Palermo. Alla Facoltà di Economia dell’Università La Sapienza di Roma si conservano ancora la libreria e la scrivania di Caffè, economista e pensatore tra i più influenti e brillanti della sua generazione, maestro anche dell’ex Presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi. Quando la notizia della scomparsa cominciò a circolare gli studenti, gli assistenti, gli amici setacciarono Roma per ritrovare l’accademico. Caffè aveva 73 anni, alto 1 metro e cinquanta. Si aspettò qualche giorno per portare il comunicato all’Ansa: per non generare troppo scalpore. L’accademico era nato a Pescara, figlio di una famiglia di modeste condizioni economiche. Si era laureato con lode alla Sapienza in Scienze economiche e Commerciali. Allievo di Guglielmo Masci e Gustavo Del Vecchio, studiò alla London School of Economics a Londra, e lavorò alla Banca d’Italia prima di insegnare a Messina, Bologna e all’Università di Roma fino alla pensione. Fu anche attivo nell’editoria, per Laterza, e nel giornalismo, soprattutto per Il Messaggero e Il Manifesto. Da sempre attento al tema del welfare, divulgatore del pensiero degli economisti svedesi, profondo conoscitore delle politiche di John Maynard Keynes. Era definito infatti “il più keynesiano degli economisti italiani”. Fu maestro di Mario Draghi, come si accennava, già governatore della Banca d’Italia e Presidente della Banca Centrale Europea – e probabilmente prossimo Presidente del Consiglio – del governatore della BdI Ignazio Visco e del preside della facoltà di economia e commercio della Sapienza Giuseppe Ciccarone. Come ha scritto il direttore di questo giornale Piero Sansonetti, da un incontro proprio con Draghi: “Era un allievo di Caffè. Insistette molto su questo, mi raccontò del rapporto molto stretto che aveva avuto con il professor Caffè, e di quanto il pensiero di Caffè l’avesse influenzato”. Dopo il pensionamento l’accademico era caduto in depressione: viveva con il fratello malato, Alfonso; da poco aveva perso le due donne della sua vita: la madre e la governante; fiaccato probabilmente problemi finanziari; negli ultimi anni tre dei suoi migliori allievi erano scomparsi tragicamente: Ezio Tarantelli ucciso dalle Brigate Rosse, Franco Franciosi per un tumore al fegato e Fausto Vicarelli in un incidente stradale; forse era frustrato dal poco seguito che le sue idee riscontravano nell’economia liberista. Chi ha parlato di fuga, chi di suicidio, chi di un esilio volontario. Da Memorie di un intruso, edito da Castelvecchi, emerge il suo stupore per il presunto suicidio di Primo Levi, l’11 aprile dello stesso 1987: “Perché così? Perché sotto gli occhi di tutti? Perché straziare i parenti?”. Una coppia di conoscenti disse di averlo visto su un pullman, il giorno della sparizione. L’allievo Bruno Amoroso, confidente, amico di Caffè, al Corriere della Sera, rilasciò una frase enigmatica, “non ti posso dire nulla su Federico Caffè, questo reato non è ancora prescritto”. Quale reato? È morto nel 2016 Amoruso, che aveva anche detto di aver incontrato il suo maestro, aggiungendo solo un’altrettanto enigmatica frase: “Non c’è niente da sapere su Federico Caffè, se n’è andato via da Roma e ha passato il resto della sua vita nella stanza rossa”. La stanza rossa è il libro sulle Riflessioni scandinave dell’economista scomparso, scritto dallo stesso Amoroso. Un non-indizio. Suicidio, o convento, le ipotesi secondo Daniele Archibugi, economista e direttore al Cnr, saggista e docente. “Negli ultimi mesi mi diceva che l’unico modo in cui avrei potuto aiutarlo era facilitandogli il suicidio. Ma parlavamo anche di sparizione”, ha raccontato sempre al Corriere. Quindi un progetto, non un caso o una tragedia? Chissà. Dello stesso avviso la ricostruzione dello scrittore napoletano Ermanno Rea nel suo romanzo L’ultima lezione. La traccia dell’opera parte dall’ultima lezione nel 1984 e dalla lettura dall’opera Le suicide del sociologo francese Emile Durkheim. “Finirà che perderò la testa, ma la carcassa andrà avanti”, avrebbe confidato il professore. La morte, presunta, in circostanze non appurate, venne dichiarata dal tribunale di Roma l’8 agosto 1998, quando Caffè avrebbe avuto 84 anni. È stata definita come un’uscita di scena da maestro, possibile soltanto per un genio, come per esempio Ettore Majorana. Il caso resta comunque irrisolto. Una lezione annuale è dedicata all’economista a La Sapienza, oltre ad altri omaggi; quella del maggio 2012 venne introdotta da Visco e tenuta da Mario Draghi.

Striscia la Notizia, il durissimo video di Cossiga contro Draghi: "Vile affarista. Quando sarà premier, svenderà l'Italia". Libero Quotidiano il 03 febbraio 2021. Ora che Mario Draghi potrebbe essere il nuovo premier, torna a fare il giro della Rete il giudizio che gli riserbava Francesco Cossiga. L'ex presidente della Repubblica, durante l'ospitata a Uno Mattina, diceva dell'ex presidente della Banca centrale europea: "Un vile affarista, non si può nominare presidente del Consiglio chi è stato socio della Goldman & Sachs, grande banca d’affari americana. E male, molto male, io feci ad appoggiarne, quasi a imporne la candidatura (alla Banca d’Italia) a Silvio Berlusconi, male, molto male!". Un video, pesantissimo, rilanciato anche da Striscia la Notizia, il tg satirico di Canale 5. E ancora nel video rilanciato poi dal tg satirico: Draghi "è il liquidatore, dopo la famosa crociera sul Britannia, dell’industria pubblica, la svendita dell’industria pubblica italiana, quand’era direttore generale del Tesoro. E immaginati che cosa farebbe da presidente del Consiglio dei ministri. Svenderebbe quel che rimane: Finmeccanica, l’Enel, l’Eni, e certamente ai suoi ex comparuzzi di Goldman & Sachs". Parole tanto pesanti da far commentare a Ezio Greggio, conduttore del tg satirico di Canale 5, così la stoccata di Cossiga: "L'ha demolito, che picconate. A momenti al povero Luca Giurato gli è venuto un coccolone". Ed effettivamente il conduttore del programma di Rai Uno ha subito tentato di rimediare: "Naturalmente queste sono le sue dichiarazioni, noi la registriamo". Una frase che ha scatenato Cossiga: "Come la registriamo? Mi conosci, ho mai fatto qualcosa?". "È una frase superflua", ha poi cercato invano di ricucire Giurato. Insomma, una dichiarazione quella dell'ex capo dello Stato risalente al 1992 ma che oggi più che mai diventa attuale. Proprio in queste ore l'ex numero uno della Bce potrebbe accettare da Sergio Mattarella l'incarico a Palazzo Chigi. Anche se i bene informati, chi gli è stato più vicino, erano pronti a scommettere che Draghi mai avrebbe ricoperto il ruolo del presidente del Consiglio. Nulla però è ancora ufficiale. Serve attendere il faccia a faccia al Colle.

“È un vile affarista, svenderebbe l’Italia”, cosa pensava Cossiga di Draghi. Elisabetta Panico su Il Riformista 3 Febbraio 2021. Durante una trasmissione condotta da Luca Giurato su Rai1, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga disse le seguenti parole nei confronti di Mario Draghi: “È un vile, un vile affarista non si può nominare presidente del Consiglio dei Ministri chi è stato socio della Goldman & Sachs, grande banca d’affari americana. E male, molto male, io feci ad appoggiarne, quasi a imporne la candidatura a Silvio Berlusconi, male molto male“. Cossiga poi rincarò la dose: “È il liquidatore dopo la famosa crociera sul “Britannia” dell’industria pubblica, la svendita dell’industria pubblica italiana quand’era direttore generale del tesoro e immaginati che cosa farebbe da presidente del Consiglio dei Ministri svenderebbe quel che rimane: Finmeccanica, l’Enel, l’Eni e certamente i suoi ex comparuzzi di Goldman & Sachs”.

La polemica già nel 2014. Mario Draghi “una Mary Poppins un po’ suonata”, cosa diceva Beppe Grillo del presidente incaricato. Carmine Di Niro su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. La posizione di Beppe Grillo, fondatore e attualmente garante del Movimento 5 Stelle, sul possibile governo tecnico a guida Mario Draghi non può sorprendere. Il comico genovese, secondo un retroscena dell’AdnKronos, ha chiesto ai suoi gruppi parlamentari di restare compatti e leali con Giuseppe Conte, il premier uscente che ha visto fallire il tentativo di riportarlo per la terza volta a Palazzo Chigi. Grillo, ad alcuni fedelissimi che lo hanno sentito in queste ore, ha ribadito quanto espresso anche dal reggente politico Vito Crimi: nessun sostegno al governo tecnico presieduto dall’ex presidente della Bce. “Oggi ci ritroviamo con un governo tecnico. Mettete da parte Draghi, al di là della persona, pensate a un governo tecnico, freddo e calcolatore. Al di là di quello che faremo quando e se dovesse nascere questo governo noi saremo condizionati”, ha detto Crimi nell’assemblea 5 Stelle convocata per discutere della crisi politica in atto e del mandato conferito da Mattarella a Draghi. Ma il "no" di Grillo (e quindi del M5S) a Mario Draghi poteva essere letto anche in vecchie dichiarazioni del fondatore. Il comico genovese aveva dedicato un articolo all’ex numero uno dell’Eurotower nel settembre del 2014, dal nome emblematico: Draghi Poppins. Nel testo Grillo definiva Draghi “una Mary Poppins un po’ suonata che tira fuori dalla sua borsetta sempre le stesse ricette”. Il riferimento era ai continui tagli del costo del denaro da parte della Bce guidata proprio da Draghi. “Già in passato – scriveva Grillo – abbiamo visto come il taglio dei tassi non sia servito a ridare fiato all’economia, anzi paradossalmente l’ha affossata del tutto perché gli investitori vanno da chi fa fruttare i loro soldi”. Il giudizio era quindi severissimo: “La Bce non può osare e non gli resta che perseverare nell’errore. Sono i Trattati europei a non permetterglielo. Dunque, bisogna cambiare i Trattati europei”.

Chi è Mario Draghi, l’ex presidente della Bce incaricato da Mattarella per il nuovo governo. Carmine Di Niro su Il Riformista il 2 Febbraio 2021. Salirà domani alle 12 (del 3 febbraio 2021 nda) al Quirinale, dove riceverà dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’incarico per formare un governo tecnico “di alto profilo” dopo le dimissioni di Giuseppe Conte e il tentativo fallito del presidente della Camera Roberto Fico di ricompattare la maggioranza uscente. Sarà Mario Draghi l’uomo scelto dal presidente Mattarella per far uscire il Paese dalle sabbie mobili della crisi politica ma soprattutto economico-sanitaria, con l’Italia alle prese con l’epidemia di Covid, un piano di vaccinazione che stenta e i soldi del Next Generation EU da investire con criterio. Nato a Roma il 3 settembre 1947, dal 1973 è sposato con Serenella e con due figli, Draghi dopo la laurea all’Università La Sapienza di Roma ottiene un dottorato in Economia al Massachusetts Institute of Techonology. Quindi il ritorno in Italia prima come accademico e poi, dal 1984 a 1990, l’incarico di Direttore esecutivo della Banca Mondiale. Dal 1991 al 2001 è Direttore generale del ministero del Tesoro, mentre nel 2005 diventa Governatore della Banca d’Italia, preceduto da incarichi nella nota banca d’affari Goldman Sachs. L’incarico più prestigioso in carriera arriva nel 2011, quando viene nominato presidente della Banca centrale europea. È da capo della Bce che compie il discorso più celebre, nel pieno di una pesantissima crisi economica: Draghi al Global investiment conference di Londra, il 26 luglio 2012, spiega che la Banca centrale europea è pronta a fare “whatever it takes”, ovvero “qualunque cosa serva”, per salvare la moneta unica. Nello stesso anno i prestigiosi quotidiani inglesi Financial Times e The Times lo nominano uomo dell’anno per la gestione della crisi del debito sovrano europeo. Nel 2015, nonostante le resistenze tedesche, Draghi riesce a lanciare il Quantitative easing, lo strumento con cui la Banca centrale europea acquista titoli di stato dei paesi dell’Eurozona per 60 miliardi di euro fino al settembre 2016.

Mario Draghi. la moglie Serenella e la scelta obbligata della riservatezza. Conchita Sannino su La Repubblica il 3 febbraio 2021. L’unico “strappo” al G7 di Bari, nel 2017 quando la signora  cantò Volare. “Ma niente foto”. Era di maggio, sud Italia. E per una volta allentò la rigidissima regola del low profile, irrinunciabile per suo marito, SuperMario. Fu a Bari, nel 2017, durante il G7 economico a presidenza italiana, che con consueta gentilezza e in più l’orgoglio degli onori di casa, Maria Serena Cappello - origini aristocratiche e modi semplici, «la signora Serenella» come le scorte chiamano da sempre la professoressa di Lingue che è la moglie di Draghi - accennò al ritornello di “Volare” di Modugno, le braccia aperte come il grande Mimmo, la chitarra di un musicista locale ad accompagnarla. «Mi piace cantare», si schermì tra gli applausi delle mogli dei ministri delle Finanze, conquistate dall’empatia vivace e insieme istituzionale dell’allora first-lady della Bce. «Ma non mi riprendete con i cellulari, mi raccomando. Mio marito ama molto la riservatezza», aveva pregato i reporter, poco prima. Stessa apprensione un anno dopo, quando ai seggi delle elezioni politiche del 2018, incalzata da un cronista rispose: «Lui non lo fa il governo, non è un politico». Discretamente fulminata dallo sguardo di lui. Stanno insieme da 53 anni ( 48 dalle nozze), la signora Serenella e Draghi. Due figli, Federica e Giacomo, lei manager in biotecnologie, lui lavora nella finanza. Ma le asciutte e inevitabilmente stucchevoli schede familiari non dimenticano l’amato bracco ungherese. Serena ha appena 19 anni quando incontra il futuro banchiere: Draghi, ventenne, ha perso suo padre da ragazzino, l’eredità del genitore quasi fagocitata dall’inflazione dei Settanta, lei è compagna fiduciosa e discreta mentre lui punta su studio e formazione, specie negli anni americani, «giornata di 18 ore al giorno, dura fatica». Intesa rimasta solidissima, al volgere di incarichi, governi e tempeste, sull’Europa e sul mondo. Famiglia unita, seppur divisa tra le capitali estere e buen retiro in Umbria, come il casale circondato dal parco a Città della Pieve. Ma è a Bari, in quel G7, che si apre qualche squarcio più caloroso nel protocollo teutonico della coppia. La signora Serenella fa spalancare per le ospiti la cripta del venerato San Nicola, quasi si stende nel sarcofago perché si possano osservare meglio le reliquie. Si arrotola perfino le maniche del tailleur per omaggiare la preparazione di cavatelli e orecchiette. Ma era di maggio. E fu un’eccezione. Chissà il prossimo G20, in ottobre.

Da oggi.it il 28 febbraio 2021. Mario Draghi decide tutto lui. Dopo gli anni passati alla Banca d’Italia e alla Banca centrale europea, ora è alla guida del governo chiamato a tirare fuori il Paese dal disastro della pandemia, che ha trascinato con sé economia e società. Decide tutto, ma solo se la moglie è d’accordo. La moglie Maria Serena Cappello, detta Serenella, che gli è accanto da una vita. Ed è proprio con lei che il premier ritrova le energie per porter affrontare tutti i dossier più spinosi.

SEMPRE LUI – Già, perché quando le cose si fanno ingarbugliate, per una ragione o per l’altra, è sempre Mario Draghi l’uomo chiamato a sbrogliarle. Lo ha fatto da direttore generale della banca d’Italia quando c’era da trattare il nostro ingresso nell’euro. Poi da governatore della Banca d’Italia, quando il nostro Paese era bersaglio delle (solite) speculazioni finanziarie. E poi ancora da presidente della Banca centrale europea, quando ha fatto tutto ciò che era necessario (il famoso whatever it takes…) per evitare il fallimento dell’Unione europea, sotto i colpi della crisi economica e finanziaria. Senza dimenticare che l’intera frase pronunciata da Draghi era: “Nei limiti del nostro mandato, la Banca centrale europea è pronta a fare tutto ciò che è necessario per salvare l’Euro. E, credetemi, sarà abbastanza”.

MOGLIE, DUE FIGLI… E UN CANE – Insomma, un Mario Draghi tutto d’un pezzo. Che trova la sua forza in Serenella, la donna con cui si fidanzò durante le vacanze del 1966 a Stra, tra Padova e Venezia, che sposò nel gennaio del 1973 a Noventa Padovana e che da allora è sempre al suo fianco. Insomma, 55 anni insieme (tra fidanzamento e matrimonio), e due figli, Federica e Giacomo. Oltre al bracco ungherese con cui nel 2015 giocava a Villa Borghese, sempre accanto a Serenella. Come mostrano le immagini esclusive di Oggi.

Chi è Serena Cappello, la moglie del premier incaricato Mario Draghi. Redazione su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. “Chiedete a mia moglie”, rispose Mario Draghi ai cronisti che gli chiedevano cosa sarebbe stato del suo futuro. E la moglie si chiama Serena Cappello. La risposta dell’uomo che a quanto annunciato riceverà l’incarico di governo dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, oggi alle 12:00 al Quirinale, risale al 2019, quando Draghi lasciava la Banca Centrale Europa. Negli stessi giorni, atteso dai giornalisti, lo stesso Draghi negava la possibilità di guidare un governo con il segretario della Lega Matteo Salvini, invitato dal fondatore e leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, e la moglie osservava ai microfoni: “Lui non lo fa il governo, non è un politico”, e il marito: “Dai, stai zitta”. I due si sono sposati nel 1973. Cappello è esperta di letteratura inglese. Il suo nome, per esteso, è Maria Serenella Cappello. La coppia ha avuto due figli: Federica è laureata in biologia con un master a New York, è dirigente di una multinazionale delle biotecnologie; e Giacomo, laureato alla Bocconi, è stato Portfolio Manager in Lmr Partners LLP, attualmente trader finanziario presso la banca Morgan Stanley. Cappello proviene da una famiglia nobile. E’ discendente della sposa del Granduca di Toscana Francesco de’ Medici, Bianca Cappello. Di grande importanza, nella famiglia, a quanto si legge, anche un bracco ungherese al quale l’ex numero uno della Bce sarebbe particolarmente affezionato. Spesso Draghi è stato visto senza auto blu a Lavinio, presso la sua villa, in provincia di Roma. La famiglia di Draghi è sempre stata poco sotto i riflettori, un profilo molto basso.

Camilla Mozzetti per "il Messaggero" il 4 febbraio 2021. Se è vero che le impressioni degli sconosciuti sono a volte quelle più autentiche perché descrivono le persone senza condizionamenti, Maria Serenella Cappello, moglie di Mario Draghi, è una signora «amabile e divertentissima, elegante e comune». Come elegante e comune può essere un filo di perle intorno al collo di una donna. La fotografia la scatta chi questa signora, legata dal 1973 all' ex Governatore della Banca d' Italia chiamato ora a formare un nuovo esecutivo, ha imparato a conoscerla poco a poco nella quotidianità di un quartiere romano a pochi passi da Villa Borghese. Di lei le cronache mondane, nonostante i ruoli ricoperti dal marito nel corso degli anni, parlano poco se non per nulla. Le voci dei Parioli invece tratteggiano il profilo di una signora che al mattino esce a fare la spesa, si ferma nel negozio di abbigliamento di piazza Pitagora e sceglie un pullover o un completo da regalare al padre dei suoi due figli, Giacomo e Federica, nel giorno di Natale. Una donna che proprio insieme a Draghi si preoccupò a dicembre del 2013 di riempire le buste con generi di prima necessità da donare ai volontari del Banco alimentare di fronte a un supermarket nella periferia romana. Nelle sue poche uscite pubbliche, la signora Cappello, esperta di Letteratura inglese e di nobili natali poiché discendente di Bianca Cappello, sposa del Granduca di Toscana Francesco De' Medici, ha sempre dimostrato grande riservatezza. Solo in un' occasione si lasciò andare, rispondendo lei per conto del marito a un cronista. Era il marzo del 2018 e di fronte alla domanda se Draghi avesse potuto accettare l' incarico di presidente del Consiglio rispose: «Mio marito non farà un governo, non è un politico». Sempre al suo fianco - mai un passo avanti né uno indietro - per alcuni rappresenta l' asse portante della famiglia Draghi. E a testimoniare un grande affiatamento - nato in Veneto più di 50 anni fa - anche quella frase che lo stesso Draghi pronunciò lasciando l' Eurotower. A chi gli chiese cosa avrebbe fatto una volta sceso dal vertice della Bce disse: «Chiedete a mia moglie, spero lei lo sappia, ne sa più di me». La coppia si conobbe a casa di amici comuni dopo che Draghi, orfano dei genitori quando ancora era un adolescente, conseguì il diploma all' istituto Massimo di Roma, diretto dai padri Gesuiti. Tra i suoi compagni di scuola c' erano Luca Cordero di Montezemolo ma anche Giancarlo Magalli che ricorda la sua innata bravura verso la Matematica. Da mesi anche per via della pandemia da Covid-19 Serenella e Mario Draghi si sono trasferiti nel buen retiro di Città della Pieve in Umbria dove la famiglia, tramite una società di proprietà della signora Cappello, acquistò nel 2009 una villa sulle colline che guardano la Val di Chiana. Negli anni la proprietà è stato il rifugio della famiglia e palcoscenico di alcuni grandi momenti come il matrimonio del figlio Giacomo, un tempo trader finanziario presso la Morgan Stanley. Il Paese ricorda quell' occasione nel 2011 come una festa collettiva. La parrucchiera del posto fu chiamata dalla signora Cappello per pettinare molte delle ospiti del matrimonio compresa l' altra figlia della coppia, Federica, a capo di una multinazionale che cura le biotecnologie.

Il Presidente incaricato. Dove abita Mario Draghi, Città della Pieve: la residenza del premier. Vito Califano su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. È ormai diventata routine per gli spettatori, per gli addetti ai lavori, per i giornalisti la notizia che ogni giorno vede Mario Draghi lasciare la sua casa e tornare a Roma, ai Palazzi del governo, per lavorare al prossimo esecutivo che potrebbe nascere nelle prossime ore. Dove si trova residenza dell’ex Presidente della Banca Centrale Europea? A Città della Pieve. Una località che all’improvviso ha cominciato a godere di una notorietà non consuetudinaria. “Il rifugio” di Draghi, l’hanno definito. Il sindaco Fausto Risini ha deciso di conferire al premier incaricato la cittadinanza onoraria. “Volevo dare la cittadinanza onoraria già qualche mese fa, poi la questione Covid ci ha un po’ rallentati, ma sono più che mai intenzionato a dargliela, con orgoglio ed entusiasmo, appena sarà possibile”, ha detto il primo cittadino a Un giorno da pecora su Radio1. Draghi risiede discretamente e abitualmente da anni nella frazione di Moiano, comune di Città della Pieve, in provincia di Perugia, Umbria, al confine con la Toscana. È un tipico centro medievale dell’Italia centrale, quasi ottomila abitanti, nella Val di Chiana. Nel 1446 vi nasceva Pietro di Cristoforo Vannucci, detto “il divin pittore”, meglio noto come il Perugino. Era il 2009 quando Draghi comprava e ristrutturava un casale in campagna tra ville e campi di zafferano. Spesso l’ex Bce lo si vedeva in giro, per le compere, con il suo bracco ungherese, mentre faceva jogging. Si è vociferato negli ultimi giorni che lo scorso dicembre il senatore ed ex premier Matteo Renzi abbia fatto visita a Draghi proprio nel piccolo centro umbro, quindi prima di ritirare la delegazione di Italia Viva dal governo e di aprire la crisi che avrebbe fatto saltare Conte. Renzi ha smentito seccamente la voce.

 MARCO CECCHINI - L'ENIGMA DRAGHI. Dagospia il 29 giugno 2021. Notizie tratte dal libro di Marco Cecchini "L'enigma Draghi" raccolte da Giorgio Dell'Arti e pubblicate da "il Fatto quotidiano". Poker "Non sai mai cosa pensi dietro quella faccia da poker" (Carsten Brzeski, capoeconomista della banca olandese ING a The Wall Street Journal). "La sua mimica facciale in pubblico ha poche varianti. È capace di sedere per un'ora senza muovere un muscolo della faccia, immobile come una statua. In trent' anni di carriera Draghi ha perso pubblicamente il controllo forse solo una volta. È stato quando nel 2015, durante una conferenza stampa della Bce a Francoforte, un'attivista di un movimento denominato Blockupy saltò sul tavolo e gli lanciò in faccia dei coriandoli. Le foto ritraggono Draghi che si copre il viso incrociando le braccia, il volto segnato da una smorfia di stupore. Ma fu un attimo. Bloccata l'attivista, dopo una breve interruzione della conferenza stampa, riprese a leggere il suo discorso come se nulla fosse accaduto. E al giornalista francese che gli chiedeva come avesse fatto a mantenere il suo aplomb rispose con un commento liquidatorio: “Si dia lei la risposta” ".

Enigma "Draghi è un enigma" (Financial Times). 

Golf "Se deve andare a vedere la Roma, la sua squadra del cuore, va in curva, gioca a tennis in circoli quasi popolari, scia e fa roccia a Cortina, ma non passeggia mai sul corso dove tutti vanno a farsi vedere; inoltre, negli ultimi anni ha scoperto il golf".

Cappotti Indossa solo cravatte Hermès. Porta abiti sempre dello stesso colore, blu scuro. Non ama i cappotti. 

Pigro Tommaso Padoa-Schioppa: "È come quegli ufficiali di stato maggiore, intelligenti ma pigri e per questo adatti a incarichi di vertice".

Sei "Mario non era un primo della classe, era uno da sei, sei e mezzo" (ricordo di un compagno del Massimo). 

Tesi Nella tesi di laurea, intitolata Integrazione economica e variazioni dei tassi di cambio, Draghi bocciava senza appello il Piano Werner, cioè il primo tentativo di creare una moneta unica europea.

Critiche Dopo il whatever it takes, il corrispondente del Financial Times da Francoforte, Michael Steen, attaccava Draghi con domande sgradite durante le conferenze stampa, sostenendo che non fossero stati chiariti né la normativa né i parametri che regolavano il piano di intervento sui titoli di Stato dei paesi in difficoltà.

Nel 2014, Draghi fa Steen capo della Comunicazione della Bce. Le critiche cesseranno. 

Ufficio L' ufficio di governatore della Banca d' Italia che gli lasciò Fazio: una scrivania progettata da Gaetano Koch e appartenuta a Luigi Einaudi, tappeti sul parquet, quadri antichi alle pareti, il vecchio divano marrone di Guido Carli.

Draghi disse: "Tranne la scrivania di Einaudi, vorrei cambiare tutto", incluso il San Sebastiano trafitto che per anni aveva fatto mostra di sé dietro la postazione del governatore. La stanza fu riarredata con pezzi di Poltrona Frau e di GaeAulenti. I quadri furono sostituiti.

Solo La prima volta a Palazzo Koch come governatore, al commesso che voleva prendergli la borsa: "Grazie, faccio da solo". 

Riunioni Prima decisione da governatore di Bankitalia: accorciare la durata delle riunioni.

Occupazione "La piena occupazione non è un mezzo per accrescere la produzione, bensì un fine in sé, una questione di dignità della persona. La politica economica deve agire per conseguirla" (Draghi, intervenendo a un convegno su Federico Caffè). 

Tagli Al termine del mandato di Draghi, la Bancad' Italia aveva 36 sedi e 1.500 dipendenti in meno.

Il profilo. Il curriculum di Mario Draghi, premier incaricato da Mattarella: dalla laurea alla Sapienza alla Bce. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. Mario Draghi è stato incaricato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella di formare un nuovo governo. La decisione dopo il fallimento del mandato esplorativo assegnato al Presidente della Camera Roberto Fico. Impossibile trovare una sintesi nelle componenti della vecchia maggioranza. Il Capo dello Stato ha quindi convocato a mezzogiorno l’ex Presidente della Banca Centrale Europea che ha accettato con riserva l’incarico. Mattarella ha scartato la strada del voto anticipato, almeno per il momento, perché eccessivamente lunga in un momento di emergenza simile per la pandemia da coronavirus e la crisi. Draghi è la personalità internazionale e di alto livello individuata dal Quirinale per un governo di alto profilo senza colore politico. “Vincere la pandemia, completare la campagna vaccinale, offrire risposte ai problemi quotidiani, rilanciare il Paese sono le sfide – ha detto Draghi nelle sue prime parole da premier – Abbiamo a disposizione le risorse straordinarie dell’Ue, abbiamo la possibilità” di operare “con uno sguardo attento alle future generazioni e alla coesione sociale”. A questo punto, la prima sfida è quella di trovare i numeri in Parlamento tra un contrario Movimento 5 Stelle, un Partito Democratico spiazzato, un entusiasta Italia Viva e un centrodestra possibilista ma con riserva. Draghi è considerato la personalità italiana più rilevante al mondo da un punto di vista politico ed economico. Il suo curriculum (Fonte Banca Centrale Europea)

Formazione

Laurea in economia, Università degli Studi di Roma “La Sapienza” 1970

PhD in economia, Massachusetts Institute of Technology (MIT) 1977

Carriera professionale

dal giugno 2013: Presidente del Gruppo dei governatori e dei capi della vigilanza presso la Banca dei regolamenti internazionali

dal novembre 2011: Presidente del Comitato europeo per il rischio sistemico

dal novembre 2011: Presidente della Banca centrale europea

dal 2006: Membro del Consiglio di amministrazione della Banca dei regolamenti internazionali

Membro del G7

Membro del G20

2006 – ottobre 2011 Presidente del Financial Stability Board (in precedenza Forum per la stabilità finanziaria)

2006 – ottobre 2011 Governatore della Banca d’Italia

2002-2005 Vicepresidente e Managing Director di Goldman Sachs International

1991-2001 Direttore generale del Tesoro

1984-1990 Direttore esecutivo presso la Banca mondiale

1981-1991 Professore di economia e politica monetaria all’Università degli Studi di Firenze

1975-1981 Professore di economia presso le università di Trento, Padova e Venezia

Altri incarichi
dal 2009 Membro del consiglio di amministrazione dell’Institute for Advanced Study di Princeton

dal 2006 Membro del Gruppo dei Trenta

2000-2001 Presidente del Comitato economico e finanziario dell’Unione europea

1999-2001 Presidente del Gruppo di lavoro n. 3 dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico

1997-1998 Presidente della commissione incaricata di riordinare la normativa italiana in materia societaria e finanziaria e di redigere la legge sui mercati finanziari (anche detta “Legge Draghi”)

1993-2001 Presidente del Comitato per le privatizzazioni italiano

Riconoscimenti e premi

Laurea honoris causa in giurisprudenza, Università di Bologna (2019)

Laurea honoris causa in economia, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa (2018)

Laurea honoris causa in scienze politiche, Università LUISS Guido Carli, Roma (2013)

Laurea honoris causa in scienze statistiche, Università degli Studi di Padova (2009)

L'ex Bce e il "socialismo liberale". Draghi è di destra o di sinistra? La risposta del premier incaricato. Fabio Calcagni su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. Mario Draghi “apostolo delle élite”, come lo ha definito su Facebook Alessandro Di Battista, il pasdaran grillino che da martedì sera strilla a destra e a manca il suo ‘no’ ad un governo guidato dall’ex numero della Banca centrale europea? Se, come ovvio, la figura di Draghi è da sempre legata al mondo della finanza e delle banche, dalla Banca d’Italia a quella centrale europea, dalla banca d’affari Goldman Sachs ai ruoli dirigenziali al Ministero del Tesoro, il presidente incaricato con un passato da studente dai gesuiti porta in dote anche delle sorprese. Quanto a idee politiche infatti Draghi si è detto tutt’altro che un estremista, in questo caso da intendersi come ultraliberista. I dubbi sul suo orientamento sono lontani nel tempo, avendo lavorato con sette ministri diversi, da Giulio Tremonti a Carlo Azeglio Ciampi e Vincenzo Visco, oltre a governi che andavano dalla Dc di Giulio Andreotti a centrosinistra e centrodestra. Tutti gli “osservatori”, già all’epoca, non avevano una idea chiara sul pensiero politico di Draghi. Il presidente del Consiglio incaricato ha fatto chiarezza sulla sua visione politica nel 2015, in una intervista concessa al settimanale tedesco “Die Zeit”. “Si sente vicino a qualche gruppo politico?”, aveva chiesto all’epoca il giornale, in un periodo in cui Draghi era sotto accusa da parte di media e politica tedesca perché troppo “interventista” e “politico” nelle scelte della Bce. La risposta? “No. Le mie convinzioni rientrano in quelle idee che oggi verrebbero definite del socialismo liberale, quindi non proprio collocabili in raggruppamenti estremi”. In un ritratto firmato nel marzo dello scorso anno, il direttore di questo giornale, Piero Sansonetti, lo ha definito “Lib-lab della prima ora, viene chiamato oggi a salvare la patria”, ovvero Liberal-Laburista, il “tentativo di mettere insieme le idee liberali anglosassoni con le idee socialiste”.

DAGOREPORT il 9 febbraio 2021. La storiella del “Vaticano prima sponsor di Conte” è una sacra balla. Del resto, pur essendo devoto di Padre Pio nonché allievo di Villa Nazareth, piccola fucina di élite cattoliche (progressiste) che fu del cardinale Achille Silvestrini, durante ben due governi da lui presieduti Conte non è mai stato ricevuto da Bergoglio in “udienza ufficiale” ma ha incontrato il pontefice solo in udienza privata. Inoltre, tradizione vuole che il premier uscente da Palazzo Chigi vada a salutare il Papa, la cosiddetta “visita di cortesia”. Sul perché del mancato feeling tra Conte e il Pontefice argentino, le voci sono varie e avariate tra le quali ci sarebbe il suo rapporto con padre Antonio Spadaro, direttore gesuita della rivista "La Civiltà Cattolica’’, collaboratore de “Il Fattoquotidiano” e sponsor di Conte, aggiungere la rete di potere del suo mentore Guido Alpa malvista nella sacre stanze e infine si sussurra tra gli addetti ai livori anche di un misterioso atto riservato presso un tribunale della Santa Sede. Infatti il Draghi allievo dell’istituto Massimiliano Massimo, rigoroso liceo dei gesuiti, non ha nulla a che vedere con il “partito di Spadaro”, attuale direttore de ‘’La Civiltà Cattolica’’, lo storico quindicinale che una volta era la voce della segreteria di stato per trasformarsi poi in una rivista di politica che aborre il salvinismo e ha visto nell’Avvocato di Pio(tutto) il messia. Oggi, tra il gesuita Bergoglio che conosce bene Draghi per averlo nominato membro dell'Accademia delle Scienze Sociali, e il gesuita Spadaro, corre il black-out. Del resto, il  mondo gesuita di riferimento di Draghi era piuttosto quello di padre Bartolomeo Sorge, padre Roberto Tucci e soprattutto di padre Gianpaolo Salvini che per oltre un quarto di secolo è stato alla guida di “La Civiltà Cattolica” per poi finire nelle mani liquidatorie di Spadaro. Quindi oggi dietro le Sacre Mura, il cerchio magico di Papa Francesco è ben felice del Conte Trombato e del prossimo arrivo di San Mario Draghi.

Francesco, i gesuiti e Draghi: spunta l'"ombra" di Ratzinger. Il Papa e il premier hanno molte visioni in comune, a partire dalla crisi economica. Ed è un asse che parte da lontano. Francesco Boezi, Giovedì 18/02/2021 su Il Giornale.  Non sarà una perestrojka nel senso letterale del termine, ma è chiaro che una riorganizzazione complessiva è percepita come necessaria. Il Recovery Fund è l'opportunità concessa all'Italia (e non solo) per ripensare il sistema economico-lavorativo. Se ne parlerà per qualche anno, mentre gli effetti delle scelte che il nuovo esecutivo sta per prendere saranno quantomeno trentennali. La politica si è affidata a Mario Draghi, che ha una visione piuttosto nota: meno sussidi, più investimenti. Un po' sul modello di Keynes. L'esecutivo presieduto dall'ex presidente della Banca centrale europea, in specie per mezzo dei ministri tecnici, gestirà e destinerà i fondi messi a disposizione dall' Unione europea. Il Papa, dal canto suo, parla volentieri della sua visione del mondo, anche in materia economia, in termini di prospettiva generale. Sono due attori del panorama geopolitico continentale e, per certi versi, sembrano avere parecchie idee in comune. Non solo: Jorge Mario Bergoglio ha reso Mario Draghi un membro ordinario dell'Accademia delle Scienze sociali. Era il luglio del 2020. Che il Vaticano sia in grado di anticipare tempi e temi della politica non è poi una così grossa novità. Ma la Santa Sede, in questi ultimi anni, era apparsa particolarmente vicina alla figura del premier Giuseppe Conte, soprattutto durante la seconda fase: il cosiddetto Conte bis. La Chiesa cattolica però non scende nell'agone della politica, almeno non nel senso tradizionale del termine. Al netto delle reazioni non sempre entusiastiche dei commentatori filo-Bergoglio all'avvento del governo Draghi, è probabile che l'esecutivo italiano e le istituzioni del Vaticano continuino a collaborare nella maniera di sempre (se non di più). Se è vero che esiste un rischio spaccatura su Draghi tra gli ambienti ecclesiastici, è vero pure che è stato lo stesso Francesco ad introdurre Draghi come laico di riferimento in Vaticano con la nomina. I due, insomma, non possono essere in conflitto (e non lo sono). Ma qualche differenza di fondo sembra persistere. Per quanto Draghi - come ricordato più o meno da tutti i quotidiani nazionali - sia stato formato in un collegio gesuitico.  C'è un "però": quando l'ex arcivescovo di Buenos Aires si riferisce al mondo che verrà, sembra propendere per l'ambientalismo, la redistribuzione delle ricchezze, i popoli periferici come quelli amazzonici, la critica al neo-liberismo, quindi una sorta di solidarismo economico, la fratellanza universale, che si declina pure in chiave economica con la redditualità universale, e così via. Un mondo, dunque, frutto di una rivoluzione copernicana. Vale anche per l'economia, come ha fatto notare Fox News per la diffusione dei vaccini anti-Covid19 su scala globale: Bergoglio vuole che tutti abbiano diritto all'accesso alle cure, a prescindere dalle zone del mondo in cui si risiede. Sono elementi compatibili con quelli che ha in mente Mario Draghi? Bergoglio ragiona su scala globale, ma è chiaro che la strada che papa Francesco vorrebbe tracciare guarda anche all'Italia. Il premier ha lanciato un messaggio preciso: l'istituzione di un ministero per la Transizione ecologica verte dalle parte delle idee di papa Francesco. E "ambientalismo" è già una delle parole chiave ripetuta in più circostanze di questi primi giorni di nuovo corso a Palazzo Chigi. L'economia solidale di papa Francesco deve dunque confrontarsi con il "neo-liberismo" di Draghi. Bergoglio è il vescovo di Roma. Il successore di Pietro non può che pensare al mondo intero, ma l'Italia costituisce un banco di prova per la Chiesa cattolica, che non a caso sta per organizzare un Sinodo italiano: il Santo Padre sembra intenzionato a sconvolgere alcune logiche acquisite degli ambienti clericali italiani. Può la "rivoluzione copernicana" invocata dal Santo Padre non attecchire proprio nel cuore pulsante del cattolicesimo? Ovviamente no. Ecco perché diventa utile chiedersi su quali basi possa poggiare la dialettica tra il pontefice e l'economista chiamato a guidare l'Italia fuori dal guado di una crisi che rischia di cronicizzarsi. Ettore Gotti Tedeschi è l'uomo giusto con cui parlarne. Banchiere, economista ed ex presidente dello Ior: il professore esordisce subito chiarendo che la teoria, in questa fase, è destinata ad occupare un ruolo secondario. I fondamentali economici registrati di questi tempi non prevedono che si discorra troppo. Sul rapporto tra il pontefice e l'ex presidente della Bce, Gotti Tedeschi afferma che "sarà, o diverrà, un rapporto pragmatico, riferito cioè alla concreta soluzione dei problemi, senza pregiudizi ideologici. Per fare solidarismo e distribuire ricchezza , bisogna prima crearla. Son convinto, anzi non ho dubbi, che Draghi farà anzitutto il bene del Paese nelle complesse circostanze in cui si trova ad operare". Prima di aiutare i poveri, in poche parole, è necessario creare le condizioni per poterlo fare. Poi c'è un dettaglio, che non è sfuggito ad alcuni osservatori. Come ha fatto notare Andrea Muratore su InsideOver, la "dottrina Draghi" comprende pure un commento a Caritas in Veritate. Un'enclica cui Ettore Gotti Tedeschi ha contribuito. L'economista è convinto che Draghi possa basarsi in economia sulle tesi ratzingeriane: "Ne son certo perché sono tesi razionalissime. Per Benedetto XVI - continua Gotti Tedeschi -, l’economia è solo uno strumento in mano all’uomo, è l’uomo che, dando senso all’uso dello strumento, lo trasforma in un mezzo per realizzare il bene comune. Benedetto XVI in Caritas in Veritate sollecita l’uomo a imparare a gestire gli strumenti a sua disposizione. Altrimenti saranno gli strumenti a gestire l’uomo, prendendo 'autonomia morale'. Ed è evidente - chiosa l'ex presidente dello Ior - che uno strumento non possa avere autonomia morale. Il messaggio finale di Benedetto XVI - chiosa il banchiere -, con cui conclude Caritas in Veritate, è che una crisi come quella attuale non si risolve cambiando gli strumenti, ma anzitutto cambiando il "cuore", l’intento morale dell’uomo che li usa", Dobbiamo aspettarci un Draghi ratzingeriano. Si tratta comunque del confronto tra due visioni: una centrata sull'assistenzialismo (o solidarietà) alle "periferie economico-esistenziali", in pieno stile sudamericano, l'altro sull'occidentalismo, che potrebbe anche basarsi su paradigmi tradizionali, che al Papa non sono mai piaciuti troppo. Ma Gotti Tedeschi sgombra il campo dai dubbi sul ventilato "scontro", che non ci sarà: "Io credo che Draghi sappia perfettamente che nel mondo globale negli ultimi decenni sono cambiate le 'regole del gioco' e sappia perfettamente cosa significhi il nuovo multilateralismo indispensabile, pertanto quale ruolo l’Europa, e quindi l’Italia, possa avere , e come, nel contesto globale. Non credo ci sia un disaccordo di principio fra le due visioni, anzi credo che debbano venir ben pianificate e attuate insieme , in modo adeguato". La possibilità di una sintesi è dunque dietro l'angolo. E tutto questo al netto di quelle che sono apparse come critiche provenienti da ecclesiastici o laici vicini alla "Chiesa in uscita": "Io sono certo che I promotori dell’iniziativa di Assisi non stiamo minimamente pensando di influenzare, se non con indicazioni di carattere morale, quello che verrà deciso dal professor Draghi", chiosa Ettore Gotti Tedeschi. Pragmatismo, è bene ribadirlo ancora, è l'obiettivo comune, la parola, che farà da collante. Una congruenza notata pure da Benedetto Delle Site, che rintraccia ulteriori congruenze: "Non dimentichiamo - annota il giovane imprenditore romano -, che il Prof. Mario Draghi si è formato alla scuola di Federico Caffè, economista e accademico italiano ammiratore del modello delle socialdemocrazie scandinave. Oggi quel modello è superato, tuttavia proprio Draghi lo scorso marzo scrivendo sul Financial Times è tornato a sostenere la necessità del ricorso ad un debito produttivo per affrontare la pandemia, mentre Papa Francesco di lì a poco avrebbe lanciato un appello all’Europa di un tenore non dissimile". Una similitudine che investe tanto i toni quanto i programmi: Francesco e Draghi hanno già esposto le soluzioni teoriche al problema. Rimedi molto simili, magari declinati attraverso toni e contesti diversi, com'è normale che sia: "Forse - fa presente l'imprenditore noto anche per il suo impegno come animatore di iniziative ispirate alla Dottrina sociale della Chiesa - un punto di accordo potrebbe essere questo: entrambi ritengono i sussidi e l’assistenzialismo dannosi, ma sono favorevoli a politiche pubbliche in sostegno dell’economia reale e delle nuove generazioni, affinché queste ultime siano in grado di esprimere e accrescere i loro talenti. In questo senso, potremmo dire che entrambi reputano fondamentale che le risorse del Next Generation EU non vadano sprecate alimentando spese di breve periodo in vista dei prossimi appuntamenti elettorali". Giovani, occupazione, ambiente: a pensarci bene, questo potrebbe essere il trittico in grado di accomunare i programmi di Draghi e Bergoglio. Il Recovery Fund sarà gestito dalle mani del governo Draghi, ma il placet del Vaticano, dinanzi a certi investimenti, potrebbe assecondare il disegno politico-economico delle istituzioni laiche. Il Santo Padre è considerato, per certi versi, un "populista di sinistra". Bergoglio ha di sicuro combattuto il "sovranismo" di destra per mezzo di avvertimenti e dichiarazioni. Draghi, in parole povere, è soprattutto un uomo del fare. Il perno - come osservato da Delle Site - potrebbe essere fornito proprio dalle considerazioni economiche ratzingeriane: "Le tesi ratzingeriane sull’economia - ha argomentato il vicepresidente dell'Ucid che, attraverso il dirigente del Coordinamento Giovani Donne, Simona Mulè, ha già chiesto al nuovo governo l'apertura di un tavolo affinché i fondi strutturali siano impiegati di concerto con le maggiori organizzazioni imprenditoriali giovanili - sono un tesoro prezioso per le nostre classi dirigenti, perché non restano nel perimetro dell’economia ma affrontano la dimensione antropologica e ontologica della crisi in atto. Da qui anche l’accento sui pericoli della tecnocrazia, ultimo stadio del naturalismo, che va riducendo il governo dell’umanità ai suoi soli aspetti materiali. La dottrina sociale della Chiesa non offre soluzioni specifiche, ma princìpi e criteri di orientamento che ognuno mette in pratica diversamente, con la propria responsabilità". Potrebbe essere Benedetto XVI a mettere d'accordo le visioni di due uomini, che comunque hanno già in comune la radice gesuitica e non solo.

Dai gesuiti al Papa, il tifo del Vaticano. Sostegno da Oltretevere per l'incarico: "Saprà unire la politica". Serena Sartini, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. Già quando si era aperta la crisi di governo, in Vaticano si faceva il nome di Mario Draghi. Una scelta che avrebbe unito il Paese, persona che gode di stima in Italia e all'estero, e che sicuramente, riferiscono dalle sacre stanze, «saprà spendere al meglio le risorse del Recovery Plan». La notizia dell'incarico affidato da Sergio Mattarella a Mario Draghi di formare un nuovo esecutivo è stata accolta «positivamente» Oltretevere. In primis dal Papa che proprio lo scorso luglio aveva nominato l'ex governatore della Bce membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, il think tank vaticano che Draghi aveva già frequentato negli anni passati. «Un economista esperto, proprio quella personalità di alto profilo invocata da Mattarella e che saprà unire le forze politiche per il bene del Paese», assicurano dal Vaticano. Lo stesso Bergoglio, nella recente intervista al Tg5 aveva rivolto un invito all'unità. «La lotta politica è una cosa nobile, i partiti sono gli strumenti. Quello che vale è l'intenzione di fare crescere il Paese. Ma se i politici sottolineano più l'interesse personale che l'interesse comune, rovinano le cose». Il rapporto di Draghi con la Chiesa, e in particolare con i gesuiti, è forte. L'economista non ha mai interrotto il filo che lo lega al mondo cattolico romano. Draghi ha frequentato il prestigioso Liceo Massimiliano Massimo all'Eur, a Roma, e ha mantenuto diverse relazioni con religiosi della Compagnia di Gesù. In un momento di crisi sociale ed economica legata alla pandemia serve unità, per poi «andare oltre» e formare un governo politico, auspica padre Antonio Spadaro, gesuita, direttore de La Civiltà Cattolica, persona molto vicina al Papa. «Quello a cui abbiamo assistito - dice - è stato un momento di crisi non solo di governo ma della politica. L'Italia sta vivendo un momento difficile e per uscire da questo pantano in cui ci siamo trovati, Mattarella ha fatto ricorso a una risorsa importante della nostra democrazia. Una persona che ha tanta stima sia nel nostro Paese che in Europa, persona molto seria, capace di aggregare anche forze politiche diverse sulla base di un progetto. L'ideale per la nostra Italia è avere un governo politico - prosegue Spadaro - viviamo una fase di crisi della politica e anche dei singoli partiti. Forse, però, questa fase risulta essere necessaria per poi andare oltre. E Draghi credo rappresenti una certezza capace di affrontare le grandi questioni attuali: vincere la pandemia, completare la campagna vaccinale, rispondere alle esigenze dei cittadini e rilanciare il Paese». Draghi è «una speranza certificata dalle sue competenze e dalla sua storia di vita» ma «anche le rocce dei giganti si possono sgretolare se i partiti non ritroveranno un'unità nazionale e faranno un passo indietro», gli fa eco padre Francesco Occhetta, grande esperto di politica italiana. «Per i gesuiti - spiega - è un orgoglio averlo avuto come studente e riconoscerlo attento alla nostra tradizione che coniuga giustizia sociale e competenze». D'accordo anche padre Giovanni La Manna, attuale rettore dell'Istituto Massimo. «Draghi è stato capace di interiorizzare uno degli obiettivi del nostro percorso: individuare il bene non solo a livello personale ma anche a livello comunitario».

La Chiesa e Draghi: perché ora rischia la spaccatura. Francesco Boezi su Inside Over il 7 febbraio 2021. Da una parte gli scettici, dall’altra quelli che intravedono una rinnovata sincronia tra i sacri palazzi e le istituzioni: Mario Draghi sta suscitando reazioni miste. Vale per gli ambienti politici, ma anche per quelli cattolici, ecclesiastici o meno che siano. Non sono solo i tradizionalisti ad essere preoccupati per via della presunta aderenza dell’ex presidente della Bce alla stigmatizzata Unione europea. Anche i più progressisti – almeno quelli che hanno guardato con favore alle triangolazioni tra la Chiesa, i giallorossi e l’Oriente – stanno esprimendo più di qualche perplessità. In ottica di diplomazia vaticana, un governo Draghi significa soprattutto atlantismo. Questo almeno è quello che si può evincere dal curriculum di un uomo legato agli Stati Uniti e all’Unione europea. Un atteggiamento che può non essere condiviso da chi aveva visto con favore lo spostamento dell’asse in direzione della Repubblica popolare cinese, almeno in una parte del Vaticano. E sono almeno due, quindi, i fronti agitati per via del nuovo corso che si sta per aprire a Palazzo Chigi. C’è chi palesa una preoccupazione diversa ma comunque pronunciata rispetto a quella mostrata per Conte, e chi naviga sulle ali dell’ottimismo, confidando che Draghi sia sinonimo di normalizzazione diplomatica. L’ex maggioranza sembrava preferire le nuove vie della seta ai tradizionali canali economico-politici con Washington. E anche il Vaticano, almeno finché a presiedere gli Stati Uniti è stato Donald Trump, era posizionato in questi termini, come dimostrato dalle aperture verso Pechino e la rigidità sul nuovo corso in Usa. Poi Donald Trump ha perso le elezioni, e il multilateralismo diplomatico targato cardinale Pietro Parolin ha dovuto prendere atto del “ritorno” degli Stati Uniti, con tutto quello che la centralità degli Usa può comportare. Un tema che chiaramente ha già spaccato la Chiesa, diviso sul sostegno a Trump e al mondo liberal. E che adesso rischia di dividersi non solo sulla nuova diplomazia romana, ma anche sulla stessa figura dell’ex presidente della Bce e su cosa vorrà o sarà in grado di fare. Come ha fatto notare La Verità, su Famiglia Cristiana è apparso più di qualche virgolettato che può essere soggetto ad interpretazione. Uno, su tutti, sembra essere particolarmente scettico sul presidente incaricato, che dovrebbe sciogliere la riserva entro la fine della seconda settimana di febbraio, e lo ha scritto il teologo della Lateranense Pino Lorizio. Nel suo articolo, che torna sul legame tra Draghi e la Chiesa Cattolica, si legge: “Né possiamo dimenticare che la formazione in un collegio dei gesuiti non è certo garanzia di fedeltà al Vangelo”. Una frase che unita al richiamo ai “poteri non buoni” e al rito della candela nell’elezione papale (spenta davanti la nuovo pontefice mentre si diceva “sic transit gloria mundi”) sembra quasi voler provocare un bagno d’umiltà al nuovo premier incaricato ma anche a spegnere i facili entusiasmi.  Anche certi ambienti ecclesiastici, dunque, aspettano le declinazioni sul piano pratico prima di prendere posizione. In termini di “schieramenti vaticani”, si potrebbe dire che siamo alle solite, con gli ultra-progressisti ed i conservatori a sgomitare per occupare lati di campo diametralmente opposti, mentre la maggioranza silenziosa attende impassibile, e magari con una certa dose di ottimismo, l’esito dei processi politici. Papa Francesco ha nominato Mario Draghi come membro ordinario dell’Accademia delle Scienze sociali nel luglio del 2020: qualcuno ha interpretato la mossa come una sorta d’anticipazione. Ma non conviene poi molto basarsi sui retroscenismi. Di sicuro Draghi è un laico cui Bergoglio guarda con favore. Gli ecclesiastici, sino a questo momento, si sono espressi con parsimonia. Nessuna fuga in avanti e indietro o quasi. Tra i fautori del governo Draghi, può essere annoverato con certezza padre Antonio Spadaro, che si è espresso con favore, sottolineando pure come il Papa abbia avvisato in tempi non sospetti, ossia nel 2014, la classe dirigente che si sarebbe “allontanata dal popolo”. Un assist ai tecnici, insomma, con l’ex presidente della Bce in testa. Non sarà sfuggito, poi, che è stato Mario Draghi ad aprire il quarantesimo meeting di Rimini, rimarcando la necessità di porre un freno ai sussidi e di sostenere le politiche lavorative giovanili. Insomma, la Chiesa cattolica non può definirsi distante dal premier incaricato. Sì, Mario Draghi è stato formato dai gesuiti, ma per certi ecclesiastici non basta a certificare la patente di prossimità alla sinistra ecclesiastica. Anzi, Draghi è stato più volte accostato al centrodestra liberale, moderato e cattolico nel corso della sua carriera tecnico-istituzionale. E forse è per questo che i cattolici progressisti non hanno reagito con quei facili entusiasmi cui eravamo abituati in questa convulsa fase giallo-rossa. Chi non ha proprio dubbi sul da farsi abita nel campo tradizionalista: il fatto che Draghi abbia svolto il ruolo apicale di vertice della Banca centrale europea è, per l’ultra-destra cattolica, sinonimo di criticità. Perché il cattolicesimo e la sua dottrina non possono assecondare una forma così pronunciata di capitalismo monetario. Per questo, non è difficile imbattersi in analisi critiche su Draghi promosse a mezzo blog dalla destra cattolica. Sono gli stessi che hanno simpatizzato per Trump. Ma anche in quella famiglia, a ben vedere, è registrabile più di qualche parere difforme. I pro life, ad esempio, sperano che l’agenda di Conte e dei giallorossi – quella tagliata pure sulla Zan-Scalfarotto – venga riposta nel dimenticatoio. C’è attendismo. Ma la speranza è che Draghi non si dimostri laicista rispetto ai “valori non negoziabili”. La Chiesa cattolica e i cattolici – com’è normale che sia – discutono sull’uomo chiamato a guidare la “salvezza nazionale”.

I gesuiti, Keynes e la Bce: lo strano caso del liberal un po’ socialista. Ezio Menzione su Il Dubbio il 4 febbraio 2021. Abbiamo davanti un socialista liberal o un liberal di tendenze socialiste, allievo di Federico Caffè, il brillante economista misteriosamente scomparso. I profili sono come i coccodrilli, in genere i giornali li hanno già pronti da tempo. Così è per il Presidente del Consiglio neoincaricato, Mario Draghi, i cui profili impazzano su ogni giornale: centoni che dicono più o meno le stesse cose. Qui interessa sottolineare due elementi che, a mio avviso, caratterizzano il personaggio: il primo è l’avere studiato dai gesuiti (non in collegio, ma in un liceo laico il Massimiliano Massimo di Roma, liceo per ricchi). I gesuiti sembrano avergli dato il loro inprint in termini di coerenza e pragmatismo, termini contraddittori solo per chi non sa guardare più in alto (nel caso dei gesuiti) e più avanti (nel caso di Draghi). Questo profumo di gesuitismo non poteva non colpire anche Papa Bergoglio, che infatti lo ha chiamato all’interno del board di un’importante istituzione vaticana, la Pontificia Accademia di Scienze Sociali (sociali, si badi, e non solo economiche). E c’è chi dice che sia proprio Draghi l’occulto consigliere del repulisti economico- finanziario in cui Bergoglio è da molto tempo impegnato, con alterni esiti, ma, speriamo, buone prospettive. Il secondo elemento caratterizzante è l’essere stato allievo di Federico Caffè, il brillante economista misteriosamente scomparso, considerato il teorico introduttore in Italia delle politiche keynesiane, collaboratore del Manifesto, che ne ha curato anche l’edizione post mortem di alcuni scritti: strano connubio quello di un economista sostanzialmente liberal e di un quotidiano comunista all’epoca, ma proprio comunista che più comunista non si può. Fu lo stesso Caffè dopo la laurea ad affidarlo ad altro economista, Modigliani, dell’MIT di Boston, attento alla finanza sì, ma anche ai problemi sociali. E’ dunque questo doppio aspetto ( economia e finanza da una parte e attenzione ai problemi sociali dall’altra) che colpisce in Draghi, soprattutto quando sale al vertice della BCE. Per arginare l’Europa dall’assalto della speculazione finanziaria, in controcorrente col pensiero e le politiche allora come ancor oggi dominanti, non esitò ad attaccare l’austerity per immettere nuova moneta e pensare all’espansione dell’economia invece che alla contrazione del debito. Posizione diametralmente opposta a quella di Monti, vero e proprio Quintino Sella della “lésina”, costasse quel che costasse purché a pagare fossero i ceti meno abbienti. Monti e Draghi sono ambedue passati per la banca d’affari Goldman Sachs: beh, nessuno è perfetto! Con la differenza che Draghi c’è giustappunto passato per pochissimo tempo, quando i danni peggiori erano già stati combinati, ma si è sbarazzato del controllo delle relative azioni in suo possesso non appena salì al vertice della Banca d’Italia. Anche lo stile ha la sua importanza. Dunque abbiamo davanti un socialista liberal o un liberal di tendenze socialiste: merce rara in Italia, esponente di una cultura in cui forse pochi, ma fra i migliori potrebbero specchiarsi. Certo, vedremo come intende il suo “incarico istituzionale”: svincolato dal parlamento e dalla politica? O capace di misurarsi con essa senza cadere nelle bassezze cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Vogliamo essere ottimisti e augurarci che possa farcela e farcela bene: “whatever it takes”. Attenzione, però, caro Draghi, le imboscate sono all’ordine del giorno e i nemici tanti e si annidano anche laddove tu non pensi. E tu lo sai bene.

Ritratto di Mario Draghi, il figlioccio dei gesuiti che dovrà salvare l’Italia. Piero Sansonetti su Il Riformista il 27 Marzo 2020. “Lib-lab”, se siete giovani, è una sigla – una parolina – che probabilmente non avete mai sentito. In Italia è arrivata dalla Gran Bretagna negli anni Ottanta. Vuol dire Liberal-Laburista. Lib-lab fu il tentativo di mettere insieme le idee liberali anglosassoni con le idee socialiste. Da noi il leader di questa tendenza, che non diventò mai partito e che ebbe scarsa fortuna, fu Claudio Martelli, il numero due di Craxi. Martelli riuscì a riunire attorno a sé un numero consistente di giovani intellettuali, in parte di origini sessantottine, e a elaborare alcune teorie, anche sofisticate, come quella – che godette di una certa celebrità – “dei meriti e dei bisogni”, che puntava a rielaborare le aspirazioni egualitarie e a combinarle con la meritocrazia. Non andò bene. Il Psi, che era il partito sul quale tutto ciò si incardinava, fu spazzato via dai giudici. E lo spazio Lib-lab fu occupato da Berlusconi, che però, francamente, di socialista aveva poco.  Il “Lib-lab” era in sostanza un tentativo di ricreare il riformismo. E come sapete bene, il riformismo, in Italia, non ha mai avuto molta fortuna. Ogni volta che ha alzato la testa, ha finito con l’essere schiacciato tra le tendenze reazionarie, sempre forti e spesso autoritarie della destra, e le idee della sinistra, sempre forti e spesso autoritarie. (No, non è una ripetizione casuale: è proprio così. Destra e sinistra, in questi loro aspetti anti-riformisti e un po’ totalitari, si sono sempre assomigliate). Beh, oggi è rimasta una sola personalità nel mondo politico italiano che – credo – si definisce ancora Lib-lab. È Mario Draghi. E proprio lui, Lib-lab della prima ora, viene chiamato oggi a salvare la patria. Lo vuole la destra, che sa di non avere personalità in grado di affrontare questa crisi, e tantomeno il dopo crisi. E lo vuole la sinistra, che sa di non avere personalità in grado di affrontare questa crisi, e tantomeno il dopo crisi (neanche questa è una ripetizione casuale: è proprio così. Anche in questo, destra e sinistra si assomigliano molto). Draghi è un signore di 72 anni, molto serio, molto preparato, con idee nette, competenza e anche carisma. Forse è l’unico (diciamo sotto gli ottanta…) ad avere il carisma e la solidità necessari a guidare il Paese. Non è affatto detto che glielo affideranno. E non è affatto detto che lui accetti.  È nato a Roma nel 1947, da papà veneto e mamma campana. È nato a settembre, mentre la Costituente stava decidendo gli ultimi ritocchi alla Costituzione della Repubblica. Il padre di Mario, che si chiamava Carlo, si occupava anche lui di economia ed era un allievo di Donato Menichella, che è stato il governatore della Banca d’Italia negli anni della ricostruzione, dal 1947 fino al 1960. Mario viene mandato a scuola dai gesuiti, al Massimo, che è considerata la migliore scuola di Roma. L’ho conosciuto in quegli anni, perché andavo al Massimo anch’io, anche se andavo alle medie e lui al ginnasio. Credo che stesse in classe con Luca Cordero, cioè con Montezemolo, ma forse era una classe avanti. Sto parlando dei primi anni Sessanta, quando il Massimo, che in origine era di fronte a piazza Esedra, in pieno centro, si spostò in un modernissimo complesso a più edifici all’Eur, con una grande chiesa di cemento armato, i campi di calcio, le palestre. Per me quelli furono anni molto belli. Per lui credo di no. Nel 1962, quando faceva il quinto ginnasio, perse prima il papà e poi la mamma. Non so immaginare come un ragazzino sportivo e studioso di quindici anni possa reagire psicologicamente a una frustata di questo genere. Lui reagì. Probabilmente ebbero un peso i gesuiti, perché i gesuiti, ve lo assicuro, sono quel tipo di comunità che non ti molla, ti prende, ti assorbe, ti arruola e un segno comunque te lo lascia. So che Draghi è molto cattolico, credente autentico. Io non penso che sia quel ghiacciolo cinico che a volte può sembrare.  Lo ho incontrato una sola volta, da adulto. Quando era governatore della Banca d’Italia. Io dirigevo Liberazione, il giornale di Rifondazione comunista, e Rifondazione comunista era al governo, e Bertinotti era presidente della Camera. Io però mi divertivo ad attaccare spessissimo Draghi. Non so perché, un po’, forse, anche per goliardia, un po’ perché mi pareva che lui fosse proprio il simbolo della borghesia moderata e antioperaia. Un giorno mi telefonò la sua segretaria, mi disse che Draghi avrebbe voluto incontrarmi, e mi diede un appuntamento. Andai in Banca d’Italia, e mi colpì la sua schiettezza. Disse che si ricordava di me da ragazzino, ma non era vero, perché lui diceva che ero fortissimo a pallone mentre io, purtroppo, non sono mai stato fortissimo. E mi spiegò che non dovevo pensare che lui e Montezemolo fossero la stessa cosa. In effetti io attaccavo sempre lui e Montezemolo come fossero una coppia. Montezemolo – mi disse – era un uomo Fiat e di socialista non aveva nulla. Era un imprenditore, non un uomo di governo. Lui, Draghi, era un’altra cosa. Era un allievo di Caffè.Insistette molto su questo, mi raccontò del rapporto molto stretto che aveva avuto con il professor Caffè, e di quanto il pensiero di Caffè l’avesse influenzato. Io conoscevo bene Caffè, non solo perché – torno sempre agli anni Sessanta – suo fratello Alfonso, sempre al Massimo, era stato il mio professore di lettere alle medie; ma perché poi lui, Federico Caffè, celebre economista, aveva collaborato con l’Unità (oltre che con il manifesto) quando io lavoravo all’Unità come caporedattore, e cioè negli ultimi anni della sua vita conclusa clamorosamente, nella primavera del 1987, con la sua misteriosa scomparsa. Nessuno ha mai saputo che fine avesse fatto Caffè, come nessuno mai seppe dove era finito Majorana. Due suicidi studiati, pensati, sceneggiati, costruiti con sapienza e accompagnati dalla scomparsa del corpo. Caffè era un economista Lib-lab? Direi di no, direi che era spostato molto più a sinistra. Poteva essere forse definito socialista, ma era un socialista radicale, difensore accesissimo dello Stato sociale e dell’intervento dello Stato in Economia. Probabilmente nell’articolo scritto da Draghi l’altro giorno per il Financial Times c’è parecchio del professor Caffè. Sapete come sono le cose, per quasi tutti: in vecchiaia tornano le vecchie idee, i vecchi maestri. Draghi studiò con Caffè, poi andò in America, studiò con Modigliani (che era più lib, sicuramente, di Caffè) diventò professore ordinario di economia a poco più di trent’anni, ebbe incarichi prestigiosissimi in molto istituti pubblici e privati, e agli inizi degli anni Ottanta iniziò quella che può essere considerata la sua carriera politica: fu chiamato a fare il direttore generale del Tesoro dall’allora ministro Giovanni Goria, quando il premier era Craxi (anche lui lib-lab, ovviamente). È curioso ripensarci oggi. Allora Goria era considerato il meno carismatico dei leader democristiani dell’epoca. Era giovane, lo prendevano in giro perché aveva poca storia, Forattini (re dei disegnatori satirici) lo disegnava con la barba (Goria aveva la barba sessantottina, credo che sia stato il primo ministro e poi premier con la barba nera e jeans) ma senza volto. Senza naso, bocca, occhi. Bianco. Per dire: chi è questo? Con il metro di oggi, se uno paragona Goria a quelli di adesso – chessò: Di Maio o Conte, o Bonafede…- sembra di mettere un gigante a paragone con dei nanetti scialbi. Allora però il problema era che non ti paragonavano a Conte ma a Moro o a Fanfani. Comunque il volo politico di Draghi inizia lì. Mentre tanti suoi compagni di studi assumevano posizioni importanti in vari settori della macchina politica e dello Stato, per esempio Ezio Tarantelli, che era anche lui un ragazzo di Caffè e che due anni dopo, nel 1985, fu abbattuto neanche quarantenne da una raffica folle delle Brigate Rosse. Anche lui, Tarantelli, era un lib-lab. Draghi è rimasto al Tesoro per tantissimi anni. Attraversando partiti e maggioranze, dalla Dc e dal Psi, al Pd erede del Pci, a Berlusconi a Prodi. Era inamovibile. Poi approdò a Bankitalia, nel 2005, e infine fu chiamato in Europa, nel 2011, a dirigere l’economia europea. Oggi Draghi è una delle pochissime personalità europee ancora in piedi. Merkel è a fine corsa, Macron non sembra un gigante, gli inglesi e gli italiani boccheggiano, Sanchez al massimo vale Goria. Lui è il numero 1. In Italia piace davvero? Draghi è l’uomo che può ricomporre la borghesia italiana, spaccata in due, negli anni Novanta, quando Berlusconi scippò lo scettro ad Agnelli e aprì una frattura che non si è mai ricomposta. E che ha prodotto un grande indebolirsi della borghesia italiana, delle sue capacità economiche e di egemonia. Draghi è in grado di ricomporla e di riportarla alla guida, anche morale, del Paese? Probabilmente sì. E per questo non è affatto detto che sia gradito. Proprio il vecchio ceppo agnellino non vede di buonocchio questo giovane settantenne e il suo lib-labismo. E anche a Cairo non piace molto. Già, lui me l’aveva detto: “Guarda che io non sono come Luca”. Diceva Luca per dire Montezemolo.

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 5 febbraio 2021. Quando la stesura dell’ultima enciclica sociale della Chiesa, la Caritas in Veritate (29 giugno 2009) era ormai quasi pronta, Benedetto XVI chiese all’allora Segretario di Stato Tarcisio Bertone che fosse Mario Draghi a rileggerla prima della pubblicazione. Draghi, che era Governatore della Banca d’Italia lesse quindi quell’Enciclica in anteprima. In un week end. E diede l’ultimo “disco verde” alla pubblicazione. Benedetto, infatti, volle che il testo accuratamente elaborato già dal 2008 , con il contributo principale di Stefano Zamagni, professore di economia politica all’università di Bologna, visto che nel frattempo si era fatta particolarmente scottante la crisi economica che aveva investito il mondo intero e di cui un’Enciclica di carattere sociale non poteva non tenere conto in maniera esplicita, volle che il testo ormai completato fosse sottoposto ad una rilettura e per la formulazione di eventuali aggiunte o cambiamenti che tenessero conto degli aspetti più attinenti all’economia, da sottoporre al suo giudizio. E questo appunto fece Draghi, che in seguito il 9 luglio del 2009, scrisse un ampio commento sull’Enciclica sull’Osservatore Romano. Ma il rapporto per Draghi con la Santa Sede non è finito lì. Anzi. Draghi e Francesco si sono incontrati più volte. Cattolico praticante, come il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, nel 2013 fu ricevuto in udienza con la famiglia. Nel 2016 sedeva accanto ad Angela Merkel quando a Francesco fu conferito il premio Carlo Magno. Ma quando il 26 maggio 2020 Papa Francesco lo ha nominato membro ordinario, quindi non un consulente sia pur di altissimo livello, ma proprio incardinato nella Pontificia Accademia delle Scienze sociali, il cui cancelliere è l’argentino Marcelo Sanchez Sorondo, il mondo politico italiano ha colto subito in questo una “benedizione “ e quasi un’investitura vaticana tanto che il ministro degli Ester di Conte, Luigi Di Maio, fece sapere di aver incontrato Draghi di recente e corse a dichiarare che Draghi gli aveva fatto “un’ottima impressione”. L’ultimo incontro tra Francesco e Conte del resto, quello del 30 marzo 2020, in occasione della Pasqua, al di là della narrazione di Palazzo Chigi (clima molto cordiale… eccetera) in realtà non era andato molto bene. Sull’incontro aveva pesato e molto la gestione della pandemia e l’ecatombe di morti che si era avuta in Italia, già nella prima ondata. Tanto che il 26 aprile 2020 ci fu un forte altolà della Cei, presieduta dal cardinale Gualtiero Bassetti , presa di posizione concordata con Francesco, come già scrisse all’epoca Huffpost, contro il dpcm di Conte che imbrigliava del tutto la liturgia, cattolica senza prevedere protocolli specifici di sicurezza (come invece per le attività economiche), per rendere possibile - in sicurezza - messe e sacramenti (svuotando il cristianesimo e rendendolo “senza Cristo”, come ha affermato ieri Francesco durante l’Udienza generale di ieri mattina. Conte inoltre ha raggiunto un poco invidiabile primato con il Vaticano: è stato l’unico premier italiano che non è stato ricevuto in forma ufficiale da un Papa. È stata del tutto un inedito per un capo di Governo di Roma la visita” privata “di 45 minuti, o “di cortesia” come la definì il protocollo vaticano, resa il 15 dicembre 2018 (Conte 1) a papa Francesco dall’ex presidente del Consiglio. Evidente è la differenza rispetto alle “normali “udienze papali ai capi di Stato o di Governo di qualsiasi Paese, che - oltre ad essere annunciate in precedenza, e non la mattina stessa (sic!) come in questo caso - avvengono sempre con il consueto corollario di delegazioni composte da altri membri dell’esecutivo e da “grand commis” dello Stato, di una presenza per quanto limitata di giornalisti accreditati tramite “pool”, e del classico comunicato finale che rende conto dei colloqui del politico di turno col Papa e col cardinale segretario di Stato. Non è un mistero che la politica antimigranti imboccata dal governo giallo-verde non è mai piaciuta a Francesco. Successivamente, il Papa e Conte si erano visti brevemente, il 30 agosto 2019, il giorno dopo che Conte aveva ricevuto l’incarico di formare il governo Conte 2 (giallo rosso), alla fine delle esequie del cardinale Achille Silvestrini, mentore della Villa Nazareth, dove l’ex premier ha studiato. E proprio alla storia di Villa Nazareth ha riattinto a piene mani la macchina di propaganda, nel momento della recente crisi di governo, quando filtrava da Palazzo Chigi che cardinali si erano mossi a favore di Conte. In realtà Conte ha potuto fare affidamento solo sul cardinale Pietro Parolin, però, fortemente indebolito dalla crisi dello scandalo dei fondi della segreteria di Stato (peraltro era in Africa nei giorni clou della crisi). E anche il direttore della “Civiltà cattolica” Antonio Spadaro (che svolse un ruolo importante nel ridimensionare l’intervento del presidente della Cei , Bassetti, contro il dpcm), assiduo di anticipazioni della rivista sul “FattoQuotidiano”, ha dovuto “lasciare” Conte al suo destino, sperando in un ripescaggio. Significativo che ieri abbia dichiarato di aver “avvertito una disconnessione tra le esigenze della gente e la politica…Conte è strato in grado di mediare istanze differenze. Potrebbe essere una risorsa nel quadro politico che si andrà a delineare”. Sempre ieri mercoledì 3 febbraio, nelle stesse ore dell’incarico a Draghi da parte del Presidente della Repubblica, l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Pietro Sebastiani, ha confermato per mail che la cerimonia ufficiale di ricordo della firma dei Patti Lateranensi avverrà anche quest’ anno, l’11 febbraio a Palazzo Borromeo. Salterà il ricevimento, causa Covid. Chissà se per la prossima settimana, magari il nuovo governo ci sarà.

Concetto Vecchio per "la Repubblica" il 4 febbraio 2021.

Rino Formica, ce la farà Mario Draghi?

«Sì, nessuna forza in Parlamento ha interesse a mettersi di traverso in questa fase, significherebbe andare contro il Paese».

Anche i Cinquestelle?

«Troveranno il modo di digerirlo. Stiamo parlando di un partito con una rappresentanza del tutto abusiva».

In che senso abusiva?

«Non hanno più quel 32 per cento che li ha portati in Parlamento, se arrivano al 15 è già grasso che cola».

Lei conosce Draghi?

«Fu nominato direttore generale del Tesoro, quando io ero ministro delle Finanze nel governo Andreotti del 1990. Lo scelse Guido Carli».

Che ricordo ne ha?

«Di uomo molto riservato che non deborda mai».

Potrà durare?

«Dipende per quanto tempo durerà lo stato di necessità che i partiti hanno l'obbligo di sostenere per fare fronte alla pandemia e al Recovery. Ce la farà fino al 3 agosto, quando scoccherà il semestre bianco. Il Presidente della Repubblica non potrà più sciogliere le Camere e la vita di Draghi diventerà impossibile».

Perché Mattarella ha scelto proprio lui?

«È il garante della nostra credibilità internazionale. Lei ne vede altri in giro? Io no».

Serviva un messaggio all' Europa?

«La nostra crisi interna rischiava d'infettare anche gli altri Paesi. Le sorgenti del ribellismo e delle disgregazioni populiste si annidano ovunque. Draghi rassicura, e offre garanzie sull'uso dei fondi».

L'ha visto in tv al Quirinale?

«Sì, e si vede che ha sempre maneggiato l'esplosivo che regge il mondo: la finanza e la moneta».

Farebbe bene a dare un ministero pesante a Conte?

«No, lascerei fuori i protagonisti dei veleni, i sacerdoti del salvo intese».

Conte non le è mai piaciuto.

«È un avvocato a parcella».

Non è troppo duro?

«È stato indennizzato a sufficienza in vanità, direi».

L'arrivo di Draghi non è la sconfitta della politica?

«Lo è. Ma non è colpa di Draghi».

Renzi ha vinto?

«Resta un guastatore. A scopone è l'uomo dello spariglio, non potrebbe mai dare le carte».

Però voleva Draghi e l'ha ottenuto.

«Sì, ma alla lunga non costruisce nulla, perché la sua passione per la demolizione prevale. Ha voluto pure Conte e poi l'ha fatto cadere».

Il Pd rischia gli errori fatti con Monti?

«Il Pd era convinto di assorbire i populisti, ma era un errore figlio della vecchia spocchia dei comunisti e della sinistra dc. I democristiani erano convinti che la Balena bianca avrebbe ingoiato tutto».

Invece?

«I grillini li hanno contaminati portandoli in un luogo deserto».

Draghi è come Monti?

«Per niente. Monti è un professore che conosce solo i libri che ha studiato, e il libro che ha scritto. Draghi la dottrina, ma anche la pratica. Quello che ha fatto alla Bce è stata raffinatissima politica».

Dopo Monti non abbiamo avuto Di Maio e Di Battista?

«Dimentica che per Monti il debito è sempre un male, Draghi invece distingue tra debito buono e cattivo».

Come definirebbe il governo che nascerà?

«Di tregua istituzionale».

E cosa è successo nell' ultimo mese?

«È andato in scena un dramma interno al sistema politico che Cossiga aveva già lucidamente denunciato nel messaggio alle Camere del giugno 1991».

Ma sono passati trent' anni.

«E i problemi sono ancora tutti sul tappeto. Si è cercato di cambiare le leggi elettorali e di avvicendare i partiti e i leader, ma si sono ignorate le ragioni interne della crisi. Siamo eternamente nelle mani degli ascari, come ai tempi di Giolitti: almeno quelli erano più dignitosi dei responsabili che avrebbero dovuto salvare Conte».

Roberto Petrini per "la Repubblica" il 4 febbraio 2021.

Professor Giampaolo Galli, chi è Mario Draghi?

«Direi tre cose di Mario Draghi», risponde l' economista, già parlamentare Pd ed ex direttore generale della Confindustria.

La prima?

«La prima è che è sbagliato descriverlo come un banchiere anche se ha fatto un breve periodo a Goldman Sachs; è un servitore dello Stato».

E poi?

«In secondo luogo è una persona pragmatica. Questo significa che non ha senso parlare di Draghi come uomo dell'austerità solo perché nell' agosto del 2011 firmò la famosa lettera con Trichet al governo italiano in cui chiedeva tagli alla spesa pubblica. Tanto è vero che negli anni successivi, come presidente della Bce, fece due passi fondamentali che sono agli antipodi della austerità: il "Whatever it takes" nell' estate del 2012 fu cruciale per ridurre gli spread di molti paesi tra cui il nostro e poi il "Quantitative easing" che iniziò nel 2015».

E qui si arriva alla sua terza caratteristica...

«Che è la capacità di tessere relazioni e convincere: il "Whatever it takes" ebbe successo senza che la Bce dovesse sborsare un solo euro perché i mercati capirono che Draghi aveva l'appoggio dei principali governi dell'Eurozona checché ne pensasse la Bundesbank. Il suo predecessore Trichet, che aveva tentato la stessa operazione, ma senza l'appoggio dei governi, fece spendere alla Bce molti soldi».

C'è un metodo Draghi?

«Si pone sempre con grande semplicità e modestia. Rispetta le persone e le competenze».

Chi lo tira a sinistra ricorda la sua laurea con Federico Caffè. Chi lo vede più liberista la sua amicizia con Francesco Giavazzi. E lei?

«Raramente ho sentito Mario Draghi esprimersi in termini ideologici. Fu il protagonista delle privatizzazioni nella seconda metà degli Anni Novanta perché quella era la cosa di fare allora. Non perché sposasse un'ideologia liberista ma perché bisognava entrare nell'euro. In lui vedo più pragmatismo che ideologia».

Il ritratto. Chi è veramente Mario Draghi, l’uomo che visse tre volte. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 4 Febbraio 2021. Se va bene – e sembra che debba andar bene– ci siamo levati dalle scatole in una botta sola l’avvocato Conte, il ministro Bonafede, il commissario Arcuri e a dio piacendo tutte e cinque le stelle, con il leader comico in testa. Tratteniamo il respiro, incrociamo le dita ma più che altro evitiamo di divinizzarlo se vogliamo capirlo, altrimenti si ricade nella laude del loden di Monti per il quale, senza sua colpa, fu anche abusato lo stucchevole nomignolo di super-Mario, da un giochino elettronico ormai dimenticato. Meglio evitare anche le divagazioni sul drago, benché nomen-omen: i nomi non arrivano sempre per caso e poi mettiamoci al riparo dall’eterna dannazione italiana di invocare l’uomo della provvidenza. Mario Draghi è un protagonista di peso. Ha un modo di fare impeccabile e forse un po’ rigido, con un sospetto di timidezza, ma con un sorriso più incline al sarcasmo che all’ironia. La sua storia ha due momenti, anzi tre. Nasce keynesiano, dunque favorevole a un’economia di sinistra di manica e spesa larga, dunque aperta al sociale. Poi diventa l’opposto: un campione delle privatizzazioni, uno che frequenta la finanza cinica e dedita al profitto, alle privatizzazioni che smembrano le aziende. Poi la fase tre, quando diventa governatore della Bce e getta la maschera salvando le nazioni europee nei guai – specialmente la sua che sarebbe la nostra, cosa che irritò moltissimo i tedeschi – con il quantitative easing che ancora pompa miliardi dove servono, secondo la linea dell’ultimo Draghi per il quale i soldi sono fatti per essere spesi, i debiti sono in fondo soltanto numeri astratti e quando occorre si deve usare la pompa e non il contagocce, “costi quel che costi”. Quale miglior credenziale per svolgere il ruolo di regista e amministratore unico del Recovery Fund, cioè del malloppo atteso dall’Europa, che però non arriverà se non si seguono le procedure? Citazione per citazione, «when the going gets tough the tough get going»-, quando in campo servono i duri, i duri entrano in campo. Ciò significa che l’uomo non è un lucente ed innocente automa come il Cavaliere di Italo Calvino, ma un campione certificato con una storia di momenti e posizioni diverse e persino opposte: quel che serve, quando serve. L’elemento costante è il carattere: orfano da adolescente, trovò famiglia nelle scuole e nelle università: nella romana Sapienza, poi nel Mit di Boston. Poi nelle supreme bische dell’alta finanza senza cuore in cui imparò l’importanza di una faccia da poker perfetta per sedere al tavolo e pensiamo che lì abbia imparato a giocare pesante, non vogliamo dire sporco, ma nemmeno da educanda delle Orsoline, se ancora esistono educande e Orsoline. In Europa lo descrivono come un accentratore che simula un religioso rispetto per la collegialità di cui, secondo Christine Lagarde, non sa che farsene. È uno stratega indifferente alla tattica purché si arrivi al risultato ed è un nerd, cioè un maniaco conoscitore della finanza che non è economia accademica ma il circuito in cui si decide di chi vivrà e chi soccomberà. Per poterlo apprezzare, va smontato per scoprire che non è soltanto un competente, ma uno che adotta come stile la deferenza, che è il costume di scena per chi è chiamato a governare. Di lui si cita il motto “whatever it takes”, a qualsiasi costo, che non è quello più adatto a un accademico, ma piuttosto ad un comandante decisionista. Ma la cosa più importante per capirlo e valutarlo è il fatto che Draghi pensi e decida in inglese, non solo che parli la lingua. Un conto è parlare un ottimo inglese, un altro è pensare in un idioma che ignora ogni costruzione barocca, imponendo di andare dritti al punto – to cut to the chase – ed è quanto ha imparato al Mit di Boston dove fu spedito da Federico Caffè, con cui si laureò in economia alla Sapienza di Roma. Federico Caffè misteriosamente sparì e non se ne ebbe più notizia, una sorte misteriosa che somiglia a quella del fisico Majorana e che certo non ha a che fare con la biografia di Draghi. Ma è certo che quest’uomo di 73 anni sia cresciuto in un mondo fatto di severità e di astuzia, di codici per pochi e sia cresciuto a scuola dai gesuiti, con molta America accademica vissuta con il premio Nobel Modigliani. La fase più discutibile e discussa della sua vita di banchiere, quella presso Goldman Sachs, dimostra come l’uomo abbia e le cambi posizioni. Nella Goldman Sachs fece una folgorante carriera e di sicuro non era un tempio di santi. Poi c’è la leggenda nera di quel che accadde sul panfilo Britannia il 2 giugno del 1992 quando sulla nave della casa reale inglese, finanzieri e banchieri riuniti come la Spectre di James Bond avrebbero svenduto l’Italia e le sue industrie in attesa che Giuliano Amato svalutasse la lira. Per queste vicende Francesco Cossiga gli lanciò una delle sue più velenose invettive rammaricandosi di averlo raccomandato a Berlusconi: «È un vile affarista, un uomo della Goldman Sachs che oggi svenderebbe anche Finmeccanica e l’Eni», disse il picconatore. Si dice anche che Berlusconi, oggi molto favorevole al suo governo che gli potrebbe permettere un ritorno in scena sganciandosi dai soffocanti alleati, sia rimasto deluso e irritato per la sparizione di Draghi, così come gli era successo con Mario Monti da lui scelto come commissario europeo. Ricordiamo queste lontane ombre per avvalorare la tesi e la speranza che Mario Draghi sia oggi l’uomo giusto nel momento giusto al posto giusto. Proprio perché non è un angelo e perché sul ring dei banchieri è stato una specie di Cassius Clay che ha marciato come un rullo compressore, ma con garbo e faccia da poker. Rispettoso, ma non ossequiente, incrociato i guanti anche con Angela Merkel ed ha vinto la partita con la Bundesbank dopo una resistenza inflessibile attraverso la quale ha dimostrato che quando sceglie un obiettivo è pronto a fare whatever it takes, tutto quel che si deve da fare, un proposito più adatto alla programmazione dello sbarco in Normandia che al cantico delle creature. Se tutti i pezzi dell’incastro andranno al loro posto, la rilettura di quanto è accaduto dall’apertura della crisi ad oggi apparirà lineare e semplice come la trama dell’Odissea: i sopraffattori che avevano occupato Itaca, non seppero riconoscere in tempo Odisseo che era tornato per sterminarli. Con l’aiuto determinante di Matteo Renzi, s’intende.

Mario Draghi, il ragazzo orfano a 15 anni che disse "whatever it takes": chi è il quasi-premier. Libero Quotidiano il 03 febbraio 2021. E' stato chiamato a salvare e rilanciare il Paese dopo il fallimento del Conte bis. Mario Draghi, che tutti conoscono come l'uomo che salvò l'euro durante la presidenza della Banca centrale europea, è la persona scelta da Sergio Mattarella per tentare di risollevare le sorti del Paese. Di certo non gli manca il coraggio. Draghi ha imparato a essere coraggioso fin da ragazzo, quando ha perso - a distanza di poco tempo - entrambi i genitori, papà Carlo e mamma Gilda. Aveva 15 anni. Da quel momento fu una sua zia a prendersi cura di lui e dei suoi due fratelli, Andreina e Marcello. Come riporta il Corriere della Sera, Draghi ha studiato al liceo Massimiliano Massimo di Roma dai gesuiti; poi si è laureato nel 1970 con Federico Caffè, uno degli economisti più in vista in Italia. In seguito il trasferimento al Mit di Boston, dove Mario Draghi ha avuto l'opportunità di studiare con il premio Nobel Franco Modigliani. Il Draghi pubblico è noto a tutti; quello privato invece un po' meno. Uno dei momenti più intimi in cui è stato ripreso, nel corso degli anni, è stato quello in cui spingeva il carrello al supermercato con la moglie Serena accanto. Fecero il giro del mondo le foto del presidente della Bce intento a fare la spesa. Si tratta dello stesso uomo che nel 2012 pronunciò le ormai celebri parole "whatever it takes", "faremo qualsiasi cosa", per salvare l'euro. La sua guida fu preziosa, vista la speculazione che in quel periodo stava attaccando la moneta unica. Nel curriculum di Mario Draghi, però, non c'è solo la Bce. Tra il 1984 e il 1990 è direttore esecutivo della Banca mondiale, mentre nel 2002 inizia a lavorare in Goldman Sachs, una delle banche d’affari più potenti al mondo. Poi approda alla Banca d'Italia, dove rimane fino al 2011. Molto tempo prima, dal 1991 al 2001, è direttore generale del Tesoro, dove viene chiamato da Guido Carli, ministro del settimo governo Andreotti. 
Anche nella Treccani. “Whatever it takes” di Mario Draghi, il significato della frase che ha salvato l’euro. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. “Costi quel che costi”, “tutto il possibile”, “qualsiasi cosa”, e anche oltre. Fino a diventare un simbolo, quella frase di Mario Draghi. È arrivata sulla Treccani, il suo “whatever it takes” rispolverata in numerose occasioni come solo le dichiarazioni emblematiche. Torna di moda oggi, e come potrebbe essere altrimenti: alle 12:00 l’ex Presidente della Banca Centrale Europea, salirà al Quirinale, convocato dal Presidente della Repubblica Serio Mattarella. L’inizio probabilmente dell’“era Draghi”. La Treccani l’ha tradotta con “costi quel che costi”. E ne ha spiegato il significato, alla stregua di un neologismo. “È il 26 luglio del 2012. L’Europa dell’euro è in grande difficoltà. Sale lo spread in molti Paesi. In Grecia tornano a soffiare pesanti venti di crisi. L’euroscetticismo inglese si gonfia. Draghi, da meno di un anno Presidente della Banca centrale europea, sale sul palco della conferenza di Londra e, senza troppi preamboli, dopo una manciata di minuti di introduzione, pronuncia la frase che cambia la storia della crisi: "Entro il suo mandato la Bce preserverà l’euro, costi quel che costi (whatever it takes). E, credetemi, sarà abbastanza"”. La frase fu un segnale e un atto politico, in piena crisi euro, nel 2012. La Grecia votava due volte in due mesi, in Spagna la crisi si aggravava sempre più, l’Italia rischiava di essere travolta, il Consiglio Ue dei capi di Stato e di governo prendeva la decisione di dar vita a un meccanismo di vigilanza unico, sotto la Bce, e alla creazione di un fondo di stabilità che sarebbe diventato l’antesignano dell’attuale Mes. Il 26 maggio Draghi è invitato nel Regno Unito, alla Lancaster House di Londra, come succede solo per gli incontri più importanti. Il Presidente della Bce parla pochi minuti, bastano e avanzano. La frase scatena una reazione a catena: molti hedge fund che avevano scommesso contro l’euro perdono tantissimo, le banche prendono una boccata di ossigeno, lo spread tra il Btp decennale e il Bund tedesco scende. Si inaugura così un intervento senza precedenti per la politica monetaria. Il 2 agosto viene presentato l’Outright monetary transaction, le transazioni che la Bce è pronta a realizzare sul mercato per soccorrere i titoli di stato dei Paesi sotto pressione. La famosa frase è stata ritirata in ballo anche durante la prima fase dell’emergenza coronavirus. Sul Financial Times Draghi aveva scritto un editoriale anche quello accolto con enfasi e favore: “Le banche devono rapidamente prestare fondi a costo zero alle aziende preparate a salvare posti di lavoro. Poiché in tal modo esse diventano veicoli di politica pubblica, il capitale di cui necessitano per eseguire questo compito deve essere fornito dallo Stato sotto forma di garanzie pubbliche su tutti gli sconfinamenti aggiuntivi di conto o sui prestiti”. Quando la Treccani ha ammesso la frase Draghi si è detto “lusingato, non me l’aspettavo”.

Dagospia il 5 febbraio 2021. Da Un Giorno da Pecora. Matteo Stoico, edicolante di Città della Pieve, che ha come cliente Mario Draghi, oggi a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, ha raccontato che giornali acquista di solito il premier incaricato. “Draghi compra un po' di tutto, fa una sorta di rassegna stampa, dal Fatto alla Verità, compra almeno sette /otto quotidiani ogni giorno. E sua moglie compra anche la Settimana Enigmistica e il Sudoku”. Acquista anche qualche giornale straniero? “Si, compra anche l'Herald Tribune ed un paio di giornali tedeschi”. E di quotidiani sportivi? “Compra soprattutto il Corriere dello Sport, perché segue la Roma, squadra per cui tifo anche io”. Parlate di calcio come due tifosi al bar? “Parliamo spesso dei giallorossi, lui è contento dell'allenatore Fonseca, gli piace perché è pacato ed educato. E poi gli piace molto anche Edin Dzeko”, ha spiegato Stoico a Un Giorno da Pecora.

Estratto dell'articolo di Mario Ajello per "il Messaggero" il 4 febbraio 2021. […] Per ora non usa i social Draghi. E verrebbe da dire: evviva! Dopo il contismo che ha fatto del tweet e del post su Fb una carnevalata e uno strumento di distrazione di massa. La sobrietà della comunicazione istituzionale («Evitare le chiacchiere che possono essere sostituite da una sola parola», consigliava Churchill e SuperMario è un seguace di Winnie) è un bisogno che lui sente assai.

Antonio Polito per il “Corriere della Sera” il 5 febbraio 2021. Dal primo ministro dell' Interno food-blogger che mostrava ai follower la sua cena, spaghetti con ragù star e Barolo, al primo ministro senza neanche un account social? Mentre Mario Draghi arrivava ieri a Roma in un' auto con i vetri oscurati, avvolto dal riserbo di una vita in fumo di Londra, Matteo Salvini postava su Twitter la foto della figlia di otto anni con cappuccetto rosso e senza pixel: «Buona giornata papà: e il giovedì, con questi occhietti furbi, diventa subito più bello». Il salto nell' intimità domestica dei politici ha frantumato le ultime barriere del pudore. Al punto che fanno ormai tenerezza i vecchi selfie con le fidanzate: Salvini dormiente al fianco della bruna, e per l' alter ego, Di Maio, il bacio plateale con la bionda, residui di un esibizionismo macho-affettivo studiato apposta per presentarsi al grande pubblico come «uno di noi», invece di «uno di loro». Il Capitano leghista, si sa, è il più avanti di tutti nella corsa al magico mondo alla rovescia della celebrity, nel quale si è bravi se si è famosi, e non viceversa. Con l' aiuto della "Bestia", la formidabile macchina di propaganda digitale guidata da Luca Morisi, il Matteo con la barba sfiora i sei milioni di follower sulle varie piattaforme, in particolare le più pop come Facebook e Instagram, in cerca dell' effetto Trump. L' altro Matteo, Renzi, arranca molto indietro, e tiene botta solo su Twitter, roba più cerebrale e radical chic, dove posta selfie mentre corre al mattino, cercando l' effetto Obama. Ruspante e in crescita la Meloni, molto impressionista con i suoi video urlati "en plein air". Ma Salvini è più sperimentatore. Primo politico italiano a sbarcare su TikTok, il social vietato ai minori di 13 anni, ci ha provato perfino su Parler, la piattaforma dei sovranisti trumpiani diventata celebre dopo l' assalto a Capitol Hill: non ha fatto neanche in tempo a iscriversi che già l' avevano chiusa per motivi di ordine pubblico. Senza dire di Giuseppe Conte, l' ex anonimo avvocato del popolo: avendo alle spalle Casalino, uno che il grande fratello orwelliano lo conosce, con le conferenze stampa dei Dpcm raddoppiò l' audience in un solo mese (purtroppo il più brutto per l' Italia, tra marzo e aprile dell' anno passato). Perfino Zingaretti, non esattamente un leone da tastiera, non disdegna di usare Facebook per «fatto personale», e polemizzare con una giornalista che gli aveva dato dell' ologramma. La politica, insomma, ormai si fa sui social. O, peggio, i social fanno la politica. Come se la caverà allora Mario Draghi, col suo stile da sacerdote della moneta, della cui vita personale non si quasi nulla, se non che frequentava il Liceo Massimo, conosceva Magalli e giocava a calcio, o forse a basket? Intendiamoci, volendo SuperMario potrebbe spaccare. Pure il cognome sembra perfetto per l' engagement dei fan: i "draghetti" già esistono, numerosi ed entusiasti, in rete. L' account ufficiale del Quirinale ha fatto boom (quasi ventimila like) all' annuncio dell' incarico: il pubblico, si sa, è affamato di novità. Né a Draghi manca la capacità di comunicare. Anzi. I banchieri centrali hanno sviluppato negli ultimi anni una strategia meno ieratica del passato nei confronti della comunicazione, e hanno addirittura imparato a usarla come strumento della politica monetaria. In inglese si chiama «forward guidance», e consiste nel dire, o far capire, ciò che intendono fare per orientare o spaventare i mercati. Insomma: a Mario Draghi bastarono tre parole, «whatever it takes», per salvare l' euro (e l' Italia) nel 2012. Sarebbe un twittarolo magnifico, se solo volesse. Ma è difficile che lo farà. L' ultimo "tecnico" ad arrivare a Palazzo Chigi, Mario Monti ormai dieci anni fa, non aprì un account social fino alla fine dell' esperienza di governo, e cedette solo per varare la sua lista alle elezioni. Però i tempi sono cambiati. La politica è prima empatia, e poi, se va bene, consenso. Se Draghi diventerà premier dovrà inventarsi qualcosa: una sobrietà sì, ma più ruggente, da Anni Venti. Non vorremmo essere nei panni del portavoce.

Lelio Alfonso per linkiesta.it il 4 febbraio 2021. Se riuscirà a formare il governo, il nuovo presidente del Consiglio incaricato darà la linea seguendo quello che è sempre stato il suo modo di agire: briefing puntuali, rigorosi e semplici nelle sedi opportune. Un sollievo per un Paese abituato a contorsioni lessicali e cambi repentini di umore mediatico. Tra le tante sfide che attendono Mario Draghi e il suo esecutivo (che sarà molto più politico di quanto si pensi), c’è quella – centrale – della comunicazione. Non si tratta di fare raffronti con le logiche disintermediate dei governi Conte (I e soprattutto II), ma proprio dell’interpretazione autentica del senso istituzionale del messaggio da rivolgere all’opinione pubblica. Per una figura che ha dalla sua autorevolezza ed esperienza, sarebbe gioco facile pensare a uno stile che unisca sobrietà e trasparenza, senza l’eccessivo ricorso ai social network o alle ospitate tv. Ma il momento storico imporrà al nuovo presidente del Consiglio un carico di lavoro ulteriore, quello di veicolare progetti e decisioni in prima persona. Come? Ossimoricamente apparendo il meno possibile e lasciando parlare i fatti, ovvero mettendo la firma (tanto visibile quanto lui sarà invisibile) sugli atti che consentiranno al Paese di ripartire durante e dopo la pandemia. Mario Draghi sarà dunque il miglior portavoce del suo governo perché darà la linea seguendo quello che è sempre stato il suo modo di agire, in ultimo a Francoforte, con disponibilità al confronto mediatico, ma solo nelle sedi opportune, attraverso briefing puntuali, rigorosi e semplici anche nella comprensione per il pubblico più ampio. La struttura che lo sorreggerà sarà istituzionale nei modi e nei toni, ma “guerriera” nell’intensità e nella traduzione delle carte in una linguistica accessibile. Per un Paese abituato a contorsioni lessicali e cambi repentini di umore mediatico, anche questo potrà rappresentare un elemento rassicurante, la chiusura dello spread tra il Palazzo e l’opinione pubblica. Il coordinamento delle voci ministeriali sarà un’esigenza primaria per evitare che il direttore d’orchestra non debba inseguire i solisti nelle loro intemerate interpretazioni dello spartito e non sarà impresa semplice per lo staff del neo inquilino di palazzo Chigi. Una volta stabilite le regole del gioco, andranno indicate le priorità con tempistiche chiare, anche per non farsi invischiare nella pagella dei 100 giorni che tanto piace agli editorialisti con il pennino avvelenato. Alla luna di miele che verrà evocata nelle prime settimane meglio opporre fin da subito la scaletta della to do list, il vero crono programma di governo, quello da affiggere sulla bacheca-Paese senza cedere ad aggettivi o ultimatum. Serenità e consapevolezza dovranno essere i messaggi chiave per avere dalla propria parte non solo le forze di maggioranza del momento, ma la maggioranza della forza di chi il Paese lo vive tutti i giorni, nell’impresa, nel lavoro e nell’impegno sociale. Troppo ottimismo? Forse, anche perché le tensioni dentro alla matrioska Ursula non saranno di poco conto e la pazienza del Paese è ai livelli di guardia. Di certo, non poteva esserci strappo più forte di quello che si fa strada in queste ore, anche sul piano dell’immagine. Al netto della rincorsa al carro del vincitore, sport nazionale che ci vedrebbe primeggiare alle Olimpiadi della politica, ciò che affascina tecnicamente del costruendo governo Draghi è l’opportunità di veder convivere il dinamismo della politica con la serietà del messaggio istituzionale, in un intreccio virtuoso che guardi al consenso in chiave partecipativa o comunque non belligerante. E anche a questo ha sicuramente pensato il Capo dello Stato quando ha alzato il telefono chiedendo alla Batteria di metterlo in contatto con il dottor Draghi.

COSA LEGA MARIO DRAGHI, SABINO CASSESE, PIPPO FRANCO E TOMMASO PARADISO? LE COMUNI ORIGINI IRPINE. Dagospia il 4 febbraio 2021. Cosa lega Mario Draghi, Sabino Cassese, Pippo Franco e Tommaso Paradiso? Le comuni origini irpine. La madre del presidente del consiglio incaricato, infatti, era originaria di Monteverde, comune di 750 abitanti al confine con Puglia e Basilicata. Il borgo irpino vuole consegnare la cittadinanza onoraria a Draghi. E' tornata l'Irpinia connection...

Da itvonline.news il 4 febbraio 2021. Ci potrebbe essere  il dna irpino nel futuro governo del nostro paese . Mario Draghi ha infatti origini irpine. La mamma nativa di Monteverde comune di 750 abitanti al confine con Puglia e Basilicata.  Monteverde si prepara a vivere la ribalta nazionale. Comune già conosciuto per lo spettacolo dell’acqua, capace di attirare ogni anno più di 70.000 visitatori, oggi apprende con grande fierezza la notizia del nuovo incarico a Mario Draghi. La mamma, Gilda Mancini , farmacista  ha sempre conservato un legame particolare con  Monteverde dove era proprietaria di alcuni terreni. L’Irpinia  riconquista dunque il suo ruolo da protagonista nella scena politica nazionale ed internazionale, un ruolo che in passato ha ricoperto per decenni.

Mario Ajello per "il Messaggero" il 4 febbraio 2021. In queste ore, scherza: «I giornalisti cercano notizie su di me. E che cosa devono fare, il coccodrillo?». Ma no, non sia mai. Cercano soltanto di ricostruire la cosmogonia di SuperMario, l'universo del deus ex machina. Che è profondamente glocal. Con molto mondo dentro ma anche con molta Italia e tanta Roma. E un tifo vero ma non sguaiato - nulla è sguaiato in lui: «E' un tipo pragmatico senza patemi e senza tentennamenti», lo definisce Giuliano Amato - per la squadra giallorossa. Racconta un amico, il patron del Napoli, Aurelio De Laurentiis: «Qualche settimana fa mi ha chiamato, appena ha saputo che il Napoli aveva ottenuto di poter ripetere la partita con la Juve. E mi ha detto: sono molto contento». Per ora non usa i social Draghi. E verrebbe da dire: evviva! Dopo il contismo che ha fatto del tweet e del post su Fb una carnevalata e uno strumento di distrazione di massa. La sobrietà della comunicazione istituzionale («Evitare le chiacchiere che possono essere sostituite da una sola parola», consigliava Churchill e SuperMario è un seguace di Winnie) è un bisogno che lui sente assai. E comunque: piace a tutti, o quasi, il premier incaricato. Gli ex ragazzi con cui passava le estati a Lavino - prima di andare a Boston grazie a una borsa di studio e molto prima di Francoforte per la Bce - lo ricordano così al tempo in cui lo stabilimento La Lucciola era il mondo local di Draghi e comunque lui ha ancora una villetta da quelle parti: «Era serio e posato. A 15 anni aveva perso il padre, Carlo, funzionario importante in Banca d' Italia e poi in Bnl, e poco dopo la madre. Con l' aiuto di una zia, Mario si è preso cura dei suoi due fratelli minori». Una, Andreina, storica dell' arte, nel 1999 ha scoperto a Roma un ciclo di affreschi nel complesso dei Quattro Santi Coronati. L'altro, Marcello, fa l' imprenditore. Il cinema è una passione. Specie i western. Andava spesso al cinema Holiday, tra Parioli e Pinciano, ma ora purtroppo è chiuso. I western ora li vede di notte in tivvù. E la sua frase celebre del «whatever it takes» - «Faremo tutto quello che è necessario per salvare l'euro e, credetemi, sarà abbastanza» - viene considerata una sfida in pieno stile pistolero. Come quelli che lui adora nel cinema. Alternandoli ai miti come Adam Smith o come Keynes. O ai campionissimi del pallone. Un giornalista catalano gli ha chiesto: «Che cosa pensa di Messi?». E lui: «Il vero filosofo del calcio secondo me è Totti». La scuola?

Gesuiti. Istituto Massimo, all'Eur. Come per De Gennaro, Montezemolo, Giancarlo Magalli («Non un secchione, e passava i compiti»), Luigi Abete e via così.

Classe dirigente. L'estate scorsa ha partecipato al Meeting di Cl a Rimini e ha stupito le persone con cui s'è intrattenuto, per questo motivo. Quando a Draghi fai una domanda, lui risponde con un'altra domanda. Esempio: professore, che cosa pensa di questo? E lui: «Mi dica lei. Che parere si è fatto?». Pura tecnica gesuitica. Però alla domanda sul come mai Draghi da giovane non partecipò ai movimenti di protesta, lui risponde con una riposta: «Non ho fatto il 68, perché non avevo genitori contro cui ribellarmi». Sia pure con il suo understatement, SuperMario è un tipo nient' affatto fermo e non solo perché pendola tra la casa ai Parioli e il casale a Città della Pieve o perché svaria tra l'Europa e l'America («Ci conoscemmo a Boston, nel 74», ricorda Prodi: «Nel giro degli economisti italiani Oltreoceano, intorno a Modigliani, il Premio Nobel che circolava con la sua spider») ma anche perché ha avuto in questi mesi un' attività telefonica intensa. Con il ministro Gualtieri per il Pd (intesa nata in Europa), con Gianni Letta (conosciuto a Goldman Sachs), con il leghista Giorgetti (i due si piacciono). Ma a SuperMario piacciono anche gli scacchi, e pare che ci giochi on line sotto pseudonimo su chess.com. Paolo Vigevano, fondatore di Radio Radicale, compagno di scuola di Draghi: «Oggi gioca a golf ma, al liceo, Mario aveva un bel tiro a pallacanestro. Il suo modello era Bill Bradley». Nel 2010 Draghi è stato anche insignito con la Retina d'oro, un premio che va a un grande appassionato di basket. Ma ora che ha avuto l' incarico da capo del governo, gli toccherà vedersela con l'italianissimo wrestling.

Draghi, i compagni del liceo: «Non era secchione e giocava bene a basket». Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 5/2/2021. «Siamo tutti contenti, contentissimi. Dalla sera di martedì 2 febbraio noi ex compagni di classe non facciamo che mandarci messaggi. Pensiamo tutti a lui, al nostro amico Mario Draghi, che da ragazzo era sempre così disponibile con tutti noi suoi compagni...». Giuseppe Petochi è un nome famoso nella Capitale: è l’orafo del raffinato negozio di via Margutta 1/B, erede della dinastia di gioiellieri che aprirono il primo negozio nel 1884. Petochi era nel liceo classico, sezione B e maturità 1965, dell’Istituto Massimiliano Massimo, scuola romana dei padri Gesuiti. Nel 1870, con Roma Capitale, chiuse il secolare Collegio Romano e padre Massimiliano dei principi Massimo fondò il nuovo Istituto destinato a forgiare, nel segno della fede cattolica, la classe dirigente del neonato Regno d’Italia. Lì ha studiato Mario Draghi in una sezione piena di nomi diventati poi famosi. Nei cinque anni, tra ginnasio e liceo, appaiono Luca Cordero di Montezemolo, il manager Cristiano Rattazzi e Alberto Francesconi, a lungo presidente di Agis e di Anec. E c’era anche il presentatore Giancarlo Magalli: «Faccio a Mario gli auguri più affettuosi, pur consapevole che proveranno tutti a fargli lo sgambetto. Poveri noi….Aveva i capelli pettinati così, con la riga come adesso, e quel sorriso trasversale che era un po’ il suo biglietto da visita». Poi Magalli venne espulso: per evitare un compito sigillò la classe fingendo una disinfestazione, con tanto di cartello ben scritto («Mario se la ricorderà, quella mattinata…»). Già ai tempi, un destino da presentatore. Draghi studiava e molto, ma non viene ricordato come un «secchione», dice Petochi: «Capiva subito rapidamente ma non passava tutto il giorno sui libri, anzi. Giocava benissimo sia a pallone sia a pallacanestro». L’attuale rettore, padre Giovanni La Manna, è orgoglioso: «La pagella sarebbe protetta dalla privacy ma posso dire che l’abbiamo riguardata così come il materiale d’archivio sulla sua formazione, gli indici del suo percorso sono molto soddisfacenti e viene fuori la bravura in matematica...». Il legame tra gli ex alunni è rimasto solido. Draghi era nella sezione B ma nello stesso anno nella C studiava il banchiere Luigi Abete, nella A il diplomatico Staffan de Mistura e l’ex direttore de Il Popolo, Giuseppe Sangiorgi. Nella maturità 1964 appare il giornalista Antonio Padellaro, in quella 1966 ecco l’ex capo della Polizia, Giovanni De Gennaro, e Paolo Vigevano, fondatore di Radio Radicale. Ma De Gennaro e Vigevano condividevano con Draghi la passione per la pallacanestro. Uomo-chiave della formazione al Massimo, in quella stagione, è stato padre Franco Rozzi, docente di storia e filosofia, preside del liceo classico, poi confessore e padre spirituale alla Chiesa del Gesù. Ancora Petochi: «Padre Rozzi, per anni punto di riferimento nostro e quindi anche di Mario, è scomparso nel 2010. Però tutti noi ci siamo chiesti se, dopo l’incarico, non si sia comunque fermato un momento al Gesù…». Gli ex compagni si sono scambiati il link su You Tube di un video in cui Draghi parla della sua esperienza scolastica al Massimo: «Provo profonda gratitudine per l’Istituto. All’insegnamento scolastico si accompagnava la formazione religiosa. Ricordo la dedizione con cui i padri gesuiti seguivano la nostra educazione, le molte amicizie durate una vita, le esperienze sportive. Ricordo un insegnamento di qualità eccellente e il messaggio morale. Cioè cose che andavano fatte al meglio delle nostre possibilità, poi l’importanza dell’onestà».

Un legame fortissimo, quello di Draghi con i padri gesuiti: a celebrare il suo matrimonio fu infatti padre Alberto Parisi, un’altra colonna dell’istituto.

Andrea Sereni per corriere.it il 4 febbraio 2021. Ammaliato dalla bellezza del basket, tifoso della Roma, giocatore di golf: nelle pieghe della vita di Mario Draghi, incaricato dal capo dello Stato Mattarella di formare un nuovo governo, c’è anche tanto sport. Ce ne è sempre stato, da bambino così come quando era governatore della Banca d’Italia e della Bce. Bill Bradley, stella dei New York Knicks e oro olimpico a Tokyo nel 1964 (poi anche senatore e candidato democratico alle presidenziali del 2000), è la scintilla della prima ora, quella giovanile. Guardando giocare il cestista americano, campione d’Europa con la Simmenthal Milano nel 1966, nasce l’interesse per il basket, certificato nel 2009 dal premio La Retina d’Oro, conferito all’allora governatore della Banca d’Italia «per la riconosciuta passione verso la pallacanestro che ne fa un importante ambasciatore di questo sport, anche in virtù dei suoi trascorsi agonistici». «Aveva un bel tiro», dicono di lui gli amici degli anni del Liceo (tra cui Luca Cordero di Montezemolo).

L’amore per la Roma. Oggi invece Draghi, oltre sci e jogging, gioca principalmente a golf. Poi però c’è la Roma. L’unica fede (sportiva), dai tempi dell’Istituto gesuita Massimiliano Massimo, che lo accomuna all’ex premier Giuseppe Conte. Chi lo conosce descrive la sua passione verso i colori giallorossi «intensa», seppur raramente si sia visto in tribuna all’Olimpico. Francesco Totti il giocatore preferito, più di Falcao, Pruzzo o Giannini. Un retroscena svelato dallo stesso Draghi durante un’intervista a El Pais del 2016: «Se dovessi scegliere tra il Capitano o il Principe? Ah, Giannini, che giocatore. Ma Totti è il migliore della sua generazione. Un talento unico. Un filosofo del calcio. Forse il più grande nella storia della Roma». Totti l’amore, Pirlo l’alter ego? Sì, secondo il columnist del New York Times Roger Cohen, che nel 2012 (all’epoca della presidenza della Banca centrale europea) paragonò il presidente del Consiglio incaricato al regista della Nazionale di Prandelli, finalista agli Europei, definendolo «un maestro della verticalizzazione, un fantasista che colpisce gli intransigenti banchieri della Bundesbank con eccezionale precisione». Chissà, forse servirà anche un po’ di magia alla Totti o Pirlo per convincere le forze politiche ed ottenere la fiducia in Parlamento.

Dal profilo Instagram di Giancarlo Magalli il 4 febbraio 2021. Da quando si è saputo dell’incarico a Mario Draghi sono letteralmente sommerso da telefonate di giornalisti che mi chiedono commenti e foto d’epoca. Non ho accontentato nessuno di loro, ma voglio far sorridere voi e vi allego due foto, una mia ed una di Mario, all’epoca della scuola e l’annuario con l’elenco dei componenti la classe. Detto ciò faccio a Mario gli auguri più affettuosi, pur consapevole che proveranno tutti a fargli lo sgambetto. Poveri noi.

Da huffingtonpost.it il 4 febbraio 2021. “Il mio timore è che i politici di mestiere gli remeranno tutti contro affinché non si noti troppo che è più bravo di loro”. Così all’Adnkronos Giancarlo Magalli parlando dell’ex compagno di classe Mario Draghi, nuovo presidente del Consiglio incaricato. “Draghi era intelligente, simpatico e una persona molto corretta: non era uno di quelli che faceva la spia al professore - dice Magalli scoppiando in una risata - Insomma, era una persona estremamente piacevole. Da ragazzino era come adesso, con la sua riga, pettinato come adesso e sempre con quel sorriso che era il suo biglietto da visita”. Non è la prima volta che il conduttore ricorda pubblicamente i suoi trascorsi in un Liceo di Roma con Draghi. In un’intervista rilasciata all’Huffington Post lo definiva “una persona seria, competente e onesta”: “Ha mille pregi. Anche perché, con gli incarichi che ha ricoperto e con le iniziative coraggiose che ha preso, se avessero avuto un millimetro per attaccarlo lo avrebbero distrutto. Ma è appunto inattaccabile”. A scuola, ha raccontato, era un tipo “coscienzioso”: “Studiava ma non era un secchione. Ed era molto ironico. Non faceva casino, ma se gli altri lo facevano apprezzava. Aveva sempre quel sorriso di traverso che ha ancora oggi. Ci siamo anche scritti quando venne nominato Governatore della Banca d’Italia, perché alcuni giornali come lancio scrissero: ‘È stato a scuola con Magalli’. La cosa ci fece molto ridere, come se fosse un nota di merito. Magari lo facessero Presidente della Repubblica”.

Dagospia il 4 febbraio 2021. Da Un Giorno da Pecora. Il dottor Giuseppe Tuffi, compagno di classe di Mario Draghi al liceo “Massimo” ed ex direttore del reparto di chirurgia d'urgenza all'Ospedale San Camillo di Roma, oggi ha raccontato a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, com'era l'attuale premier incaricato ai tempi della scuola. “Mario era una ragazzo molto serio e molto bravo a scuola. Anche allora era molto bravo nelle materie scientifiche mentre non era molto orientato verso quelle letterarie. Però – ha spiegato il medico - non andava male in nessuna materia”. Quale voto prendeva nella peggiore delle ipotesi? “Forse un sette”. E fuori dalla classe, nello sport, com'era? “Facevamo diversi sport, lui giocava sia a calcio che a basket. A calcio però non eccelleva, era molto ragionatore in campo, non irruento”. Quale calciatore le ricorda Mario Draghi? “Un centrocampista alla Agostino Di Bartolomei”. E a basket? “Era più bravo a pallacanestro, giocava molto bene anche se non era molto alto”. Come compagno di classe aiutava gli altri? “Si, in molti si rivolgevano a lui, ci dava una bella mano, specie nelle materie scientifiche”. Faceva copiare? “No, gli chiedevamo informazioni sui compiti”. E con le ragazze com'era l'ex numero 1 della Bce? “La nostra scuola era solo maschile, e con le ragazze ci 'arrangiavamo' con una scuola privata della zona, le suore di Neveres. Ci andavamo ognuno per conto proprio, di nascosto”. Ai tempi indossava già sempre la giacca e mai il cappotto? “Col cappotto non me lo ricordo, mentre ricordo che era sempre in giacca, già allora”. E' vero che quando era il compleanno di qualcuno di voi facevate un 'gioco' un po' particolare? “Si, ci tiravamo i cannoli di panna, che a volte arrivavano anche in faccia. Un gioco a cui allora partecipava anche Mario”, ha raccontato il chirurgo a Un Giorno da Pecora.

"Draghi alunno brillante, ma non rinunciava alle battaglie con i cannoli e agli assalti ai prof con le pistole a riso". Pierluigi Bussi su La Repubblica il 3 febbraio 2021. L'ex presidente della Bce raccontato da Ezio Bussoletti, suo compagno di classe al liceo Massimo e ordinario di Fisica Spaziale in pensione: "Quando c'era da fare casino, non si è mai tirato indietro. Passava i compiti ed era forte a basket". "Le annate 46/47 del Massimo hanno avuto un grande successo nella vita come carriere in tutte e tre le sezioni". Lo spiega a Repubblica il professor Ezio Bussoletti, ordinario di Fisica Spaziale in pensione ed ex alunno dell'Istituto nonché compagno di classe di Mario Draghi, che oggi si continua a occupare di spazio in alcune Istituzioni, dove è chiamato a fornire consigli e indicazioni. "Un presidente di Confindustria, molti medici di grandissimo spessore, alcuni ottimi magistrati, non pochi imprenditori di successo, professori universitari di materie umanistiche, avvocati, architetti e due fisici di fama internazionale, che hanno portato avanti la tradizione della scuola anche in questo settore, grazie alla fortuna di avere un professore come padre Sabino Maffeo. Questo è stato, tra le altre cose anche direttore tecnico di Radio Vaticana e dell'Osservatorio astronomico del Vaticano sui colli romani", spiega il professor Bussoletti per delineare il quadro di come fosse il Massimo allora. "Il successo degli alunni di queste due annate è arrivato perché siamo stati educati a lavorare seriamente, a saper soffrire se volevamo ottenere qualcosa e c'era una forte etica da seguire e rispettare. Sono arrivato al Massimo in Terza media, provenendo dai Gesuiti di Bari - aggiunge -. La tradizione dell'Istituto era che a ogni passaggio di ciclo scolastico, le classi fossero rimescolate proprio per creare un maggiore spirito di corpo. Perciò, con Mario siamo stati compagni di classe nella sezione B nel triennio del Liceo Classico. Era un alunno brillante, anche se non lo ha mai voluto ostentare. Tanto che, pur essendo un po' riservato, non si è mai tirato indietro dalle attività di leggero casino della classe verso alcuni professori. Vittima particolare di molti di noi era il docente di filosofia - ricorda il professore citando un aneddoto -. Spesso, per festeggiare il compleanno di qualcuno di noi, chiedevano a una pasticceria vicino alla scuola di far portare in classe delle paste con una particolare qualità: cannoli riempiti di panna, che venivano immancabilmente utilizzati come cannoni, soffiando al loro interno. Sia per battaglie tra alunni sia per tiro a segno sul soffitto dell'aula. Ricordo anche un assalto allo stesso professore da parte di un gruppo ristretto del quale facevo parte con le 'famigerate' pistole a riso. Alla fine dell'ora di filosofia, il pavimento era un tappeto di chicchi di riso". Per quanto riguarda la normale vita degli studenti, "passarsi i compiti tra noi era abbastanza comune, quindi presumo che Mario non fosse l'eccezione". Sullo sport, invece, c'erano varie scuole di pensiero. "Mentre io, giocavo a hockey sul prato nella squadra della scuola - ha concluso il professor Bussoletti -, Mario era in quella di basket, molto brillante in quel periodo. Dove peraltro giocava anche Gianni De Gennaro, un anno più giovane di noi".

Draghi, i compagni del liceo gesuita: studioso ma non secchione, e giocava bene a basket». I compagni del liceo gesuita di Draghi (da Abete a Montezemolo): «Studioso, giovava bene a basket». Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 4/2/2021. «Siamo tutti contenti, contentissimi. Dalla sera di martedì 2 febbraio noi ex compagni di classe non facciamo che mandarci messaggi. Pensiamo tutti a lui, al nostro amico Mario Draghi, che da ragazzo era sempre così disponibile con tutti noi suoi compagni...». Giuseppe Petochi è un nome famoso nella Capitale: è l’orafo del raffinato negozio di via Margutta 1/B, erede della dinastia di gioiellieri che aprirono il primo negozio nel 1884. Petochi era nel liceo classico, sezione B e maturità 1965, dell’Istituto Massimiliano Massimo, scuola romana dei padri Gesuiti. Nel 1870, con Roma Capitale, chiuse il secolare Collegio Romano e padre Massimiliano dei principi Massimo fondò il nuovo Istituto destinato a forgiare, nel segno della fede cattolica, la classe dirigente del neonato Regno d’Italia. Lì ha studiato Mario Draghi in una sezione piena di nomi diventati poi famosi. Nei cinque anni, tra ginnasio e liceo, appaiono Luca Cordero di Montezemolo, il manager Cristiano Rattazzi e Alberto Francesconi, a lungo presidente di Agis e di Anec. E c’era anche il presentatore Giancarlo Magalli: «Faccio a Mario gli auguri più affettuosi, pur consapevole che proveranno tutti a fargli lo sgambetto. Poveri noi….Aveva i capelli pettinati così, con la riga come adesso, e quel sorriso trasversale che era un po’ il suo biglietto da visita». Poi Magalli venne espulso: per evitare un compito sigillò la classe fingendo una disinfestazione, con tanto di cartello ben scritto («Mario se la ricorderà, quella mattinata…»). Già ai tempi, un destino da presentatore. Draghi studiava e molto, ma non viene ricordato come un «secchione», dice Petochi: «Capiva subito rapidamente ma non passava tutto il giorno sui libri, anzi. Giocava benissimo sia a pallone sia a pallacanestro». L’attuale rettore, padre Giovanni La Manna, è orgoglioso: «La pagella sarebbe protetta dalla privacy ma posso dire che l’abbiamo riguardata così come il materiale d’archivio sulla sua formazione, gli indici del suo percorso sono molto soddisfacenti e viene fuori la bravura in matematica...».
Il legame tra gli ex alunni è rimasto solido. Draghi era nella sezione B ma nello stesso anno nella C studiava il banchiere Luigi Abete, nella A il diplomatico Staffan de Mistura e l’ex direttore de Il Popolo, Giuseppe Sangiorgi. Nella maturità 1964 appare il giornalista Antonio Padellaro, in quella 1966 ecco l’ex capo della Polizia, Giovanni De Gennaro, e Paolo Vigevano, fondatore di Radio Radicale. Ma De Gennaro e Vigevano condividevano con Draghi la passione per la pallacanestro. Uomo-chiave della formazione al Massimo, in quella stagione, è stato padre Franco Rozzi, docente di storia e filosofia, preside del liceo classico, poi confessore e padre spirituale alla Chiesa del Gesù. Ancora Petochi: «Padre Rozzi, per anni punto di riferimento nostro e quindi anche di Mario, è scomparso nel 2010. Però tutti noi ci siamo chiesti se, dopo l’incarico, non si sia comunque fermato un momento al Gesù…». Gli ex compagni si sono scambiati il link su You Tube di un video in cui Draghi parla della sua esperienza scolastica al Massimo: «Provo profonda gratitudine per l’Istituto. All’insegnamento scolastico si accompagnava la formazione religiosa. Ricordo la dedizione con cui i padri gesuiti seguivano la nostra educazione, le molte amicizie durate una vita, le esperienze sportive. Ricordo un insegnamento di qualità eccellente e il messaggio morale. Cioè cose che andavano fatte al meglio delle nostre possibilità, poi l’importanza dell’onestà». Un legame fortissimo, quello di Draghi con i padri gesuiti: a celebrare il suo matrimonio fu infatti padre Alberto Parisi, un’altra colonna dell’istituto.

Chi è Mario Draghi, l'uomo del "Whatever it takes". In attesa di scoprire se Draghi sarà effettivamente il prossimo premier, è utile ripercorrere le fasi salienti della sua vita. Federico Giuliani, Martedì 02/02/2021 su Il Giornale. Mario Draghi è stato convocato al Quirinale da Sergio Mattarella.

Draghi e il suo «Whatever it... Quasi sicuramente, l'ex presidente della Banca centrale europea sarà incaricato di provare a formare un governo tecnico. "Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha convocato per domani mattina alle 12 al Quirinale il professor Mario Draghi": è questo il cinguettio apparso poco dopo le 21:30 del 2 febbraio sul profilo ufficiale del Quirinale su Twitter. In attesa di scoprire se Draghi sarà effettivamente il prossimo premier, è utile ripercorrere le fasi salienti della sua vita.

L'inizio e l'ascesa. Mario Draghi nasce a Roma il 3 settembre 1947. Si laurea con l'economista Federico Caffè presso l'università La Sapienza di Roma, per poi ottenere un dottorato in Economia al prestigioso Massachusetts Institute of Technology. Inizia quindi la stagione dell'insegnamento: all'Università di Firenze, Padova, Trento e Venezia. Sempre negli anni '80, Draghi approda nei corridoi ministeriali nella veste di consigliere economico del ministro del Tesoro Giovanni Goria, che lo designa a rappresentare l'Italia negli organi di gestione della Banca mondiale. Tra il 1984 e il 1990 è Direttore Esecutivo della Banca Mondiale, mentre dal 1991 al 2001 è Direttore Generale del Ministero del Tesoro. Negli stessi anni, come ricorda l'Adnkronos, Draghi è membro del Comitato Monetario della Cee e del G-7 Deputies, nonchè presidente del Comitato di Gestione Sace. Dal '91 al '96 è nel Cda Imi e dal '93 presiede il Comitato per le Privatizzazioni. Dal '94 al '98 è invece presidente del G-10 Deputies. Nel 2001, Draghi lascia Via XX Settembre e torna ad insegnare negli Stati Uniti. Nel 2002 bisogna registrare il suo ingresso in Goldman Sachs a Londra, di cui ben presto diviene vice presidente per l'Europa. Il 29 dicembre 2005 diventa il nono governatore della Banca d'Italia.

L'arrivo nella Bce. Alla guida di Palazzo Koch, Draghi rimane fino al 31 ottobre 2011. Nell'aprile del 2006 viene eletto Presidente del Financial Stability Forum, divenuto Financial Stability Board dalla primavera del 2009. Dal primo novembre 2011 Draghi assume il timone della Banca centrale europea. A un mese dal suo insediamento a Francoforte, nell'intervento davanti all'Europarlamento chiede ai Paesi dell'UE di recuperare in affidabilità, dichiarando che serve un segnale forte per i mercati. Il 26 luglio 2012, in un intervento a Londra, annuncia che la Banca centrale europea farà tutto il possibile ("Whatever it takes") per salvare l'Euro. Il 31 dicembre 2012 è stato nominato uomo dell'anno dai quotidiani inglesi Financial Times e The Times, per aver ben gestito la crisi del debito sovrano europeo in un momento molto delicato come l'estate di quell'anno quando la crisi finanziaria stava per contagiare grandi economie, come la spagnola e l'italiana. Nel gennaio 2015 Draghi lancia l'atteso Quantitative easing, con cui la Banca centrale europea acquista titoli di stato dei paesi dell'Eurozona per 60 miliardi di euro fino al settembre 2016. Il 31 ottobre 2019, con il tradizionale rito di passaggio di consegne a Christine Lagarde, termina ufficialmente il suo mandato di presidente della Bce.

Tra i carneadi seduti con i big pure chi vendeva i cd taroccati. È il giorno degli invisibili. Di quei parlamentari sconosciuti, usciti dal cono d'ombra e chiamati a salvare le sorti dell'Italia (del governo Conte). Pasquale Napolitano, Martedì 02/02/2021 su Il Giornale. È il giorno degli invisibili. Di quei parlamentari sconosciuti, usciti dal cono d'ombra e chiamati a salvare le sorti dell'Italia (del governo Conte). Al tavolo programmatico, convocato dal presidente esploratore della Camera Roberto Fico a Montecitorio, fanno il proprio esordio europeisti, costruttori, responsabili, autonomisti, negazionisti. Arrivano di buon mattino, in anticipo rispetto all'orario (9,30) fissato da Fico, con la speranza di intercettare giornalisti e fotografi. Ma nessuno li riconosce. La stampa attende però i big Delrio, Boschi, Marcucci. Il veterano degli sconosciuti è un volto arcinoto della politica italiana: Bruno Tabacci, un quarto di secolo in Parlamento e animatore dei simpatizzanti del premier dimissionario Giuseppe Conte. Ma chi sono i parlamentari voluti da Fico al tavolo per siglare il patto di legislatura e ipotecare, per dirla alla Renzi, il destino dell'Italia nei prossimi 30 anni? Antonio Tasso, il nome non dice nulla. Siede al tavolo in rappresentanza della pattuglia di Centro Democratico. È un ex grillino, cacciato da Luigi Di Maio durante la campagna elettorale delle politiche nel 2018: eletto alla Camera nel collegio di Cerignola (Puglia) ha alle spalle una condanna a sei mesi di reclusione e duemila euro di multa per aver venduto Cd taroccati. La pena è stata sospesa e ha ottenuto la non menzione nel casellario giudiziario. La condanna è di primo grado, più tardi è intervenuta la prescrizione. Quando la notizia, in piena campagna elettorale, saltò fuori, Di Maio non esitò a cacciarlo dal Movimento. Ora siede al tavolo che dovrà scrivere il patto di legislatura del Conte ter o di un altro esecutivo. In rappresentanza del neonato movimento degli Europeisti c'è un altro ex grillino: il senatore Maurizio Buccarella. Fu cacciato perché in contrasto con l'etica del Movimento aveva intascato tutto lo stipendio. La sua difesa: «Non posso campare con 3mila euro al mese». Daranno il proprio contributo alla stesura del patto di legislatura campioni di gaffe. Come l'ex Pd Gianclaudio Bressa, oggi senatore per il gruppo Autonomie: Bressa era sottosegretario agli Affari regionali quando confuse Jim Harrison con Jim Morrison. Altro esperto in gaffe è Davide Crippa, capogruppo dei Cinque stelle. Memorabile il suo sfogo: «Avevo il torneo di waterpolo e invece devo stare alla Camera a votare. Chi è il genio che ha deciso che questa sera si doveva votare in commissione». Completano il quadro i senatori Raffaele Fantetti e Albert Lanièce. Nessuna nota sul loro conto.

È la Repubblica delle banane? Tutto il peggio della settimana. Dal dietrofront dei cinque stelle alla telefonata tra Conte e Renzi. Michel Dessì, Domenica 31/01/2021 su Il Giornale. Che settimana inconcludente. La peggiore. Mentre i partiti di maggioranza litigano il Paese aspetta. Aspetta. Aspetta. Nonostante l’emergenza sociale ed economica in cui versa il Paese. Ma fino a quando? Beh, al momento non è dato sapere. Una cosa è certa: il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha detto che bisogna fare in fretta. Ma i tempi si allungano e gli scenari cambiano di ora in ora. Giorgia Meloni si è fatta male ad una gamba facendo palestra in casa, evidentemente non ha più l’età, come ha detto lei stessa uscendo dai gruppi parlamentari. Ma per sgombrare ogni dubbio ha aggiunto: “No a un Governo zoppo, non sarò la quarta gamba e non ci azzopperanno”. Se prima bisognava mettere pace tra Giuseppi e Matteo (Renzi, si intende), ora bisogna mettere pace all’interno del Movimento 5 Stelle che si è frantumato. In molti non vogliono più un’alleanza con il senatore semplice di Rignano (come dargli torto) e, capitanati da Alessandro Di Battista, minacciano la scissione. Siamo tutti nelle mani di Fico. Sì, nelle mani di Roberto Fico. “Non bisogna mai giudicare un libro dalla copertina”, dice un vecchio detto e lo stesso vale per il Presidente della Camera. Sembra un fico secco, moscio, ma forse lui riuscirà a sanare le fratture scomposte all’interno del suo movimento e risolvere in breve tempo la crisi. Per ora siamo in un pantano, per non dire nella me…lma. Ma la colpa non è solo di Renzi, ma anche di Giuseppi. La situazione si sarebbe potuta risolvere in breve tempo se, l’avvocato del popolo, avesse fatto un passo indietro per il bene del Paese. D’altronde dice di esserne innamorato. Se Conte si fosse messo da parte rinunciando al ter si sarebbe creata una nuova maggioranza in men che non si dica, un nuovo Presidente del Consiglio e via spediti fino al 2023.

GIUSEPPE CONTE. Tace l’avvocato, non parla. In questi giorni è teso. Prega e spera, spera e prega. Non sa più a quale Santo rivolgersi. Ha sfogliato tutto il calendario, ha acceso una, dieci, cento candele. Telefona solo a Renzi per implorarlo di cambiare idea, di mettere da parte le questioni personali e di pensare all’Italia. Mentre lui pensa alla sua poltrona.

MATTEO RENZI. Se la gode lui, e prende per i fondelli anche Conte che lo chiama al telefono per impietosirlo: "Sai, non sono bravo a reclutare senatori” avrebbe detto Giuseppi a Matteo che, a sua volta, avrebbe risposto in modo tagliente: “Si vede! Ma poi sei già diventato vegano come avevi promesso a Lello Ciampolillo per conquistarlo?". E Conte ha provato a rispondere con simpatia: "No, questa sera mangio una bistecca". Sempre Renzi… dopo aver aperto la crisi di Governo è partito per l’Arabia Saudita, ha partecipato ad un convegno (pagato 80 mila dollari, dicono le malelingue) sul “rinascimento”. Ha apprezzato e, addirittura invidiato, il costo del lavoro dei sauditi. Lavoro sfruttato e sottopagato. E ha addirittura elogiato il principe saudita Mohammed bin Salman, sospettato di atroci delitti. Ma come? Poi va a fare le prediche a Salvini? Matteo, Matteo…

NICOLA ZINGARETTI. La sinistra attacca la sinistra e il segretario dei Dem punta il dito contro i suoi stessi "intellettuali". Sui sociale scrive: "Ho letto su Repubblica una pagina di Concita De Gregorio, purtroppo ho visto solo l’eterno ritorno di una sinistra elitaria e radical chic, che vuole sempre dare lezioni a tutti, ma a noi ha lasciato macerie sulle quali stiamo ricostruendo. Chi fa un comizio in diretta dopo le consultazione al Quirinale è un esempio, chi rispetta quel luogo una nullità. La prossima volta mi porto una chitarra. Che degrado. Ma ce la faremo anche questa volta."

IL MOVIMENTO 5 STELLE. Quanto vale la parola dei grillini? ZERO! Come la loro coerenza. Hanno governato prima con la Lega e poi con il PD, eppure dicevano di non voler mai andare al governo con loro. Nei giorni scorsi hanno detto: “Quello di Renzi è un gesto irresponsabile che divide definitivamente le nostre strade. Mai più con lui ed Italia Viva…” Eppure, hanno riaperto. Mai dire mai…

CARLO CALENDA. Il “leader” di Azione scrive su twitter e punzecchia Conte: “E’ nobile dare le dimissioni per favorire “un governo di salvezza nazionale”. Un po’ meno precisare immediatamente dopo che ti ritieni l’unico salvatore in circolazione.” Come dargli torto.

LUIGI DI MAIO. Gigi da Pomigliano scrive sui social: “E’ il momento della verità, in queste ore capiremo chi difende e ama la Nazione e chi invece pensa solo al proprio tornaconto.” Subito commenta Giorgia Meloni: “Luigi, chi difende la Nazione chiede ai suoi cittadini cosa vogliono fare. Chi si arroga il diritto di saperlo per mantenere la poltrona, invece, si sta occupando solo del tornaconto personale.” Un po’ come i cinque stelle, pronti a tutto pur di restare.

VINCENZO DE LUCA. Non finisce mai di sorprenderci, di diritto entra nella top ten del peggio della settimana. Nella sua solita diretta social del venerdì ha attaccato il governo dimissionario: “In altri Paesi alcuni ministri M5s non sarebbero neanche parcheggiatori abusivi”.

COGOLETO, GENOVA. Nella Giornata della Memoria durante la seduta del consiglio comunale di Cogoleto, provincia di Genova, i tre consiglieri di centrodestra al momento di una votazione hanno alzato il braccio teso nel saluto romano. Tre stupidi, ignoranti che, come minimo, dovrebbero essere cacciati dal consiglio comunali e dichiarati interdetti. Non meritano di presentare i cittadini.

IN LOMBARDIA. Va in scena lo show in consiglio regionale. Ad Attilio Fontana viene regalato un pallottoliere ma, evidentemente, hanno sbagliato destinatario. Quello serve più a Conte.

Filippo Ceccarelli per "la Repubblica" il 26 gennaio 2021. A pensarci bene doveva andare così; o forse era meglio di no. Comunque adesso viene il mal di testa, e anche un po' di nausea, a frugare nella memoria, a perdersi fra mille spunti, a inseguire le visioni, le suggestioni, le illusioni, le allucinazioni, ma soprattutto riesce impossibile dare un senso all' avventura del Bis-Conte, e già il nomignolo, ameno e pretenziosetto, tira da una parte, mentre dall' altra c' è la tragedia, la catastrofe. Come del resto accade costantemente in questo Paese in bilico fra Bunga bunga e Caporetto, Mani Pulite e "Live Non è la D' Urso". Ma intanto sono stati pur sempre 16-17 mesi di governo, per così dire, e anche nell' agosto del 2019 fu "la crisi più pazza del mondo" a dar vita al Giuseppi secondo, acrobatica esperienza di trasformismo con destrezza a firma Renzi, Grillo, Trump, forse Zingaretti, certamente Franceschini, vai a sapere Di Maio, il tutto mentre Mattarella, senza però darlo a vedere, si metteva ragionevolmente le mani fra i capelli, per quanto fosse non solo per lui la soluzione meno peggio; e tuttavia attaccata con lo sputo anti-Salvini, in versione post-Papeete, come dire mojito e Fratelli d' Italia sul cubo. Partenza liscia per l' Ex Nessuno passato dal giallo-verde al giallo-rosso senza uscire da Palazzo Chigi, "from irrelevant to irreplaceable", secondo il New York Times , il "nuovo inizio", il "nuovo umanesimo", figurarsi, il sarto napoletano (Paolo Di Fabio) che Conte avrebbe segnalato per ingraziarsi il presidente americano, figurarsi pure questo. Tra i primi atti di governo, ciò che oggi davvero sta a cuore ai governanti, l' implorazione a Rocco Casalino: «Trovatemi la chiave comunicativa giusta». E si vedrà quasi subito, anche se il meglio era destinato ad accompagnare la pandemia, «torneremo ad abbracciarci», «una poderosa potenza di fuoco», «il favore delle tenebre », le bare e le bimbe di Conte sui social, la proliferazione dei comitati a partire da quello del povero Colao, i proclami dai giardini all' italiana agli Stati Generali, un milione di alberi da piantare, la grande vittoria di Bruxelles, standing ovation in Parlamento, la ripartenza, di più, la reinvenzione dell' Italia attraverso il Grande Piano di Rinascita, proprio mentre si celebravano - attenzione agli anniversari! - i cento anni di Alberto Sordi e Federico Fellini. E dire che all' inizio andò così bene che il premier si portava addirittura i ministri al ristorante, all' Arancio d' oro , non una ma due volte, clima festoso, dibattito sulla nuova legge elettorale, indispensabile complemento di lieta e innocua inconcludenza, e millefoglie tricolore. Pagava pure di tasca sua. Forse fu lì che i ministri e i capi partito si accorsero che ci stava prendendo gusto, ma tanto, anzi forse troppo. Scoprirono che Conte era un sommelier, che si compiaceva dell' imitazione di Marcorè, a un certo punto intraprese una sorta di pellegrinaggio nella modesta casa di Candela dove era stato bimbo, saltava sul lettone e giocava nella vasca da bagno con le paperelle. Lo si vide con i bambini in braccio, al ping pong coi disabili, non occorre essere troppo cinici, né ridurre la vita pubblica a una frase di Osho per capire che l' advertising della benevolenza reca in sé propositi che con la medesima non è che abbiano sempre molto a che vedere. Un giorno, a Narni, pavoneggiandosi dinanzi a un gruppo di studentesse Giuseppe Conte pronunciò una frase che ancora oggi risuona come la più straniante verità: "Studiate, studiate, che può capitare anche a voi di diventare premier". Ecco: in quale altro paese un premier, quel premier, avrebbe potuto bene o male tenere insieme il baraccone, o il carrozzone, o quello che è, comunque a suon di Dpcm, e preparare un piano di spesa da 200 miliardi che quasi nessuno ha letto, ma su cui quasi tutti si sono accapigliati? E forse arriverà pure il suo terzo governo, e magari un partito di Conte ("Con-te") e di generica attitudine liberale, moderata, europeista eccetera, ma chi ha un po' seguito la storia politica pre-Covid, i suoi passaggi arrischiati, i suoi tanti e strambi protagonisti, finisce quasi per chiedersi come è stato possibile per tanti anni aver fatto a meno di Conte; per cui adesso è come se lui ci fosse sempre stato, elemento stabile del paesaggio con quel nasetto all' insù, il ciuffo piacione, l' abito impeccabile, la penna stilo nel taschino, il linguaggio felpato, ma soprattutto quel bagliore di furbizia negli occhi. E si chiede preventivamente scusa per la temeraria affermazione, ma è come dire che il Paese s' è meritato lui, Conte, e questo suo secondo governo che finisce, ma chissà se continua in altra forma, ora vivacchiando, ora giocandosi tutto. «Fra noi ci conosciamo» diceva Montanelli. È significativo che diversi prodotti editoriali, dall' opuscolo apologetico spedito per posta da Berlusconi alla biografia del banchiere Giovanni Bazoli, dal documentario Sky su Craxi all' intervista di Rossanda al terrorista br Mario Moretti (compresa la pubblicità dell' omonima birra!) rechino nel titolo: "Una storia italiana". Se proprio bisogna cercare un senso, è questa una vicenda tutta nostra di uno che si è trovato lì proprio quando si scatenava l' ira di Dio e lì è rimasto fino a stamattina. Mentre il Parlamento conosceva il collasso, i partiti seguitavano a spappolarsi, i diritti e le libertà costituzionali andavano a ramengo, i governatori facevano i capricci, la collocazione internazionale dell' Italia sfumava nel l' indistinto, ma doveva andare così.

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 25 gennaio 2021. Stiamo diventando più paurosi, più passivi, meno liberi. E anche più cattivi e più cretini. A metterci su un lettino da psicanalista di massa, ci ha pensato un intellettuale lucidissimo che da oltre 60 anni studia le evoluzioni della società, provando a comprendere come muti il carattere degli italiani. Giuseppe De Rita, presidente del Censis, 88 primavere alle spalle, dal suo punto di vista privilegiato ha osservato la situazione sociale legata all'emergenza Covid. Ne è venuta fuori l'immagine di un popolo allo sbando che ha rinunciato al suo spirito vitale. De Rita, sul Corriere della Sera lei ha descritto tre condizioni che caratterizzano gli italiani al tempo del Covid, quelle di vivere in trance, in letargo e da internati.

L'emergenza sanitaria sta causando l'eutanasia di un popolo?

«Già nel rapporto Censis di dicembre veniva fuori che l'opinione sotterranea di molti italiani è "meglio sudditi che morti". In nome della paura stiamo accettando vincoli e modi di comportamento che inibiscono la nostra vitalità e la ricerca di obiettivi comuni. Assistiamo così a un rannicchiarsi degli italiani entro se stessi, nel proprio egoismo, da cui derivano processi, se non di degrado, almeno di regressione psicologica collettiva».

Il rischio maggiore è l'assuefazione, cioè la convinzione che questo stato di privazione sia la normalità?

«Sì, e ciò riguarda soprattutto la condizione di vivere quasi da popolo internato. Quando parliamo di internamento, pensiamo a un carcere, un manicomio, un convento di clausura. In tutti questi casi il meccanismo interno è l'infantilizzazione. Cioè si trattano le persone come bambini, dicendo loro: questa cosa non la puoi fare, questa cosa non la puoi mettere, ti devi lavare bene. Ovviamente non viviamo in senso stretto in internamento, però molte assonanze ci sono: l'obbligo di rispettare regole di minimale comportamento igienico, l'uso della mascherina come divisa da internato, e l'idea che non si possa uscire neanche per andare al bar sono diventati fatti normali. E questo è molto pericoloso. Dal letargo, cioè dallo stato di indolenza, sarà più facile uscire, dall'internamento no».

Oltre che più rassegnati e meno liberi, gli italiani sono diventati più poveri intellettualmente? E quindi più cretini e meno creativi?

«Sì. in realtà in tutti i momenti della storia italiana ci sono stati due modi di esprimere creatività: in comunità o da soli. Noi abbiamo sempre esaltato la dimensione individualistica della creazione, i grandi solitari alla Leopardi. Nei fatti però abbiamo avuto spesso una creatività di gruppo, dalla scuola di Giotto al Barocco. Ho l'impressione che la fase che stiamo vivendo, producendo molta solitudine, possa ridurre la creatività, la capacità dell'arte di fare cultura condivisa».

Gli italiani sono diventati anche più cattivi? Nel rapporto Censis emerge come buona parte delle persone chieda pene più severe per chi non rispetta le regole.

«La storia sociale di questo Paese non è mai stata pacifica. Non siamo gente tranquilla, ma persone che si sono odiate a morte, hanno fatto guerre civili. Questa tendenza si è acuita con la pandemia: ora ci sentiamo protetti solo quando siamo con noi stessi, e se c'è qualcuno intorno per noi è un pericolo. Dal rintanamento in sé nasce l'egoismo e da lì scatta la cattiveria».

Perché nell'Italia di oggi manca lo spirito di ricostruzione che ha animato il secondo Dopoguerra?

«Nel '44-'45 era finito tutto, non c'era più niente cui aggrapparsi, eppure il meccanismo della ricostruzione ha funzionato. Allora c'era sia l'individualismo, la voglia di sopravvivere, sia la dimensione collettiva, il voler ricominciare la vita di relazione: prendemmo a ridarci del tu, a parlare tra di noi. Invece oggi abbiamo distrutto la relazione: non solo a causa del consumismo per cui le persone contano meno dei prodotti, ma anche per un elemento più tragico, e cioè l'irruzione del Vaffa nella dimensione politica e sociale. Ci siamo mandati tutti a fanculo. E questa perdita della relazione ci crea meno vitalità nella costruzione del nuovo. La pandemia poi ha fatto esplodere questa condizione e l'ha fatta sentire a tutti».

Della mutazione degli italiani quanto sono responsabili i politici al governo?

«Sono convinto che i processi siano a doppia firma: c'è una responsabilità sia della società che della politica. È vero che un terzo del Parlamento è fatto dai grillini che non sono in grado di governare. Ma è anche vero che la capacità della società italiana di immaginare il futuro è più coerente con i grillini che con altri. Ricordo una vecchia discussione tra Moro e Andreotti. Il primo sosteneva che la politica dovrebbe guidare la società verso obiettivi nuovi e progressivi. Andreotti rispondeva: la politica non deve guidare la società, ma rassomigliare alla società, se vuole il consenso. Questa frase rappresenta quanto è successo negli ultimi anni in Italia: la politica cerca di essere uguale alla società. Se la società è becera, il politico è becero. Se la società esprime dei bisogni, si risponde ai bisogni. La società chiede cassa integrazione, bonus monopattino e bonus vacanze? La politica darà loro queste cose. È così che si crea il consenso. Ma questa è anche la tragedia del modo in cui viene gestita l'emergenza: tale rapporto vicendevole, quasi di complicità, tra società e politica esclude una visione di lungo periodo».

Tra Recovery Plan e piano vaccini stiamo assistendo però a un'incapacità tecnica di governare.

«Già in passato ai politici mancava la competenza tecnica, ma essa era delegata all'establishment, ai grandi funzionari dello Stato. La sfida degli ultimi anni è stata invece ammazzare la Casta: ma se tu abbatti l'establishment, vengono meno anche quelli che hanno la capacità tecnica di governo. In questa battaglia abbiamo perso tutti, mentre è chiaro chi ci abbia guadagnato politicamente, il grillismo».

Lei è stato un uomo della Prima Repubblica. Trova offensivo per i protagonisti di quella stagione definire "pratiche da Prima Repubblica" il trasformismo di oggi?

«L'attuale realtà non solo offende la Prima Repubblica, ma prescinde da essa. La Prima Repubblica è stata una grande cosa, segnata dallo scontro durissimo tra Dc e Pci. Il trasformismo cui stiamo assistendo è invece un processo vecchio ma di livello molto più basso. Sono più opachi i meccanismi di acquisizione dei parlamentari, spesso basati su pettegolezzi privati, che servono solo a coprire la mediocrità dei protagonisti».

Il rapporto Censis parla di oltre 600mila posti di lavoro persi per la pandemia. Gli italiani continueranno a subire o si ribelleranno?

«Credo che prevarrà la propensione all'accettazione e non alla rivolta. La "bontà" del potere ci garantirà sempre la cassa integrazione, un ecobonus, un incentivo per fare smart working. E così, anziché contestare, accetteremo passivamente il declino».

Alberto Mattioli per "la Stampa" il 28 gennaio 2021. C'eravamo tanti odiati. Però l' unica caratteristica che i politici italiani hanno in comune con James Bond è una saggia regola di vita: mai dire mai. E così il già detestassimo Berlusconi diventa, se non una costola della sinistra (quella era la Lega secondo D' Alema in un raro momento di buonumore), almeno un possibile interlocutore. Perché molti pensano che senza un soccorso azzurro il nuovo governo non si farà o, se si farà, nascerà morto. Le sirene sono al lavoro, i pontieri pure, i costruttori anche, i responsabili non stanno con le mani in mano. E l' ex Cavaliere viene descritto pieno di dubbi in Provenza, combattuto se starci, svincolandosi da un centrodestra sempre più destra e sempre meno centro e di cui ormai è socio di minoranza (rinunciando però al Quirinale che Salvini gli fa intravedere dopo gli immancabili destini elettorali, se e quando ci saranno) oppure non starci, ma con mezzo partito, trenta fra senatori e deputati, dicono, che si ribellerebbe e ci starebbe comunque. Amleto in Costa Azzurra. Certo che per Silvio essere sdoganato a sinistra come responsabile europeista moderato dev' essere una bella soddisfazione, dopo trent' anni di caimano, cainano, cavaliere mascarato, corruttore, corrotto, giaguaro, censore, mafioso, puttaniere e chi più ne ha più ne insulti. Preferite definizioni d' autore, la fantasia finalmente al potere? «Bananiere» (Eugenio Scalfari), «Wanna Marchi» (Willer Bordon), «pazzo» (Oliviero Diliberto), «pagliaccio» (Fidel Castro, nientemeno), «buffone» (Mario Vargas Llosa, addirittura), «ominicchio» (Dario Franceschini), «De Gaulle da operetta» (Franco Bassanini), «venditore di tappeti» (Romano Prodi), «uomo di plastica» (sempre Franceschini), «gli serve l' interdizione» (Andrea Orlando), è «insopportabile quando racconta barzellette» (il principe Carlo Caracciolo), e insomma Silvio rappresenta «una delle pagine meno nobili e più opache della nostra storia» (Bruno Tabacci, sì, lui, l' attuale costruttore ottimo massimo). Bei tempi, quando quei rossi antichi di Legambiente, come rappresaglia per la discesa in campo del '94, proponevano di boicottare la Standa e smettere di tifare Milan. Tutti peraltro convintissimi, all' epoca, che contro la gioiosa macchina da guerra occhettiana il «partito di plastica» generato da Publitalia e Mediaset si sarebbe accartocciato come una bottiglietta strizzata, perché «non siamo mica in Brasile», D' Alema dixit. Avanti a sinistra, si sa, le previsioni si sbagliano sempre tutte. E così oggi la tentazione di baciare il Caimano è fortissima. I segnali, del resto, sono cominciati ben prima che il Conte II si schiantasse. Galeotta fu l'intervista al «Foglio» di Carlo de Benedetti nel luglio scorso, che oggi suona singolarmente profetica: «Se si tratta di isolare Salvini e Meloni trangugio anche Berlusconi al governo con la sinistra». Che poi Silvio sarà pure cafone ma «rappresenta nel mondo dell'economia e della politica quello che Alberto Sordi è stato nel cinema. L'arci-italiano. Un grande artista, Sordi. E un grande imbroglione, Berlusconi. Ma comunque grande». Non basta? Allora eccovi Romano Prodi, uno che il Cav l'ha combattuto come tutti, ma l'ha anche sconfitto due volte come non è riuscito a nessuno. Quest' estate, il Prof spiegava che un ingresso di Forza Italia in maggioranza «non è un tabù». Anche perché si tratta di un Silvio rinsavito, beninteso: per Prodi «la vecchiaia porta la saggezza anche a destra», frase forse a doppio senso perché non è poi che lui sia un giovinotto. E Bersani, decisamente più a sinistra degli altri due? Rispetto al duo horror Salvini & Meloni, «Berlusconi non ci sta dentro a una roba così», dunque smacchiamolo 'sto giaguaro. Non sarebbe certo la prima volta che ci si prova a mettere d'accordo da buoni nemici. Primo caso, la Bicamerale di D' Alema e il «patto della crostata» sulle riforme istituzionali, firmato il 18 giugno 1997 a casa di Gianni Letta e poi fermato da un voltafaccia di Silvio (però il finissimo Letta avrebbe dovuto saperlo, che il 18 giugno è l'anniversario di Waterloo, una data che porta male ai Napoleoni, anche quelli di Arcore). Secondo, i governi di salvezza nazionale di Monti (529 giorni fra l'11 e il 13) e Letta nipote (300 giorni netti fra il 13 e il 14), variamente appoggiati dai berluscones pur fra ripensamenti e mal di pancia. Terzo, il mitico «patto del Nazareno» fra Berlusconi e Renzi, 18 gennaio 2014, con tutto il ghiotto contorno di pezzi di colore dei giornali su Silvio che varca per la prima volta le soglie della sede del Pd, chissà che odore di bambini in salmì...Insomma, non sarebbe la prima volta che, se proprio non lo si bacia, con il Caimano la sinistra pomicia un po'. Ma magari anche lì è scattata la tradizionale lamentela delle nonne, la mai smentita massima per cui si stava meglio quando si stava peggio, quindi quando sbucò Berlusconi si iniziò a rimpiangere la Dc e quando è arrivata la destra tosta di Matteo & Giorgia, tutto sommato, Silvio si è rivelato il minore dei mali e il migliore dei nemici. Mai dire mai, appunto.

NON HANNO VERGOGNA. Abbiamo una classe politica di governo e opposizione che passerà alla storia per avere creato un altro momento terribile. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 24 gennaio 2021. Non hanno vergogna. Abbiamo una classe politica di governo e di opposizione che passerà alla storia per avere creato un altro momento terribile. Siamo a un livello di cinismo senza precedenti. La gente non ha capito che cosa è successo con questa anomala crisi di governo, ma la cattiva reputazione nel mondo dei “soliti italiani” ha ripreso vigore. Venerdì sui mercati abbiamo superato perfino la Grecia. Dobbiamo pagare di più per collocare i nostri titoli pubblici di quanto paghi un Paese che ha lo stigma della crisi nel mondo. È un campanello d’allarme assordante per un’Italia che ha la sovranità della gestione strutturale del suo enorme debito pubblico (2.600 miliardi) appesa alle decisioni della Bce e degli investitori esteri, ma non è questo il momento terribile che il teatrino della politica e gli orchestrali del talk mediatico stanno preparando e sceneggiando da giorni sulla tolda del Titanic Italia. Non sono oggi a rischio gli stipendi pubblici come fu nel novembre del 2011, ma è l’Italia intera che rischia di saltare in un domani molto ravvicinato per colpa di una politica ridotta, con poche eccezioni, al macchiettismo dove contano solo le immagini dei protagonisti riflesse nello specchio e la misurazione spasmodica delle intenzioni di voto degli elettori.

Proprio l’esatto contrario dell’essenza della politica. Proprio l’esatto contrario di ciò che serve durante una pandemia che mette tutti i Paesi del mondo di fronte alla realtà di vaccini che scarseggiano e di varianti che moltiplicano i contagi con il loro carico quotidiano di morti. Proprio l’esatto contrario di ciò che serve durante un nuovo ’29 mondiale che rischia di radere al suolo ciò che resta di un’economia che non cresce da venti anni e ha nel miope egoismo dei potentati regionali del Nord la causa prima del suo declino strutturale. Parliamoci chiaro. La situazione dell’Italia sui mercati è ulteriormente peggiorata non perché la Banca centrale europea ha smesso di intervenire e la Banca d’Italia non compra più titoli, ma perché c’è preoccupazione per la gestione del debito e perché la surreale crisi politica italiana mette a rischio l’utilizzo dei 209 miliardi del Next generation Eu visto che abbiamo lavorato male sul piano italiano e ancora oggi non siamo in grado di indicare neppure chi lo gestirà. Il peggioramento grave della reputazione italiana si riflette per fortuna solo in parte sui tassi perché i mercati vivono in una bolla che riguarda tutti e ci sono molte distrazioni. Attenzione, però, i robustissimi interventi della Bce (1850 miliardi, piano Pepp) non sono motivati dalla necessità di finanziare le emissioni del Tesoro della Repubblica italiana, ma dalla esigenza di favorire condizioni generali di finanziamento e monetarie che pongano le basi necessarie ancorché non sufficienti per la ripartenza e il ritorno alla crescita economica in Europa, oltre che per evitare tensioni inflazionistiche. Quando sempre in Europa con il Recovery plan in via di diffusa attuazione e meno crisi sanitaria ci sarà una situazione migliore, se noi restiamo indietro saremo lasciati indietro. A quel punto i disavanzi saranno tutti da rifinanziare e i titoli da collocare. Per noi sarà complicato. Molto complicato. Vivremo il nuovo momento terribile. A quel punto gli italiani si ricorderanno della vergogna di questi giorni e di quelle facce riflesse nello specchio.

Da Agnelli a Conte, quando l’Avvocato sogna il suo partito. Francesco Damato su Il Dubbio il 26 gennaio 2021. C’era una volta, ai tempi della cosiddetta e tarda prima Repubblica, diciamo fra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso, “l’Avvocato” con la maiuscola persino a parlarne. C’era una volta, ai tempi della cosiddetta e tarda prima Repubblica, diciamo fra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso, “l’Avvocato”, con la maiuscola persino a parlarne, accentuando la voce sulla prima vocale. Era naturalmente Gianni Agnelli, compiaciutissimo di una professione attribuitagli coram populo ma mai davvero esercitata. Erano compiaciuti, in fondo, anche gli avvocati patrocinanti in ogni grado della giurisdizione di una colleganza inventata mediaticamente perché procurava vantaggi pure a loro. “L’Avvocato” padrone della Fiat dava solidità anche alla professione forense, oltre alle macchine, ai guadagni e al potere che la sua azienda produceva e diffondeva. Era diventato, “l’Avvocato”, anche un modello di vita per tanti che neppure lo conoscevano ma ne imitavano l’orologio sopra il polsino della camicia, il foulard preferito alla cravatta, le scarpe a stivaletto pur a lui imposte dai postumi di un incidente giovanile d’auto e, più in generale, quella specie di distacco che ostentava parlando di tutto e di tutti dall’alto in basso. Egli era riuscito a fare breccia persino nella sinistra con la teorizzazione degli interessi della sua Fiat coincidenti con quelli generali del Paese, per cui doveva essere conveniente a tutti assecondarli: oggi con un incentivo, domani con una sovrattassa sulle auto della concorrenza, quando a Torino, per esempio, non erano ancora bene attrezzati per il deasel, e doman l’altro con qualche strada o autostrada preferita ad una scuola o ad un ospedale. Anche i rapporti di Agnelli con la politica sapevano di basso visto dall’alto. Chiunque andasse a proporgli di fondare un partito contando sulla sua popolarità internazionale, fosse pure un professore universitario titolato come capitò a Giuliano Urbani nel 1993, fra i marosi di Tangentopoli, veniva dirottato cortesemente verso altri: nel caso di Urbani verso Silvio Berlusconi. In compenso egli autorizzava i fratelli a giocare in partiti diversi: la sorella Susanna, per esempio, nel Pri e il fratello Umberto nella Dc. Una solta volta “l’Avvocato” sembrò cedere ad una tentazione ai confini, diciamo così, della politica. Fu quando Giulio Andreotti, desideroso di accreditare il più possibile all’estero la “solidarietà nazionale” col Pci, che ne appoggiava i governi monocolori, pensò di farlo ambasciatore dell’Italia negli Stati Uniti. Il “divo” dovette rinunciarvi molto a malincuore non per le resistenze del nominando ma per le barricate metaforicamente allestite dai diplomatici di carriera. Ora, nei nostri tempi di emergenze diverse da quelle gestite da Andreotti, con la pandemia al posto del terrorismo, “l’Avvocato”, sempre con la prima vocale maiuscola e pronunciata con una certa enfasi, è un altro: Giuseppe Conte. Ma è un avvocato vero, con tanto di studio e di cause sostenute nei tribunali fra una lezione universitaria e l’altra di diritto. Conte è un avvocato prestato dai grillini nel 2018 alla politica cominciando dal posto quasi più in alto di tutti, ad eccezione del Quirinale: la Presidenza del Consiglio, a Palazzo Chigi. Dove egli ha fatto rapida esperienza, diventando politicamente addirittura “un figlio ’entrocchia”, come lo ha recentemente definito con simpatia, non con malanimo, un politico navigato come l’ex o post democristiano Clemente Mastella. Che con l’ex collega di partito Bruno Tabacci, il post- comunista Goffredo Bettini ed altri ancora rimasti prudentemente dietro le quinte cercano di aiutarlo nella fatica di Sisifo di arruolare “volenterosi” di varia provenienza con i quali sostituire nella maggioranza di governo i renziani che ne sono usciti. Come ad Agnelli, anche a lui è toccato di dovere cambiare soci, che in politica si chiamano alleati, per superare impreviste difficoltà. Agnelli imbarcò e tenne nella Fiat addirittura i libici al comando di Gheddafi, usandone i soldi, come Conte ha imbarcato nella sua maggioranza prima la Lega di Matteo Salvini e poi il Pd di Nicola Zingaretti e ancora di Matteo Renzi, messosi poi in proprio nella maggioranza con Italia viva. Diversamente da Agnelli, però, Conte non sembra proprio pregiudizialmente chiuso alle sollecitazioni di allestire un proprio partito contando sulla popolarità guadagnatasi da presidente del Consiglio. Ne sono circolati in questi giorni persino i nomi possibili: da Insieme a Italia ‘ 23, che indica l’anno della conclusione ordinaria della legislatura, anche se ogni tanto i giornali gli attribuiscono, a torto o a ragione, la conversione alle elezioni anticipate, almeno come deterrente contro chi lo vorrebbe detronizzare cavalcando ogni occasione a portata di mano, o di piede: prima la votazione di fiducia al Senato, risicata ma comunque ottenuta, e ora quella, sempre nel periglioso Senato, sulla relazione annuale del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Al quale peraltro Conte deve in qualche modo l’approccio col mondo grillino già nella scorsa legislatura, quando in vista delle elezioni entrò nella lista di un potenziale governo monocolore pentastellato come semplice ministro della Pubblica Amministrazione. 

Da Craxi a Prodi: quando i governi cadono sulla giustizia. Crisi di governo, corsi e ricorsi. Francesco Damato su Il Dubbio il 27 gennaio 2021. La crisi di governo appena consegnata nelle mani del capo dello Stato è stata di una tale anomalia nella sua gestazione che è francamente difficile trovarne una simile nella lunga storia, ormai, della Repubblica. Quella che forse gli assomiglia in qualche modo di più riguardò il primo governo pentapartito di Bettino Craxi, nel 1986. Essa maturò nella convinzione pubblicamente espressa dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita che il leader socialista fosse «inaffidabile»: la stessa cosa detta questa volta da Conte e dai suoi sostenitori su Matteo Renzi per la rottura ostinatamente cercata col presidente del Consiglio. Craxi reagì con ostinazione, pure lui, alla smania di De Mita di sloggiarlo da Palazzo Chigi essendo già durato quasi tre anni, ben oltre le abitudini della Dc e dei suoi uomini. Figuriamoci la sofferenza nei riguardi di un non democristiano. La resa dei conti fra Craxi e De Mita fu alla fine rinviata per il rifiuto di Giulio Andreotti di succedere al leader socialista in quella occasione, come avrebbe voluto il segretario della Dc. La crisi riscoppiò otto mesi dopo, il 9 aprile 1987, scegliendo tuttavia De Mita come ragione principale non più o non tanto la rivendicazione di Palazzo Chigi, che sapeva troppo di potere, quanto il rapporto con la magistratura. La miccia fu insomma il tema della giustizia contro cui ha finito per sbattere in questi giorni anche Conte per via della relazione annuale del guardasigilli Alfonso Bonafede al Parlamento. Su cui ora, per la sopraggiunta crisi, mancheranno il temuto dibattito e le ancor più temute votazioni fra Camera e Senato. Adesso è la prescrizione il tema principale dello scontro, fra la versione breve voluta da Bonafede e in vigore ormai da più di un anno, conteggiabile sino al primo grado di giudizio, oltre il quale essa scompare, e la compensazione, quanto meno, reclamata dai garantisti con la definizione di tempi certi che rendano effettivamente “ragionevole” la durata dei processi assicurata nell’articolo 111 della Costituzione. Allora lo scontro si consumò rovinosamente sul referendum già indetto per la responsabilità civile dei magistrati, promosso dai radicali, sostenuto dai socialisti e contrastato dal sindacato delle toghe e da tutte le sue sostanziali appendici politiche. Piuttosto che fare svolgere quel referendum ad esito scontato a favore dei promotori, la Dc di De Mita, con l’aiuto del Pci dietro le quinte, preferì ricorrere alle elezioni anticipate per rinviarlo, sia pure all’autunno dello stesso anno. Ma il tempo bastò ed avanzò perché partiti e correnti favorevoli ai magistrati si accordassero per neutralizzare la prova referendaria con una legge che poi continuasse, nella pratica, a mettere in sicurezza le toghe dal rischio di rispondere davvero dei loro errori, di tasca propria e non dello Stato. È opinione largamente diffusa che chissà quante crisi siano scoppiate sui temi della giustizia, come apparve, per esempio, con la caduta del secondo governo Prodi, e lo scioglimento anticipato delle Camere nel 2008, dopo le dimissioni del guardasigilli Clemente Mastella per protesta contro l’arresto della moglie, sottoposta a indagini che sarebbero costate la sopravvivenza del partito di famiglia. Ma è lo stesso Mastella a negare tuttora questa rappresentazione dei fatti attribuendo quella caduta di Prodi alla estrema sinistra rappresentata dal senatore Franco Turigliatto. In realtà, la magistratura ha ghigliottinato sì una Repubblica intera, la prima, ma mai nel vero senso della parola un governo, se non forse nel 1993 il primo di Giuliano Amato. Che fu delegittimato politicamente affondandone con minacciate dimissioni nella Procura di Milano la cosiddetta “uscita da Tangentopoli”, tentata con un decreto legge cui l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro negò la firma. Essa piuttosto sempre la magistratura – è riuscita dopo a fare ancora di più e di peggio condizionando gli sviluppi degli equilibri politici con l’indebolimento di protagonisti, leader e attori e il conseguente rafforzamento degli avversari di turno. La stessa caduta del primo governo di Silvio Berlusconi, dopo poco più di sei mesi dalla nascita, avvenne nel 1994 per l’indebolimento procurato al presidente del Consiglio dal famoso avviso a comparire della Procura di Milano per corruzione quando già Umberto Bossi aveva però azionato il congegno della crisi sul tema delle pensioni. Ma ancor prima – va detto- lo stesso Bossi aveva obbligato il Cavaliere di Arcore a subire lo stop imposto dai magistrati milanesi al decreto legge, pur già regolarmente firmato da Scalfaro, per la restrizione del ricorso alle manette nelle indagini preliminari. Molti anni dopo, nel 2011, sarebbe arrivata la tempesta giudiziaria sulle feste di Berlusconi ma il suo ultimo governo era già agli sgoccioli politici per un’altra tempesta: quella finanziaria proveniente dagli Stati Uniti e abbattutasi su tutta l’Europa. Che avrebbe portato a Palazzo Chigi Mario Monti.

Conte, governo di minoranza. Da Andreotti a Dini a D'Alema, ecco quali sono i precedenti. Giovanna Vitale su La Repubblica il 19 gennaio 2021. Nella storia della Repubblica ci sono stati 13 esecutivi privi della maggioranza assoluta. Per governare l'Italia, il presidente del Consiglio deve guidare un esecutivo che goda della fiducia di entrambi i rami del Parlamento, ossia Camera e Senato. Lo prevede l'articolo 94 della Costituzione. In questa legislatura, per ottenere la maggioranza assoluta, occorrono 315 voti alla Camera (almeno finché non verrà sostituito l'ex deputato del Pd Pier Carlo Padoan) e 161 al Senato. Un governo è definito di minoranza se non può contare su una maggioranza assoluta, bensì relativa, dovuta alle astensioni di alcuni deputati o senatori al momento del voto (come è appena avvenuto con Italia viva). Il problema principale, però, riguarda il prosieguo della legislatura: per governare, infatti, l'esecutivo ha comunque bisogno di una maggioranza sia nelle commissioni parlamentari sia nelle Aule durante le votazioni. Pertanto un governo di minoranza ha possibilità di restare in vita se le opposizioni non sono ostruzioniste, ma "responsabili".

I precedenti nella storia italiana. La storia italiana conta 13 governi di minoranza, 14 se aggiungiamo il Conte due dopo l'abbandono di Italia viva. Nella prima Repubblica, con il predominio della Dc, era una pratica piuttosto diffusa insediarsi senza disporre dei numeri necessari e per un po' andare avanti, contando o sull'astensione o sull'assenza (anche per abbandono dell'Aula) di un numero decisivo di parlamentari.

Il primo governo di minoranza in assoluto è il De Gasperi IV del 1947-1948: la fiducia iniziale dell'Assemblea Costituente (plenum 556 membri) passa con 274 sì, 231 no e 4 astensioni. Stessa sorte che nel 1951 tocca  al De Gasperi VII (Dc-Pri)  e nel 1958-59 al Fanfani II, che manca la maggioranza assoluta alla Camera per 4 voti. E si arriva al 1963, quando avviene il passaggio della premiership da Leone a Moro. A luglio Giovanni Leone forma il suo primo governo che riceve solo 255 voti alla Camera e 133 al Senato. Risulta decisiva l'astensione di Psi, Psdi e Pri che però entrano a pieno titolo nel successivo Moro I a dicembre dello stesso anno.

Nell'agosto 1976 Giulio Andreotti vara il suo terzo governo, quello della non sfiducia, che ottiene appena 136 voti al Senato e 258 alla Camera. Non si opposero Pci, Psi, Pli, Pri, Psdi. Quell'esperienza si concluse nel marzo 1978 con il passaggio di Pci, Psi, Pri, Psdi dalla non sfiducia all'appoggio esterno, il tutto durante i tragici giorni del sequestro Moro.

Anche Berlusconi nel 1994 guida un governo di minoranza. A maggio, il fondatore di Forza Italia si insedia senza avere la maggioranza assoluta al Senato: appena 159 sì (366 alla Camera). Tra questi i senatori a vita Agnelli, Cossiga e Leone. Si astenne Spadolini, ancora scottato dalla sconfitta per un solo di voto di scarto nella battaglia contro Carlo Scognamiglio per la presidenza del Senato. Berlusconi cade dopo pochi mesi, quando la Lega di Bossi gli leva l'appoggio.

Nel gennaio 1995 Lamberto Dini diventa premier, mandando all'opposizione Fi, An e Ccd, ma anche lui, dopo il Berlusconi I, è senza maggioranza assoluta, stavolta alla Camera. Gli votano la fiducia 191 senatori e solo 302 deputati. Si astennero in 270, tra cui lo stesso Berlusconi.

Il governo D'Alema II ottiene nel dicembre 1999 la fiducia di 177 senatori e solo 310 deputati. Si astennero i socialisti di Boselli e Giorgio La Malfa. Rimase in carica per 126 giorni, ovvero 4 mesi e 4 giorni.

Dagospia l'1 marzo 2021. Da “Un giorno da Pecora – Radio1”. I miei 90 anni? “Per festeggiare avrei voluto organizzare una grande cena con tutte le persone con cui ho lavorato, spero di poterla fare a giugno, magari all’aperto. Ringrazio di esser in buona salute, la mente funziona bene per fortuna”. L'ex premier, ministro, senatore Lamberto Dini, a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è stato intervistato per i suoi 90 anni, che compie proprio oggi. “Sono stato un privilegiato, ho servito una grande istituzione istituzionale come il fondo monetario, e poi la banca italiana, il governo...tutto è stato davvero un grande privilegio”. La chiamano ancora Lambertow? “Si, il che non mi dispiace”. Perché qualcuno quando era in politica la chiamava ‘rospo’? “Perché l’allora presidente Scalfaro una volta disse ‘dovete ingoiare il rospo’, riferendosi al governo tecnico”. Tra i tanti viaggi che fece per i suoi ruoli istituzionali ce ne fu una Cuba davvero particolare. “Si, quando ero li, con mia moglie, una volta il presidente Fidel Castro mi disse di andare a mangiare l'aragosta fatta da lui. Noi ci andammo e ci piacque parecchio, era molto buona”. Com'è l'amore a 90 anni? “Il desiderio e la passione non finiscono mai. Oggi entrambe le dedico esclusivamente alla famiglia, il che non significa che non mi faccia piacere guardare le belle donne”. C'è stato un grande amore oltre sua moglie? “Ci fu una splendida ragazza di origini capoverdiane che viveva a Firenze. Con lei fu un grandissimo amore, che vissi quando avevo solo 19 anni”. E oggi lei fa ancora l'amore? “Certo, si, finché è possibile”, ha detto Dini a Un Giorno da Pecora.

C. Ant. per "la Verità" il 27 gennaio 2021. Ore di lavoro febbrile dalle parti del Quirinale. Ci si prepara per le consultazioni. L'ultima volta è successo ad aprile del 2018. E la squadra che assiste il presidente Sergio Mattarella non è cambiata. A consigliare c'è soprattutto Ugo Zampetti. Per 15 anni è stato segretario generale della Camera, per poi - dopo soli due mesi di stop - prendere l'incarico più importante del Quirinale, quello di segretario generale del Colle. Famoso a Roma per la sua grande conoscenza delle pratiche di palazzo e per la gestione magistrale delle commissioni, è considerato uno dei funzionari più potenti. Allievo di Leopoldo Elia, tira le fila e a coordina la cerchia più stretta dei consiglieri del Colle. A partire da Simone Guerrini, per finire con Gianfranco Astori, addetto all'informazione, Giovanni Grasso, consigliere per la comunicazione e Francesco Saverio Garofani, addetto alle questioni istituzionali. Non che Mattarella non abbia altri consiglieri - in tutto sono una dozzina, tra i quali va registrato l'ex ambasciatore a Belgrado, Emanuela D'Alessandro e il generale Rolando Mosca Moschini, addetto agli affari del consiglio supremo della Difesa e alla sicurezza nazionale - ma il gruppo è certamente quello più attivo in questi tempi di consultazioni. Grasso e Astori sono stati tra i primi a ricevere l'incarico a febbraio del 2015. Il secondo, 68 anni, milanese, giornalista professionista dal 1980, è stato in precedenza direttore dell'Ufficio per l'Italia del Parlamento europeo. Ha incontrato il presidente negli ambienti della Difesa. Diverso il background di Grasso, anche se con Astori condivide la professione di giornalista. Il consulente per l'informazione ha militato all'Asca, mentre il portavoce ha lavorato per Agi e Avvenire. Ben più ampi sono i contatti di Guerrini, che ricopre l'incarico di direttore dell'Ufficio di segreteria. Guerrini è stato a lungo responsabile delle relazioni istituzionali di Leonardo-Finmeccanica. All'arrivo di Mauro Moretti, non è stato scalfito dal potente ferroviere. Nonostante la vicinanza a Enrico Letta, e quindi la distanza da Matteo Renzi, in quel frangente fosse una palla al piede. Guerrini è toscano e amico d'infanzia di Letta: ai tempi dell'università frequentava anche Lapo Pistelli, già agli Esteri e ora vicepresidente dell'Eni. Con il premier scalzato da Renzi, Guerrini condivide la passione del Subbuteo. Soprattutto, in comune con Letta il consigliere ha la militanza nei giovani Dc. Guerrini era anche molto lanciato nella carriera politica, almeno finché lo storico segretario democristiano Flaminio Piccoli si girò dall'altra parte. La carriera ha comunque preso il volo, ma in altra direzione. E proprio la vicinanza agli ambienti della Difesa ha permesso a Guerrini di creare un rapporto molto stretto con Mattarella. Del quale è già stato il capo della segreteria ai tempi della vicepresidenza del Consiglio (dall'ottobre 1998 al dicembre 1999) e del ministero della Difesa (dal 1999 al 2001). Negli ultimi anni ha un po' ceduto al passo a Zampetti, che da abile uomo di Stato ha colmato tutti gli interstizi decisionali. E che più che mai ora coordina e scandisce i tempi. Anche se a emergere nelle ultime ora è invece la figura di Garofani. Uomo di spicco della Margherita ai tempi di Francesco Rutelli e in prima fila nel 2007, quando il congresso coordinato da Romano Prodi riconfermò Rutelli alla guida. All'epoca Garofani guida i democatt chiamati a raccolta attorno alla rivista Quarta fase. Si capisce l'attivismo di queste ore. Il centro cattolico frammentato viene chiamato a raccolta con chiari obiettivi di stabilità.

Il mercato delle…Alessandro Bertirotti il 21 gennaio 2021 su Il Giornale. È tutta questione di… crisi. Come vedete, non ho completato il titolo di questo mio intervento. Ho pensato che fosse onesto, da parte mia, non offendere l’agricoltura, in essa comprendendo coltivazione ed allevamento, sia dal punto di vista filogenetico, come importante invenzione della specie umana, sia da quello nazionale, perché rappresenta per noi un importante settore imprenditoriale, e di qualità. Bene, ora abbiamo una nuova maggioranza: un numero totale di euro, previsto in dodicimila al mese (spiccioli più o meno…), per ogni singolo parlamentare. Non dobbiamo mai dimenticare il vero motivo per cui siamo ridotti in questo Stato, per quanto riguarda la parte economica dell’esistenza umana. E, nel caso della politica attuale mondiale stiamo attendendo tutti la vera e prossima debacle totale, proprio in relazione ad una economia che nulla ha a che fare con il reale progresso intellettuale dei cittadini. Sappiamo tutti, infatti, che non serve a nulla votare, con questa legge elettorale (che peraltro non vogliono cambiare, mentre vogliono farci credere che la diminuzione del numero dei senatori risolva qualche cosa…), e che qualsiasi promessa politica è farsa… che non fa neanche ridere. La dimostrazione è nei Cinque Stalle (un nome che si rivela essere stato lungimirante a suo tempo, come dimostrano i fatti di questa settimana). Non so quali alleanze possano ancora fare, perché penso abbiano setacciato tutto l’arco istituzionale dei partiti, partitini, fuoriusciti, Gruppo Misto ed altro. Insomma, abbiamo un Presidente del Consiglio, sempre lo stesso (ma uno diverso non farebbe la differenza… se scelto tra le file di questi politicanti) che governa il nulla parlamentare, assieme ad inetti in malafede. Ma, resto sicuro che a noi italiani tutto questo non fa alcuna differenza, perché siamo totalmente distaccati dalle vicende dei palazzi della politica. E questo atteggiamento durerà sino a quando i supermercati potranno vendere, i centri commerciali continuare ad esporre merci, e i cittadini, tra un aperitivo sui Navigli e una spiaggia, potranno credere che esiste un futuro. In realtà, si tratta solo di attendere che continui la discesa, fino a quando ci sfracelleremo contro il muro del fallimento culturale, esistenziale e antropologico. Vi sembro pessimista? No, perché credo sempre che qualcosa accadrà per salvare questo mondo. Certo, non dipenderà dall’umanità, ma da un intervento esterno (ultimamente, mi sto dedicando allo studio degli avvistamenti UFO…), organizzato dal destino del Cosmo. Circa l’Italia, possiamo attendere, per scoprire quale altra mangiatoia troveranno questi miserandi.

Contro il “mercato delle vacche” bisogna “picconare” il sistema con una riforma istituzionale. Mirko Giordani il 17 gennaio 2021 su Il Giornale. Il mercato delle vacche nel nostro parlamento non è sicuramente una cosa di cui stupirsi. Fin dagli albori della Repubblica è sempre esistito e sempre esisterò, almeno finchè le nostre istituzioni non cambieranno in maniera radicale. Il parlamentarismo ed il bicameralismo italiano, unito ad una legge elettorale puramente proporzionale, porta ad avere il sempreverde Mastella come arbitro delle sorti del governo italiano. No surprise. L’unico modo per superare questa serie di bassezze politiche e compravendite stile “suk” è quello di una riforma istituzionale che in primis dia maggiori poteri al primo ministro, che ora come ora conta pochissimo e se paragonato agli omologhi europei conta ancora di meno. Poi serve il monocameralismo, vero e non quello che aveva in mente Renzi con la riforma bocciata nel 2016. Terzo pilastro è poi un sistema elettorale maggioritario e direi, alla fine, una riforma della giustizia per evitare tutte le commistioni tossiche tra politica e giustizia che abbiamo visto in questi ultimi anni. Insomma, servirebbe svoltare il paese come un calzino ma effettivamente suonano un po’ come le famose “prediche inutili” del grande Luigi Einaudi.

GRAN BRETAGNA - «MATTEO PROVOCA INCERTEZZA CONTE LOTTA PER SOPRAVVIVERE». Cristina Marconi per "il Messaggero" il 19 gennaio 2021. La crisi di governo italiana viene seguita con attenzione dai giornali britannici: tutti, dal Daily Telegraph a Politico, hanno pubblicato una cronaca di queste giornate. Per The Times, il premier Conte fatica a rimettere insieme la coalizione di governo dopo l' attacco di Matteo Renzi, «ex premier noto per la sua spietatezza politica», dalla gestione della pandemia da parte del governo al piano di rilancio dell' economia. Secondo The Guardian, Conte «combatte per la sopravvivenza politica» messa a repentaglio dalla mossa del leader di Iv. Sul Financial Times, il 14 gennaio scorso Tony Barber, commentatore di affari europei, ha sottolineato come «Renzi abbia immesso incertezza nelle prospettive politiche proprio quando l' Italia ha un disperato bisogno di una leadership stabile», anche se gode della protezione europea grazie al Recovery Fund, «una di quelle occasioni che si presentano una volta per generazione, con una somma che i precedenti governi italiani potevano solo sognare». Per Barber, Renzi ha «ragione nell' individuare difetti nel piano del governo», ma il suo obiettivo sembra essere più «rendersi parte indispensabile dello scenario politico», mentre l' unico scopo per tutti dovrebbe «essere fare l' uso migliore possibile dei fondi Ue», perché «se non ci riusciranno la frustrazione nei confronti dell' Italia non farà che crescere nel resto d' Europa».

GERMANIA - «LA ROTTURA È STATA PROVOCATA DALL'EGOMANIACO RENZI». Flaminia Bussotti per "il Messaggero" il 19 gennaio 2021. Per il quotidiano liberal Süddeutsche Zeitung, la crisi di governo in Italia richiama l' immagine della Commedia dell' Arte e il ruolo che spesso vi svolge Clemente Mastella. Non è più membro del Parlamento, ma da quando la moglie Sandra è al Senato, Mastella, scrive, si fa vedere spesso alla buvette. È un «viandante della politica che qualche volta si butta a sinistra e qualche altra a destra a seconda della congiuntura politica e dell' opportunità». Per lui la «coerenza è una categoria relativa», conclude il corrispondente Oliver Meiler. Sul quotidiano conservatore Frankfurter Allgemeine Zeitung, Matthias Rüb racconta come si è arrivati alla crisi di governo, provocata dall' «incorreggibile egomaniaco» ex premier Matteo Renzi che non ha ancora digerito la sua sconfitta. D' altra parte la caduta del governo Conte non merita lacrime: i due alleati di governo, M5S e Pd, non hanno fatto che litigare dall' inizio e nella seconda ondata della pandemia Conte era sempre più in affanno. Passando a parlare dei 209 miliardi di euro per l' Italia del recovery plan, la Faz scrive che il governo Conte voleva distribuirli alla propria clientela anziché finanziare le necessarie riforme di struttura e solo dopo l' ultimatum di Renzi gli stanziamenti per salute, istruzione e infrastrutture sono stati sensibilmente aumentati.

FRANCIA - «L'ENNESIMA CRISI DI GOVERNO E LO SPETTRO DEL VOTO ANTICIPATO». Francesca Pierantozzi per "il Messaggero" il 19 gennaio 2021. «L' Italia si regala una crisi di governo», «Conte lancia un appello alle forze pre-europee», «il premier italiano tenta di salvare la sua maggioranza»: la crisi italiana è seguita e raccontata da giorni dai media francesi. Nessun bisogno di spiegare ai lettori chi governa a Roma, chi sono i due Matteo, quali sono i problemi della maggioranza: l' attualità italiana è considerata quasi roba di casa, e i problemi del governo, a ridosso della presentazione dei piani di rilancio, destano non poche preoccupazioni anche a Parigi. Vista da qui, la «secessione» di Renzi appare un pericolo per le prove tecniche di ripresa che la traballante Ue sta avviando. «In piena pandemia, l' Italia si regala l' ennesima crisi politica» ha titolato ieri il quotidiano La Croix. «Giuseppe Conte deve assolutamente riuscire a convincere scrive il quotidiano l' Italia può difficilmente permettersi un vuoto di potere nel mezzo della crisi sanitaria». Secondo l' editorialista l' obiettivo di Renzi «è alzare la posta per ottenere una riscrittura del piano di rilancio e dei posti chiave che vi sono collegati». Le elezioni anticipate sono considerate «uno spettro». Tono simile nel lungo articolo che ha dedicato all' Italia il quotidiano economico «Les Echos», che nota tuttavia come Conte non abbia riservato a Renzi le stesse critiche senza appello che aveva rivolto a Salvini nel 2019.

Buttafuoco Da quotidianodelsud.it il 20 gennaio 2021. Giuseppe Conte che ha fatto il governo con Salvini per poi farlo con Zingaretti senza per questo essere un esponente del M5S ma soltanto uno preso dalla strada – segnalato da Bonafede – ha tutto il diritto di essere populista all’Onu prima ed europeista dopo a Bruxelles. Pronto a fare il governo con Renata Polverini infine ma quel che in ogni suo passaggio lo qualifica è l’assoluta mancanza di riflessione, di analisi e di onestà intellettuale. E comunque il problema non è lui. È l’Italia a essere così.

Fabrizio Roncone per il "Corriere della Sera" il 20 gennaio 2021. I cronisti fanno gruppetto davanti ai finestroni spalancati del salone Garibaldi sperando di non beccarsi il Covid (in questo Transatlantico, più che un assembramento - tra senatori, portaborse e faccendieri - c'è una tonnara ignobile: eppure non arriva un commesso, un carabiniere, niente, nessuno). Allora il tizio che deve spifferarti fa un giro largo, aspetta il momento buono, si avvicina, e soffia: «Il ministro D'Incà se li sta prendendo uno ad uno. Trattative disperate. La stanza è laggiù». Velluto rosso alle pareti, il parquet che scricchiola. La porta è di fronte ad una poltroncina Luigi XVI. A Federico D'Incà, ministro per i Rapporti con il Parlamento, Giuseppe Conte ha momentaneamente affidato la delega al mercato dei senatori. D'Incà è un uomo tondo, con gli occhiali tondi, con un sorriso tondo. Grillino atipico. Di buona cultura. Dialogante. Quindi perfetto per provare a convincere gli incerti. Quelli che la fiducia sarebbero pure disposti a votarla e però boh, non so, devo pensarci, che ci guadagno? Adesso D'Incà ha fatto chiamare Mario Michele Giarrusso detto «Marione» (fate conto cento chili sotto una testa da cui pendono radi capelli color giallo-limoncello: gli hanno chiaramente sbagliato la tinta). Questo Giarrusso è finito nel gruppo Misto dopo essere stato espulso dai 5 Stelle perché non versava al movimento la prevista quota dello stipendio. Si definisce un «manettaro». Ospite ad un Giorno da Pecora su Rai Radio 1, disse che «Renzi sarebbe da impiccare». Quindi sembra perfetto per sostituire uno di Italia viva. All'improvviso, però, si sente la sua risata cavernosa. E un urlaccio: «Maiii!». Funzionaria si allontana frettolosa: «Dio mio». Si volta Maurizio Gasparri: «Stanno facendo lo schifo». Intanto il premier ha concluso il suo intervento, molti lo giudicano un filo meno debole di quello pronunciato a Montecitorio, ma il portavoce Rocco Casalino - agitatissimo, elettrico - pensa ai numeri: «Cosaaa? 158? Oh mamma mia, sarebbe un sogno Speriamo di convincere tutti». Da dietro un angolo spunta il senatore Luigi Cesaro, detto Giggino a' purpetta - a giugno indagato dalla Procura di Napoli, i suoi tre fratelli arrestati con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. «Per il voto mio, e per i voti di altri due miei amici senatori che controllo, mi hanno offerto un ministero». Il cronista del Foglio , che gli parla a tre metri, ha lo sguardo perplesso. Ma quello, Giggino, s' indigna: «Guagliò, tengo tutte le prove ncopp' o' cellulare».

Un mercato osceno. Mai visto niente di simile: è tutto così sfacciato, tragico, penoso (Denis Verdini, ora a Rebibbia, a lungo il più potente dei generali del Cavaliere, il grosso e feroce Verdini, orologio d'oro massiccio al polso, e gemelli d'oro, ai senatori prometteva oro con maggior discrezione). Alla senatrice Paola Binetti (Udc) hanno offerto il ministero della Famiglia. Al socialista Riccardo Nencini hanno proposto un posto da sottosegretario. Lui, perdendo un po' il senso della misura, ha detto di sentirsi come «Ulisse sulla nave in tempesta»: ma ora sta facendo la sua dichiarazione di voto, e sembra ancora indeciso. Ballano nel dubbio almeno tre renziani (Comincini, Grimani e Marino) Piccole certezze. Pier Ferdinando Casini e Mario Monti voteranno sì. Anche Tommaso Cerno, in Principe di Galles color turchese, ha deciso di votare sì e di rientrare nel Pd (stavolta si suppone senza velleità di diventarne segretario, il miraggio che tre anni fa Renzi usò per convincerlo a lasciare una brillante carriera giornalistica). Per parlare un po' di politica bisogna fermare Luigi Zanda, rango assoluto, autorevole dirigente dem. «Guardi: poiché la democrazia è fatta anche di numeri, la verità è che se non arriviamo a 161, questo governo riparte debole». «Ma Conte dei numeri se ne frega - dice Paolo Romani, ex ministro berlusconiano, ora esponente di Cambiamo, un altro che se ci parli non ti sembra di essere proprio alla fermata della metropolitana - Tra terza ondata di Covid, un Paese da vaccinare, il Recovery da gestire, Conte cadrà dentro il "semestre bianco". Da lì, penserà a costruirsi il suo bel partitino di centro».

Passa uno che somiglia a Scilipoti. Ma poi si scopre che è proprio Scilipoti (è un po' anche il suo giorno). Tutti parlano dello scoop rosa di Dagospia : la Polverini, ex braccio destro teso nel saluto romano, sarebbe pazza d'amore per Luca Lotti, ex braccio destro di Renzi. Che ora si alza e inizia il suo intervento. Segue l'altro Matteo, cioè Salvini. Il solito statista, cita Grillo: «I senatori a vita non muoiono mai, e quando muoiono è troppo tardi». Colpetto di scena: i forzisti Andrea Causin e Maria Rosaria Rossi, leggendaria «badante» del Cavaliere, votano con il governo (Antonio Tajani: «Vergogna. Espulsi!»). L'ex grillino Lello Ciampolillo arriva in scivolata. Finiamo questo strazio con 156 sì, 140 no, 16 astenuti. Un governo zoppo, barcollante, va incontro al Covid che - intanto - ne ha uccisi altri 603.

Christian Rocca per linkiesta.it  il 20 gennaio 2021. Uno che non riesce nemmeno a far entrare Clemente Mastella al governo, fallendo un rigore senza portiere, come può scrivere un Recovery plan che non sia respinto dalle istituzioni europee; come può organizzare una campagna di vaccinazione nazionale per immunizzare il paese; come può, insomma, rimettere in carreggiata l’Italia che sotto i suoi occhi è prima per numero di morti, per misure restrittive e per decrescita economica? Giuseppe Conte è un irresponsabile. Con i bonus e con le mance, con il no al Mes e il sì allo spreco di denaro, con le primule e con le dirette Facebook, con gli hacker e con i centralini intasati da Casalino (copyright Dario Franceschini), il presidente del Consiglio deve essere rimosso da Palazzo Chigi subito, oggi stesso, mentre esce di scena l’amico e sodale Donald Trump, se si vuole provare a ridare efficienza all’azione di governo. Tutto il resto sono chiacchiere, perdita di tempo, declino irreversibile. I giornali continuano a essere ancora molto rispettosi di Conte, tralasciandone gli impacci e l’inadeguatezza, tanto da nascondere tra le righe degli articoli, per esempio di ieri, del grottesco lavorìo del premier, o per conto del premier, per raccattare deputati e senatori in grado di sostenere la sua maggioranza perduta. Secondo due editoriali della Stampa, le grandi manovre contiane hanno coinvolto avvocati vicini alla massoneria, generali della Guardia di Finanza, arcivescovi, monsignori, prelati, intermediari del capo dei servizi, in una pochade tragica a metà tra Signore e signori di Pietro Germi e Amici miei di Mario Monicelli. Commedia all’italiana, insomma. Solo che non possiamo permettercelo, con il debito pubblico fuori controllo (160 per cento), con buona parte dei soldi del Recovery Plan già impegnati per i sussidi invece che per lo sviluppo, addirittura con l’incapacità di presentare un Recovery plan degno di questo nome per cui trascorreremo la seconda metà del 2021 e il 2022 a pietire la misericordia di Bruxelles a causa dei disastri del Conte-Casalino con grandi ringraziamenti da parte del fronte sovranista. Le mattane di Matteo Renzi hanno già avuto il merito di migliorare il Recovery Plan, anche se non ancora in modo sufficiente, e di smontare il disegno imperiale di Conte, servizi segreti più accentramento della gestione dei soldi, ma avranno un senso compiuto soltanto se alla fine riusciranno a liberare il paese dell’avvocato del popolo e associati. Il compito spetta al Pd. Al Pd di Paolo Gentiloni e delle tante persone serie e preparate che non capitolano di fronte al populismo straccione dei Cinquestelle e non possono cedere al governo degli irresponsabili. Anziché concentrarsi sulla distruzione di Renzi e Calenda, che peraltro ci pensano da soli, anziché inseguire alleanze strategiche con gli altri amici di Trump e altre stronzate sul leader fortissimo dei progressisti, la leadership del Pd prenda in mano la situazione che Renzi le ha offerto. Prendano l’iniziativa, Dario Franceschini e gli altri. Facciano partire un nuovo governo senza Conte e senza Casalino, possibilmente senza Bonafede anche se non si può pretendere tutto, con la vecchia o con una nuova maggioranza. Un governo di adulti, senza mezzecalzette, europeista e animato da uno spirito di rilancio, non da vendette e narcisismi da quattro soldi. Il Pd cerchi i competenti, coinvolga quelli bravi, affidi palazzo Chigi a qualcuno o qualcuna capace prima di immaginare e poi di realizzare un piano di investimenti per tornare a crescere e poi anche di pianificare una campagna di vaccinazione universale.

Da Giuseppi a Ciampolillo: il circo equestre della politica. La caccia ai senatori, il ciclo del glucosio e le figuracce di Azzolina, tutto il peggio della settimana. Michel Dessì, Domenica 24/01/2021 su Il Giornale. Il peggio della settimana? Beh, è andato in scena al Senato della Repubblica nel giorno della fiducia all’avvocato del popolo. Un vero e proprio “circo equestre”, come lo definisce il Presidente della Campania Vincenzo De Luca nella sua solita diretta del venerdì. “Da fare invidia al cirque du soleil”, come dargli torto. Da Clemente Mastella a Lello Ciampolillo il passo è breve. Giuseppi le sta studiando tutte pur di rimanere al potere e non mollare la poltrona di velluto. Si arrampica inutilmente sugli specchi e scivola lentamente verso il basso. È disperato, i numeri non ci sono e il “nuovo” governo sembra molto lontano nonostante i ripetuti appelli lanciati: “aiutatemi, aiutatemi”. Anche Bruno Tabacci lo ha mollato. Il “leader” (si fa per dire) di “Centro democratico” uscendo da Palazzo Chigi dopo un incontro con Giggino da Pomigliano ha detto che “il voto è inevitabile se non ci sarà una nuova maggioranza solida” che “non può passare attraverso un rimpasto.” E mentre ognuno pensa ai propri interessi, a ministeri e a ruoli di peso, la caccia si fa sempre più sfrontata. Renzi, il ganzo di Firenze, torna sui propri passi e apre a Conte, ma guai a parlarne nel Movimento 5 Stelle. Per i grillini non esiste, “non si torna indietro” e lo ribadisce anche Alessandro Di Battista: “A proposito di obblighi. Impossibilium nulla obligatio est: 'Non v'è nessun obbligo nei confronti delle cose impossibili', disse il giovane Celso. Chiaro. Ma oggi che allontanare definitivamente il renzismo dalla scena politica italiana non è affatto impossibile, credo sia un dovere morale andare fino in fondo". Ma i parlamentari sono davvero disposti a mollare tutto e tornare alle urne? No, nessuno lo è. Chi lascerebbe la poltrona e il lauto compenso? I cinquestelle forse? I deputati di Italia Viva al 2%? I posti in Parlamento si sono ridotti e rientrare dentro il Palazzo è sempre più difficile, meglio godersi il momento. D’altronde è una questione di sopravvivenza e pur di vivere si è pronti a tutto, anche a tornare con l’altro Matteo. Anche votare la relazione sulla giustizia del ministro Bonafede. È l’istinto animale.

LELLO CIAMPOLILLO. Non è passato inosservato l’ex grillino Lello, oggi amico di Conte oltre che delle piante. Uscito dal Senato dopo il voto (chissà perché ha ritardato) non ha nascosto le sue ambizioni: “Fare il ministro dell’agricoltura? Perché no, mi piacerebbe molto!” Ma non sarebbe il posto giusto per il neo contiano. Non molto tempo fa ha detto a La Zanzara: "Io sono vegano e ho difese immunitarie altissime. I vegani si difendono meglio dal Covid perché hanno difese immunitarie quasi perfette. A Conte ho consigliato di diventare vegano, l'ho suggerito per stare meglio". Ma non finisce qui, il senatore si dice contrario anche all’uso della mascherina: "Io la uso, ma non è quella la soluzione. Io sono per il modello svedese dove i morti sono pochi e non hanno fatto un giorno di lockdown. Questa è la mia idea. Spesso da noi si conteggiano come morti da Covid quelli morti in incidenti stradali e se tu hai avuto il Covid ad agosto e muori oggi, ti mettono come morto da Covid mentre hai un'altra malattia". Bell’acquisto quello di Giuseppi. Avanti così, per il bene del Paese.

CLEMENTE MASTELLA. Il grande pontiere, il centralinista di Conte sembra voler riattaccare il telefono e metterlo in modalità uso aereo. Dal TG2000 lancia messaggi subliminali… “Avverto la maggioranza che nei prossimi giorni avrà un problema. Se io fossi in Senato non voterei la relazione annuale del ministro della Giustizia Bonafede. La vedo dura e nulla vieta che possa essere messo da parte un ministro della Giustizia. Non mi piace questa forma di giustizialismo ad oltranza che è stata portata avanti da Bonafede. Su questo personalmente mi asterrei”. Lo farà anche la moglie, nuova stampella di Giuseppi? Se fosse così il governo ha le ore contate.

ANDREA CIOFFI. Il discorso del senatore grillino a sostegno di Conte è surreale, fa una lunga dissertazione sul ciclo del glucosio: "E' per l'amore che si perpetua tra ossigeno e carbonio, la vita, che le persone di buona volontà vogliono che lei vada avanti" dice in aula.. “Siamo qua per essere il popolo. Cittadini che prestano il loro cuore e la loro testa al servizio del popolo. Dobbiamo sentire fluire quel dolore, quello sgomento che sentono i cittadini per riportare al centro dell’azione il senso di fratellanza. Non lo sentite dentro di voi il dolore, il dolore della gente? E noi siamo qui a parlare di un problema di stabilità, che si intreccia e nasce dall’egoismo, anzi dall’egotismo” da “quell’ego che tanto fa e tanto disfa, quell’ego distruttore che non fa altro che esaltare il senso dalla vanità”. Quante ore avrà passato a scrivere questo inutile discorso? In molti hanno cambiato canale e no, senatore Cioffi, non ha stupito nessuno. Solo scioccato. Come una mia amica che, basita, mi ha girato il video.

LUIGI DI MAIO. Gigi si dimentica di avere la mascherina su bocca e naso e mentre parla al telefono in Aula si copre con la mano per non far leggere il labiale ai giornalisti. Non mi meraviglia. Piuttosto mi sorprende il metodo da prima repubblica. Avrebbero dovuto aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno… eppure quel tonno gli piace tanto. Anche quello avariato.

LUCIA AZZOLINA. Mentre gli studenti aspettano di sapere come e quando sarà l’esame di maturità 2021 lei dice: “Sui banchi a rotelle si è fatta una polemica molto stucchevole… Sono un patrimonio che rimarrà strutturalmente nelle scuole.” Certo, per giocare allo scontro scontro.

VITTORIO SGARBI. Scrive sui social: “Cercano la “quarta gamba” invece che una testa.” Come dargli torto. E su Gigi scrive: “Di Maio: «Non lasceremo gli italiani nelle mani di irresponsabili». Sono le tue, di mani, che non hanno mai lavorato, e quelle di altri perdigiorno della politica come te, che stanno distruggendo il tessuto produttivo di questo Paese.”

LUIGI DE MAGISTRIS. Il sindaco (non eccellente) di Napoli annuncia: “Mi candiderò a presidente della Regione Calabria!” Il suo mandato sta per scadere e lui è palesemente in cerca di poltrone, magari quella dell’opposizione, perché forse è lì che andrà a finire se supererà il quorum ed entrerà in consiglio regionale. E mentre sogna lo scranno di Palazzo Campanella si da ad uno “slancio internazionale sognando la Calabria” e su twitter scrive: “A new era has begun for the #UnitedStates. Congratulations Mr. President @JoeBiden and Mrs. Vice President @KamalaHarris. The city of #Naples wishes you the best of luck in all your future challenges.”

IL CTS. Lo sapete che hanno combinato gli scienziati che, da un anno decidono se possiamo uscire di casa, mangiare, passeggiare? Hanno sbagliato il dato Rt della Lombardia facendogli cambiare colore: dall’arancione al rosso. E ora chi paga i danni della chiusura forzata?

ALAN FRIEDMAN. “Donald Trump si mette in aereo con la sua escort e vanno in Florida” parole pesanti pronunciate su Rai Uno (TV di Stato) dal “giornalista” americano. Peccato nessuno lo abbia censurato o allontanato. Sono bastate delle semplici scuse. Se lo avesse detto un giornalista di destra nei confronti di Jill Biden cosa sarebbe successo? Non oso immaginare.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 23 gennaio 2021. In omaggio al principio per cui gli impresentabili sono tali solo quando si presentano con gli avversari, il custode della purezza grillina Di Battista ha benedetto l' ingresso in maggioranza di Ciampolillo e della ex assistente di Berlusconi perché «un governo senza Renzi val bene una messa». È la logica con cui da trent' anni il centrosinistra più litigioso del mondo rimane insieme non per realizzare un obiettivo (tutelare il lavoro, magari), ma per fermare il Mostro del momento, la cui pericolosità viene spesso enfatizzata per mascherare l' assenza di altre ragioni. I Cinquestelle versione Di Battista erano entrati in politica per redimerla da ogni sporcizia. Ci ricordiamo un Dibba tuonante contro il mercimonio nelle aule parlamentari, da lui definite «un postribolo». Adesso accetta di accogliere i voltagabbana, basta che non siano indagati. Ma quello degli indagati ha tutta l' aria di essere un paletto mobile: tra un po' verranno ammessi anche loro, purché non condannati, e poi anche i condannati, purché non in via definitiva, e poi quelli in via definitiva, purché non all' ergastolo, e poi quelli all' ergastolo, purché non all' inferno, e poi quelli all' inferno, purché non nel girone degli alfabetizzati. Anche in America hanno appena cacciato il Mostro (e lui, almeno negli ultimi tempi, lo era davvero), ma il giorno dopo il nuovo Presidente aveva già firmato diciassette decreti per rovesciarne le politiche. Da noi, abbattuto un Mostro, non cambia niente. Se ne cerca un altro.

Domenico Di Sanzo per “Il Giornale” il 23 gennaio 2021. Sappiamo benissimo che per Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, i «responsabili» che dieci anni fa consentirono al governo Berlusconi di andare avanti erano dei «venduti» e dei «voltagabbana». A differenza dei parlamentari che ora brigano per salvare Giuseppe Conte. Infatti questi ultimi sono stati definiti gente «con la testa sul collo» da Travaglio nell' editoriale pubblicato sul Fatto il 3 gennaio scorso. Quel che spesso si perde di vista è l' importanza di chi le trattative le conduce, degli incantatori di serpenti chiamati a convincere le anime perse del Parlamento a passare da una sponda all' altra. Parliamo, in questi giorni, del premier Conte e dei suoi emissari, soprattutto parlamentari del M5s e fedelissimi dello staff di Palazzo Chigi. Ma si racconta anche di telefonate di alti prelati e di mosse di uomini del cosiddetto deep state italiano, presunti movimenti smentiti con tanto di sdegno dalla presidenza del Consiglio. Tutto legittimo. Si tratta dei «pontieri» che stanno cercando di mettere su l' operazione «costruttori», o «volenterosi», evocata con chiarezza in Aula da Conte prima di ottenere la fiducia a Montecitorio e a Palazzo Madama. E quindi ecco gli incontri segreti, i messaggini, le promesse, gli accordi. Con il supporto del Fatto, che il giorno dopo la fiducia risicata al Senato si beava con questo titolo di prima pagina, dedicato all' inossidabile premier: «Più lo butti giù e più si tira su». Con tanto di foto di Conte mascherinato in bella mostra. Nelle stessa prima pagina l' annotazione: «Servono 10 ex Iv e Udc per blindare l' aula e le commissioni». Via al Suq per un' altra decina di giorni o più. Ora torniamo indietro di dieci anni. Prendiamo un commento di Travaglio datato 1 dicembre 2010. E sembra quasi che se la prenda con Conte e i suoi, animatori dell' odierno calciomercato dei senatori. «A furia di parlare di deputati venduti, si rischia di trascurare l' altrettanto nobile categoria dei compratori», l' incipit del pezzo. Non si stigmatizzavano solo i reietti alla Antonio Razzi e Domenico Scilipoti, ma pure quelli che Travaglio bollava come «acquirenti». Quindi spunta «tal Ciccio Nucara, segretario del Partito Repubblicano all' insaputa dei più». Allora incaricato di «pescare nella palude di diniani, centristi, Mpa, Union Valdotaine, Sudtiroler». Uno stagno non troppo diverso da quello in cui stanno nuotando da giorni, senza sosta, gli emissari contiani. Tra ex craxiani, ex grillini, italiani all' estero, democristiani sanniti e centristi di ogni risma. Anche alla fine del 2010 si parlava dell' Udc, ora al centro delle lusinghe di chi segue il dossier dei «volenterosi» per conto di Palazzo Chigi. Sentite il Travaglio d' epoca: «Partì la fase 2 di Mediashopping, affidata ad acquirenti ignoti (forse latitanti): comprare l' Udc siciliana, piena di condannati, inquisiti ed ex imputati». Il dialogo in questi giorni è stato bloccato da un' inchiesta di Gratteri in cui è coinvolto il segretario dell' Udc Lorenzo Cesa. Ma si tratta ancora singolarmente con due o tre parlamentari scudocrociati. Eh sì, perché ormai siamo in uno scenario simile alla «fase 3» evocata dal Fatto nel 2010. Quella che il giornale definiva «una baraonda in cui non si capisce più chi compra e chi viene comprato». Con una differenza: adesso i presunti «acquirenti» non scandalizzano più.

Fulvio Abbate per "huffingtonpost.it" il 23 gennaio 2021. Da laureato in filosofia (dunque, filosofo dilettante), certi giorni, devastato dallo sconforto, mi viene quasi da piangere. Ho la sensazione infatti che l’intera storia del pensiero, ergo d’ogni scienza legata al sapere e alla conoscenza, cioè alla gnoseologia, stiano per svanire di fronte alla semplificazione da baretto pop, da “stuzzicheria”. O magari la dissoluzione è già avvenuta, e personalmente ne colgo solo il precipitato ultimo. Come accade agli aerei abbattuti dalla contraerea. Così tra battute, meme e citazioni che giungono dall’inesauribile catalogo dell’amatissima paccottiglia subculturale. Percepita come avvincente, rassicurante, pronta a colmare ogni dubbio circa l’essere il non essere e il divenire. E gli strumenti stessi in possesso d’ogni individuo. Sia rispetto all’umano ordinario sia rispetto a ogni questione politica. Quanto all’arte, sembra ormai legittimarsi unicamente nella sua accezione glamour; ma ora non è il caso di scantonare anche nell’estetica. In questo senso, non sembri un riferimento improprio, abbiamo comunque l’obbligo di detestare il lascito di Andy Warhol, l’artista che nell’ideale ex voto della già citata semplificazione dialettica, campeggia in alto circonfuso di luce, lì fisso a far le veci da ogni possibile Maria Immacolata. Pronto ad affermare la tautologia del, perdonate l’apparente volgarità, “… e ‘sti cazzi?” (cit.) implicitamente sempre più chiamata in causa ogni qualvolta c’è da sciogliere un nodo complesso. In assenza di Warhol, infatti, il linguaggio stesso oggi non mostrerebbe le voragini di molti suoi penosi, tautologici, significanti, cascami di citazioni ordinarie, a buon mercato. Sono amico e stimo Elio, le leggendarie sopracciglia delle Storie Tese, eppure avere letto che il leghista Bagnai, parlando dell’esecutivo in bilico di Giuseppe Conte, lo abbia definito: “Governo dai piedi di balsa che campa su una storia falsa” o giù di lì, confesso di averlo trovato devastante, la conferma di un analfabetismo diffuso che viene colmato dal ricorso a un repertorio ordinario. Non dico che dovesse citare, che so, un remoto Cesare Merzagora o piuttosto Thomas Hobbes o chissà quale altro cinto erniario del pensiero politologico, mettendo così a rischio la propria attendibilità presso l’ampio pubblico di nutrie che seguono il “campionato” e il “calcio-mercato” della politica, resta però che tutto questo si presenta come la prova ulteriore dell’abominevole precipizio della semplificazione, pronta a negare l’esistenza della memoria culturale stessa. Lo stesso vale per un grillino, Di Nicola, che, restando in tema di governo, attinge al catalogo di Vasco Rossi accennando al suo tentativo di trovare un senso a questa crisi, “ma un senso questa crisi non ce l’ha”. Altri ancora hanno mostrato il proprio spessore come il leghista Centinaio che sempre riferendosi al premier Conte e al suo Governo: “Lei mi sembra l’Arturo Brachetti della politica, quell’illusionista che si cambia d’abito alla velocità della luce. Poi ieri ascoltando il suo intervento alla Camera mi è venuto in mente quando ero bambino, c’era la pubblicità di un giocattolo: i Playmobil. Questa pubblicità che diceva mille vite Playmobil, con un omino potevi fare tanti personaggi”. Ora capite il perché Warhol deve essere ritenuto l’ispiratore-mandante morale di questo grado zero della possibile citazione? E lo stesso vale per Giorgia Meloni, che aveva invece paragonato Conte a un Barbapapà. Lo stesso grado zero che ha reso celebre il lessico di un film quale “Amici miei”, pellicola dallo stesso Monicelli ritenuta non meritevole del successo ottenuto. Tuttavia il picco massimo, lo scoglio, e qui qualcuno penserebbe a una canzone di Mogol- Battisti (d’altronde, anche le Brigate Rosse, nonostante quell’insostenibile bagaglio leninista, in un loro “comunicato” citarono “le discese ardite e le risalite”, quindi in cosa vogliamo sperare?), lo scoglio peggiore su cui si infrange ogni nostra speranza di sussistenza della filosofia coincide con l’abuso plebiscitario dell’espressione “rosicare” in tutte le sue declinazioni, peggio ancora quando si attesta nell’esperanto romanesco redazionale e insieme social: “… sta a rosicà!”, “… rosicone”, “… che rosicamento” ecc. La semplice evenienza che in luogo delle forme lessicali degradate nella prosaicità da tavernetta si possa invece citare, metti, un Gaetano Salvemini o perfino un Emanuele Severino, appare ormai risibile a un uditorio attestato sulla linea del bagnasciuga dei “cazzari”, salvo dover ricorrere a necessaria nota a piede di pagina per colmare le lacune dell’analfabetismo adulto diffuso. Vorrà pur dire qualcosa il ricorso da parte di molte principali rubriche politiche giornalistiche a “Le più belle frasi di Osho”? Acme massima, almeno ai nostri occhi, di una insostenibile semplificazione qualunquistica che vede ogni risata accompagnarsi a una mano tenuta rigorosamente sul “pacco”. Di fronte a ogni meme di Osho l’intera storia del pensiero, della filosofia, e della satira stessa, svanisce, muore, innalzando semmai al suo posto la sagoma spettrale di una sala-corse h24. P.S. E anche tutto questo gran parlare sui guanti artigianali di Bernie Sanders risponde al medesimo pietoso vaniloquio.

La tragedia di avere un governo ridicolo. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 24 Gennaio 2021. Tre crisi ammazzano l’Italia. Quella della pandemia, che uccide mezzo migliaio di persone al giorno e che andrà, a quanto pare, sempre peggio; quella di un governo da operetta che cerca tromboni e donne cannone per cantare l’Aida. E quella infine della democrazia liberale che non ha mai attecchito. Il sospetto è che questa terza sia la ragione della gravità delle altre due. Ieri la brava Alessandra Ghisleri – che è un po’ come George Friedman perché dalla meteorologia dei comportamenti avanza previsioni politiche – tabelloni dei sondaggi alla mano mostrava come gli italiani si aggreghino dovunque compaia una ciotola di riso o un gruppo parlamentare, tanto che ormai si è prodotto il solito miracolo di san Gennaro per cui Giuseppe Conte passa per un leader. L’Italia non ha mai avuto una passione per la democrazia liberale. Né prima né dopo il fascismo. Lo spappolamento dei grandi eserciti che rappresentavano l’impero dell’Est e quello dell’Ovest ha lasciato come strascico una coda di bande armate e soldati di ventura, anche intellettuali. Certamente a noi non piace affatto l’idea di Salvini al governo col suo ridicolo “potere assoluto”, le sue madonnine e altre cianfrusaglie, ma certo è che fa una certa impressione vedere che l’unico collante che dovrebbe tenere in piedi un governicchio inconsistente e dissennato è soltanto la paura fottuta delle urne. Come dire che se lasciassimo fare a quella canaglia dell’elettorato, ci manderebbe tutti a casa. Ma i giochi sono talmente avvitati che neppure l’ipotetica destra vincente (in caso di elezioni anticipate) sarebbe davvero contenta di andare al voto, perché il vero convitato di pietra è il malloppo dei quasi trecento miliardi da incassare dall’Europa che ancora aspetta di vedere i piani dettagliati di come sarebbero spesi questi soldi, perché per ora sono ancora delle larve in attesa che diventino pupe, bruchi e farfalle. Lo spappolamento della politica ha portato a una serie di paradossi, incidenti, personalismi, idiozie, bugie, speranze e soprattutto incompetenze, prime fra le quali l’incapacità di prendere decisioni sull’epidemia. Fa impressione vedere che nessuno si chiede come fare a riconquistare l’elettorato che si dà per perduto, ma pensa soltanto a come contenerlo e sedarlo. Una serie di fatti casuali e altri che derivano dalla decomposizione cominciata alla fine degli anni Ottanta, hanno prodotto una catena di mostri e mostriciattoli che agiscono sulla scena politica senza una cabina di regia, senza suggeritore, senza neanche un pompiere di servizio. La giornata di ieri è stata una delle tante in cui sembrava di aver raggiunto il fondo del barile, salvo scoprire che si sta già scavando un tunnel sotto quel barile. A noi sembra che il Presidente della Repubblica – che pure ha agito in uno stato di soffocante e anomala necessità quando si è trovato davanti al nuovo Parlamento e si è preso in carico un capo del governo arrivato per caso – adesso dovrebbe far sputare una crisi di governo e non quella specie di teatro giapponese che si recita fra il Quirinale e i Palazzo sottostanti. I partiti non sono partiti e non hanno un capo e se ce l’hanno è fragile e inconsistente. Il primo ministro per caso ha tutto l’interesse a seguitare a vincere la lotteria che un giorno ha determinato la sua fortuna e le Camere sono alla pazzia collettiva come nel “Marat-Sade” degli anni Sessanta. Dunque, ci sembra che il Presidente farebbe bene a supplire le carenze di cui conosce tutta la genesi. La giornata di ieri, mentre era in corso d’opera, veniva definita un calvario, un gioco dell’oca e un urlo solitario della moglie di Mastella che per bocca di suo marito invitato ai microfoni di Un Giorno da Pecora dichiarava di non voler votare la riforma Bonafede sulla Giustizia che non prevede nessuna certezza sui tempi dei processi. L’accaduto, uno dei tanti, al tempo stesso erra sensato e – per il contesto – del tutto dissennato. Tutti i commentatori politici convocati nel talk dell’après midi si dichiaravano stupiti ma al tempo stesso confortati dai misteri offerti dalla realtà. Il surreale dominava il reale in maniera più comica che prepotente evocando l’arte: in un sonetto di Giuseppe Gioachino Belli, due devoti chiedono lumi al confessore sui loro dubbi religiosi ed escono sollevati dichiarando: “Venissimo a sapè, che so’ misteri”. Avevano la rassicurante conferma che un mistero è un mistero, come una pipa resta una pipa anche se Magritte scrive sotto che “ceci n’est pas une pipe” e ci mettiamo anche Gertrude Stein per il verso tautologico in cui ricordava che la rosa è una rosa è una rosa è una rosa. E la democrazia italiana che cosa è? Una non-pipa che resta una pipa o una quadrupla dichiarazione di essere una rosa? Secondo la sorridente Alessandra Ghisleri, lo dicevamo all’inizio, gli italiani si comportano come topi nel labirinto o come i prigionieri di un campo di concentramento, perché ormai non buttano niente e tendono ad aggregarsi a quel che c’è, persino al governo dell’avvocato d’affari miracolato sulla via della Dataria che porta al Quirinale e da lì assunto nel cielo politico anestetico in terapia intensiva come quella che già pompò e fece poi scoppiare come palloncini i partiti di Lamberto Dini, Antonio Di Pietro, Mario Monti e anche di Matteo Renzi che sbagliò un tempo e acciuffò poco più che un pugno di mosche. La situazione è sia nota che misteriosa. Lorenzo Cesa dell’Udc, che era dato per acquisito come costruttore nella maggioranza del governo Conte, è stato segato dal procuratore Gratteri che l’ha accusato di collusione mafiosa. Ma la cosa più notevole ci sembra il fatto che lo stesso procuratore, volendo allontanare da sé il sospetto di praticare la giustizia ad orologeria, ha candidamente dichiarato di essersi prima accertato del fatto che Cesa avesse cambiato idea e avesse deciso di non entrare più nella maggioranza di governo. Se la logica non ci fa difetto, il procuratore non nega di agire tenendo d’occhio i tempi della politica, ma lo conferma. Avrebbe potuto dire: io rappresento la giustizia che non ha occhi né orecchie di fronte alla politica. Il Presidente della Repubblica ieri veniva dato per “sconcertato”, perché ormai del Quirinale si danno bollettini simili alle previsioni meteorologiche. Intanto, Renzi e il gruppo di Italia Viva in una nota compatta si dicono preoccupati per lo stallo anche perché l’on Trizzino, considerato un vecchio amico di Mattarella, sostiene di saper come staccare i renziani da Renzi, mentre intanto il buon vecchio Tabacci con un berrettuccio di lana con pompon entra ed esce da Palazzo Chigi davanti al cui portone si forma l’intirizzita ammucchiata di cronisti microfonati ai quali lo stesso Tabacci dice di essere disposto a considerare se per caso “si profilasse un disegno alto e di prospettiva”. Né una parola di più né una di meno. E mentre il sottile intellettuale Cuperlo si aggirava con eleganza amletica, dagli schermi pomeridiani il sempre lucido Paolo Cirino Pomicino definiva “à la carte” la maggioranza dell’attuale governo. La situazione rappresentata dal governo e dai suoi sciagurati supporter è di ora in ora più disperata e ridicola, mentre il morbo infuria, il pan ci manca, ma ancor non sventola bandiera bianca.

La crisi di governo. Cronaca semiseria di una giornata surreale: dal duello Renzi-Di Maio per la Farnesina alla scomparsa dei “voltagabbana”. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 20 Gennaio 2021. Tema: la giornata politica d’oggi qui in Italia, Italy. Svolgimento: oggi (ieri mentre scrivevamo) è stato un grande giorno per la democrazia. Il Conte che fa il capo del governo italiano ha dato un sacco di botte a Matteo Renzi che gli aveva tolto dal tavolo due ministre gridando che l’attuale governo tutto fa meno che la politica, guarda la situazione sanitaria e tutto il resto. È stato un bel match ma visto in streaming sembrava tutto molto generico e finto. Comunque, il momento più alto e simbolico è stato quello in cui hanno disinfettato il Senato e sembra che accendessero candele antizanzara (una vera frenesia igienista e antiparassitaria) e qualcuno esagerava parlando anche di voodoo, ma è stato smentito. C’erano ieri un casino di spifferi, sussurri e voci incontrollate, malgrado le mascherine. Ieri il premier che ancora alle prima armi già sa fare tutte le maggioranze possibili nella scatola di montaggio. Ieri non ha parlato le molte lingue che sa. Il suo nemico duellante Matteo Renzi ha fatto un bell’elenco di cose da fare, malfatte o imbecilli, poi ha anche detto che lui tutti i vaccini disponibili non li darebbe a chi può morire ma a tutti i dipendenti della scuola come sua moglie e i suoi bimbi. È stato tutto un “ora o mai più”, frase molto bella di cui ho preso nota. Il Senato è stato un vero uovo di Pasqua con sorpresa, sicché c’è stata una vera riffa a premi per chi sa costruire il più bel muretto, o torre. Costruttori. Liberi muratori. Ci sono certo troppe cose che non comprendiamo, perché abbiamo avuto il nostro Wi-Fi fuori servizio. Adesso Wi-Fi tornata con più sottotitoli in inglese perché i nostri leader, sia Renzi che Conte ormai pensano soltanto in quella nobile lingua a loro ignota. Abbiamo vissuto ore di tormento in attesa che parlasse Renzi. Faceva una certa pena vedere ai margini seduto e sconsolato il leghista Salvini e fa anche senso notare che non ci sono più comici, o satiri ma solo apprendisti saltimbanchi, che è un mestiere che richiede comunque la sua esperienza. Si è capito anche per penetrazione della membrana cranica e quella auricolare che l’Europa ci guarda. L’Europa è guardona, guardonissima. E vigile. L’Europa ci conosce e ogni tanto manda agenti europei in incognito ma sono sempre travestiti da pizzettari napoletani o legionari romani con il Rolex. In seguito alle continue disinfezioni e disinfestazioni si era sparsa la voce, poi smentita, di alcuni decessi per eccesso di amuchina. C’era stata preoccupazione per i numeri della maggioranza. Matteo Renzi avrebbe voluto cacciare i Cinque Stelle dalla Farnesina per fare il ministro degli Esteri, vuoi per la feluca in sé, vuoi perché alla Nato gli hanno detto che se voleva fare il segretario generale dell’Alleanza doveva prima farsi un giro diplomatico. Così, il titolare della Farnesina Di Maio dicono si sia arrampicato per protesta sul ministero chiedendo la riconta dei voti in Georgia, Stati Uniti, finché non lo hanno avvertito che quella era un’altra storia. Insomma, come è finita lo sappiamo ma non abbiamo capito che cosa è stato promesso alla squadra dei costruttori che con spirito patriottico hanno posto la domanda: “E tu che mi dai?”. So che hanno cambiato tutti i palinsesti per eliminare la parola voltagabbana, ma non sappiamo che cosa significhino queste due parole, palinsesti e voltagabbana. Quasi tutti i personaggi del Partito Democratico sono apparsi belli e flessibili, gente che non sperpera denaro in cure per la memoria e non ricordano nulla di nulla, dei Cinque stelle con cui hanno colorato non solo il Natale ed ora marciano verso il carnevale. Le televisioni mandano inviati ai crocicchi di Roma e poi si parlano via microfono con la nuova formula “Assolutamente sì”, un modo per riconoscersi nel “perimetro politico” che sarebbe l’evoluzione dell’arco costituzionale, ora al museo dei Pesi e Misure di Sèvres. C’è molta attesa sul Quirinale dove si attende di sapere quale costume ha deciso di indossare il signor Presidente che potrebbe vestirsi con casco e acchiappafarfalle, il che vorrebbe dire “incarico esplorativo”. Tutti dicono dipende dai numeri. Sembra che oggi il pallottoliere sia l’oggetto più venduto e ambito. Tutti aspettavano l’estrazione del numero vincente che dipendeva da fattori esoterici e dall’andamento della borsa. Sui teleschermi i giornalisti non avevano tempo di ascoltare la risposta alle loro domande vaghe e misteriose. Comunque, d’ora in poi tutto si reggerà grazie a un nuovo perimetro in cui il governo potrà pascolare meglio perché servono persone che capiscano il senso della politica. Conte non vuole solo numeri – troppo facile – ma vuole una maggioranza politica, e questo è molto bello. Quale politica? Ancora è presto per saperlo, perché siamo ancora piccoli ma ottimismo perché – è stato detto autorevolmente – l’erba del vicino, eccetera; e campa cavallo in caso di corsa a ostacoli.

Concita De Gregorio per "la Repubblica" il 19 gennaio 2021. Concavo e convesso, Conte si porta su tutto. È come il beige. Non stona, non lo noti. Può stare al fianco di Salvini o di Di Maio, di Trump, di Biden, di Mastella. Duttile, composto, sa usare le posate e non si offende se lo offendi. Autosufficiente, indifferente, è come i gatti che stanno con chi gli dà da mangiare ma non si affezionano davvero a nessuno. Come i bambini che tendono la mano senza guardare in faccia chi li riporta a casa. Seducente proprio perché domestico ma inaccessibile - è del resto questo il principio del narcisismo: l' indifferenza a tutto quel che non riguardi te medesimo - il premier dalla piega di capelli impeccabile si presenta di fronte all' aula del Parlamento sovrano alle 12 e 13 minuti di un lunedì, 18 gennaio. Ricorre Santa Margherita d'Ungheria, morta in sciopero della fame e della sete al culmine di una faida familiare e politica. Al contrario Conte è roseo in volto, in salute, ridente e apparentemente non interessato alla sua interna congiura familiare che non ha nessuna intenzione di riconciliare - come a ciascuno di noi a casa tocca continuamente invece fare - e che anzi liquida come «ferita incancellabile». Con Renzi ha chiuso. I suoi voti non li vuole, quand' anche. Il discorso beige dura un'ora, ed è il discorso di chi sa che a nessuno conviene tornare a votare, che se si torna a votare con un Parlamento dimezzato, da esito del referendum, i due terzi di quelli che sono qui oggi sarebbero a casa a guardare le prossime elezioni del presidente della Repubblica in tv - facile che lo decida la destra, nel caso - e sa che alla fine, oggi, al Senato, anche senza Italia Viva lui i suoi 155 senatori ce li ha, ha fatto i conti. Se i senatori renziani si astengono o escono dall' aula si abbassa il quorum, da 321 compresi i senatori a vita a 300, grosso modo. Per avere la fiducia basta la maggioranza dei votanti, e lui ce l'ha. O almeno crede, o almeno spera. Mattarella può essere che si accontenti di un governo di minoranza, e da domani si vede: si riapre il mercato. 377 morti, ieri. 8824 nuovi casi. Siamo in pandemia, principale alleata di governo. Poi certo tutto può sempre succedere, in politica e nelle notti di Roma, ma non è che il premier non abbia lavorato, in questi giorni. Per esempio ieri è entrato in aula tenendo in mano il libro di Piera Aiello, «Maledetta mafia». Uscito nel 2012 per le edizioni San Paolo, sempre massimo rispetto per l'editoria vaticana, e tuttavia non una novità editoriale. Deve averglielo dato la stessa Piera Aiello prima di entrare in aula: ex parlamentare Cinquestelle, ora nel Misto, collaboratrice di giustizia, uscita dal Movimento in polemica con il ministro Bonafede per scarsa attenzione all' antimafia. Un voto è un voto. Conte il suo lavoro lo ha fatto, non ha lasciato soli gli avvocati di grido, i cardinali, i generali, gli sherpa della comunità di Sant' Egidio, i dinosauri della Prima Repubblica. Ed è perciò avendo fatto i compiti che Chance il giardiniere, Eterna Repubblica, ben riposta l'immagine di Padre Pio nel portafogli si presenta alla Camera vestito come il testimone della sposa. Perché per un decimo almeno di par condicio qui qualche riga bisogna pur dedicarla all' abbigliamento, altrimenti risulterebbero stucchevoli le decine di articoli dedicati al vestito blu elettrico che indossò al giuramento la ministra Teresa Bellanova, era solo un anno e rotti fa. Decine forse centinaia di articoli dedicati al coraggio e al femminile orgoglio, al body shaming e due, forse tre sul fatto che Bellanova era con evidenza l'ariete di Renzi nel nuovo governo: lo ha fatto nascere, ha provato a farlo morire e vediamo come va. Dunque gli abiti. Conte indossa il completo del testimone della sposa, si diceva, o del padrino di cresima. Rassicurante, pochette e cravatta azzurra, riga dei capelli a destra - il lato in cui la mano regge il microfono. Alle cinque del pomeriggio, nella replica, incespica, farfuglia, sta in affanno sul fiato e racconta, lui "Giuseppi", la «calorosa telefonata con Biden». Vabbè. Restiamo alla mattina. Chi gli ha suggerito o rivisto il discorso gli ha spiegato che bisognava dire: cosa si è fatto, cosa c'è da fare. E così ha preso quattordici sinceri applausi, cinque più timidi, otto sonori buu da destra, nell' inventario. Parole chiave. «La gravità dell' ora», con eco sinistra ma speriamo immemore. Il peso dei soldi: ci sono 209 miliardi in ballo, e si sa, è questo il punto. Grazie alle forze di opposizione, la mano tesa: chiunque voglia favorire è ben gradito. Basta così con Renzi, no alla gestione del potere come tornaconto personale - un affondo classico, un sempreverde. Poi: Disagio. Mi sento a disagio «a spiegare una crisi di cui io stesso non ravviso il plausibile fondamento». Profondo sgomento. Empatia con chi ci ascolta da casa: la gente muore, la gente non ha lavoro, le imprese chiudono. Si volta pagina. Grazie ai sindacati (mai con grazia ricevuti, molto sofferti. Ma grazie). Forza alle donne, applausi, mai davvero tenute in conto. Ora le notizie. Mi impegno per una legge proporzionale, un occhiolino all' Udc e alle forze minori: mi impegno per una riforma del titolo Quinto, le competenze Stato Regioni. Caspita. Il grande buco nero, specie in materia di Sanità, di questi mesi. Il governo però avrebbe potuto avocare a se i poteri, secondo Costituzione, ma non lo ha fatto. Nessuno, nel dibattito che segue, entra nel merito. Peccato, pazienza. Seguono Libia, Balcani, Cina, Stati Uniti. Rivoluzione verde e digitale. Appello ai «liberali, europeisti, popolari, socialisti». Volenterosi, insomma. Disponibili. Costruttori. Un cenno a Mattarella, un appello finale ai cittadini: abbiate pazienza per questo «gesto di irresponsabilità che ci ha precipitato in una condizione di incertezza». Il premier parla al popolo, non al Parlamento, in diretta tv. Un giorno magari capitalizzerà il consenso. Niente sui russi che processano l'oppositore Aleksey Navalnyj, troppo compromettente. Niente su Regeni, l' Egitto, ma - dirà l' uomo beige - non era quella la sede. Ok. Siamo in Eterna Repubblica, non la prima nè seconda nè terza. Siamo nella notte delle trattative. È questione di vita o di morte, c'è il Covid, la gente non capisce perché ci sia una crisi e il premier, francamente, neppure. Sia data fiducia al testimone della sposa che, ben educato, chiede, con franchezza: Aiutateci. Ha un completo impeccabile. È ben introdotto, duttile. Conviene agli invitati, a conti fatti. L' alternativa, anche per il Colle, è catastrofica. Ci fu già Bertinotti, anni fa, a deflettere. Fu quello che fu. Chi ricorda, ricorda. Beige is the new black. The new red. È lo stesso, ora che la sinistra non c' è.

Fabrizio Caccia per il "Corriere della Sera" il 19 gennaio 2021.

Valentina Fico, le è piaciuto il discorso del premier alla Camera?

«Sì. Mi è piaciuto il richiamo alla coesione e alla responsabilità, l'umiltà nell'ammettere che non tutto è stato perfetto e nel chiedere aiuto a tutto il Parlamento per superare la crisi sanitaria ed economica».

Si direbbe che anche dopo la fine del loro matrimonio, il rapporto tra Giuseppe Conte e la sua ex moglie, 46 anni, componente della VII sezione dell'Avvocatura dello Stato e mamma del piccolo Niccolò, sia rimasto eccellente. Così, alla vigilia del voto in Senato, cruciale per le sorti del governo, lei accetta di rispondere via email a qualche domanda.

Riuscirà il premier ad ottenere la fiducia?

«Non ho poteri divinatori. Però spero di sì, soprattutto perché una crisi al buio ora non possiamo permettercela. Probabilmente non ci sarà una maggioranza assoluta, ma non serve per la fiducia. Poi si vedrà».

Gli vuole mandare una frase di incoraggiamento?

«Gliene dico tante in privato!».

Di certo, da quel che scrive su Facebook, a lei Matteo Renzi non sta simpaticissimo. «Renzi all'inizio della carriera politica mi piaceva. Ma per mia natura non apprezzo le persone troppo spregiudicate e le espressioni eccessive di cinismo e di inaffidabilità, neanche in politica, dove pure in un certo grado sono fisiologiche. Comunque il mio parere non conta, ma temo che ormai non sia simpatico a una buona parte degli italiani».

Da "Libero quotidiano" il 20 gennaio 2021. Festona di Capodanno a casa di Valentina Fico. Chi è? L' ex moglie di Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio. Che, noncurante del Decreto Natale firmato dall' ex marito, ha celebrato in casa le feste con un tot di amici. In numero superiore alle disposizioni governative, che prevedevano la raccomandazione di non ricevere in casa più di due persone adulte non conviventi. Invece, nelle foto caricate su Facebook dalla signora Fico, si vede una comitiva assortita di persone assembrate e senza mascherina. In un altro scatto c' è anche la classica tombolata natalizia. Valentina, bellissima e giunonica, è un avvocato come l' ex marito. Separati ma in ottimi rapporti. Tanto che lei spesso pubblica post in sostegno del capo del governo e contro i suoi più acerrimi avversari. Tipo Matteo Renzi.

La diretta della crisi di governo. Conte al Senato per la fiducia: “Da Italia Viva attacchi scomposti, nuovo vincolo politico con chi ha a cuore il Paese”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 19 Gennaio 2021. Un discorso praticamente fotocopia, rivendicano gli stessi successi, prendendo ancora una volta le distanze da Italia Viva ‘colpevole’ della crisi politica e chiudendo le porte al rientro dei renziani nella maggioranza di governo. Giuseppe Conte parla nell’Aula del Senato per cercare la fiducia e proseguire la sua esperienza di governo assieme a Partito Democratico e Movimento 5 Stelle e lo fa fornendo un assist ai "volonterosi". Chiaro infatti il progetto politico dell’avvocato pugliese: andare avanti, senza dimissioni, con un Conte 2-bis allargato al centro e ai nuovi “costruttori”, un tempo assai recente bollati come voltagabbana. Fra gli iscritti a parlare dopo le comunicazioni di Conte ci sono tra gli altri anche Matteo Renzi e Matteo Salvini: il primo lo farà durante la discussione generale, il secondo per le dichiarazioni di voto dei gruppi. Conte ha prima aperto il suo discorso ricordando la scomparsa di Emanuele Macaluso, storico parlamentare comunista e giornalista morto oggi a 96 anni, poi ha discusso di quelli che ritiene i meriti del suo esecutivo, elencando alcune misure approvate nei mesi di governo. Integrando e modificando quindi il suo discorso di ieri alla Camera, Conte spiega che “non intendevo dire che i ristori sono sufficienti a compensare le perdite subite”. Altro punto diverso rispetto al discorso di lunedì in un passaggio sull’Unione Europea: il premier ha infatti introdotto il tema della Conferenza sul futuro dell’UE, un’ampia consultazione della politica e della società civile sul progetto di integrazione europea, che si terrà probabilmente fra 2021 e 2022. L’attacco a Italia Viva arriva invece prima del previsto. Conte infatti si è difeso dalle accuse dei renziani di non aver nominato i commissari per sbloccare i cantieri, come previsto dal cosiddetto decreto semplificazioni. “Le opere non sono bloccate, non sono mai state bloccate, perché è stato attuato l’articolo che dà ai commissari speciali poteri” per portarle avanti. E lo dimostra il fatto che nel 2020 abbiamo avuto 43,3 miliardi di appalti rispetto ai 39,4 miliardi nel 2019”, ha spiegato ai senatori il premier. Quanto alla crisi innescata dalle dimissioni delle ministre renziane Bonetti e Bellanova, Conte riprende il discorso già tenuto ieri alla Camera: “Si è aperta una crisi che oggi deve trovare qui, in questa sede, il proprio chiarimento secondo i principi di trasparenza del confronto e della linearità di azione che ha caratterizzato il mio mandato”. Quindi l’attacco sulle motivazioni della crisi, ancora una volta senza citare Matteo Renzi: “Tante famiglie che ci stanno guardando in questo momento stanno soffrendo per la perdita dei propri cari. Confesso di avvertire un certo disagio. Sono qui oggi non per illustrare la bozza ultima, migliorata del Recovery Plan, ma per provare a spiegare una crisi di cui immagino i cittadini, ma devo confessarlo, io stesso, non ravviso alcun plausibile fondamento. C’era bisogno di aprire una crisi politica in questa fase? No”. Contro i renziani è arrivato un attacco piuttosto duro, già pronunciato ieri ma che oggi è stato sottolineato dal rumoreggiare dei senatori: il premier ha infatti parlato di “attacchi mediatici molto aspri e a volte anche scomposti” da Italia Viva. A differenza del discorso di ieri, Conte si è anche difeso da alcune critiche sull’operato dell’esecutivo: “Mi sono state rivolte accuse di immobilismo e al contempo di non avere la capacità di decidere. Posso dire che è complicato lavorare e governare così, con chi continuamente dissemina mine sul percorso comune, in continuazione, e mira a logorare un equilibrio politico pazientemente raggiunto dalle forze di maggioranza”. Conte è quindi tornato su uno dei temi più discussi del discorso di lunedì alla Camera, la politica estera del suo esecutivo e il mettere sullo stesso piano i rapporti tra Cina e Stati Uniti. Su quest’ultimi ha spiegato che inizierà a lavorare da subito” col nuovo presidente statunitense Joe Biden, dopo il grande rapporto di ‘amicizia’ che lo legava a Donald Trump. Il premier ha ribadito anche la volontà di promuovere, “nel rispetto delle determinazioni delle forze parlamentari”, una riforma elettorale di impianto proporzionale “quanto più possibile condivisa, trattandosi di una riforma di sistema, che possa coniugare efficacemente le ragioni del pluralismo della rappresentanza con l’esigenza, pur ineludibile, di assicurare una complessiva stabilità al sistema politico”. “Vorrei chiarire – aggiunge – su questo punto, leggo interpretazioni maliziose. Negli anni passati abbiamo vissuto una frammentazione della rappresentanza, il quadro politico si è andato differenziando e nuovi processi si sono imposti. Con questo quadro non possiamo fare una legge elettorale che costringa nello stesso involucro sensibilità molto diverse: questo porterebbe alla instabilità. Piuttosto bisogna favorire appieno, se vogliamo ricomporre il quadro, la rappresentanza democratica di tutte le realtà che sono sul campo. Ovviamente poi le forze politiche per governare saranno chiamate a sottoscrivere accordi su programmi di alto profilo, alto contenuto ideale”. Anche nel discorso al Senato il presidente del Consiglio ha ribadito che per quanto riguarda la delega ai servizi segreti sarà affidata a terzi, come richiesto da settimana da Italia Viva: “Evitiamo polemiche strumentali sulle donne e gli uomini del comparto dell’Intelligence”. Quanto ai numeri che potrà avere in Senato il suo governo, Conte ha chiarito che “non possiamo farci trovare impreparati o distratti. Siamo tutti chiamati a compiere, ciascuno per il proprio ruolo, uno sforzo collettivo per essere all’altezza di queste sfide. Per questo, il Governo ha bisogno della massima coesione possibile e del più ampio consenso in Parlamento“. Per questo “servono forze parlamentari volenterose, consapevoli delle difficoltà che stiamo attraversando e della delicatezza dei compiti”. “Certo i numeri sono importanti – ha sottolineato Conte – oggi lo sono ancor di piu’. Questo e’ un passaggio fondamentale nella vita istituzionale del nostro Paese ma è ancora più importante la qualità del progetto politico“. “Servono un Governo e forze parlamentari volenterose, consapevoli delle difficoltà che stiamo attraversando e della delicatezza dei compiti – ha rinnovato il proprio appello Conte – servono donne e uomini capaci di rifuggire gli egoismi e di scacciare via la tentazione di guardare all’utile persona. Servono persone disponibili a riconoscere l’importanza della politica. La politica è la più nobile tra le arti e tra i saperi, se indirizzata al benessere dei cittadini. Quando la politica si eclissa questa istanze rischiano di essere ai margini o, peggio di sfociare in rabbia o nello scontro violento“. “Costruiamo questo nuovo vincolo politico, rivolto alle forze parlamentari che hanno sostenuto con lealtà il Governo e aperto a tutti coloro che hanno a cuore il destino dell’Italia. Io sono disposto a fare la mia parte. Viva l’Italia“, è stata quindi la conclusione dell’intervento di Conte in Aula, riprendendo praticamente con le stesse parole quello di ieri a Montecitorio. I senatori del Pd e dei 5 Stelle si sono alzati in piedi, brusio dall’opposizione tanto che la presidente Elisabetta Casellati ha richiamato all’ordine e al silenzio, per far cominciare la discussione.

Fabrizio Roncone per il "Corriere della Sera" il 19 gennaio 2021. Tanto per inquadrare la giornata. Finora abbiamo dovuto contare 82.554 bare. Oggi il Covid ne ha uccisi altri 377. C'è un'intera popolazione da vaccinare, i disoccupati sono milioni, sulla presentazione del Recovery fund siamo in grave ritardo. Ma intanto eccoci qui. A Montecitorio. Per capire se l'Italia ha ancora un governo. E un premier. Il primo che compare è però il suo portavoce, Rocco Casalino. Rumore di tacchi, gli enormi lampadari del corridoio accesi anche se manca poco a mezzogiorno: Rocco ha smarrito la sua aria spavalda da io sono io, goccioline di sudore gli scivolano sopra la mascherina, viene avanti con passo nervoso nel suo abito scuro, aderente, da bodyguard di provincia. Lui avanti, Giuseppe Conte subito dietro. Occhiaie. I capelli ormai ingrigiti sulle tempie e il ciuffo fermato con la lacca. La pochette portafortuna. Una scia di profumo al limone. La voce letargica con cui pronuncerà la frase cult del suo discorso. «A chi ha a cuore il destino dell'Italia, dico: aiutateci». Conte prende posto nell'emiciclo e ciò che colpisce sono gli sguardi bassi, i silenzi, la cappa di mortificazione che avvolge i banchi dove siedono i deputati del Pd, dei 5 Stelle, di Leu. A questo voto di fiducia - non scontato e, come si sa, del tutto incerto a Palazzo Madama - Conte arriva infatti dopo aver trascorso giorni e notti a fare calcoli. Sostituire il capriccioso Matteo Renzi e i suoi di Italia viva, alla fine, si è rivelata un'operazione assai complessa. Mercato osceno. Sono state promesse ricandidature sicure e ministeri (Renzi racconta che a lui è stato proposto addirittura quello degli Esteri), le preghiere si sono alternate alle minacce. Evocate le dolorose figure di Razzi e Scilipoti. Clamoroso l'intervento di uno specialista del rango di Clemente Mastella («Sono un uomo di centro, un cattolico, abituato ad aiutare il prossimo. Il problema non è mai tenere una chiappa a destra e una a sinistra. L'abilità è capire dove è opportuno sedersi. Stavolta, per esempio, ho detto a molti parlamentari: sedetevi accanto a Conte, e votategli la fiducia»). Da una porta esce Dario Franceschini, ministro della Cultura, e anche lui si avvia frettoloso verso gli scranni del governo. Non è uno che di solito sprizzi allegria, ma questa mattina ha uno sguardo proprio torvo. A lui, uno dei leader del Pd, è toccato il compito di pronunciare la frase più drammatica delle ultime ore: «Responsabili è una parola positiva». Il collega di partito Emanuele Fiano, con sensibilità, ha precisato: «In realtà non vogliamo responsabili, ma responsabilità». Nel suo discorso Conte li chiama comunque «volenterosi», e il passaggio ha il suono del vero e proprio appello - inevitabile s' alza il coro «Ma/ste/lla! Ma/ste/lla!». Luigi Di Maio, già di suo sempre tutto perfettino, sembra di cartone: comprensibilmente immobile. Un po' la storia che quegli spietati del Pd (ma chi? Goffredo Bettini?) non avrebbero esitato a sfrattarlo dalla Farnesina; un po' che nel 2017 stava lì a raccontarci che lui i voltagabbana li detestava, e che «il mercato delle vacche va fermato». Quelli della Lega si spazientiscono però quando Conte dice che «in nessun altro Paese il Parlamento è stato così tanto coinvolto come in Italia per il Recovery»: in realtà ci sarebbe da prenderla a ridere, che se non era per Renzi - questo gli va riconosciuto - stavamo ancora con tre fogli dentro una cartellina fatta arrivare ai partiti alle due di notte; i leghisti cominciano a urlare «Bugiardo!», pugni mulinati nell'aria, fischi, esposti tre cartelli: «Conte dimettiti». Ma il premier li ignora. Prosegue annunciando una legge proporzionale e la rinuncia alle deleghe per i Servizi e per il ministero dell'Agricoltura (promesso, sembra, all'Udc). Renzi mai nominato. Per lui, però, durissime allusioni: «Quel che è successo è incancellabile». La Boschi, opportunamente, ha un look cimiteriale: abito nero, e nera è pure la mascherina. Italia viva perde tre pezzi (FI, per ora, solo Renata Polverini): Vito De Filippo è già tornato con il Pd, Michela Rostan annuncia che, tra poco, voterà per il governo, Giacomo Portas non vota. Poi si alza il loro ex presidente, Ettore Rosato, e dice che «tra i 5 Stelle ci sono persone capaci di capire come capiamo noi». I grillini si guardano: sta dicendo che non siamo tutti scemi? Conte parla 55 minuti e prende, in totale, 14 applausi (alcuni stiracchiati). Il più forte della giornata è però per Giorgia Meloni (una deputata del Pd: «Giuro: avrei voluto batterle le mani anche io»). Sentite il capo di Fratelli d'Italia: «Avvocato Conte, stamattina mi sono vergognata per lei, non solo per quell'"aiutateci" che tradiva la sua disperazione, ma per il mercimonio che ha inscenato in quest' Aula». Giornata politicamente straziante. Sensazione fortissima: più che una crisi di governo, questa è una crisi di sistema. I numeri, alla fine, dicono: 321 voti a favore, 259 contrari, 27 astenuti. Stiamo andando tutti a Palazzo Madama in tragico pellegrinaggio.

Governo, sì del Senato alla fiducia con 156 voti. Ma scoppia il caso Ciampolillo. Sì dei forzisti Rossi e Causin. Meloni e Salvini: "Ci rivolgeremo al Colle". Conte: "Cercheremo maggioranza più forte". Stefano Cappellini,  Tommaso Ciriaco,  Annalisa Cuzzocrea,  Emanuele Lauria,  Carmelo Lopapa,  Laura Mari,  Monica Rubino,  Concetto Vecchio,  Giovanna Vitale su La Repubblica il 19 gennaio 2021.  La crisi in diretta. Con l'esame delle telecamere dell'Aula è stato verificato che l'ex M5S e il senatore del Psi Nencini hanno votato prima della chiusura della seconda "chiama". Al Senato il governo incassa la fiducia con 156 sì, 140 no e 16 astenuti, ma è bagarre prima della proclamazione del risultato. Tutto per il voto in extremis dei senatori Ciampolillo (ex M5S) e del Psi Nencini. Dopo l'esame dei video delle telecamere dell'Aula, è stato verificato che i due avevano annunciato il loro voto prima che la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, chiudesse la votazione. Ma ci sono state contestazioni e la procedura è stata a lungo in sospeso. I sì ottenuti (156) sono stati di sette voti superiori alla maggioranza che era fissata a quota 149. "Se non ci sono i numeri il governo va a casa", ha detto nel pomeriggio il presidente del Consiglio Giuseppe Conte proprio nel giorno più difficile per il suo esecutivo. E dopo il voto: "Ora rendiamo la maggioranza più solida". I senatori di Italia viva si sono astenuti mentre, a sorpresa, due forzisti, Maria Rosaria Rossi e Andrea Causin, hanno votato sì alla fiducia, come fatto ieri alla Camera dall'ormai ex azzurra Renata Polverini. Il leader di Iv, Matteo Renzi, ancora una volta nel pomeriggio ha sferrato un duro attacco al premier per il  "mercato indecoroso di poltrone" e ha chiarito: "Serve un esecutivo più forte". Parole a cui il premier, altrettanto duramente, ha replicato: "Sono sempre stato disponibile al dialogo, ma Iv ha scelto la via dell'arroganza". Alla fine Renzi ha comunque esultato: "Davvero Conte se la sente di andare avanti con questi numeri? Se la sente di fronte alla pandemia di andare avanti così? Non hanno i numeri nelle commissioni". Tornando ai voti, i renziani, come già avvenuto ieri alla Camera, si sono astenuti. La linea è stata decisa nel pomeriggio in un'assemblea, anche se nel gruppo di Italia viva i senatori Ernesto Magorno e Gelsomina Vono avevano espresso la volontà di votare no. Dello stesso parere anche una nutrita pattuglia di altri renziani. I senatori del Misto, Pier Ferdinando Casini e Mario Monti, hanno annunciato il loro sì alla fiducia, come l'ex 5S Gregorio De Falco. L'Udc, invece, ha votato no come il centrodestra. "Non cercate volenterosi, ma complici per non perdere poltrona", ha attaccato il leader della Lega Matteo Salvini rivolgendosi a Conte. Che poi ha citato una frase shock nei confronti dei senatori a vita (in Aula presente Liliana Segre, accolta in mattinata da un lungo applauso) pronunciata, sostiene, da Beppe Grillo: "O non muoiono mai o muoiono troppo tardi", ha detto Salvini suscitando le proteste di maggioranza e opposizione. Nel suo discorso Conte questa mattina ha rinnovato l'appello ai volenterosi che hanno a cuore il destino dell'Italia, ha ricordato Emanuele Macaluso, storico dirigente comunista scomparso oggi e ha citato Mattarella. Ha affrontato il tema della crisi: "È complicato governare con chi dissemina mine nella maggioranza". E ha ricordato che la riforma della legge elettorale verso il proporzionale si farà "con il Parlamento".

Ore 08:34. Romano (Pd): "Voto Polverini trasparente, apprezzata sua coerenza"

"La decisione di Renata Polverini di votare a favore della fiducia al governo Conte è stata fatta con trasparenza. Va dato atto all'onorevole Polverini di essere stata molto coerente. E' giusto secondo me votare secondo coscienza, pensando soltanto a fare il bene del Paese. Penso che al Senato vedremo altre novità", ha detto il deputato Pd, Andrea Romano a Cusano Italia Tv.

Ore 09:31. Salvini: "L'unica soluzione è il voto"

Lo ribadisce il leader della Lega Matteo Salvini entrando in Senato per partecipare al voto di fiducia. E aggiunge: "Sull'abolizione dei senatori a vita non ho cambiato idea".

Ore 09:34. Conte entra in Senato

Il presidente del Consiglio Conte è arrivato a Palazzo Madama per le comunicazioni sulla situazione politica.

Ore 10.38. Conte: "Serve politica per cittadini, o rischio rabbia"

"Servono un Governo e forze parlamentari volenterose, consapevoli delle difficoltà che stiamo attraversando e della delicatezza dei compiti, servono donne e uomini capaci di rifuggire gli egoismi e di scacciare via la tentazione di guardare all'utile persona. Servono persone disponibili a riconoscere l'importanza della politica. La politica è la più nobile tra le arti e tra i saperi, se indirizzata al benessere dei cittadini. Quando la politica si eclissa queste istanze rischiano di essere ai margini o, peggio di sfociare in rabbia o nello scontro violento - dice il premier Giuseppe Conte intervenendo al Senato - Solo la politica ci permette di interpretare il malessere della società, impedendo che sfoci in istanze distruttive", spiega Conte sottolineando la necessità di "mettere in forma politica le aspirazioni, i bisogni, la possibilità di esprimersi. Penso innanzitutto ai lavoratori".

Ore 10.44. Conte: "Guardiamo con grande attenzione alla presidenza di Biden"

"Guardiamo con grande attenzione alla presidenza Biden, con la quale inizieremo a lavorare subito". C'è infatti "un'agenda in comune che spazia da un multilateralismo, che vogliamo entrambi efficace, ai cambiamenti climatici, alla rivoluzione verde e alla rivoluzione digitale". Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte lo dice svolgendo le sue comunicazioni sulla situazione politica nell'Aula del Senato. "ci adopereremo al fine di avere rapporti con la Cina, player globale", aggiunge, restando "pienamente ancorati a nostro sistema di valori e principi".

Ore 10.50. Conte cita Mattarella: "La fiducia si costruisce con la responsabilità delle istituzioni e i sentimenti delle persone"

Come ha affermato il Presidente della Repubblica nel suo messaggio di fine anno, "la fiducia di cui abbiamo bisogno si costruisce così: tenendo connesse le responsabilità delle Istituzioni con i sentimenti delle persone".

Ore. 10.53. Lungo applauso a fine discorso Conte al Senato

Un lungo applauso durato più di un minuto ha segnato la fine dell'intervento di premier Giuseppe Conte nell'aula del Senato. I senatori del Pd e dei 5 Stelle si sono alzati in piedi, brusio dall'opposizione tanto che la presidente Elisabetta Casellati ha richiamato all'ordine e al silenzio, per far cominciare la discussione.

Ore 10.56. Iniziata discussione generale in Senato, esito del voto atteso per le 20.30

Concluse le comunicazioni del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, sulla situazione politica, è iniziata nell'Aula del Senato la discussione generale. La replica di Conte è attesa intorno alle 17,30. Poi le dichiarazioni di voto sulla fiducia che sarà chiesta sulle comunicazioni. Intorno alle 19,30 l'avvio del voto il cui esito è atteso intorno alle 20,30.

Ore 10.58. Segre in aula Senato, applausi e senatori in piedi

La senatrice a vita Liliana Segre, che voterà la fiducia al governo, è entrata nell'aula del Senato, accolta dagli applausi e dai parlamentari che si sono alzati, per omaggiarla. A salutarla, dal microfono, è stato Pier Ferdinando Casini durante il suo intervento dopo le comunicazioni del premier Conte in Aula.

Ore 11.08. Monti: "Voto la fiducia"

"Annuncio il mio voto di fiducia, non porto voti se non il mio. E il mio è un voto di fiducia, come sempre, libero e condizionato a quelli che saranno i provvedimenti e se corrisponderanno a quelle che sono le mie convinzioni. Se così sarà in futuro, non solo appoggerò ma mi adopererò presso l'opinione pubblica, inclusa quella internazionale, per sostenere ciò che verrà fatto" dal governo. Lo ha annunciato, intervenendo in Aula, l'ex presidente del Consiglio e senatore a vita Mario Monti.

Ore 11.10. Casini annuncia voto favorevole in Senato

Pier Ferdinando Casini annuncia voto favorevole al governo. È il primo senatore ad intervenire in Aula al Senato dopo le comunicazioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla crisi politica. Casini chiede però di "recuperare il cammino comune con chi ha fatto prevalere ragioni divisive".

Ore 11.23. Nencini: "Valuteremo la proposta, abbiamo sostenuto il governo da apolidi"

"Noi socialisti valuteremo a tempo il suo proposito, tendendo conto che in questi mesi abbiamo sostenuto il governo da apolidi. Ci sta a cuore solo un progetto di rinascita per l'Italia". Lo ha detto Riccardo Nencini in aula al Senato dopo le comunicazioni del premier.

Ore 12:25. Maie-Italia23 annuncia il sì alla fiducia

Il gruppo Maie-Italia23 voterà la fiducia al governo. Lo ha annunciato il senatore Raffaele Fantetti intervenendo al Senato.

Ore 12:21. Bonino: "Non voterò la fiducia"

"Ci serve un governo forte e responsabili e quello di Conte non lo era prima e non lo sarà dopo. Per questo non gli voterò la fiducia", dichiara in aula la senatrice di Più Europa Emma Bonino. Che aggiunge: "Non spetta a Conte né favorire né ostacolare le riforme a partire da quella della legge elettorale: è una prerogativa parlamentare".

Ore 12:43. Aula del Senato sospesa per sanificazione

I lavori riprendono alle 13:35.

Ore 12:45. Al Senato spunta Scilipoti

"Se sono qui per godermi lo spettacolo? Ma qui non c'è niente di cui godere. Qui è l'Italia che rischia". Domenico Scilipoti, protagonista della stagione dei 'responsabili' che nel 2010 salvarono il governo Berlusconi, si aggira per il Transatlantico del Senato in una giornata cruciale per la sopravvivenza dell'esecutivo.

Ore 12.46. Fonti Iv, confermata astensione su voto fiducia al Senato

2Per il momento i senatori di Italia viva sono compatti: la linea confermata è quella dell'astensione". Lo dicono fonti qualificate di Iv, interpellate dall'Ansa a margine dei lavori del Senato sulla linea che terranno nel voto in Aula i 18 senatori di Italia viva. "La sensazione - dicono le stesse fonti - è che la maggioranza sia lontana da 161", cioè dalla soglia della maggioranza assoluta. Intorno alle 15 interverrà in Aula in discussione generale per Iv, per 20 minuti, Matteo Renzi. 

Ore 12.49. De Falco: "Voto fiducia a Conte"

"Voterò la fiducia al governo. L'esecutivo si è impegnato a mettere in atto un'operazione di soccorso alla popolazione, grazie alla predisposizione di strutture di prossimità per effettuare test rapidi anti-Covid". Lo dice il senatore Gregorio De Falco, intercettato in Transatlantico a Palazzo Madama.

Ore 12.57. Senato, al via vertice del centrodestra

E' iniziato da pochi minuti il vertice del centrodestra per fare il pinto della situazione politica in vista del voto di fiducia al Senato. Alla riunione partecipano Matteo Salvini (Lega), Giorgia Meloni (Fdi), Antonio Tajani (Fi), Giovanni Toti e Gaetano Quagliariello (Cambiamo), Maurizio Lupi (NcI) e Lorenzo Cesa (Udc). Alla riunione partecipa anche Silvio Berlusconi collegato via Zoom.

Ore 13.17. Toti: "I senatori di Cambiamo non voteranno la fiducia"

"Sono a Roma con i tre senatori di Cambiamo che oggi non voteranno la fiducia a questo Governo, proprio come hanno fatto i nostri deputati ieri alla Camera. Non siamo ideologici, non siamo faziosi né pregiudizialmente ostili a nessuno. Ma questo esecutivo così com'è, con linee politiche che non abbiamo mai condiviso, non ci interessa", scrive su Facebook il presidente di Cambiamo e governatore della Liguria, Giovanni Toti.

Ore 13.26. Lonardo (Misto): "Voterò fiducia a Conte"

"Ho sentito il discorso del presidente Conte e mi è sembrato propositivo"., dice l'ex forzista Sandra Lonardo ora senatrice del gruppo Misto. Voterà la fiducia? "Certo che la voterò", dice all'Ansa nei corridoi di Palazzo Madama.

Ore 13.43. Senato, ripresa la discussione in Aula

Dopo la pausa per la sanificazione dell'Aula, in Senato è ripresa la discussione generale sulle comunicazioni del presidente del consiglio sulla situazione politica. Sono ancora 31, su 45 iscritti a parlare, i senatori che devono intervenire.

Ore 13.53. Segre: "Sono in Senato per votare sì alla fiducia"

"Che sia venuta è già una risposta. Sono venuta a votare sì". Lo dice la senatrice a vita Liliana Segre a chi la interpella in Senato sulle sue intenzioni di voto sulla fiducia, dopo le comunicazioni del premier Giuseppe Conte. A chi le domanda un'opinione sul discorso di Conte, risponde: "Sono stata prestata alla politica, senza essermene mai occupata, dal presidente Mattarella che un giorno mi ha fatto senatrice a vita. Io sono spettatrice - aggiunge - Ho iniziato molte cose tardi ma tardi così, non pensavo. Devo rileggere quel discorso, capire se ha toccato certi punti che mi interessano".

Ore 13.57. Terminato vertice del centrodestra

Si è concluso il vertice di centrodestra per fare il punto della situazione politica sulla crisi di governo in vista del voto di fiducia al Senato. I leader della coalizione sono tornati a riunirsi per coordinare la strategia dell'opposizione.

Ore 14.00. Di Maio: "Segre ha acceso luce di speranza"

"Liliana Segre, testimone della Shoah italiana e senatrice a vita. All'età di 90 anni si è recata al Senato per votare la fiducia a questo governo. In uno dei momenti più bui della storia recente, ha acceso una luce di speranza. È l'applauso più bello. All'Italia più bella. Grazie del tuo insegnamento". Lo scrive su Facebook il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

Ore 14.01. Senatore Marino (Iv) assente per Covid

Il senatore di Italia viva Mauro Marino è assente alla seduta odierna per il Covid. Matteo Renzi riunirà i senatori di Iv dopo il suo intervento in aula previsto intorno alle 15,30 A quanto si apprende da fonti di Iv, i senatori presenti sono 17 e non 18, per la positività di Marino, e sono compatti sull' astensione.

Ore 14.05. Conte tarda a rientrare nell'Aula del Senato

Nei primissimi minuti della ripresa della discussione sulle comunicazioni del premier Giuseppe Conte al Senato, il capo del governo è assente nell'Aula di Palazzo Madama. Conte, tuttavia, nell'ora di pausa dei lavori, a quanto si apprende, non ha fatto rientro a Palazzo Chigi, restando al Senato.

Ore 14.19. Bellanova (Iv): "Orientamento è astensione su voto fiducia"

"Il discorso del premier in Aula al Senato, non mi è piaciuto perchè non ha dato risposte ai temi che abbiamo posto e che hanno portato alle nostre dimissioni", dice l'ex ministra renziana Teresa Bellanova a Un Giorno da Pecora su Rai Radio1. "Riuniremo il nostro gruppo prima del voto - prosegue - ma l'orientamento unanime è  di astenerci. Tutti i 17 senatori di Italia Viva presenti si asterranno. Farò io la dichiarazione di voto per il mio gruppo".

Ore 14.20. Binetti (Udc): "Oggi voto no, ma mai dire mai"

Conferma il No alla fiducia? "Confermo. Voto no a tutto il pregresso che è stato raccontato da Conte, "poi vediamo". Lo dice la senatrice dell'Udc Paola Binetti a margine dei lavori del Senato. "Avreste immaginato l'alleanza M5S-Lega o quella M5S-Renzi? Ora ci sarà un'alleanza con il centro? Mai dire mai", afferma sul futuro. "Alcune diversità ci sarebbero, certo" rispetto ad altri partiti dell'attuale maggioranza. E temi come la cannabis o l'eutanasia sono "un freno sul futuro". Però "non si può essere manichei" e serve "resilienza": "Mantenere fedeltà a se stessi nel contesto dato", dice.

Ore 14.21. Centrodestra: "Da Conte cinica operazione di trasformismo"

"Ancora una volta il presidente del consiglio ha raccontato al Parlamento un Paese che non esiste, cercando di mascherare una cinica operazione di trasformismo con una operazione politica. Il centrodestra è al lavoro per costruire l'alternativa". E' quanto si legge in una nota del centrodestra.

Ore 14.25. Gasparri (Fi): "Centrodestra dirà no al proporzionale"

"Il ritorno al proporzionale non ci sarà. Il centrodestra unito dirà no a una legge che serve solo al trasformismo", a dirlo il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri  nel dibattito sulle comunicazioni del presidente del Consiglio .

Ore 14.44. Santanchè (Fdi): "Conte la qualunque cambia maggioranza come pochette"

Un governo "Conte la qualunque", il premier è "uno, nessuno centomila, cambia le maggioranza con la facilità con cui cambia la sua famosa pochette, per rimanere su quella poltrona dove ancora siede".. A dirlo è la senatrice di Fratelli d'Italia Daniela Santanchè. Conte, insiste, "non ha a cuore l'interesse degli italiani, il suo interesse è non abbandonare la cadrega".

Ore 14.47. Bellanova (Iv): "Astensione è gesto di disponibilità"

"L'astensione è l'opportunità di dire se volete riprendere il discorso sui contenuti, sui temi posti anche dal Pd e altre forze, per noi è ok. Se invece c'è l'autosufficienza e si pensa che raccattando un po' di voti si possa andare avanti, allora a quel punto anche il nostro gesto di disponibilità sarà valutato in futuro". Lo sostiene l'ex ministra renziana Teresa Bellanova  a Un giorno da pecora su Rai Radio2. "Noi - aggiunge - siamo disponibili a tornare a discutere di argomenti, di questioni come lavoro, mercato, giovani, scuola, donne al lavoro. "Chi ha cominciato a cercare voti altrove non siamo stati noi - conclude  Bellanova - abbiamo chiesto ripetutamente di aprire un tavolo per un confronto, ma la campagna acquisti, evidentemente, era già partita".

Ore 14.48 Cerno: "Torno al Pd e voto fiducia a Conte"

"Stasera torno al Pd, da indipendente e senza tessera, e voterò molto convintamente la fiducia al governo Conte". A dirlo all'Ansa, il senatore Tommaso Cerno, che un anno fa aderì al gruppo Misto lasciando i dem. "Sostengo da sempre l'alleanza Pd-M5s anche quando sembrava un'ipotesi assurda - ha aggiunto - Nel suo discorso Conte ci ha detto che ha un progetto politico, che andrà avanti anche senza Renzi. Insomma è più importante il progetto politico e, visto che Conte ha rottamato Salvini e da oggi Renzi, significa che l'alleanza Pd-M5s è politica. Quindi - conclude - mi dà garanzia che sta dicendo la verità, ci sto e torno al Pd".

Ore 15.08. Legge elettorale, politica internazionale e valore delle idee: le differenze del discorso di Conte al Senato

Un discorso sostanzialmente simile a quello di ieri, ma con qualche differenza. Rispetto al suo intervento alla Camera, oggi al Senato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha sfumato alcune frasi che ieri avevano suscitato critiche e perplessità, sopratutto da parte dell'opposizione e di Italia viva. Per prima cosa, ha ribadito la centralità del Parlamento per l'approvazione di una nuova legge elettorale proporzionale, cosa che ieri era mancata. Poi, senza mai citare espressamente Renzi come già avvenuto alla Camera, Conte ha corretto il tiro sulla politica internazionale evitando di equiparare la Cina agli Stati Uniti, come avvenuto ieri nell'Aula di Montecitorio. Poi maggiore attenzione al Sud e, infine, nel suo appello hai "volenterosi" ha oggi sottolineato l'importanza "delle idee e dei progetti" più che dei voti.

Ore 15.09. Tajani (Fi): "Non mi risultano voti ballerini"

"Siamo compatti nel centrodestra, non mi risultano voti ballerini al Senato", assicura il vicepresidente di Forza Italia, Antonio Tajani, dopo il vertice di centrodestra. Ieri, dopo il voto dell'ex azzurra Polverini a fvore della fiducia a Conte, Tajani aveva commentato "non ci aveva detto nulla".

Ore 15.14. Pinotti (Pd): "Sì a fiducia, è ora di costruire non di distruggere"

"Nel Paese c'è sconcerto e incredulità per questa crisi. A cosa è servita questa drammatizzazione? Per dire che serve un cambio di passo? Per avere un patto di legislatura? Come Pd non comprendiamo i motivi della crisi e per questo voteremo con convinzione la fiducia al governo. Si deve lavorare per costruire non per distruggere". Lo ha detto la senatrice del Pd Roberta Pinotti nel dibattito sulle comunicazioni del presidente del Consiglio sulla crisi di governo.

Ore 15.17. Comincini (Iv): "Su fiducia mi asterrò per riannodare fili dialogo con maggioranza"

"Stasera mi asterrò, l'astensione è l'unica posizione che ci consente di riannodare i fili del dialogo e del confronto coi nostri colleghi di maggioranza, una cosa di cui c'è bisogno", dice il senatore di Italia viva Eugenio Comincini a Un giorno da pecora su Rai Radio1.

Ore 15.25. Giarrusso: "Fiducia? Farò la cosa giusta"

"Cosa farò in Aula? La cosa giusta. Lo saprete dopo", dice all'Adnkronos il senatore del gruppo Misto Mario Michele Giarrusso, ex M5S, alla domanda se voterà o meno la fiducia al governo Conte.

Ore 15.51. Crucioli (M5S): "Sì a fiducia, ma solo perchè crisi peggiore"

"Sono uno di quelli che nel M5S voteranno la fiducia al governo solo perchè l'alternativa è peggiore" alla continuazione dell'esperienza del governo Conte. Lo dice  Mattia Crucioli del M5S nel dibattito sulle comunicazioni del presidente del Consiglio.

Ore 16.09. Drago tra astensione e no a fiducia

La senatrice del gruppo Misto ed ex M5s, Tiziana Drago, valuterà all'ultimo se votare la fiducia al governo, ma probabilmente oscillerà tra l'astensione e il voto contrario. L'ha riferito parlando con i cronisti a margine del dibattito al Senato. "Il mio intervento in Aula è stato critico ma ho anche detto che la mia non è una posizione personale. E comunque deciderò dopo, sapete quando si varca quella soglia..." alludendo all'emiciclo.

Ore 16.12. Saccone (Udc): "Non voteremo fiducia, ma attenzione se interesse generale"

"Non voteremo la fiducia, come abbiamo fatto sinora, al suo governo, ma la ascolteremo quando presenterà provvedimenti nell'interesse generale", dice il senatore dell'Udc Antonio Saccone intervenendo a Palazzo Madama. "Abbiamo colto in modo positivo alcuni aspetti della sua relazione - prosegue - ad esempio sul rapporto con l'Europa, e non nascondo anche l'attenzione all'aspetto della legge elettorale".

Ore 16.13. Saccone (Udc): "Aleggia in Aula una sindrome di Medea"

"Una crisi di governo al buio e quindi incomprensibile. Aleggia in questa aula la sindrome di Medea, la tragedia greca in cui la madre uccide i figli per colpire il padre", dice il senatore dell'Udc Antonio Saccone nel suo intervento al Senato. "Sappiamo - prosegue - chi è Medea non ci interessa sapere chi è il padre ciò che non permetteremo, democratici cristiani e' che i figli siano il popolo italiano. Questo non lo permetteremo".

Ore 16.28. De Siano (Fi): "Voto  no a fiducia"

"Io voto convintamente No, in linea con il mio partito". Lo dice Domenico De Siano, senatore di Forza Italia, sentito al telefono con l'Ansa sulle voci che lo accreditavano come disponibile a votare la fiducia sulle comunicazioni del premier Conte.

Ore 16.29. Senato, sospesa seduta per sanificazione. Casellati convoca capigruppo

La seduta al Senato sul voto di fiducia è stata sospesa. La presidente di Palazzo Madama, Maria Elisabetta Alberti Casellati, ha convocato la riunione della capigruppo. La seduta riprenderà alle 17.30 con l'intervento del senatore di Italia viva Matteo Renzi.

Ore 16.34. Bonetti (Iv): "Non abbiamo tradito fiducia Mattarella"

"Non abbiamo tradito la fiducia del presidente Mattarella. Ho sempre agito sempre nell'interesse della Nazione come ho giurato di fronte a Mattarella sulla nostra Costituzione", ha detto l'ex ministro per le pari opportunità e la famiglia Elena Bonetti  ospite del programma Tgtg su Tv2000. "Non c'erano le condizioni - ha ribadito  - per poter andare avanti con un governo che negava un processo di condivisione, un processo democratico, un progetto di scelte fatte banalmente fatto sulla lettura dei documenti. Di fronte a questo abbiamo voluto proporre uno scatto in avanti". E ha concluso: "I parlamentari di Italia viva non sono candidati ad essere dei transfughi. Italia Viva non è un partito costruito per occupare degli spazi. Lo abbiamo dimostrato restituendo le nostre poltrone".

Ore 16.40. Bersani: "Maggioranza relativa al Senato? Già capitato"

"Al Senato saremo tra la maggioranza relativa e quella assoluta, come è già capitato in passato a tanti governi. Ma quando alla Camera ci sono tanti voti di differenza, vuol dire che Iv ormai non è determinante e che o si trova questa soluzione o si va a votare". Così Pierluigi Bersani, su Rai Radio 1.

Ore 17.11. Senato, il voto della fiducia slitta alle 22

Con la sospensione della seduta di Palazzo Madama per sanificare l'Aula si allungano i tempi per arrivare al voto finale. Alle 17.30 la seduta riprenderà con l'intervento di Matteo Renzi, a conclusione degli interventi dei senatori dovrebbe esserci la replica del premier Giuseppe Conte seguita dalle dichiarazioni di voto. Il risultato della votazione sulla fiducia al governo si attende attorno alle 22.

Ore 17.20. Gasparri (Fi): "In Forza Italia due assenti giustificati, ma non determinante"

"In Forza Italia ci sono due assenti giustificati, i senatori Biasotti a cui è morta la mamma e Sciascia che non sta bene. Ma la presenza di chi vota No non è determinante, l'assenza è assolutamente giustificata". Lo dice il senatore azzurro Maurizio Gasparri in Transatlantico in Senato.

Ore 17.34. Riprende la seduta al Senato

La seduta del Senato per la votazione sulla fiducia al governo è ripresa. Ora sta intervendo il senatore Matteo Renzi, leader di Italia viva.

Ore 17.35. Renzi (Iv): "Storia volge al termine. Serve un esecutivo più forte"

""Signor presidente, se lei parla di crisi incomprensibile, le spiego le ragioni che hanno portato la nostra esperienza al termine", ha esordito il leader di Iv Matteo Renzi nel suo intervento al Senato. "Non è il governo più bello del mondo - ha aggiunto - pensiamo ci sia bisogno di un governo più forte, non pensiamo possa bastare la narrazione del 'gli altri Paesi ci copiano'. Non è stata aperta ancora una crisi istituzionale perché lei non si è dimesso".

Ore 17.37. Renzi (Iv): "Conte ha avuto paura di salire al Quirinale. Ha scelto arrocco istituzionale"

"Mi sarei aspettato da lei un grande sogno per il futuro del Paese, un orizzonte, una visione", ha detto il leader di Italia viva Matteo Renzi rivolgendosi a Conte in Aula. "Lei - ha proseguito - ha avuto paura signor presidente di salire al Quirinale il giorno dopo le dimissioni delle ministre di Iv non perchè sia utile al Paese, ma perchè  ha scelto un arrocco istituzionale".

Ore 17.40. Renzi (Iv): "E' il momento di decidere. Ora o mai più"

"Siamo stati fin troppo pazienti", ha osservato Matteo Renzi, leader di Iv, proseguendo il suo intervento in Aula al Senato. "Sono mesi - ha aggiunto - che le chiediamo una svolta. La comunicazione per cui questo non è il momento per aprire una crisi è passata. Ma noi - conclude - pensiamo all'opposto che questo è un un momento opportuno, ora o mai più. Ora ci giochiamo il futuro, non tra sei mesi".

Ore 17.47. Renzi (Iv): "Ora o mai più sul Mes o nostri figli non ci perdoneranno"

"Ora o mai più si può fare una discussione: ora ci giochiamo il futuro, non tra sei mesi. Oggi è l'ultima notte di Trump nella stanza di Lincoln, domani si apre una pagina nuova", ha detto il leader di Iv Matteo Renzi al Senato. "Qualche giorno fa Merkel e Macron hanno chiuso un accordo con le istituzioni europee insieme alla Cina e noi non siamo entrati nemmeno in partita - ha aggiunto - La Brexit ora gioca la sua sfida. Ora o mai più perché questo è l'anno del G20. Ora o mai più perché ora vanno rimandati i ragazzi a scuola, non con i soldi buttati via dei banchi a rotelle ma con i vaccini. Ora o mai più per l'economia: i ragazzi sono chiusi in casa e pagheranno i conti della crisi". E poi ha proseguito l'intervento chiedendo: "Quale Next generation Eu se ai nostri figli lasciamo montagne di debito? Ora o mai più per il Mes. In tanti hanno chiesto di finanziare il piano per la ricerca. Saremo maledetti dai nostri figli se non investiamo sulla scuola e sulla sanità".

Ore 17.48. Renzi (Iv) a Conte: "La politica non è solo distribuire poltrone"

"Chi perde oggi? Mi viene in mente quella pagina dei Malavoglia, quando lo zio Crocefisso riceve la notizia che qualcuno è morto in battaglia. Chi ha perso? E ognuno dice: 'Io non ho perso'. Ma l'Italia sta perdendo la sua più grande occasione dopo il piano Marshall. presidente, faccia un passo in avanti, non trasformi in una mera distribuzione di incarichi". Lo ha detto Matteo Renzi intervenendo a Palazzo Madama. "Le è mancata la gavetta della politica - a detto il leader di Iv a Conte - e immagina che la politica sia solo l'arte del governo. ma questa arte non è solo distribuire una poltrona. Ha dato l'impressione di avere la preoccupazione di assegnare incarichi".

Ore 17.49. Renzi (Iv) a Conte: "Mi ha offerto Esteri e io ho detto no"

"Lei è sempre stato cortese con me, quando ci siamo visti mi ha offerto un incarico agli Esteri e io le ho detto gentilmente di no. La politica non è solo distribuzione degli incarichi", ha detto Matteo Renzi a Conte al Senato.

Ore 17.50. Renzi (Iv): "Conte a terzo governo cambia idea per tenere poltrona"

"Ha cambiato la terza maggioranza in tre anni, ha governato con Matteo Salvini. Oggi so che è il punto di riferimento del progressismo e ne sono contento, ma ha firmato i decreti Salvini e quota 100", attacca il leader di Iv Matteo Renzi rivolgendosi a Conte in Aula al Senato. "Ora - prosegue - si accinge alla terza maggioranza diversa. ma ci risparmi di dire che l'agenda Biden è la sua agenda dopo aver detto che l'agenda di Trump era la sua sua agenda. Se va all'assemblea generale dell'Onu e rivendica il sovranismo, non può dirsi antisovranista - conclude - se va alla scuola di Siri e si dice populista, ora non può dirsi antipopulista. Non può cambiare le idee per mantenere la poltrona".

Ore 17.55. Renzi (Iv) a Conte: "Mercato indecoroso, il Paese non lo merita"

"Quando si fa politica si può anche rinunciare a una poltrona non a un'idea, mi auguro che metta al centro le idee e non lo scambio di poltrone perché il Paese non si merita un mercato indecoroso". Lo dice il leader di Iv Matteo Renzi concludendo il suuo intervento in Aula al Senato.

Ore 18.00. Renzi (Iv) a Conte: "Vediamo se arriva a quota 161"

"Lei può trovare una maggioranza, vediamo se arriverà a 161 voti, ma "fate presto. Volete andare avanti con una maggioranza raccogliticcia? Vi auguro sia maggioranza, raccogliticcia sicuro. Ma fate presto". Lo ha detto Matteo Renzi rivolgendosi a Conte in Senato.

Ore 18.15. Salvini (Lega): "Imbarazzanti discorsi di senatori in vendita"

"Alcuni discorsi di senatori 'in vendita' davvero imbarazzanti: fuori dal Palazzo gli italiani hanno testa e cuore a lavoro, scuola e salute, qui dentro c'è gente che per la poltrona farebbe, anzi fa, di tutto", dice il leader della Lega Matteo Salvini sui suoi profili social.

Ore 18.16. La Russa (Fdi): "Incomprensibile sostegno senatori a vita, si dà ragione a chi non li vuole"

Conte "non raggiungerà quella maggioranza degli aventi diritto al voto e questo nonostante il soccorso poco comprensibile dei senatori a vita, che rischiano così di dare ragione a quelli che vorrebbero abolire l'articolo della Costituzione che consente loro di essere qua". Lo ha affermato il senatore di Fratelli d'Italia Ignazio La Russa  rivolgendosi al presidente del Consiglio  nella discussione generale sulle sue comunicazioni al Senato.

Ore 18.22. Masini (Fi): "Al Senato per votare no a fiducia"

"In Aula per votare No al Governo Conte. Alla faccia di chi mi vuole male e sparge veleno e balle ai giornali su di me, solo per punire la mia mente libera". Lo scrive su Twitter la senatrice di Forza Italia Barbara Masini, tra le esponenti azzurre che nelle scorse ore era data per incerta sul voto.

Ore 18.23. Marcucci (Pd): "Sensibilità colleghi Iv messa a dura prova"

"Conosco la sensibilità e il senso di responsabilità di alcuni colleghi di Iv e credo sia messo a dura prova", dice su La7 il capogruppo del Pd al Senato Andrea Marcucci.

Ore 18.24. I senatori di Iv si asterranno dal voto di fiducia

Si è conclusa l'assemblea pomeridiana dei senatori di Italia viva che hanno deciso la linea da tenere nel corso della votazione di fiducia di questa sera al Senato. I renziani, come già fatto ieri alla Camera, si asterranno dal voto. Nel corso della riunione, però, i senatori Ernesto Magorno e Gelsomina Vono hanno espresso la volontà di votare no.

Ore 18.48. Concluso dibattito, ora la replica del presidente Conte

Si è concluso nell'Aula del Senato il dibattito sulle comunicazioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla situazione politica in seguito alle dimissioni dei ministri di Iv. Ha ora luogo la replica del presidente del Consiglio. Son state presentate due risoluzioni: quella di Pd, M5s, Leu e Minoranze linguistiche e quella del centrodestra.

Ore 18.50. Conte: "Calo demografico preoccupante"

La curva del calo demografico è molto preoccupante, un problema serissimo. Serve un intervento serio con inteventi economici strutturato", ha detto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte replicando ai senatori a Palazzo Madama.

Ore 18.54. Conte: "A rischio futuro figli, non serve crisi di governo"

"Se non interveniamo adesso in tempo, rischiamo di compromettere il futuro dei nostri figli. Occorrono investimenti economici strutturati, dobbiamo investire sul futuro e non possiamo farlo creando una crisi di governo o cercando di far cadere un governo", dice il premier Giuseppe Conte in sede di replica al Senato. "Da luglio-prosegue - partirà tra l'altro la riforma dell'assegno unico mensile per oltre 12 milioni di bambini, un progetto avviato dalla ministra di Iv Bonetti".

Ore 18.55. Conte: "Scuola centrale, dieci miliardi in più dopo stagione di tagli"

"Il tema della scuola ci sta a cuore a tutti, dobbiamo lavorare perché resti centrale nell'agenda non del governo ma del Paese", ha detto il premier Giuseppe Conte durante la sua replica in Senato. "Abbiamo realizzato 40mila aule in più - ha proseguito - merito di una grandissima sinergia con sindaci, presidenti delle Regioni, autorità territoriali". E, ha aggiunto, "abbiamo mobilitato 10 mld in più sulla scuola, archiviando la stagione dei tagli che avevamo ereditato".

Ore 18.56. Conte: "Curva contagi preoccupa, ma impegno per scuola in presenza"

"Un intero capitolo del Recovery è dedicato all'istruzione. La curva epidemiologica non accenna a migliorare. Ci preoccupa ma continueremo a fare di tutto, l'obiettivo è la didattica in presenza". Lo dice il premier Giuseppe Conte nella replica al dibattito in Senato.

Ore 19.01. Conte: "Falsità che in Italia caduta del Pil più alto"

"Molte osservazioni hanno riguardato il nostro calo del Pil e la consistenza dei ristori. Non corrisponde affatto al vero che l'Italia sia prima per caduta più forte del Pil", ha chiarito il premier Giuseppe Conte intervenendo in replica al Senato. "Nonostante siamo stati colpiti per primi dalla pandemia nei primi tre trimestre del 2020 - ha aggiunto - il calo tendenziale del Pil è stato lo stesso che in Francia, inferiore alla Spagna e al Regno Unito".

Ore 19.02. Conte: "Confermato calo Pil al 9% anche grazie ai ristori"

"Il rimbalzo del terzo trimestre è stato tra i più alti d'Europa, il 15,9%. Gli ultimi dati ci spingono a confermare per il 2020 un calo del 9%, sensibilmente inferiore a quello previsto in estate e minore di altri Paesi europei". Lo dice il premier Giuseppe Conte nella replica in Senato. "Si è detto  - ha aggiunto -che abbiamo dato meno ristori di altri Paesi? E' un'affermazione destituita di fondamento. Grazie a quella rete di protezione il pil è calato meno del previsto ed è stato compensato anche il deficit".

Ore 19.03. Conte: "Per giustizia riforma strutturale, la chiede l'Europa"

"E' chiaro che sulla giustizia abbiamo una delle riforme strutturali che ci attende, è uno degli oggetti delle raccomandazioni europee", ha detto il premier Giuseppe Conte in sede di replica. "Intanto è stato programmato l'aumento della dotazione organizzata dei magistrati di 600 unità - ha aggiunto - Nel Recovery troverete uno stanziamento di 1,3 miliardi per rendere più spedita la nostra giustizia e per smaltire l'arretrato".

Ore 19.06. Conte ricorda Borsellino, lungo applauso in Senato

Giuseppe Conte ricorda in Senato che oggi ricorre l'anniversario della nascita di Paolo Borsellino e l'Aula del Senato tributa un lungo applauso alla memoria del magistrato siciliano assassinato dalla mafia con la sua scorta il 19 luglio del 1992.

Ore 19.07. Conte: "Riforma giustizia bloccata? Lega presiede commissione"

"Il senatore Romeo, della Lega, chiedeva dei ddl sulla giustizia. Dal 2019 - dice il premier Giuseppe Conte in sede di replica - quello sulla giustizia civile e dal 2020 quello del processo sono alla commissione giustizia del Senato che è sotto presidente della commissione del suo partito. Cerchiamo tutti di dare un'accelerazione".

Ore 19.08. Conte: "Mafia virus peggiore del Covid"

"Parliamo in questi giorni tanto di Coronavirus: c'è un virus forse peggiore, rimane il virus della mafia", ha detto il premier Giuseppe Conte al Senato. "La difesa della legalità è ragione ontologica del governo, è nel nostro dna. E' una deliberata strategia di azione, sarà sempre così finché il governo sarà qui".

Ore 19.13. Conte: "Morti Covid? Teniamoli fuori da dibattito politico"

"Il Covid sta mettendo in ginocchio Paesi anche più strutturati, che hanno investito più di noi nella sanità e dovevano risultare più resilienti. Ma la contabilità dei morti è questione molto delicata. Teniamola fuori dalla contesa politica, perché le polemiche rischiano di essere tristi". Lo dice il premier Giuseppe Conte nella replica in Aula al Senato.

Ore 19.14. Conte: "Bozza Recovery frutto riunioni con ministri, anche di Iv"

"Renzi ha ricostruito le ragioni del discutere la fiducia oggi. A me però non sembra che quando abbiamo trattato dei temi concreti non si sia trovata una soluzione", ha detto il premier Giuseppe Conte durante le sue repliche al Senato. "Il Recovery Plan - ha proseguito - non è stato elaborato in qualche oscura cantina di Palazzo Chigi ma in incontri bilaterali con tutti i ministri, anche quelli di Iv. La bozza, che avete voluto distruggere anche mediaticamente, era frutto di un primo confronto a livello bilaterale con i ministri".

Ore 19.16. Conte: "Recovery bloccato da Iv, nessuno detiene verità"

"Sul Recovery occorreva un confronto, un momento collegiale, perché restava il problema di scelte strategiche, tirare fuori la politica, dare una visione. Ma il confronto collegiale si può fare anche con toni tranquilli e leale collaborazione", ha detto il premier Giuseppe Conte in sede di replica a Palazzo Madama. "L'effetto finale è stato bloccare per 40 giorni il Recovery - ha attaccato - avremmo potuto incontrarci e in una ventina di giorni dare al Parlamento una versione aggiornata che è stata migliorata anche grazie al vostro contributo, ma grazie a tutte le forze di maggioranza e nessuno può avere la pretesa della verità nelle soluzioni più proficue per il Paese".

Ore 19.19. Conte: "Iv ha scelto l'aggressione, non via migliore per il Paese"

"Avete ritenuto che la cabina di regia non era accettabile? Ma quando mai non è stata discussa? Il risultato è che ora dobbiamo affrettarci e il lavoro è urgente, perché ce lo chiede anche l'Ue. Quando si sceglie la via del dialogo, e voi lo sapete, non avete mai trovato porte chiuse", ha detto il premier Giuseppe Conte rivolgendosi in Aula ai senatori di Italia viva. "A un certo punto - ha proseguito - avete scelto la strada dell'aggressione e degli attacchi mediatici, avete cominciato a parlare fuori e non dentro. La rispettiamo ma possiamo dire che forse non è la scelta migliore negli interessi del Paese?".

Ore 19.20. Conte: "Se non ci sono i numeri governo va a casa"

"Certo c'è un problema di numeri: se non ci sono il governo va a casa, non va avanti". Lo ha detto il premier Giuseppe Conte nella replica in Aula al Senato.

Ore 19.21. Conte: "Mio progetto di fine legislatura, mi aspetto contributi"

"Noi abbiamo chiesto contributi ad un progetto, con scelte chiare e valoriale, con una chiara vocazione europea e atlantica. Si basa su un solido dialogo sperimentato già da almeno tre forze di maggioranza ma è ben aperto a chi vuole migliorarlo, a chi vuole dare un contributo leale. E' un patto di fine legislatura, ci sono tutti i margini per offrire un rendiconto ai cittadini su ciò che stiamo facendo", ha detto il premier Giuseppe Conte intervenendo in replica al Senato.

Ore 19.22. Conte: "Se fiducia valuteremo rafforzamento squadra di governo"

"Stavamo già lavorando sul patto di fine legislatura. Subito dopo l'eventuale fiducia valuteremo un tema di cui stavamo già discutendo: come rafforzare la squadra di governo", ha detto il premier Giuseppe Conte intervenendo in replica al Senato.

Ore 19.23 Conte pone la questione di fiducia

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha concluso le sue repliche in Aula ponendo la questione di fiducia sulla risoluzione della maggioranza. L'ha fatto al termine del suo intervento di replica e con qualche secondo di ritardo. A "richiamarlo" su questo è stata la presidente di Palazzo Madama Maria Elisabetta Casellati, che gli ha fatto notare la dimenticanza. "Signor presidente doveva esprimersi sulla risoluzione", gli ha detto riferendosi alla mozione presentata dalle forze di maggioranza. A quel punto Conte ha recitato la formula di rito.

Ore 19.24. Terminato intervento in aula, ora le dichiarazioni di voto

Dopo la conclusione dell'intervento del premier Conte, sono iniziate ora le dichiarazioni di voto dei senatori.

Ore 19.33. Autonomie: "Sì alla fiducia"

"Questa crisi di governo è  decisamente fuori luogo perchè è in profondo contrasto con lo spirito del tempo che stiamo vivendo", ha detto nella  dichiarazione di voto sulla fiducia Julia Unterberger del gruppo Per le Autonomie. "Questa crisi non è comprensibile per i cittadini italiani, figurarsi se lo è per l'Europa - ha aggiunto - e getta una pesante ombra sul nuovo patto europeo. Questo - ha concluso - è il momento della responsabilità e della costruzione", ha concluso, ribadendo "la fiducia al governo".

Ore 19.36. Bellanova (Iv): "In parole Conte manca visione e progetto"

"La domanda che risuona è sempre la stessa: si può nel mezzo pandemia aprire crisi governo? Domanda legittima, ne siamo consapevoli, ma fuorviante. La vera domanda è: può un governo davanti a una pandemia, a una situazione drammatica, fare dell'emergenza la sua unica ragione di esistenza?", chiede l'ex ministra renziana Teresa Bellanova durante il suo intervento per la dichiarazione di voto al Senato. "Non può essere solo il dover fronteggiare l'emergenza a tenere in piedi un governo - ha osservato - ma una visione di futuro, gli atti, le forme, i progetti. E tutto questo nel suo intervento desolatamente manca".

Ore 19.44. Bellanova (Iv): "Nonostante non verità di Conte ci asteniamo"

"Presidente, nonostante le non verità di cui è piena la sua replica, il nostro è un voto di astensione", ha annunciato Teresa Bellanova (Iv) nella dichiarazione di voto sulla fiducia.

Ore 20.08. De Petris: "Da Leu convinto sì, chiudere subito crisi"

"I Paese non meritava questa crisi e ora ci chiede di andare avanti. Stiamo vivendo una situazione difficilissima e drammatica e ora la crisi va chiusa rapidamente". Lo ha detto Loredana De Petris, senatrice di Liberi e uguali, intervenendo in Senato durante le dichiarazioni di voto sulle comunicazioni del presidente del Consiglio.

Ore 20.12. Marcucci (Pd): "Orgoglioso per quello che abbiamo fatto"

"Mi ricordo il confronto difficile nello stilare il programma, ma ci abbiamo messo l'anima nell'interesse del nostro Paese. Oggi sono orgoglioso di ciò che questo governo ha fatto, abbiamo trasformato l'Europa, che è la nostra casa che guarda al nostro futuro, quella è una medaglia". Lo ha detto il capogruppo del Pd al Senato, Andrea Marcucci, durante la dichiarazione di voto.

Ore 20.14. Marcucci (Pd): "Crisi incomprensibile. Interesse del Paese viene prima"

"Era inevitabile che ci fosse l'esigenza di un confronto politico che il Pd ha voluto per primo: abbiamo posto delle questioni utili per il Paese. Poi però il confronto si è interrotto. E siamo all'apertura di una crisi pericolosa e sbagliata", dice il capogruppo del Pd al Senato, Andrea Marcucci, intervenendo in dichiarazione di voto a Palazzo Madama. "Si può litigare ma l'interesse viene del Paese viene prima", conclude.

Ore 20.16. Marcucci a Iv: "Eletti nel Pd riflettano su dove è giusto andare"

"I parlamentari, in particolare quelli eletti nel Pd, riflettano su dove è giusto andare". E' l'appello del capogruppo Pd al Senato Andrea Marcucci, rivolto agli ex dem, fuoriusciti in Italia viva.

Ore 20.20. Marcucci (Pd): "Pd sa fare la cosa giusta e vota fiducia"

"Noi oggi decidiamo sul futuro del governo del Paese: bene la centralità del Parlamento. Non sarà mai un errore fare la cosa giusta. Noi senatori del Pd sappiamo di fare la cosa giusta e le rinnoviamo la nostra fiducia", annuncia il capogruppo del Pd al Senato, Andrea Marcucci, intervenendo in dichiarazione di voto a Palazzo Madama.

Ore 20.31. Bernini (Fi): "No fiducia, non crediamo a Conte"

"Ci sembra di stare in una Guerra dei Roses in cui abbiamo la sensazione di non entrarci più. E' evidente che questa maggioranza non c'è più", dice la capogruppo dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini. "Il presidente del Consiglio invece fa finta che i problemi non esistono. Non possiamo dare la fiducia a questo governo - conclude - perchè non crediamo a un presidente del Consiglio che offre posti a destra e a manca e pensiamo che il suo esecutivo sia supponente".

Ore 20.34. Ciriani (Fdi): "Voteremo no a fiducia"

"Fatelli d'Italia voterà no alla fiducia. Questo governo farebbe bene a dimettersi ed a porre fine a questo penoso teatrino che va in scena da troppo tempo", dice il capogruppo di Fratelli d'Italia a Palazzo Madama, Luca Ciriani. "Oggi - prosegue - abbiamo assistito alla desolazione di un Senato trasformato in un mercato dove il presidente Conte ha cercato una maggioranza in tutti gli angoli, mettendo insieme scappati da altri partiti, espulsi e casi umani".

Ore 20.38. Salvini (Lega): "Non cercate volenterosi ma complici per non perdere poltrona"

"Mettere in discussione un governo che ha fallito su tutto non è un diritto ma un dovere di ogni cittadino. Una volta quelli che cambiavano casacca venivano chiamati volgari poltronari, qualcuno e' anche andato a processo per una presunta compravendita di senatori", dice il leader della Lega Matteo Salvini al Senato. "Ricordo - prosegue - che non state cercando volenterosi ma state cercando dei complici da pagare per non mollare la poltrona".

Ore 20.44. Salvini (Lega): "Difendere quota 100 da critiche Ue"

"L'avvocato Conte ha fatto bene a combattere per quota 100 e opzione donna. Se l'Europa ci chiede di abolirle deve dire di no". Così il leader della Lega, Matteo Salvini, intervenendo a Palazzo Madama per la sua dichiarazione di voto.

Ore 20.46. Salvini (Lega) a Renzi: "Noi di poltrone ne abbiamo mollate sette senza rimpianti"

"Noi di poltrone non ne abbiamo mollate due - lo ricordo al collega Renzi - ma sette e senza rimpianti". Così il segretario leghista Matteo Salvini, nelle dichiarazioni di voto sulla fiducia al governo Conte, ha ricordato la crisi del governo M5s-Lega.

Ore 20.48. Salvini (Lega): "Vedo tanto nervosismo tra chi teme per poltrona"

"Vedo tanto nervosismo intorno a me: eravate convinti di portare a casa la poltrona. Ora invece vi vedo che siete meno convinti...". Così il leader della Lega, Matteo Salvini, intervenendo in dichiarazione di voto a Palazzo Madama.

Ore 20.50. Salvini attacca i senatori a vita. Proteste in Aula

"I senatori a vita o non muoiono o muoiono sempre troppo tardi. Che coraggio che avete", ha detto il leader della Lega Matteo Salvini citando una frase shock rivolgendosi ai senatori a vita, tra cui Liliana Segre, in Aula per votare la fiducia al Senato. Dalla maggioranza e dall'opposizione si sono alzate urla di protesta. "E' una frase di Beppe Grillo", si è difeso Salvini.

Ore 21.12. Romani: "I tre senatori di Idea-Cambiamo voteranno no alla fiducia"

"Il gruppo Idea-Cambiamo voterà contro la fiducia al governo". Lo ha annunciato Paolo Romani intervenendo  al Senato. I senatori di Idea  oltre allo stesso Romani sono Gaetano Quagliariello e Massimo Berutti.

Ore 21.18. Terminata discussione al Senato, inizia il voto di fiducia

Al Senato sono terminate le dichiarazioni di voto e si procede ora con il voto sulla risoluzione della maggioranza per la fiducia al premier Conte. In corso la prima "chiama".

Ore 21.23. Segre vota sì e l'Aula applaude

Un applauso ha accolto il sì con cui la senatrice a vita Liliana Segre ha dato il suo voto favorevole alla fiducia al governo Conte.

Ore 21.27. Senato, senatori Iv non rispondono a prima "chiama" su voto fiducia

I senatori di Iv, tra cui Matteo Renzi, non stanno rispondendo alla prima "chiama" per la votazione sulla fiducia nell'Aula di Palazzo Madama.

Ore 21.28. Saccone (Udc) vota no alla fiducia

Il senatore dell'Udc Antonio Saccone ha votato no alla fiducia al premier Conte.

Ore 21.29. Rossi (Fi) vota sì alla fiducia

Al Senato la senatrice di Forza Italia Maria Rosaria Rossi ha votato la fiducia al governo.

Ore 21.35. Causin (Fi) vota sì alla fiducia

Il deputato di Forza Italia Andrea Causin ha votato sì alla fiducia al governo Conte.

Ore 21.37. Senatrice a vita Cattaneo vota sì alla fiducia

La senatrice a vita Elena Cattaneo ha votato sì alla fiducia al governo Conte.

Ore 21.38. Ciampolillo del Misto assente a prima "chiama"

Il senatore Alfonso Ciampolillo, esponente del gruppo Misto, è risultato assente alla prima chiama per il voto di fiducia al governo.

Ore 21.29. Drago vota no alla fiducia

La senatrice del gruppo Misto (ex M5S) Tiziana Drago ha votato contro la fiducia a Conte. Fino all'ultimo era stata considerata tra gli indecisi.

Ore 21.42. Giarrusso vota no alla fiducia

Il senatore ex M5S Mario Michele Giarrusso, considerato fino all'ultimo tra gli indecisi, ha votato no alla fiducia al governo Conte. Il suo voto è stato accolto da un applauso.

Ore 21.45. Tajani: "Rossi e Causin sono fuori da Forza Italia"

Maria Rosaria Rossi e Andrea Causin sono fuori da Forza Italia. E' quanto ha reso noto Antonio Tajani dopo che i due senatori hanno votato la fiducia al governo Conte.

Ore 21.49. Terminata la prima "chiama". Si procede con la seconda

E' terminata la "prima chiama" e ora al Senato si procede con la seconda "chiama".

Ore 21.50. Alla seconda "chiama" Iv si astiene

I senatori di Italia viva nella seconda chiama si astengono. Il primo a farlo è stato il leader Matteo Renzi.

Ore 21.54. Senatore Ciampolillo assente a prima e seconda "chiama"

Il senatore ex M5S Lelio Ciampolillo, considerato tra gli indecisi sulla fiducia al governo al Senato, è risultato assente alla prima e seconda chiama.

Ore 22.04. Caos su voto Ciampolillo

Caos sul voto di Alfonso Ciampolillo, ex-M5S del gruppo Misto. Il senatore chiede di votare ma la presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, lo ferma: "Avevo già chiuso la votazione della seconda chiama".

Ore 22.06. Senato, Casellati ricorre al Var su voto Ciampolillo

La presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati chiede di vedere il video della votazione del senatore Ciampolillo. Da decidere se sia arrivato in tempo per esprimere il voto oppure no. Commento scherzoso di alcuni senatori: "E' l'assistenza video, il Var".

Ore 22.07. Senatori-questori decideranno su voto Ciampolillo

Saranno i senatori questori a dirimere il caso del voto del senatore ex M5S, Lelio Ciampolillo, che è risultato assente alla prima e seconda chiama, ma che ha chiesto di esprimersi quando le votazioni si erano appena chiuse. Essendo un voto importante la presidente del Senato Casellati ha quindi deciso di rimandare la decisione ai questori.

Ore 22.14. Conte lascia Palazzo Madama

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha lasciato Palazzo Madama al termine della votazione della fiducia. Il premier non ha rilasciato dichiarazioni.

Ore 22.16. Meloni (Fdi): "Chiederemo colloquio con il Colle"

"Rispetto alle premesse e alle speranze di Conte e Casalino le cose non sono andate come speravano: sentivo parlare di decine di responsabili ma al netto di casi singoli, dall'altra parte ce ne sono di più, il centrodestra ha mantenuto la sua compattezza e non era scontato. Ho parlato con Salvini, parlerò con Berlusconi. Ora dobbiamo chiedere un colloquio con il Colle", dice la leader di FdI, Giorgia Meloni, a Rete 4.

Ore 22.24. Casellati riammette al voto Ciampolillo e Nencini

La presidente del Senato Casellati dopo l'esame dei video delle telecamere dell'Aula ha riammesso al voto i senatori Ciampolillo e Nencini. Grazie a loro l'esito finale è stato di 156 a favore del governo.

Assembramenti e proteste: al Senato va in scena pure la Var. Le immagini parlano chiaro: in Senato pare non valga la regola del distanziamento. I senatori in più occasioni si sono raggruppati in barba ai provvedimenti decisi dal governo sul quale si sono espressi. Francesca Galici, Martedì 19/01/2021 su Il Giornale. Maria Elisabetta Casellati l'ha ripetuto a più riprese durante la seduta del Senato per il voto di fiducia all'esecutivo di Giuseppe Conte: no agli assembramenti. Tutte le misure di contenimento che gli italiani devono rispettare da marzo provengono dalle stesse persone che oggi al Senato si sono ammucchiate durante le votazioni. Nel mondo reale, sono stati chiusi i ristoranti e i locali che portavano alla movida proprio perché causa di assembramenti. Addirittura è stato bloccato l'asporto dopo le 18 per i bar nelle zone rosse e arancioni per evitare che le persone potessero raggrupparsi in attesa del loro ordine E in Senato? A Palazzo Madama chi impone le regole al Paese è lo stesso che le trasgredisce. Le mascherine non mancano in Senato, ma sono per lo più di tipo chirurgico e i dubbi sollevati dagli esperti su questo tipo di dispositivo sono tanti. Perché i senatori sono liberi di assembrarsi? Abbracci, parole sussurrate all'orecchio e in più proteste veementi sotto il banco del presidente del Senato per avere la validazione del voto di Lello Ciampolillo, ex senatore del Movimento 5 Stelle passato al gruppo Misto. Il suo nome circolava da giorni tra quelli dei responsabili che avrebbero dovuto votare la fiducia a Giuseppe Conte e la sua assenza ha destato perplessità. Le immagini dal Senato parlano chiaro. A lungo i senatori si sono raggruppati in attesa della comunicazione del risultato delle votazioni, gruppetti più o meno ampi si sono formati tra i banchi e al centro dell'emiciclo del Senato ed è da lì che si sono avvicinati alla postazione di Maria Elisabetta Casellati, che da stamattina alle 9 presiede la seduta. Sono stati inutili i suoi richiami: le immagini andate in onda dal Senato degli assembramenti sono state trasmesse e non hanno certamente contribuito a dare quell'esempio che ci si aspetterebbe dagli uomini e dalle donne delle massime istituzioni. Come prevede il protocollo del Senato, il presidente è tenuto a fare due chiamate al voto. Lello Ciampolillo si è palesato al voto mentre Maria Elisabetta Casellati dichiarava la chiusura delle operazioni di voto. A quel punto è scoppiata la bagarre, con la maggioranza che ha richiest a gran voce la validazione del voto. La Casellati ha difeso la sua decisione di chiudere la seduta ma i senatori segretari hanno solevato dubbi sulle tempistiche. A quel punto, come accade nelle partite di calcio, il presidente del Senato ha dovuto chiedere la "Var", visionare i filmati per avere la certezza che la chiusura della seduta sia avvenuta prima del palesarsi di Lello Cimapolillo. Il suo voto è fondamentale per questa maggioranza, perché senza di lui la conta si ferma a 154 voti favorevoli, con 140 voti contrari. Un risultato che spezzerebbe le gambe alla maggioranza per due motivi: senza Ciampolillo sarebbe al di sotto dell'obiettivo dei 155 che si erano posti dopo aver capito che non avrebbero avuto la maggioranza assoluta e, in più lo scarto è inferiore ai 18 voti.

Voto di fiducia in Senato per il Conte 2-bis: sembrava un film dei Vanzina. Giuseppe Gaetano su Notizie.it il 20/01/2021. Dai senatori a vita che "non muoiono mai", almeno secondo Salvini, alla momentanea scomparsa di Ciampolillo, degna di Bugo ai tempi di Sanremo. Quello che abbiamo visto e non avremmo voluto vedere in una delle giornate più importanti per l'Italia. Una giornata emozionante in Senato per chi segue la politica, altro che maratona Mentana: un triathlon di 44 ore – tra dichiarazioni, repliche, controrepliche, sanificazioni e assembramenti – col fiato sospeso, dalle 9 di mattina alle 23 di sera. Il ricordo di Emanuele Macaluso. La standing ovation dei ministri alla 90enne Liliana Segre, scesa apposta da Milano a Roma per far numero a favore di Conte: conosce bene lo spettro nero che incombe sul Paese con Salvini e Meloni. E se lo immaginano pure i forzisti, i ripescati nel pozzo del Gruppo Misto e gli ex 5 Stelle rientrati nei ranghi dalla finestra, che hanno provato a tappare i buchi lasciati da Renzi. Ne abbiamo già avuto avvisaglia dai toni agghiaccianti usati dal leader leghista nel suo discorso: “I senatori a vita non muoiono mai”. E poi gli applausi, allo stesso premier. L’Italia viva al 3% e defunta al 97 è un microscopico virus che non è valso la pena citare neanche a Palazzo Madama. L’Innominato è ormai il passato. Già a Montecitorio senza di lui era andata meglio di quando c’era: chi viene mollato ci guadagna in voti, come già successo al Pd in consensi. L’ignorarsi in aula, del resto, è stato reciproco: lo squarcio resta sanguinante. Con Salvini è stato diverso. Lui supera il 20% e, quando ha tradito, Conte l’ha attaccato frontalmente. Dall’agosto 2019, quando dimissionario e a esecutivo caduto gli rinfacciò proprio in Senato gli “interessi personali” perseguiti al Viminale, e la mancanza di “coraggio nell’assumersi la responsabilità” delle sue politiche anti migranti. Fino allo scorso aprile: “Devo fare nomi e cognomi” disse in tv durante la presentazione del nuovo Dpcm, accusando anche la leader di FdI di sostenere già allora “falsità sul Mes”. Ora è Renzi che ha provato a farlo inciampare su questo fondo della discordia, per cui si dice pronto a perdere il posto a palazzo. Poteva votare no, anziché astenersi. Il “mercato” consumato fino all’ultimo, in stanze e corridoi, è tutto fuorché una novità assoluta. Chiamiamoli volenterosi, dissidenti, responsabili, trasformisti o tengo famiglia: da almeno 30 anni tutto fa brodo a Palazzo Chigi. Dai banchi l’opposizione ha caricato ancora a testa bassa. Niente di inedito. Ma quando domandano a Conte cosa gli impedisca di rimettersi al verdetto delle elezioni anticipate, se è così convinto di star facendo bene, viene da chiedersi: l’hanno capito che c’è il Covid o no? Il buon senso suggerirebbe che è una follia andare ai seggi quando l’ultimo Dpcm ha appena dato una riavvitata generale al Paese, ma in fondo l’abbiamo già fatto all’Election Day del 20 e 21 settembre scorsi. Accorpammo referendum e amministrative riaprendo le scuole e portando 46 milioni di cittadini alle urne, a ridosso di quella che un mese dopo sarebbe diventata la seconda ondata di infezioni: da 1.350 positivi al giorno, a 15.200 il 21 ottobre, a 34.764 il 21 novembre. Allora votarono pure gli Usa e martedì notte, per una curiosa coincidenza, mentre dall’altra parte dell’Atlantico s’insediava un nuovo governo dem, un altro qui stava per dimettersi. È finita a quota 156. L’ultimo brivido ce l’ha regalato la Var al duo Ciampolillo-Nencini. Una fiducia relativa, o “semplice”: non è la prima volta nella storia della Repubblica e la maggioranza assoluta non è richiesta per ogni atto del Parlamento. Comunque superiore ai 155 voti, che rappresentavano la soglia limite per decidere se fermarsi o continuare. Arrivare a 161 era fantascienza. Quanto può durare un esecutivo destinato a restare comunque in bilico a ogni voto del fitto elenco di leggi e riforme in agenda? La palla è al Colle, a cui Conte è obbligato a salire. Mattarella darà sicuramente l’ok a questo Conte 2-bis, nella speranza che ingaggi in corsa nuovi adepti alla causa. Resta il “giallo” di cos’abbia sbagliato il premier per meritarsi questo bacio di Giuda di buon anno, tra capo e collo: in uno stato di prolungata allerta virus e con una campagna vaccinale a singhiozzo, impantanata dopo tre settimane dalle promesse da marinaio di Pfizer. Non l’hanno capito manco all’estero. Ce lo siamo chiesto tante volte: allargando la prospettiva e inquadrando l’attuale situazione Covid in Europa e nel mondo, era davvero possibile fare molto meglio di tutti gli altri? Al netto del senno del poi, il centrodestra – che ancora in queste ore vuole più aprire che chiudere – avrebbe assunto misure così diverse, risolvendo economia e contagi? Lo scopriremo presto: il termine naturale di questa straziata XVIII legislatura è nel 2023 e in due anni ne possono succedere ancora di tutti i “colori”.

Da huffingtonpost.it il 22 gennaio 2021. “Veniamo da una settimana di tormenti sul piano politico. Abbiamo assistito a uno spettacolo durante il dibattito al Senato per la fiducia al governo. Se volessimo ragionare su quello che abbiamo visto, saremmo obbligati a cadere in una depressione nera. Si conferma che la riforma più urgente del paese è quella relativa alla riapertura dei manicomi”. Lo ha detto, in una diretta Facebook, il presidente della regione Campania Vincenzo De Luca. “Il termine di paragone per l’Italia non sono gli altri paesi del mondo, ma i circhi equestri, il Cirque du Soleil. Al Senato - ha scherzato il governatore - c’erano dei saltimbanchi, degli acrobati, due giovanotti (i senatori Ciampolillo e Nencini, ndr) che sono andati a farsi un giro per Roma e poi sono tornati a votare allo scadere dei termini. La presidente Casellati ha dichiarato chiuse le votazioni, poi socchiuse, poi riaperte. Uno spettacolo meraviglioso, se ci confrontiamo con il Cirque du Soleil siamo vincitori”. “Comunque vada la crisi - ha aggiunto de luca - finirà male. Sia che andiamo a elezioni sia che si trascini questo lungo calvario. Sul piano dell’efficienza avremo un danno enorme”.

Dagospia il 25 gennaio 2021. Da "Un giorno da Pecora - Radio1". Il motivo per cui il senatore Lello Ciampolillo è arrivato al fotofinish a dare sostegno col suo voto al governo? Una lunghissima telefonata con un caro amico. A rivelarlo, ospite di Un Giorno da Pecora, è lo stesso senatore Ciampolillo, che ai microfoni della trasmissione di Rai Radio1 ha spiegato: “ero in aula ma al telefono con un amico molto stretto, non un politico, per me è stata una scelta sofferta”. Di cosa parlava col suo amico? “Del voto”. Come si chiama questo suo amico? “Il mio amico si chiama Gaetano”. E in questa sofferta telefonata, cosa le ha suggerito di fare Gaetano? “Di votare si”. Di che partito è? “Diciamo che lui guarda con interesse al M5S”. Il suo voto le ha dato una notorietà forse non ricercata. “Ho avuto tantissime manifestazioni di sostegno, mi hanno scritto da ogni parte d'Italia. E anzi ne approfitto per ringraziare tutti gli autori dei meme e dei video musicali su di me”. E' vero oppure no che lei ha detto al premier di diventare vegano? “E' vero che ha suggerito al premier di diventare vegano? Certo, l'alimentazione vegetale fa bene a tutti. E lui mi ha risposto: “ci penserò, mi interessa” ”.

Da liberoquotidiano.it il 22 gennaio 2021. Flavio Briatore si scalda. A Dritto e Rovescio l'imprenditore non ci va per il sottile quando si parla di Lello Ciampolillo, l'uomo che ha salvato il governo al Senato. “Questo per me è scemo. Uno così - spiega alle telecamere di Paolo Del Debbio - è pigliare a calci in cul*”. A animare gli animi una vecchia intervista dell'ex grillino espulso. Quest'ultimo - dalle idee bizzarre - aveva dichiarato di voler “togliere i contributi all’industria della carne e del latte“. “Questo per me è scemo - continua l'ex marito di Elisabetta Gregoraci -. Pensa che razza di gente abbiamo in Senato! (…) Abbiamo degli scemi, perché questo qui è scemo, si deve far ricoverare. Uno così è pigliare a calci in cul*, se io lo vedo, te lo giuro, gli do un calcio in culo!“. Ma Briatore non lesina critiche nemmeno a Mariarosaria Rossi, l'ex segretaria di Silvio Berlusconi che in Aula ha votato "sì" alla fiducia a Giuseppe Conte. "Quando ho sentito che Rossi aveva votato la fiducia al governo ho pensato che non potesse essere lei, perché la conosco bene. La Rossi è stata assistente di Berlusconi per anni ed è stata l’inizio del declino di Forza Italia perché ha isolato il Presidente completamente". Una pesante accusa.

Diciamoci la verità: siamo un po’ tutti Lello Ciampolillo. Fabrizio Capecelatro su Notizie.it il 20/01/2021. Lello Ciampolillo rappresenta quel modo, disinvolto e disincantato, tutto italiano di affrontare le cose serie e importanti: un po’ si guarda, ma in realtà si pensa ad altro. Non si sa con precisione dove fosse, anche se noi abbiamo provato a immaginare qualche possibile destinazione, ma di sicuro il Senatore Alfonso (detto Lello) Ciampolillo è salito alla ribalta della cronaca per essere letteralmente sparito durante la votazione per la fiducia al Governo Conte 2-bis. Dai meme alle preoccupazioni perché l’Italia è affidata anche a un personaggio che, mentre si decidono le sorti del Governo che dovrebbe guidare il Paese fuori dalla pandemia e gestire i 209 miliardi che dovrebbero servire a farlo ripartire dopo uno stop di oltre un anno, l’ex Senatore dei 5Stelle è diventato il simbolo di una votazione già di per sé assurda in un momento così critico. Ma diciamoci la verità: siamo un po’ tutti Lello Ciampolillo! Ciampolillo ha affrontato questa crisi di governo con la stessa disinvoltura con cui la maggioranza degli italiani, tranne Mentana e pochi altri addetti ai lavori, ha seguito le votazioni che fra lunedì 18 e martedì 19 gennaio hanno decretato se dovesse o no cambiare il governo italiano, se dovessimo o no tornare alle urne. Quanti di noi si sono lamentati perché ieri sera, a causa delle dirette dal Senato e dei presunti approfondimenti giornalistici, “non ci fosse nulla in TV, neanche Un posto al sole”? Quanti si sono realmente informati sull’esito delle votazioni e quanti non l’hanno scoperto, quasi per caso, aprendo i social prima di andare a dormire e borbottando “vabbè, anche questa è superata”? Ma forse Ciampolillo rappresenta proprio quel modo, disinvolto e disincantato, tutto italiano di affrontare le cose serie e importanti, mentre ci si distrae a chiacchierare con l’amico o al telefono con la propria moglie, mentre un po’ si guarda, ma in realtà si pensa ad altro. Un po’ come quando, durante la prima ondata della pandemia, il problema non erano i morti e i contagi, ma che fosse finito il lievito per fare la pizza a casa.

Matteo Renzi al Senato durissimo contro Giuseppe Conte: "Lei non sa fare politica. Un provinciale pronto a tutto per la poltrona". Libero Quotidiano il 19 gennaio 2021. Nel giorno della fiducia al Senato, cercata disperatamente da Giuseppe Conte, arriva il momento dell'attesissimo intervento in aula di Matteo Renzi, leader di Italia Viva e artefice della crisi di governo in atto. "Una crisi incomprensibile - esordisce l'ex premier -? Le dico guardandola negli occhi che cosa ci ha portato ad allontanarci dal governo. Il suo non è il governo migliore del mondo. Per la tragedia in corso, pensiamo ci sia bisogno di un governo più forte. Noi non pensiamo che davanti alla tragedia che questo paese sta vivendo possa bastare la narrazione del: gli altri paesi ci copiano, siamo un modello", ha picchiato durissimo, sin dal principio, Renzi. "Mentre la crisi istituzionale non si è ancora aperta, perché lei non si è dimesso, ci sono tre gravissime crisi in atto", ha ripreso il leader IV, che ha poi citato una crisi economica; poi sanitaria, "abbiamo il peggior rapporto tra popolazione e ricoveri". Terzo punto, una crisi educativa e scolastica. "Noi abbiamo chiesto di aprire un dibattito in Parlamento. Lei ha scelto un arrocco istituzionale che spero sia utile per il governo ma temo sia dannoso per le istituzioni. Mi ha chiesto chiarezza? Dice che i cittadini non capiscono? Non capisco neanche io, è una persona intelligente. Da mesi in quest'aula le chiediamo una svolta - lo ha incalzato -. A maggio, sulla sfiducia ad Alfonso Bonafede ci ha chiesto un gesto di responsabilità: noi la abbiamo seguita. Mentre sul Recovery Plan, a luglio, non siamo stati seguiti. La bozza è arrivata a dicembre, indecente: abbiamo detto che non era neppure il caso di parlarne", ha ricordato Renzi, rispedendo le accuse mosse da Conte nei suoi confronti al mittente. E ancora, "a settembre Italia Viva ha chiesto un cambio di passo. Salto di qualità". Dunque, Renzi si è speso in un lungo elenco con tutte le richieste avanzate al premier e che, a suo giudizio, sono state eluse, ignorate. "Forse siamo stati fin troppo pazienti. Dobbiamo dirci le cose in faccia: dice che non è il momento di una crisi? Lo dicono anche i miei amici al bar, la comunicazione è passata. Ma questo è il momento per guardarsi dentro fino in fondo e decidere: ora o mai più si può fare una discussione. Chi dice che durante la pandemia non si può parlare di politica, nega la possibilità di occuparsi del bene comune. Ora ci giochiamo il futuro, non tra sei mesi". "Se non investiamo ora sulla scuola o sulla sanità saremo maledetti dai nostri figli", ha ripreso il fu rottamatore. "Faccia un passo in avanti, non riduca la politica a una mera distribuzione di incarichi". E ancora, l'attacco si fa personale: "Con rispetto, credo che a lei presidente manchi la gavetta politica. Le manca l'esperienza, le vittorie e le sconfitte. Non ci si può ridurre a dare poltrone per avere una maggioranza". Urlando, Renzi ha aggiunto: "Capisco che fate fatica ad accettarlo, ma dovreste avere rispetto per chi abbandona una poltrona in cambio di un'idea", afferma riferendosi al passo indietro di Teresa Bellanova ed Elena Bonetti. "Quando questo gesto nobile è oggetto di ironie, stiamo perdendo la realtà. Lei ha fatto l'opposto: pur di restare al governo, ha cambiato tre maggioranze. Ha governato con Matteo Salvini, ha firmato i suoi decreti. Poi è diventato europeista. Ora si accinge alla terza maggioranza diversa. Ma ci risparmi la frase l'agenda-Biden è la mia agenda dopo aver detto lo stesso su Trump. Non sia provinciale, lei rappresenta l'Italia - ha brutalizzato Conte -. Se prima rivendica il sovranismo, lei poi non può fare il leader anti-sovranista. Signor presidente, lei non può cambiare le idee per tenere la poltrona. Abbia il coraggio di fare una cosa diversa, racconti che c'è uno spazio per tutti noi", ha aggiunto Renzi. "Sento dire che non posso parlare perché non ho il consenso. Perché ho il 2%: questo è segno della definitiva trasformazione della politica in reality show. Ma la politica non si fa con i sondaggi", ha sottolineato l'ex premier. "Chi è irresponsabile? Chi le chiede di parlare di politica o chi dice no ai soldi per la sanità con la stessa forza con cui diceva no ai vaccini e al Tav". Riferendosi al voto, Renzi ha aggiunto: "Vediamo se avrà la maggioranza" al Senato. "In passato ci sono stati dei governi che non la hanno avuta". Dunque, al Pd: "Se volete chiacchiere astratte sui grandi temi, fatela. Se volete rispondere agli italiani, fate presto. Vi auguro che sia maggioranza, di sicuro sarà raccogliticcia. Ma fate presto". "Mi auguro che nelle prossime settimane lei metta al centro le idee, non le poltrone: l'Italia, in questo momento, non si merita questo spettacolo indecoroso", ha concluso Renzi.

L'intervento in Senato. “Se non facciamo presto saremo maledetti dai nostri figli”, le tre ragioni dello strappo di Renzi. Antonio Lamorte su Il Riformista il 19 Gennaio 2021. “Saremo maledetti dai nostri figli”. Discorso durissimo di Matteo Renzi al Senato. Si gioca a Palazzo Madama la partita per il governo. La fiducia, dopo quella sicura conquistata all’esecutivo guidato da Giuseppe Conte alla Camera, è in bilico. I numeri ballano. I giorni scorsi sono passati tra accuse, trattative, caccia a “responsabili” e “volenterosi” e “costruttori”. Italia Viva, che la settimana scorsa ha ritirato le ministre Elena Bonetti e Teresa Bellanova e il sottosegretario Ivan Scalfarotto aprendo la crisi, ha annunciato che si asterrà dal voto. Quello di Renzi era l’intervento più atteso della giornata. Stasera le operazioni di voto. Il leader di Iv nel suo discorso ha spiegato i motivi dello strappo nel “governo più bello del mondo”. Italia Viva vuole un governo più forte. E quindi Renzi ha elencato mese per mese il pressing, spesso inascoltato, di Iv al governo e al Presidente del Consiglio. E quindi i punti di rottura, le risposte alle crisi economica, sanitaria, scolastica che hanno scatenato la rottura nell’esecutivo. Al centro del discorso non ci dovrebbero essere le poltrone, ha aggiunto l’ex premier, ma il Recovery Fund, il futuro del Paese. “Ora o mai più si può fare una discussione: ora ci giochiamo il futuro, non tra sei mesi. Oggi è l’ultima notte di Trump nella stanza di Lincoln, domani si apre una pagina nuova. Qualche giorno fa Merkel e Macron hanno chiuso un accordo con le istituzioni europee insieme alla Cina e noi non siamo entrati nemmeno in partita. La Brexit ora gioca la sua sfida. Ora o mai più perché questo è l’anno del G20. Ora o mai più perché ora vanno rimandati i ragazzi a scuola, non con i soldi buttati via dei banchi a rotelle ma con i vaccini. Ora o mai più per l’economia: i ragazzi sono chiusi in casa e pagheranno i conti della crisi”. E quindi il passaggio più emotivo dell’intervento in aula: “Quale Next generation Eu se ai nostri figli lasciamo montagne di debito? Ora o mai più per il Mes. In tanti hanno chiesto di finanziare il piano per la ricerca. Saremo maledetti dai nostri figli se non investiamo sulla scuola e sulla sanità – ha invocato – Parliamo di questo, del futuro e non della lotteria degli scontrini, dell’economia green non della logica Nimby, del terzo settore non di chi deve comprarsi il Monte dei Paschi”. E’ sulle idee, sulle proposte, che Renzi mette l’accento. “"Se ve ne andate perderete tutto", ci hanno detto. Sì. E ve lo diciamo guardandovi negli occhi. Quando si fa politica si può anche rinunciare a una poltrona, non si può rinunciare a un’idea”. L’ex premier ha rivelato di aver rifiutato un incarico internazionale, perché “in questo momento non è in ballo il destino personale di tizio, caio o sempronio. E’ in ballo il destino dell’Italia”. “Questo luogo esige e merita rispetto, nella sua valutazione rispetto al fatto che questa crisi è incomprensibili, mi impone di dirle guardandola negli occhi cosa ha portato in questi mesi ad allontanare il nostro cammino dal Governo. Noi pensiamo che questo Governo non sia il migliore del mondo e che davanti alla pandemia ci sia bisogno di un Governo più forte” e che per il Paese “mi sarei aspettato da lei un elenco ambizioso, non un sommario. Ma un grande sogno, un orizzonte”. Infine un appello, pur sottolineando il “mercato indecoroso” di questa fase: “Signor presidente del Consiglio, lei può venire in Parlamento e trovare la maggioranza: vediamo se arriverà a 161 … volete andare avanti con una maggioranza raccogliticcia davanti al più grande piano per il futuro del Paese? Vi auguro che sia maggioranza, raccogliticcia lo è sicuramente. Ve lo auguro, ma fate presto perché non avete tempo da perdere”.

Il Premier "ha avuto paura" di salire al Quirinale. Renzi durissimo contro Conte: “Hai pensato più alle poltrone che al futuro, ti manca la gavetta”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 19 Gennaio 2021. Giuseppe Conte “ha avuto paura” di salire al Quirinale, “ha scelto un arrocco istituzionale che spero sia utile per lei ma temo sia dannoso per le istituzioni”. Comincia così l’intervento di Matteo Renzi al Senato. A Palazzo Madama si voterà stasera la fiducia al Governo Conte. Ad aprire la crisi proprio Italia Viva di Renzi, che ha ritirato le ministre Elena Bonetti e Teresa Bellanova e il sottosegretario Ivan Scalfarotto. Ieri la fiducia accordata alla Camera dei Deputati, un risultato prevedibile. Numeri ancora in bilico al Senato. Renzi nel suo discorso ha spiegato i motivi dello strappo nel “governo più bello del mondo”. Italia Viva vuole un governo più forte. E quindi elenca mese per mese il pressing, spesso inascoltato, di Iv al governo e al Presidente del Consiglio. E quindi i punti di rottura, la crisi economica, sanitaria, scolastica che hanno scatenato la crisi. “Chi perde oggi? – ha detto Renzi – Qualcuno dice Conte, Renzi, Italia Viva … Sembra che la discussione riguardi le singole persone. Noi non abbiamo perso niente, ma è l’Italia che sta perdendo la più grande occasione”. “Le chiedo: faccia un passo in avanti, non trasformi” la crisi “solo in una mera distribuzione di incarichi. Io capisco che lei arrivi alla politica al primo incarico da premier. Le è mancata la gavetta, le battaglie vinte e perse. E lei immagina che la politica sia davvero solo l’arte difficile del governo. Ma in questa arte del governo non possiamo limitarci a dare una poltrona all’uno e all’altro. Lei ha dato più questa impressione. Quando sono venuto a trovarla, lei mi ha detto con grande gentilezza se ero interessato a incarichi internazionali, e io le ho detto di no”. Il punto centrale sono le idee, al centro, quelle alla base del Recovery Plan, un piano in gran parte modificato dall’esecutivo dopo le osservazioni di Italia Viva. “Ora o mai più perché ora è il momento di riportare i ragazzi a scuola. Dalla scuola si riparte. Non i banchi a rotelle, soldi buttati via”, ha continuato. E quindi ha messo in discussione la coerenza politica del premier: “Lei sta cambiando la terza maggioranza in tre anni. Ha Governato con Salvini, ha firmato i decreti sicurezza e quota 100. Poi è diventato europeista. Ci risparmi ‘l’agenda Biden è la mia agenda’ dopo aver detto che era quella di Trump. E adesso si accinge a cambiare la terza maggioranza in tre anni”. E quindi una sorta di appello: “Volete andare avanti con una maggioranza raccogliticcia di fronte al più grande piano per il futuro del Paese, vi auguro di trovarla ma fate presto“.

Marco Lillo per “il Fatto Quotidiano” il 22 gennaio 2021. La prima impressione, il primo incontro, il primo pranzo, quello dove iniziò tutto. Per capire qualcosa del difficile rapporto tra Renzi e Conte si può provare a tornare in questo ristorante di lusso dove si mangia un ottimo pesce: Il Sanlorenzo di via dei Chiavari in Roma. "Buongiorno Matteo, ti presento il professor Giuseppe Conte": quando Maria Elena Boschi porta a metà del 2013 il professor Conte dell'Università di Firenze al cospetto del sindaco di Firenze, Renzi non è ancora presidente del Consiglio, ma sta per candidarsi alle primarie del Pd per prendersi il partito e l'Italia con il benservito a Enrico Letta e il 40,8% alle Europee del 2014. […] Tutti volevano conoscere Renzi. […] Non era Conte però il professore di Diritto interessato a Renzi. Era stato Guido Alpa […] a chiedere di incontrare Renzi. Nella sua veste di presidente del Consiglio Forense e autorevole rappresentante dell'avvocatura, Guido Alpa aspirava a spiegare all'astro nascente del Pd le sue ricette per la giustizia. Conte conosceva Maria Elena Boschi che notoriamente conosceva bene Renzi. Il gioco era fatto. Conte quindi in quel giorno della metà del 2013 è solo l'intermediario e stava ad Alpa come Maria Elena Boschi stava a Renzi. La conversazione al Sanlorenzo si fa subito parallela sui due binari. Quello principale: Alpa-Renzi. E quello secondario: Boschi-Conte. Tutti seduti a un tavolo da quattro […] I due commensali "più importanti" (allora) parlavano del processo telematico e della riforma della giustizia civile. […] A maggio 2014 Alpa sarà nominato consigliere di Leonardo-Finmeccanica. Una scelta motivata da un curriculum lungo 8 pagine e non sponsorizzata dai partecipanti al pranzo. A settembre 2013, Giuseppe Conte viene votato dal Parlamento membro laico del Consiglio di Giustizia Amministrativa e inizia così la sua ascesa pubblica. Conte e Renzi non si vedono più fino a quando l'avvocato amico di Maria Elena Boschi diventa il premier del governo gialloverde. Per Renzi non deve essere stato facile digerire il brusco ritorno nella sua vita di quell'oscuro professore che gli pagò il pranzo al Sanlorenzo. Ora è al suo posto a Palazzo Chigi. Giuseppe Conte, inoltre, ha sempre avuto un effetto divisivo tra Matteo e Maria Elena. Dentro Italia Viva si racconta che Renzi avrebbe chiesto più volte alla sua ex ministra i messaggini scambiati con Conte quando era solo un professore di Diritto. Renzi sperava forse di trovare in quegli sms […] una traccia di sostegno per le riforme stesse o di solidarietà per le polemiche su Banca Etruria. L'uscita sui giornali di qualcosa di simile (ove esistesse) avrebbe potuto incrinare l'immagine di Conte agli occhi del M5S. Renzi […] tentò in tutti i modi di convincere Maria Elena Boschi a mollare il suo telefonino anche facendo leva sul comune amico Francesco Bonifazi. Nulla da fare. Chissà cosa c'è di vero. Di certo il sentimento di Renzi verso Conte non migliorò. Più il profilo pubblico dell'avvocato pugliese si ingigantiva nei meeting con Angela Merkel e Macron, più Renzi lo trovava antipatico. Nell'estate 2019, quando Matteo fa la mossa del cavallo e crea dal nulla il governo giallorosa, subito pone il veto al Conte-bis e mette in pista Raffaele Cantone (il pm che tuttora preferirebbe all'avvocato di Palazzo Chigi) e solo quando capisce che senza Conte rischia le elezioni con un Pd in mano a Zingaretti, Renzi capitola e rinvia la resa dei conti con Conte dopo la scissione del suo partito dal Pd. Il piano salta per due ragioni: il Covid e i sondaggi. Italia Viva resta inchiodata al 2% ben sotto l'ipotetica Lista Conte con l'aggravante che l'avvocato del pranzo al Sanlorenzo ora pesca nel suo stesso mare: il centro. Renzi decide di mandarlo a fondo, complice l'incerta gestione del Recovery Plan, prima che il semestre bianco blocchi ogni manovra. Così si arriva alla crisi senza pilota di questi giorni. Renzi prova a convincere i suoi a dare la spallata al Senato. Il gruppo però rischia di spaccarsi e allora, per non uccidere insieme al governo il suo partitino, Renzi risponde all'arrocco di Conte con uno stallo: astensione. Come finirà? Una risposta possibile la si può trovare a quel tavolo del Sanlorenzo. Maria Elena Boschi non ha mai interrotto il suo rapporto di stima cordiale con il professore. "Con Conte ci parla Maria Elena" è la frase che Matteo ha detto più volte in questi anni, sia quando è nato il governo giallorosa, sia quando si è parlato di farlo finire. In questa fase politica nulla è scontato. Il leader di Italia Viva ha una prospettiva individuale ben diversa da quella della sua capogruppo alla Camera. Renzi guadagna più di un milione all'anno facendo il conferenziere, mentre non c'è la fila di cinesi che vogliono ascoltare le riforme dell'ex ministra. Certo, i voti che contano sono al Senato mentre Boschi sta alla Camera però è l'unico esponente di Italia Viva con un profilo autonomo riconoscibile. Non subito magari, potrebbe giocarsi una partita sua dicendo il secondo no a Matteo, dopo quello degli sms.

PERCHÈ RENZI SI È ASTENUTO? PERCHÉ NON HA PROVATO A SEPPELLIRE CONTE VOTANDO NO? DAGONOTA il 21 gennaio 2021. Perché in Senato Renzi non ha provato a seppellire Conte, votando no? In primis perché non ha voluto rischiare la spaccatura all’interno di Italia Viva: se Bonifazi era pronto a votare no alla fiducia, altri erano a favore dell’astensione. E poi perché Renzi ha capito che se avesse fatto cadere il governo Conte-Casalino-Travaglio, mediaticamente sarebbe stato un disastro per lui. Nei giorni scorsi, giornali e talk hanno ripetuto a loop che la mossa di uscire dal governo di Renzi, durante una pandemia da 600 morti al giorno, è una follia, evitando ovviamente di sottolineare i fallimenti degli ultimi mesi di Conte, a partire dall’estate del liberi-tutti,: dalla sanità alla mobilità, dai bonus a pioggia (quello che Draghi definirebbe "debito cattivo") all’immobilismo totale per l’apertura di nuovi progetti industriali ("debito buono"). Quasi nessuno degli opinionisti ed editorialisti ha poi fatto cenno all’impermeabilità del premier quando dal PD, Mattarella compreso, gli si chiedeva “collegialità” nelle decisioni, dal Recovery Plan al Mes. Renzi, nel suo ruolo di "demolition man", è riuscito a picconare l’avvocato solo al comando. Nel suo discorso alla Camera, Conte ha accettato di mollare la delega ai servizi (vi ricordate? “L’autorità delegata spetta al premier”), ha accettato di portare in aula la nuova legge elettorale proporzionale (che aveva sempre bloccato), ha accettato le modifiche al Recovery Plan e di fare entro due/tre settimane l’indigesto rimpasto. Ecco: tutte le istanze e contestazioni renziane le hanno ottenute Zingaretti e compagni, senza avere più tra i piedi quel toscano rompicoglioni. Renzi è stato uccellato e poi gettato nel cassonetto dal PD, da una parte. Dall’altra, il disastro del Bullo è avvenuto, come già all’epoca del referendum che l’ha sepolto, proprio nel campo della comunicazione.  Non è stato capace di far capire alla gente i motivi della sua battaglia per contro terzi (gran parte del PD) contro il ''contismo senza limitismo''. Per quanto riguarda l'astio manifestato da giornali e talk, Renzi - da perfetto egomaniaco - non ha mai capito che in politica, ma anche nella vita, il carattere è più importante del talento. E l’arroganza non sostituisce una buona personalità. Sparare querele a pioggia (ne sa qualcosa Dagospia), non vuol dire "fare politica" ma solo continuare a fare il bullo del baretto di Rignano sull’Arno. Dove ad attenderlo c’è sempre un flipper.

Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" il 21 gennaio 2021. Tutti sanno che Giuseppe Conte, avendo ottenuto in Senato la "minoranza assoluta", avrà notevoli difficoltà a mandare avanti la baracca del governo, e molti sostengono che prima o poi crollerà. È una ipotesi non peregrina, ma personalmente, conoscendo le debolezze dei signori del Palazzo, mi sento di scommettere che il premier riuscirà a resistere ad ogni attacco. Non perché egli sia bravo nel gestire la cosa pubblica, questo no. E lo abbiamo sperimentato. Il problema è che nessun deputato (e nessun senatore) ha interesse a chiudere in anticipo la partita per un motivo terra terra: il desiderio, o meglio l' imperativo, di non lasciare la poltrona che ora c' è e va difesa fino alla morte, mentre in caso di elezioni anticipate sarebbe una impresa riuscire a riconquistarla. Per quale ragione? Il numero dei parlamentari, per effetto di una legge sconsiderata, è stato ridotto e le poltrone disponibili diminuite. La politica la fanno gli uomini, i quali, benché forse abbiano degli ideali, sono pronti a tradirli allo scopo di tutelare i propri interessi di tasca: primum vivere, deinde philosophari. Quindi l' opposizione non si faccia molte illusioni di poter ribaltare la frittata. Certamente, avessimo un Capo dello Stato muscolare la faccenda avrebbe un esito diverso, infatti è arduo accettare un esecutivo allo sbando quale il nostro attuale, tuttavia Mattarella non ha il nerbo necessario a rimescolare le carte sciogliendo le Camere e indicendo nuove elezioni. Da lui è lecito attendersi una spalmata di vaselina, di sicuro non un virile strappo. E affermiamo ciò con rispetto, avendolo visto all' opera negli ultimi anni. È una persona perbene, non un condottiero alla Cossiga, il presidente picconatore. Qualcuno confidava in Matteo Renzi, era persuaso che costui fosse in grado di rompere il giocattolo del premier e invece, al momento di dargli il colpo finale, si è limitato ad astenersi. Come si spiega ciò è semplice dire. Se egli avesse votato no, come sarebbe stato apparentemente logico, il suo gruppo di affezionati allo scranno gli avrebbe voltato le spalle. E addio Italia Viva e condoglianze per la sua morte. Il resto è soltanto chiacchiera.

Da huffingtonpost.it il 21 gennaio 2021. “Io vedo tanta rabbia e tanto rancore: ma una volta che hanno distrutto Italia Viva - e che magari riusciranno le operazioni di smembramento, perché l’odio viscerale che si sta alimentando verso Renzi è qualcosa di incommentabile - saranno in grado di affrontare i problemi di questo Paese? Perché io idee non ne vedo in giro e questo mi preoccupa. In questo anno noi abbiamo dato onore alle questioni di cui ci siamo occupati. La filiera agro alimentare è tornata ad essere strategica ed è stata molto sottovalutata dal Presidente Conte e da parte di altri ministri, perché evidentemente pur di fare guerra a Italia Viva non hanno riconosciuto il grande contributo che è stato dato all’Italia”. Lo dice ad RTL 102.5 l’ex ministra di Iv Teresa Bellanova, che conferma di aver ricevuto battute infelici da colleghi del cdm: E’ vero che è successo, ma non è il punto, il problema non sono le questioni personali”.

Giorgio Almirante, grand'uomo com'era, mai si sarebbe rivolto con tanta maleducazione nei confronti di un'Istituzione.

Salvini oggi come Meloni ieri: così il premier diventa “l’avvocato Conte”. La Stampa il 19 gennaio 2021. Non parla mai del presidente del Consiglio Giuseppe Conte come, appunto, “presidente del Consiglio”, ma  in ogni suo intervento lo cita come “avvocato Conte”. Il leader della Lega Matteo Salvini svilisce così il ruolo del capo del governo. E lo fa, in ogni suo intervento così come, ieri, lo aveva fatto nel suo discorso alla Camera la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. Le parole di Salvini, in sede di dichiarazioni di voto in Senato sulla fiducia posta dal governo attacca prima sul Recovery Fund: «Sono per due terzi dei prestiti che dovranno essere restituiti, non è “cosa vostra”, ma cosa di tutti». E poi tocca altre questioni. «Non state cercando dei volenterosi ma dei complici per non perdere la poltrona». Salvini cita così «l'avvocato Conte» quando parla di quota 100 e opzione donna: «Se l'Europa ci chiede di abolirle deve dire di no». Poi l’affondo: «State facendo quello per cui qualcuno prima è finito addirittura a processo, la compravendita di senatori». Parlando in Senato, sulla trattativa dei parlamentari e accusando Conte, Salvini spiega che ci sono stati due pesi e due misure: «State cercando dei complici da pagare per mantenere le poltrone». Il segretario leghista, nel suo discorso sulla dichiarazione di voto poi cita una battuta di Beppe Grillo alimentando una vera e propria baragge: «Ai senatori a vita che legittimamente voteranno la fiducia ricordo quello che diceva il leader" dei 5 stelle, ovvero che “i senatori vita non muoiono mai o muoiono troppo tardi”». A quel punto è intervenuta la presidente del Senato Elisabetta Casellati, biasimando le sue parole. «Sono d'accordo con lei, presidente - ha aggiunto Salvini - che le parole dette sono disgustose e quindi il senatore M5 che interverrà dopo di me chiederà scusa».

Da video.repubblica.it il 19 gennaio 2021. "Ricordo ai senatori a vita che si apprestano a votare la fiducia cosa diceva il leader dei 5 Stelle di loro: “non muoiono mai o muoiono troppo tardi”. Che coraggio che avete ragazzi senatori a vita". Lo dice Matteo Salvini concludendo il suo intervento in Aula dopo le comunicazioni del presidente Conte. Immediate le proteste in aula, che hanno costretto anche la presidente del Senato Casellati ad intervenire: "Affermazioni irrispettose". Il leader della Lega ha poi sottolineato che le parole affermate erano state pronunciate da Beppe Grillo.

Da huffingtonpost.it il 19 gennaio 2021. “Ricordo ai senatori a vita che si apprestano a votare la fiducia, cosa diceva il leader dei 5 Stelle di loro, ‘non muoiono mai o muoiono troppo tardi’”. Così il leader della Lega, Matteo Salvini, in sede di dichiarazioni di voto in Senato sulla fiducia posta dal governo alle comunicazioni del premier Giuseppe Conte sulla crisi di governo. “Ai senatori a vita, che legittimamente vengono a votare, che coraggio che avete...”, conclude. A quel punto la maggioranza è insorta contro le parole del leghista tanto che è dovuta intervenire la presidente del Senato Elisabetta Casellati, biasimando le sue parole. “Sono d’accordo con lei, presidente - ha aggiunto Salvini - che le parole dette sono disgustose e quindi il senatore M5 che interverrà dopo di me chiederà scusa”.

Meloni furiosa alla Camera: Conte uno sconosciuto in preda a delirio di onnipotenza. Il Messaggero Lunedì 18 Gennaio 2021. Giorgia Meloni attacca in modo frontale Giuseppe Conte, annunciando lo scontato "no" di Fratelli d'Italia alla fiducia alla Camera. Lo definisce «sconosciuto» in preda a un «delirio di onnipotenza» e perfino «Barbapapà» per il fatto di essere rimasto al suo posto passando da un governo con Salvini a quello con il Pd. Meloni denuncia un «mercimonio» in Aula e «i voltagabbana che ora vengono chiamati costruttori». E ancora: «Avvocato Conte, lei un tempo diceva 'Noi voliamo alto'. Sì, con la Mastella airlines! Voi la prima Repubblica la fate ampiamente rimpiangere. Allora c'erano gli stessi partiti che cambiavano il premier, adesso addirittura c'è lo stesso premier e cambiano continuamente quelli che lo sostengono». «Avvocato Conte, lei è stato prima populista, poi ortodosso europeista, prima di destra, poi di sinistra poi di centro, ma anche socialista e liberale. Prima a favore e poi contro l'immigrazione illegale, la Tav, quota 100...prima amico e poi nemico di Salvini, ma anche di Renzi e pure Di Maio. Qualsiasi cosa pur di rimanere dov'è». «Il suo barbatrucco è di presentarsi come quello che vuole ricostruire l'Italia dopo averla distrutta - ha continuato - E chissà quanto saranno utili i compassi per questa operazione! Ma credo che stavolta i giochi non funzioneranno». E a proposito della riforma della legge elettorale citata dal premier, Meloni affonda: «C'è l'emergenza ma loro si occupano di quello». «Avvocato Conte - prosegue ancora Meloni - lei pensa di risolvere tutto questo aggiungendo Mastella e di Maio? L'Italia non può permettersi improvvisati, ricattatori, l'Italia ha bisogno di visione, di forza, coraggio e capacità di indicare la rotta. Ma lei non è in grado. Se avesse a cuore il destino di questa nazione, si sarebbe già fatto da parte». E conclude: «Ora è il tempo dei patrioti, della libertà, di un'Italia che si rimette in piedi e torna a camminare, con una classe politica all'altezza della sua storia e che voi non rappresentate».

Meloni infiamma l’Aula: «Altro che avvocato del popolo, Conte avvocato d’ufficio». Il Dubbio il 19 gennaio 2021. Italia viva conferma l’astensione sul voto di fiducia alla Camera. «Avvocato Conte, stamattina io mi sono vergognata per lei, non solo per quell’aiutateci che tradiva la sua disperazione, ma per il mercimonio che ha inscenato in quest’Aula nel tentativo di darne dignità. Lei Conte si presentò come avvocato del popolo: avvocato d’ufficio, perché gli avvocati la gente se li sceglie e non è il caso della sua presenza». Comincia così l’affondo senza esclusione di colpi di Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, nel suo intervento alla Camera in dichiarazione di voto. «Voliamo alto… con la Mastella airlines», ha ironizzato. «Fate rimpiangere la Prima Repubblica – ha aggiunto – perché nella Prima Repubblica c’erano gli stessi partiti e cambiava il presidente della Repubblica. Qui cambiano i partiti ma resta lo stesso presidente del Consiglio». Giuseppe Conte, «dopo aver distrutto l’Italia» si vuol presentare «come quello che la vuole ricostruire, raggranellando una serie di disperati voltagabbana che però chiamiamo ricostruttori», dice Meloni nel suo intervento, aggiungendo: «Penso che stavolta il gioco non vi riuscirà perché mi piace pensare che in questo Parlamento ci sia ancora un briciolo di buonsenso». «Chi ha la responsabilità di aver stravolto le nostre vite, la Cina, approfitta delle nostre debolezze, per aggredire l’economia italiana e non solo» e il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, «viene qui ad esaltarla: si deve vergognare per questo», accusa Meloni quindi chiamando il presidente del Consiglio Barbapapà per il suo trasformismo. «Siamo pronti a governare, con il centrodestra, ma sarebbe difficile in un Parlamento a maggioranza grillina», come quello attuale, ha quindi concluso la leader di Fratelli d’Italia. «La nostra è stata una rottura responsabile, siete venuti qui senza l’assillo della maggioranza relativa perché vi abbiamo garantito che ci asterremo» sulla fiducia, «così come abbiamo garantito il nostro sì allo scostamento, e ai provvedimenti» importanti, «e questo perché leggiamo le paure dei cittadini», ha detto invece in dichiarazione di voto alla Camera Ettore Rosato, presidente di Italia Viva che conferma i voti a favore sullo scostamento di bilancio, sul nuovo decreto Ristori e sui provvedimento per contrastare la pandemia mentre si asterrà sul voto di fiducia alla Camera. «Ma voi pensate davvero che il problema del governo si chiama Matteo Renzi? No, sono le cose che non funzionano, e sono tante e non si risolvono con un partner in più o in meno nella maggioranza, non serve il tatticismo: noi abbiamo teso una mano perché ci consideriamo dei costruttori, con i loro limiti, ma ora presidente sta a voi decidere se aprire un confronto fino in fondo sui contenuti o sui nostri caratteri. Sta a voi capire se da una crisi si esce in maniera più forte o più debole, se è questa l’occasione di chiudere la crisi». «Altrimenti sia chiaro, a noi non spaventa l’opposizione, anche dall’opposizione faremo sempre il tifo per l’Italia ma la personalizzazione di uno scontro politico va fatta quando serve ma quando si vuole trovare sintonia rispetto agli italiani bisogna avere coraggio e volere il confronto su questioni di merito», ha aggiunto.

Dal Conte "messia" al "pop mistico" della Meloni, tutti i segreti dietro le parole dei leader. Da Conte alla Meloni, con il professor Guerino Nuccio Bovalino, autore di "Imagocrazia", abbiamo passato in rassegna i discorsi dei leader politici svelandone i segreti. Elena Barlozzari, Mercoledì 20/01/2021 su Il Giornale. C’è chi non si smentisce e chi stupisce. Chi è intrappolato in un personaggio e chi invece ridisegna confini. Con Guerino Nuccio Bovalino, docente di Immaginari dell’era digitale all’Università Dante Alighieri di Reggio Calabria e allievo di Michel Maffesoli alla Sorbonne, abbiamo passato in rassegna alcuni dei discorsi pronunciati in Aula in questi giorni. Quali sono gli immaginari che si scorgono dietro le parole dei leader? Come osserva il professor Bovalino nel libro "Imagocrazia", lo scontro dialettico nasconde significati da indagare.

Professor Bovalino, che ne pensa della performance di Conte?

"Il premier ha costruito accuratamente la propria immagine di novello Re Sole. Non ha un partito dietro di sé, ma grazie all’emergenza sanitaria ha saputo trasformare questa debolezza in forza: egli è il messia. E nel suo discorso messianico si è dipinto come il predestinato che guiderà l’Italia fra le intemperie verso la terra promessa. È un messia per caso."

Da premier per caso a messia per caso…

"Capovolgendo le accuse di essere un premier improvvisato, ha creato un sottile parallelismo con le parole di Borsellino, che raccontava di aver iniziato per caso a lottare contro la mafia. Forse anche Conte si sente investito dal caso del ruolo di salvatore nel momento della tragedia pandemica? Spregiudicato con stile. La forma estetica mai scomposta e immobile contrasta con la disponibilità alla continua metamorfosi interiore."

E dell’intervento di Matteo Renzi che mi dice?

"La performance renziana si inserisce perfettamente nella sua ormai riconoscibile immagine di uomo del presente, di colui che radicalizza l’istante, come ogni giocatore d’azzardo che si rispetti. Nel suo intervento richiama addirittura il concetto del kairos, il momento supremo, l’ora o mai più, “perché ora ci giochiamo il futuro”, esortazione che conferma il forte lato istintivo e il presenteismo di Renzi."

Oltre il Renzi filosofico, c’è anche quello politico…

"Renzi si presenta ancora come il golden boy, che crede di potersi nutrire della mitologia obamiana seppur trasfiguratasi oggi nel meno fascinoso Biden. Renzi ci tiene comunque a sottolineare che è lui l’Ammericano a Firenze. Si scaglia contro il reality show di Casalino, criticando la vittoria del consenso a discapito delle idee, e sbraitando contro la sondocrazia, memore della volubilità dei flussi elettorali che dal 40 per cento lo hanno relegato velocemente a un misero 3 per cento."

Veniamo a Matteo Salvini…

"Nel suo discorso si è presentato come il leader dei lavoratori, il comunista liberale, che inneggia alla giustizia sociale ma difende la proprietà privata, attacca le banche ma accusa il governo di non aver aiutato le imprese italiane. Il suo nuovo motto è operai versus europeismo."

Un Salvini forse meno radicale?

"Assolutamente, ed è visibile negli attacchi alla Cina e nell’esplicita fedeltà atlantica che traspare dal suo intervento. Salvini si spinge anche oltre disegnando un pantheon moderato che va da De Gasperi a Papa Wojtyla. Gli altri temi sono i cavalli di battaglia della Lega, come l’agricoltura, la lotta al cibo sintetico e la critica all’ambientalismo di facciata di questo governo."

La leader dei patrioti è stata sicuramente la più creativa…

"Quello della Meloni è stato forse il più interessante degli interventi: una miscellanea ben riuscita di richiami allo spirito patriottico più aulico e di citazioni e battute pop. Mastella airlines ha riportato a voli meno pindarici le intenzioni di Conte di “volare alto”. Il Conte Barbapapà, capace di assumere le forme di tutto e tutti, è stato il vero colpo di classe, a conferma di come la destra meloniana riesca a maneggiare l’immaginario collettivo meglio di altri partiti."

Quali sono i punti di forza del suo discorso?

"Il punto cardine del discorso della Meloni è una certa idea di libertà, parola ripetuta più volte in un intervento intriso di realismo e di un fideismo mistico che è tipico della destra profonda, quella che ama richiamare i concetti da sempre cari di destino e nazione, nel nome della “grande storia dell’Italia”."

IL DISCORSO DI SANDRA LONARDO AL SENATO. "Signora Presidente, Signor Presidente del Consiglio, Colleghe e Colleghi. Mai nella vita, avrei immaginato di fare oggi l’elogio del Sen. Salvini e del suo, glielo riconosco, CORAGGIO DELLA RESPONSABILITÀ. Gli do atto, che, dopo un mese dalle elezioni, riuscì, con sprezzante senso del pericolo mediatico, a rompere il PATTO DI SOLIDARIETÀ POLITICA, con Forza Italia e con Fratelli d’Italia, e fece da COSTRUTTORE; per la inedita alleanza con gli odiati 5 stelle. Si disse, da sinistra, che l’operazione era trasformista, e lui somigliasse molto a Mastella, che tanto aveva criticato. Poi la legislatura andò avanti in modo stentato, nonostante numeri elevati di sostegno parlamentare. Le liti ideologiche e la incomunicabilità crescente portarono alla divisione ed alla rottura politica. Anche allora, e non c’era il dramma umano ed esistenziale del COVID, il Paese rumoreggiava, e la collera montava contro le istituzioni. Ecco, con un colpo di genio, salire sul palcoscenico un protagonista indiscusso, Matteo Renzi. Eletto col PD, lascia il partito, ne fonda uno suo e realizza un capolavoro politico. Con il CORAGGIO DELLA RESPONSABILITÀ, mette assieme Guelfi e Ghibellini, dimentica le cattiverie lessicali e le denunce giudiziarie da parte dei 5 Stelle e, miracolo, fa un Governo con loro. I boatos da destra gridano allo scandalo: imita Mastella, dicono alcuni ben noti media, ed alcune vergini della moralità politica ferita. Quanto all’On. Meloni, che, ieri, con fare plateale, alla Camera, ha parlato, con disprezzo, di una linea aerea della famiglia Mastella, voglio ricordare a lei, (che con ipocrisia se ne è dimenticata), a questa Aula, oltre che agli italiani, che l’On. Meloni, utilizzò il confortevole aereo di Scilipoti per conservare il suo posticino di Ministro nel Governo Berlusconi, che resse, dopo il duello con Fini, solo grazie all’apporto di Scilipoti... incredibile dimenticanza per una donna senza macchia, che fa della moralità un suo ipocrita cavallo di battaglia.

Per la storia, la Meloni, fece il Ministro, grazie a Scilipoti...

Perché non si dimise?

Perché non ebbe crisi di coscienza?

Perché non fece l’eroina dicendo No a voti che arrivavano dall’altra parte?

Perché non si è vergognata di volare con la linea aerea Scilipoti?

Anzi, come si stava sull’aereobus di Scilipoti?

Che doppiezza morale!

Ma ci faccia il piacere, per dirla alla Totò.

Una doppiezza ed un livore immorale...

Arriviamo ad oggi.

Il Paese è terribilmente segnato da una apocalisse sanitaria e sociale, i partiti che sostengono il Governo, non si salutano politicamente più, c’è in giro un senso di smarrimento...

Un gruppo di parlamentari con il CORAGGIO DELLA RESPONSABILITÀ, lo stesso mostrato da Salvini e da Renzi in altri momenti, fa scelte,  non di avallo alla formula di Governo, ma di amore per il Paese.

C’è una sostanziale differenza, però.

Salvini diventa, da responsabile, il COMANDANTE con i gradi di Vice Premier, Renzi tenta di calcificare la sua esperienza, nata da non molto, con una pattuglia di Ministri, questa, parlo per me, mia responsabilità, nulla chiede, nulla pretende. Allora perché? Perché, chi come me è partita da ragazzina per l’estero come emigrante, con la sua famiglia, ha sempre avuto per l’Italia distante un affetto smisurato; la lontananza fa ragionare così: Ora questo Paese richiede, da chi lo ama, non crisi di Governo, ma slanci generosi e governabilità, è stremato, sanguinante, spaesato.

La ruota quadrata non gira più, la forbice tra ricchi e poveri si allarga, c’è paura del futuro.

Il sistema avanza a fatica.

La classe media balbetta nella insicurezza, il bisogno è più marcato.

Mezzo milione di disoccupati in più.

Per queste ragioni, mi sento responsabile e darò il mio voto al Governo europeista del Presidente Conte. Sandra Lonardo"

Insulti choc della grillina alla Meloni: ​"Caciottara, ridicola, fai vergogna". Valentina Corneli su Instagram: "Ai tempi gli Scilipoti venivano comprati da lei per fare il ministro". Poi la frase sui "fondi della mafia". Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 20/01/2021 su Il Giornale. Lo scontro su "voltagabbana", "responsabili" e "costruttori" si sposta dal Parlamento ai social. I toni restano aspri. E nel tritacarne ci finisce Giorgia Meloni, apostrofata duramente dalla deputata M5S Vanetina Corneli, che prima la definisce "caciottara" e poi la accusa di aver "comprato" senatori con tanto di "valigie piene di fondi neri della mafia". Lo scontro nasce sulla pagina Instagram di Ivan De Grandis, consigliere pronvinciale e comunale di Fratelli d'Italia a Novara. L'occasione è un post, critico ma garbato, sui Cinque Stelle "umiliati, lapidati, tristi" perché costretti ad "implorare pietà alla casta che dovevano combattere per non perdere le loro poltrone d'oro". Un'analisi politica, quella del consigliere, sui grillini No-Euro che fanno appello agli europeisti, sui 5S che "erano per governare da soli e oggi vogliono una legge proporzionale", sui pentastellati "contro il trasformismo" che ora "supplicano i voltagabbana". Il post raccoglie qualche like e alcuni commenti. Tra questi pure quello di Valentina Corneli, deputata grillina, che fa irruzione nella pagina di De Grandis a gamba tesa. Secondo la 5S ieri la moglie di Mastella avrebbe "asfaltato" in Senato la "caciottara" Meloni. In che modo? "Ricordandole che ai tempi gli Scilipoti venivano comprati da lei per fare il ministro". L'accusa è pesante, e non è tutto. "Chiaro - aggiunge Corneli - che ai tempi non c’era alcuna pandemia e dovevano rubare solo a 4 mani, non c’era trasparenza parlamentare e tutto si risolveva con valigie piene di fondi neri della mafia". E giù con epiteti del tipo "volgare", "ridicola", "senza scrupoli" tanto da "far vergognare un Paese intero". Per De Grandis si tratta di affermazioni gravi, esagerate, "soprattutto perché fatte da una deputata". "Ancora più grave - sottolinea - l'accusa proprio a Giorgia Meloni di aver fatto uso dei fondi della mafia, lei che ha iniziato a fare politica in seguito agli attentati mafiosi a Falcone e Borsellino".

 Giorgia Meloni umilia con l’ironia chi la chiama “pesciarola”. E Scanzi rosica. Valeria Gelsi mercoledì 20 Gennaio 2021 su Il Secolo D'Italia. Con ironia, quando si parla di lei, ma serissima, quando si parla della dignità degli italiani e di quella che, invece, manca a Pd e M5S. Giorgia Meloni risponde così ai giallorossi dentro e fuori dal Parlamento che, dopo il suo discorso alla Camera, l’hanno accusata di essere una “pesciarola”, recriminando sul tono della voce troppo alto mentre inchiodava Giuseppe Conte alle sue responsabilità e alla sua inadeguatezza. Meloni ha affidato il suo messaggio a un video postato su Facebook. La si vede arrivare “in scena” con una cassetta di pesce in mano, declamandone le qualità e gli “ottimi prezzi”. “La sinistra e i Cinquestelle, evidentemente piccati perché ieri in Aula ho detto la verità, da oggi, in blocco, mi chiamano pesciarola, dimostrando, ancora una volta, quanto siano distanti dalla gente comune. Quanto la schifino. Invece a me, che sono una persona di popolo, la cosa non dà affatto fastidio“, dice Meloni nel video, che in poche ore ha avuto oltre un milione di visualizzazioni e più di 70mila like. Sgombrato il campo dall’idea che per lei quel “pesciarola”, che la sinistra considera un insulto, non è affatto mortificante, Meloni passa a chiarire, di cosa, invece, ci sarebbe da vergognarsi. “Una cosa ai compagni la voglio dire: vedete c’è gente che fa un lavoro nobile, come vendere il pesce, e c’è gente che fa un lavoro ignobile, come comprare le persone in Parlamento. Voi potete dire che io faccio parte della prima categoria, ma sicuramente voi fate parte della seconda”, conclude Meloni nel filmato, nel quale, come sottolinea FdI, che l’ha rilanciato, la leader del partito “umilia grillini, piddini e Scanzi vari”. Era stato proprio Scanzi, infatti, la sera stessa dell’intervento della Meloni in aula a dettare la linea, parlando a Otto e mezzo di “mercato del pesce” e compiacendosi a tal punto della raffinata analisi politica da produrci sopra un suo video. Il filmato del giornalista, però, era risultato come un autogol, poiché affiancava la sua battuta arrogante e snob a uno dei passaggi più intensi del discorso della Meloni, dando la misura esatta dell’abisso che li separa. Ecco, non contento Scanzi ha ritenuto di replicare e ha prodotto un nuovo video prendendo il solo spezzone di Meloni con la cassetta del pesce, pensando così di ridicolizzarla. Ma riuscendo solo a fare perfino peggio di prima.

 "Lavoro nobile vendere il pesce, ignobile comprare parlamentari". La “pesciarola” Meloni batte Scanzi e le offese dei 5Stelle: “Voi la gente comune la schifate”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 20 Gennaio 2021. Da una parte la “pesciarola“ Giorgia Meloni che risponde alle accuse della sinistra, e in particolare del Movimento 5 Stelle, e pubblica un video diventato nel giro di 24 ore virale sui social con oltre un milione e 200mila visualizzazioni e 80mila like. Dall’altra Andrea Scanzi, giornalista, scrittore ma soprattutto influencer sui social che prende il video in questione, lo taglia ad hoc e attacca “Donna Giorgia” sui “toni allegramente sguaiati” utilizzati “alla Camera” nel corso del voto di fiducia. Nel suo video la leader di Fratelli d’Italia si fa riprendere con in mano una scatola con all’interno del pesce fresco. Un filmato per replicare alle accuse dei Cinque Stelle e denunciare una, presunta, compravendita di senatori per rafforzare la maggioranza del premier Conte, debilitata dalla fuoriuscita di Italia Viva.“La sinistra, i 5 Stelle, mi chiamano “pesciarola” dimostrando ancora una volta quanto siano distanti dalla gente comune, quanto la schifino” spiega Meloni. “Invece a me, che sono persona di popolo, la cosa non dà affatto fastidio. Ma una cosa ai compagni la voglio dire – aggiunge – vedete c’è gente che fa un lavoro nobile come vendere il pesce e c’è gente che fa un lavoro ignobile come comprare le persone in Parlamento. Voi potete dire che io faccio parte della prima categoria ma sicuramente voi fate parte della seconda”. Poco dopo  la parte iniziale del video viene utilizzata da Scanzi per attaccare la deputata senza alcun riferimento alle offese rivolte dai pentastellati: “Davvero un bel video, il suo. All’altezza di una vera statista quale lei è” chiude l’influencer che racimola più della metà dei like della Meloni (circa 35mial) e poco meno di un milione di visualizzazioni nonostante una pagina social con più fan all’attivo (circa centomila in più della leader di Fratelli d’Italia).

Dagonews il 19 gennaio 2021. Vittorio Sgarbi critica la decisione del senatore a vita Liliana Segre di annunciare il voto di fiducia al Governo Conte. “Conosco il rischio delle mie parole - osserva Sgarbi - e mi pare lecito che in democrazia chiunque possa votare a favore o contro un Governo. Ma un senatore a vita avrebbe il dovere di astenersi, non solo per l’evidente ragione  che non è eletto, ma perché la sua autorevolezza e la sua scelta possono assumere, come nel caso della Segre, un significato morale. Per questo, ammesso che il suo voto sia favorevole al Governo, la giustificazione per cui la senatrice ha deciso di votare assume il senso di un orientamento a senso unico con il disprezzo per chi non lo condivida: “Di fronte a questa situazione - ha dichiarato la Segre- ho sentito un richiamo fortissimo, un misto di senso del dovere e di indignazione civile''. Questi due moti - argomenta Sgarbi - ispirano anche chi, per inadeguatezza del governo  (la senatrice si affiderebbe a un autista senza patente?) ritiene di sfiduciare Conte per avere un premier più adeguato ai tempi difficili che stiamo vivendo. Nel caso mio ascolterei le indicazioni del ministro della Sanità se fosse Palù e non Speranza, e mi pare legittimo voler sostituire ministri impreparati e confusi, e cambiare Governo”. Sgarbi ricorda poi l’impegno politico del marito della senatrice a vita, Alfredo Belli Paci, nel Movimento Sociale Italiano: “Conoscendo i suoi sentimenti e la sua condivisibile concezione della libertà e dell’antifascismo - aggiunge Sgarbi - mi chiedo: “Ha mai manifestato, la Segre, la sua indignazione civile per la candidatura del marito, alle elezioni politiche del 1979, nel MSI?” Conclude Sgarbi: “In democrazia ogni voto è legittimo e motivato da un profondo ‘senso del dovere’. Un senatore a vita, con i suoi meriti, astenendosi, darebbe un segnale di responsabilità democratica; votando a favore del Governo non dovrebbe fare prevalere la sua autorità morale, nel ritenere  "indegni" ,con la sua indignazione a senso unico ,i deputati che non votano la fiducia”

Giuseppe Conte e i giallorossi? Per sopravvivere rilanciano Liliana Segre: una grande donna, non se lo meritava. Renato Farina su Libero Quotidiano il 19 gennaio 2021. Il Corriere della Sera, nel suo bollettino delle ore 12, spedito agli abbonati, informava ieri sul lavoro dei sensali impegnati a procurare i voti necessari alla sopravvivenza di Giuseppe Conte. Ed eccoci al capitolo senatori a vita. Pesano eccome quelli che Francesco Cossiga con fantastica autoironia chiamò «i voti col pannolone»: sempre lì stanno appesi i governi di sinistra nell'ora fatale. Nessuna intenzione di svilire il «sì» alla fiducia sulla base del pregiudizio razziale di una data di nascita. Impressiona però il resoconto del Corriere: «Sono in corso trattative per convincerli a tornare a Palazzo Madama e votare». Trattative con la coscienza? Escludiamo mercimoni, ovvio. Quale sarà allora l'offerta che non si può rifiutare per convincerli a viaggiare per Roma? C'è aria di ricatto morale, e di una tacita accusa di viltà qualora accampassero la medesima ragione per cui hanno dovuto dire di no alle visite dei nipoti. Tranne Elena Cattaneo e Mario Monti, che si sa voteranno «sì» , gli altri - Giorgio Napolitano, Liliana Segre, Carlo Rubbia, Renzo Piano - sono sopra gli ottanta. Immaginiamo il discorso dei questuanti. Al diavolo il rischio Covid, che sarà mai, di fronte alla prospettiva di salvare Giuseppe? Il ministro della Salute Roberto Speranza ha assegnato quelli della loro età ad una stanza chiusa con il silicone, essendo soggetti a rischio. Ma si può anzi si deve fare uno strappo - da lì la trattativa (a base di amuchina?) - per vederli a Palazzo Madama per pronunciare la paroletta magica che magari può compromettere la loro salute ma preserva quella di Conte.

SOGGETTO A RISCHIA. E siamo al caso di Liliana Segre, 90 anni, usata come insegnano i canoni del socialismo reale, vedi i manifesti sovietici delle eroine disposte a morire per Stalin. Non lo meritava. La senatrice è una grande donna. Qualunque cosa faccia avrà da noi solo reverenza. Ma ecco come la gazzetta ufficiale di Conte - ci siamo capiti: è il Fatto Quotidiano - ha enfatizzato la sua scelta che è diventata il titolo di prima pagina: «Segre: "Sono indignata, vado a Roma per la fiducia a Conte"». Spiega: «Non partecipo ai lavori del Senato da molti mesi perché, alla mia età, sono un soggetto a rischio e i medici mi avevano caldamente consigliato di evitare. Contavo di riprendere le mie trasferte a Roma (da Milano) solo una volta vaccinata, ma di fronte a questa situazione ho sentito un richiamo fortissimo, un misto di senso del dovere e di indignazione civile».

MESSAGGIO SUBLIMINALE. Soprattutto è indignata con chi vuole fare cadere Conte per difendere «quello che Guicciardini chiamava il particulare». Domanda: è proprio sicura che non sia invece Conte a tenersi stretto con le unghie e con i denti il suo particulare destino di potere? Inquieta me, non so voi, che Conte non si sia alzato per implorarla di non rischiare la vita per la sua cadrega, non serve, se cado ne trovano un altro; al massimo si va a votare, e lei voterà attraversando la strada. Invece niente. Neppure Nicola Zingaretti ha eccepito dicendo: non si esponga, almeno la si scafandri. Zero. Si accettano sacrifici umani per stare al potere, ovviamente per il bene comune. Un altro titolo del Fatto virgoletta parole che la Segre si guarda bene dal pronunciare nel testo firmato da Gad Lerner: «Italia in pericolo». C'è un messaggio chiaro. Una volta lo si sarebbe detto subliminale, oggi si chiama ipertesto. Traduco. Il pericolo non è il Covid ma il fascismo razzista in agguato se cade il governo. Segre infatti vuol dire Shoa. È la testimone più autorevole - lo diciamo ai due italiani su cento che lo ignorassero - dell'orrore di Auschwitz, dove fu rinchiusa nel 1944. È stata fatta senatrice per il suo impegno di una vita a tenere accesa la memoria del genocidio. E - va detto - il tutto senza mai prestarsi a strumentalizzazioni di partito. Finché il 22 gennaio del 2020 sospese «gli incontri con le scuole e gli studenti per limiti di età». Il nipote spiegò: «Dopo 30 anni di continui appuntamenti è provata». Conte salvala, è più importante di te, tanto ti salvi lo stesso.

COME ROSY BINDI. C'è il caso di un'altra signora oggetto di trattativa. È la senatrice Paola Binetti, Udc. Partita con l'Ulivo se ne andò dal Partito democratico in polemica con le posizioni pro-aborto e matrimoni omosessuali. Docente universitaria di psichiatria, non ha mai ceduto su nulla, divenendo un bersaglio costante della sinistra e dei grillini sui temi etici. L'ultima dichiarazione della Binetti si riferisce alla decisione del ministro dell'Interno Lamorgese di tornare a far scrivere genitore 1 e genitore 2 sulle carte di identità dei minori di 14 anni. «È l'ennesimo attacco alla famiglia e alle figure di padre e madre che questo governo non ha mai tutelato». Politicamente scorrettissima. È bastato però girasse voce di una sua propensione a votare la fiducia a Conte per essere trattata come una diva, un trattamento verso una cattolica che nel giro giallorosso a suo tempo toccò solo a Rosy Bindi. Alla Binetti è toccata una settimana di vezzeggiamenti, lusinghe, ammiccamenti. Persino protagonista ieri del programma più popolare e gustoso di Radio Rai, Un giorno da pecora. Ha detto di no, «voto la sfiducia». Ma per evitare di essere messa allo spiedo ha soggiunto: «Domani voto no, dopodomani vedremo». Secondo me la impiccano al suo cilicio.

Dagoreport il 19 gennaio 2021. Cosa abbiamo ascoltato oggi in Senato, durante le dichiarazioni di voto per la fiducia al governo? Un citazionismo continuo della prima Repubblica, con le evocazioni di Moro e Nenni, per nobilitare discorsi loffi, ridondanti e gravidi di retorica. C’è chi ci ha inflitto la fuffa letteraria sventolando Montale, chi ci ha sbomballato il sistema nervoso con una drammatizzazione emotiva sul Covid (“un killer invisibile si aggira per le strade”) e chi si è rifugiato in un pop di risulta citando la canzone “Un Senso” di Vasco Rossi. Emma Bonino strappa due-applausi-due, la calabrese Caligiuri legge con cadenza scolastica, Richetti spippola al cellulare (Tinder o Facebook?), Mario Monti non perde l’occasione di ricordarci chi è e definisce l’Italia “una Repubblica democratica fondata sul debito pubblico”. E poi parole, parole, parole. Discorsi inutili, inascoltati, utili come un kleenex usato. Di cui frega nulla ai più. Misteri d’aula: ma i peones parcheggiati in Parlamento solo a pigiare tasti, perché si sentono in dovere di prendere la parola per torturarci con le loro banalità, nei momenti più delicati? Menzione speciale per i grillini, grandi maestri della friggitoria ideologica, che tuonano su scienza e vaccini come novelli Burioni. Proprio loro che hanno portato almeno una no vax (Sara Cunial) in Parlamento. Non solo: i senatori pentastellati riveriscono Liliana Segre, dopo aver difeso Elio Lannutti quando twittava sul finto complotto giudaico-massonico dei Savi di Sion. Se volete darvi un tono a cena con gli amici, rigiocatevi le untuose e avvolgenti cotonature linguistiche del leguleio Conte. Ecco i “tag” da segnare: “A tacer d’altro”, “sintesi superiori”, “gravità dell’ora”, “il tornante della storia umana”, “piccolo florilegio”, “empowerment femminile”, “non una estrinseca adesione ma un convinto ancoraggio”, “il campo dell’opinabile”. L’aggettivo del giorno è “indefesso”. E cà nisciun è fesso.

Costruttori, badanti, sanificatori. Così Giuseppe Conte sopravvive a se stesso. Susanna Turco su L'Espresso il 20 gennaio 2021. Il premier promette di tutto a tutti, ma non supera la soglia dei 156 sì al Senato. Renzi resta isolato. La crisi cominciata come «incomprensibile» si svela modesta. Colpi d'ala, zero. Rinforzi potrebbero arrivare da Forza Italia. Il momento di massimo pathos al Senato è arrivato quando a metà pomeriggio i sanificatori, gli addetti all'igienizzazione anti-covid, si sono messi a spruzzare disinfettante su oggetti e poltrone in pelle della Sala Garibaldi facendo lo slalom tra giornalisti, collaboratori e personale vario radunati ad ascoltare il dibattito, proprio mentre sui mega schermi andava in onda l'intervento più atteso della giornata, quello di Matteo Renzi. Cosicché nelle gravi pause teatrali del leader di Iv si poteva udire il «fffhh-ffhh» dei salvifici spruzzi, con relativo effetto comico e sghignazzi soffocati dalle mascherine. «Abbiamo un record al mondo, siamo i peggiori sull'economia», diceva Renzi. «Ffhh-fffhh», rispondevano i sanificatori. «Lei ha avuto paura di salire al Quirinale», diceva Renzi. «Fffhh-fffhh», rispondevano i sanificatori. «È il kairos, il momento opportuno: ora o mai più», diceva Renzi. «Ffhh-fffhh- fffhhh», rispondevano i sanificatori. Un momento speciale, isolato. Per il resto, una crisi di governo così anaffettiva non s'era vista mai, neanche nei momenti più grigi del governo Monti. Se era cominciata «incomprensibile», questa partita, è finita trista. Un dibattito più volte definito «surreale», ancora più spesso in realtà decisamente modesto, approssimativo, tra sfoggio di greco antico, evocazioni africane, citazioni di Borsellino, Fanfani, Andreotti, persino di Zio Crocifisso dei Malavoglia. Colpi d'ala zero: nessun vento politico, né lessicale, né tattico-strategico, ha sollevato il vortice della crisi oltre il livello da portineria al quale era cominciata. Nulla è decollato. Solo un incessante via vai di facce di cera, dal capodelegazione Pd Dario Franceschini al reggente M5S Vito Crimi, mentre il ministro grillino Federico D'Incà, in un angolo appartato, riceveva e tentava di convincere gli incerti porgendo le soluzioni più varie. Alla fine, Matteo Renzi è rimasto inchiodato alle accuse che ha rivolto al premier da oltre una settimana, senza risparmio, su tutte le piattaforme disponibili. Giuseppe Conte ha fornito illustrazioni sempre più balbettanti del proprio operato, promettendo di tutto con sempre maggior vaghezza, e dicendo solo all'ultima replica che senza i numeri sarebbe stato pronto ad “andare a casa”. Pura contrapposizione: nessuna manovra terzista o trasversale o diversiva, nessun lievito politico a costruire manovre, a immaginare un primo tempo, un terzo tempo, un dodicesimo round. Le accortezze lessicali, roba d'altri tempi: nel confronto, uno come Pier Ferdinando Casini è parso un gigante. Quanto ai numeri, attesissima misura di tutte le cose in mancanza di meglio, è finita 156 a 140 dopo che alla Camera s'era registrato lunedì sera il brivido di un 321 sì, cinque in più rispetto alla maggioranza assoluta di 316, grazie a 4 voti di ex M5S e uno della Fi Renata Polverini, prima di una serie di sostenitori azzurri, secondo la prevalente spiegazione circa la futura maggioranza del governo Conte. Stavolta al Senato la sorpresa l'hanno fatta Riccardo Nencini del Nuovo Psi-Italia viva e l'ex M5S Lillo Ciampolillo, entrati coi loro sì praticamente a urne chiuse, e altri due azzurri: Maria Rosaria Rossi, un tempo detta “badante” di Silvio Berlusconi, e il veneto Andrea Causin. Entrambi hanno votato sì al governo e sono stati prontamente proclamati «fuori dal partito» da Antonio Tajani, numero due di Fi, che ha pure precisato come, in questo modo, Conte non possa governare soprattutto nelle commissioni dove, coi numeri ridotti in scala, una differenza così piccola tra maggioranza e opposizione porta allo stallo. Colpi di scena, nessuno. Dopo aver meditato fino all'ultima chiama il voto contrario, che però gli avrebbe spaccato il partito, Renzi ha confermato l'astensione del gruppo di Italia viva. Tre senatori ex M5S hanno votato a sorpresa “no”, a significare smottamenti inaspettati anche in quel partito. Conte è restato così appena appena sopra la linea della sopravvivenza, con una maggioranza raccogliticcia da incubo. L'operazione responsabili, costruttori, volenterosi, non è finora decollata, e questo nonostante il premier in aula abbia rivolto appello a tutti (liberali, popolari, socialisti), citato per la prima volta nella storia il «sindacato italiano» e promesso di tutto: la legge proporzionale, la tutela delle autonomie, la poltrona del ministro dell'Agricoltura per chi la vuole, un nuovo patto di maggioranza, l'assegno unico per i nuovi nati. Sopravvive, dunque, Conte, ma non potranno essere queste le condizioni per una lunga vita: gli manca una maggioranza parlamentare basata su un chiaro accordo politico, quella che gli aveva chiesto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, una settimana fa. E, con uno scarto così risicato al Senato, rischiano di mancargli anche i numeri. Ma i rinforzi potrebbero arrivare, nel complicato incastro tra le poltrone e le promesse, tra un rimpastino e quella legge proporzionale che un pezzo di centrodestra (non salviniano) vede come luce in fondo al tunnel.

"Giuseppe, siamo bassi...". Cosa c'è dietro il voto in extremis dei voltagabbana. Trattative con i voltagabbana fino all'ultimo secondo. Così è andato avanti il mercato dei senatori: "Mi hanno offerto un ministero per 3 voti, ho le prove sul cellulare..." Luca Sablone, Mercoledì 20/01/2021 su Il Giornale. Forse sì, forse no. Poi arriva la conferma: ai 154 voti di fiducia vanno aggiunti anche quelli di Lello Ciampolillo e di Riccardo Nencini. Entrambi si sono convinti all'ultimo secondo, tanto che è scoppiato il caos: la presidente Casellati stava per dichiarare chiusa la votazione ed è stato necessario ricorrere al Var per convalidare le due preferenze. Così i "sì" diventano 156, comunque inferiore alla soglia della maggioranza assoluta fissata a 161. Adesso si aprono diversi scenari in seguito al voto di ieri al Senato, con il premier Giuseppe Conte che oggi potrebbe salire al Colle per informare il capo dello Stato Mattarella sull'evoluzione della crisi di governo. Dietro gli ok di Ciampolillo e Nencini si nasconde però un "mercato" di senatori andato avanti fino all'ultimissimo momento utile. Gli esiti tuttavia non sono stati quelli auspicati dai giallorossi: nonostante il presidente del Consiglio abbia fatto un appello aperto alle forze popolari, europeiste, anti-sovraniste e socialiste, non c'è stata un vera e propria flotta di responsabili. Per il momento dunque non ci sono quei "costruttori" tanto voluti da Giuseppi, che ora avrà 2 settimane di tempo per affidarsi a un gruppo in grado di garantirgli stabilità numerica. "Giuseppe, siamo bassi, tra 154 e 156", gli hanno fatto notare durante i momenti concitati. Sì, avete capito bene: hanno rischiato di non arrivare nemmeno alla soglia "psicologica" dei 155 sì. A Ciampolillo e Nencini avranno offerto qualcosa? Pare di no, almeno stando alle loro versioni. Il primo ha affermato che il suo voto "è nell'interesse di tutti gli elettori e della nostra bellissima Nazione che deve rialzarsi quanto prima". Il secondo ha assicurato di aver votato la fiducia solamente perché "convinto dall'apertura di Conte alle forze liberali, popolari e socialiste, una casa utile per sostenere il governo, lo avevo deciso da un pezzo".

Trattative nel palazzo. Come riportato dal Corriere della Sera, le trattative disperate sarebbero state affidate al ministro per i Rapporti con il Parlamento. "Il ministro D’Incà se li sta prendendo uno ad uno", è la confessione che viene fatta. Il grillino avrebbe provato a convincere l'ex 5 Stelle Mario Michele Giarrusso, che alla fine però ha rifilato un secco "no" a Conte. Il palazzo sembrava essere diventata la sede dell'ultimo giorno di calciomercato. "Stanno facendo lo schifo", si sfoga Maurizio Gasparri di Forza Italia. E a tutto questo si aggiunge la speranza di Rocco Casalino, portavoce del premier, agitato e ansioso: "Cosaaa? 158? Oh mamma mia, sarebbe un sogno… Speriamo di convincere tutti". A chi ha votato la fiducia al premier, sembra ovvio, qualcosa va dato. Sul tavolo ci sono i Ministeri dell'Agricoltura e della Famiglia e il sottosegretario agli Esteri. "Conte non promette posti, gioca pulito", assicurano i suoi. Eppure Luigi Cesaro spunta da un angolo ed esclama convintamente: "Per il voto mio, e per i voti di altri due miei amici senatori che controllo, mi hanno offerto un Ministero". Il senatore di Forza Italia però ha resistito alle lusinghe e non si è piegato alle avances dei giallorossi. "Guagliò, tengo tutte le prove ncopp’ o’ cellulare…", ha assicurato.

(ANSA il 19 gennaio 2021) Causin e Rossi, i due senatori di Fi che hanno votato sì alla fiducia, "sono fuori dal partito: votare con il governo in questo caso non è una questione di coscienza". Lo dice Antonio Tajani, vicepresidente di Forza Italia, interpellato in transatlantico al Senato. Tajani spiega di aver informato Silvio Berlusconi, insieme alla capogruppo Anna Maria Bernini. (ANSA).

Andrea Causin, l'ex Forza Italia spiega: "Giuseppe Conte mi ha chiamato personalmente". Libero Quotidiano il 21 gennaio 2021. Uno dei traditori di Forza Italia si chiama Andrea Causin e ieri al Senato ha deciso di votare la fiducia al governo. Dopo il suo gesto, il partito lo ha espulso, anche se il senatore ha ammesso che la scelta "è stata sofferta". Il suo passato in politica non è lineare, come ha fatto notare anche Augusto Minzolini su Twitter: "Eletto prima dal Pd, poi da Monti quindi da Berlusconi. Uno che ha girato più partiti di Razzi e Scilipoti, noto solo per le sue doti di saltimbanco della politica". A tal proposito, Causin ha detto in un'intervista al Corriere della Sera: "Per fortuna i partiti sono morti e io sono ancora vivo". Poi ha rivelato anche di essere stato contattato personalmente da Giuseppe Conte prima della votazione in Aula: "Ci siamo parlati anche perché c’era un appello del Capo dello Stato".

Lello Ciampolillo, "io... io...". Cos'è successo davvero in Senato: il suo voto per Conte? L'ex grillino balbetta. Libero Quotidiano il 20 gennaio 2021. “Era un voto importante, ci ho pensato fino all’ultimo secondo”. Ultimissimo, verrebbe da dire, tanto che Lello Ciampolillo ha scatenato una baraonda in Senato, costringendo la presidente Maria Elisabetta Casellati a ricorrere al “moviolone” per assicurarsi che i voti dell’ex senatore del M5s (espulso per la storia dei mancati rimborsi) e di Nencini fossero validi. “Quando mi sono avvicinato - è stata la ricostruzione di Ciampolillo - la presidente mi ha chiesto di esprimere il voto. Io ho detto sì, subito dopo è stata sospesa la seduta. Dietro c’era anche il collega Nencini, poi alla fine con il moviolone è stato possibile verificare che era tutto regolare”. Gli interrogativi sono però tanti: perché ha tardato così tanto per votare? Qualcuno lo ha convinto, e se sì, in cambio di cosa? “Di nulla, bisogna anteporre l’interesse della nazione a quello dei singoli partiti - ha dichiarato Ciampolillo - in questa difficile situazione sanitaria ed economica non si può affrontare una crisi di governo. Il Paese ha bisogno di un governo che operi e non di queste sceneggiate da prima Repubblica”. E allora perché ha votato la fiducia a Giuseppe Conte? “Io… io…”, è quanto è riuscito a balbettare, eludendo pure la domanda su un eventuale rientro nei 5 Stelle in cambio di questo voto a favore. 

Lello Ciampolillo, occhio alla cravatta. "Ecco chi ha salvato Conte", Minzolini lo umilia. Libero Quotidiano il 20 gennaio 2021. L'eroe di questa "crisi del cavolo", come l'ha definita Libero in edicola oggi, è senza ombra di dubbio Lello Ciampolillo. L'ex grillino ha votato sì alla fiducia all'ultimissimo secondo, con tanto di ricorso al Var e moviolone richiesto da Elisabetta Casellati per verificare la validità del gesto. Robe da matti, ma Giuseppe Conte bada al sodo e accetta tutto. Pardon, tutti. Anche chi, come Ciampolillo, si è distinto negli anni scorsi per la sua "estrosità" più che per le battaglie politiche. "Sapete chi ha salvato Conte? - chiede sarcastico Augusto Minzolini su Twitter - L'ex-grillino Ciampolillo famoso perché salì su un ulivo per offrirgli la sua immunità parlamentare per salvarlo dalla xylella. Un grillino dai comportamenti stravaganti, incomprensibili anche agli altri 5stelle. Il che è tutto dire". Spassose le risposte degli utenti: c'è chi ricorda la sua battaglia per la cannabis libera, con tanto di selfie iconico su Instagram e cravatta "legalize" in tema. Un precedente che potrebbe essere un indizio: "Lo faranno ministro dell'Agricoltura", azzarda qualcuno. Battuta? Forse. 

L'ironia del web su Lello Ciampolillo: "Quando la cravatta...." Dopo il voto al fotofinish il senatore pugliese è finito alle centro dell'ironia social per un post pubblicato su Instagram. Novella Toloni, Mercoledì 20/01/2021 su Il Giornale. Chissà se Alfonso Lello Ciampolillo si è presentato al voto in Senato con la sua cravatta di ordinanza "cannabis free". Quel che è certo è che sui social il senatore pugliese non smette di essere oggetto di ironia e ilarità e il post Instagram in cui si mostra, con la lingua di fuori e la cravatta "legalize", non aiuta. Anzi, lo scatto ha già fatto il giro del web. Il voto di fiducia al governo Conte a Palazzo Madama si è giocato sul filo dei voti e quello al fotofinish portato a favore della maggioranza dal senatore Ciampolillo finirà negli annali. La presidente Elisabetta Casellati è dovuta addirittura ricorrere al var per riammettere al voto il senatore (ex Movimento 5 Stelle), ma intanto il suo nome è in tendenza sui principali social network per tutt'altre questioni. I meme fantozziani e la cannabis, principalmente. Il senatore Lello Ciampolillo, ex Movimento 5 Stelle oggi nelle fila del gruppo misto, è passato agli onori della cronaca più per i suoi trascorsi che per il voto. Impossibile non soffermarsi sui suoi post Instagram inneggianti alla legalizzazione della cannabis terapeutica. Ma a spiccare su tutti è stato il post in cui Ciampolillo ha messo letteralmente la faccia. Lingua di fuori, occhi spiritati e cravatta "legalize" con tanto di disegno di una foglia di marijuana. "Quando la cravatta è obbligatoria #cannabisfree", ha scritto sul suo profilo IG il senatore 48enne di Bari. L'avrà indossata anche in occasione del voto in Senato, si saranno chiesti follower e curiosi? Chi lo sa, visto che in aula si è presentato a fine seduta giusto in tempo per dare la sua preferenza. Intanto però sul web i curiosi se la ridono e commentano ironici: "Un motivo in più per non legalizzarla, guarda un po' che faccia", "Ma veramente ti hanno messo in senato a lavorare?", "Oh la cannabis fa brutti scherzi", "Da uno con questa faccia cosa ci si può aspettare..". Oltre cento commenti - in appena dodici ore - sotto il post di Ciampolillo che, al massimo, era abituato si e no a dieci risposte. Un exploit che non verrà citato nei libri di storia ma che rimarrà nell'etere.

Da tgcom24.mediaset.it il 20 gennaio 2021. "La dinamica è semplice: si può votare al termine della seconda chiama, ho chiesto di votare e ho votato. Non sono arrivato tardi, si può votare fino alla fine. Poi grazie alla 'moviola' è stato dichiarato valido il mio voto". E' quanto spiega il senatore del Misto, Lello Ciampolillo, commentando le proteste sul suo voto di fiducia al governo Conte (passata con 156 sì) che ha richiesto l'intervento del "Var". L'espulsione dal Movimento per i mancati rimborsi Ciampollilo, ex M5s, sottolinea poi di aver votato sì "perché l'interesse della nazione viene prima di quello dei singoli partiti". E non esclude nemmeno un ritorno nel Movimento. "Vedremo”, ha risposto interpellato nel merito. Era stato espulso dai 5 Stelle per i mancati rimborsi. "Il mio appoggio al governo sarà su tutti i temi che riterrò opportuni”, aggiunge.

La Xylella e il sapone (e le onde elettromagnetiche). Ma non è la prima volta che il neo-costruttore in extremis balza agli onori della cronaca. Nota la sua battaglia per salvare gli ulivi pugliesi dall'abbattimento: Ciampolillo era convinto che la soluzione contro la Xylella fossero il sapone e un trattamento a base di onde elettromagnetiche. Spostò persino il domicilio presso un ulivo, ma invano: l'albero fu abbattuto.

Le teorie no vax e il no alle mascherine. Il senatore, inoltre, da sempre si è schierato a favore della legalizzazione della cannabis. Ed è arrivato addirittura ad avanzare la proposta, senza alcun fondamento scientifico, di usare prodotti derivanti dal fiore della cannabis per contrastare il coronavirus. No vax convinto, strizza l'occhio ai negazionisti. In un post su Facebook scrive: "Le mascherine servono solo a fermare l’influenza, non il Covid. Ma non vi sentite presi in giro?".  

Domenico Di Sanzo per "il Giornale" il 21 gennaio 2021. Tutti attendevano il duello tra Giuseppe Conte e Matteo Renzi. Invece è stata la giornata di Alfonso Ciampolillo, detto Lello. È l' uno vale uno, bellezza. Il protagonista del rodeo delle votazioni di fiducia a Palazzo Madama è il prototipo dell' homo grillinus, di quello delle origini. Infatti è stato cacciato l' anno scorso dal M5s perché in ritardo con le restituzioni. Il giorno dopo la resa dei conti si parla soltanto di lui. Che risponde così a un giornalista di Repubblica che lo cerca al telefono: «Mi scusi, ora non posso parlare, sto facendo un soccorso a un colombo». Il cronista non crede alle sue orecchie. Ma Ciampolillo continua, aggiungendo dei dettagli sul salvataggio. «Mi trovo a Roma, davanti alla Chiesa Nuova, c' è un colombo ferito, sta soffrendo, lo sto soccorrendo, la richiamo più tardi», spiega Lello non lesinando il pathos. Ma i giornalisti vogliono sapere dettagli sul suo voto last minute a Palazzo Madama, con tanto di urla e corsa a perdifiato. Non contento, il senatore del «voto con il Var», ora nel Gruppo Misto, negli attimi successivi al parapiglia in Senato ha pure detto: «Mi piacerebbe tanto fare il ministro dell' Agricoltura», in riferimento alla poltrona lasciata libera dalla renziana Teresa Bellanova.

Negli ultimi mesi ha fatto parlare di sé per le posizioni No Vax e No Mask. Il vaccino anti Covid?

«Non vedo Burioni, Lopalco e Gates in coda allo Spallanzani», diceva Ciampolillo. E ancora ieri, alla Zanzara: No, non lo farò. E sono per la libera scelta. Io sono vegano. A Conte ho consigliato di diventare vegano, l'ho suggerito per stare meglio». E la mascherina? «Per tutti quelli che dormono con la mascherina. Cts, il verbale di febbraio: Mascherina solo se si pensa di essere malati», è l' opinione dell' ex grillino famoso anche per la battaglia contro l' abbattimento degli ulivi contagiati dalla xylella nella sua Regione, la Puglia. Una lotta così estrema da spingere Ciampolillo a indicare il suo terreno di Cisternino, provincia di Brindisi, come «residenza parlamentare» per evitare l' abbattimento di un albero. Anche perché il batterio «si combatte con le onde elettromagnetiche o con un sapone», parola di Ciampolillo. Il senatore che ha salvato Conte è in prima linea per la legalizzazione della cannabis, da lui considerata «un possibile antidoto al Coronavirus».  Non solo Ciampolillo. Martedì si è realizzato un altro paradosso per il M5s. Salvato dagli stessi che aveva espulso o che avevano lasciato il gruppo in polemica con i vertici. Venti deputati e sette senatori ex grillini hanno votato la fiducia a Conte. Tra di loro alcuni parlamentari coinvolti nello scandalo «rimborsopoli» scoppiato nel 2018. Beccati a truccare i bonifici delle restituzioni, hanno detto sì al premier i deputati Silvia Benedetti e Andrea Cecconi e il senatore Maurizio Buccarella. Ha votato la fiducia a Montecitorio l' ex discusso ministro dell' Istruzione Lorenzo Fioramonti. Mentre a Palazzo Madama ha salvato Conte Gregorio De Falco, l' uomo simbolo del naufragio della Costa Concordia, espulso alla fine del 2018 per aver votato contro il Dl sicurezza di Matteo Salvini, allora alleato del M5s e di Conte. Nello stesso giorno di De Falco fu espulso il senatore Saverio De Bonis, astenuto sul «decreto Salvini», ora tra i salvatori del premier. Scorrendo i nomi dei sì alla fiducia alla Camera troviamo Santi Cappellani, espulso a gennaio del 2020 dal M5s perché in ritardo con le restituzioni. Singolare all' epoca la sua giustificazione per i mancati versamenti: «Non ho restituito i soldi perché ho perso la password». Più di recente, ad agosto, aveva fatto discutere il deputato Marco Rizzone. È uno dei parlamentari che avevano chiesto e ottenuto i 600 euro del bonus per gli autonomi erogato dal governo durante la prima ondata del Coronavirus. Il deputato, ora iscritto alla componente Centro democratico di Bruno Tabacci, ha votato la fiducia.

Le parole a "La Zanzara". Ciampolillo, il "senatore del Var", la spara grossa: “Non mi vaccinerò, tra i morti Covid quelli in incidenti”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 20 Gennaio 2021. Ciampolillo show a "La Zanzara". Il senatore pugliese eletto nel Movimento 5 Stelle e poi passato al Gruppo Misto dopo l’espulsione per il caso rimborsi, è stato protagonista della giornata di ieri al Senato per il voto di fiducia all’esecutivo arrivato dopo il soccorso del "Var" per il rientro in Aula all’ultimo minuto. Nel day after dunque il senatore, già noto per le posizione quantomeno bizzarre sull’uso della cannabis terapeutica contro il Covid-19 e per il sostegno alle tesi anti-scientifiche sulla Xylella, ci mette il carico da novanta. Sul Covid Ciampollilo spiega a Parenzo e Cruciani, i due conduttori della nota trasmissione di Radio24, che la usa ma “non è quella la soluzione. Io sono per il modello svedese dove i morti sono pochi e non hanno fatto un giorno di lockdown. Questa è la mia idea. Spesso da noi si conteggiano come morti da Covid quelli morti in incidenti stradali – arriva a dire il senatore – e se tu hai avuto il Covid ad agosto e muori oggi, ti mettono come morto da Covid mentre hai un’altra malattia”. Quanto al vaccino, il senatore ‘ex’ grillino spiega: “Non lo farò, sono per la libera scelta. E ad oggi ci sono delle evidenze di danni collaterali già pubblicate, paralisi facciali, ci sono anche delle morti – dice Ciampolillo in una affermazione non dimostrata – Non è la soluzione per uscire dal Covid. Bisogna puntare molto sulle difese immunitarie personali. Io sono vegano e ho difese immunitarie altissime. Io sono vegano e i vegani si difendono meglio dal Covid perché hanno difese immunitarie quasi perfette”. Il grillino spiega anche di aver suggerito al presidente del Consiglio Conte di “diventare vegano, l’ho suggerito per stare meglio”. Quanto alla crisi di governo e ai rischi per la maggioranza di non poter governare per i numeri insufficienti, Campolillo sottolinea: “Ho dato il mio contributo perché adesso serve alla Nazione un governo per uscire da questo problema. Ho fatto la cosa giusta. Me lo ha chiesto anche mia madre, e tanti amici. Mia madre mi ha detto che non si può fare una crisi ma un governo che operi, e non bisogna fare queste sceneggiate da prima Repubblica”. “Conte – aggiunge Ciampolillo – non mi ha promesso assolutamente nulla. Ieri ho aspettato la terza chiamata, mi sono preso il mio tempo. E’ un mio diritto, stavo decidendo, e ho deciso per il bene della Nazione. C’è stata anche un minimo di strategia”. 

DAGONEWS. Da “la Zanzara – Radio24”  il 20 gennaio 2021. “Ho dato il mio contributo perché adesso serve alla Nazione un governo per uscire da questo problema. Ho fatto la cosa giusta. Me lo ha chiesto anche mia madre, e tanti amici. Mia madre mi ha detto che non si può fare una crisi ma un governo che operi, e non bisogna fare queste sceneggiate da prima Repubblica. Renzi ha fatto una sceneggiata da Prima Repubblica”. Lo dice a La Zanzara su Radio 24 Lello Ciampolillo, ex senatore dei Cinque Stelle che ieri ha votato all’ultimo momento la fiducia al governo Conte. Quanto durerà il governo?: “Fino alla fine della legislatura, i numeri ci sono e arriveranno anche altri ”, dice Ciampolillo. Ma la mascherina è utile contro il Covid, chiedono i ancora i conduttori ricordando alcune posizioni del senatore “La mascherina la uso, ma non è quella la soluzione. Io sono per il modello svedese dove i morti sono pochi e non hanno fatto un giorno di lockdown. Questa è la mia idea. Spesso da noi si conteggiano come morti da Covid quelli morti in incidenti stradali e se tu hai avuto il Covid ad agosto e muori oggi, ti mettono come morto da Covid mentre hai un’altra malattia”. “Conte – aggiunge Ciampolillo – non mi ha promesso assolutamente nulla. Ieri ho aspettato la terza chiamata, mi sono preso il mio tempo. E’ un mio diritto, stavo decidendo, e ho deciso per il bene della Nazione. C’è stata anche un minimo di strategia”. “E’ vero che mi piacerebbe fare il ministro dell’Agricoltura – dice Ciampolillo – e sulla xylella per salvare gli ulivi propongo tre metodi di cura. Il sapone ha ricevuta la pubblicazione scientifica, un concime che viene da Israele, ma ho trovato un’altra soluzione: ho portato un albero a meno settanta gradi per 40 minuti. L’albero è avvolto completamente. La Xylella è scomparsa. L’ho visto con i miei occhi, ho fatto venire un laboratorio per verificarlo. Quaranta minuti ad albero malato. Vi mando le foto degli alberi guariti”. Il vaccino lo farai?: “No, non lo farò. E sono per la libera scelta. E ad oggi ci sono delle evidenze di danni collaterali già pubblicate, paralisi facciali, ci sono anche delle morti. Non è la soluzione per uscire dal Covid. Bisogna puntare molto sulle difese immunitarie personali. Io sono vegano e ho difese immunitarie altissime. Io sono vegano e i vegani si difendono meglio dal Covid perché hanno difese immunitarie quasi perfette. A Conte ho consigliato di diventare vegano, l’ho suggerito per stare meglio”. Passiamo alla cannabis: “A febbraio ho suggerito a Speranza di utilizzare la cannabis come rimedio al Covid. A luglio il Medical College della Georgia ha pubblicato uno studio in cui si dice chiaramente che il cannabidiolo, che viene dal fiore di cannabis, cura gli effetti gravi del Covid, blocca la tempesta citochimica evita l’infiammazione evita i trombi e ti salvi. Il cannabidiolo può prevenire, le canne sono un’altra cosa. Il mix di tabacco e cannabis è tossico, che è veleno. Meglio la marijuana del tabacco, la cannabis non è nociva e può aiutare contro il Coronavirus. Sono a favore della legalizzazione della cannabis, mentre col tabacco si muore”. Meglio una canna di maria pura o l’alcol?: “L’alcol è tossico e crea dipendenza, mentre la cannabis pura non crea dipendenza e non è tossica. Meglio la cannabis”. Faresti anche il sottosegretario della Salute?: “Non mi dispiacerebbe. Ripeto. La cannabis non è tossica, l’alcol sì. Viva la cannabis, è un’erba medica potentissima”.

Il profilo. Chi è Lello Ciampolillo, il senatore del ‘Var’ protagonista della bagarre in Senato. Carmine Di Niro su Il Riformista il 19 Gennaio 2021. È ormai noto come il Senatore riammesso in Aula grazie al Var. Lello Ciampolillo, senatore barese eletto due volte nella circoscrizione Puglia per il Movimento 5 Stelle e precedentemente candidato con i pentastellati a sindaco di Bari (ottenendo lo 0,4% dei voti), è stato l’assoluto protagonista dello scorcio finale della votazione sulla fiducia al governo Conte. Ciampolillo si era astenuto durante la prima chiama della presidente Casellati, arrivando in extremis dopo la chiusura del voto da parte della presidente di Palazzo Madama. La stessa ha quindi chiesto di rivedere le immagini delle telecamere interne, visionate dai questori, che dopo diversi minuti hanno permesso a Ciampolillo e al socialista Riccardo Nencini di poter votare la fiducia a Conte. Il senatore barese era già diventato noto alle cronache politiche per due episodi. Il 31 gennaio dello scorso anno venne infatti espulso dal Movimento 5 Stelle per la nota questione dei mancati rimborsi. Ciampolillo quindi ebbe un altro momento di notorietà nella battaglia contro l’abbattimento degli ulivi malati di Xylella in Puglia: schierandosi con chi si opponeva agli abbattimenti, il senatore grillino tentò di stabilire la sua residenza su un albero a "rischio".

Xylella, senatore M5S elegge un suo ulivo infetto a "residenza parlamentare": "Non si abbatta". Cenzio Di Zanni su La Repubblica il 19 gennaio 2021. Battaglia di Lello Ciampolillo. Ma L'Osservatorio fitosanitario regionale ha trasmesso gli atti alla procura di Brindisi e al ministero dell'Agricoltura, individuando il senatore come "responsabile di un possibile contagio". Quell'ulivo non si tocca. E per evitarne "l'eradicazione" - come previsto dall'Unione europea e dall'Osservatorio fitosanitario della Regione Puglia - lui, il senatore barese del Movimento Cinque Stelle Lello Alfonso Ciampolillo, avrebbe eletto il terreno in agro di Cisternino, in provincia di Brindisi, quello su cui sorge l'albero incriminato, come sua "residenza parlamentare", pronto a fare le barricate. "Sono qui per ribadire che questo scempio dev'essere fermato immediatamente", ha detto in un videomessaggio postato sulla sua pagina Facebook il 4 dicembre scorso. E giù diffide a tutto spiano, annunciate via Facebook il 10 dicembre. Tanto che il 17 dicembre i tecnici dell'Arif, l'Agenzia regionale per le attività irrigue e forestali, non hanno potuto avvicinarsi alla pianta malata per il trattamento farmacologico preliminare all'abbattimento. Niente da fare. Peccato, però, che l'albero sia affetto da Xylella fastidiosa, la malattia contro cui l'Unione europea, la Regione Puglia e gli scienziati di mezzo mondo, da anni, cercano di battersi per frenare il disseccamento di ulivi che dal Salento sta salendo verso il nord della Puglia. E che l'eradicazione sia necessaria - sempre secondo scienziati e autorità - a frenare la corsa del batterio e della malattia. Ciampolillo, dal canto suo, dà un'altra lettura. Parla di "un'emergenza che non c'è". Anzi, di "un'emergenza strumentale all'ottenimento dei contributi europei e statali". Di più. Il senatore pentastellato invita a fermare "quelli che impunemente continuano a affermare che gli alberi devono essere tagliati". E l'arringa diretta urbi et orbi al popolo social continua con un avvertimento: "I fondi comunitari dovrebbero essere utilizzati non per la distruzione del nostro ambiente, ma per la cura degli alberi e dei terreni". L'escamotage del senatore per frenare l'avanzata delle autorità è stato uno: il comodato d'uso gratuito del terreno, quindi, l'elezione della sua "residenza parlamentare" in quel fondo.  Ma le autorità non ci stanno. L'Osservatorio fitosanitario regionale ha già trasmesso gli atti alla procura di Brindisi e al ministero dell'Agricoltura, individuando nel proprietario del terreno e in Ciampolillo i responsabili di un possibile contagio. Per Ciampolillo, però, l'ulivo "è in perfetto stato vegetativo". E, come afferma lo stesso senatore su Facebook, è "testimone della non corrispondenza tra la Xylella e il disseccamento". Con buona pace della scienza. Il caso è finito in commissione parlamentare. A rilanciarlo Maria Chiara Gadda, deputata Pd, membro della commissione Agricoltura della Camera, nel corso dell'audizione sulla Xylella del ministro Gian Marco Centinaio. Rispondendo il ministro sceglie l'ironia: "Ciampolillo? Il senatore ha preso una pianta, manderemo senatori a eradicarla", dice, sottolineando poi: "è una battuta, la mia è una battuta".

Maria Rosaria Rossi, pugnalata a Berlusconi: "Vota sì alla fiducia a sorpresa, ha fatto ciao a due mani e se n'è andata". Libero Quotidiano il 19 gennaio 2021. Il terremoto dentro Forza Italia ha un nome e cognome: Maria Rosaria Rossi, l'ex segretaria personale di Silvio Berlusconi, ha votato sì alla fiducia al governo di Giuseppe Conte. Lo ha fatto insieme a un altro forzista, Causin: sono loro due gli azzurri che hanno "pugnalato" il Cavaliere. "Il voto per il governo dell'ormai ex berlusconiana Rossi non se l'aspettava nessuno", ha ricostruito la scena Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera alle ore 21.30 i senatori si sono guardati negli occhi, sbalorditi. "Lei ha detto Sì! in mezzo all’emiciclo, poi ha fatto ciao a due mani, e se n'è andata", scrive Cazzullo, aprendo scenari inimmaginabili ad Arcore e dintorni. Anche grazie all'intervento dei due forzisti, che hanno "tradito" la linea stabilita da Berlusconi insieme agli alleati Matteo Salvini e Giorgia Meloni, il governo viaggi al momento a quota 154. Un solo voto in più della soglia che secondo gli esperti di dinamiche istituzionali obbligherebbe Conte a salire al Quirinale per dimettersi, aprire la crisi pilotata e varare ufficialmente il suo governo-ter.

Chi è Maria Rosaria Rossi, senatrice di Forza Italia a favore di Conte. Notizie.it il 20/01/2021. Maria Rosaria Rossi, senatrice FI, ha votato a favore del premier. Da sempre legata al partito di Berlusconi, è stata anche tesoriera di Forza Italia. Dopo la fiducia alla Camera con 321 voti a favore, il premier Conte ha ottenuto la maggioranza relativa al Senato. A favore del premier in carica anche Andrea Causin, ex Pd e Scelta Civica. Ma a sorprendere più di tutti è stato il voto a sostegno di Conte da parte di Maria Rosaria Rossi, un tempo molto vicina a Silvio Berlusconi e grande amica dell’ex fidanzata Francesca Pascale.

La Rossi è stata assistente di Berlusconi, poi tesoriera di Forza Italia. Molte discussioni in Senato anche per il voto di Ciampolillo, che all’ultimo ha espresso la sua fiducia al premier Giuseppe Conte. Il senatore ha chiesto di votare dopo essere stato assente alle due chiame. Immediata la reazione del presidente del Senato, che ha ricordato: “Avevo già chiuso la votazione della seconda chiama”. Molte le proteste in aula e la Casellati ha chiesto di rivedere il video della votazione. “È l’assistenza video, il Var”, commentano alcuni senatori. Alla fine, dopo la verifica del filmato, la Casellati ha riammesso al voto Ciampolillo, il quale ha espresso il suo “sì” per Conte.

Chi è Maria Rosaria Rossi. Maria Rosaria Rossi è la senatrice di Forza Italia che ha votato a favore del premier in carica, evitando la caduta dell’attuale Governo. Per i colleghi dell’opposizione sembra sia stata una brutta e inaspettata sorpresa. Classe 1972, da sempre è iscritta al partito di Silvio Berlusconi. Inizia la sua carriera politica nel 2008, con il suo primo vero e proprio incarico alla Camera. A Palazzo Montecitorio rimane per 5 anni, fino alla fine del mandato. Nel 2013 viene eletta come senatrice. Nello stesso anno, con lo scioglimento del Popolo della Libertà, aderisce di nuovo a Forza Italia. Dal 20 maggio 2014 sostituisce Sandro Bondi, storico esponente del suo partito. A lei passa l’incarico di commissario straordinario, con il compito di tagliare le spese, diventando a tutti gli effetti la tesoriera di Forza Italia. Alle elezioni del 2018 viene nuovamente eletta come senatrice di Forza Italia.

Paola Di Caro e Giuseppe Alberto Falci per il "Corriere della Sera" il 20 gennaio 2021. Si sentiva tradita e non l'ha mai nascosto, ma certo nessuno si aspettava il suo voto di fiducia al governo guidato da Giuseppe Conte. E invece Mariarosaria Rossi, 48 anni, senatrice di Forza Italia, conosciuta da tutti come la «badante» di Silvio Berlusconi, nell'aula di Palazzo Madama pronuncia un convinto «sì». Lei che del «cerchio magico» del Cavaliere è stata una delle esponenti di spicco, già da un anno era ormai fuori, tanto da aver deciso di aprire una pizzeria in provincia di Napoli. Subito espulsa dal partito per ordine di Antonio Tajani («chi ha votato la fiducia è fuori») lascia l'Aula tra i mugugni. Saluta tutti facendo «ciao» con entrambe le mani e va via. «Non ho condiviso la mia decisione con Berlusconi, il mio rapporto di stima e amicizia con lui rimane immutato», assicura a tarda sera mentre il partito si interroga sulla scelta. E lo fa evidentemente per smentire i sospetti di chi, incredulo per quel voto, addirittura ipotizza possa essere stato il leader di Forza Italia a concedere il via libera. Dal partito la smentita è secca: «È stato subito Berlusconi a dire a Tajani di buttarla fuori». Poi Rossi si giustifica con ragioni politiche: «Ho votato la fiducia Conte perché unica nostra interfaccia in Italia e nel mondo. Il premier non è esponente dei partiti, ha una visione liberale ed europeista». L'appoggio di Rossi al governo guidato da Giuseppe Conte scatena le ire dei forzisti. «È una vendetta», giurano. Durissimo è il commento di Maurizio Gasparri: «Ho conosciuto la Rossi giovane militante di Forza Italia nelle periferie romane. L'ho vista assurgere a ruolo di collaboratrice fidata di Berlusconi. La sua condotta, di cui nessuno aveva sentore, è vergognosa, riprovevole, indegna. Ha fatto bene Tajani ad annunciare la sua immediata cacciata dal partito insieme a Causin». Anche lui non nasconde la sorpresa, che mentre parla si trasforma in sdegno: «Siamo rimasti tutti allibiti e ribadisco che si tratta di un comportamento da cialtroni, che offende militanti ed elettori, tanto più che la Rossi è apparsa negli anni passati come una persona di fiducia personale di Berlusconi, prima vittima di questa condotta intollerabile». Raccontano che la senatrice abbia partecipato a tutte le riunioni del gruppo convocate prima del voto e di non aver mai espresso dissenso. Anzi. «La schiera dei voltagabbana d'accatto arricchisce di nuovi casi», è la reazione forte del portavoce dei gruppi parlamentari Giorgio Mulè. Per oltre dieci anni Mariarosaria Rossi è stata accanto a Berlusconi, tanto che il dispregiativo «badante» utilizzato da numerosi "fedelissimi" del Cavaliere, appariva persino a loro riduttivo. È stata assistente, accompagnatrice, consigliera, ne ha custodito i segreti personali e politici. Sempre pronta a fare scudo anche quando si trattava di difenderlo rispetto alle accuse processuali per le feste e le ragazze. Era lei a gestire le Olgettine, tanto da finire tra gli imputati al processo Ruby ter. «Stiamo trattando con le parti civili per uscire dal processo», diceva nel 2018 il suo legale Salvatore Pino. Non è un mistero che Mariarosaria Rossi fosse molto legata a Francesca Pascale, l'ex fidanzata di Silvio Berlusconi. Entrambe campane, entrambe esuberanti, erano spesso insieme ad Arcore così come a villa Certosa in Sardegna. E quando si è consumata la rottura con Pascale e il posto nel cuore del Cavaliere è stato preso dalla deputata forzista Marta Fascina, anche Rossi è finita ai margini. Non ha lasciato il partito, né tantomeno il posto in Parlamento, ma ha voluto marcare la distanza aprendo una pizzeria, lei che si è sempre vantata di essere «golosa di pizza e champagne». La sponsorizzava sui suoi profili social, in alcune occasioni aveva chiesto aiuto persino all'ex parlamentare Antonio Razzi.

Dritto e Rovescio, Flavio Briatore nomina Mariarosaria Rossi? Clamoroso: prima crolla l'audio, poi il "buio". Pesantissimi sospetti. Libero Quotidiano il 22 gennaio 2021. Uno strano, stranissimo caso a Dritto e Rovescio, il programma di Paolo Del Debbio in onda su Rete 4, la puntata è quella di giovedì 22 gennaio. In studio, ovviamente, si parlava di Mariarosaria Rossi, ormai ex forzista ed ex fedelissima di Silvio Berlusconi che ha accordato la sua fiducia a Giuseppe Conte al Senato. Insomma, che politicamente ha tradito. O meglio, in studio si prova a parlare di lei. Già, perché in cattedra ci era salito Flavio Briatore, che puntava il dito contro Lello Ciampolillo, l'improbabile ex grillino passato al fianco del presunto avvocato del popolo, bollato da mister Billionaire come "uno scemo", "uno da ricoverare", "da prendere a calci nel cu***". Insomma, parole pesantissime. Peccato che poi sia spuntata Mariarosaria Rossi, appunto: "Quando ho sentito che la Rossi aveva votato la fiducia al governo ho pensato che non potesse essere lei, la conosco...", e dopo queste parole ecco che è "crollato" l'audio, un netto abbassamento del sonoro, tanto che l'imprenditore non è riuscito a dire la sua sull'ex Forza Italia. A quel punto, Del Debbio ha lanciato un servizio, dopo il servizio la pubblicità. E una volta tornati in studio, ecco che della Rossi non si è più parlato. Cosa è accaduto? Che cosa si sono detti Del Debbio e Briatore durante il servizio e la pubblicità? Impossibile dirlo, semplice al contrario fare delle ipotesi...

Myrta Merlino e Dagospia, furibonda rissa: "Disgustoso, voltastomaco". "Rintronata, fai finta?" Libero Quotidiano il 20 gennaio 2021. Volano stracci tra Myrta Merlino e Dagospia. Tutta "colpa" di un articolo del sito di Roberto D'Agostino, che dopo il "tradimento" di Renata Polverini a Forza Italia con il voto di fiducia a Giuseppe Conte faceva sapere che la mossa politica sarebbe dovuta a una "liason" tra la Polverini stessa e il piddino Luca Lotti. Articolo stigmatizzato dalla Merlino nel corso di una puntata de L'aria che tira su La7: "Ho letto ieri un pezzo disgustoso sulla Polverini che mi ha fatto venire il voltastomaco", ha affermato. E ancora: "Hanno scritto che lei sarebbe in preda a un delirio ormonale... su di un uomo certe cose no si sarebbero mai scritte". Parole riprese e rilanciate da Dago, che parla di "travaso di bile in diretta". Dunque, Dago fa notare come la Merlino neppure abbia citato la fonte. E ancora, il sito aggiunge: "La furia femministeggiante deve averla rintronata: finge di ignorare cosa è stato scritto su Berlusconi o Gianfranco Fini quando si fidanzò con la Tulliani o quello che viene vomitato sui calciatori per le loro liason, quando non rendono in campo...". E lo scontro continua.

L'indiscrezione sulla love story che avrebbe condizionato il voto. Renata Polverini, la "tresca" con Luca Lotti e la fiducia a Conte: parte la macchina del fango sessista. Redazione su Il Riformista il 19 Gennaio 2021. La crisi di governo si tinge di gossip. Protagonisti della vicenda sono Renata Polverini, 58 anni, ex forzista e Luca Lotti, 38 anni, rimasto nel Pd nonostante la sua vicinanza con Renzi. L’indiscrezione l’avrebbe lanciata il sito Dagospia, secondo cui Polverini avrebbe lasciato Forza Italia per un invaghimento nei confronti del democratico. I due hanno subito smentito la faccenda duramente: “Faccio politica da tanti anni e convinta delle mie ragioni posso accettare a testa alta le critiche, il dibattito, il confronto, per quanto aspro, sulle mie idee e sul mio voto. Ma non posso assolutamente accettare le speculazioni e i gossip privi di ogni fondamento”, ha detto Polverini. “È vergognoso che, quando si vuole attaccare una donna, si pensi sempre a colpire la sua vita privata, inventando tra l’altro delle falsità. Chi, in un momento così delicato e importante per il Paese, perde tempo dietro a queste illazioni fa semplicemente pena”, ha precisato la deputata in una nota. Ma la deputata conferma che con Lotti sia nata una bella amicizia. Ancora più netto Lotti: “In merito alle falsità sulla mia persona riportate oggi dal sito di gossip Dagospia preciso che si tratta di notizie prive di fondamento. Un’assoluta bugia”. Ma la storia ha evidentemente appassionato tanti che hanno sostenuto di aver notato una certa amicizia e complicità in Transatlantico. “Se le ragioni fossero sentimentali non posso che tacere”, ha scritto su twitter Guido Crosetto (Fdi): “Ho fatto tante e tali cazzate nella vita, per amore, che non posso permettermi di criticare nessuno”. Renata Polverini ha incassato la solidarietà di molte colleghe per quell’attacco basato sulla vita sentimentale. “Renata Polverini compie una scelta politica e subito parte la macchina del fango sessista. Ma è così difficile accettare che una donna abbia delle convinzioni senza che ci sia un uomo a suggerire? Stereotipi che qualificano chi li usa: misogini irrisolti allergici alla parità”, ha scritto Laura Boldrini.

Giovanna Vitale per repubblica.it il 19 gennaio 2021. C'è una donna, nelle ore più concitate della crisi, al centro delle chiacchiere di palazzo. Da ieri sera sono in tanti a interrogarsi sui motivi che hanno spinto Renata Polverini a lasciare Forza Italia per votare la fiducia al governo Conte. Specie dopo l'indiscrezione pubblicata da Dagospia, che riconduce lo strappo della deputata alla cotta presa per Luca Lotti, l'ex luogotenente renziano rimasto nel Pd nonostante il divorzio del suo migliore amico. Il che, visto da destra, sarebbe almeno un'attenuante: "Se le ragioni fossero sentimentali non posso che tacere", twitta a metà mattina il fratello d'Italia Guido Crosetto: "Ho fatto tante e tali cazzate nella vita, per amore, che non posso permettermi di criticare nessuno". E mentre i diretti interessati negano, in Transatlantico diversi amici e colleghi confermano a mezza bocca. Racconta chi li conosce bene entrambi che Renata e Luca si sarebbero avvicinati circa un anno e mezzo fa, durante la crisi dell'esecutivo gialloverde: famosa estate del Papeete. Lotti, già alle prese con gli strascichi giudiziari risalenti ai tempi in cui con Renzi sedeva a palazzo Chigi, stava affrontando una separazione dolorosa. E Polverini, che su entrambi i fronti c'era già passata, ha cominciato a parlarci, a scambiare delle idee con lui: prima sul complicato parto dell'alleanza giallorossa, quindi - piano piano - su vicende più personali e per certi versi simili. Una chiacchiera, poi un'altra, il democratico e la forzista hanno iniziato a conoscersi. E forse, col tempo, a volersi bene. Anche se lui smentisce con nettezza: "È un'assoluta bugia", taglia corto via agenzie. Mentre lei è un appena  un po' più morbida: "Siamo solo molto amici, da un po' ci confrontiamo, anche politicamente", spiega la deputata, "ed è vergognoso che, quando si vuole attaccare una donna, si pensi sempre a colpire la sua vita privata, inventando tra l'altro delle falsità". Poi continua: "Luca è figlio unico come me, mi ha raccontato l'angoscia dei suoi genitori rispetto a quanto gli è capitato, la stessa che era di mia mamma quando mi succedevano dei casini. È davvero un bravissimo ragazzo, che sta pagando un prezzo altissimo al suo vecchio sodalizio con Renzi". Ma chi è vicino a Lotti rivela che "da qualche tempo lo vediamo più sereno". E parte del merito sarebbe proprio della Polverini. Nonostante la differenza d'età: 38 anni lui, 58 lei. Fatto sta che, raccontano di nuovo i bene informati, pare che neanche Luca sapesse cosa avrebbe fatto Renata lunedì sera alla Camera. Solo poco prima che la chiamassero per depositare la sua scheda nell'urna lei ha scritto un sms a lui: "Guarda che io voto la fiducia". Risposta preoccupata: "Ah... e dopo?". E Polverini, spavalda come sempre: "E dopo vediamo, intanto è giusto così". Insieme, dalla stessa parte della barricata.

Mario Ajello per "il Messaggero" il 20 gennaio 2021.

Strappo da Forza Italia. Ma anche love story. Che giornatona per Renata Polverini.

«Lei dice?».

Ma certo. Rompe un lungo amore politico con Berlusconi ma c'è l'amore vero con Luca Lotti del Pd. Contenta?

«Guardi, ho appena sentito Luca e ci siamo fatti una risata. E gli ho detto: mio caro, comunque ci faccio un figurone con questa cosa che sarei la tua fidanzata. Sei giovane e bello».

E lui le ha regalato l'anello?

«Non è vero che stiamo insieme, mettono in giro queste cose perché ormai la politica per molti è solo gossip e tentativi di infangare».

Con Lotti però vi frequentate?

«Parlo con lui di politica ma non solo con lui. Ho diversi amici nel Pd. A Luca ho scritto un messaggino dieci minuti prima di votare la fiducia: ho deciso, appoggio il governo».

E lui?

«Mi ha risposto: ah, e poi? E io: poi ci penserò».

È Lotti ad averla portata nel centrosinistra?

«Quando ci fu la crisi del Papeete, ci siamo confrontati su come si poteva in qualche modo trovare una soluzione. E da allora abbiamo cominciato a parlare, a confrontarci. Con lui e con altri. Conosco Zingaretti da sempre, e da prima ancora che facessi la presidente del Lazio. E con Nicola il rapporto era ed è ottimo».

Ma allora ha ragione la Meloni che la considera ormai una comunista.

«Se interessarsi dei temi del lavoro e lavorare per fronteggiare la crisi sociale è da comunisti, ebbene lo sono. Tanto non valgono nulla queste etichette».

Quindi non è più di destra?

«La mia destra era quella sociale, ispirata alla dottrina sociale della chiesa. Con i sovranisti non c'entro niente».

Quando ha maturato la scelta di votare la fiducia e di chiudere con Forza Italia?

«Dieci minuti prima del voto, gliel'ho detto. Ma il diario era evidente da tanto tempo e ho votato varie volte in dissenso dal gruppo forzista. Anche sulla riforma del Mes».

Ma prima di fare lo strappo, a Berlusconi almeno lo ha avvertito?

«Ci ho provato. L'ho chiamato ma non mi ha risposto. Lui lo fa spesso. È irraggiungibile. Ho comunque mandato un messaggio alla capogruppo Gelmini».

E non ha cercato di convincere il suo amico Brunetta a fare la sua stessa scelta di rottura?

«No, lui resta in Forza Italia».

E lei chi si porta appresso?

«Porto me stessa».

Conte lo ha incontrato, per spiegare e farsi accogliere?

«Ho con lui un rapporto politico e istituzionale da mesi. Un giorno venne a fare un intervento alla Camera, io feci un discorso sulle condizioni delle carceri italiane e poi Conte lo ha citato nella replica. Da allora ci sono stati diversi contatti. Andai una volta a Palazzo Chigi a parlare non ricordo bene più di che cosa, ma era un tema economico, e scattarono a vanvera le malelingue: la Polverini è andata a offrirsi. Macché».

E l'altra sera quando ha deciso lo strappo glielo ha detto per primo a Conte?

«Gli ho mandato un sms. Mi ha risposto: bene così».

Aderirà al partito di Conte appena nasce?

«Ho aderito alla richiesta del Capo dello Stato che ha chiesto a tutti di aiutare il Paese. Conte ha governato e governa come può. Con tutte le difficoltà di una situazione complessa e con il coraggio di fare scelte anche impopolari. Perciò penso che abbia bisogno di sostegno».

Non mi ha risposto, però. Entrerà nel suo soggetto politico, nella sua lista?

«A me piace impegnarmi, vediamo».

Ora parte una slavina di fuoriusciti da Forza Italia?

«Non lo so. Ma c' è un forte disagio in tanti colleghi. Spero che Forza Italia riprenda la sua strada. Era partita da posizioni liberali ed è arrivata a posizioni sovraniste. Non sono io che sono uscita da Forza Italia, è Forza Italia che è uscita dalla sua storia. Ora hanno cacciato me, ma se credono di risolvere così una crisi molto profonda e che viene da lontano, si illudono».

Piovono insulti contro di lei da parte dei berlusconiani. Come li prende?

«Non li sento e non li leggo. Ho avuto un rapporto con Berlusconi e con Gianni Letta, con cui ho parlato dieci minuti fa, che prescindeva dal partito».

Ora che è dall'altra parte, si occuperà anche della scelta del sindaco di Roma contro il centrodestra?

«Io sono romana. E se ci sarà un tavolo dove si discute di questo proverò ad esserci. Con Zingaretti ci capiamo e non vedo l'ora di contribuire a trovare una soluzione per la Capitale così mal ridotta».

Magari con alcuni di Forza Italia vi incontrerete ancora nel nuovo centro alla Conte, se nascerà.

«Non lo so che cosa accadrà. Intanto ho consumato la mia svolta, e chissà se altri avranno il coraggio di fare altrettanto. Tanti dirigenti di Forza Italia dicono che va tutto bene, quindi auguri».

Ma Conte le ha offerto qualche poltrona, visto che lo stanno facendo un po' con tutti?

«A me non è stato offerto niente. E io nulla ho chiesto e chiedo. Ho solo dato il mio voto».

Francesca Galici per ilgiornale.it il 20 gennaio 2021. Il voto di fiducia al governo di Renata Polverini alla Camera non ha spiazzato poi tanto. Con il suo gesto, la deputata di Forza Italia si è di fatto estromessa dalla coalizione del centrodestra e ora sembra strizzare l'occhio al partito di Giuseppe Conte. Tra i più critici con l'ex presidente della Regione Lazio c'è Giorgia Meloni, che non è sembrata affatto stupita della rottura di Renata Polverini con la coalizione. "Personalmente, per me non è una grande notizia. Mi pare un fatto di chiarezza, perché non ricordo che Renata Polverini abbia fatto niente, non di dico di destra ma di centrodestra, negli ultimi dieci anni", ha dichiarato il leader di Fratelli d'Italia ieri sera al termine del vertice di centrodestra a Montecitorio. La coalizione si è riunita al termine del voto per fare il punto su quanto accaduto in Aula, dove l'unico voto a favore da parte del centrodestra è arrivato proprio da Renata Polverini. alla domanda se potranno esserci altri voti a sorpresa come questo al Senato, Giorgia Meloni è sembrata sicura: "Io penso di no e spero di no. Mi pare che la compattezza della coalizione in questi giorni sia stata un fatto assolutamente positivo". Nella nota diramata dal centrodestra al termine del vertice, il voto di fiducia di Renata Polverini è stato affrontato come un tema marginale, senza mai menzionare la deputata: "A dispetto delle offerte e delle lusinghe del governo e dei suoi emissari, i deputati del centrodestra hanno mantenuto un atteggiamento compatto a parte una sola, prevedibile, fuoriuscita dalla coalizione". Il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani, al termine del voto alla Camera è stato molto chiaro nel commentare il comportamento di Renata Polverini: "La Polverini ha votato a favore del Governo, quindi è fuori da Forza Italia, è un problema che non ci riguarda". Giorgio Mulè è stato altrettanto critico con l'ormai ex deputata di FI. Il portavoce e deputato di Forza Italia a Radio Cusano Campus ha spiegato a grandi linee la genesi del voto di fiducia della Polverini: "Quando va via qualcuno è sempre motivo di dispiacere, però è come nelle coppie in crisi, ad un certo punto il chiarimento è necessario. Polverini da tempo pensava di uscire, adesso ha deciso di farlo all'improvviso, senza parlarne prima con il presidente Berlusconi e con gli altri vertici del partito". Mulè punta il dito contro la sua ex collega di partito, sottolineando che "se all'ultima chiama ha votato in dissenso dal partito, tra l'altro senza spiegare il motivo, politicamente non è un comportamento corretto, per il rispetto che si deve agli elettori perché se lei è in quel Palazzo è grazie ai voti di centrodestra". Claudio Borghi della Lega l'ha definita "non una scelta saggia". Dati alla mano, sfogliando i tabulati l'esponente leghista ha trovato solo quello come voto imprevisto alla fiducia alla Camera.

Rampelli: “Ecco la prova che i giornalisti del Colle nascondono. Le parole del centrodestra nel 2018”. Redazione mercoledì 20 Gennaio 2021 su Il Secolo D'Italia. “Ecco la prova che alcuni giornalisti quirinalizi nascondono goffamente. Questa è la dichiarazione ufficiale del centrodestra del 12 aprile 2018 dopo il colloquio con il Presidente della Repubblica“. Così Fabio Rampelli che, nel suo profilo Faceboo, posta il video delle comunicazioni ufficiali del centrodestra. Rilasciate al Quirinale subito dopo il colloquio con il presidente Mattarella. Alle prese con la composizione del nuovo governo dopo le elezioni del 2018. E aggiunge ‘trova le differenze’. Con l’attualità di queste ore. Nelle comunicazioni Matteo Salvini riferiva che il centrodestra compatto era pronto a designare un nome terzo. Di alto profilo. “Pronto a verificare – ricorda il vicepresidente della Camera – in Parlamento la disponibilità di gruppi e parlamentari "responsabili" a sostenerlo. Il Colle rispose ‘picche’, senza dare a chi vinse le elezioni l’incarico a fare un governo. Voleva maggioranze stabili“. “Adesso – conclude Rampelli – ciò che non era possibile ieri non può esserlo oggi“. Il video dimostra l’infondatezza di alcune ricostruzioni giornalistiche di questi giorni hanno negato quella circostanza. E rievocato – sottolinea il deputato di FdI – commenti di un singolo leader, oltretutto antecedenti al 12 aprile, giorno in cui si rappresenta la posizione ufficiale del centrodestra al termine della consultazione con il Capo dello Stato. Fabio Rampelli nel suo intervento dopo le dichiarazioni del premier  punta i riflettori sulla genesi del primo governo Conte. E sulle scelte del presidente della Repubblica. Che all’epoca non consentì neppure il mandato esplorativo a una personalità di centrodestra.

“All’epoca Mattarella impedì al centrodestra di cercare responsabili in Aula”. Nel suo intervento alla Camera dopo le dichiarazioni di Conte Rampelli era partito proprio da lì. Dal 2018. “All’epoca il presidente Mattarella – spiegava – non ritenne che fosse possibile perseguire la strada di dare un incarico a qualcuno di centrodestra. Non necessariamente al leader con i maggiori consensi elettorali. Ma neppure a una personalità terza. Non verificò l’esistenza di un gruppo di ‘responsabili’ che potesse consentire a chi aveva vinto le elezioni governare per 5 anni”.

Luca Sablone per ilgiornale.it il 20 gennaio 2021. Forse sì, forse no. Poi arriva la conferma: ai 154 voti di fiducia vanno aggiunti anche quelli di Lello Ciampolillo e di Riccardo Nencini. Entrambi si sono convinti all'ultimo secondo, tanto che è scoppiato il caos: la presidente Casellati stava per dichiarare chiusa la votazione ed è stato necessario ricorrere al Var per convalidare le due preferenze. Così i "sì" diventano 156, comunque inferiore alla soglia della maggioranza assoluta fissata a 161. Adesso si aprono diversi scenari in seguito al voto di ieri al Senato, con il premier Giuseppe Conte che oggi potrebbe salire al Colle per informare il capo dello Stato Mattarella sull'evoluzione della crisi di governo. Dietro gli ok di Ciampolillo e Nencini si nasconde però un "mercato" di senatori andato avanti fino all'ultimissimo momento utile. Gli esiti tuttavia non sono stati quelli auspicati dai giallorossi: nonostante il presidente del Consiglio abbia fatto un appello aperto alle forze popolari, europeiste, anti-sovraniste e socialiste, non c'è stata un vera e propria flotta di responsabili. Per il momento dunque non ci sono quei "costruttori" tanto voluti da Giuseppi, che ora avrà 2 settimane di tempo per affidarsi a un gruppo in grado di garantirgli stabilità numerica. "Giuseppe, siamo bassi, tra 154 e 156", gli hanno fatto notare durante i momenti concitati. Sì, avete capito bene: hanno rischiato di non arrivare nemmeno alla soglia "psicologica" dei 155 sì. A Ciampolillo e Nencini avranno offerto qualcosa? Pare di no, almeno stando alle loro versioni. Il primo ha affermato che il suo voto "è nell'interesse di tutti gli elettori e della nostra bellissima Nazione che deve rialzarsi quanto prima". Il secondo ha assicurato di aver votato la fiducia solamente perché "convinto dall'apertura di Conte alle forze liberali, popolari e socialiste, una casa utile per sostenere il governo, lo avevo deciso da un pezzo".

Trattative nel palazzo. Come riportato dal Corriere della Sera, le trattative disperate sarebbero state affidate al ministro per i Rapporti con il Parlamento. "Il ministro D’Incà se li sta prendendo uno ad uno", è la confessione che viene fatta. Il grillino avrebbe provato a convincere l'ex 5 Stelle Mario Michele Giarrusso, che alla fine però ha rifilato un secco "no" a Conte. Il palazzo sembrava essere diventata la sede dell'ultimo giorno di calciomercato. "Stanno facendo lo schifo", si sfoga Maurizio Gasparri di Forza Italia. E a tutto questo si aggiunge la speranza di Rocco Casalino, portavoce del premier, agitato e ansioso: "Cosaaa? 158? Oh mamma mia, sarebbe un sogno… Speriamo di convincere tutti". A chi ha votato la fiducia al premier, sembra ovvio, qualcosa va dato. Sul tavolo ci sono i Ministeri dell'Agricoltura e della Famiglia e il sottosegretario agli Esteri. "Conte non promette posti, gioca pulito", assicurano i suoi. Eppure Luigi Cesaro spunta da un angolo ed esclama convintamente: "Per il voto mio, e per i voti di altri due miei amici senatori che controllo, mi hanno offerto un Ministero". Il senatore di Forza Italia però ha resistito alle lusinghe e non si è piegato alle avances dei giallorossi. "Guagliò, tengo tutte le prove ncopp’ o’ cellulare…", ha assicurato.

Il Travaglio dei voltagabbana. I duri e puri grillini si ricredono: il mercimonio parlamentare va bene, basta che a farlo sia Conte. Quanta ipocrisia. Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 21/01/2021 su Il Giornale. Ora che il passo decisivo è fatto, la trasformazione si può dire conclusa. È stato doloroso. Un Travaglio a tutti gli effetti: ingoiare il rospo e affidarsi agli odiati “voltagabbana”, peraltro del calibro di Maria Rosaria Rossi e Renata Polverini, non è cosa da poco. Mai i grillini, e il suo ideologo di punta direttore di un noto quotidiano, avrebbero solo immaginato qualche tempo fa di ritrovarsi compagni di banco della “badante” (così la chiamavano, irrispettosi) del Cavaliere. Ma il Potere fa brutti scherzi. Non appena ha iniziato a circolare l’ipotesi della caccia ai “costruttori” mi son detto: non lo faranno mica davvero? E Scilipoti? E Razzi? E De Gregorio? Poi mi sono aggrappato ad una certezza: tutti cambiano idea, quindi anche Di Maio e Grillo, ma l’integerrimo Travaglio no. Il bacchettatore dei potenti, il gerarca della coerenza: lui non si piegherà alla logica del mercato delle vacche. Mi ero sbagliato. Comprendiamo il disagio vissuto in questi giorni dai tifosi grillini, compresi quelli con la penna in mano. Abbiamo letto l’imbarazzo con cui il Fatto ha raccontato "il solito indecoroso mercimonio" messo in campo dal premier. Dico “ignobile” non perché personalmente la ritenga tale (s’è sempre fatto, fa schifo, ma non mi ha mai sorpreso), ma perché così la giudicava un tempo il primo sponsor di Conte. Al tempo di Razzi e Scilipoti, era il 2010, il Fatto aprì il giornale con una sola parola: ARRESTATELI, “è uno scandalo che va fermato subito”. Roba arcinota. Dieci anni dopo, la difficile conversione sulla via di Damasco. Per Travaglio i “volenterosi” contiani “restano dei voltagabbana che vogliono salvare la poltrona”, ma stavolta vanno bene. Certo sarebbe meglio ci fosse una legge sulla “decadenza parlamentare”, ma per una volta si può fare eccezione. Che vuoi che sia? In questi giorni Travaglio, forse guardandosi allo specchio, ha scritto editoriali per auto-convincersi che Conte non stesse facendo nulla di male. Esercizio complicato. Ha iniziato col dire che gli ex grillini e i parlamentari di Italia Viva non vanno considerati “voltagabbana” perché erano stati “eletti in un partito di maggioranza” e quindi tornare all’ovile è stato solo “un atto di coerenza”. (Caro Ciampolillo: cambia pure quante maglie vuoi, basta che poco prima del Giudizio Universale indossi la stessa divisa che avevi bruciato all’inizio). Poi ha provato a sostenere che Conte “non ha né i soldi né le tv di B.”, come se non sapesse che promettere due anni di legislatura ai senatori significa assicurargli un assegno da 3-400mila euro (a spese nostre). E infine ha tentato la bufala del premier che non ha “posti da garantire, a parte tre strapuntini liberati da Iv”, pur capendo benissimo che le poltrone si creano facilmente. Basta un mini rimpastino. In fondo Padellaro l’ha confessato candidamente: pur provando “disagio” per la “transumanza parlamentare”, prima s’è chiesto se “il fine (evitare una crisi disastrosa temuta dalla larga maggioranza dei cittadini) non giustifichi i mezzi (o se vogliamo i mezzucci)”, e poi s’è risposto che “sì”: esistono pure i voltagabbana buoni, basta la pensino come me. Tragico epilogo degli ipocriti puri di cuore. Dobbiamo tuttavia essere clementi. Come titolava Travaglio qualche giorno fa: “Chi è senza peccato”? Nessuno. Noi lo sappiamo e non ci scandalizziamo. Ora però pure lui può smettere di scagliare pietre: è peccatore come noi.

Quando Travaglio fustigava chi cercava i "responsabili". Il direttore del "Fatto" nel 2010 insultava gli "acquirenti" che si muovevano per il Cav. Ma ora che tocca a Conte...Domenico Di Sanzo, Sabato 23/01/2021 su Il Giornale. Sappiamo benissimo che per Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, i «responsabili» che dieci anni fa consentirono al governo Berlusconi di andare avanti erano dei «venduti» e dei «voltagabbana». A differenza dei parlamentari che ora brigano per salvare Giuseppe Conte. Infatti questi ultimi sono stati definiti gente «con la testa sul collo» da Travaglio nell'editoriale pubblicato sul Fatto il 3 gennaio scorso. Quel che spesso si perde di vista è l'importanza di chi le trattative le conduce, degli incantatori di serpenti chiamati a convincere le anime perse del Parlamento a passare da una sponda all'altra. Parliamo, in questi giorni, del premier Conte e dei suoi emissari, soprattutto parlamentari del M5s e fedelissimi dello staff di Palazzo Chigi. Ma si racconta anche di telefonate di alti prelati e di mosse di uomini del cosiddetto deep state italiano, presunti movimenti smentiti con tanto di sdegno dalla presidenza del Consiglio. Tutto legittimo. Si tratta dei «pontieri» che stanno cercando di mettere su l'operazione «costruttori», o «volenterosi», evocata con chiarezza in Aula da Conte prima di ottenere la fiducia a Montecitorio e a Palazzo Madama. E quindi ecco gli incontri segreti, i messaggini, le promesse, gli accordi. Con il supporto del Fatto, che il giorno dopo la fiducia risicata al Senato si beava con questo titolo di prima pagina, dedicato all'inossidabile premier: «Più lo butti giù e più si tira su». Con tanto di foto di Conte mascherinato in bella mostra. Nelle stessa prima pagina l'annotazione: «Servono 10 ex Iv e Udc per blindare l'aula e le commissioni». Via al Suq per un'altra decina di giorni o più. Ora torniamo indietro di dieci anni. Prendiamo un commento di Travaglio datato 1 dicembre 2010. E sembra quasi che se la prenda con Conte e i suoi, animatori dell'odierno calciomercato dei senatori. «A furia di parlare di deputati venduti, si rischia di trascurare l'altrettanto nobile categoria dei compratori», l'incipit del pezzo. Non si stigmatizzavano solo i reietti alla Antonio Razzi e Domenico Scilipoti, ma pure quelli che Travaglio bollava come «acquirenti». Quindi spunta «tal Ciccio Nucara, segretario del Partito Repubblicano all'insaputa dei più». Allora incaricato di «pescare nella palude di diniani, centristi, Mpa, Union Valdotaine, Sudtiroler». Uno stagno non troppo diverso da quello in cui stanno nuotando da giorni, senza sosta, gli emissari contiani. Tra ex craxiani, ex grillini, italiani all'estero, democristiani sanniti e centristi di ogni risma. Anche alla fine del 2010 si parlava dell'Udc, ora al centro delle lusinghe di chi segue il dossier dei «volenterosi» per conto di Palazzo Chigi. Sentite il Travaglio d'epoca: «Partì la fase 2 di Mediashopping, affidata ad acquirenti ignoti (forse latitanti): comprare l'Udc siciliana, piena di condannati, inquisiti ed ex imputati». Il dialogo in questi giorni è stato bloccato da un'inchiesta di Gratteri in cui è coinvolto il segretario dell'Udc Lorenzo Cesa. Ma si tratta ancora singolarmente con due o tre parlamentari scudocrociati. Eh sì, perché ormai siamo in uno scenario simile alla «fase 3» evocata dal Fatto nel 2010. Quella che il giornale definiva «una baraonda in cui non si capisce più chi compra e chi viene comprato». Con una differenza: adesso i presunti «acquirenti» non scandalizzano più.

Da voltagabbana a responsabili? Arrivano gli Scilipoti grillini, oggi eroi ma con Berlusconi erano puttane…Paolo Guzzanti su Il Riformista il 5 Gennaio 2021. Se avete presente La Ronda di Notte di Rembrandt, l’aria è un po’ quella: un gruppo di bravi cittadini, non degli energumeni ma dei responsabili per la sicurezza della cittadella, si avviano a portare il loro aiuto là dove la comunità ha bisogno: in spalla hanno uno schioppo probabilmente scarico, un ventre gaudente, e intorno dei cagnetti latrano allegri al loro passaggio. E i “responsabili”, dalla scelta ormai antica di questo nomignolo, chi sarebbero? La stessa cosa. Uomini e donne che per loro natura vivevano in un eremo sui gradoni più alti della montagna parlamentare dove nidifica il gruppo misto, i quali, vedendo addensarsi la tempesta e avendo nel cuore come primo obiettivo il bene comune, sia pur borbottando degli “Ohibò” e col passo dei sette nani, escono per andare a difendere la patria in pericolo. Come motto dovrebbero avere quello inglese “Right or wrong, my country”, ovvero: che abbia torto o ragione è comunque la mia patria. O anche: finché si scherza, si scherza, ma se è in gioco la pubblica utilità, la stabilità o altre parole dismettono o superano le discordie che li avevano spinti a salire sulla collina del gruppo misto dove si sono nutriti di bacche, bruchi e radici e scendono a valle per “dare una mano” (frasal verb d’ordinanza) e fare il dover loro. In due parole: sostenere il governo, quale che sia. Il governo “quale che sia” è sempre un governo che, come capita in democrazia parlamentare, starebbe per affogare, è a corto di voti e cerca supporter. Saranno disinteressati i voti di questi antichi eremiti della legislatura che vanno a difendere il governo? Ovviamente no, ma nel senso buono e politico: in politica tutto si regge su un metabolismo di equilibri e compensazioni che in genere non hanno a che fare con pagamenti in denaro, ma in compensi. Primo fra tutti, quello assolutamente farlocco di garantire a chiacchiere la sicura rielezione alle prossime elezioni, esca alla quale frequentemente l’aspirante responsabile abbocca. Direte voi: ma tu, che scrivi, sei mai stato un responsabile? Sì, certo. Avevo lasciato Forza Italia per protesta, per dissenso sulla politica estera, ero diventato vicesegretario del partito liberale ed ero anch’io appollaiato nel gruppo misto. Poi si trattò di scegliere se far cadere o no Berlusconi nel momento di sua massima fragilità. Così feci parte del gruppo dei responsabili del momento, votai e fui linciato vivo da amici e parenti che mi dattero del porco traditore mascalzone venduto, voltagabbana cialtrone, criminale e anche qualche insulto più spiccio. Quando ricordavo che io ero in Parlamento perché eletto nelle liste di Berlusconi e che quindi non stavo tradendo proprio nessuno, la valanga di insulti e sterco aumentò di volume e velocità. Nulla di grave, è normale. O meglio: è normale se fai il responsabile per sostenere Berlusconi. Non esiste girone nell’inferno sufficientemente feroce per punire chiunque, a qualsiasi titolo, abbia agito per salvare o tentar di salvare, un governo Berlusconi o Berlusconi stesso. Io, per mia fortuna, avevo già le spalle forti: avevo osservato da tempo il curioso fenomeno stradale per cui le persone che mi conoscevano, al vedermi cambiavano marciapiede. Era accaduto ai tempi in cui avevo il privilegio di rendere comprensibile il pensiero di Francesco Cossiga, sempre trattato come frutto di pazzia violando la direttiva che imponeva: «Il pensiero di Cossiga deve essere trattato e descritto come una malattia mentale degenerativa affinché giustifichi la richiesta di dimissioni forzate». Anche allora io fui un responsabile. e con una minuscola pattuglia di volenterosi salvammo il Presidente e probabilmente anche la Repubblica, di cui mi trovai, goffamente, ad essere un Commendatore. Oggi vediamo al microscopio – ma anche al telescopio – il fenomeno inverso: poiché il governo dell’avvocato Conte è in pericolo di vita perché sta provocando crisi di rigetto globali, ecco che a Palazzo Chigi qualcuno ha riaperto le liste d’arruolamento per la legione straniera dei responsabili. Ne ha radunati un plotone, non certo una compagnia – gente per forza di cose raccogliticcia non sempre nel pieno possesso della memoria – e, dopo averli vestiti, calzati e armati di archibugio, il reclutatore ha rivolto la fatidica domanda: «Siete voi pronti a combattere e morire per il governo?». Cui è seguita l’esplosiva risposta: «Combattere, forse, morire, mai e comunque dipende dall’ingaggio». Ed è normale che sia così. Specie in una democrazia zoppa e in libertà vigilata come la nostra che ormai non sappiamo più se è figlia della Costituzione o dell’oroscopo. Ma il punto che ci preme sottolineare è che gli attuali ingaggiati per la ronda dei “responsabili” non sono stati cosparsi di pece e di piume sui giornali, ma al massimo leggermente criticati per una questione di tattica opportunità. Non hanno nulla di diverso, dal punto di vista parlamentare e costituzionale dai responsabili che si radunarono per sostenere Berlusconi, ma nessuno ha cercato di toglier loro la pelle con lo scudiscio, insieme all’onore, infangandoli come burattini manovrati, puttane, gente senza faccia e senza vergogna. Vi ricordate il linciaggio di Scilipoti? Scilipoti devo dire che alla fine diventò un eroe perché costretto a stare al gioco del proprio linciaggio, rispese con umorismo surreale, sicché andò a farsi fotografare col presidente della Corea del Nord prima che lo facesse Trump e diventò una maschera italiana promossa da Crozza. Onestamente, Scilipoti ha vinto rendendo imbarazzanti coloro che spendevano tutte le loro polveri per farlo apparire un losco pagliaccio. Per tutti coloro che in qualsiasi modo sostenevano Berlusconi fu riesumato e mantenuto sotto le luci della ribalta l’infamante aggettivo “voltagabbana”. Io stesso sono stato il voltagabbana per eccellenza: e che cazzo, eri di sinistra, hai allevato figli di sinistra, sei stato un famoso giornalista di sinistra in un giornale di sinistra che peraltro hai anche contribuito a fondare e adesso vai con Berlusconi? Ma quali immondi vantaggi, quale prezzo della tua coscienza messa all’asta, quali gradini dell’abiezione hai tu disceso… e così via, continuate voi. Il punto è antico e dipende dallo stalinismo italiano che è anche uno upgrade del fascismo italiano, tant’è che i due fenomeni permisero, senza fare una piega e neanche un plissé, a tutta l’intellighenzia fascista di passare sotto le insegne staliniste e continuare nella pratica secondo cui coloro che si comportano politicamente come tuoi avversari, non sono persone onorabili ed onorate ma sono e vanno derisi e sputtanati e messi alla gogna come traditori, jene, porci, cani rognosi, venduti, comprati e – insomma – voltagabbana. Agli attuali “responsabili”, quale che ne sia la sorte e l’uso (il Pd non li vuole e dunque forse saranno rimessi sotto naftalina) è stata risparmiata la gogna, anzi sono stati largamente benedetti dal giornalista che vanta il diritto d’autore di questo governo. Sicché abbiamo potuto osservare in questi giorni i fenomeni boreali sia del doppiopesismo che del benaltrismo (parola di cui vanto per vanità il copyright) perché si dice che “ben altri” sono i problemi da affrontare che non quelli di una maggioranza numerica che faccia da zeppa in Parlamento per non far cadere tavolo e commensali. Anzi, semmai, l’avrete notato, Berlusconi per coloro che lo hanno assediato e cannoneggiato per decenni, è per loro giusta convenienza, oggi riconosciuto di colpo come uno statista, un uomo, lui sì, responsabile con cui si possono discutere le strategie per far ripartire il Paese prima che il gorgo della pandemia, dell’economia e dell’ignoranza se lo porti via. Dunque, anche se probabilmente non saranno davvero chiamati alle armi, sia reso onore ai nuovi responsabili scesi per difendere un governo incerto fra montagne russe e sabbie mobili. Lorsignori sono liberi: possono tornare in posizione di riposo, deporre le mantelline in guardaroba, riconsegnare cartuccera e borraccia tenendosi a disposizione – comandi! – perché soldato che non muore, buono per un’altra volta, si diceva nella Grande Guerra. Noi non vogliamo che muoia nessuno, ma confessiamo un conflitto di interessi perché vorremmo mantenere illuminati due oggetti che si fanno ombra: la memoria e quel dispositivo detto “Due pesi e due misure”, una curiosità metrica tutta italiana che non troverete al Musée de poids et Mésures di Sèvres, dove custodiscono il vero metro, il vero chilo e il vero litro, uguali per tutti ma non da noi.

“COSTRUTTORI” ? ECCO L’ARMATA BRANCALEONE DEI “VOLTAGABBANA” AL SENATO. Il Corriere del Giorno il 27 Gennaio 2021. Battesimo con lite, grazie ai “prestiti”. Come stampella della stampella di Conte, è arrivato un “prestito” agli alleati in zona Cesarini del decimo senatore Tatiana Rojc, (senatrice friulana eletta nel liste del Pd) senza la quale non sarebbe stato possibile costituire un gruppo parlamentare. Ma è un aula parlamentare, il calciomercato, o il mercato dei buoi e delle vacche? Dopo un travaglio complicato quanto mediatico si è costituito al Senato gruppo “Europeisti Maie Centro Democratico“, la stampella “contiana” che per rispettare i paletti richiesti dal Quirinale, dovrebbe garantire i numeri parlamentari necessari per il varo di un governo Conte Ter . La sorpresa dell’ultimo minuto è l’assenza tra i dieci senatori, del nome della senatrice Sandra Lonardo, inizialmente partecipe dell’operazione “responsabili”. Al suo posto come stampella della stampella di Conte, è arrivato un “prestito” agli alleati in zona Cesarini del decimo senatore Tatiana Rojc, (senatrice friulana eletta nel liste del Pd) senza la quale non sarebbe stato possibile costituire un gruppo parlamentare, che è stato aggiunto a penna sulla lettera inviata alla presidente del Senato Elisabetta Casellati. Un prestito da capire se con diritto di riscatto… che non è l’unico: anche il senatore Gianni Marilotti, eletto in Sardegna con i Cinquestelle e poi passato al gruppo delle Autonomie, si è messo una mano sulla coscienza ( o sul portafoglio ?) . “Quando la Lonardo ha deciso di non aderire, mi hanno chiesto se volessi partecipare al gruppo e ho deciso di dare una mano”. Voci circolanti a Palazzo Madama raccontano che all’origine del conflitto ci sia lo screzio della Lonardo con la senatrice Mariarosaria Rossi, ex “badante” berlusconiana passata con Conte, la quale si è opposta all’inserimento nel simbolo del gruppo anche del logo “Noi campani”, presentato dai Mastella alle scorse Regionali a sostegno di Vincenzo De Luca, che altro non è che un erede del contenitore politico “Meglio Noi” con cui Clemente Mastella intende riunire i centristi in tutta l’area del Mezzogiorno in vista delle prossime elezioni politiche. Mentre la Rossi è originaria del Casertano i Mastella hanno radici e vivaio elettorale (grazie al vecchio Udeur) come noto a Ceppaloni, provincia di Benevento di cui Clemente Mastella è attualmente sindaco. È finita, per il momento, con una divisione: “Sostengo Conte ma non entro in un gruppo privo di omogeneità. Noi stiamo dando vita a un altro fuori dal Parlamento” ha commentato Lonardo. Un rifiuto sanato appunto dal “prestito a titolo gratuito” della parlamentare friulana del PD, territorialmente lontana ma “responsabile”. Stabiliti gli organigrammi del nuovo “gruppo-stampella” pro Conte. L’assemblea del nuovo gruppo ha eletto come presidente il senatore Raffaele Fantetti (Maie) e vicepresidente il senatore Andrea Causin (ex Forza Italia). Sino a quando al momento non si sa.

L'Armata Brancaleone che dovrebbe fare da quarta gamba. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 28 gennaio 2021. ECCOLA la quarta gamba che dovrebbe sostenere il Conte III. Più che un arto sul quale far camminare un progetto politico una protesi posticcia. O meglio ancora una maionese impazzita, dieci senatori che messi insieme, per origine e provenienza, rimandano ad un’Armata Brancaleone, un esercito che più raccogliticcio non si può, “senza armatura/senza paura/senza calzari/senza denari/senza la brocca/senza pagnocca/senza la mappa/senza pappa”. E sì. Perché sotto l’egida assai articolata del nuovo simbolo Europeisti-Maie-Centro democratico è nato con la benedizione della Casellati il nuovo gruppo tanto caro a Bruno Tabacci, i magnifici dieci che da ieri indossano la divisa dei Costruttori. Nati con una missione precisa: salvare il soldato Giuseppi, tirarlo fuori dalla situazione difficile in cui lo ha messo Renzi e in cui in parte – diciamolo – s’è messo da solo. Ma il problema, appunto, non sono loro, che anzi, animati da buona volontà, cercano di far coincidere la salvezza dell’ex premier con la salvezza dei propri destini. Il problema è chi pensa che basti un manipolo di fuoriusciti e reduci più una senatrice ex Forza Italia forse infiltrata e un’altra senatrice presa in prestito dal Pd a far decollare un esecutivo che s’è schiantato in volo pochi giorni dopo aver ottenuto la fiducia.

I MAGNIFICI DIECI CHE GIÀ VOTARONO LA FIDUCIA AL GOVERNO CONTE. L’altro problema, quello vero, è che il nuovo gruppo non rappresenta un rafforzamento della maggioranza perché i suoi dieci componenti, inclusi i due senatori del soccorso azzurro, Rossi e Causin, hanno già votato la fiducia al governo. Si capirà allora perché per l’ex forzista Raffaele Fantetti salire al Colle e garantire al presidente Mattarella il controllo dei suoi pianeti dispersi non sarà semplice. Fantetti, 54 anni, è un avvocato residente a Londra, circoscrizione in cui è stato eletto. Rimasto fuori e poi ripescato alle Politiche del 2008 nelle liste del Popolo delle Libertà, l’avvocato lascia Forza Italia e passa al Maie il 12 ottobre del 2020. Il suo vice è il veneziano Andrea Causin, uno che nell’arco di 10 anni ha indossato maglie di di schieramenti diversi trovando ogni volta una motivazione e una collocazione nuova. Dagli inizi democristiani, legato alla sinistra di Mino Martinazzoli, al passaggio al Pd nel 2008, come responsabile enti locali. Causin è uomo di grandi innamoramenti e di brevi passioni. Seguiranno Italia Futura, (Montezemolo), Scelta Civica, fino al passaggio, tre anni fa, in Forza Italia. Una sua frase presa dai social rappresenta perfettamente il suo stato fluttuante: “La politica è come un pallone da rugby, non sai mai dove rimbalza”. Più che una squadra, un patchwork. Del collage fa parte Adriano Cario, residente a Buenos Aires, eletto nella circoscrizione America meridionale, nato a Montevideo e presidente dell’Associazione Centro Calabrese. Cario ha costruito la sua carriera politica grazie alla sua casa editrice che pubblica ben 8 settimanali in lingua italiana in Sud America. Uno di questi si chiama “Italia Viva”. Ogni riferimento al partito di Renzi è puramente casuale.

IMPEGNO PER CONTRASTARE LA PANDEMIA E LOTTA AI CAMBIAMENTI CLIMATICI. Dall’America meridionale proviene anche Riccardo Antonio Merlo, presidente del Maie, imprenditore, docente e giornalista, e sottosegretario agli Affari esteri sia nel primo governo Conte che nel secondo. Un caso di carica transitiva a prescindere dal colore della colore cromatico dell’esecutivo. Di Maria Rossi, l’ex “badante” di Berlusconi, molto si è detto e scritto. Gossip allo stato puro, paparazzata ma non solo gossip. Quello che si sussurra e che molti pensano, è che in realtà la sua uscita da Forza Italia, sia solo un espediente per collocare una pedina forzista in territorio nemico. Più che una missione vendicativa, dunque, una mossa per punire il Cavaliere che l’ha sostituita e dimenticata, una copertura. Fantapolitica? Con Berlusconi è possibile tutto e il contrario di tutto, ormai lo abbiamo imparato. Poi ci sono i fuoriusciti dal M5S, quelli che qualcuno ha definito “Morosi per Conte”. In realtà, il loro trasformismo è un effetto ritardato dello stile giustizialista della Casaleggio &associati. Maurizio Buccarella, finì nello scandalo rimborsopoli, con l’accusa di aver revocato i bonifici. Altri come lui sono stati graziati o ignorati. “Non torno su queste polemiche”, premette. Il nuovo ruolo? “Questo gruppo nasce per garantire un sostegno al nuovo governo, auspicabilmente guidato da Conte ma anche per garantire il nostro impegno internazionale in vista della gestione del Recovery Fund, del G20 e del Cop26, l’impegno per contrastare i cambiamenti climatici è uno dei punti che abbiamo sottoscritto”. Ex 5 Stelle anche Gregorio De Falco e Saverio De Bonis. Il primo, noto per il suo scontro con Schettino, nelle ore del drammatico affondamento della Costa Concordia, è poco meno di un caso. Fu cacciato per aver votato durante il governo gialloverde contro il Decreto sicurezza, lo stesso che il successivo governo giallorosso avrebbe cancellato con un colpo di spugna. Il secondo, De Bonis, eletto in Basilicata, per aver violato il codice etico, aver omesso prima di candidarsi di aver riportato una “condanna contabile”, una vicenda risalente al 2015: aver partecipato ad un bando dichiarando una qualifica fasulla per facilitare la sua azienda agricola. Dulcis in fundo Tatjana Rojc, triestina rappresentante della comunità slovena, arrivata in prestito dal Pd, che dice “il mio è solo un aiuto tecnico per far nascere i Costruttori” . Resta alla fine però un dubbio: siamo sicuri che sono nati? In ogni caso e  comunque vada, valga per loro la frase che Monicelli nel suo film fa dire a Brancaleone da Norcia, cioè Vittorio Gassman: “All’erta miei prodi! Fino a ieri vi siete coperti di m…a! Copritevi oggi di gloria!”.

Correzioni a penna. Giallo al Senato: lo strano caso del “Gruppo solido e coeso”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 28 Gennaio 2021. Il Riformista ha potuto esaminare il documento ufficiale con cui i dieci senatori hanno sottoscritto la formalizzazione del nuovo Gruppo al Senato. Sotto gli auspici e i simboli di Bruno Tabacci, il gruppo ha assunto il nome di “Europeisti – Maie – Centro democratico” e ha indicato come presidente il sen. Fantetti, vice presidente il sen. Causin. L’insolito stratagemma del “prestito” di una senatrice, che va da un gruppo all’altro, ha permesso alla bizzarra compagine di presentarsi davanti al Presidente della Repubblica assicurando l’interlocutore di rispettare le caratteristiche del gruppo europeista, solido e coeso come lo stesso Mattarella aveva esatto. Il documento presenta però dei tratti di evidente non conformità rispetto alla formalità degli atti. La paginetta, di poche righe, sembra scritta in fretta e furia, tanto che all’ultimo aveva tenuto uno spazio in bianco che è stato compilato solo a penna. Il nome della senatrice Rojc, uscita dal gruppo del Pd, è stato aggiunto evidentemente dopo la battitura e la stampa del foglio, la cui lista era fino all’ultimo incompleta. Va ricordato che il numero minimo dei senatori per comporre un Gruppo autonomo è dieci. Fino all’ultimo ce n’erano solo nove. L’aggiunta posticcia è ancora più evidente nel listato sottostante, con le firme. Il nome della senatrice che avrebbe formalmente deciso di uscire dal gruppo Dem per abbracciare la nuova avventura in Senato è arrivato in extremis, tanto che sul nome Tatiana (Rojc) si può leggere il tentativo di correzione di quella che era una iniziale L. Un secondo giallo si somma a questa iniziale incertezza. Si è appreso nella nottata che al Gruppo si sarebbe aggiunto Luigi Vitali, uscendo da Forza Italia. Un nome che coincidenzialmente inizia per L. In mattinata è arrivata la secca smentita dell’interessato, che dice di non aver mai dato il suo consenso all’operazione Centro Democratico. Nella formazione della delegazione che il neonato Gruppo ha mandato al Quirinale per le consultazioni, scoppia un ulteriore caso. Il presidente del gruppo, l’avvocato Raffaele Fantetti, residente a Londra, non partecipa all’incontro con il Presidente della Repubblica: vanno invece sul Colle il senatore italo-argentino Antonio Merlo, insieme con i senatori Gregorio De Falco (al terzo cambio di casacca) e Andrea Causin (già nel Partito Popolare con Martinazzoli da cui è uscito per dare vita a una lista civica, poi consigliere regionale veneto con il Pd, quindi fulminato da Monti con Scelta Civica, poi Forza Italia…). La singolarità della costituzione del Gruppo è stata denunciata da esponenti bipartisan. Arturo Parisi, fondatore dell’Ulivo, a lungo ministro della Difesa prodiano, ironizza: “Finalmente un gruppo coeso e solido”, richiamando le raccomandazioni del Capo dello Stato. E legge tra le righe, stigmatizzando le correzioni a penna, le aggiunte in extremis di nomi posticci. “E questa la politica di “alto profilo” all’altezza del dramma dell’ora?”, si domanda.

Con il voltafaccia di Vitali saltano i "costruttori". Ma spuntano i "sudisti". Il senatore cambia idea: non salvo più Conte. Gruppo trasversale di Pd e M5s pro Giuseppi. Fabrizio De Feo, Venerdì 29/01/2021 su Il Giornale. L'infatuazione dell'azzurro Luigi Vitali per Giuseppe Conte è durata lo spazio di una notte. Una scappatella cancellata da un repentino pentimento. Prima l'annuncio dell'addio a Forza Italia e l'adesione al progetto dei «responsabili» europeisti nella tarda serata di mercoledì, un ingresso che aveva rappresentato una iniezione inattesa di speranza per una maggioranza azzoppata. Poi i dubbi, le telefonate con i big del centrodestra e infine il «contrordine colleghi». Luigi Vitali, già coordinatore azzurro in Puglia, avvocato, in Parlamento dal '96, in prima linea sulla Giustizia di cui è stato sottosegretario, negli ultimi tempi si era avvicinato a Cambiamo di Giovanni Toti senza poi aderire e aveva aperto un dialogo con la Lega in virtù del rapporto di amicizia con il coordinatore dei salviniani in Puglia, il leccese Roberto Marti. La sua dichiarazione era stata una sorta di fulmine a ciel sereno. «Ho deciso di sostenere il presidente Conte», entrando nel gruppo Europeisti-Maie-Cd. La mattinata di ieri, però, ha portato consiglio. Fino al clamoroso dietrofront. «L'impulso mi ha fatto dire a Conte che lo avrei aiutato, ma quando sono uscito da palazzo Chigi ed è uscita l'agenzia, mi ha chiamato Berlusconi e mi ha detto: non posso credere che tu abbia fatto una cosa del genere, mi ha ricordato la mia storia, le battaglie fatte. Io gli ho spiegato che non voglio le elezioni anticipate e mi ha rassicurato dicendomi di essere stato il primo a dare la disponibilità per un governo di larghe intese» dice Vitali a Un giorno da Pecora. «Poi mi ha chiamato anche Salvini che mi ha detto che è disposto a parlare con chiunque purché si facciano la riforma del fisco e quella della Giustizia». Una frenata a cui ha contribuito Anna Maria Bernini che si è interfacciata con lui e con il presidente Berlusconi più volte, una moral suasion diretta a fargli capire che difficilmente le promesse sarebbero state mantenute dalla maggioranza giallorossa e in quello schieramento sarebbe servito soltanto a fare numero. Un'azione portata avanti anche dai leghisti e dallo stesso Roberto Marti che non riuscendo a raggiungerlo al telefono, a mezzanotte ha fatto un blitz, ha citofonato alla sua casa romana insieme ad alcuni colleghi leghisti e lo ha convinto a rivedere la sua decisione. I parlamentari di centrodestra liquidano la vicenda con un pizzico di ironia. «Riunitasi in assemblea urgente, la componente Idea-Cambiamo del Senato ha deliberato di modificare il proprio nome in Cambiamo Idea e di affidare la presidenza al senatore Gino Vitali», scrive su Facebook Gaetano Quagliariello. Maurizio Gasparri allarga le braccia: «In questi casi ci vuole la pazienza di Giobbe». Ieri peraltro anche la senatrice Gabriella Giammanco ha rivelato di essere stata contattata «sia telefonicamente, sia via whatsapp da un esponente del governo», opponendo però un deciso no alle lusinghe. Sull'altro fronte c'è chi pensa addirittura a una «strategia del ripensamento». «È chiaro che questa cosa di Vitali blocca anche gli altri potenziali arrivi», riflette un «responsabile». Niente effetto domino, insomma. Giuseppe Conte, però, secondo alcune voci, starebbe valutando una controffensiva. Dopo la brutta figura rimediata con Vitali, il premier starebbe lavorando, insieme a Barbara Lezzi per il M5S e Francesco Boccia per il Pd, alla costituzione di un gruppo di una ventina di senatori del Sud pronti a dirsi contrari a qualunque altra opzione al di fuori di un Conte Ter. Una mossa che al momento non sembra avere grandi possibilità di riuscita e di blindatura per il premier uscente.

 Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” il 29 gennaio 2021. Oggi è il giorno del pessimismo, degli sguardi spenti, delle teste chine. È il fatale istante nel quale ci si rende conto che quasi tutto è perduto, che la grande manovra per disegnare il futuro è sostanzialmente fallita e si è trasformata in una trama di piccolo cabotaggio. Il gommone dei responsabili si è incagliato, nessuno vuole salire a bordo e Ricardo Merlo, europeista con accento argentino, lo dice fuori dai denti: «Ormai vedo più probabili le elezioni che un Conte ter». L'«operazione Vitali» - nel senso del senatore di Forza Italia che ha traccheggiato a lungo, poi ha annunciato l' adesione, poi ha avuto un ripensamento notturno - è un giallo finito male. Merlo ci vede una sorta di complotto: «Una manovra della destra per delegittimarci». Sarebbe diabolico. «Ma no, quale diabolico, è la politica». La politica, quella che avrebbe fatto saltare l' accordo, secondo altri: «Vitali aveva chiesto di diventare sottosegretario alla Giustizia, ma Conte poteva mai accontentarlo? Che avrebbero detto Pd e M5S?». Quella politica che fa restare fuori dalla porta i mille volte annunciati senatori di Forza Italia, dell' Udc, di Iv. Ormai le soffiate di nuovi transfughi, sempre più flebili, arrivano già impacchettate con le smentite. «Se arriva qualche nuovo, arriva con il preincarico a Conte», dice alla buvette un Saverio De Bonis piuttosto abbacchiato. «Speriamo nel capo dello Stato, nella sua saggezza». Poi scuote la testa, lo sguardo si annebbia nel vuoto di prospettive e si riaccende solo quando pensa «a quelli che ci chiamano poveracci, vagabondi. Ma io nella mia vita mi sono fatto un mazzo così: ma come si permettono?». Bruno Tabacci non se la prende, è politico di lungo corso e dall' alto dei suoi 74 anni (era consigliere Dc già nel 1974, un anno prima dell' avvento sulla terra di Matteo Renzi), fa il punto con disincanto e senza perdere l' ironia. Al Quirinale spiega che serve un reincarico a Conte, «punto di equilibrio», e fuori risponde a Renzi, secondo il quale ci vuole Gentiloni premier e Draghi all' Economia: «Poi magari vedremo se c' è un posto anche per Cristiano Ronaldo. Qualcuno dice "io vorrei andare sulla Luna", io sono invece un po' più realista». E il realismo, fratello minore del cinismo, induce a insistere su Conte. Perché come dice Merlo: «Se esce Conte, torna Renzi con i suoi 17, ma poi magari perdiamo 25 dei 5 Stelle». Conti in rosso, bancarotta sicura. Ma tutti e dieci i novelli «europeisti» sono pronti ad accettare un altro premier, perché l' importante è andare avanti. Per qualcuno è «il partito dei 170 mila euro», la cifra che si calcola riceveranno i senatori se la legislatura arriverà alla fine naturale. Per altri è solo un gesto di buon senso, per consentire al governo di affrontare la pandemia. «Il gruppo aumenterà - insiste Merlo - ma più avanti». «Dobbiamo fare in fretta», spiega Gregorio De Falco. Intanto si prova a fare un gruppo europeista anche alla Camera, dove servono 20 deputati. Per il solo fatto di esistere, ogni gruppo ha diritto a un contributo annuale che supera gli 800 mila euro, per gli uffici e il personale legislativo e d' aula. Non è questione di soldi, naturalmente, in questo caso la questione è tutta politica. Non a caso anche il centrodestra sta cercando di formare un gruppo parallelo di responsabili, cercando di sottrarre eletti soprattutto ai 5 Stelle. Manovre sempre più stanche, aspettando una svolta vera che non arriva.

 (ANSA il 27 gennaio 2021) - "Cari colleghi, come doverosamente comunicato alla presidente, ho preso la decisione di sostenere il professor Conte. Ho espresso sempre la mia perplessità sulla situazione attuale. E' stato un onore lavorare con voi". E' quanto comunicato dal senatore FI Luigi Vitali ai colleghi di Palazzo Madama, dopo aver sentito al telefono la capogruppo Anna Maria Bernini. Vitali, pur restando nel gruppo di FI al Senato - si sottolinea da fonti azzurre - aveva lasciato il partito da alcuni mesi ed è uno dei fondatori di "Cambiamo!" di Giovanni Toti.

(di Giovanni Innamorati) (ANSA il 27 gennaio 2021) - C'è voluto il "soccorso rosso", cioè il prestito di una senatrice da parte del Pd, per far nascere il gruppo dei "volenterosi", che dovrebbe sostenere Giuseppe Conte nella sua corsa verso il ter. Ma a puntellare l'aiutino di Zingaretti - necessario per i litigi tra i senatori e le senatrici "responsabili" - giunge anche una sponda da Forza Italia con l'arrivo, e il conseguente addio agli azzurri, del senatore Luigi Vitali (a cui, si sussurra nei corridoi di Palazzo Madama, potrebbe aggiungersi domani un'altra azzurra, Anna Carmela Minuto). Il partito di Renzi, che aveva già visto nel prestito della senatrice Dem un gesto ostile del segretario del Pd nei suoi confronti, registra la novità e si vede ulteriormente "neutralizzare" dal punto di vista numerico. L'annuncio della costituzione del nuovo gruppo è stato dato in Aula a Palazzo Madama dalla presidente Maria Elisabetta Casellati, che ha riferito che il nuovo gruppo si chiamerà "Europeisti-Maie-Centrodemocratico". Alla lettura dei dieci nomi (numero minimo per costituire un gruppo), è emersa l'assenza di Lello Ciampolillo e di Sandra Lonardo Mastella. Senza la senatrice Dem, la scrittrice Tatjana Rojc, ci si sarebbe fermati a quota nove. Per altro Rojc ha chiarito subito che rimane nel Pd e che ha solo dato un aiuto alla nascita del gruppo. In ogni caso si tratta di dieci senatori che avevano già votato la fiducia martedì 19 gennaio, e otto di loro la votavano già prima. A questi, ora, si aggiunge Vitali e, come fiducioso annuncia il leader del Maie, Ricardo Merlo, a sostenere il Conte ter "arriveranno" altri senatori oggi all'opposizione. Il capogruppo è Raffaele Fantetti, ex Fi che vota la fiducia dallo scorso ottobre, e Andrea Causin, che assieme a Maria Rosaria Rossi ha votato la fiducia la scorsa settimana lasciando Fi. Fantetti, Causin e Merlo andranno da Mattarella domani alle 11,50 a proporre il reincarico a Giuseppe Conte. Sandra Lonardo Mastella ha spiegato i motivi della mancata adesione: l'assenza del nome della sua associazione politica "Noi campani" dalla dicitura ufficiale del gruppo. Si tratta solo di un apparente capriccio visto che l'avere un gruppo parlamentare in uno dei due rami del Parlamento esonera dalla raccolta delle firme alle successive elezioni. Al momento i numeri del Senato timidamente schiodano dagli attuali 157 (i sì alla fiducia comprensivi dei tre senatori a vita) per quotarsi a 158/159. Alla Camera lo scenario è quasi in fotocopia: due senatrici ex M5s che avevano votato il 18 la fiducia a Conte hanno aderito alla componente Centro Democratico di Bruno Tabacci, che sale da 13 a 15, mentre per formare un gruppo ne servono 20. Operazioni in corso, dunque, che irritano - e non poco - il leader di Iv su cui Zingaretti, in Direzione, ha detto di nutrire "fondati dubbi sulla affidabilità per il futuro". Non il modo migliore per addolcire Renzi che infatti ha parlato di "autentico scandalo".

Giuseppe Alberto Falci per corriere.it il 27 gennaio 2021. Nella notte il senatore di Forza Italia Luigi Vitali ci ripensa e torna sui suoi passi. Non aderirà più al gruppo degli europeisti per Conte. «Mi hanno chiamato Silvio Berlusconi e Matteo Salvini». E cosa le hanno detto? «Il Cavaliere mi ha ricordato il passato insieme: sono iscritto a Forza Italia dal 1995. Il presidente mi ha pure aggiunto: “Hai visto che ho parlato alle larghe intese?”». E poi c’è la telefonata con il leader della Lega, il quale avrebbe convinto l’avvocato pugliese che è stato in un governo Berlusconi sottosegretario alla Giustizia: «Ma cosa vai a fare lì? Hai visto che io ho aperto su giustizia e fisco». Vitali assicura che non gli avrebbero promesso alcunché: «Questa è la mia ultima legislatura. Hanno prevalso gli affetti. D’altro canto cosa sarei andato a fare in un governo presieduto da Giuseppe Conte? Sarei stato solo un mercenario».

Luigi Vitali, chi è il senatore di FI che ha ritirato il sostegno a Conte. Notizie.it il 28/01/2021. Formazione e carriera politica di Luigi Vitali: chi è il senatore di Forza Italia che ha dichiarato e poi ritirato il proprio sostegno al Conte ter.

Luigi Vitali e l’ipotesi di un Conte ter. Il presidente del Senato della Repubblica, Elisabetta Casellati, ha annunciato ufficialmente la nascita del gruppo parlamentare battezzato ‘Europeisti Maie Centro democratico’. Il gruppo è composto, al momento, da dieci senatori tra i quali, però, non è incluso Luigi Vitali, esponente di Forza Italia che ha rinnegato il proprio sostegno alla formazione di un eventuale Conte ter.

Luigi Vitali, nascita e formazione universitaria. Luigi Vitali è nato a Taranto, il 2 gennaio 1955, figlio di un appuntato dei Carabinieri, originario di Casarano, un comune situato in provincia di Lecce, in Puglia. Terminati gli studi superiori, Vitali si iscrive all’Università degli Studi di Bari, frequentando la Facoltà di Giurisprudenza e laureandosi nel 1978. Dopo la laurea, ha intrapreso la professione di avvocato e si è trasferito a Francavilla Fondana, in provincia di Brindisi, dove risiede tutt’ora.

Gli esordi politici di Luigi Vitali. Le origini della carriera politica di Luigi Vitali possono essere individuate nella sua adesione al Movimento Sociale Italiano, un partito originariamente di stampo neofascista, dichiaratosi successivamente post-fascista e conforme agli ideali della destra conservatrice. In qualità di membro del Movimento Sociale Italiano, Vitali è stato eletto consigliere comunale a Francavilla Fontana per il periodo di tempo compreso tra il 1980 e il 1988. Nel 1995, poi, il politico pugliese si è distaccato dal Movimento Sociale Italiano, entrando a far parte di Forza Italia e garantendosi un ruolo stabile all’interno del consiglio comunale di Francavilla Fontana per svariati anni.

Le elezioni politiche e la collaborazione con Silvio Berlusconi. In seguito alle elezioni politiche svolte nel 1996, Luigi Vitali è stato eletto deputato alla Camera per la prima volta. Nello stesso anno, inoltre, è diventato anche un membro stabile del consiglio direttivo di Forza Italia alla Camera.

Alle elezioni politiche del 2001, Luigi Vitali è stato rieletto: in questo contesto, ha svolto un ruolo fondamentale da un punto di vista legislativo.

Nel 2002, infatti, ha presentato gli emendamenti che hanno portato a una sostanziale depenalizzazione del reato di falso in bilancio e ha elaborato quattro proposte di legge finalizzate a introdurre misure come il condono edilizio, il condono per le sanzioni amministrative relative al codice della strada, il condono previdenziale e il condono fiscale "tombale".

Il 30 dicembre 2004, poi, l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha insignito Luigi Vitali dell’incarico di Sottosegretario alla Giustizia. La nomina è stata, successivamente, riconfermata durante il cosiddetto Governo Berlusconi III, fino al 17 maggio 2006.

In seguito alle elezioni del 2006 e alla conseguente rielezione alla Camera, Vitali è stato dichiarato vicepresidente della commissione giustizia alla Camera dei deputati ed è entrato a far parte della Commissione parlamentare Antimafia.

Ancora rieletto come deputato alla Camera con le elezioni politiche del 2008, il politico pugliese è stato nominato presidente della delegazione parlamentare dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa nonché membro della commissione giustizia, della commissione giurisdizionale personale e del comitato per la legislazione.

Le forze parlamentari bocciano la candidatura di Vitali. Nel 2013, il politico pugliese di Forza Italia ha scelto di non ricandidarsi in occasione delle elezioni politiche: per questo motivo, nel 2014, il suo nome è stato segnato per ricoprire il ruolo di componente laico nel CSM in quota Forza Italia. La candidatura, però, non è stata adeguatamente sostenuta dalle varie forze parlamentari in campo che hanno, anzi, accusato Luigi Vitali di aver promosso iniziative legislative ad personam, di aver commesso abuso d’ufficio in relazione allo scandalo che aveva coinvolto le farmacie abusive di Brindisi e di essere imputato per falso ideologico rispetto all’inchiesta afferente alla P4. Pertanto, dopo svariate votazioni con risultati nettamente inferiori al quorum indispensabile dei 3/5 di voti, è stata decretato il ritiro della candidatura di Vitali.

La nomina a Commissario Regionale in Puglia. Il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ha attribuito al politico pugliese Luigi Vitali la nomina di Commissario Regionale di Forza Italia in Puglia, il 17 febbraio 2015. A questo proposito, l’azione di Berlusconi era finalizzata a sviluppare un considerevole indebolimento della minoranza raggruppatasi intorno alla personalità di Raffaele Fitto, che aveva conquistato la dirigenza regionale del partito di destra.

Luigi Vitali e l’ipotesi di un Conte ter. In occasioni del voto di fiducia espresso al Senato della Repubblica il 19 gennaio 2021 in relazione al governo presieduto dal Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte, Luigi Vitali ha dichiarato di non poter appoggiare un governo che vedeva Alfonso Bonafede ricoprire l’incarico di Guardasigilli. Il 27 gennaio, tuttavia, lo stesso Vitali si è espresso in merito alla crisi di governo conclusasi con la formalizzazione delle dimissioni del Premier Conte al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. In questo contesto, ha espresso il suo sostegno verso la creazione di un ipotetico Conte ter, rinnegando la propria posizione di apertura dopo aver intrattenuto conversazioni telefoniche con il leader della Lega Matteo Salvini e con il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi.

Vitali: «Sono stravolto, ho cambiato idea alle 4 dopo telefonata con Berlusconi e Salvini». Il senatore raggiunto in auto diretto nella sua Puglia: «Non mi hanno promesso nulla. Chiedo scusa al presidente Conte» - di Nino Luca /CorriereTv il 28 gennaio 2021. «Avevo raggiunto Conte a palazzo Chigi e mi aveva convinto, ma poi in serata mi hanno chiamato prima Berlusconi e poi Salvini. Ho cambiato idea. Adesso chiedo scusa a Conte. Sono stravolto». Raggiungiamo il senatore di Cambiamo, Luigi Vitali, mentre in auto si sta rifugiando nella sua Puglia. Non ha chiuso occhio. «Arrivato a casa, stacco i telefoni e dormo».

Govero, Luigi Vitali ci ripensa: "Nessun appoggio politico al Conte Ter". Il Giornale il 28/1/2021. Il senatore di Forza Italia, dopo aver parlato con Berlusconi e Salvini, ha fatto un passo indietro e non si unirà al gruppo dei responsabili. Ieri l'annuncio, oggi il dietrofront. Il senatore Luigi Vitali non darà il suo sostegno al governo Conte Ter. "Cari colleghi, come doverosamente comunicato alla Presidente, ho preso la decisione di sostenere il professor Conte. Ho espresso sempre le mie perplessità sulla situazione attuale. È stato un onore aver lavorato con voi", con queste parole l'avvocato pugliese si era congedato dal gruppo parlamentare di Forza Italia solo poche ore fa ma le telefonate di Matteo Salvini e di Silvio Berlusconi gli hanno fatto cambiare idea. Luigi Vitali, che durante il governo Berlusconi è stato sottosegretario alla giustizia, ha sottolineato che i due leader di altrettanti partiti della coalizione di centrodestra non gli hanno offerto nulla in cambio del suo passo indietro. "Il Cavaliere mi ha ricordato il passato insieme: sono iscritto a Forza Italia dal 1995. Il presidente mi ha pure aggiunto: 'Hai visto che ho parlato alle larghe intese?'", ha detto Luigi Vitali al Corriere della sera, raccontando la telefonata intercorsa nella notte con Silvio Berlusconi. Anche il leader della Lega ha telefonato al senatore uscente per cercare di convincerlo a non unirsi al gruppo in Senato dei responsabili che serviranno da base per l'ipotetico Conte-ter. "Ma cosa vai a fare lì? Hai visto che io ho aperto su giustizia e fisco", avrebbe detto Matteo Salvini a Luigi Vitali, che poi al Corsera spiega le ragioni del suo ripensamento: "Questa è la mia ultima legislatura. Hanno prevalso gli affetti. D’altro canto cosa sarei andato a fare in un governo presieduto da Giuseppe Conte? Sarei stato solo un mercenario". Luigi Vitali ha successivamente spiegato che "nelle scorse ore ho avuto modo di interloquire con il presidente del Consiglio Conte, sottoponendogli l'urgenza e l'importanza per il Paese di una riforma complessiva della giustizia dichiarando il mio appoggio a un ritorno allo stato di diritto e di garanzie nel processo". Il senatore ha posto l'accento in particolare sui termini della prescrizione, di cui dice sia inacettabile che siano stati aboliti "quando i processi hanno una media di durata al di là di tutti gli standard europei". Vitali, poi prosegue: "Questo ragionamento condiviso con Conte era nel solco di quanto già dichiarato dal presidente Berlusconi sull'apertura a un governo istituzionale e a quanto dichiarato dal segretario Matteo Salvini circa la volontà di parlare con chiunque a patto che fossero messi al centro i contenuti di una piattaforma di governo che prevedesse tra gli altri una riforma della giustizia e fiscale. Percorsi utili ed essenziali per evitare elezioni anticipate che tutt'ora ritengo insensate". Luigi Vitali, infine, ha concluso prendendo una posizione netta: "Ribadisco dunque nessun appoggio politico al Conte Ter".

Il “trasformista” Luigi Vitali da Forza Italia al premier Conte, passando per la Lega…Il Corriere del Giorno il 28 Gennaio 2021. Il senatore ex Forza Italia, poi di Cambiamo! ed ora “Contiano” Luigi Vitali, la scorsa estate aveva deciso di entrare nella Lega di Matteo Salvini come riferito al nostro direttore dall’ attuale coordinatore regionale pugliese Roberto Marti, il quale parlando di Vitali, lo definiva “mio fratello”. Adesso chi glielo dice a Salvini che Vitali l'”amico del cuore” di Marti invece di entrare nella Lega è passato fra i supporter di Conte ? Il senatore Luigi Vitali nato a Taranto, brindisino d’adozione (per la precisione, di Francavilla Fontana) è l’ultimo acquisto dell’armata brancaleone dei sostenitori last-minute del Governo Conte, ex coordinatore-rottamatore di Forza Italia in Puglia. Diventato senatore grazie al listino “bloccato” alle ultime elezioni politiche dopo essere stato sonoramente “trombato” dal non-voto degli elettori nelle urne. “Ho deciso di sostenere il presidente Conte, perché in una situazione drammatica come quella che vive il Paese, vedo gente pensare più a interessi di parte, seppure legittimi, anziché pensare a cosa serve al Paese“. Il senatore Luigi Vitali, ex sottosegretario alla Giustizia del governo Berlusconi, ha detto definitivamente addio al gruppo di Forza Italia annunciando all’Agenzia Adnkronos il suo sostegno all’ipotesi di un Governo Conte ter. “Non è questo il momento delle contrapposizioni, ma – assicura Vitali – di dare come classe dirigente complessiva un segnale a chi non ha ancora ricevuto la Cig, il vaccino, a chi è stato costretto a chiudere attività, alle partite Iva, alle imprese ai commercianti, che il Paese è unito, perché solo insieme si uscirà dal tunnel“. “C’è tempo per le contrapposizioni e per le diversità, oggi – rimarca Vitali – è il tempo dell’unità e il presidente Conte mi sembra quello che la possa garantire. Sono uscito a giugno del 2019 da Forza Italia per contrasti con il vicepresidente Tajani. Stavo nel gruppo di Fi – rivela – perché la presidente Bernini, alla quale mi lega un sincero rapporto di amicizia e di riconoscenza, mi ospitava. Ho comunicato questa sera alla presidente Bernini la decisione di sostenere il presidente Conte“. E’ quindi pronto a votare il Conte ter, gli chiedono i giornalisti dell’ ADN Kronos ? ”Sì”, assicura l’ex azzurro, che dovrebbe approdare nel nuovo gruppo dei "responsabili" al Senato "Europeisti", che con il suo arrivo salirebbe a undici componenti. Auspica il ritorno di Renzi? ”Non è un mio problema”, conclude Vitali.

Chi è Luigi Vitali. Per avere notizie certe su Vitali bisogna ricorrere alla banca dati di Wikipedia, e scoprire che aveva aderito nel 1995 a Forza Italia entrando in consiglio comunale, a Francavilla, ricoprendo la carica ininterrottamente anche negli anni successivi. Con le elezioni politiche del 1996 è stato eletto per la prima volta deputato e nello stesso anno è entrato a far parte del consiglio direttivo di Forza Italia alla Camera. Rieletto in Parlamento nel 2001, ha presentato nel 2002 gli emendamenti che hanno depenalizzato in misura sostanziale il reato di falso in bilancio e quattro proposte di legge per introdurre il condono fiscale “tombale”, il condono edilizio, il condono previdenziale e quello per le sanzioni amministrative del codice della strada. Il 30 dicembre 2004 venne nominato sottosegretario alla Giustizia nel Governo Berlusconi II, mantenendo l’incarico anche con il Governo Berlusconi III sino al 17 maggio 2006. Alle elezioni politiche del 2008 è stato rieletto alla Camera e negli anni successivi ha ricoperto gli incarichi di presidente della delegazione parlamentare presso l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa e componente della commissione Giustizia, del comitato per la legislazione e della commissione giurisdizionale per il personale. Non ricandidato nel 2013, l’anno successivo è stato candidato  come componente laico del Consiglio superiore della magistratura in quota Forza Italia ma la sua candidatura non ha ricevuto il necessario appoggio e consenso delle altre forze parlamentari che gli contestavano di essere stato fautore e relatore di molte leggi “ad personam” nonché imputato per falso ideologico nell’ambito dell’inchiesta sulla P4 e per abuso d’ufficio per lo scandalo sulle farmacie abusive di Brindisi. Il 17 febbraio 2015 Vitali venne nominato da Silvio Berlusconi commissario regionale di Forza Italia in Puglia, con l’intento di sottrarre la dirigenza regionale del partito dall’egemonia della corrente di a Raffaele Fitto. Alle ultime elezioni politiche del 2018 Vitali si è candidato nel collegio uninominale di Lecce al Senato della Repubblica,  sostenuto dalla coalizione di centro-destra, perdendo per 20.000 voti di differenza contro il candidato dei 5 Stelle. Viene “salvato” ed eletto nella quota “proporzionale”. Diventa vice presidente della Commissione Affari Costituzionali. A ottobre 2020 viene sostituito da Mauro D’Attis come commissario regionale di FI. Vicino alle posizioni del Presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, il 18 settembre 2019 aderisce al suo nuovo partito Cambiamo! rimanendo poi però in Forza Italia. In occasioni delle elezioni regionali in Puglia del settembre 2020 si avvicina alla Lega, grazie alla sua amicizia ferra con il sen. Roberto Marti sostenendo la giovane candidata del Carroccio Adriana Balestra che arriva seconda in lista nella Provincia di Brindisi e non viene eletta. Il senatore Vitali nonostante non avesse votato la fiducia  al Senato al Premier Giuseppe Conte dichiarando di non voler sostenere un governo con Alfonso Bonafede nel ruolo di Guardasigilli in virtù della sua idea di giustizia “giustizialista”- il 27 gennaio 2021, nell’ambito della crisi di Governo dopo le fresche dimissioni di Conte, ha annunciato che intende dare il suo sostegno ad un eventuale Governo Conte III, Novità di rilievo, visto che Vitali è vicino a Mariarosaria Rossi, l’ex berlusconiana uscita da Forza Italia, che sta lavorando per attrarre altri senatori. Dietro le quinte dell’ingresso di Vitali fra i “supporter” di Conte, ci sono alcune ragioni di opportunisno. La maggioranza di governo stava procedendo dritta verso una riforma della legge elettorale in senso proporzionale con sbarramento al 5%. Persino Italia Viva di Matteo Renzi si era schierata a favore insieme al Movimento 5 Stelle ed al Partito Democratico. Bisogna chiedersi cosa accadrebbe nel Centrodestra se alle prossime elezioni politiche ci fosse davvero la legge sulla quale hanno trovato un’intesa M5S, Pd e renziani? Il movimento “Cambiamo!” guidato dal presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, , che nei sondaggi supera di poco l’1%, confluirebbe nelle liste della Lega. Il modello è quello del Partito Sardo d’Azione, che alle Regionali nell’Isola corre da solo ma alle Politiche e alle Europee ha trovato ospitalità e rifugio per i propri candidati nelle liste di Salvini. Il senatore ex Forza Italia, poi di Cambiamo! ed ora “Contiano” Luigi Vitali, la scorsa estate aveva deciso di entrare nella Lega di Matteo Salvini come riferito al nostro direttore dall’ attuale coordinatore regionale pugliese Roberto Marti, il quale parlando di Vitali, lo definiva “mio fratello“. L’ufficializzazione del passaggio di Vitali alla Lega era stata soltanto posticipata a dopo le Regionali di primavera in Puglia che sono risultate disastrose per gli esponenti pugliesi di Salvini che nel giro di un anno (dalle Europee 2019 elle Regionali 2020) hanno perso il 16% dei voti. Adesso chi glielo dice a Salvini che Vitali l'”amico del cuore” di Marti invece di entrare nella Lega è passato fra i supporter di Conte ?

Uomini Vitali.  Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 29 giugno 2021. Si narra di un trapezista del circo di Pechino famoso per riuscire a cambiarsi completamente d’abito in volo. Ebbene,...Si narra di un trapezista del circo di Pechino famoso per riuscire a cambiarsi completamente d’abito in volo. Ebbene, al senatore Luigi Vitali il trapezista di Pechino non fa nemmeno il solletico. Il nostro acrobata è riuscito a saltare dall’opposizione al governo e dal governo di nuovo all’opposizione nel volgere di una notte, mutando tre casacche senza nemmeno infilarsi il pigiama. Una prova di vitalismo resa necessaria dalla contrazione del vitalizio. Come tanti, il senatore Vitali è guidato da una stella polare: restare in Parlamento fino all’ultimo giorno utile. Temendo che la caduta di Conte coincida con la fine dei giochi, l’altra sera accetta di andarlo a trovare a Palazzo Chigi. Entrato berlusconiano, esce da lì più contiano di Casalino. Va in ufficio e scrive una lettera di congedo ai suoi colleghi di partito: «In un momento così drammatico bisogna pensare agli interessi del Paese». Dopo di che sparisce. «Ha lasciato Forza Italia, ma non si sa più dove sia finito», lancia l’allarme un buttadentro dei Responsabili. In realtà Vitali è a casa sua, intento a pensare agli interessi del Paese, quando in piena notte lo chiama Berlusconi per rassicurarlo che non si andrà a votare. Ma Vitali si fida e non si fida. E se Salvini facesse il matto? Così si fa rassicurare anche da Salvini: tranquillo, vedrai che non si vota. Solo allora il governativo Vitali smette finalmente di pensare agli interessi del Paese e si addormenta, sollevato, all’opposizione.

Crisi di governo, il senatore forzista Vitali ci ripensa: "Non passo più con Conte, resto nel centrodestra. Mi preoccupava il rischio del voto anticipato". Tommaso Ciriaco,  Giuliano Foschini su La Repubblica il 28 gennaio 2021. Il parlamentare gela le aspettative del premier: nuova giravolta, non sarà più un "costruttore". Raggiunto al telefono dice: "Ho sentito Berlusconi e Salvini, nella notte ho cambiato idea dopo aver verificato che non c'è la volontà di andare a elezioni a tutti i costi, questo era il mio timore. Mi spiace umanamente per il presidente del Consiglio". "Non passo più con Conte. Resto nel centrodestra’’. Al telefono, alle nove del mattino, il senatore Luigi Vitali, una vita e ‘’una storia che tutti conoscono’’ in Forza Italia, gela le aspettative di Giuseppe Conte e della maggioranza giallorossa. Nuova giravolta, non sarà più un costruttore. ‘’C’è stato un ripensamento,  - spiega - e nella notte ho deciso di restare con il centrodestra. Ho sentito Silvio Berlusconi e anche Matteo Salvini. Ho verificato che non c’è la volontà di andare ad elezioni a tutti i costi, che era poi la mia preoccupazione. Berlusconi è disponibile a verificare le condizioni per andare avanti e uscire da questo momento difficile, Salvini a discutere di fisco e giustizia. Berlusconi non esclude neanche le larghe intese’’. Un duro colpo per Conte, senza dubbio. Lo ha chiamato, senatore? ‘’Mi rendo conto e mi dispiace umanamente per lui. Quanto a chiamarlo, no, non ho il cellulare del presidente Conte. Però d’altra parte la mia era un’iniziativa per provare a tenere unito il Paese ed evitare elezioni. Cambiato il quadro, ci ho ripensato’’, dice. Una marcia indietro  spiegata e ribadita anche con una dichiarazione. "Nelle scorse ore - dice - ho avuto modo di interloquire con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sottoponendogli l'urgenza e l'importanza per il Paese di una riforma complessiva della giustizia dichiarando il mio appoggio ad un ritorno allo stato di diritto e di garanzie nel processo". Vitali aggiunge : "È inaccettabile pensare che in un Paese civile siano stati aboliti i termini della prescrizione quando i processi hanno una media di durata al di là di tutti gli standard europei. Questo ragionamento condiviso con Conte era nel solco di quanto già dichiarato dal Presidente Berlusconi sull'apertura ad un governo Istituzionale e a quanto dichiarato dal segretario Matteo Salvini circa la volontà di parlare con chiunque a patto che fossero messi al centro i contenuti di una piattaforma di governo che prevedesse tra gli altri una riforma della giustizia e fiscale. Percorsi utili ed essenziali per evitare elezioni anticipate che tutt'ora ritengo insensate. Ribadisco dunque nessun appoggio politico al Conte Ter""

LO SQUALLIDO TEATRINO DELLA POLITICA. IL SENATORE VITALI CI RIPENSA: “NON VADO PIU CON CONTE. MI HANNO CHIAMATO BERLUSCONI E SALVINI”. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 28 Gennaio 2021. La realtà è che con la nuova redistribuzione dei collegi elettorali, Vitali non sarebbe mai riuscito a farsi rieleggere, considerata l’ultima “trombatura” ricevuta dagli elettori nel suo piccolo collegio elettorale nel brindisino a Francavilla Fontana. Nella notte il senatore di Forza Italia Luigi Vitali si autoridicolizza e resta all’opposizione. Addormentatosi “responsabile” si è risveglia nuovamente berlusconiano, decidendo di non aderire più al gruppo degli “europeisti” che sta cercando in queste ore di garantire un terzo governo presieduto da Giuseppe Conte. La motivazione ? “Mi hanno chiamato Silvio Berlusconi e Matteo Salvini”. Soltanto dieci ore prima, Vitali assicurava di essere pronto a sostenere il presidente del Consiglio dimissionario: “Stavo nel gruppo di Fi – aveva dichiarato qualche ora fa – perché la presidente Bernini, alla quale mi lega un sincero rapporto di amicizia e di riconoscenza, mi ospita“. Motivando il suo cambio di sponda a favore del premier Conte, parlando con il CORRIERE DELLA SERA , Vitali di dichiara “stanco da settimane“, non condividendo più la linea del centrodestra e del voto. “In tutte le riunioni del gruppo di Forza Italia ho espresso le mie perplessità sulla presa di posizione del centrodestra e degli azzurri perché questo non è il momento di tornare alle urne“. Ed aggiungeva anche altro: “Al di là del rapporto personale con il Cavaliere e di un’amicizia con il presidente dei senatori Anna Maria Bernini è finita la liason con la classe dirigente azzurra”. Tutto ciò per giustificare la propria decisione “sofferta” ( o ridicola ?) di rispondere alla chiamata di Giuseppe Conte. Ieri attorno alle 19 e 30 il senatore brindisino si era recato per circa un’ora a Palazzo Chigi per confrontarsi con il premier dimissionario Conte. Al centro della loro conversazione il “dossier giustizia”. Vitali sostiene di essere ancora oggi un garantista rivendicando di aver firmato da sottosegretario di via Arenula misure “ad personam” come la ex legge Cirielli e il “falso in bilancio”. Ma cià nonostante si era convinto della sua scelta infedele giustificandola così: “stimo il presidente del Consiglio e mi auguro si possa far nascere un nuovo gabinetto con un progetto di futuro del Paese. Conte ha gestito al meglio la trattativa sull’Europa nel pieno di un autonomia“. Deciso il salto della sponda Vitali avrebbe aderito questa mattina al gruppo Maie-Europeisti-Centro-democratico. Ed a chi gli chiedeva cosa gli avesse promesso Conte rispondeva: “Nulla. Perché nemmeno lui sa se farà il governo e con quali partiti. Dunque, girano solo falsità». Non solo voltagabbana a fasi alterne ma anche falsario. Alle 23 e 30 di ieri sera Vitali assicurava che l’operazione di passare con Conte è andata in porto, senza alcun passo indietro. Poi il ritorno a casa, la visione dei commenti negativi sui socialnetwork. Su Facebook i suoi amici gli danno del “fallito” , chi rincara la dose “È solo un venduto, che non avendo speranza di rielezione, cerca di mantenere la poltrona il più possibile !!!Fino a qualche giorno fa diceva … darò la fiducia solo contro una radicale riforma della giustizia , sennò non ci sono motivi. Grande coerenza….“, “Aveva la mia stima, ma così facendo ha tradito il mandato che noi elettori di Fi le abbiamo conferito. Ha rinnegato 26 anni di garantismo per sostenere il premier di Bonafede. Provo solo molta tristezza“, “Lei ha avuto tutto da Berlusconi, politicamente, lei deve veramente tutto a FORZA Italia e invece tradisce alla prima occasione?! E persino pubblica un post, come se fosse un motivo per esserne fieri?! Avrebbe dovuto essere leale, prima con i suoi elettori, poi con Berlusconi. La colpa però è di Berlusconi, perché continua a circondarsi di traditori”. L’ironia nei commenti non manca: “Gino ma stai parlando di te? Fai bene altrimenti non sapresti dove sbarcare il lunario. Spiegaci con nome e cognome chi sono “vedo gente pensare più a interessi di parte”…Cioè tu. Hai avuto anche il mio voto. Se sei senatore e per i voti del partito di F. I. Avevano ragione i tuoi compaesani , loro che ti conoscono bene ti bocciarono alle elezioni nel tuo collegio e tu abusando del tuo ruolo di segretario regionale ti mettesti “ il paracadute “ inserendoti nel listino. Tanto vali. Hai scritto due giorni fa che non svendevi 20 anni di battaglie politiche. Dai Gino dillo a noi “ tuoi amici” quale è “il vaccino “ per far dimenticare in due giorni vent’anni .Ti prego faccelo sapere“. Il telefono di Vitali esplode di chiamate e messaggi , fra i quali due telefonate ricevute gli hanno fatto cambiare idea ancora una volta. Il primo è Silvio Berlusconi presidente di Forza Italia. Vitali rivela il contenuto della conversazione: “Il presidente mi ha ricordato il passato insieme: sono iscritto a Forza Italia dal 1995, ho sempre indossato la casacca azzurra. Poi il Cavaliere in un passaggio si è spinto avanti: “Hai visto che ho parlato delle larghe intese?”. Come dirgli, stai sereno al tuo posto. in qualche modo un esecutivo nascerà. Dopo alcuni minuti , a mezzanotte inoltrata, questa volta al telefono è il segretario della Lega, Matteo Salvini. I due parlano a lungo ed a un certo punto della conversazione Salvini gli dice: “Ma cosa vai a fare lì? Hai visto che io ho aperto su giustizia e fisco?”. Secondo Vitali, che dalla scorsa estate dietro le quinte in Puglia, è al servizio della Lega accanto al suo amico fraterno Roberto Marti, senatore della Lega e da poco segretario regionale pugliese del Carroccio, quel passaggio è dirimente. All’una e trenta Vitali compie l’ennesima capriola scrivendo ai suoi collegi di Forza Italia che qualche ora prima aveva abbandonato: “Ragazzi, c’è un ripensamento”. Un ritorno sui suoi passi, dopo aver detto “sì” all’avvocato del popolo. Cosa gli avranno promesso il Cavaliere e il leader leghista? Vitali nega: “Questa è la mia ultima legislatura. Hanno prevalso gli affetti. D’altro canto cosa sarei andato a fare in un governo presieduto da Giuseppe Conte? Sarei stato solo un mercenario”. La realtà è che con la nuova redistribuzione dei collegi elettorali, Vitali non sarebbe mai riuscito a farsi rieleggere, considerata l’ultima “trombatura” ricevuta dagli elettori nel suo piccolo collegio elettorale nel brindisino a Francavilla Fontana. “Basterà quindi aspettare ed assisteremo all’ennesima capriola di Vitali” assicura un’ autorevole esponente pugliese di Forza Italia, da sempre critica sulle posizione politiche di Vitali. In effetti basta aspettare: il teatrino del “voltagabbana” non è ancora finito.

No a Conte, sì a Conte, no a Conte: salto triplo di Vitali in 6 ore. “Mi ha chiamato Berlusconi”. Europeisti: “Operazione per delegittimarci”. La giravolta dell'avvocato pugliese diventa doppia: prima dà il sostegno al capo del governo alle 4 di notte cambia idea dopo le chiamate dell'ex Cavaliere e di Salvini. Così dentro la maggioranza resta l'impressione di una "polpetta avvelenata". Il Fatto Quotidiano il 28 gennaio 2021. L’unica fedeltà resta quella a Silvio Berlusconi. Il resto, per Luigi Vitali, resta un po’ più oscillante: pareva si fosse avvicinato a Cambiamo di Giovanni Toti, per esempio, ma in realtà non ha mai lasciato Forza Italia. E stanotte ha fatto lo stesso nel percorso tra opposizione e maggioranza. Vitali, avvocato, un passato remoto nel Msi e uno recente al fianco di tutte le battaglie sulla giustizia dell’ex Cavaliere, in 6 ore è riuscito a passare, sofferente, dalla parte di Giuseppe Conte e poi alle 4 del mattino tornare indietro dopo le telefonate di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Giura che l’hanno convinto grazie a un po’ nostalgia e a un po’ di programma di governo. Di sicuro di prospettiva (presunta) di prosecuzione della legislatura. “Berlusconi mi ha ricordato il passato insieme e le larghe intese. Salvini mi ha detto: ‘Hai visto che io ho aperto su giustizia e fisco’”. L’hanno visto tutti ma “l’apertura” sembra destinata ad avere poche ambizioni di essere il collante per un governo in questa legislatura. Oggi vitali chiede scusa a Conte: “Ho sbagliato. E’ stata una valutazione errata spinta da tanti fattori, in primis lo scivolamento ineludibile verso le elezioni anticipate”. La preoccupazione resta quella, come per molti come lui che sono quasi certamente all’ultima legislatura (dopo un’onorata carriera di 25 anni nel caso dell’avvocato di Francavilla Fontana). Secondo le ricostruzioni di queste ore Vitali ha avuto un colloquio con Conte a Palazzo Chigi. E ieri sera questo travaglio interiore era culminato con una nota secondo la quale “in questo momento bisogna lasciare da parte le contrapposizioni”. Ma questa strana giravolta da cosa nasce? E’ noto il curriculum di Vitali, per due volte sottosegretario alla Giustizia nei governi Berlusconi: era il relatore della legge ex Cirielli, in quello stesso provvedimento inserì un emendamento chiamato “salva Previti” che tagliava la prescrizione, nel 2011 firmò una proposta di legge per abbreviare i tempi della prescrizione agli over 65, che avrebbe favorito Berlusconi nel processo Ruby. Come poteva stare in una coalizione il cui partito principale è il M5s? Il suo andirivieni è visto un po’ come una polpetta avvelenata dalla maggioranza uscente. “Il senatore Vitali non lo conosco e non ho mai parlato con lui forse il suo ripensamento è stato frutto di qualche operazione politica fatta apposta per delegittimare il nostro nuovo gruppo” dice Ricardo Merlo, sottosegretario agli esteri e presidente del Movimento degli italiani all’estero, ora nel gruppo Europeisti. “Vitali? – aggiunge Gregorio De Falco – Va segnalato a Chi l’ha visto?: è uscito da Forza Italia e non si sa più dove sia finito. Non avevamo avuto contatti”.

Niccolò Carratelli per “la Stampa” il 29 gennaio 2021. Ha passato la giornata a rispondere al telefono, Luigi Vitali. Avvocato pugliese, 66 anni, una vita da berlusconiano, impegnato sul fronte caldo della giustizia, guidato dal faro del "garantismo". E poi una lunga notte da responsabile, ammaliato dall' eloquio di un collega avvocato. Un incantesimo svanito all' alba. Richiama in serata, da casa, anzi dal letto: «Appena tornato mi sono sdraiato, ho un forte mal di testa».

Ci credo, senatore, dopo questa giravolta pirotecnica.

«Sì, pirotecnica: ho fatto una figuraccia. Ma ho agito d' impeto, in uno slancio di generosità, convinto di fare il bene del Paese. È stata una scelta istintiva, di cui poi mi sono pentito».

Però a palazzo Chigi a parlare con Conte non è capitato per caso, no?

«Mi hanno convinto alcuni amici comuni, sapendo come la penso su questa crisi, sui veti incrociati, sulla necessità di evitare il ritorno al voto: "Vieniti a fare una chiacchierata con il presidente", mi hanno detto. E non ci ho visto niente di male, non è che sono andato di notte, di nascosto».

E il premier cosa le ha detto?

«Mi ha assicurato di voler solo affrontare le emergenze, portare in salvo il Paese, concentrandosi sul Recovery e le cose più urgenti, rinunciando a temi divisivi, come la giustizia. Ha fatto un bel discorso, mi è sembrato sincero, mi ha proprio imbambolato, anche se non sono un principiante. Così mi sono ritrovato a dirgli che lo avrei aiutato».

L' ha ipnotizzata insomma.

«Guardi, già mentre tornavo a casa ci stavo ripensando, poi è uscita la notizia sulle agenzie, sono venuti a trovarmi a casa tre colleghi della Lega e mi hanno detto che mi cercava Berlusconi. Poi è arrivata la telefonata».

Ecco, la voce della coscienza. Come l' ha presa?

«Mi ha detto: "Non ci credo, dimmi che non è vero, dove vai a ficcarti in questo ginepraio". Poi è partito con la mozione degli affetti, mi ha ricordato la mia storia, le tante battagli comuni, "siamo insieme da 25 anni"».

E lei, nel giro di tre ore, si era già dimenticato di Conte.

A proposito, l' ha più sentito?

«No, ma mi sono già scusato pubblicamente con lui. Però a Berlusconi ho espresso la mia preoccupazione, gli ho detto che non voglio le elezioni anticipate e lui mi ha rassicurato spiegando di aver già dato la disponibilità per un governo di larghe intese».

Poi è arrivata anche la telefonata di Salvini, giusto?

«Sì, mi ha detto "ma dove vai" e poi ha spiegato che è disposto a parlare con chiunque, purché si facciano la riforma del fisco e della giustizia. Quindi anche per lui ci sono alternative al voto. E questo mi basta per restare dove sono».

Allora tifa per un governo di unità nazionale?

«In realtà penso sia meglio che si ricomponga questa maggioranza e vada avanti Conte».

Scusi, ma ci sta ripensando di nuovo?

«No, no, io non appoggerò un eventuale Conte Ter. Mi spiego: al centrodestra non conviene ritrovarsi a gestire una situazione così complicata, è meglio l' opposizione, aspettare il 2022 o il 2023 e vincere le elezioni».

Nella sua giravolta ha pesato l' ipotesi di un posto nell' eventuale partito di Conte?

«No, nessun calcolo di questo tipo, le assicuro. Tra l' altro è la mia quinta legislatura, ci sarà il taglio dei parlamentari, bisogna essere realisti».

"No a Noi Campani?". E Lady Mastella si sfila. Rifiuta pure Ciampolillo. "Li ha schifati pure Ciampolillo". Il nuovo gruppo in Senato è accolto dal sarcasmo. Giuseppe Marino, Giovedì 28/01/2021 su Il Giornale. «Li ha schifati pure Ciampolillo». Il nuovo gruppo in Senato è accolto dal sarcasmo. Ma in effetti, più che quella dell'ex 5 Stelle che abbraccia gli olivi, è l'assenza di Sandra Lonardo a farsi notare. I rumors raccontano di una lite furibonda tra Maria Rosaria Rossi e la signora Mastella, terminata con la decisione di disertare il gruppo. Il senatore italo-argentino Ricardo Merlo conferma a Un giorno da pecora, su Radio1 Rai e specifica che «non c'è stato l'accordo perché lei voleva aggiungere il suo simbolo Noi Campani». Il nocciolo duro della rinascita contiana insomma, non pare volare altissimo. Sandra Lonardo la racconta così: «Ho ricevuto una telefona ieri nel corso della quale mi invitavano a fare parte di questo nuovo gruppo Europeisti-Maie. Io ho risposto che sono sempre pronta a sedermi al tavolo con chi vuole costruire qualcosa per il Paese. Poi arrivo all'incontro e mi dicono che nel simbolo c'è il Centro Democratico. E io: Ma chi l'ha deciso?. Mi rispondono: De Falco e tutti sono d'accordo. Allora io faccio presente che non mi va bene, perché così al nascente gruppo si dà una connotazione partitica». La controproposta di aggiungere «Noi Campani» viene scartata, forse per non intasare la carta intestata con il nome «Europeisti-Maie-Centro democratico-Noi campani». A quel punto scoppia il battibecco con Maria Rosaria Rossi e la senatrice campana si ritira dicendosi «troppo distante da De Falco». Per i maligni, Sandra Lonardo voleva imporre il nome «Noi campani» per approfittare dell'esenzione dalla raccolta firme sulle candidature (che spetta però ai gruppi rappresentati nelle due Camere). Ma forse la spiegazione più seria è che in casa Mastella il fiuto politico non manca. E dalle parti del nuovo gruppo al momento non spira il vento della vittoria.

Fabrizio Roncone per il "Corriere della Sera" il 28 gennaio 2021. Il gruppetto dei «responsabili» ha cercato di rifilare un pacco niente di meno che ai Mastellas (intesi come il leggendario Clemente, sindaco di Benevento, e sua moglie Sandra Lonardo, senatrice della Repubblica e regina del Sannio). Storia tragicomica. Ma emblematica. Per raccontarla: subito una telefonata a Mariarosaria Rossi, già nota come «badante» del Cavaliere, da anni con FI a Palazzo Madama, poi misteriosamente passata a votare per Conte nell' ultima tribolata fiducia al governo, quindi espulsa dal partito e - gira voce - poche ore fa protagonista di una lite furibonda proprio con Donna Sandra. Il telefono della Rossi, però, squilla a vuoto. Riprovare tra un po' (nell' attesa: rinfrescare la memoria e ricordare l' intercettazione della Procura di Milano, con il colloquio tra lei, la Rossi, ed Emilio Fede, che le annunciava l' arrivo a Villa San Martino in compagnia di due amiche. «Ah che palle che sei, Emilio! Due amiche, quindi bunga bunga, due de' mattina, io ve saluto eh». Ora però la Rossi si è aperta una pizzeria nel Casertano e ha tradito la fiducia dello Zio Silvio, rinunciato alla sua riconoscenza, arruolandosi nei «responsabili» di Conte. Tutto a dir poco curioso). Cellulare staccato, poi occupato. Infine libero. La Rossi fa rispondere il fidanzato. «No, Rosaria non c' è», dice il tizio con una voce del genere: che noia voi giornalisti (ma figliolo caro: se non volevi questo tipo di seccature, potevi metterti con una maestra di yoga, no?). Comunque: la Rossi non è il genere di donna che s' impressiona facilmente; se si nega, un motivo c' è. E Donna Sandra è di solito squisita, capacissima di prepararti una pastiera anche se è Ferragosto, solo per vederti sorridere. Cosa può averle fatto saltare la nervatura? Donna Sandra, al cellulare, risponde subito.

«Vuole la verità?».

Tutta.

«Allora: lunedì sera ricevo una telefonata dalla Polverini. Mi dice: "Sandra bella, ci riuniamo tutti domani, nell' ufficio di Merlo, alla Farnesina».

Aspetti: tutti intendendo i «responsabili»?

«Esatto».

E perché nell' ufficio del senatore Merlo?

«Perché saremmo davvero dovuti finire tutti nel suo gruppo, il Maie, quello degli italiani all' estero».

Prosegua.

«Arrivo e trovo un' umanità piuttosto variegata. Tipo l' ex forzista Causin, ma anche la Rossi e l' ex grillino De Falco Vabbé: io mi siedo e ascolto. Ad un certo punto, però, comincio a sentire che il gruppo si sarebbe chiamato "Maie-Europeisti-Centro democratico"».

Il Centro democratico di Bruno Tabacci?

«Esatto! Allora mi alzo e dico: no, scusate, ma qui non ci stiamo organizzando per aiutare responsabilmente Conte ad andare avanti, in un momento delicato per il Paese.

Qui stiamo fondando un partito!».

E loro?

«Accampano scuse. Io allora propongo: se volete che resti, dovete inserire anche "Noi Campani", il nome del partito mio e di Clemente, con cui alle ultime regionali in Campania abbiamo preso la bellezza di 103 mila preferenze e ben 2 consiglieri regionali, gli stessi di FI. Perché no, dico: volete farvi un partito con i nostri voti?».

E loro?

«Mi dicono brutali che il logo "Noi Campani" non possono inserirlo. Ho capito, rispondo io. Poi prendo la borsa e me ne vado. Però, nel tardo pomeriggio, quelli che fanno?».

Non lo so: che fanno?

«Mi richiamano, mi dicono che hanno tolto Centro democratico, è tutto a posto, e mi aspettano per firmare negli uffici del Gruppo Misto a Palazzo Madama. Solo che lì».

Il racconto della Lonardo, a questo punto, diventa la sceneggiatura di una commedia.

Perché lei entra, trova la solita compagnia di «responsabili», e subito la Rossi che le va incontro con una cartellina: «Ecco, Lonardo: firma qui». A una Mastellas. Firma qui. Senza leggere. Cose di pazzi. Infatti la senatrice Lonardo dice no, scusa, abbi pazienza, vorrei prima vedere bene. Ma la Rossi: «Uffa! Dai, abbiamo fatto come volevi tu! Dai, forza, firma!"» (tono di voce alto). La Lonardo allora prende la cartellina, la sfoglia, e legge: «Centro democratico». «Ma tu hai capito? Volevano farci il pacco!» - questa è la voce di Clemente, seduto accanto alla moglie sul sedile posteriore dell' auto che li sta riportando a Benevento. Per molti di noi cronisti parlare con Mastella è sempre un po' una festa. Conosce ogni perfidia della politica, sa parlarne, raccontarla senza reticenze, e lui per primo sguazza negli aneddoti e nei retroscena più torbidi, che racconta con gusto e antica eleganza meridionale (non sembra, ma pure Clemente è arrivato a 73 anni). Però di finire in una storia così non l' avrebbe immaginato mai, lui che era salito a Roma proprio per reclutare un po' di senatori e deputati e farli diventare «responsabili»: e infatti - ancora una decina di giorni fa - si aggirava nel Salone Garibaldi, due passi dietro e uno avanti, era uno spettacolo vedergli organizzare sfacciatamente l' ultimo inciucio. Ora sentenzia: «L'operazione "responsabili" è fallita. Non hanno i numeri». E Conte? «Deve mettersi d' accordo con Renzi». E tua moglie, adesso? Ma su questa domanda, all' improvviso, la linea cade.

Elogio di Scilipoti. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 15/1/2021. Da Colombo a Galileo, da Scilipoti a Razzi, il destino è ingiusto con i precursori. Vedono qualcosa prima degli altri e lo gridano al mondo, raccogliendo in cambio perfidie e umiliazioni. Per fortuna il tempo si incarica di dare loro ragione prima o poi, talvolta più prima che poi. Prendete i due più celebri tra i succitati, Razzi e Scilipoti: meriterebbero almeno una statua risarcitoria. Quando si precipitarono in soccorso di Berlusconi, depositando ai suoi piedi i consensi che avevano ottenuto per fargli la guerra, la sinistra li trattò come dei giuda solo un po’ più cari dell’originale. Non si contarono le boccucce storte e gli occhi rovesciati che il loro comportamento produsse nelle personalità di provata fede democratica. Le stesse che adesso, trovandosi nella carestia di voti in cui versava il Berlusconi di allora, implorano una ciambellina di salvataggio, anche mezza sgonfia. Che cosa sarà mai cambiato, al punto da rendere nobile una pratica che finora i progressisti e i grillini ritenevano immonda? Di sicuro non le motivazioni di alta politica, mirabilmente riassunte proprio da Razzi con l’autorevolezza dell’ex: «Dodicimila euro al mese, fuori da lì chi te li dà?». Il nome, dev’essere il nome. Responsabili, così si chiamavano quelli vecchi, sapeva di presa in giro. Per i nuovi Di Maio ha proposto Costruttori Europei, e fa già tutto un altro effetto. Il loro slogan potrebbe essere lo stesso reso immortale dal Razzi di Crozza: «L’Europa è bella, ma non ci vivrei». Una tazzina di parole ogni giorno sul Corriere della Sera. "Il caffè è un rito quotidiano, una pausa, un piacere e anche un luogo di incontro in cui si discute, si scherza, ci si sfoga e ci si consola".

Dovranno elogiare Scilipoti. L'imbarazzo ipocrita dei democratici. Quanto succede oggi con Conte non scandalizza la sinistra. Il solito doppiopesismo. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 15/01/2021 su Il Giornale. Vorrei dedicare questa puntata di “radical chic” a Alessandro De Angelis, vicedirettore dell’Huffington Post. Non sono un suo grande fan, e lui giustamente se ne sbatterà altamente, ma stavolta sulla crisi di governo ha colpito nel segno. E vorrei dargliene atto. Nell'attuale mercato delle vacche, solo il buon De Angelis (e Gramellini dopo di lui) ha avuto il coraggio di affermare in diretta quel che molti fingono di non vedere. Ovvero che se tutto questo ambaradan l’avesse tirato su uno a caso tra Berlusconi, Salvini e Meloni oggi avremmo i giornali starnazzanti come galline scandalizzate: “Che cosa avremmo detto, noi che abbiamo sensibilità democratica, se questo spettacolo lo avesse offerto la destra? Saremmo stati dei cantori e dei soloni dell’indignazione civile”. Giustissimo. Talmente giusto che in studio sono calati un paio di secondi di imbarazzato silenzio. La vergogna della verità. Cito questo episodio perché quanto accade in queste ore dimostra il classico doppiopesismo italiano. Ricordate l'indignazione del 2010 sulla “scandalosa compravendita di senatori” per tenere in vita il governo Berlusconi? Ricordate il livore con cui vennero dipinti i vari Scilipoti, Razzi e De Gregorio? Bene. Quello che sta facendo oggi Conte in Senato non è niente più e niente meno rispetto a quell’antica “compravendita”. Offrire due anni di legislatura a parlamentari a rischio rielezione, che a conti fatti significano circa 300mila euro di stipendio, e magari un posticino nel prossimo partito di Conte, non è un mercimonio poco onorevole? Un tempo disprezzavano i "responsabili" e oggi si mascherano dietro il termine “costruttori europei”. In passato il termine “indicava una negatività” (Franceschini dixit), ma ora “non è più così”. Ormai si può elemosinare il voto dei voltagabbana "senza vergognarsene". Un inno al doppiopesismo. Sul M5S stendo un velo pietoso, così come sui suoi cantori in stile Travaglio. Oggi sul Giornale il direttore Sallusti ricorda come il "primo sponsor di Conte" in passato etichettasse "questi mercenari con i peggiori aggettivi del vocabolario", mentre oggi si schiera in difesa della loro "nobiltà di intenti". Più chiaro di così, si muore. Mi preme solo ricordare un articolo, firmato Luigi Di Maio, apparso nel dicembre 2019 sul Blog delle Stelle. Era rivolto ai parlamentari grillini attirati dalle sirene leghiste. Luigino se la prendeva con “il collaudato sistema della vecchia politica”. Azzannava “l’elenco di politici che si sono venduti al diavolo per pochi spiccioli o per una poltrona più comoda e più sicura”. Sbraitava contro “il mercato delle vacche”. Chiedeva di mostrare “il listino dei prezzi” per sapere “quanto costa un parlamentare al chilo”. Qualcuno l’ha rimproverato per un cambio di sponda così radicale? No. Perché oggi l’ex bibitaro serve ad arginare il ritorno del centrodestra al potere. Tutto è perdonato. In fondo ci siamo abituati, no? Da settimane media e governo ammorbano gli italiani sull’importanza del distanziamento sociale, puntano il dito su “movida”, aperitivi, runner, ciclisti e via dicendo. E poi Conte che fa? S’accalca coi cronisti per rilasciare due dichiarazioni. Le immagini mostrano un'orgia di microfoni sputacchiati, mani zozze e distanziamento che va a farsi benedire. Qualcuno della “stampa democratica” ha biasimato premier e colleghi? Macché. Solita storia.

Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 16 gennaio 2021. Domenico Scilipoti, 63 anni, già senatore di Italia dei Valori, a sorpresa nel 2010 fu determinante nel non far cadere il governo di Silvio Berlusconi, creando il suo Movimento di responsabilità nazionale. Attirandosi ire e ironie di mezza Italia, simpatia diffusa nell'altra.

Senta, ma lei sta seguendo la crisi politica? Cosa ne pensa: Giuseppe Conte alla fine ce la fa?

«Certo che seguo. Sa, come avviene in tutte le democrazie parlamentari, è normale che ci siano processi di questo tipo. Mi stupisco di chi si stupisce. Ma scusi, poi, il governo Renzi non si sosteneva con Alfano e Verdini? Mica si possono fare le vergini adesso, dai».

Lei è ancora un responsabile dentro, dica la verità.

«Dare stabilità in un momento come questo è fondamentale, viviamo un momento delicatissimo della nostra storia. Anche papa Francesco ha detto che bisogna mettere davanti il noi all' io».

I responsabili diventano tali per nobiltà d'animo?

«Qualcuno senza arte né parte c'è sempre ed è opportuno per lui che resti lì dentro a fare il parlamentare (ride, ndr). Io comunque avevo arte e parte perché ero un medico, lo sono ancora, impegnato contro il Covid come i miei colleghi».

Oggi essere responsabile in questa crisi sembra quasi un merito, ai suoi tempi gliene dissero di tutti i colori...

«Ma sì, di tutto e di più, però è il rischio che corre ogni parlamentare, infatti non me la sono mai presa. Possiamo eliminare la responsabilità individuale del parlamentare? Se un leader di partito decide cose senza senso, è giusto che gli eletti facciano altre scelte».

Lei però la fece bella grossa, da Italia dei Valori a Berlusconi.

«Va fatta una precisazione, non è stato proprio così: non votai la mozione di sfiducia a Berlusconi, presentata da transfughi del centrodestra, e fondai un movimento. Che poi anni dopo ha inserito alcuni suoi componenti nelle liste del Pdl. Sono stato segretario del partito Movimento di responsabilità nazionale, c'è stato anche un congresso nazionale! Ho fatto più o meno come i responsabili di oggi alla fine».

La responsabilità "conviene"?

«Comportarsi bene a lungo andare paga meglio, perché altrimenti prima o poi i nodi vengono al pettine. Considero in partenza tutti in buona fede».

Lei è comunque primo dei non eletti in Forza Italia, quindi potrebbe tornare parlamentare in questa legislatura. In tal caso, sarebbe ancora un responsabile?

«La prima cosa che farei è tentare di parlare all'interno del mio partito, spiegando le mie motivazioni. In Fi ci sono persone sensibili al bene del Paese e troverei sicuramente convergenze. Mi permetto di suggerire a Conte di allargare il più possibile, anche sui temi programmatici, quelli contano molto. Io ad esempio mi impegnai contro l' usura bancaria e il pignoramento della prima casa».

A quelli che oggi sono indecisi se sostenere Conte o meno cosa consiglia?

«Di fare una semplice domanda alla propria coscienza: qual è scelta più utile al Paese?».

Razzi prepara i pop corn: “Mi chiamavano voltagabbana, andrò in Senato a ridergli in faccia”. Vito Califano su Il Riformista il 18 Gennaio 2021. Quanto tempo avrà atteso questo momento. Antonio Razzi, ex deputato, ex senatore, farà di tutto per essere in Senato domani, al voto della fiducia al governo Conte. “Non mi posso perdere lo spettacolo”, ha detto al Corriere della Sera. La maggioranza è sul filo, le manovre non danno certezze, la soglia non è certa, anche in caso dell’astensione di Italia Viva, che la settimana scorsa ha ritirato le ministre Elena Bonetti e Teresa Bellanova e il sottosegretario Ivan Scalfarotto aprendo ufficialmente la crisi politica. Le trattative sono ancora in corso e quelli che una volta venivano chiamati voltagabbana oggi sono costruttori. Razzi era considerato il Re dei voltagabbana. “Voglio ridere in faccia a tutti quelli che 10 anni fa, tra Pd e M5s, mi chiamarono voltagabbana perché lasciai l’Italia dei Valori di Di Pietro e votai la fiducia a Berlusconi. E adesso loro che fanno? Cercano i costruttori, ma di che? Autostrade, palazzi?”, ha ironizzato Razzi. Alla mozione di sfiducia del Governo Berlusconi IV Razzi votò contrario. Lasciò l’Italia dei Valori e passò a Noi Sud e sostenne il Cavaliere. Per anni è stato agitato come il simbolo del cosiddetto “mercato delle vacche” in Parlamento dagli stessi grillini che invece oggi hanno dimenticato la loro battaglia a favore del vincolo di mandato. Razzi – quello di Ballando con le Stelle, quello pronto a fare “qualsiasi cosa, anche buttarsi sotto a un treno” se Berlusconi glielo avesse chiesto, quello dell’amicizia con il dittatore della Corea del Nord Kim Jong Un (“a causa del coronavirus ad aprile non potrò tornare in Corea del Nord. Frontiere chiuse. Che paese, l’Italia! Quante ironie sul mio amico Kim Jong Un”), quello dell’imitazione di Maurizio Crozza – fu ripreso di nascosto mentre ammetteva di aver votato la fiducia per tornaconto personale. Successivamente ha dichiarato di non aver ricevuto nulla in cambio, ma di aver salvato l’esecutivo Berlusconi per non perdere il posto di lavoro e la paga necessaria a pagare un mutuo. Alle elezioni del 2013 è stato eletto Senatore. Oggi, lui e Domenico Scilipoti, sarebbero stati chiamati “costruttori”. “Mi ha chiamato – ha detto Razzi nell’intervista – mi ha detto: Anto’, perché non lo fondiamo noi il partito dei veri responsabili per l’Italia? gli ho risposto: caro Mimmo per fare il formaggio devi quagliare, per fare un partito ci vogliono i soldi e io oggi non arrivo a 2mila euro di pensione. Ma tanto poi Conte i voti in tasca li ha già, altrimenti non rischierebbe la figuraccia in Senato: sa quanta gente, con 13-14mila euro al mese di paga parlamentare, si è comprata la casa e adesso ha il mutuo da pagare? Dieci anni dopo non è cambiato niente”.

Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 18 gennaio 2021. «Farò di tutto per essere in Senato (domani, ndr ), non mi posso perdere lo spettacolo».

Questa è una notizia, Antonio Razzi.

«Devo ancora spostare la terapia per la caviglia destra, sa? Retaggio della mia partecipazione a Ballando con le stelle nel 2019, ma in Senato alla conta per Conte voglio esserci a tutti i costi».

Perché?

«Voglio ridere in faccia a tutti quelli che 10 anni fa, tra Pd e M5S, mi chiamarono voltagabbana perché lasciai l' Idv di Di Pietro e votai la fiducia a Berlusconi. E adesso loro che fanno? Cercano i costruttori, ma di che? Autostrade, palazzi? Mezz' ora fa mi ha chiamato Scilipoti...».

Altro storico «responsabile» di quel 14 dicembre 2010.

«Sì, mi ha detto: Anto', perché non lo fondiamo noi il partito dei veri responsabili per l' Italia? Gli ho risposto: caro Mimmo per fare il formaggio devi quagliare, per fare un partito ci vogliono i soldi e io oggi non arrivo a 2 mila euro di pensione. Ma tanto poi Conte i voti in tasca li ha già, altrimenti non rischierebbe la figuraccia in Senato: sa quanta gente, con 13-14 mila euro al mese di paga parlamentare, si è comprata la casa e adesso ha il mutuo da pagare? Dieci anni dopo non è cambiato niente».

Non si andrà a votare?

«Ma no, il Covid è solo una scusa. Io, invece, a causa del virus ad aprile non potrò tornare in Corea del Nord. Frontiere chiuse. Che Paese, l' Italia! Quante ironie sul mio amico Kim Jong Un, applaudito dall' assemblea dei delegati. Ma perché? Angelino Alfano segretario del Pdl non fu eletto per acclamazione?».

Ultima cosa: Renzi?

«Si astiene, no? Perché lui vuole ancora la delega per i Servizi segreti e qualche poltrona per i suoi. Astenendosi il quorum si abbassa e a Conte serviranno meno voti. Certo, poi potrebbe intervenire Mattarella e dirgli che così non ha una maggioranza, come fece Napolitano con Berlusconi, facendolo dimettere. Ma Mattarella non lo farà. Come direbbe Crozza quando fa la mia parodia: no, io non credo».

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 16 gennaio 2021. Quando le cose reali ci sembrano troppo brutte per essere digerite, cambiamo il loro nome e ci mettiamo la coscienza in pace. È un' abitudine questa che abbiamo acquisito abbastanza di recente per effetto del cosiddetto "politicamente corretto", al quale ci siamo o ci stiamo assoggettando. Da alcuni giorni siamo alle prese con una quasi crisi di governo, provocata da Matteo Renzi, ora odiato sebbene, negli anni scorsi, fosse l' idolo della sinistra e il capo dei democratici (quelli di Nicola Zingaretti). Naturalmente Giuseppe Conte, ricevuto il siluro del denominato "rottamatore", si è difeso organizzando con i suoi amici della maggioranza una raccolta di consensi in Parlamento che pareggiassero i fuggiaschi di Italia Viva. Trattasi di pratica antica. Se un premier non ha più i numeri per stare a galla nelle aule, cerca appoggi nella opposizione o zone limitrofe. Cosicché adesso il presidente traballante del Consiglio spera di raccattare suffragi qua e là, perfino tra ex avversari, al fine di non affogare. I candidati a soccorrerlo sono già copiosi, ho la convinzione che egli ne raggranellerà a sufficienza per seguitare a infastidire gli italiani. Non perché i transfughi credano in lui quale salvatore della patria, bensì perché confidano nel foggiano quale salvatore della loro poltrona, o del loro culo. Il terrore che serpeggia nelle Camere infatti è quello che si sciolgano le assemblee e si debba procedere a nuove elezioni politiche. Il che implicherebbe per deputati e senatori volgere a casa con poche possibilità di essere poi confermati sul seggio, poiché la quota degli eletti è diminuita parecchio, essendo stata ridotta da una legge approvata da parlamentari votati al suicidio. Il problema attuale è tutto qui. I politici sono affezionati al seggio, che garantisce la paga, e non certo ai partiti di appartenenza. Ricordate Domenico Scilipoti e Antonio Razzi i quali, in un tempo non remoto, passarono dal gruppo di Di Pietro a Forza Italia con l' intento di mantenere in vita l' esecutivo di Silvio Berlusconi? Immediatamente furono derisi, accusati di essere dei voltagabbana, disprezzati per mesi, presi in giro da ogni giornale e televisione. Oggi Tabacci e quattro suoi scagnozzi sono disposti a salvare le chiappe a Conte e li chiamano "responsabili", addirittura "costruttori", cioè eroi. Ma quali eroi dei nostri stivali? Essi si sono avvitati alla cadrega e, pur di non svitarsi, sono pronti a tutto, persino a vendersi in modo vergognoso, da buoni opportunisti quali sono. In effetti è più vantaggioso calpestare la propria dignità che smarrire il diritto a riscuotere l' indennità che ammonta a quasi 15 mila euro. Meglio di qualsiasi stipendio per quanto lauto. Ogni altro discorso, dal più rustico al più sofisticato, non spiega le ragioni degli uomini e delle donne che si accingono a saltare il fosso. Ciò specificato, possiamo concludere che il governo non rischia di schiantarsi, i voltagabbana benché abbiano mutato identità si offrono volontari allo scopo di salvaguardare lo status quo, sempre più conveniente della disoccupazione. E Giuseppe, o una sua controfigura, andrà avanti a menare il torrone nonché a fare danni all' Italia. D'altronde è noto, in politica vincono sempre i peggiori. Amen.

La truppa dei volenterosi. Chi sono i responsabili, i senatori che potrebbero salvare Conte dalla crisi di governo. Redazione su Il Riformista il 14 Gennaio 2021. I responsabili sono i nuovi congiunti. Chi sono, dove sono, dove si incontrano e come si chiamano? Più seriamente: chi sono questi responsabili e qual è il loro ruolo nella crisi del Conte 2? La nuova crisi di governo, aperta ieri da Italia Viva – si sono dimesse le ministre Teresa Bellanova ed Elena Bonetti e il sottosegretario Ivan Scalfarotto – in una conferenza stampa dal leader ed ex premier Matteo Renzi, porta in dote una nuova figura politica, una nuova definizione, non imparziale. I responsabili sarebbero i volenterosi a sostenere un nuovo governo guidato da Giuseppe Conte. Responsabili di mantenere in piedi un governo guidato dal premier Conte in un momento delicato e colpito dalla pandemia da coronavirus. Sarebbe il terzo governo Conte: dopo il Conte 1, sostenuto da Movimento 5 Stelle e Lega, e il Conte bis, sostenuto da Movimento 5 Stelle, Partito Democratico, Liberi e Uguali e Italia Viva, fino a ieri. I senatori di Iv sono 18. Per sopperire alla fuoriuscita di questi dalla maggioranza sarebbero state aperte nei giorni scorsi delle trattative per raggiungere la soglia dei 161 voti per la maggioranza al Senato della Repubblica. Alla Camera non c’è partita: il folto gruppo di deputati di Partito Democratico e Movimento 5 Stelle garantisce la maggioranza. Questa invece balla a Palazzo Madama. Su 321 senatori la ripartizione è così composta: 92 del M5s, 35 del Pd, 27 il Gruppo Misto, 7 le Autonomie, 63 la Lega, 54 Forza Italia, 19 Fratelli d’Italia, 18 Italia Viva per l’appunto, oltre ai 6 Senatori a vita. La maggioranza del Conte bis è stata spesso ballerina: il premier ha potuto anche contare su alcuni componenti del Gruppo Misto. L’ultima fiducia sulla legge di Bilancio ha infatti visto il voto a favore di 12 senatori del Gruppo, otto contrari, uno si è astenuto, 5 erano in missione e 5 erano assenti. La maggioranza in quel caso si fermò a 153. Che la truppa dei responsabili sia già presente e nutrita, l’ha confermato il sindaco di Benevento Clemente Mastella al Corriere della Sera. “I vietcong ci sono, state tranquilli”, ha detto Mastella aggiungendo: “Ricevo tante chiamate da chi soprattutto mi chiede: ‘Partite con l’iniziativa perché non ne possiamo più’. Io posso dare il mio contributo, posso fare il regista. Di certo non mi candiderò più. Il mio è un atto di amore nei confronti del Paese”. A far emergere il ruolo di Mastella – la moglie Sandra Lonardo è senatrice – era stato lo stesso Renzi in un intervento, durante il Cdm di martedì sera, a Carta Bianca. “Conte nelle ultime settimane non ha risposto alle mie lettere perché era impegnato a cercare altri senatori – ha detto Renzi – Io penso che domani (oggi, ndr) Conte annunci di avere altri parlamentari a sostenerlo e quindi nasce il Governo Conte–Mastella”. Durante la conferenza stampa di ieri Renzi, sui 18 senatori di Iv, ha spiegato: “E’ evidente che non abbiamo il controllo: al Senato abbiamo 18 persone incredibilmente libere. Per quello che noi sappiamo o c’è un progetto per un programma di fine legislatura, noi ci siamo. Se il tema è se si formano i gruppi di responsabili, fai pure presidente. A me non risulta ci siano alcuni dei nostri ma non grido allo scandalo, penso sia un’occasione persa”. Il Foglio scrive che i responsabili esistono, e proprio all’interno di Iv. Dal PD invece filtra la convinzione che i responsabili non ci sono e neanche l’attuale maggioranza, quindi “è reale” il rischio di elezioni a giugno, scrive intanto il giornalista di SkyTg24 Marco di Fonzo.

Mattia Feltri per “la Stampa” il 16 gennaio 2021. Non so se sarà Clemente Mastella a salvare il governo Conte ma, nel caso, mi sarà un po' più simpatico. Non Mastella, che mi è simpatico da sempre, ma il governo Conte. Mastella mi diventò particolarmente simpatico quando, da ministro della Giustizia, promosse un indulto con una maggioranza trasversale, spiegando che il compromesso è l'architrave della politica, e il compromesso più nobile fu la Costituzione. L'ho visto messianico nella sua Ceppaloni, con la fila di questuanti con preghiera d'intercessione in questa o quella pratica, e lui prometteva e manteneva, e se la fila era troppo lunga dava a tutti appuntamento su in villa - con piscina a forma di conchiglia - e i questuanti arrivavano l'indomani e lui distribuiva le prebende. Mi è simpatico perché a non so quale anniversario della sua discesa in politica raccontò in comizio di essere entrato in Rai su raccomandazione di Ciriaco De Mita quindi forza, chiedete e vi sarà dato. Mi è simpatico perché, quando si sposò il figlio, organizzò una festa con seicento invitati, il carrello delle granite, la piramide di pesche e Katia Ricciarelli al microfono. Perché ai suoi raduni di partito arrivavano Roberto Benigni e Claudio Baglioni. Perché patrocinava la sagra del fusillo al pecorino e la fiera degli sbandieratori, e poi andava in yacht con Diego Della Valle. E quando la sua collisione con Di Pietro fu fatale al governo Prodi, io stavo con Mastella perché non è moralista, mentre i moralisti sperano di camuffare le loro bassezze con alte parole. E infatti sarà con Mastella che, dentro questo governo, il termine onestà comincerà persino ad avere un senso.

Una tradizione che si ripete dal 1994. Dal 1994 a oggi, tutti i trasformisti italiani: da Mastella a… Mastella. David Romoli su Il Riformista il 21 Gennaio 2021. La caccia non è finita col voto di fiducia ottenuto da Conte senza raggiungere al Senato la maggioranza assoluta. È, al contrario, appena cominciata. Qualcosa i fedelissimi del premier, attivi come mai prima nelle scorse settimane, hanno raggranellato, ma poca roba. Comunque li si chiami, “responsabili”, “costruttori”, “volenterosi”, devono crescere di numero, almeno a palazzo Madama. Dunque sotto con la caccia al transfuga che del resto è ormai una tradizione: si ripete più o meno senza sosta dal 1994 e vanta precedenti illustri. Si avvalsero a man bassa del Trasformismo, cioè dell’acquisto di voti mediante trattative dirette con i singoli parlamentari, sia Agostino Depretis, presidente del Consiglio dal 1876 al 1887, sia il successore Francesco Crispi. All’epoca, però, i parlamentari non rispondevano a nessun partito: solo alla loro clientela. La pratica era perciò almeno formalmente del tutto legittima e legittimata. Le conseguenze in termine di corruzione clientelismo non furono però meno devastanti. I famosi àscari di Giovanni Giolitti non erano in realtà assimilabili agli attuali frontalieri. Si trattava di parlamentari meridionali fatti eleggere da Giolitti e che a Giolitti giuravano fedeltà. Il loro compito era votare a comando senza impicciarsi di cosa fosse scritto nelle leggi che sostenevano: per lo più provvedimenti che punivano il loro Meridione a vantaggio del Nord. In fondo i veri àscari erano eritrei che combattevano dalla parte degli italiani. Nella prima Repubblica, segnata dalla presenza fortissima dei partiti, il trasformismo fu fenomeno praticamente inesistente. Spuntò fuori di nuovo con gli esordi della seconda, dopo le elezioni del marzo 1994 vinte dal Polo di Silvio Berlusconi. Vinte sì, ma senza maggioranza al Senato. Per farcela il cavalier trionfante aveva bisogno di qualche cambio di casacca. Toccò a quattro senatori del Partito popolare, guidati da un navigato ex Dc, Luigi Grillo. Uscirono dall’aula e permisero a Berlusconi di conquistare, con 159 voti, la maggioranza relativa pur se non quella assoluta. Il suo nacque come governo di minoranza, proprio come capita oggi a Peppi Conte. Situazione scomoda ma transitoria. L’astensione era solo segno di buona volontà in una trattativa avviata ma non conclusa. Approdò felicemente a piena intesa poco dopo, garantendo a Berlusconi la maggioranza piena e a Grillo il sottosegretariato alla presidenza del Consiglio. Lo scontro in aula “alla luce del sole” voluto da Conte ricorda per alcuni versi quello scelto da Prodi nel 1998, quando Rifondazione gli tolse la fiducia. Paragone superficiale. Il Professore non cercò e non chiese alcun sostegno a parlamentari dell’altra sponda. Puntò sulla spaccatura di Rifondazione, cioè sulla difesa della stessa maggioranza e perse per un voto. I voti di frontiera arrivarono in compenso pochi giorni dopo per far nascere il governo D’Alema. Li portava in dote Clemente Mastella, eletto con la destra e provenivano dalla scissione del Ccd che lo stesso Clemente aveva fondato con Casini. Padre nobile dell’operazione era Francesco Cossiga ex presidente della Repubblica. I transfughi furono perciò bollati come “gli straccioni di Cossiga”. L’ex capo dello Stato, uomo colto, replicò che casomai erano gli straccioni di Valmy, dalla battaglia vinta dall’armata francese repubblicana, “gli straccioni”, contro forze soverchianti austro-prussiane nel 1994. Le suggestioni dell’Udr di Cossiga erano elevate, epocali: voleva coronare l’abbattimento del Muro con un grande alleanza tra l’ex Pci e i neodemocristiani. Mastella era più terragno: mirava ai posti. Il Picconatore se ne accorse e mollò la nave dopo un anno. Mastella non fece una piega. Si tenne le truppe, confermò l’appoggio al secondo governo (di minoranza) D’Alema. Si limitò ad aggiungere una e alla sigla. Da Udr a Udeur. Quando nel 2006 Prodi vinse di strettissima misura le elezioni Berlusconi partì con la campagna acquisti, senza perdere tempo con fantasticherie politiche. Sborsò un paio di milioncini e portò a casa il voto di Sergio De Gregorio, che in più si prese anche la presidenza della commissione Difesa, strappandola alla candidata di maggioranza Lidia Menapace. A far cadere quel governo, dopo appena 20 mesi, fu però un habituè del cambio di bandiera: l’immancabile Clemente, che nella compagine di Prodi figurava anche come ministro della Giustizia e se ne tornò a destra con un la sedia all’europarlamento garantita. Un altro paio di acquisti, quello dei responsabili per antonomasia Razzi e Scilipoti, origini dipietriste, salvarono Berlusconi nel 2010: gli permisero di reggere l’offensiva di Fini al Senato e di andare avanti con un governo peraltro di minoranza. Più folto il salto del fossato che consentì a Enrico Letta, che guidava un governo sostenuto anche da Berlusconi, di sostenere la sfiducia decisa dallo stesso Berlusconi. Il delfino del cavaliere, Angelino Alfano, capitanò una scissione tanto corposa in Parlamento quanto invisibile nel Paese. Fondò il Nuovo centrodestra. Diventò ministro degli Interni, posticino eminente confermato quando Renzi subentrò a Letta. Passò agli Esteri con il governo Gentiloni. Sparì alla prima occasione utile: le elezioni del 2018.

Clemente Mastella: “Il comportamento di Renzi, Salvini e Meloni è vomitevole”. Notizie.it il 21/01/2021. In un’intervista a Notizie.it, l’ex ministro Clemente Mastella commenta l’attuale scenario politico e le ultime vicende in aula. di Stefania RepolaClemente Mastella: “Il comportamento di Renzi, Salvini e Meloni è vomitevole”. In un'intervista a Notizie.it, l'ex ministro Clemente Mastella commenta l'attuale scenario politico e le ultime vicende in aula. Clemente Mastella, ex Ministro della Giustizia, oggi sindaco di Benevento, in un’intervista a Notizie.it ha così commentato lo scenario politico che si è delineato dopo la fiducia.

Clemente Mastella, il Governo riuscirà ad andare avanti con questi numeri?

«Certamente sì. Questo Governo è l’unica strada percorribile. Sicuramente si verificheranno dei momenti di tensione parlamentari ma non esiste al momento un’alternativa dell’opposizione, né i renziani potranno esserlo anche perché laddove lo facessero la metà di loro lascerebbe Renzi».

Pensa che la relazione sullo stato di giustizia del Ministro Bonafede alle Camere creerà problemi al Governo?

«Io credo che il Ministro Bonafede sarà uno dei problemi del Governo Conte. Mentre è giusto attingere consensi tra parlamentari, come dice Di Battista, che non abbiano rilievi penali da capogiro, mi preme dire che l’approvazione della sua relazione susciterà perplessità. Il processo senza fine da lui ideato, con l’eliminazione della prescrizione e lo stallo sulle riforme del processo civile e penale non inducono all’ottimismo. Io credo che il Governo dovrebbe rivedere questa norma, che tutti i settori del mondo giudiziario hanno ritenuto esageratamente giustizialista».

“Meglio Noi”: quali sono gli obiettivi di questo movimento politico che ha annunciato?

«Io credo che si sia creato uno spazio rispetto ai contraenti dell’alleanza che vi è stata fin d’ora, io recupererei anche Renzi a condizione che non ci siano altri scatti di umore, mettendo sulla carta le condizioni per un’agibilità fino a fine legislatura. Chi ha salvato il Governo sono stati i responsabili altrimenti non ci sarebbero stati i numeri per andare avanti».

Torniamo a quello che è successo in aula in questi giorni, difficilmente le saranno sfuggite le urla di alcuni parlamentari che invocavano il suo nome a mo’ di sfottò al Governo in carica.

«Ho letto tanta ipocrisia; Meloni che utilizza il confortevole aereo Scilipoti per conservare il suo posto da Ministro, Renzi che rompe col Pd e fa il partito suo, Salvini che rompe col centro destra e fa l’accordo con i Cinque Stelle. Credo sia vomitevole il loro comportamento sul piano morale, eppure si guarda sempre la pagliuzza che è nell’occhio dell’altro e non la trave che è nel proprio».

Qual è stata la prima telefonata di solidarietà che ha ricevuto?

«Goffredo Bettini è stato il primo e mi ha fatto molto piacere, ma ne ho avute molte altre, tanta gente comune».

Quella che le ha fatto in assoluto più piacere?

«Quelle dei miei figli e nipoti».

A breve si voterà per eleggere il sindaco a Benevento. Se non dovesse essere rieletto come proseguirà (se proseguirà) la sua esperienza politica?

«Se la gente mi vorrà di nuovo, proseguirò a fare il Sindaco di Benevento, questa sarà la mia ultima presenza politica. Viceversa, se dovessi non essere eletto, non avrò alcun problema, farò il nonno. Potrei anche chiedere qualcosa ora, non le pare? Invece non farò nulla, non voglio nulla».

Mezz'ora in Più, Clemente Mastella: "Un burinotto", Carlo Calenda telefona in diretta. Libero Quotidiano il 17 gennaio 2021. Clemente Mastella attacca ancora Carlo Calenda a Mezz'ora in più, il talk show della domenica pomeriggio di Rai Tre. E stavolta l'ex ministro ha risposto a Mastella telefonando in diretta alla conduttrice del programma, Lucia Annunziata. "Spero per i romani che Calenda non diventi sindaco di Roma. Calenda è un burinotto, pariolino e figlio di papà. Non sono io che offendo lui ma è lui che ha offeso me", ha specificato il sindaco di Benevento, tornando sulla telefonata fatta al leader di Azione. Calenda aveva infatti reso noto di aver ricevuto una telefonata proprio da Mastella con un sondaggio per capire la posizione del candidato sindaco di Roma nei confronti del governo Conte. "Per il dato morale che ha messo in piedi, non ho nessuna voglia di parlare con Calenda", ha però replicato Mastella chiudendo il proprio intervento in trasmissione mentre Calenda cercava di intervenire in diretta via telefono. Prima Mastella aveva anche affermato: "Lo faccio per il bene del mio Paese. Non ho mai incontrato Conte o Bettini. Nessuno mi ha chiesto di fare telefonate". Ha poi specificato di nuovo il contenuto della telefonata: "Ho solo chiesto a Calenda se avrebbe votato per Renzi e lui mi ha detto che è contro Renzi e contro il Pd. Sul sindaco di Roma gli ho chiesto solo se si sarebbe candidato", ha precisato. La replica di Calenda, al telefono, è stata dura: "Mastella mi ha cercato lui. Io ho semplicemente riportato il fatto che un signore sconosciuto mi ha chiamato per dirmi che se avessi votato la fiducia a Conte, il Pd mi avrebbe appoggiato come sindaco di Roma. Trovo questa pratica indegna", ha confermato il leader di Azione.

Mastella-Calenda: un nuovo round su Rai3. Il Dubbio il 17 gennaio 2021. Scontro a distanza tra Mastella e Calenda durante la trasmissione di Lucia Annunziata, dal momento che il sindaco di Benevento non ha accettato il confronto. Continuano a battibeccare Clemente Mastella e Carlo Calenda. Dopo le reciproche accuse che si nsono lanciati ieri, questo pomeriggio il teatro della disputa è stata la trasmissione di Rai3 “Mezz’ora in Più”, condotta da Lucia Annunziata. Il primo a intervenire è stato proprio Clemente Mastella, che rispondendo alla domanda sul contenuto della famosa telefonata del giorno prima, dopo la quale Calenda sui social lo ha attaccato. Secondo Calenda Mastella si sarebbe proposto, in cambio di un appoggio in Senato del suo movimento avrebbe avuto quello del Pd per la sua corsa a sindaco di Roma. Una notizia smentita già ieri da Mastella e ribadita ai microfoni di “Mezz’ora in Più”. «Spero per i romani che Calenda non diventi sindaco di Roma. Calenda è un burinotto, pariolino e figlio di papà. Non sono io che offendo lui ma è lui che ha offeso me». Mentre ancora il sindaco di Beneventoè  in collegamento, arriva la telefonata di Calenda per la replica del caso ma a quel punto Mastella rifiuta di proseguire e abbandona la diretta. Calenda replica a sua volta, facendo però notare che l’altro ha rifiutato il confronto. Prima però Mastella manda a dire Renzi: «Mi sono dimesso io, tu hai fatto dimettere gli altri. E – puntualizza – non ho fatto cadere la legislatura, che cadde per Turigliatto e gli altri».  E annuncia: «Poiché ritengo che il paesaggio politico cambierà, con le poche energie che ho ancora in questo mio crepuscolodi vita umana e politica, mi muoverò per creare un movimento, unpartito, che si chiamerà “Meglio noi, per l’Italia”. Visto quello che sta accadendo credo che registrerà un pò di consensi. Lo dico per esperienza: i “partiti parlamentari” senza agganci nelle realtà territoriali, come io ho sempre avuto, non potranno mai esistere».   «Parlo di un’area di centro – ha spiegato Mastella – se Renzi, Zingaretti, Di Maio e Leu pensano – dopo quello che hanno fatto vedere agli italiani – di vincere le elezioni, perderanno in maniera inesorabile. C’è bisogno di un ’area centrale chi gli dia una mano,come avvenne a suo tempo con l’Udeur che, all’epoca, prendeva 300.000voti e consentiva ai Ds di governare». Da registrare anche la nota della senatrice Sandra Lonardo, moglie di Clemente Mastella con la quale ha chiarito: «Voglio dire, ancora una volta, rispetto alle malelingue mediatiche, ai bugiardi di mestiere, ai ventriloqui della malafede, che non ho aperto alcuna trattativa per avere qualcosa, nessun Ministero, niente di niente. Voterò la fiducia perchè ritengo, in coscienza, che l’apertura della crisi sia un atto ingeneroso verso le sofferenze che la nostra gente viva».

L'ex Ministro evita il confronto e abbandona. Mastella-Calenda, secondo round in tv: “Pariolino, figlio di papà”, “Venditore di elenco telefonico”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 17 Gennaio 2021. Dopo la telefonata a Carlo Calenda e le polemiche successive, Clemente Mastella, sindaco di Benevento e, di recente, sostenitore del premier Giuseppe Conte, rincara la dose contro il leader di Azione nel corso della trasmissione Rai "Mezz’ora in Più" condotta da Lucia Annunziata. In collegamento da Benevento, Mastella nega l’offerta politica proposta a Calenda: “Telefonate? Io ho chiamato solo Calenda e mia moglie. Ho solo chiesto a Calenda se avrebbe votato per Renzi e lui mi ha detto che è contro Renzi e contro il PD. Su sindaco di Roma gli ho chiesto solo se si sarebbe candidato”. Mastella ha poi precisato di aver fatto quella telefonata per “il bene del Paese” e di non aver mai conosciuto di persona “Conte o Bettini”. Incalzato dalle domande, il sindaco di Benevento etichetta Calenda come “burinotto, pariolino, figlio di papà“, poi si augura che non diventi sindaco di Roma perché “per il bene dei romani, una persona così… Lo conoscevo per le segnalazioni al Cis di Nola…”. Parole pesanti quelle di Mastella che portano sia Annunziata e Paolo Mieli, ospite in studio, a prendere le distanze. “Io lo offendo eccome, ha offeso prima lui” ha rincarato Mastella. Pochi minuti dopo arriva la telefonata dello stesso Calenda per replicare ma il confronto con il sindaco di Benevento salta a causa di alcuni problemi di collegamento che spingono poi Mastella ad abbandonare la trasmissione. “Non ho nessuna voglia di confrontarmi con Calenda, buon pomeriggio!”. Il leader di Azione ha quindi spiegato: “E’ giusto che gli italiani, il Pd e il governo, sapessero che figuro del genere si aggira dicendo queste cose alle persone. Mi piacerebbe sentire dal Pd e dal governo se era incaricato di fare queste promesse, io non lo credo”. “Mi ha cercato Mastella. Io non lo conoscevo – ha precisato Calenda -. Io ho semplicemente ricordato che un signore a me sconosciuto mi ha chiamato per dirmi che se avessi fatto votare la fiducia al governo Conte il Pd mi avrebbe appoggiato per la corsa a sindaco di Roma. Si trattava chiaramente di un sensale, cercava voti a nome di altri. La trovo una pratica indegna e indecorosa e lo ho liquidato. La telefonata sembrava quella dei venditori di un elenco telefonico...”. LA MOGLIE – “Sono uscite notizie sulla senatrice Lonardo, che io trattassi per ottenere per lei il ministero della famiglia, ma lei fa già il ministro della famiglia a casa mia” ha sottolineato Mastella ricordando di aver “ricevuto anche alcune chiamate dai senatori di Renzi”. La moglie di Mastella, la senatrice del Gruppo Misto Sandra Lonardo ha di recente annunciato di votare la fiducia al governo Conte.

Da corriere.it il 17 gennaio 2021. Nuova puntata dello scontro tra Carlo Calenda e Clemente Mastella. Il giorno dopo gli insulti legati a una telefonata, rivelata da Calenda, nella quale Mastella gli avrebbe offerto l’appoggio del Pd alla sua corsa a sindaco di Roma in cambio di un voto favorevole di Azione al governo Conte, il sindaco di Benevento è stato ospite di In Mezz’Ora in più, il programma condotto da Lucia Annunziata. «Io ho chiamato solo Calenda e mia moglie...», ha spiegato Mastella, prima di continuare: «Non ho detto a Calenda nella mia telefonata di votare Conte, gli ho chiesto cosa faceva e lui mi ha detto sono contro il Pd e contro Renzi. Non abbiamo parlato della poltrona di sindaco di Roma. Lui ha reso nota la telefonata in maniera spudorata: è un po’ burinotto, figlio di papà, pariolino». «Ho fatto solo una telefonata a mia moglie per dirle di votare il governo e nel frattempo il Pd locale cercava di fottermi. Per il resto ho ricevuto telefonate, non ne ho fatte», si è schermito l’ex ministro della Giustizia. A quel punto il leader di Azione ha telefonato in diretta per replicare, ma Mastella ha abbandonato la trasmissione: «Non ho nessuna voglia di confrontarmi con Calenda», ha sostenuto, prima di andarsene. Dal canto suo, il leader di Azione ha ribadito la sua versione dei fatti: «Un signore a me sconosciuto mi ha chiamato per dirmi che se avessi votato la fiducia, il Pd mi avrebbe appoggiato a sindaco di Roma — ha detto Calenda —. Per me era un sensale, impegnato in una pratica non dignitosa, e l’ho liquidato. Era giusto che gli italiani sapessero che un figuro del genere faceva queste cose. Mi piacerebbe sapere da qualcuno del governo se Mastella era incaricato di fare questo tipo di promesse o meno: io dubito fortemente. Ha detto ver chiamato solo me e la moglie? Non ci credo, la sua era la telefonata di un venditore...». Il ruolo di Mastella — che non è in Parlamento, al contrario della moglie Sandra Lonardo — non ha alcuna ufficialità all’interno della crisi di governo. Il sindaco di Benevento, che ha una lunghissima carriera parlamentare alle spalle, ha però vasti contatti con diversi ambienti della politica, e in particolare degli ambienti di centro: proprio quelli dai quali il governo guidato da Conte potrebbe trovare un appoggio decisivo per continuare la sua azione dopo il ritiro della delegazione di Italia viva. Calenda, che è leader del partito Azione e si è candidato a sindaco di Roma (corsa per il quale il Pd non lo ha finora appoggiato), ha deplorato la scelta di Renzi, ma non ha mai aperto alla possibilità di appoggiare l’esecutivo guidato da Conte. Calenda aveva lasciato il Pd proprio in seguito all’accordo di governo con i 5 Stelle che ha portato al Conte-bis. Azione in Senato è una delle componenti del Misto. Ha tre senatori insieme a +Europa. Della compagine fanno parte : Emma Bonino, Gregorio De Falco e Matteo Richetti. Nei giorni scorsi De Falco, ex M5s, ha parlato apertamente dei contatti per sostenere il governo. L’esecutivo ha «perso» i 18 senatori del gruppo di Italia viva e per avere ancora la maggioranza a Palazzo Madama ha bisogno di un supporto numerico quasi equivalente. Tornando alla trasmissione, Mastella ha anche parlato delle indiscrezioni sulla crisi di governo. «Sono uscite notizie sulla senatrice Lonardo, che io trattassi per ottenere per lei il ministero della famiglia, ma lei fa già il ministro della famiglia a casa mia», ha detto riferendosi a sua moglie, senatrice nel Misto . «Non ho gettato la spugna, continuo», ha assicurato invece parlando dell’operazione legata al reclutamento dei costruttori. E poi ha citato diverse chiamate ricevute . «Posso rivelare una cosa, mi ha chiamato oggi Bettini per solidarizzare rispetto ad accuse infamanti». Mastella non ha lesinato critiche neppure a Matteo Renzi. «Altro che patriota... Si dice che Dio salva l’umanità nonostante le trasgressioni degli uomini perché ci sono almeno dieci persone che riscattano il genere umano. Ma Renzi non è tra quelle dieci persone». Resterà nella maggioranza? «Credo di sì: ha tentato di portare i suoi a votare contro, poi ha avuto dissenso interno e si è acconciato con la astensione. E poi ha rivelato: «Ho ricevuto anche alcune chiamate dai senatori di Renzi».

Da liberoquotidiano.it il 18 gennaio 2021. Prosegue il botta e risposta tra Clemente Mastella e Carlo Calenda. Dopo aver raccontato della telefonata ricevuta per sostenere Giuseppe Conte in cambio - è quello che sostiene lui - di un aiuto da parte del Pd alla corsa per Roma, ecco che il leader di Azione rincara la dose. "Ho ricevuto una telefonata sbrigativa da Mastella: se mi porti i voti del gruppo al Senato, noi ne abbiamo tre, il Pd ti vota a Roma. L’ho liquidato anche perché io parlo con Zingaretti tutti i giorni". Ai microfoni di Radiouno Calenda non lesina rivelazione e nemmeno frecciatine: "Se ti chiama uno come se fossi uno Scilipoti o una prostituta", aggiunge specificando che Mastella lo avrebbe chiamato come "intermediario del governo e del Ps. Sarebbe utile una smentita". Mastella si è infatti reso protagonista della disperata ricerca di "responsabili". Questi ultimi pronti a sostenere Giuseppe Conte, dopo lo strappo di Italia Viva. Da qui la telefonata all'ex piddino che comunque precisa: "«Che uomo sarei se votassi la fiducia a un governo rispetto al quale sono sempre stato all’opposizione? Non mi appartiene". E ancora: "Io ho un giudizio molto negativo sul modo in cui Renzi sta gestendo la crisi, non si capisce nulla. Da un mese critica il governo, come se non ne facesse parte. Una cosa che non si comprende. Se parli male di Conte e poi dici non ho preclusioni hai una grande confusione. Questo avanti e indietro è inaccettabile".

(ANSA il 18 gennaio 2021) - Rischia di finire in tribunale lo scontro in corso da giorni e innescato dalla ricerca dei 'responsabili', tra il leader di Azione, Carlo Calenda e il sindaco di Benevento Clemente Mastella. "Ci vedremo in tribunale" è la minaccia che risuona oggi dopo che Calenda si è adirato per le accuse di Mastella sul Cis di Nola e il sindaco per gli appellativi ricevuti dall'ex ministro. E' Carlo Calenda per primo a minacciare il ricorso in tribunale. Oggi a RadioUno, a proposito di quanto detto dal sindaco di Benevento sui contatti ai tempi del Cis di Nola, aveva per primo annunciato: "Su questo Mastella verrà querelato". "Io non ho mai parlato con Mastella. Tra l'altro - aggiunge il leader di Azione - non gestivo porti, quella era una società privata. Non conosco Mastella, tanto che si è presentato. Banalmente, se non rettificherà quello che ha detto" la querela di Calenda è dietro l'angolo. Pronta la replica dell'ex ministro della Giustizia e fondatore dell'Udeur: "La mia querela a Calenda l'avevo sospesa. Ora anche il mio avvocato ha materia per far valere le mie ragioni. Io sensale, io figuro, io venditore? A presto…".

Riccardo Nencini il muratore. Il senatore, detentore del simbolo del Psi, ha parlato in un'intervista a Repubblica di "manovali e muratori" che devono venire in soccorso al governo. Ma lui, già ospite a eventi pubblici della loggia Grande Oriente d’Italia, precisa che non c’erano “sottintesi”. Carlo Tecce su L'Espresso il 15 gennaio 2021. Il momento è assai grave per l'Italia. Se davvero è giunta la fase della costruzione di volenterosi costruttori per ricostruire la maggioranza del governo di Conte dopo la cesura di Italia Viva, servono gli specialisti e gli appelli accorati. Anche quelli col retrogusto massonico. «Bisogna utilizzare il tempo che ci separa dalla crisi in Parlamento, a inizio settimana, per ricostruire la maggioranza. Con muratori, manovali, chiamateli come volete», dichiara a Repubblica il senatore Riccardo Nencini, detentore del simbolo del Psi che ha permesso a Matteo Renzi di allestire il gruppo di Italia Viva e che adesso può soccorrere il premier Conte che deve accogliere i suoi costruttori. O muratori. O manovali. Per citare il senatore socialista. Il toscano Nencini ha utilizzato le categorie massoniche, di certo per caso o per scherno: manovale è l'iniziato, l'iscritto a una loggia che svolge l'apprendistato; muratore è il grado successivo, è la prima consacrazione dopo un faticoso lavoro con i fratelli. Nencini avrà familiarizzato con simboli e i vocaboli massonici dopo aver partecipato agli eventi del Grande oriente d'Italia (Goi) dell'amico gran maestro Stefano Bisi. Per esempio nel 2015 per le celebrazioni dell'equinozio di autunno e l'anniversario della Breccia di Porta Pia oppure a Rimini nel 2017 al convegno nazionale del Goi, la loggia più affollata del Paese, quando fu insignito del premio “Galileo Galilei”, la più alta onorificenza per i non iscritti: «Non appartengo alla vostra comunione – fu il suo discorso – ma dico che essere eretici, provare a essere eretici, come avete fatto e continuate a fare voi, è obbligatorio. Qui da voi è anche la casa della libertà come scelta per la ricerca della conoscenza». Già nel '99, per andare indietro con gli anni, Nencini si schierò in difesa di questa libertà massonica e da parlamentare europeo portò nell'Unione la lotta contro una legge regionale delle Marche che imponeva ai nominati nelle aziende pubbliche un certificato di non affiliazione alle logge: «È una norma discriminatoria e viola la privacy», sbottò in una interrogazione alla Commissione europea. Gli risposero che l'argomento non rientrava nelle competenze dell'Unione. A Bruxelles non potevano occuparsi dei massoni delle Marche. Il gran maestro Bisi si tiene lontano dall'esegesi di Nencini: «Come sapete il nostro è un linguaggio universale. Qualsiasi cosa io possa dire comporta la strumentalizzazione del Grande oriente d'Italia piegata a fini di parte. Non mi presto al gioco. Non commento le parole di un senatore o di Renzi o di Mattarella che pure hanno parlato di costruttori». Il portavoce di Nencini precisa: «Completamente fuori tema. Il senatore non è e non è mai stato massone. I muratori sono coloro che costruiscono senza nessun altro sottinteso». Comunque sia, dopo costruttori, muratori e manovali, ci si deve ricordare della cazzuola. Altrimenti come si tiene su la maggioranza?

Del Bue si dimette da direttore dell’Avanti per il voto con il Var del socialista Nencini.  Gazzetta di Reggio su Il Corriere della Sera il 21/1/2021. «Non sono una persona che torna indietro». Giura che lui non cambierà idea, nemmeno all’ultimo minuto. Mauro Del Bue, giornalista, ex assessore ai tempi di Graziano Delrio e fra il 1987 e il 2008 deputato Psi per tre legislature, dopo otto anni lascia la direzione dell’Avanti!, la versione online dello storico quotidiano socialista fondato nel 1896, sul web dal 5 gennaio 2012 dopo le alterne fortune della testata. Una decisione presa in contrasto con il voto in extremis a favore del governo Conte espresso dal senatore del gruppo di Italia Viva e segretario nazionale Psi, il fiorentino Riccardo Nencini: un voto dell’ultimo minuto al pari di quello dell’ex M5s, Alfonso “Lello” Ciampolillo, risultato fondamentale per la risicata fiducia alla traballante maggioranza giallo-rossa, salvata anche grazie al ricorso a una sorta di Var richiesto dalla presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Nel corso della votazione, Casellati ha chiesto di fermare tutto e ricorrere alla registrazione della seduta prima di decidere se riaprire o meno il voto all’ex senatore del M5S. Quindi l’arrivo in ritardo anche di Nencini, con il cui voto la partita della fiducia a Conte si è conclusa con 156 sì, 140 no e 16 astenuti. Fra questi ultimi sarebbe dovuto esserci Nencini, almeno stando alle precedenti intenzioni di voto. «Mi sono dimesso perché non condivido la posizione del senatore Nencini, che dopo aver svolto un equilibrato e ponderato intervento per l’astensione, in armonia con il gruppo Psi-Italia Viva, ha deciso all’ultimo momento di votare a favore del governo», spiega Del Bue, che già nella tarda serata di martedì, a urne bollenti, ha pubblicato sull’Avanti! un editoriale di commiato. «Ho messo nel lavoro il meglio di me stesso. Ho fatto il mio lavoro con passione e spero con competenza. L’ho fatto gratuitamente. La decisione di Nencini implica per me una scelta di campo inaccettabile perché ho sempre pensato che il futuro di questo piccolo partito che si chiama Psi dovesse essere nell’area liberal-socialista di Calenda, Bonino e oggi anche di Renzi, non nell’asse Pd-M5s». Nel commiato, definito il suo «ultimo atto da direttore», Del Bue premette di non voler fare polemica, ringraziando quanti hanno collaborato nel rilancio e nel mantenimento della storica testata socialista, «un giornale con migliaia di contatti quotidiani, in perfetto equilibrio finanziario, sorretto da due soli bravi e generosi miei collaboratori, per di più sottopagati». Ma è chiaro che per l’ex parlamentare reggiano la scelta di campo di Nencini ha lasciato il segno, arrivata fra l’altro in una data simbolica per la storia del socialismo italiano, ovvero nel 21esimo anniversario della morte di Bettino Craxi, ricordato da Del Bue nell’editoriale come «un grande leader politico del Psi e un prestigioso uomo di stato». L’editoriale, inoltre, è stato dedicato alla memoria di Emanuele Macaluso, storico dirigente Pci scomparso martedì a 96 anni. «Ereditavo un quotidiano semi clandestino, con molti redattori, parecchio costoso, senza una precisa identità politica», aggiunge Del Bue, che non riesce a spiegarsi in nessun modo il voto di Nencini, tanto più in conseguenza del fatto che Italia Viva in Senato è nata proprio grazie al fatto che il senatore e segretario Psi ha concesso a Renzi il simbolo, permettendo la formazione del gruppo. «Per me resta un mistero», dice De Bue. Che si stato un modo per il senatore fiorentino di tenere il piede in due staffe, agganciato al governo pur restando nel gruppo renziano? «Non credo – risponde De l Bue – Anche se Nencini, di cui resto amico, dice di non voler togliere il simbolo, come si fa a restare in un gruppo dove la maggioranza vota in un modo e lui in un altro? Non stiamo parlando di un voto qualsiasi. Si era già distinto rispetto ai voti di Italia Viva. Ma qui stiamo parlando di un voto di fiducia decisivo, sulla base di una crisi aperta dal gruppo di cui fa parte e nel quale mi sembra difficile che adesso possa rimanere». Nel suo passato, il segretario socialista è stato viceministro alle Infrastrutture durante il governo Renzi, ricoprendo l’incarico di numero due del ministero all’epoca guidato da Delrio, ora capogruppo Pd alla Camera. Ma per Del Bue il rapporto con Delrio non è all’origine dell’improvviso ribaltone del senatore socialista: «Quando Nencini era viceministro, Delrio era un uomo di Renzi – dice l’ex parlamentare – Riccardo è fiorentino e quindi in qualche modo collegato con Renzi. La sua scelta resta un mistero. E io non potevo far altro che dimettermi».

Voterà la fiducia al governo Conte (ma alla Camera). Le giravolte di Michela Rostan, tutti i cambi di partito in 4 anni: “Ora costruire”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 17 Gennaio 2021. “La rottura, in politica, è l’ultima spiaggia” ora “costruire innanzitutto dialogo, composizione, accordo, intesa”. Sono le parole della deputata Michela Rostan che sposa la linea dei “costruttori” e annuncia di votare la fiducia al governo Conte annunciando di fatto l’uscita dal suo partito, il quarto in pochi anni, Italia Viva. Una decisione che non va a intaccare il peso specifico di Renzi e del suo partito nell’attuale maggioranza di Governo. La Rostan vota alla Camera mentre dove Italia Viva è, al momento, ago della bilancia è al Senato con i suoi 17 senatori (Renzi compreso). Quella della Rostan è una scelta che non stupisce. Già in passato l’avvocato 38enne di Melito di Napoli, comune a nord del capoluogo partenopeo, è stata protagonista di repentini cambi di casacca. Non è ancora certo se tornerà nel Partito Democratico (come viene annunciato sulla sua pagina su Wikipedia) o sceglierà per il momento in entrare nel Gruppo Misto in attesa di valutare il suo futuro. L’attuale vicepresidente della commissione Affari Sociali della Camera, eletta nella circoscrizione Campania 1, è stata eletta nella scorsa legislatura (2013) nelle fila del Partito Democratico. Nel marzo 2017, in opposizione a Renzi e al Pd, decise di seguire i bersaniani di Articolo 1 – Movimento Democratico e Progessista. Per poi essere rieletta alla Camera con la lista Liberi e Uguali (che comprendeva al suo interno anche Articolo 1). Il 18 febbraio 2020 altro cambio: passa ufficialmente ad Italia Viva, il partito fondato proprio da Renzi. Passano 11 mesi e arriva l’ultima giravolta. “Ho deciso di votare la fiducia al governo Conte – ha annunciato Michela Rostan – lo faccio perché tra la critica al governo e la crisi di governo c’è una grande differenza, e la differenza si chiama politica, cioè ricerca delle soluzioni, tentativo di intesa. Era giusto – come fatto – incalzare il governo nei suoi punti deboli, nelle incertezze e negli errori compiuti nella gestione della pandemia, sia quella sanitaria sia quella sociale ed economica; era giusto chiedere un maggiore impegno, una maggiore collegialità, un maggiore rispetto delle regole democratiche. Ma la crisi, no. Ritirare i ministri, quindi ritirare la fiducia al governo e aprire una crisi al buio, in un momento storico come questo, appare una scelta troppo severa e troppo precipitosa”. “Non è un caso – prosegue Rostan – che i cittadini non abbiano capito e condiviso questa posizione. Ho ricevuto centinaia di messaggi di disappunto: non ci contestano la critica al governo, che, anzi, è anche in parte condivisa. Ci contestano la scelta della rottura, che peraltro come grammatica della politica non appartiene a chi vuole rappresentare un’area moderata. La rottura, in politica, è l’ultima spiaggia, non il punto di partenza di una trattativa. Gli italiani, in questo momento, stretti tra la paura del virus, tra la preoccupazione per sé e per i propri cari, a volte attraversati dal dolore di una perdita, angosciati per le conseguenze economiche della pandemia, per il timore che la fine sia lontana, vogliono più governo non meno governo, vogliono un governo più efficiente e pronto, non un governo sfiduciato. A questo aggiungiamo la durezza della crisi economica, i posti di lavoro perduti, l’incognita del futuro per tante famiglie, visto che il dramma sociale sarà molto più lungo dell’emergenza sanitaria. La speranza dei cittadini è che alla guida sappiano prendere le decisioni giuste: sul contenimento del contagio, sui ristori economici, sulla campagna di vaccinazione, sulla costruzione del futuro. Se cade il governo, dentro una crisi dai contorni confusi, litigiosi, chi le fa le cose? Questa è la domanda che si stanno facendo tutti”. “Se vogliamo metterci in ascolto dei cittadini, com’è nostro dovere, – conclude la deputata – noi non possiamo ignorare quell’onda di disappunto che si sente forte rispetto all’apertura di questa crisi. Abbiamo fatto uno sforzo enorme per comporre un quadro politico difficile con i 5stelle, nell’agosto del 2019, e per dare un governo al Paese, ed eravamo in tempo di pace. Ora, con la pandemia, con la paura della terza ondata, con 80mila morti, con la complessità della campagna di vaccinazione, con la difficoltà di ripartire, di ricostruire, rovesciamo il governo che noi abbiamo fatto nascere e rinunciamo alla mediazione? Mi pare un errore madornale di lettura della fase politica e di preoccupante sconnessione con il sentimento delle persone. È necessario, arrivati a questo punto, ritrovare lo spirito del messaggio del Presidente Mattarella. Costruire, non demolire. Costruire innanzitutto dialogo, composizione, accordo, intesa. E poi, un Paese nuovo”.

(DIRE il 17 gennaio 2021) - "Le rivelazioni del direttore de “La  Stampa” Massimo Giannini sono gravissime. Nel suo editoriale,  Giannini parla di uno 'strano network' che si starebbe occupando  di reclutare senatori per conto del presidente del Consiglio  Conte, un network di cui farebbero parte tra gli altri anche  “generali della Guardia di Finanza” e “amici del capo dei servizi  segreti Vecchione”, oltre a “noti legali vicini al premier e  presidenti di ordini forensi a nome dello Studio Alpa”. E'  doveroso che arrivino al più presto chiare e nette smentite,  altrimenti sarebbe opportuno che sulla questione venisse  convocato subito il Copasir". E' quanto scrive su Facebook il  deputato di Italia Viva Michele Anzaldi.       "Davvero il direttore del Dis, sotto il cui coordinamento-  prosegue Anzaldi- ci sono i servizi segreti, starebbe facendo  pressioni per cercare senatori per Conte? Davvero sono coinvolti  generali della Guardia di Finanza? Chiarezza su quella che  Giannini chiama 'moral suasion condotta con quel favore delle  tenebre sempre negato'". 

Massimo Giannini per “la Stampa” il 17 gennaio 2021. Lo so, e me lo ripeto ogni volta: non serve spiare la casa dei vicini, per scoprirla quasi sempre più bella, più pulita, più decorosa. Ma in queste ore, davvero, sconcerta l' abisso che separa l' ordine tedesco dal caos italiano. In Germania, dove pure il contagio aumenta e i ristori tardano, Angela Merkel prepara la sua uscita di scena dalla Cdu e dal governo con la dignità e la solennità che si convengono alla statista europea più importante dell' ultimo quarto di secolo: lassù tutto è regola condivisa, rispetto reciproco, mutua legittimazione. In Italia, dove si continua a morire troppo di Covid e a capire poco della strategia geo-cromatica di contenimento del virus, Giuseppe Conte cerca di evitare la sua uscita di scena da Palazzo Chigi con l' abilità e l' ambiguità che si convengono a un consumato notabile della Prima Repubblica: quaggiù tutto è zona grigia, partita di scambio, trattativa sotto banco. Intendiamoci. La crisi più irresponsabile della Storia Repubblicana, consumata con una pandemia devastante e scaricata su un' economia agonizzante, l'ha aperta Matteo Renzi. Se oggi il Paese osserva basito il "sistema" costretto a puntellare un premier dimissionato e a cucinare una maggioranza con gli avanzi delle passate legislature, la responsabilità è del "Demolition Man" di Rignano. Ancora una volta, da bravo Jep Gambardella che tratta la politica come il suo trenino, lui non si accontenta di far nascere i governi, ma vuole avere il potere di farli fallire. Ma ora scaricare sul Rottamatore tutte le colpe, e soprattutto illudersi che rottamando lui la Fenice Giallorossa rinasca più bella e più forte che prima, è solo una patetica impostura. Parlando per ossimori: le accuse del leader di Italia Viva al "doroteismo-autocratico" del presidente del Consiglio e all' "immobilismo-dinamico" del governo non giustificavano in alcun modo quel bombardamento violento al Quartier Generale, che lui stesso ha abitato per un anno e mezzo. Ma depurando questo Papeete renziano dalla componente narcisistica/autolesionistica, quelle critiche erano e restano tutte fondate. A partire dall' insostenibile leggerezza del Recovery Plan tricolore. E adesso non sarà l'edificante ma bugiarda favoletta dei Nuovi Costruttori a cementare non tanto quello che è andato distrutto, ma piuttosto quello che non si è mai costruito. Qui c' è un gigantesco problema di "forma". Camera e Senato che sospendono il lockdown e tornano suk levantini dove si negoziano voti e si trafficano poltrone sono uno spettacolo indecente. Lo so, ci sono mille spiegazioni possibili, che i capimastri del Cantiere usano per giustificare l' ingiustificabile. Siamo una democrazia parlamentare, e dunque da Costituzione repubblicana le maggioranze si fanno e si disfano in Parlamento. Siamo in un sistema proporzionale e non più maggioritario, e dunque i cambi di casacca sono la norma e non l'eccezione. Ci sono 600 morti al giorno e 4 milioni di vaccini da fare, e dunque non possiamo permetterci ribaltoni o elezioni. Ci sono i mercati che ci puniscono, le cancellerie internazionali che ci osservano, le istituzioni europee che ci minacciano: la solita Italia, irrisolta e instabile, non può reggere vuoti di potere. È tutto vero, è tutto giusto. Ma non si può non inorridire ugualmente, se dopo venticinque anni siamo ancora fermi lì, alle solite stampelle colorate e improvvisate. Agli straccioni di Valmy di Cossiga, alle truppe mastellate del Sor Clemente, alle anime perse dei Razzi e degli Scilipoti, alle pattuglie alate e plurindagate del pregiudicato Verdini. Un tempo si chiamavano "responsabili". Oggi come vogliamo chiamarli? Disponibili? Miserabili? Per attribuirgli il quarto di nobiltà che non hanno, la vulgata del Palazzo che resiste li pretende "Costruttori", usurpando così una bella formula coniata dal presidente della Repubblica nel suo messaggio di Capodanno. Cambiano sigle e cognomi: rimasugli di Psi con Nencini e di Udc con Cesa, gruppi nati nottetempo come i funghi ma sconosciuti in natura, come Maie di Fantetti e Italia23 dei vari Masini-Minuto-Stabile. Ma alla fine il "milieu" è sempre lo stesso: con tutto il rispetto, parlamentari-merce, spendibili e intercambiabili sul mercato politico secondo convenienza e permanenza sullo scranno. Ovviamente qui non sono in gioco i soldi (al contrario del caso De Gregorio, a suo tempo comprato a peso d' oro dal Cavaliere). Ma certo neanche gli ideali (come invece vuole farci credere l'inner circle contiano e la sua quinta colonna giornalistica, che per questo risparmia ai transfughi di oggi il disprezzo umano ed etico profuso invece in abbondanza con quelli di ieri). «È pura fantasia che io cerchi in Parlamento maggioranze alternative. Restituiamo alla politica la sua nobiltà, voliamo alto». Così twittava il puro e duro Conte, alla vigilia della rottura con Salvini. Ed è lo stesso premier che adesso, per sostituire Renzi alla roulette russa di Palazzo Madama, vuole non il voto sparso di qualche "scappato di casa", ma quello compatto di un neonato "gruppo europeista" organico alla maggioranza Pd, M5S, Leu. Un gruppo da formare "alla luce del sole" e in modo "trasparente". Purtroppo non è vero neanche questo se, come sembra, del reclutamento si occupa lo strano network dell' Avvocato del Popolo. Le cronache narrano di senatori contattati da noti legali vicini al premier, da presidenti di ordini forensi a nome dello Studio Alpa, da generali della Guardia di Finanza, da amici del capo dei servizi segreti Vecchione, da arcivescovi e monsignori vicini al cardinal Bassetti e alti prelati vicini alla Comunità di Sant' Egidio. È "trasparenza", questa? O piuttosto moral suasion condotta con quel "favore delle tenebre" sempre negato? Se questo è lo scenario, prendiamone pure atto. E ingoiamo l' ennesimo rospo sulla base di un' esigenza oggettiva: serve comunque un governo, perché votare ora non si può, e questo sembra ancora una volta l' unico possibile. Ma almeno (visto che il Pd "a vocazione proporzionale" non può farlo) lasciate a noi moralisti il diritto di masticare amaro, di fronte a questa "crisi di sistema" permanente e a quella che Cacciari chiama la "bancarotta di una classe dirigente". Facciamolo pure, questo "governo Conte-Mastella", che magari reggerà persino meglio del già periclitante "governo Conte-Renzi". Ma allora fissiamo almeno qualche paletto, per puntellare la nuova Casa che stanno progettando i Costruttori. Qui c' è un colossale problema di sostanza. Se Conte Ter ha da essere, che sia un governo un po' migliore, visto che "governo dei migliori" purtroppo non sarà. Perché la battaglia del Covid (nonostante il buon andamento della campagna vaccinale) non è affatto vinta. E perché quella del Recovery (anche nella sua seconda versione "potenziata" dopo lo strappo renziano) ancora non è stata neanche combattuta. Si scelgano ministri più solidi e più competenti per i dicasteri chiave. E d' accordo, lasciamo pure Mario Draghi nel suo eremo di Città della Pieve, con i suoi libri e i suoi cani, a riposare e a riscaldare i muscoli per il Colle. Ma nel frattempo usiamo lui, e le risorse più esperte che abbiamo, perché in una sede propria mettano il loro deposito di sapere e di esperienza a disposizione del Paese. E il governo li ascolti davvero, invece di sprecarli nella recita incresciosa e ad uso telecamere della Commissione Colao. Anche qui è il Partito democratico di Zingaretti che si deve imporre, visto che finora non ci è riuscito come avrebbe dovuto e potuto. Sarebbe anche il modo più dignitoso per celebrare i cento anni del Pci: il grande partito di una sinistra di massa che tuttavia non seppe farsi Stato.

Estratto dell’articolo di Claudio Antonelli per “La Verità” il 19 gennaio 2021. (…) La leva principale usata per scardinare le deleghe in capo a Conte deriva dal cambio di inquilino alla Casa Bianca e dai possibili sviluppi del caso Barr. Senza contare il nome di Gennaro Vecchione, capo del Dis, il cui nome è emerso nei retroscena sulla caccia ai «responsabili». Articoli pesanti smentiti in gran parte dalla nota ufficiale del comandante generale della Gdf, Giuseppe Zafarana: «Le notizie circa il presunto coinvolgimento di generali della Gdf in attività volte ad ampliare la maggioranza di governo sono prive di fondamento», ha precisato il generale dopo aver informato Gualtieri che nessun generale in servizio nel Corpo ha posto in essere attività di tal genere». Un modo per mettere la mano sul fuoco per i propri uomini ma non per gli uomini di tutti. 

(ANSA il 18 gennaio 2021) "Le notizie riportate su alcuni quotidiani, circa il presunto coinvolgimento di Generali della Guardia di Finanza in attività volte ad ampliare la maggioranza di governo sono prive di ogni fondamento". Lo afferma in una nota la stessa Gdf, sottolineando che "al riguardo, il Comandante Generale, Giuseppe Zafarana, ha informato il ministro dell'Economia e delle Finanze, Roberto Gualtieri che nessun Generale in servizio nel Corpo ha posto in essere attività di tal genere. Il Ministro Gualtieri ha ringraziato il Generale Zafarana, ribadendo la fiducia nell'operato della Guardia di Finanza".

Fabio Martini per “la Stampa” il 18 gennaio 2021. Quei pochi che hanno parlato con lui nelle ore che precedono il discorso più importante della sua vita, raccontano tutti la stessa cosa: Giuseppe Conte è «in palla», è «sicuro di farcela», ma non ha ancora deciso su un dettaglio che potrebbe rivelarsi decisivo: inserire o no, nel suo discorso alla Camera di oggi, un passaggio che faccia a capire a tutti che lui, da ora in poi, è in campo. Che lui è pronto a guidare, un domani, un vero e proprio partito. Non un' effimera lista elettorale. Finora di questa prospettiva hanno sempre parlato i giornali, ma lui nei pourparler informali e nelle dichiarazioni pubbliche è sempre stato attentissimo a non lasciare spiragli. Smentendo impegni in prima persona che potrebbero irritare non poco i partiti-guida della coalizione. Ma stavolta indicare, sia pure con una perifrasi, un orizzonte servirebbe - così gli hanno spiegato i maghi delle alchimie parlamentari - per convincere gli onorevoli ancora titubanti: il partito di Conte diventerebbe un approdo accogliente per tanti in cerca di domicilio politico. «Poco ma sicuro: dal giorno dopo sarebbe una slavina verso Conte e i suoi gruppi parlamentari», confida (dietro richiesta di anonimato) uno dei parlamentari "coperti". Ecco perché in queste ore Conte sta cercando l'espressione "giusta", quel dire e non dire che consentirebbe di riaccendere una speranza a tanti parlamentari che a fine legislatura sarebbero condannati all' addio alla politica. Conte è incerto perché si chiede e chiede: Di Maio e Zingaretti come reagirebbero? In buone parole, un Conte alle prese col suo "Comma 22", quella situazione paradossale nella quale si profilano diverse possibili scelte, ma sono solo apparenti, perché in realtà, l'opzione possibile è una sola. Un circolo vizioso? Il presidente del Consiglio deciderà all'ultimo minuto cosa dire e non dire, ma se aprisse uno spiraglio sulla sua salita sul ring elettorale, l' effetto sarebbe immediato. E andrebbe molto oltre l' orizzonte parlamentare: darebbe un porto sicuro e improvvisa solidità ai tanti rapporti fluidi, avviati in questi ultimi tempi con tanti poteri, più o meno forti che operano nella capitale. Darebbe una risposta alla domanda che la Roma che conta si chiede da mesi: ma i buoni rapporti che Conte intrattiene con tanti diventano o no partito? Nei due anni e mezzo trascorsi a palazzo Chigi Giuseppe Conte ha intrecciato rapporti non episodici, ma neppure organici con tutti i segmenti dell'eterno "partito romano", quello che si muove lungo l'asse Servizi-grandi aziende partecipate-Vaticano-grandi boiardi-sistema dell' informazione-Confindustria e sindacati-Procura di Roma. Dall' epifania del 2018 ad oggi, Conte ha sapientemente consolidato alcune colonne del potere reale. Ha nominato (ai tempi del governo giallo-verde) alla guida dei Servizi il generale Gennaro Vecchione, capo del Dis e oramai è la personalità di maggior fiducia di Conte. Nel mondo delle grandi partecipate negli ultimi mesi sono fioriti, dal nulla, diversi "contiani": lo sono diventati l'ad di Poste Matteo Del Fante (che era renziano), il presidente di Enel e il brindisino Michele Crisostomo. È vicinissimo al governo il presidente di Cassa Depositi e prestiti Fabrizio Palermo, mentre è un amico del presidente del Consiglio il nuovo capo dell' Anticorruzione, Giuseppe Busia. E ovviamente è uomo oramai legato a doppio filo con Conte il commissario all' emergenza Covid, Domenico Arcuri. Letteralmente "incollato" ad Invitalia dai tempi del governo Prodi, oramai isolato nel nuovo contesto politico, Arcuri è rinato con la chiamata di Conte. Certo, Conte ha stretto rapporti ma non ha ancora messo le radici. Sino all' estate del 2018, sino a quando ha frequentato Roma ad intermittenza, le finestre dell' avvocato Conte sulla città eterna erano due e senza un gran "vista" sul potere vero. Anzitutto lo studio legale guidato da Guido Alpa, il giurista che è stato il suo mentore, ricco di relazioni e di clienti significativi e che negli ultimi mesi, come capitato in passato ad altri Studi, ha allargato il proprio giro anche per luce riflessa. L’altra finestra su Roma del "giovane" Conte, sia pure di una stagione lontana, era Villa Nazareth, il collegio universitario nel quale il futuro presidente del Consiglio ha conosciuto a suo tempo Pietro Parolin, oggi Segretario di Stato del Vaticano. Ma in questa fase Parolin vive un rapporto difficile col papa e in ogni caso, nell' era di Francesco, tutti i leader politici italiani hanno capito che godere canali speciali con alcuni cardinali non è più un valore aggiunto come nel passato. E anche se Francesco non si scopre, Oltretevere assicurano che tutto quello che porta stabilità nella politica italiana, è benvisto. E quanto ai rapporti con le parti sociali, tra Conte e Maurizio Landini si è creata una buona "chimica", anche se un partito di Conte promette di avere un rapporto speciale con la Cisl. Con la Confindustria del nuovo presidente Carlo Bonomi il rapporto non è mai stato idilliaco ma in questi ultimi giorni il messaggio arrivato a palazzo Chigi è stato inequivocabile: «La crisi deve essere risolta il prima possibile».

Valerio Valentini per “il Foglio” il 18 gennaio 2021. C’è il folklore, certo. C’è il fondatore del “partito di Conte”, “Italia23”, che è un senatore eletto col contributo della Lega. Raffaele Fantetti se l’è infatti guadagnato grazie al Carroccio, lo scranno. Per gli italiani all’estero, col Cav. e la Meloni, Salvini aveva un patto: un certo numero di candidati a testa. E allora il salviniano Guglielmo Picchi, che di Fantetti era amico, fece la pensata: candidati con FI, ma  alla prima occasione  passi con noi. E di quell’idea, poi abortita, restano i volantini in cui il volto di Fantetti, romano residente a Londra, lo stesso volto che ora sponsorizza il leader "punto fortissimo di riferimento dei progressisti", sta insieme a due candidati leghisti, Billi e Codoro. C’è il folklore, si diceva. Ma c’è di più. Perché dietro alla caccia ai “costruttori”, nell’articolata trama di relazioni e di  consuetudini, nel riecheggiare del solito “ah fra’, che te serve?” su cui si fondano spesso i cambi di maggioranza, si muovono personaggi assai meno pittoreschi. Il mentore supremo di Giuseppe Conte, il professor Guido Alpa, ha attivato i suoi contatti. E così almeno due senatori in odore di responsabilità si sono sentiti chiamare da intermediari che agivano, dicevano, per conto di Luca Di Donna, avvocato che riceve al numero 6 di piazza Cairoli,  nello stesso stabile in cui ha sede lo studio legale del maestro di Conte, e che ha una discreta fama anche dentro i corridoi della Sapienza, dove insegna Diritto privato europeo, essendo grande animatore dell’Istituto italo-cinese. Per questo nell’aprile del 2019, ancora in epoca di grilloleghismo, s’imbarcava per la Cina insieme al premier, di cui è grande amico, per andare a inaugurare la sede dell’Istituto a Wuhan, dove presiede  un corso di laurea, mentre Conte era impegnato a Pechino nel forum sulla Via della Seta. E il nome di Alpa se l’è sentito fare anche un deputato renziano, avvocato, contattato dal presidente dell’ordine forense della sua provincia: “Sa, il caro professor Guido è un amico in comune”. Dei tre senatori eletti sotto il simbolo dell’Udc, almeno due si dicono pronti, nei conciliaboli riservati, a completare la traversata che li porterebbe a stringere la mano del giurista di Volturara, facendo così salire l’asticella della responsabilità verso la soglia fatidica della maggioranza assoluta di 161. Loro ci starebbero pure, dicono. E però Lorenzo Cesa, che dello scudo crociato è il detentore, resiste, recalcitra. “Nonostante — raccontano — si sia mosso perfino un generale della Guardia di Finanza”. Finanzieri per Conte, insomma, come quel Gennaro Vecchione che di Conte è uomo fidatissimo, ed è a capo dei servizi segreti? “No no, non Vecchione in persona. Però un amico, un conoscente”. E un po’ tutti i responsabili arruolabili, con accenti e con toni diversi, si sono sentiti fare discorsi simili: che cioè l’impegno in favore del premier non starebbe solo in un tasto da schiacciare martedì prossimo, quando Conte dovrà affrontare il rodeo di Palazzo Madama. “Ma è l’inizio di un percorso”, insomma l’atto fondativo di un possibile partito di stampo progressista, moderato e ovviamente cattolico. E la benedizione del Vaticano, scontata visto il passato dell’“avvocato del popolo” nella cantèra di Villa Nazareth, starebbe perfino nelle suggestioni che ruotano intorno al nome del  partito di Conte. Perché “Insieme”, di cui tanto si parla, è un simbolo già ideato nell’ottobre scorso dall’economista Stefano Zamagni, presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, con l’ambizione di riunire tutti i cattolici in un’unica forza politica. Che possa essere guidata da Conte? Questo se lo son sentiti dire due senatori forzisti di fede carfagnana da un prelato che s’era attivato, pare, su supposto mandato di Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio. “E’ Conte la scommessa di quel mondo cattolico”, ci dice  Gianfranco Rotondi, grande esperto di trame democristiane. Ce lo dice a tarda sera, al termine di un pomeriggio in cui il suo cellulare è sempre occupato. A caccia di responsabili? “Macché”, ci risponde Rotondi. “Il punto è che da quanto s’è sparsa la voce che io sarei il regista del ‘partito di Conte’, è un continuo stalking. L’ultimo era un primario di un ospedale lombardo. Gli ho dovuto dire di rivolgersi altrove”. A Conte? “No. Conte deve pensare alla sfida di martedì. Poi, per il suo partito, ci sarà tempo”.

Il cardinal Silvestrini: mentore di Conte e membro della "Mafia di San Gallo". Mieli e Cacciari entrano anche loro tra le file dei "complottisti"? Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 17 gennaio 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore. Tra ammiccamenti e risatine, due intellettuali non certo di area sovranista come Paolo Mieli e Massimo Cacciari, il 12 gennaio, in trasmissione da Bianca Berlinguer, si sono fatti sfuggire qualcosa che è stato però colto al volo da Angela Pellicciari,  autrice di “La chiesa e la massoneria”  (Ares 2007) la quale, su La Nuova Bussola quotidiana, scrive di un “siparietto rivelatore”. “Conte è invincibile – spiega Mieli alla Berlinguer – è ovvio che ha qualcosa dietro di sé che sfugge, una sorta di “energia forte”; questa legislatura è la storia di grandi sottovalutatori di Conte”. Nel frattempo, Cacciari, in studio, inizia a sogghignare: “Io lo so qual è questa energia, ma non lo posso dire, tutti lo sanno, «Mieli meglio di me», ma non lo può dire”. I due, in divertito imbarazzo, tirano in mezzo Gad Lerner che, contrariato, ribatte: “Mieli e Cacciari fanno delle allusioni sul fatto che dietro a Conte ci sarebbe una massoneria nascosta, trasversale, che ha riferimenti interni e internazionali, e che questo spiegherebbe tutto”. Cacciari annuisce, sorridendo e arrossendo. Chi lo sa? Qualche indizio sulla presunta energia forte citata dai due autorevoli “neocomplottisti” è fornito da Maria Antonietta Calabrò che, nel 2019, spiegava sull’’Huffington Post come Conte disponga di parecchie entrature ecclesiastiche dovute al cardinale Achille Silvestrini, “gigante della diplomazia vaticana, mentore di Conte dagli anni in cui frequentava il prestigioso collegio universitario di Villa Nazareth. Silvestrini aveva intessuto per anni una serie di rapporti con la sinistra Dc, da Sergio Mattarella, agli ex-morotei, a Oscar Luigi Scalfaro, ma anche con personalità laiche come gli ex presidenti Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano”. Quando Silvestrini morì, il 29 agosto 2019, nel giorno del secondo insediamento al governo del suo pupillo, Conte si precipitò al funerale dove ebbe un colloquio con Bergoglio il quale, secondo le fonti vaticane, “ricordò con affetto la figura del cardinale scomparso". Era il periodo in cui la Chiesa si auspicava "un governo di discontinuità, soprattutto sulla politica migratoria", un auspicio evidentemente esaudito considerati gli interminabili sbarchi di migranti, particolarmente inspiegabili in periodo di pandemia. Ciò che è più interessante, ricordato anche dalla Calabrò, è che il card. Silvestrini faceva parte della cosiddetta “Mafia di San Gallo”, un gruppo di importantissimi cardinali progressisti in odore di massoneria ecclesiastica, che, fin dai primi anni ’90, si riunivano nella cittadina svizzera di Sankt. Gallen ed erano accomunati dall’essere fieramente avversi a Joseph Ratzinger. Tutto questo emerge dall’“Autobiographie” del 2015 di uno dei suoi membri, il primate della chiesa belga card. Godfried Danneels nella quale lo stesso, prima di sparire dalla scena pubblica, dichiarava come il “campione” di questa Mafia di San Gallo fosse proprio il card. Jorge Mario Bergoglio. Subito dopo la pubblicazione, il card. Danneels è sparito dalla scena pubblica e dopo quattro anni è deceduto per un cancro, nel 2019. La sua autobiografia, andata a ruba in Belgio, ma non tradotta in italiano, non è mai stata smentita dal Vaticano e viene impugnata continuamente da chi sostiene l’invalidità dell’elezione di Bergoglio: secondo l’art.79 della costituzione apostolica “Universi dominici gregis”, promanata da Giovanni Paolo II nel 1996, sono infatti scomunicati automaticamente tutti i cardinali che organizzano e intrecciano accordi pre-conclave. Cardinali scomunicati, conclave invalido.  

Costruttori? Opportunisti pronti a soccorrere il governo: perché vinceranno i peggiori. Renato Farina su Libero Quotidiano il 16 gennaio 2021. Salteranno fuori nel numero perfetto. È sicuro. Devono soltanto decidere il momento opportuno. I "costruttori", non nel senso di geometri o muratori, ma di salvatori di Conte e dei giallorossi, si dividono a questo proposito in due categorie. Quelli che ostenteranno amarezza e orgoglio pubblicamente, dando interviste a petto in fuori, prima della conta finale. E coloro che, martedì, alle fatali cinque della sera rese immortali da García Lorca, scivoleranno furtivi da qualche recesso dove erano custoditi dai giannizzeri di Rocco Casalino. È scontato che fino all'ultimo mancherà qualche numero per superare la quota di 161 che garantisce la permanenza a Palazzo Chigi dell'avvocato degli affari suoi. I voti certi dati ieri per sicurissimi erano 147: Movimento 5 Stelle (92 senatori), Pd (35), Leu (5), Autonomie (6) e altri 9 senatori del gruppo Misto (Buccarella, Cario, De Bonis, Di Marzio, Fantetti, Fattori, Lonardo, Merlo, Ruotolo). Ne mancherebbero 14 (11 nell'ipotesi più ottimistica che tutti e 6 i senatori a vita votino come sempre la fiducia). Altri assicurano che ne mancano 6. La Stampa di Torino esagera e assicura che sarebbero già 166 i contiani. Mah. Questo nuoce alla causa delle conversioni. Bisogna far credere che ne mancano di più, vuol dire che il premio per chi si converte sarà più prelibato. È una legge del mercato: la merce rara è più cara.

Merce rara più cara. Girano scommesse. Ci sarà suspense per tenere alta la posta. Così vuole il copione del Titanic. Poi dinanzi alla prospettiva dell'abisso non dell'Italia ma del loro reddito all'ultimo istante balzeranno fuori come conigli dal cilindro. La parola conigli forse non è del tutto rispettosa, ma resta la magia da circo più confortante nella storia non solo della Repubblica ma anche del Regno d'Italia da destra e sinistra. Stavolta più che altro dal centro, e questa sarebbe la novità. Perché confortante? Perché ci pare un ritorno a casa, un rifiuto della globalizzazione, una perfetta scelta identitaria italica alla Alberto Sordi. È l'Italia peggiore, ma siamo pure masochisti noi concittadini di costoro. Fanno pur sempre tenerezza. Suscitano persino invidia. Davvero? Be', sarebbe ora di finirla con questo codazzo parassitario. L'invocazione della necessaria stabilità è il pretesto per immobilizzare per sé prebende immeritate e consegnare il destino del nostro Paese a una ciurma di incompetenti, salvando la loro nave pirata mentre noi anneghiamo. Almeno lo ammettessero. Diremmo: viva la faccia. Leggeranno foglietti preconfezionati sin dall'800, con voce tremante o sulfurea, questo dipende dai consigli di mogli e mariti o amanti, per puro "senso di responsabilità". Per evitare cioè il pandemonio di una pandemia che avanzerebbe nel vuoto del potere, con una campagna elettorale scatenante piazze barbariche, causando voragini nei conti dello Stato provocate da speculazioni dei mercati. Soprattutto - minaccia delle minacce - l'Europa si sdegnerebbe al punto di non versare i quattrini del Recovery Fund. Naturalmente è una serie di gigantesche panzane. Ma far credere che la democrazia sia più pericolosa del virus e dipingerla come una tragedia è il tradizionale appiglio idealistico del gruppo parlamentare più antico della nostra storia, dato che fu fondato due secoli fa, al tempo del premier Agostino Depretis (1883). E con una solida ideologia: vincono sempre. Mai visto trasformisti od opportunisti o responsabili o - stavolta - costruttori che rinfoltiscano le file della minoranza. La motivazione è solida, e realmente attiene a un dramma che bisogna evitare a tutti i costi e che ha motivazioni che pescano persino nel Vangelo: dar da mangiare agli affamati, cioè alla loro famiglia, che qualche volta sono anche due. Rischiare di perdere due anni e mezzo da tredici mila euro netti al mese di conquibus è un lusso che in tempi di Covid è imprudente correre. Si leggano i nomi dei candidati costruttori: chi tra loro avrebbe la possibilità di essere rieletto qualora ci fossero le elezioni, oggi o tra due o tre anni è uguale? Bruno Tabacci è il teorizzatore democristiano di questi spostamenti. Lo fa disinteressatamente, la cosa non lo riguarda, è deputato, e non ha pertanto urgenza di trasloco. Ma regala volentieri ideali alla paghetta: "Trasformismo? No, è nobiltà". Il Conte Max! Naturalmente hai un bello spiegare a costoro che la chiamata alle urne è quanto di più lontano si possa pensare. Nonostante tutti si dicano pronti a sfidare il giudizio del popolo, in realtà sulla sinistra e sui margini del centrodestra in pochissimi sono disponibili a prestarsi alla roulette russa. Il proiettile nel revolver sarebbe per loro.

Come in un bazar. Ieri e l'altro ieri il Senato era quanto di più simile al bazar di Istanbul, che peraltro mentre state leggendo è chiuso per lockdown. Questo non vale per i saldi dei senatori. Per costoro non c'è zona rossa anzi, sono disponibilissimi a ficcarcisi volentieri, visto che Renzi malauguratamente ha lasciato libero il posto con i suoi 18 colleghi di Italia Viva. Qualcuno tra loro forse se ne andrà. Inutile fare dei nomi, sono tutti giusti ma rischi di prenderti una smentita che poi sarà naturalmente a sua volta smentita dalla realtà, perché il gioco è questo, negare fino all'ultimo, mostrare che si è molto sofferto fino al passo decisivo compiuto a piè scalzo su un rotolo di rovi. Ma sì, il piede può sanguinare, l'importante è che le chiappe alla fine si siedano sul burro, che è il recondito scopo di tutta questa spremuta di coscienze. Ieri è stato tutto un corricchiare, esporre la propria nobile riflessione amareggiata nei conciliaboli che si sono visti nei corridoi riposti del Senato, che si presta molto più della Camera, con i suoi tragitti labirintici, alle scorrerie. Analizzando la storia di molti costruttori potenziali o sicuri ci rendiamo conto che il trasformismo è perfettamente coerente con la loro storia che è stata tutto un salto della quaglia. Lo diciamo con il rispetto consueto che dedichiamo a questi simpatici uccelli da fiera. Di certo, tra loro giganteggia la senatrice Sandra Lonardo in Mastella, che con il marito sta intraprendendo una missione eccezionale. È quella di democristianizzare i 5 stelle. Una vaccinazione di doroteismo purissimo: persino il pseudo rivoluzionario Alessandro Di Battista, il Che Guevara di Grillo, pronto ad aprire il suo petto ai colpi della reazione per difendere l'ideale, stavolta si è fatto mastelliano e scudiscia Renzi per il tradimento di Conte. Non tenendo conto che alla fin fine dovrebbe anche lui stare dalla parte di un rivoluzionario matto come il senatore di Scandicci. Invece no, il richiamo del potere ha la forza di trasformare i simpaticissimi Mastella in salvatori del vaffanculo. Moriremo contiani? È la dittatura dei peggiori. Vinceranno loro. 

Cifre vergognose. In Parlamento. 147 voltagabbana 57 solo nel 2020. Studio Openpolis: legislatura segnata dai continui cambi di casacca. Un malcostume peggiorato con l'avvio del secondo governo Conte. Ancora peggio durante i governi Pd. Fabrizio Boschi, Domenica 17/01/2021 su Il Giornale. Diciamoci la verità: tra le tante nefandezze che la politica italiana riesce a partorire quella dei cambi di casacca è una delle più stomachevoli. Perché non è accettabile in una democrazia seria che un candidato di un partito votato dal popolo proprio perché appartenente a quella fazione politica, ad un certo punto decida di passare dall'altra parte, perlopiù rimanendo seduto in Parlamento. In altri termini, con i voti presi grazie alla sua appartenenza ad una squadra, resta in campo giocando per l'altra. Semplicemente ripugnante. Eppure, questo malcostume, di cui l'Italia è modello, attraversa da sempre ogni governo, anche se l'apice lo ha avuto nei governi del Pd e adesso in quello giallorosso. Come scrive l'agenzia Italpress, Openpolis, l'osservatorio che periodicamente aggiorna le vergognose tabelle, segnala un totale di 147 cambi di casacca da inizio legislatura, 57 dei quali avvenuti nel corso del 2020. Non c'è pandemia che tenga, per cambiare bandiera i nostri politici sono sempre pronti. A patto che venga mantenuto il posto e lo stipendio, ovviamente. I passaggi di gruppo, di per sé, rappresentano una prassi consolidata nel tempo e legittimata dall'articolo 67 della Costituzione che non assegna agli eletti alcun vincolo di mandato. Ma i flussi numerici e temporali costituiscono un termometro politico per valutare lo stato di salute delle coalizioni e dei partiti che le compongono. I cambi di casacca assumono particolare rilevanza soprattutto in un periodo come questo, ovvero durante una crisi politica della maggioranza, in quanto più sono i voltagabbana, più ci sono probabilità che questi esprimano voti diversi da quelli dei loro partiti. Finché ci sono le banderuole della politica la partita per il governo in carica è sempre aperta. Openpolis segnala anche la media dei dati da inizio legislatura: durante il Conte I (1° giugno 2018 - 5 settembre 2019) i cambi di casacca sono stati 1,61 al mese, per aumentare vistosamente con l'avvio del Conte II (7,3) in coincidenza con la nascita di Italia viva e attestarsi a 4,5 al mese nel corso del 2020. Nulla a che vedere, comunque, con il quinquennio 2013-2018 (governi Letta, Renzi, Gentiloni) che ha toccato punte da record: 569 passaggi di gruppo, anche multipli, compiuti da 348 parlamentari, per una media di 9,5 al mese. In questa legislatura, invece, risulta che i protagonisti dei 147 cambi sono stati 136 parlamentari e, nel solo 2020, 52 su 57. Nello specifico si tratta di 18 senatori e 39 deputati. Gli ultimi, in ordine di tempo, sono quattro deputati del M5s che hanno aderito al gruppo misto, e un senatore della Lega che è passato al Misto, per poi approdare a Fratelli d'Italia. Il tributo più alto, nel corso dell'anno, lo ha pagato il M5s con l'abbandono di 33 parlamentari, tra addii volontari ed espulsioni. Segue Forza Italia che ha perso 14 eletti tra le sue file. A beneficiare di queste fughe è stato soprattutto il gruppo Misto di Camera e Senato che ha guadagnato un totale di 35 membri. A Palazzo Madama, la dinamica del via vai ha portato al progressivo restringimento numerico della maggioranza a 159 voti effettivi, che da mercoledì si sono ulteriormente ridotti con la fuoriuscita dei 18 senatori renziani. Numeri che andranno necessariamente rimpiazzati in pianta stabile per l'eventuale prosecuzione della legislatura, posto che Italia viva, uscita per ora dal governo, sarebbe disposta a votare solo lo scostamento di bilancio mercoledì prossimo (per il quale serve la maggioranza assoluta di 161 voti). Gli occhi sono puntati sul gruppo Misto e delle Autonomie, all'interno dei quali si possono agglomerare nuove formazioni. Il grande esercito dei camaleonti della politica è pronto, anche a questo giro, a dare il peggio di sé.

Alessandro Goracci, l'ambasciatore di Conte al Senato: chi è l'uomo su cui il premier punta tutto. Libero Quotidiano il 17 gennaio 2021. Giuseppe Conte  affida al suo capo di gabinetto a palazzo Chigi, Alessandro Goracci, molte delle trattative più segrete per venire a capo della crisi. Goracci ha 43 anni. Figlio della borghesia cattolica. Laurea in legge alla Luiss, specializzato in diritto pubblico. Carlo, il padre morto nel luglio 2016, è stato per anni il vicesegretario generale della Camera dei deputati, all'epoca di Ugo Zampetti, oggi al Quirinale con Sergio Mattarella.  Dopo aver vinto il concorso al Senato seguì Matteo Renzi al governo come segretario generale, diventando il funzionario più alto in grado della Commissione Affari Costituzionali. Nel dicembre 2018 diventa capo gabinetto di Conte. "Goracci sa stare al suo posto", ha detto un parlamentare di lungo corso. Da più parti, scrive Repubblica, viene dipinto come il pontiere con "i costruttori". In pratica è l'ombra di Conte: "Ha senso politico, e in tanti lo cercano, ma non fa scouting", racconta giura un senatore. Partecipa alle riunioni riservate, redige i verbali dei tavoli politici. "Speriamo in Goracci", si augura in queste ore Giuseppe Conte per salvare il suo governo e il suo futuro politico.

Alessandro Goracci, l'uomo-ombra di Giuseppe Conte che tratta coi partiti sul Mes: "Prende appunti, non decide nulla". Libero Quotidiano l'08 dicembre 2020. Alessandro Goracci, capo gabinetto di Palazzo Chigi, è il supplente del premier Giuseppe Conte. Goracci è un avvocato specializzato in diritto pubblico. Il padre Carlo è stato vicesegretario generale della Camera. Goracci jr lavorava come alto dirigente del Senato anche per la commissione Banche. Fa parte del cerchio magico di Conte. Già col premier nell'alleanza gialloverde, la sua figura è cresciuta con la coalizione giallorossa. Molto apprezzato dai grillini, Conte lo manda e gli consegna i dossier più delicati. La sua figura però crea malumore, perché a detta di Pd e Italia Viva, gli altri alleati della maggioranza, quando c'è Goracci, senza Conte, non si conclude mai nulla. Goracci, in quei casi, "prende appunti per poi riferire tutto al premier", scrive Il Foglio, che dedica a questa misteriosa figura un retroscena.  “Se c’è Goracci non si decide nulla”, è il mantra che arriva da Pd e da Italia viva. Alleati che però chiariscono che comunque non c'è “nulla di personale, e anzi massima stima”. Ma tant'è che per trattare su riforme, programma e Mes ultimamente viene mandato sempre il capo di gabinetto. Nei suoi confronti la stima è tanta, anche da parte della Lega con cui Goracci si trovò a contatto per lavorare nel Conte I. Da sempre Goracci ascolta e scrive di continuo quando è presente ai vertici politici di maggioranza. Si occupa dei verbali dall’inizio alla fine di ogni incontro. “Senza quasi mai alzare la testa”, spiega una fonte. È lui che, in assenza di Conte, apre gli incontri istituzionali e parla per primo per illustrare l’ordine del giorno. E di fatto li chiude spesso spiegando il più delle volte che, “constatando che manca un’intesa o che i tavoli si potrebbero sovrapporre", conclude il Foglio.

Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 17 gennaio 2021. «Senta Goracci». Dicono che Giuseppe Conte dirotti così le richieste di questuanti e scocciatori, indirizzandole verso il suo capo di gabinetto a palazzo Chigi, Alessandro Goracci, il grand commis che lo segue come un' ombra, e di cui ora tutti parlano nel piccolo mondo romano come il Richelieu delle trattative più segrete per venire a capo della crisi. Ma chi è veramente? Dopo un pomeriggio di chiamate a destra e sinistra ci arrendiamo: nessuno ne parla male. «Brillante», «preparatissimo », «mite intelligenza». Un deputato della sinistra lo definisce «un bravissimo cucitore». Uno di destra ammette che «è il più solido tra quelli di cui si è circondato il premier». Nessuno l' ha mai visto spettinato né alzare la voce. Pare sia formidabile anche a tennis. Il braccio destro di Conte coltiva buoni rapporti con tutto il Palazzo. Ha 43 anni. Rapida la carriera. Figlio della borghesia cattolica che non compare mai sui giornali. Laurea in legge alla Luiss, specializzato in diritto pubblico. Figlio d'arte. Il papà Carlo, morto nel luglio 2016, è stato per anni il vicesegretario generale della Camera dei deputati, all'epoca di Ugo Zampetti, oggi al Quirinale con Sergio Mattarella. Vince il concorso al Senato, dove scale rapidamente le gerarchie. Quando il suo maestro, Paolo Aquilanti, seguì Matteo Renzi al governo come segretario generale, divenne il funzionario più alto in grado della Commissione Affari Costituzionali, la serie A delle Commissioni, e lì strinse un ottimo rapporto anche personale con la presidente Anna Finocchiaro. Con Conte non si conoscevano. È entrato, a sorpresa di tutti, nel dicembre 2018, come capo gabinetto, una figura di cuscinetto tra il presidente e i mille problemi quotidiani. Conte era ancora "l' avvocato del popolo". Raccontano che da cattolico democratico Goracci fosse culturalmente un po' a disagio tra i gialloverdi. Ma nessun leghista ha, anche a distanza di tempo, qualcosa da ridire sulla sua condotta. Del resto l'uomo è felpato, come si conviene a un alto funzionario dello Stato. E come dice un vecchio parlamentare: «Goracci sa stare al suo posto». Ma adesso, in queste giornate concitatissime, dove Conte si gioca il tutto per tutto, da più parti viene dipinto come il pontiere con «i costruttori». Ma è una fotografia fuorviante, obietta chi lo conosce bene, e che deriva dal fatto che lui tra i marmi e gli stucchi del Senato, a differenza di Conte, si muove come se fosse a casa sua. Bruno Tabacci, il vecchio democristiano indicato tra i salvatori di Conte, lo chiama spesso (si sono conosciuti durante la commissione Banche, quella di Pier Ferdinando Casini). Insomma, l' ombra di Conte tesse relazioni, saggia umori, parla anche con le parti sociali, dai sindacati agli imprenditori di alto livello. E in questo modo allieva la solitudine istituzionale del suo capo. «Ha senso politico, e in tanti lo cercano, ma non fa scouting», giura un senatore di lungo corso. Nella crisi però il suo ruolo è innegabilmente cresciuto. Il silenzioso Goracci partecipa alle riunioni riservate, redige i verbali dei tavoli politici, cuce e ricuce da buon sarto delle istituzioni. «Speriamo in Goracci», prega in queste ore Giuseppe Conte.

Caterina Maniaci per “Libero Quotidiano” il 4 gennaio 2021. Ci sono figure e figurine, attori protagonisti, comprimari e comparse nel gran teatro della politica e nel suo palcoscenico, e motore necessario, che è il Parlamento, in cui si intrecciano dramma e commedia. Ecco comparire tra i primi Giulio Andreotti, che in origine voleva fare il medico, poi il prete, e infine approda alla politica e ne diventa protagonista assoluto, con le sue battute fulminanti, spesso originali, a volte "rubate", persino ai suoi amici cardinali. Come quella famosa, con cui fa scendere un silenzio di gelo nell'aula parlamentare, seguito da risate più o meno sommesse, in cui riconosce che «sono consapevole dei miei limiti, ma so anche che non sono circondato da giganti». La vita all'ombra del Parlamento passa tra i grandi protagonisti della prima e della seconda Repubblica, tra episodi clamorosi e altri meno noti. Come quella volta che Alfredo Pazzaglia, capogruppo del Movimento sociale italiano, affronta Antonio Tajani, cronista del quotidiano Il Giornale, e gli appioppa un sonoro ceffone, perché lo considera "colpevole" di aver scritto un articolo che non gli è piaciuto per niente. Un repertorio quasi inesauribile di ricordi, ritratti, episodi, che solo una grande e collaudata esperienza professionale è in grado di resuscitare e far tornare a nuova vita. Un mondo di storie e di segreti, nascosto proprio nelle viscere di Montecitorio e di Palazzo Madama, di cui ben pochi conoscono i cifrari per rivelarli. Uno di questi è Mario Nanni, giornalista politico dal 1976 e poi giornalista parlamentare dal 1977, caporedattore della redazione politica dell'Ansa, una presenza costante e un riferimento per chi vuole fare questo mestiere. Nel suo nuovo libro che si intitola Parlamento sotterraneo. Miseria e nobiltà, scene e figure di ieri e di oggi, edito da Rubettino (pp. 234, euro 16), si entra in questo mondo e si comincia a conoscerlo meglio, seguendo i capitoli di questo memoir, saggio brillante, persino romanzo, e soprattutto testimonianza vivace di quello che è stata la vita del cronista parlamentare in anni decisivi. Vediamo da vicino, allora, la ribalta affollata dove entrano in scena leader, capi, gregari, comparse Andreotti, nei suoi lunghissimi anni di frequentazione dei palazzi del potere, ama conversare con i giornalisti, intorno a lui si formano vistosi capannelli, così come succede a Ciriaco De Mita, a Bettino Craxi, poi a Silvio Berlusconi e a molti altri. Enrico Berlinguer, invece, passa come una presenza fantasmatica, appare come un alieno nel Transatlantico, il lungo corridoio-passerella-salotto di Montecitorio dove avvengono incontri, scontri, si sussurrano o si gridano alleanze, tradimenti, amicizie, inimicizie. Si è citato uno schiaffone plateale, ma nel libro ne viene ricordato uno davvero "storico", quello che si becca Franco Bassanini, il quale lascia il Psi per aderire alla Sinistra indipendente e il segretario amministrativo dei socialisti, Giorgio Gangi lo schiaffeggia davanti a tutti, in pieno Transatlantico. Figure e figurine, raccontate con la forza della presa diretta, anche quelle dimenticate, come Carlo Tassi deputato in perenne camicia nera, tranne il 25 aprile quando indossava quella bianca per dichiarare la sua estraneità alla ricorrenza. Troneggia, tra le altre, la figura di Bettino Craxi, prima osannato leader e poi esule, o fuggiasco, a seconda dei punti di vista, condannato all'esecrazione generale, tanto che provare a mandare un fax ad Hammamet costa a Nanni una denuncia da parte di un poligrafico sospettoso. E i suoi giudizi taglienti, come la definizione di Giuliano Amato che Craxi fa a Nanni stesso e da lui puntualmente riferita: «Conosciamo le sue qualità. È un eccellente professionista che lavora a contratto». E il cronista si domanda, riportando questo episodio: «Ma Craxi sarebbe stato Craxi senza Amato e viceversa?» Entrano in scena "monumenti" come Leonardo Sciascia descritto nel suo virulento litigio con Berlinguer e Guttuso, a cui si alternano silhouette stravaganti come Ilona Staller eletta nelle liste radicali che al suo esordio si presenta con Moana Pozzi in Piazza Montecitorio e nei suoi discorsi in aula chiamava tutti «cicciolino» fino a che nessuno ci fece più caso. Fatti e persone che hanno costruito la storia italiana, altri che ne hanno intessuto una trama più fine, quella del costume e delle "bizzarrie". In tempi più recenti, ecco la reazione del forzista Sestino Giacomoni che citato dal presidente della Camera Roberto Fico come Sestino Giacomini risponde con un «Presidente Fica». Ancora i grandi eventi, o meglio i retroscena che diventano le chiavi per interpretarli, o almeno tentare di farlo. I veri scoop come quello di Mario Nanni legato ad Aldo Moro, il suo rapimento e il suo barbaro omicidio. Nel 1974 l'Italia è scossa da scontri, bombe - quella in piazza della Loggia - sequestri clamorosi; Moro comincia a contemplare la possibilità di un avvicinamento della Dc al Pci. Ma questo non è certo visto di buon occhio dagli Stati Uniti: quando il presidente Giovanni Leone si reca in visita ufficiale, accompagnato da Moro in veste di ministro degli Esteri, succede qualcosa di imprevedibile. «L'ho scoperto seguendo i lavori della Commissione di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Moro», spiega l'autore, quando un senatore gli rivela che in quel viaggio Moro era stato minacciato direttamente da Henry Kissinger: se avesse proseguito nella sua politica di apertura ai comunisti, ne avrebbe pagato le conseguenze. «Moro ne rimase così scosso», rivela Nanni, «che andò a pregare nella chiesa di Saint Patrick a New York e svenne sulla panca».

·        L’ossessione del complotto.

Un filo rosso da Mattei alle trame anti italiane. Francesco Forte il 10 Novembre 2021 su Il Giornale. C'è un filo rosso che collega il quesito posto nel Giornale di ieri, su chi ha interesse a screditare il ruolo politico internazionale che l'Eni svolge con la sua politica petrolifera. C'è un filo rosso che collega il quesito posto nel Giornale di ieri, su chi ha interesse a screditare il ruolo politico internazionale che l'Eni svolge con la sua politica petrolifera e la probabile archiviazione del processo all'amministratore delegato dell'Eni Claudio Descalzi e del predecessore Paolo Scaroni, per la presunta maxi tangente, pagata per la concessione petrolifera in Nigeria, la cui prova via Whatsapp che starebbe in un colloquio di Descalzi con il teste chiave l'avvocato Piero Amara, risulta inventata. Il filo rosso è quello del sangue di Enrico Mattei. Esso ci porta alla inaugurazione da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella domenica scorsa di un giardino pubblico della Municipalità di Algeri intitolato a Enrico Mattei. Nella la targa in arabo e in italiano si legge «Personalità italiana, amico della rivoluzione algerina, difensore tenace e convinto della libertà e valori democratici». Il filo rosso è quello del sangue di Enrico Mattei, che morì il 27 ottobre 1962 nella esplosione sopra la campagna di Bascapè in provincia di Pavia, del bi-reattore su cui il presidente dell'Eni Mattei, si trovata solo con un giornalista americano mentre il suo pilota di fiducia Bertuzzi, esperto, pluridecorato, iniziava il volo verso l'aeroporto privato Eni di San Donato Milanese. L'aereo era stato sabotato. A Bascapè in quel luogo c'è un giardino del ricordo, di Enrico Mattei disegnato da un celebre architetto. Il giorno dopo Mattei si sarebbe dovuto recare in Algeria per quel patto di collaborazione con il governo algerino, che voleva stipulare. Per Mattarella l'Italia tramite l'Eni, dovrebbe continuare a svolgere i patti di collaborazione che da allora ha attuato e che sta attuando, nel quadro dell'Unione Europea e dell'alleanza atlantica in Africa e nel Medio Oriente. Per l'Eni di Mattei il rapporto fra concedente e concessionario di petrolio e gas non è un mero rapporto di do ut des, ma è di partecipazione azionaria all'estrazione, al trasporto, e di collaborazione più ampia. Descalzi era al fianco di Mattarella, perché fra Eni e l'algerina Sonatrach c'è un protocollo d'intesa per tale lavoro comune tramite la Trans Tunisian Pipeline Company che a Mazara del Vallo si riallaccia ad altre reti Snam. Quella dal Greenstream, va dalla Libia alla Sicilia. La rete del gas dal Mar Caspio va a Taranto, altre reti sono con il Medio oriente. Una grande politica internazionale. Due giardini a ricordo di Mattei ad Algeri e a Bascapè portano, con quel filo rosso alle vicende di Amara. Ma rimane la domanda: chi ha ispirato tutto ciò? Francesco Forte

A 10 anni dal "golpe" Monti riscrive la storia: "L'Europa ci soffocava". Francesco Forte il 15 Novembre 2021 su Il Giornale. Nel 2011 la cacciata di Berlusconi e l'inizio dell'austerity. Della quale il Prof fu sostenitore. Oggi decorrono dieci anni da quando il governo Berlusconi è stato defenestrato e sostituito da quello del professor Mario Monti, nominato per l'occasione, senatore a vita, dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ex leader dell'ala dei riformisti del PCI. Uso il termine defenestrato perché il voto sfiducia con cui Berlusconi dovette dimettersi non riguardava la legge di bilancio, per gli anni successivi, ma il rendiconto del bilancio consuntivo un documento contabile, non operativo, la cui bocciatura implica di rettificare dati errati se vi sono. Ma la sfiducia era derivata da assenze involontarie dal voto. Il ministro dell'Economia del governo Berlusconi, Giulio Tremonti, la cui legge consuntiva si discuteva, era uscito in quell'attimo dall'aula per una disattenzione o una necessità fisica. Nel regolamento del Senato, in ogni votazione, su qualsiasi tema, l'assenza dall'aula, mentre si vota, vale come voto contrario. Il senatore Bossi della Lega, era alla bouvette e le condizioni fisiche gli impedivano di correre nell'aula. Anche se si volesse sostenere che Tremonti non credeva alla propria contabilizzazione del passato, ciò non comportava la sfiducia sulla sua manovra di bilancio, ma la revisione di dati passati. La nomina di Monti a senatore a vita, da parte del presidente della Repubblica, non dopo svolto l'incarico di governo, come riconoscimento di lavoro fatto giudicato degno di passare alla storia, bensì prima che la iniziasse, ha lasciato la sensazione che lo si volesse battezzare come uomo della provvidenza, per un compito d salvatore della patria, mediante la politica del rigore del bilancio. Ma il governo di Mario Monti, sbagliò il rigore, andando troppo in alto, oltre i pali superiori, come il calciatore Jorge Louis Jorginho, nel suo calcio di rigore della nazionale italiana contro la Svizzera. Questo sbaglio per eccesso-anziché metterci in sicurezza per i mondiali, ci ha inguaiato. La politica di rigore di Monti, con la tassazione patrimoniale sugli immobili sbagliata per sua natura e comunque per eccesso, ha fatto cadere il PIL A ciò si è aggiunta la legge Fornero sulla pensione obbligatoria a 75 anni, che ha creato disagio sociale e sfiducia perché le norme erano retroattive, ledendo i diritti di pensionamento stabiliti in precedenza. Mentre il Pil calava, per il rigore sbagliato, la spesa corrente era aggravata dagli indennizzi del governo per gli esodati: lavoratori pensionati nel frattempo senza l'età della nuova legge. Il declino del PIL italiano in termini reali, cioè al netto dell'inflazione, fu di 2,3 punti nel 2012 e di altri 1,9 nel 2013. In totale di 4,30 punti. Dal 2014 al 2019 il Pil è cresciuto di +0,1 nel 2014, di +0,8, nel 2015, di + 0,9 nel 2016, di +1,6 nel 2017, di + 0,9 nel 2018 e di + 0,3 nel 2019 prima della pandemia. Così i governi di sinistra e il governo 5 stellato hanno generato un recupero di PIL di solo 3,6 punti. Dunque quando - secondo la vulgata - vi era il peggio dovuto a Berlusconi il Pil era più alto di un punto di quando si sono installati nel potere i miglioratori. Quando c'era Berlusconi, cioè il peggio , nel 2011, il debito pubblico era al 120% del PIL Nel 2019, culmine dei governi dei miglioratori, il rapporto debito/PIL era arrivato al 134,8: un peggioramento di 15 punti in 10 anni. Berlusconi aveva semplificato gli investimenti con la legge obbiettivo; con la legge Biagi aveva reso più flessibile il mercato del lavoro; con i contratti di produttività voleva rilanciare la crescita e ridurre le crisi aziendali. Alla pensione sociale da lui introdotta è stato sostituito il reddito di cittadinanza. Berlusconi voleva la flat tax. Ora c'è il rischio del catasto patrimoniale. Si stava meglio quando si stava peggio! Adesso anche Monti lo ammette, ma sul Corriere della Sera scrive che non è colpa sua. Bensí di Draghi, che non fa le riforme. Il quale con la zavorra dei miglioratori è impantanato in mezzo al guado: da cui potrà uscire con gradualità. Francesco Forte

Dieci anni dopo la storia dà ragione a Berlusconi. Paolo Guzzanti il 13 Novembre 2021 su Il Giornale. Nel 2011 la fine del suo governo a colpi di spread. Oggi è il padre nobile del Ppe e in lizza per il Colle. C'ero anch'io in Parlamento quel giorno in cui cadde l'ultimo governo Berlusconi. L'atmosfera era pesantissima. Lo spread saliva come una febbre e i giornali nemici del governo, giuravano che era tutta colpa del premier. Quando un'ultima deputata di Forza Italia si alzò per dire che abbandonava il partito, fu evidente che la maggioranza era erosa dalle termiti. Pochi minuti dopo il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi annunciò che sarebbe andato dal capo dello Stato, il quale era, fin troppo perfettamente al corrente di quel che accadeva. Arrivederla e grazie, venga avanti l'esimio professore e precauzionalmente - senatore a vita Mario Monti. Un loden che varcò i teleschermi e simboleggiò l'Italia vestita in modo alpestre. Non era un governo tecnico, ma il primo esperimento di molti giochi senza frontiere che avremmo visto nell'ampio cortile costituzionale. Il resto lo sappiamo: l'Italia è l'unica democrazia liberale in cui da dieci anni non governa un premier espressione del voto popolare. Si dirà che anche Renzi era stato baciato dal Grande Consenso Vagante che agisce secondo regole e umori non definiti. Ma non era stato eletto al Parlamento italiano. Tutto ciò è noto, come lo sono le circostanze usate per estromettere dai Palazzi della democrazia rappresentativa il leader più popolare. Quindi, proviamo a vedere che cosa è successo fino ad oggi e valutare la differenza fra il prima e il dopo. Che cosa sono stati questi dieci anni e qual è l'effetto finale? Cominciamo dal Fiscal Compact, che era uno spettro per gli illiberali, ma che oggi nessuno osa contestare. Il Partito Popolare Europeo dal quale erano usciti acidi commenti sul premier italiano, oggi lo considera uno dei padri nobili, una figura di assoluto rispetto che figurerebbe molto bene come successore di Mattarella per rappresentare al più alto livello l'Italia governata da Draghi. Quanto alla magistratura, i fatti parlano da soli. Lasciamo per un attimo da parte il feroce accanimento giudiziario scatenato contro il fondatore di Forza Italia (che era la zattera rifugio degli elettori dei partiti di centro spazzati via dall'operazione Mani Pulite) che ha rovinato la vita politica non soltanto a lui ma anche a tutti i milioni di italiani che si sono trovato senza il loro rappresentante, nonché massacrati in pubblico e in privato. Ma oltre l'autentico martirio inflitto al cittadino Berlusconi Silvio, imprenditore e politico italiano più volte presidente del Consiglio, tutto il Paese e poi tutta l'Europa e anche il resto del mondo civile, si è reso conto del fatto che il sistema giudiziario italiano è intossicato da usi politici e anche personali o di banda. Certo non da Circolo degli Immacolati. Basta pensare al caso di Matteo Renzi che ha visto perseguiti i propri anziani genitori, oltre che se stesso a secondo di come si muoveva o si muove politicamente con una strabiliante coincidenza dei tempi. Abbiamo visto casi aperti in molte aree politiche in cui un avviso di garanzia, un rinvio a giudizio, una voce accuratamente riferita da speciali cronisti giudiziari, poteva affondare, come quando si gioca alla battaglia navale: «Avviso di garanzia in E4», colpito. «Avviso di garanzia in E5», colpito e affondato. Il decennio «senza Berlusconi» ha fatto capire tutto: le grandi leggi di riforma liberale che il leader di Forza Italia propugnava a favore sia dei cittadini che vivono della ricchezza prodotta da altri, sia degli imprenditori che quella ricchezza la producono, erano le uniche in grado di segnare una via verso il futuro. Si potrebbe dire con una battuta che dieci anni senza Berlusconi hanno prodotto il governo Draghi che da Berlusconi fu scelto per presiedere la Banca europea perché il premier che ci appare irresistibilmente dinamico, decisionista, forte perché ha dietro di sé l'Europa, è il contrappeso necessario e quasi fisico a tutto ciò che è mancato o è fallito in questi dieci anni. L'Europa del dopo-Berlusconi non ci ha messo molto a capire che il Cavaliere non era il problema ma semmai la soluzione e che tutto l'intrico di poteri usurpatori, deficienze amministrative, abusivismo giudiziario capace di deviare e devastare la Costituzione, doveva essere fermato. La deriva populista di destra e di sinistra che hanno finito per appaiarsi, è stata un'altra conseguenza dei «dieci anni» a secco di liberalismo. L'Europa ha deciso che sarebbe valsa la pena recuperare il tempo perduto offrendo a questo Paese spesso troppo furbo, ipocrita e decadente, ma pieno di potenzialità magnifiche, l'opportunità - now or never again di scrollarsi di dosso proprio tutti quei fattori, e gruppi di potere, che coincidono con i momenti chiave della soffocante congiura. Molto denaro in cambio di un nuovo virtuosismo. Obbligo di riforma a partire dalla magistratura e dal fisco. Libertà e liberalismo. Tutto ciò che costituiva il patrimonio dell'uomo estromesso dieci anni fa e che è rimasto tuttavia l'ultimo uomo in piedi pronto a difendere i valori per cui fu perseguitato, come oggi tutti ammettono. Paolo Guzzanti 

"Così consegnarono Berlusconi alla folla". Fabrizio De Feo il 13 Novembre 2021 su Il Giornale. L'azzurro era con l'allora premier quando si dimise: "Dentro il Quirinale festeggiavano...".

Onorevole Sestino Giacomoni, lei il 12 novembre di 10 anni fa accompagnò Silvio Berlusconi al Quirinale per le dimissioni.

«Ho vissuto una delle situazioni più surreali della mia vita, è un ricordo indelebile. Ero consigliere a Palazzo Chigi del presidente e suo assistente da circa sette anni. Ricordo perfettamente che approvammo la legge di Bilancio alla Camera, dopo di che il presidente si recò al Quirinale per rassegnare le dimissioni».

In piazza lei ebbe l'impressione di una scenografia creata ad hoc. Per quale motivo?

«Ero in auto con lui e mentre andavamo il Presidente disse alla scorta passiamo dall'ingresso laterale. Qualcuno dal Quirinale rispose: No, è una visita ufficiale, si deve passare dall'ingresso centrale. E lì, in una piazza solitamente blindata, quel giorno venne consentito di tutto, finanche il concerto improvvisato di un'orchestrina che intonava Bella ciao. Di certo c'è stata una regia. In molti avevano l'interesse che Berlusconi andasse a casa. Interessi personali, forse di partito, internazionali, non di certo del Paese. Davanti al Quirinale e forse anche dentro, festeggiavano l'uscita di scena dell'ultimo presidente del Consiglio indicato con il voto dal popolo italiano».

Aveste l'impressione che si volesse facilitare una forzatura politico-istituzionale?

«Ne avemmo la certezza, perché tornati con il presidente a Palazzo Grazioli, fummo costretti a rimanere, fino alle quattro di mattina, chiusi dentro il palazzo. Eravamo circondati da migliaia di persone che qualcuno aveva sapientemente incanalato in quelle vie del centro per far credere che il popolo volesse le sue dimissioni. In realtà si trattava solo di una minoranza rumorosa. La maggioranza silenziosa degli italiani, infatti, si era espressa chiaramente con il voto a favore del centrodestra e del presidente Berlusconi. Il clima era surriscaldato e a renderlo tale è stata soprattutto una precisa strategia mediatico-politica che ha voluto scaricare su Berlusconi tutti i mali del Paese, forse per lavarsi la coscienza».

Perché venne impedito l'accesso da un ingresso laterale? E che idea si è fatto della condotta di Napolitano?

«Su Napolitano preferisco non esprimermi, sarà la storia a giudicarlo. Il presidente della Repubblica è un arbitro. Per il resto è chiaro, volevano che passasse dall'ingresso centrale perché è lì che la sinistra aveva organizzato i cori dei suoi ultras, con tanto di orchestra!».

Ricorda qualcosa che Berlusconi le disse quel giorno?

«Il presidente, consapevole del complotto ordito contro il nostro governo, non voleva mollare, ma ci disse che si dimetteva per amore del Paese. Sapeva che se a quella forzatura avesse resistito, le conseguenze per il Paese sarebbero state peggiori. Da giorni, infatti, l'Italia era sotto attacco a colpi di spread.

Pensa che a febbraio possano esserci le condizioni per far tornare Berlusconi a varcare le porte del Quirinale?

«È il mio sogno, anche perché, dopo dieci anni e 5 presidenti del consiglio non indicati dal voto popolare, Berlusconi è ancora qua, come direbbe Vasco Rossi...Mi auguro che a febbraio Berlusconi possa salire al Quirinale. Sarebbe il coronamento di un impegno politico-istituzionale che un uomo della caratura di Silvio Berlusconi meriterebbe e l'unico modo per sanare una ferita profonda inflitta non solo a lui, ma alla storia del nostro Paese». Fabrizio De Feo

La cultura del sospetto. Il complottismo no vax è la malattia senile del comunismo italiano. Carlo Panella su L'Inkiesta il 5 novembre 2021. Le strampalate e le accuse infondate contro un non meglio identificato monopolio internazionale che avrebbe orchestrato Covid e campagna vaccinale in America nascono a destra. Ma da noi sono il prodotto di decenni di propaganda anticapitalista e giustizialista del Pci e dei suoi eredi. Allibiti davanti ai più di 8 milioni di italiani di più di 12 anni che non si vogliono vaccinare, un intero e grande popolo no vax pari quasi a quello dell’intera Svizzera, non dobbiamo cadere in un errore. La matrice complottista che spesso motiva questa scelta non è parte di una cultura di destra o del populismo. In Italia il complottismo, l’attribuzione a forze oscure del deep state, come a Big Pharma, e alle multinazionali di trame e complotti, è storicamente ed essenzialmente retaggio della sinistra. L’esatto contrario di quanto avviene negli Stati Uniti, nei quali fenomeni come QAnon sono parte del populismo di destra, a cui Donald Trump ha dato un potente contributo, sino all’occupazione violenta del Campidoglio, con la balla del voto rubato. In Italia, invece, è stata la sinistra, quella comunista e poi quella ex comunista e giudiziaria, a installare questo veleno diffuso nella cultura del paese. Su due percorsi paralleli, oltre alla denuncia delle trame dei monopoli internazionali e soprattutto americani. In un primo tempo la denuncia di trame americane per avvelenare e distorcere il retto cammino della democrazia. In un secondo tempo, dagli anni Ottanta a oggi, una deviazione radicale della magistratura militante, col pieno appoggio della sinistra ex comunista, che ha usato l’accusa di complicità con la mafia e con “poteri oscuri” per eliminare i suoi nemici politici. Il complottismo del Partito comunista italiano iniziò negli anni cinquanta con l’entrata dell’Italia nella Nato. La ratio era semplice: la cessione di sovranità all’Alleanza Atlantica che comportò quella saggissima scelta democratica della schiacciante maggioranza delle forze parlamentari danneggiava gli interessi dell’Unione Sovietica staliniana. Ecco allora che quel galantuomo dì Giuseppe Saragat, quando scelse la scissione socialista di Palazzo Barberini, venne dipinto come «pagato e servo degli americani». Su su nei decenni fino alla criminalizzazione di Bettino Craxi, accusato di applicare il “piano di Licio Gelli e della P2”, altro bau bau nei confronti di un deep state che altro non era che un club di intrallazzoni. Passando per la bufala del “Piano Solo” e dell’inesistente progetto golpista del 1964 del generale De Lorenzo, complice addirittura il presidente della Repubblica Antonio Segni. Senza dimenticare il caso Gladio, che portò Achille Occhetto a portare «le masse popolari» a manifestare in piazza chiedendo le dimissioni del presidente Francesco Cossiga «complice di trame oscure».

Caso Gladio, gonfiato da una mega inchiesta – finita nel nulla – del pm Felice Casson, che non a caso fu poi eletto senatore nelle liste degli ex comunisti. Caso interessante perché la struttura di Gladio altro non era che la saggia decisione della Nato di arruolare qualche centinaio di ex partigiani “bianchi”, di celare anche depositi di armi e radiotrasmittenti a loro disposizione, in modo da poter funzionare da quinta colonna in caso di invasione sovietica dell’Italia. Benemeriti, quindi, trasformati dagli ex comunisti poco meno che in golpisti al servizio «delle forze eversive».

Ma a quel punto, siamo agli anni Novanta del secolo scorso, il complottismo di sinistra  i riversa tutto sul filone dell’antimafia. Non certo quello di Giovanni Falcone, la cui nomina a Procuratore Nazionale antimafia fu impedita da Magistratura Democratica e dai magistrati vicini al PDS (ma non, va detto, da Giancarlo Caselli, Gerardo D’Ambrosio, e tantomeno da Luciano Violante e Gerardo Chiaromonte).

Il complottismo si fa Stato con le parole genialmente icastiche del gesuita padre Pintacuda, ideologo della Rete di Leoluca Orlando: «Il sospetto è l’anticamera della verità». Da parte sua, Piercamillo Davigo dimostra pari genialità icastica con lo slogan che caratterizza Mani Pulite, l’apoteosi del complottismo all’italiana: «Non esistono politici innocenti, ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove». In quella sciagurata stagione germina l’ossessione per la “Casta” che sfocerà nello straordinario risultato di riempire il Parlamento di un terzo di eletti grillini che hanno dato la fantastica prova che sta sotto gli occhi di tutti.

Ma non finisce qui. Il culmine parossistico del complottismo di sinistra concepisce il suo capolavoro: accusa tutti coloro che hanno effettivamente dato un colpo mortale alla Mafia, dal generale Mario Mori, al colonnello Mauro Obino e gli ufficiali dei carabinieri Giuseppe de Donno, Antonio Subranni e persino Calogero Mannino vuoi di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra (tutti assolti), vuoi di minaccia contro il Corpo dello Stato. 

È il paradossale processo in cui solo gli imputati che hanno arrestato i più pericolosi mafiosi sono accusati di avere indebitamente e occultamente avviato una trattativa con la Mafia. Di nuovo, tutti assolti. Ma soltanto dopo avere subito un decennio di fango e di gogna mediatica. Sempre da parte della sinistra.

Quella stessa sinistra che sdogana il giustizialismo di destra di Marco Travaglio, offrendogli per quasi un decennio prima la legittimazione della firma su la Repubblica e poi addirittura su L’Unitá. Scelta masochista tra le tante degli ex Pci perché Travaglio si porterà gran parte dei lettori del quotidiano fondato da Antonio Gramsci nel suo eccellente il Fatto.

Si dirà, ma tutto questo c’entra poco col complottismo anti scientifico implicito nei no Vax. Può darsi. Ma quel che è certo è che in Italia è essenzialmente sparso dalla sinistra comunista ed ex comunista l’ideologia contro le multinazionali e il “capitale monopolistico” che costituisce l’essenza, il brodo di cultura della diffidenza nei confronti del Big Pharma che ha prodotto i vaccini.

Indimenticabili le parole con del comunista Giuseppe Berti, relatore della mozione che chiedeva di non ratificare nel 1957 il Trattato di Roma, che istituiva il MEC, Mercato Europeo Comune, primo passo verso l’Europa Unita: «Non ha senso dire che il MEC è una cosa e il capitale monopolistico un’altra: il MEC è la forma sovrannazionale che assume nell’Europa occidentale il capitale monopolistico».

Un problema politico. Ritratto del complottista, militante confuso e infelice della pseudoverità. Donatella Di Cesare su L’Inkiesta il 15 Ottobre 2021. Frustrato e impotente di fronte a una società complessa, preferisce ritagliarsi una realtà alternativa, mai comunque verificabile. Erede caricaturale dell’illuminismo, non si rassegna alla mancanza di senso delle cose. Anzi, trova spiegazioni logiche (i complotti, appunto) anche quando non ci sono. Come spiega Donatella Di Cesare nel suo ultimo libro (Einaudi), il cospirazionista si compiace della sua presunta perspicacia e cura così il suo narcisismo ferito. Il desiderio di trasparenza permea dal fondo la democrazia, la sorregge e insieme la inquieta. Chiarire, far luce, svelare, smascherare, sbrogliare, decifrare, risolvere – arrivare finalmente alla verità. Mai più misteri, menzogne, manipolazioni. L’apparenza sarà perfettamente conforme alla realtà. E ogni sospetto sarà superfluo. I complottisti sono convinti militanti della trasparenza. Al contrario di quel che si potrebbe supporre, non fuggono nella superstizione, non evadono nell’irrazionalità, ma sono invece iperrazionali e si rivelano, a ben guardare, gli eredi più oltranzisti degli ideali illuministici. Tutto ciò che è nascosto deve essere messo allo scoperto. L’occulto, l’arcano, il recondito non hanno più ragione d’essere. Di più: il mistero deve essere abolito. Per dirla a chiare lettere (e con il consueto manicheismo): il Bene è il principio normativo della trasparenza e il Male quel che lo ostacola. Sono le élite corrotte, le forze occulte, i media mistificatori. D’altronde il potere risiede nel segreto. È stato Georg Simmel a sottolineare, in un suo importante saggio del 1908, gli effetti ambivalenti che nella vita sociale può esercitare il segreto. A questo proposito non si può fare a meno di ricordare che il latino secretum viene da secernere, ossia mettere da parte, separare, escludere; ciò che è segreto è separato, appartato, riposto e, in tal senso, viene tenuto nascosto. Simmel insiste su quella che chiama la «attrattiva del segreto», che conferisce sempre un che di esclusivo, accorda una posizione eccezionale. Il prestigio del segreto, il credito di cui gode, la suggestione che esercita, non dipendono perciò dal suo contenuto, che potrebbe infatti essere anche vuoto. Il passo ulteriore – aggiunge Simmel – è un tipico errore, un rovesciamento sistematico, per cui agli occhi dei più ogni personalità superiore deve avere un segreto. Si suppone che chi ha potere abbia un sapere ulteriore e occulto. Ecco allora che il segreto viene esecrato, demonizzato. Eppure, non è il segreto a essere connesso con il male, bensì il male con il segreto. Il malvagio, l’immorale, il disonesto tenta di nascondersi; non vale, però, il contrario. Si intuisce perché il segreto da un canto rappresenti una barriera, dall’altro sia un perenne stimolo a infrangerla. La tentazione di trasgredire, profanare, divulgare, fa già parte dell’attrattiva del segreto. Ma lo stimolo al rischiaramento aumenta in modo iperbolico nella società democratica. La trasparenza, assurta a valore e norma, non può tollerare più nessun margine di oscurità, né alcun resto di opacità. Qui attecchisce il complottismo, che promette di cancellare con un colpo di spugna ogni mistero, di sciogliere immediatamente ogni enigma. Basta penetrare nel cuore del segreto per farlo sparire. Il che è possibile grazie allo schema collaudato del complotto, che garantisce chiarezza assoluta. Questa desacralizzazione risponde in tutto e per tutto allo spirito della modernità, all’obbligo più o meno esplicito di non nascondere nulla, all’imperativo incondizionato della «pubblicità». Ma il tentativo di portare tutto alla luce finisce per sortire l’effetto opposto. Dietro ogni complotto svelato si presume un complotto più recondito. Mentre il mistero riaffiora, seguita a proiettarsi l’ombra dell’invisibile. Non più, però, nell’oltre divino, bensì nello spazio umano, che si popola di spettri, figure minacciose, nemici malvagi. Tutta l’invisibilità si condensa nel potere, per definizione occulto. Così la società dell’informazione alimenta l’immaginario della società segreta. Ogni rivelazione mette allo scoperto un arcano ancora da rivelare. L’informazione diventa una macchina che produce un’oscurità più profonda. Perché è inesauribile la richiesta di rivelazione in un mondo che non è ancora riuscito a congedarsi dall’assoluto. Solo la certezza del complotto può dissipare ogni dubbio e interrompere la spirale. La trasparenza normativa è, dunque, l’altra faccia del complottismo. L’illusione di aver trovato il bandolo della matassa, di essere giunti finalmente a capo dell’enigma, lascia presto il posto al disinganno amaro e alla frustrazione. Anziché essere un universo ordinato e leggibile, il mondo sembra precipitare di nuovo nel caos. Assurdità e non senso prevalgono, mentre ovunque riemergono non detti, zone d’ombra, domande senza risposta. È in questo scarto tra il sogno della trasparenza e il risveglio nel corso oscuro degli eventi, tra il miraggio dell’immediatezza e l’urto nell’opacità, che il complottismo fiorisce e prospera. Il cittadino smarrito e disorientato, che non riesce a districarsi nella complessità crescente, che non sa vagliare e interpretare l’enorme flusso di informazioni da cui è investito, finisce per essere un potenziale complottista. Troppi dati, troppe notizie, e un vortice di versioni differenti, non di rado opposte. A chi credere? Certo non alla «versione ufficiale», quella dei media conniventi con i «poteri forti», complici di quelle «forze occulte», causa di ogni male, che hanno semmai tutto l’interesse a insabbiare ogni indagine e dissimulare le proprie responsabilità. Per scoprire la verità che c’è dietro occorre, anzi, oltrepassare la «disinformazione ufficiale». Chi si ferma lì è un ingenuo. «Si sa che ci ingannano», «si sa che ci dicono solo una parte», «si sa che ci nascondono le cose più importanti». L’onesto cittadino guardingo si vota all’informazione alternativa, si destina all’inesausta decifrazione dell’attualità. Mette i panni dell’investigatore incorruttibile, del controesperto integerrimo, dell’eroico cercatore di verità. Così questo novello Sherlock Holmes, in grado di resistere a ogni lusinga, refrattario a ogni manipolazione, si avventura nei bui sotterranei del potere politico e mediatico. Abbraccia pienamente una visione poliziesca del mondo, tende le orecchie, affina lo sguardo per non lasciarsi sfuggire nessun indizio. S’improvvisa non solo detective, ma anche economista, virologo, climatologo, dietologo, storico, specialista di geopolitica, conoscitore di affari internazionali. Alla fin fine «la competenza non è che un’invenzione delle élite per mettere il bavaglio alla gente comune». E lui non cade, certo, nella trappola. È più perspicace, coraggioso e lucido di altri – pronto a denunciare senza riguardi, e a voce alta, il «sistema», i «poteri forti», il «Nuovo Ordine Mondiale». Un po’ immodestamente confessa persino a se stesso quell’esaltante sensazione di appartenere a un’aristocrazia illuminata. La vertigine narcisistica del dissenso lo infervora: si sente investito da una missione sacra. Cerca la Verità contro tutto e tutti, notte e giorno. E aspetta di squarciare il velo. Tra sogni e deliri di onniscienza e onnivigilanza, non perde mai un programma d’inchiesta, ama noir e gialli, fiction in controtendenza, ricostruzioni alternative della storia. Si guarda bene dal leggere i giornali del mainstream, per non essere manipolato, e approda presto sul web per aprire un blog e avere un proprio spazio dove pubblicare, senza tabù, documenti che si vorrebbe restassero segreti, prove schiaccianti di quel che si sospettava. Tutto torna. I follower aumentano.

da “Il complotto al potere”, di Donatella Di Cesare, Einaudi, pagine 120, euro 12

L’ossessione del complotto. E se non c’è, è un complotto. UNA MANIA NATA CON L’UOMO  CHE NEGLI ULTIMI ANNI STA DIVENTANDO INARRESTABILE. Cleto Corposanto su Il Quotidiano del Sud il 19 settembre 2021. È capitato a tutti di sentirne più d’una. Gli americani non sono mai sbarcati sulla luna. Il traffico di droga internazionale è controllato dalla CIA. Lady Diana è stata assassinata. Gli attentati dell’11 settembre alle torri gemelle e a Strasburgo sono stati organizzati rispettivamente dai governi americano e francese. E ancora, le scie bianche lasciate dagli aerei sono sostanze chimiche diffuse nel cielo per ragioni tenute segrete. Esiste un complotto sionista a scala mondiale. Lo Stato e le case farmaceutiche nascondono la pericolosità dei vaccini. Il riscaldamento climatico è una tesi inventata da politici e scienziati per servire i loro propri interessi. E l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Sono solo alcune delle teorie cospirazioniste di cui è più frequente sentir parlare. Forse ci aveva visto giusto Karl Popper che nel suo ‘La società aperta e i suoi nemici’ parla dell’ossessione per il complotto come di una cosa nata con la nascita stessa dell’essere umano, e definendola una teoria cospirativa della società che risiede nella convinzione che la spiegazione di un fenomeno sociale consista nella scoperta degli uomini o dei gruppi che sono interessati al verificarsi di quel fatto e che hanno progettato o congiurato per promuoverlo. Ponendo in questo modo anche le basi per un’interpretazione della perdita di fascino della scienza e della ricerca che sembra aver colpito anche la nostra società. Ma da cosa nasce questa idea del complotto? E perché è così facile che prenda piede? Intanto va osservato come, nonostante le condizioni di benessere generale nella società contemporanea siano – in gran parte del mondo – di gran lunga superiori a quelle solo immaginate in epoche precedenti, oggi uno dei sentimenti maggiormente avvertiti a livello collettivo sia in realtà quello dell’insicurezza, frutto di un patchwork di fattori che alimentano paure di ogni tipo. A ciò si aggiunge una crisi dei fondamenti scientifici partita dalla fine del IXX secolo, dovuta in gran parte all’abbandono delle ambizioni di perfetta neutralità dell’osservatore nel processo di conoscenza e, contestualmente, alla presa d’atto dell’impossibilità di restituzione di fatti certi e oggettivi a scapito di più modeste affermazioni caratterizzate da indeterminazione, probabilità e relatività. Siamo insomma di fronte ad una sorta di paradosso della modernità: l’equazione con la quale veniva postulata una relazione di proporzionalità diretta tra conoscenza e certezza, viene invece a inficiare i risultati proprio al crescere dee percorsi di conoscenza. Una iattura, per certi punti di vista (o una luce che dovrebbe accendersi in molte menti, ma questo è un altro discorso). Il mix di queste due macro-situazioni – l’insicurezza e le conseguenti paure da un lato, la perdita di autorevolezza da parte della scienza dall’altro – costituiscono le basi di quella che molto efficacemente Ulrich Beck ha definito “società del rischio”. Allora, è forse proprio in questo scenario complessivo caratterizzato da un’assenza di solidi ancoraggi di senso che proliferano spiegazioni alternative finalizzate alla comprensione di una realtà percepita, con timore, fuori controllo. Dove non arriva la razionalità forse possono risolvere magiche elucubrazioni onnicomprensive, rassicuranti a modo loro. È questo, in sintesi, il brodo primordiale, quel grande background emotivo nel quale si alimenta – per far fronte alla paura e all’insicurezza che generano angoscia – ogni sorta di cospirazione o di complotto possibile e immaginabile. Alla base del complottismo, insomma, c’è sempre il convincimento che le cose non siano quelle che scaturiscono dalle narrazioni ufficiali. Anzi. È radicata l’idea che esista un’élite, ristretta ma con ramificazioni capillari in tutti i livelli della società e in tutto il globo, che controlla le istituzioni per mantenere saldo il potere nelle sue mani, fabbricando di volta in volta narrazioni per la gente comune in modo che non colga le reali intenzioni né tantomeno sospetti della sua stessa esistenza. L’impressione è che le spiegazioni più evidenti di fatti sociali a qualcuno paiano non essere soddisfacenti; e molto spesso la ragione sta nel fatto che accettarle faccia, in qualche modo, male. Ma ci sono elementi comuni nelle persone che fanno più spesso uso della categoria del complottismo per spiegare a modo loro alcuni fatti che accadono? Intanto va considerato che i sostenitori delle teorie del complotto sono in aumento, e costituiscono una comunità alquanto eterogenea (almeno dal punto di vista delle classiche variabili utilizzate nella ricerca sociale). Una recente indagine su un campione della popolazione francese ha messo in luce alcune caratteristiche volte alla possibile definizione di una sorta di idealtipo di complottista: ma se si esclude una maggiore (comprensibile) propensione da parte di chi ha titolo di studio più basso e una tendenza a subire meno il fascino del complottismo al crescere dell’età, non ci sono molte altre certezze. Anzi. In un’altra ricerca, questa volta riguardante 8 diversi Paesi fra i quali anche Usa e Gran Bretagna, mostra un’interessante relazione fra credenze ai fenomeni soprannaturali e teorie del complotto. I più permeabili alle teorie cospirazioniste sono nella maggioranza dei casi gli stessi che credono che si possa parlare con i morti o che pensano che esistano veggenti, persone in grado di predire l’avvenire. Sono anche quelli più inclini a credere nell’astrologia. L’esistenza della relazione fra credere in spiegazioni non razionali e teorie del complotto è peraltro confermata dai ricercatori del progetto Conspiracy, che è finanziato dall’Agenzia Nazionale della Ricerca francese. I sostenitori delle teorie del complotto costituiscono quindi un gruppo sociale eterogeneo, pur con alcune caratteristiche di omogeneità; sono in aumento, e la loro esistenza è una risposta spontanea in qualche modo non controllata a progressive lacune di carattere comunitario, economico e culturale. Ma c’è di più: qualche ricercatore azzarda l’ipotesi che alla base della tendenza a spiegare gli eventi sociali e storici in termini di segreti e cospirazioni malevole, vi sia una mentalità teleologica, cioè l’idea che sia necessario attribuire un fine ultimo a tutti gli eventi e alle entità naturali. Insomma, quello che a tutti gli effetti è oramai un vuoto istituzionale, genera risposte praticamente del tutto prevedibili, con conseguenze spesso poco entusiasmanti; una risposta incontrollata a un disagio percepito. Il fenomeno non è un compartimento stagno, tutt’altro; risulta essere organico a una frattura molto più marcata, i cui contorni sono sfumati e hanno a che fare con un malessere sociale generalizzato (perché frutto di situazioni anche molto diverse fra loro). Il complottista si sente tale per differenziarsi, non sentendosi organico nella società, e quindi il suo è a tutti gli effetti un tentativo di ricollocamento in un contesto sociale che, finalmente, lo accolga. Ma dove sta il pericolo in comportamenti di questo tipo? Perché il complottismo, in definitiva, può far male? I complottisti non sono pericolosi perché mettono in dubbio. Il dubbio è il fondamento di ogni epistemologia scientifica, e la scienza stessa ha elaborato i propri anticorpi proprio grazie alla falsificazione, al trial & error, e così via. Il vero problema dei complottisti è che mettono in dubbio tutto, disordinatamente, senza metodo né competenze, con un conseguente crollo verticale e inarrestabile di ogni ordine di certezze e autorevolezza. Sullo sfondo, l’etica di una propensione allo sfascio che non lascia spazio ad alcuna ipotesi alternativa di costruzione di solidità. Alla base di tutto ciò, un vizio di fondo della società contemporanea a forte caratterizzazione liberista, che non solo ha alimentato in maniera indiscriminata un’ideologia del narcisismo barattandola con la realizzazione personale ed esistenziale ma anche ha giustificato un modus vivendi fondato sul vittimismo, spesso unica modalità per sentirsi parte di qualcosa di chiaro, definito, incrollabile. In assenza del quale ci si situa, appunto, in narrazioni differenti, nelle quali tornare a sentirsi qualcuno. Ovviamente, la cultura del narcisismo non è necessariamente l’unica strada possibile per l’autorealizzazione. I modelli culturali narcisistici vanno compresi e ridimensionati. Per farlo c’è bisogno della proposizione di modelli alternativi e la risposta migliore a una ideologia imperante dell’individualismo non può che essere quella di una cultura dell’alterità. Che il complottismo fosse un fenomeno radicato e molto pericoloso per l’umanità tutta lo aveva capito, da tempo, anche un pensatore fra i più lucidi, Umberto Eco. Nel 2015, un anno prima di lasciarci, aveva tenuto una lectio magistralis  all’Università degli Studi di Torino dal titolo  ‘Conclusioni sul complotto: da Popper a Dan Brown’. Filosofia della scienza e letteratura assieme, a sostegno di una ricerca di risposte ad uno degli aspetti più controversi della complessità sociale.

·        L’Utopismo.

Il fascino degli utopisti. Esperimenti per una società perfetta. Anna Neima su L'Inkiesta il 9 Ottobre 2021. Il libro di Anna Neima (pubblicato da Bollati Boringhieri) raccoglie storie di gruppi di persone che hanno cercato di costruire comunità nuove regolate da principi diversi. Sono tutti tentativi falliti, ma costituiscono una fonte di idee e di esperienze valide per tutti. Le utopie sono una sorta di sogno sociale. Inventare un mondo «perfetto» – in un romanzo, un manifesto o una comunità vivente – significa mettere a nudo quanto vi è di sbagliato in quello reale. Gli utopisti rifiutano di accontentarsi dei miglioramenti sociali ottenibili con i soliti metodi: la disobbedienza civile, le politiche elettorali, la rivoluzione violenta. Nel corso della storia hanno scelto un approccio ogni volta diverso per articolare la propria visione di società trasformata. I contadini affamati nell’Europa medievale sognavano il paese di Cuccagna, dove le strade erano fatte di pasta dolce, nei fiumi scorrevano miele e vino e le oche arrosto volavano direttamente in bocca ai passanti. Sir Thomas More, di fronte al feroce fanatismo religioso dell’Inghilterra del XVI secolo, si figurò un’isola-nazione dove uomini e donne potessero scegliere la propria fede senza timori, e coniò per essa il termine «utopia». Queste due visioni palesemente diverse erano entrambe modi di immaginare un mondo in cui gli errori dell’epoca venivano corretti: dove non vi erano più carestie o dove l’intolleranza religiosa era impossibile. Entrambe offrono, a uno sguardo odierno, uno spaccato delle ansie e delle speranze dei loro ideatori. More costruì la parola «utopia» su un gioco di parole tra due espressioni greche quasi identiche: ou-topos, «non luogo», ed eu-topos, ossia «buon luogo». Secondo questo uomo di legge nonché politico di epoca rinascimentale, le utopie erano, per definizione, irrealizzabili; fu proprio tale convinzione a indurlo a scrivere il suo libro, una tagliente satira delle manchevolezze della società del tempo. Ma il termine che inventò gli sopravvisse. Più tardi, gli idealisti interpretarono il concetto di utopia non come un’indicazione di impossibilità, ma come una sfida. Si chiesero se le utopie dovessero davvero essere dei «non luoghi». Non poteva esservi un’altra possibilità? Perché non fondare davvero un «buon luogo»? I riformatori sociali cominciarono così a definire i loro insediamenti – nei quali gruppi di idealisti tentavano di concretizzare le proprie aspirazioni sociali in comunità reali – «utopie». Gli esperimenti di utopismo pratico tendono a presentarsi a ondate, solitamente in corrispondenza di periodi segnati da sconvolgimenti culturali e sociali. Il desiderio di staccarsi dalla società e di ricominciare è un modo per porre nuove fondamenta, per mettere alla prova idee poco ortodosse trasformandole in azioni. Una di queste ondate – anche se non certo la prima – si manifestò nel XVI secolo all’interno della Riforma protestante. Pur avendo rifiutato il dogma cattolico, i pensatori protestanti di tutta Europa avevano comunque bisogno di trovare nuove modalità sociali che si adattassero alle loro credenze. Abbandonati la pompa delle cattedrali, i paramenti in seta e l’incenso e le statue dorate dei santi, volevano vivere seguendo la Bibbia alla lettera, praticando un culto non performativo. Oltre a dare origine alle principali sette protestanti, come il luteranesimo, il calvinismo e l’anglicanesimo, la loro ricerca generò anche una serie di movimenti religiosi minori e più radicali, comprese le comunità utopiche cristiane degli hutteriti e dei mennoniti, che vivevano in «colonie» isolate e autosufficienti, rifiutando le comuni norme sociali e dedicandosi alla preghiera. Il XIX secolo vide emergere un’altra ondata di esperimenti, con la fondazione di centinaia di utopie secolari e religiose negli Stati Uniti. A ispirarle furono l’ottimismo e la libertà sociale seguiti alla conquista dell’indipendenza dalla Gran Bretagna. Fra le altre vi erano la comunità trascendentalista di Brook Farm, che ambiva a raggiungere il perfetto equilibrio tra svago, lavoro manuale e attività intellettuale, e le «falangi» costituite dai seguaci del visionario francese Charles Fourier, il quale sperava di inaugurare un nuovo millennio di amore e fratellanza in America. Più di recente, negli anni sessanta e settanta del Novecento, si assistette a una nuova ondata di utopie durante il boom economico che fece seguito alla seconda guerra mondiale. Dalla Kommune 1 di Berlino alla cooperativa Kaliflower di San Francisco, moltissimi giovani diedero vita a comunità che si emancipavano dal conservatorismo sociale dei genitori dandosi all’amore libero, alle politiche di sinistra, alla mescalina e al misticismo. Tuttavia, in pochi momenti della Storia il mondo è stato disseminato di utopie praticate come nei vent’anni intercorsi tra le due guerre mondiali. Buona parte della narrazione dell’epoca è dominata dagli esperimenti sociali su scala nazionale del fascismo e del comunismo, che modificarono drasticamente il paesaggio del mondo moderno. Tali esperimenti si fondavano sulla coercizione: la sorveglianza militare, le purghe, la collettivizzazione e l’oppressione. Eppure, perfino mentre le immagini di Mussolini, Hitler, Lenin e Stalin, circondati da oceani di braccia alzate o pugni serrati, venivano trasmesse dai notiziari di tutto il mondo, e le fabbriche, dal Giappone alla Germania, cominciavano a produrre in serie proiettili ed elmetti d’acciaio, iniziarono a spuntare decine di piccole comunità cooperative votate a un’esistenza utopica. Gli strumenti impiegati da queste comunità per raggiungere i propri obiettivi erano la proprietà condivisa dei beni, modalità decisionali democratiche e un sistema d’istruzione progressista. I loro tentativi di riforma sociale erano sperimentali, idiosincratici e spesso bizzarri: tre ore al giorno di meditazione al buio in una sala di preghiera; serate di danza «psicologicamente rigenerativa»; gruppi di intellettuali dalle mani morbide piegati sulle vanghe ed ex braccianti che imparavano a suonare il violino. Ciononostante, tali luoghi non erano soltanto rifugi per eccentrici in cerca di evasione da un ordine sociale insoddisfacente che non potevano cambiare. Gli idealisti che vi gravitavano intorno si impegnavano a immaginare nuove strutture sociali e a capire che aspetto avrebbe avuto un «buon luogo» nella realtà, cercando di vivere in modo da ispirare una trasformazione anche negli altri. La loro era una visione globale: desideravano migliorare la condizione dell’umanità intera, non soltanto dei propri compagni all’interno della comunità. Pubblicavano libri e riviste, tenevano conferenze pubbliche e attraversavano oceani per piantare i semi del cambiamento. «Il fuoco di un solo fiammifero / è in grado di accendere ogni cosa infiammabile al mondo», scriveva Mushanokōji Saneatsu dal suo villaggio in Giappone. La generazione di idealisti che fondò le comunità utopiche del primo dopoguerra condivideva diverse caratteristiche, malgrado le provenienze geografiche differenti. Un impressionante numero di riformatori aveva subìto gravi perdite personali durante il conflitto e la pandemia. L’inglese Leonard Elmhirst aveva perso due fratelli durante la prima guerra mondiale, a Gallipoli e nella Somme. A Eberhard Arnold, un tedesco, era morto un fratello sul fronte orientale. E l’americana Dorothy Straight era rimasta sola con tre bambini dopo che il marito era deceduto nella pandemia di influenza. Il dolore alimentò la loro determinazione a costruire un mondo migliore in memoria di chi non c’era più. Pur avendo idee diverse su come dovesse essere il «buon luogo», gli utopisti erano in gran parte d’accordo su ciò che rifiutavano, ossia il fatto che le persone all’interno del mercato economico venissero generalmente considerate come a sé stanti e in competizione reciproca. Molti idealisti leggevano e ammiravano gli stessi pensatori radicali del XIX secolo, in particolare William Morris e Lev Tolstoj. Sognavano l’uguaglianza sociale, l’autodeterminazione dell’individuo e una vita autosufficiente basata sul lavoro della terra; così si ritirarono in remote aree rurali per fondare comunità corrispondenti alle proprie aspirazioni. Tuttavia, le utopie praticate in quel primo dopoguerra riflettevano le strutture di potere dell’epoca: erano guidate soprattutto da individui appartenenti alla classe media o alta e tendevano a replicare modalità patriarcali. Per realizzare un’utopia serviva un capitale, che di solito era ereditato o donato ai fondatori da ricchi benefattori che ne sostenevano gli ideali. Era molto più semplice costruire una comunità che rifiutava il sistema capitalistico se qualcun altro vi aveva già a che fare e poteva provvedere ai fondi necessari. I leader di questi gruppi erano per la maggior parte uomini e di rado si rivelavano particolarmente visionari riguardo ai ruoli delle donne. Spesso le idealiste degli inizi del XX secolo si battevano per estendere il suffragio femminile e i propri diritti sociali a livello nazionale, dunque era probabile che, in genere, fossero troppo impegnate a organizzare proteste e a manifestare, passando poi le notti in cella, per potersi staccare dalla società e dare vita a un’utopia. Agli uomini, già sicuri della propria posizione sociale, la decisione di discostarsi dalle convenzioni per creare una comunità offriva invece una gradita possibilità di sperimentare modi diversi di vivere. E benché vi fossero donne in posizioni influenti all’interno delle utopie gestite dagli uomini, poche godevano dei privilegi necessari per fondarne una propria. Vi furono naturalmente eccezioni: per esempio la Panacea Society, una comunità alloggiata in una piccola serie di villette vittoriane nella cittadina di mercato di Bedford e guidata da Mabel Barltrop, la quale era convinta di essere stata mandata da Dio per correggere lo squilibrio di genere nel cosmo e guidare i popoli verso una vita immortale sulla Terra. Altre donne riversarono nei romanzi le proprie idee riguardo a mondi alternativi buoni o anche cattivi: per esempio la società pacifista di sole donne descritta in Herland da Charlotte Perkins Gilman, o la distopia eugenetica evocata da Rose Macaulay in What Not. Le utopie praticate negli anni Venti e Trenta rientravano per lo più in due ampie categorie. La prima tentava di incoraggiare l’autorealizzazione totale della persona mediante l’unione di testa, cuore e mani. Tre delle comunità che racconteremo qui rappresentano esempi di questo filone: Santiniketan-Sriniketan, un centro vivace e cosmopolita che utilizzava l’istruzione per promuovere un’esistenza piena e appagante fra le capanne dai tetti di paglia del Bengala orientale; Dartington Hall, una tenuta nella campagna inglese generosamente rifornita e finanziata dall’ereditiera americana Dorothy Straight, i cui membri univano l’allevamento dei polli alle recite all’aperto e la ricerca spirituale a un’autogestione condivisa; e Atarashiki-Mura, un piccolo collettivo di intellettuali giapponesi squattrinati che coltivavano riso e perseguivano l’autorealizzazione impegnandosi in attività artistiche. Pur essendo luoghi molto diversi, intendevano tutti offrire ai loro membri un’esistenza più completa, che potesse soddisfarli sul piano creativo, intellettuale, sociale e spirituale, oltre che economico. Quegli utopisti non erano interessati a modificare soltanto una particolare area del comportamento umano. Volevano farsi carico dell’individuo per intero e migliorarlo. Credevano che il modo di vivere dei loro contemporanei dovesse essere completamente rivisto. Il secondo tipo di comunità era guidato dalla spiritualità. Molti idealisti temevano che questa dimensione fondamentale della vita umana corresse il rischio di perdersi fra le ambizioni materiali del capitalismo industriale, le scienze empiriche e l’attacco sferrato dagli orrori della guerra e della pandemia a qualsiasi forma di religione e di fede. La loro versione di vita buona prevedeva una rigida adesione a sistemi spirituali che andavano dall’ortodossia cristiana ai nuovi sincretismi tipici dell’epoca. Altre tre comunità di quelle che vedremo riflettono questa forma di utopismo: l’Istituto per lo sviluppo armonioso dell’uomo, una comune bohémienne imperniata su un sistema di «shock» psicologici nelle foreste fuori Parigi; il Bruderhof, una colonia cristiana austera e quasi monastica nella Germania centrale; e il Trabuco College, un gruppo di uomini e di donne che seguivano la «terza morale», un regime di castità, dieta vegetariana e meditazione silenziosa fra i cactus e gli arbusti della California. Le storie di queste utopie non raccontano della copiosa abbondanza, del libero dibattito intellettuale e dei vasi da notte dorati che si trovano in More o nel paese di Cuccagna. Vi compaiono anzi conti in banca vuoti e raccolte di fondi infruttuose; malaria, fame e notti insonni in capanne infestate di zanzare; raccolti di riso mancati, zoccoli umidi e rancorosi battibecchi sui turni per nutrire i maiali. Non sono storie di «successo» o «fallimento». Alla fine, le utopie «falliscono» sempre, almeno nel senso che il «luogo perfetto» non è ancora stato creato sulla Terra, è improbabile che vi compaia a breve e, in ogni caso, è un concetto intrinsecamente soggettivo. Il fascino di ripercorrere le utopie praticate non sta nel fatto che rappresentano soluzioni perfette alla domanda su come vivere, ma nei metodi creativi con i quali rispondevano ai problemi del loro specifico momento storico. Con l’evolversi delle società, si evolvono anche i problemi e, di conseguenza, cambia la visione del «buon luogo», mentre la visione precedente viene messa da parte. Benché le comunità presentate qui fossero spesso di piccole dimensioni, irriducibilmente eccentriche e ignorate anche dai contemporanei, ciò non significa che siano da dimenticare. Incoraggiavano infatti le persone a mettere in discussione lo status quo e a credere che i singoli potessero operare un cambiamento facendo della propria vita un esempio a cui guardare. Le utopie praticate introdussero inoltre una serie di concetti che sarebbero poi stati adottati dalla società intera o che, per lo meno, l’avrebbero influenzata: dall’istruzione incentrata sui bisogni del bambino e l’accesso universale alle arti, fino all’agricoltura a bassa tecnologia, passando per le toilette compostanti e le sessioni quotidiane di meditazione o mindfulness a cui dedicare qualche ora. Sarebbero arrivate a influenzare anche le politiche governative, a ispirare e istruire una nuova generazione di uomini di Stato, studiosi e artisti, fino a rappresentare un modello per la controcultura degli anni sessanta e settanta. Offrirono insomma un’abbondante riserva di insegnamenti a chi aspirava a migliorare la società, e continuano tuttora a farlo. Le comunità instaurate dopo la prima guerra mondiale sono esempi di quella che Aldous Huxley definì «la più difficile e la più importante di tutte le arti: l’arte di vivere insieme in armonia, a beneficio di tutti gli interessati». La loro storia è la storia di un potenziale umano mai realizzato, dei cammini che avremmo potuto intraprendere e che potremmo ancora intraprendere. È la storia di come il mondo possa essere plasmato, anche se soltanto in maniera limitata, da un gruppetto di tipi bizzarri e non proprio ben lavati che tentano di costruirsi insieme una vita nelle campagne; una storia di assurdità, possibilità e speranza. da “Gli utopisti. Sei esperimenti per una società perfetta”, di Anna Neeima, traduzione di Bianca Bertola, Bollati Boringhieri editore, pagine 352, euro 26

·        Il Populismo.

Le ali del populismo. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2021. Non trovate deprecabile che molti notabili siano arrivati a Glasgow per il summit sull’ambiente a bordo di aerei privati inquinanti? Certo, se Biden fosse salito su un volo di linea, sedendosi vicino al finestrino accanto al ragionier Bianchi, i passeggeri si sarebbero lamentati dei ritardi nel decollo dovuti alle misure di sicurezza. E se avesse preso il treno (senza neanche la carrozza-letto, tanto si addormenta ovunque, come si è visto), gli osservatori avrebbero malignato sull’allungamento dei tempi già biblici di un summit convocato per evitare il nuovo diluvio universale. E non oso immaginare che cosa sarebbe successo se un membro del suo staff fosse stato oggetto di un’aggressione durante il viaggio: accuse di dilettantismo e proliferare di complottismo. Non sfugge il valore emblematico di certi gesti, come andare al lavoro in autobus invece che in Ferrari e mangiare all’autogrill anziché in un «tre stelle» Michelin, ma il potente che li compie dà sempre la sensazione di agire per narcisismo, essendo veramente minimo l’impatto positivo del privilegio a cui rinuncia, a fronte dei problemi provocati dalla scelta di ergersi a finto monaco in favore di telecamera. Promemoria per Greta: chi ha danneggiato di più l’ambiente nelle ultime 48 ore? Biden che prende l’Air Force One per andare a tentar di ridurre le emissioni malefiche o Xi Jinping che rimane a casa sua, ma non firma il taglio del metano e aumenta di colpo la produzione del carbone

La sinistra scorda i veri antifascisti. Marco Gervasoni il 3 Novembre 2021 su Il Giornale. «Intimo-vos a renders-vos incondicionalmente». Così il comandante della Força Expedicioniera Brasileira all'esercito della Repubblica sociale e a quello tedesco, il 26 aprile 1945 a Fornovo, a sud di Parma. Fu l'ultima battaglia della Seconda Guerra mondiale da noi, e i brasiliani, alleati di americani e inglesi, con 25mila uomini e 400 caduti, diedero un piccolo ma importante contributo alla Liberazione. Poco più a Sud, in provincia di Pistoia, combatterono anche a fianco delle truppe della Resistenza. L'Italia, e in particolare la sinistra, ne furono riconoscenti: tra Pistoia, Pisa, Bologna e Parma, tutte zone rosse, spesseggiano i cimiteri militari e i monumenti ai brasiliani sacrificatisi per noi. Ci saremmo quindi aspettati, da parte dell'Anpi, del Pd, di Sinistra Italiana, di Rifondazione comunista (pare esista ancora), dei centri sociali, un'accoglienza particolare al presidente del Brasile, Bolsonaro, venuto a commemorare i caduti della libertà (quelli veri, non quelli, peraltro mai caduti, contro un fascismo immaginario). Invece è stata inscenata un'indecorosa gazzarra, un fuggi fuggi delle autorità locali, con uno sgarbo diplomatico non da poco, con il vescovo di Pistoia arringante contro il presidente di una delle nazioni più cattoliche del mondo, e poi la manovalanza dell'antifascismo cosiddetto militante a contestare Bolsonaro, e già che c'erano pure Salvini, venuto ad accoglierlo. Questa pietosa vicenda ci conferma quello che sapevamo: primo, che la sinistra ormai è solo volontà di distruzione del nemico, i cosiddetti valori essendo sono solo un pretesto. Secondo, che se un atto viene compiuto da un nemico della sinistra, esso perde qualsiasi valore. In tal caso il nemico è Bolsonaro, presidente regolarmente eletto di una grande democrazia, che in visita ufficiale andava accolto come tale, non come è stato fatto dalla Regione toscana e dal sottosegretario piddino Bini. Perché odiano Bolsonaro? Non si sa. Perché ha estradato Cesare Battisti? Forse, ma sicuramente perché è «fascista», e perciò è venuto a commemorare gli antifascisti brasiliani. Si capisce che ormai non basta più neppure Flaiano per descriverli, ma ci vuole Ionesco e il teatro dell'assurdo ma forse anche il Paolo Villaggio di Fantozzi. E poi: si chiede alla destra di commemorare la Resistenza. Quando lo fa, è presa a insulti e sassate, perché la Resistenza è «cosa loro». E allora, quest'idea distorta e proprietaria di «Resistenza», la destra la lasci pure alla cosiddetta sinistra. Marco Gervasoni

(ANSA il 30 ottobre 2021) - "Rinunciare al compromesso possibile per sognare la legge impossibile è stata una scelta sbagliata, figlia dell'incapacità politica del Pd e dei 5S". Intervenendo sul fallimento al Senato del ddl Zan, il leader di Iv Matteo Renzi scrive alla Repubblica, accusando i dem di aver "preferito scrivere post indignati sui social anziché scrivere leggi". L'ex premier osserva che è vero che ci sono stati franchi tiratori, e Iv ha contestato la decisione di concedere il voto segreto sul non passaggio agli articoli. "Ma al di là di tutto - aggiunge -, resta il fatto che la legge è fallita per colpa di chi ha fatto male i conti e ha giocato una battaglia di consenso sulla pelle di ragazze e ragazzi". E "additare il Parlamento come il luogo dei cattivi e la piazza come il luogo dei buoni: anche questo è populismo". "Il triste epilogo del disegno di legge Zan divide per l'ennesima volta il campo dei progressisti in due. Da un lato i riformisti, che vogliono le leggi anche accettando i compromessi - spiega il leader di Iv -. Dall'altro i populisti, che piantano bandierine e inseguono gli influencer, senza preoccuparsi del risultato finale. I primi fanno politica, gli altri fanno propaganda. I fatti sono semplici. Il Ddl Zan era a un passo dal traguardo. Sui media, ma anche in Aula nel dibattito del 13 luglio 2021, avevamo chiesto di evitare lo scontro ideologico trovando un accordo sugli articoli legati alla libertà d'opinione e all'identità generale, come richiesto da molte forze sociali e dalle femministe di sinistra". "Non è un caso che l'unica legge a favore della comunità omosessuale mai approvata in Italia sia stata quella delle unioni civili, figlia del compromesso e della scelta di mettere la fiducia fatta dall'allora governo. Fino ad allora e dopo di allora la sinistra preferiva e anche oggi preferisce riempire le piazze, fare i cortei, cullarsi nella convinzione etica di rappresentare i buoni, il popolo, contro i cattivi, il Parlamento. Additare il Parlamento come il luogo dei cattivi e la piazza come il luogo dei buoni: anche questo è populismo". Secondo Renzi, in Italia il centrosinistra "dovrà scegliere se inseguire le parole d'ordine populiste, come la vicenda Zan sembra suggerire o tornare al riformismo".

Roberto D’Agostino per Vanityfair.it il 23 ottobre 2021. La politica non vuole amplessi clandestini. Il sesso sciolto è un handicap. Vale sempre il vecchio motto: meglio comandare che fottere. L'orgasmo è sostituito dal potere. In Italia il primato della virtù (o dell’ipocrisia) fu una delle ragioni dei 4O anni di potere della classe politica democristiana, che, a parte autorevoli eccezioni, è stata prevalentemente casta. I pettegolezzi erano competenza dei servizi segreti che poi li trasformavano in ricatti (vedi la carriera stroncata di Fiorentino Sullo, gigante della DC irpina e nazionale, ma omosessuale). Con Craxi, la svolta del socialismo notte, la trombata decisionista, l'harem del garofano alla De Michelis: si passò da "L'orgia del potere" al "Potere con l'orgia". Eppure mai fu scritto un rigo. Per anni, solo peccati di omissione a mezzo stampa. Anche se Moana Pozzi dà i voti alle perfomance di Craxi, silenzio. Poi, quando Bettino era più morto che vivo, ecco apparire Anja Pieroni sulle copertine dei settimanali mezza nuda. E giù piccanti allusioni alla relazione con il Cinghialone. Infine, Sandra Milo introduce in Italia il genere letterario delle confessioni d'alcova a sfondo politico, la politica delle mutande, sia pure alla memoria. I tempi cambiano: dal sesso proporzionale (il politico gode e tace) al sesso maggioritario (il politico gode e racconta). Alla faccia del bacchettonismo democristiano, alle spalle della "glande-stinità" socialista, irrompe la volontà di esternare - politicamente - una scelta di campo erotica. Così, nel 1991 lo spirito infedele di Bossi pensò bene di proporre come slogan politico lo stato di erezione. "La Lega ce l'ha duro", durissimo, chilometrico; armato di "manico" è lui, Bossi, Membro Kid. Da una parte. Dall’altra, la signorina Rosy Bindi ammetteva la sua verginità, fatto privatissimo che diventa un pubblico messaggio di virtù. Lo spirito del tempo cambia, di nuovo. Oggi, quello che è certo è che le marachelle sessuali sono sempre di più diventate il lato debole dell'uomo di potere, l’arma politica preferita per far fuori il nemico. Bill Clinton, appena accennò alla riforma della sanità americana (che penalizzava le potentissime società assicurative), tirarono fuori dal cassetto i suoi rapporti “orali” con Monica Lewinski, e la riforma morì. Le “cene eleganti” con Bunga Bunga di olgettine hanno bruciato il berlusconismo senza limitismo. Oggi è tutto un parlare della doppia morale di Luca Morisi, la ‘’Bestia’’ social che ha decretato il successo della Lega di Salvini. Con la sua frangetta da chierichetto, s’avanza uno di quei leghisti che, secondo il libro del senatore Zan, sono “machi” omofobi a Roma ma baciano uomini a Mykonos. Fa scalpore le due facce della “Bestia”: quella pubblica (insulti e calunnie sessisti sui social, gogne e demonizzazioni in Rete per immigrati e spacciatori, campagne di ineguagliabile violenza: "Se avessi un figlio gay lo brucerei nel forno") e quella privata (festini nel cascinale veneto con immigrati rumeni da scopare con cocaina e Ghb, la “droga dello stupro”). Da notare infine la differenza: quando a delinquere è un poveraccio è solo un “tossico”, quando sbuca Luca Morisi, insaziabile killer da tastiera, gli orchi si fanno pecore: si scrive di “fragilità esistenziali” e lo spaccio diventa ‘’cessione’’. Amorale della doppia morale: a volte basta un'erezione (sbagliata) per distruggere un partito.

Mattia Feltri per "La Stampa" il 12 ottobre 2021. «Dovreste baciarci per le strade, è grazie a questi ragazzi disadattati se non è arrivato il fascismo». Roba del genere Beppe Grillo l'ha ripetuta spesso - questa è del 2016 - e per una volta ci aveva visto giusto. Il pessimo dei cinque stelle è di aver eccitato il malcontento e di averlo innalzato con campagne surreali a quote virulente; il buono è di averlo sottratto alla furia delle piazze per inscatolarlo dentro un unico coso, il Movimento, capace di contenere e disarmare ogni rabbia, ogni frustrazione, ogni psicosi. Poi però i ragazzi disadattati, cioè gli eletti, sono andati a sbattere contro la realtà. Carlo Sibilia, per esempio, il sottosegretario all'Interno, quello convinto che l'uomo non è mai sbarcato sulla Luna: quattro anni fa diede della matta a Beatrice Lorenzin poiché imponeva le vaccinazioni ai bambini, oggi dà del matto a chi ammicca ai no vax. Bravo Sibilia: un piccolo passo per un uomo, un grande passo per l'umanità. Ma ora che i ragazzi disadattati hanno messo un po' di sale in zucca, e qui e là cominciano a parlare come altri esseri senzienti. Adesso si avvera la profezia di Grillo, gli arrabbiati lo mollano e in mancanza di meglio un tantino di fascismo a cui mettersi alla coda lo hanno trovato. Dunque a sinistra si può esultare per le vittorie nelle città, e trascurare che sono arrivate per l'astensione delle periferie, e si può pure sciogliere Forza Nuova, a questo punto cosa buona e giusta. Ma sarà soltanto illusione: il rapporto fra le classi dirigenti e un pezzo di popolo sì è guastato da molto tempo, e non lo si aggiusterà riducendo tutto a fascismo. 

Autobiografia della nazione. Fascisti, imbecilli e il medesimo disegno populista di Meloni, Salvini e Grillo. Christian Rocca su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. La battaglia contro la violenza politica è urgente e necessaria. Va bene fermare i responsabili, ma non si possono trascurare le evidenti pulsioni antidemocratiche dentro le istituzioni. Resta un mistero perché i leader delle tre forze parlamentari meno repubblicane non se ne rendano conto. Sono complici o solo incapaci? I fascisti e gli imbecilli ci sono, ci sono sempre stati, adorano farsi notare, anche se raramente sono stati così visibili e rumorosi come nell’era dell’ingegnerizzazione algoritmica della stupidità di massa. I fascisti e gli imbecilli si fanno sentire sia in remoto sia in presenza, all’assalto della Cgil, nei cortei no mask, no vax, no greenpass e contro la casta, ma anche in televisione e in tre delle quattro forze politiche maggiori del paese. In termini di adesione ai principi fascisti e dell’imbecillità, non c’è alcuna differenza tra le piazze grilline e quelle dei forconi, tra i seguaci del generale Pappalardo e i neo, ex, post camerati della Meloni, tra i baluba di Pontida e i patrioti del Barone nero, tra i vaffanculo di Casaleggio e i gilet gialli di Di Maio, tra i seguaci di Orbán e quelli di Vox, tra i mozzorecchi di Bonafede e i giustizialisti quotidiani, tra i talk show complici dell’incenerimento del dibattito pubblico e gli intellettuali e i politici illusi di poter romanizzare i barbari. Si tratta del medesimo disegno populista a insaputa degli stessi protagonisti, alimentato dagli agenti internazionali del caos, facilitato dal declino americano e semplificato da una classe dirigente politica mediocre e senza scrupoli.

Negli anni Ottanta, Marco Pannella ha aperto i microfoni di Radio Radicale a chiunque avesse voglia di dire qualcosa e il risultato è stato Radio Parolaccia, una versione impresentabile dello Speaker’s corner di Hyde Park. Alla radio non sentimmo soltanto dei logorroici fuori di testa parlare di qualsiasi cosa, ma anche i portatori patologici di rabbia e risentimento, di spinte autoritarie e di nostalgie del Ventennio. Con la rivoluzione giudiziaria del 1993 e con l’idea che il sospetto fosse l’anticamera della verità, quella rabbia e quel risentimento sono diventati opinione corrente e siamo entrati nella fase embrionale dell’attuale stagione populista e antipolitica. In questi ultimi dieci anni di populismo ne abbiamo viste di ogni tipo, come neanche in un film dell’orrore, con personaggi improbabili assurti a statisti e con neo, ex e post fascisti risuscitati ma non come ai tempi in cui Berlusconi li aveva «sdoganati» dopo averli ripuliti facendogli rinnegare il fascismo, abbandonare i simboli nostalgici e omaggiare la cultura e la tradizione politica e religiosa ebraica. Adesso non c’è più bisogno di trucco e parrucco, la destra ha perso quella sottilissima patina liberale e conservatrice, libertaria in alcuni casi, ed è tornata nazionalista, reazionaria e autoritaria. La fiamma tricolore ha ripreso a scaldare i cuori e le spranghe dei militanti, lo sputtanamento è diventata la regola principale della politica e altre dottrine manganellatrici digitali si sono aggiunte a metodi più oliati e tradizionali. Giusto chiedere adesso lo scioglimento di Forza Nuova e di Casa Pound per il  tentativo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, anche se non c’era bisogno di aspettare l’inizio di ottobre del 2021 per accorgersene. Ma non si possono considerare diversi o legittimi quei partiti presenti in Parlamento che invocano Mussolini, che si radunano con i saluti romani, che ammiccano alla marcia su Roma, che millantano di essere pronti ad aprire il Parlamento come una scatoletta del tonno, che diffondono fake news dei Savi di Trump e di Putin, che schierano la navi militari per impedire di salvare i naufraghi in mare, che si fanno dettare gli interessi nazionali da regimi autoritari non alleati, che invocano soluzioni liberticide, che pensano di lucrare politicamente sull’emergenza sanitaria, che parteggiano per il disfacimento delle istituzioni europee, che professano il superamento della democrazia rappresentativa. La battaglia contro i vecchi e i nuovi fascismi è urgente e necessaria. È una battaglia globale e non solo italiana, la vittoria di Joe Biden è stata una condizione necessaria ma non sufficiente e non basta scrivere «antifa» nella bio di Twitter per depotenziare le spinte fasciste.

Sciogliere tutte le organizzazioni antidemocratiche di vecchio e nuovo conio è auspicabile ma non è possibile, va bene cominciare con quelle più violente, ma sarebbe sufficiente intanto non legittimare chi democratico non è ed evitare che i gruppi neo fascisti si possano infiltrare nelle proteste contro i green pass per manipolare i fessi e amplificare le proprie adunate. Resta un grande mistero perché Giorgia Meloni continui ad ammiccare ai nostalgici del Duce e a omaggiare i nemici strategici dell’Italia e dell’Europa, così come perché i grillini non prendano le distanze dai no Vax e dagli antisemiti che hanno portato in Parlamento e perché Matteo Salvini non colga l’occasione di Draghi al governo per trasformare il centrodestra in una coalizione europea, presentabile, votabile. 

Una spiegazione è che si trovino a loro agio a riscrivere in eterno l’autobiografia fascista della nazione, un’altra è che siano semplicemente delle schiappe.  

 Dagospia il 12 ottobre 2021. Da radioradio.it. L’autunno caldo sembra essere arrivato, ma a una certa corrente politico-mediatica non fa di certo piacere. Cittadini, lavoratori, persone di ogni fascia sociale scendono in piazza contro imposizioni e restrizioni del Governo Draghi, Green Pass in primis. Le proteste che vanno avanti da questa estate fanno sempre più rumore, anche se il grido di rabbia del popolo resta inascoltato a causa di un ristretto gruppo di estremisti infiltrati tra i manifestanti. Quello di sabato scorso partito da Piazza del Popolo a Roma è stato solo l’ultimo atto di una rivolta di migliaia di persone diventata presto una rappresaglia di altra natura. Il risultato, ancora una volta, è stato riaccendere l’allarme eterno di un ritorno del fascismo. Tra chi ritiene sbagliato ridurre a ciò la portata delle recenti sommosse c’è anche il giornalista Massimo Fini, che ne ha parlato ai microfoni di Francesco Vergovich a Un Giorno Speciale. Queste le sue parole. 

 “Questa è una democrazia malata”

“Ogni idea in democrazia ha diritto di esistere a meno che non si faccia valere con la violenza. Sarebbe riduttivo pensare che non ci sia un malcontento e una diffidenza nei confronti della democrazia. Lo dice il 48% di astensione. Non posso pensare che siano tutti degli eversivi. I partiti dovrebbero ragionare sul dato dell’astensione e sulla diffidenza di molti sul sistema democratico-partitocratico. Questo sistema è malato, una partitocrazia. Si sbaglierebbe se si dicesse che è solo un fenomeno fascista, ma è qualcosa di più diffuso. Molti cittadini non si sentono più rappresentanti. Sono contrario allo scioglimento di Forza Nuova, ogni idea deve poter esistere purché non si faccia valere con la violenza. Quelli che hanno assaltato la CGIL o la Polizia devono andare in prigione. La stampa racconta malissimo. Il dato più impressionante era l’astensione, hanno perso tutti“. 

“È stato creato un clima di terrore”

“Per quanto riguarda l’epidemia hanno fatto un terrorismo costante e continuo. Se ogni giorni ti parlano dell’epidemia e dei morti, hai una reazione di rigetto. È stato creato un clima di terrore. La stampa ha assecondato il peggiore allarmismo. Sull’Afghanistan hanno detto solo balle per esempio. C’è una miopia della classe politica e della stampa che spesso è a servizio della prima invece di svolgere una funzione di critica. L’uso sistematico del termine fascismo è controproducente. Se tu ogni giorno ne parli ha un effetto contrapposto, sono strumentalizzazioni“.

“Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo”

“Puoi fare una legge per l’obbligo del vaccino, ma non puoi non proibire formalmente la scelta opposta e poi renderlo obbligatorio, questo irrita moltissimo. Dovevano avere il coraggio di dire che il vaccino era obbligatorio per legge. Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo, a ciò che è fatto in modo subdolo. Il farlo in forma obliqua lo rende iniquo“.

Pappalardo non è più generale: tolti i gradi al leader dei «Gilet arancioni». Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 27 settembre 2021. Per il ministero della Difesa il capofila del movimento (oggi tra le principali voci no vax) avrebbe portato discredito alle forze dell’ordine. La sua replica: «È un abuso, chiederò due milioni di euro per i danni». Il ministero della Difesa ha revocato con provvedimento amministrativo il grado di generale dei carabinieri ad Antonio Pappalardo. «Leader» dei gilet arancioni, già deputato nelle fila dei Socialdemocratici tra il 1992 e il 1994, per qualche tempo sottosegretario alle finanze del governo Ciampi, oggi è diventato una tra le voci più seguite del mondo no-vax. E proprio a queste ragioni sarebbe legato il provvedimento della Difesa, secondo cui avrebbe violato i doveri discendenti dal giuramento e portato discredito sulle forze dell’ordine durante la fase pandemica. Pappalardo ha iniziato ad assumere un ruolo «politico» ai tempi delle proteste dei cosiddetti forconi, parte dei quali l’ha seguito dopo le manifestazioni in strada. Le sue lotte e le sue «performance»si sono trascinate da anni, sono state filmate e divenute virali sul web, con i suoi simbolici provvedimento di «arresto» comminati agli esponenti politici di ogni forza e schieramento accusati di far parte dei «governi non eletti dal popolo». Numerose le sue partecipazioni a programmi radiofonici e talora televisivi, sui social vanta migliaia di follower. La reazione di Pappalardo non si è fatta attendere. «Un abuso»: così il leader dei Gilet arancioni ha commentato all’Adnkronos il provvedimento, annunciando battaglia: «Mi hanno notificato comportamenti che riguardano la mia attività politica, io sono presidente di un movimento politico e ho parlato davanti a tutti nel corso di manifestazioni pubbliche». «Da anni mi perseguitano», ha sottolineato l’alto ufficiale, annunciando di essersi già rivolto ai suoi legali: «Presenterò una denuncia e chiederò in nome e per conto del movimento due milioni di euro di danni». Pappalardo afferma che il provvedimento gli è stato notificato dopo che «sabato abbiamo fatto una manifestazione a Milano e poi ho consegnato a un vicequestore un verbale di arresto nei confronti di Mattarella, Draghi, governanti e parlamentari per usurpazione del potere politico, visto che Mattarella è stato eletto da parlamentari non convalidati». «Stiamo ricevendo - sostiene Pappalardo - centinaia di dichiarazioni di persone che ci dicono che si sono vaccinate anche se non volevano, costrette perché non potevano perdere il posto di lavoro». «Mi hanno notificato l’atto di rimozione commettendo un abuso», continua Pappalardo spiegando che gli sono stati tolti i gradi nonostante «il Tar del Lazio avesse già annullato, su mio ricorso, la sanzione della sospensione disciplinare dalle funzioni del grado».

Antonio Pappalardo, addio gradi? Clamoroso, come campa oggi l'ex generale: l'indiscrezione di Dagospia. Libero Quotidiano il 28 settembre 2021. Addio gradi per l’ex generale dei carabinieri Antonio Pappalardo. Le sue condotte, l'ultima quella contro l'espediente coronavirus, hanno costretto il ministero della Difesa a provvedere. Sanzionate dunque le sue condotte reputate incompatibili con gli obblighi e il prestigio dei Carabinieri e delle forze armate. Da anni Pappalardo ha tentato la via politica, l'ultimo obiettivo farsi eleggere governatore dell’Umbria. Un'iniziativa che si è rivelata un vero e proprio buco nell'acqua visto che ha raccolto poco più di 500 voti. Qualche risultato l'ha ottenuto - come ricorda Dagospia - nel 1992, quando viene eletto deputato nelle liste del partito socialdemocratico nel collegio di Roma e, nel 1993, sottosegretario alle Finanze. L'esperienza non dura molto perché è costretto alle dimissioni dopo una condanna per diffamazione ai danni del comandante generale dei carabinieri Antonio Viesti. Ma è nel 2016 che Pappalardo guida il "Movimento dei forconi" e successivamente fonda i "gilet arancioni" con la speranza di imitare i "gilet gialli" francesi. Tra le sue battaglie quella contro il "regime comunista" di cui l’Italia sarebbe preda e quella a favore di "stampare moneta", ma anche quella in sostegno dei no-vax. D'altronde per l'ex militare il Covid altro non sarebbe che un modo per "tenere il popolo agli arresti domiciliari". E a chi non ci crede, Pappalardo porta sempre un esempio: "Un mio amico di Bergamo ha avuto i sintomi ed è guarito facendo yoga, perché l’uomo è fatto di fisico ma anche di mente". A questo punto a Pappalardo non resta che tentare un ricorso contro il provvedimento. Gli esiti però sono tutt'altro che certi.

Il generale Antonio Pappalardo non è più generale. Samuele Damilano su L'Espresso il 27 settembre 2021. La trovata di depositare un verbale d’arresto nei confronti degli «usurpatori» Draghi e Mattarella gli è costata la sospensione del grado. Ma, sostiene in ogni caso, «il popolo sovrano sconfiggerà la dittatura». L’ennesima offesa alle istituzioni dello Stato è costata cara ad Antonio Pappalardo: per lui è infatti scattata la rimozione del grado di generale. «Mario Draghi, Sergio Mattarella, parlamentari e ministri: siete estorsori, usurpatori, vi veniamo ad arrestare», sbraita in una diretta sul suo profilo Facebook in cui chiede ai suoi amici di non chiamarlo più con il suo ex grado in quanto “gli usurpatori” sono dotati di microspie e registratori in grado di captare ogni minima deviazione alla loro linea dittatoriale. Dopo la sospensione della vicequestore Schirilò alla manifestazione contro il Green pass, «il marchio della discriminazione», Pappalardo ha notificato un verbale d’arresto al comando provinciale dei carabinieri di Milano, nei confronti di Mattarella, Draghi, ministri e parlamentari. «Perché sono abusivi e alcuni di loro estorsori. Abbiamo ricevuto lamentele da una cinquantina di persone, costrette a vaccinarsi pur di non perdere il lavoro. Questa a casa mia si chiama estorsione aggravata», sostiene nel video. Il ministero della Difesa però non è rimasto impassibile, e lo ha rimosso dal suo grado. Dopo che già tre anni fa la Direzione generale per il personale militare dello stesso ministero - prima che il Tar, come ci tiene a ricordare lo stesso Pappalardo, annullasse l’atto - aveva provato a sospenderlo dalle sue funzioni. E nel 2019 era stato rinviato a giudizio con l’accusa di vilipendio nei confronti di Mattarella. Pappalardo ha già annunciato un tour tra Procura di Roma e Parlamento europeo, dove proverà a far valere le sue rimostranze. E il 20 ottobre, conclude perentorio, «li andiamo ad arrestare». Dagonews il 27 settembre 2021. Il generale Pappalardo ha perso i gradi! Al leader dei "gilet arancioni" e' stato notificato un provvedimento del ministero della Difesa ("perdita del grado per rimozione") che lo priva dei gradi da generale per motivi disciplinari. Sono state sanzionate le sue condotte da capopopolo, ritenute incompatibili con gli obblighi e il prestigio dei Carabinieri e delle forze armate. Pappalardo potrà fare ricorso contro il provvedimento. Ma chissà se, nel frattempo, userà il gilet arancione per reinventarsi parcheggiatore... 

Claudio Del Frate per corriere.it del 30 maggio 2020. L’uomo che ha portato in piazza i «gilet arancioni» disobbedendo a tutte le regole di distanziamento sociale, viene dalla prima Repubblica: sostiene che il coronavirus è un grande inganno che si può curare con lo yoga, vuole tornare alla lira ed è a processo per vilipendio al capo dello Stato. L’ex generale dei carabinieri Antonio Pappalardo, palermitano classe 1946, da anni cerca di ritagliarsi visibilità sul proscenio della politica italiana grazie a sortite di varia natura e riscontri elettorali non all’altezza dei suoi roboanti proclami: l’ultimo, un tentativo di farsi eleggere governatore dell’Umbria, con il quale ha raccolto poco più di 500 voti.

Sottosegretario con il Psdi

Ufficiale di carriera all’interno dell’Arma, Pappalardo transita dalle stellette alla grisaglia del politico nel 1992, quando viene eletto deputato nelle liste del partito socialdemocratico nel collegio di Roma. Nel crepuscolo della Prima Repubblica riesce ad arrivare a ricoprire anche la carica di sottosegretario alle finanze nel governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi (maggio 1993). Quello risulterà anche lo zenith della sua parabola politica anche perché è costretto alle dimissioni dopo una condanna per diffamazione ai danni del comandante generale dei carabinieri Antonio Viesti. Da lì in avanti l'ex generale passa in rapida successione per il Patto di Mariotto Segni, Alleanza Nazionale, il Movimento per le Autonomie dell’allora governatore della Sicilia Raffaele Lombardo, per poi tornare al Psdi. Lesto a posizionarsi e ad assecondare ogni vento di protesta ma senza mai centrare l’obiettivo di un’elezione.

Alla testa dei forconi

A partire dal 2016 Antonio Pappalardo si mette alla testa del cosiddetto «Movimento dei forconi» (o «Movimento di liberazione dell’Italia») facendosi notare per le sue intemperanze. Pretende di andare al Quirinale a notificare a Mattarella un ordine di arresto «in nome del popolo italiano» ritenendo abusiva la sua azione di presidente (e rimedia un rinvio a giudizio per vilipendio al Capo dello Stato). Fonda poi i «gilet arancioni» variante cromatica con la quale spera di imitare i «gilet gialli» francesi. di Nei suoi incendiari discorsi in piazza o sui social si scaglia contro il «regime comunista» di cui l’Italia sarebbe preda, proclama di voler «stampare moneta», contro i partiti e a favore del «popolo italiano», si schiera con i no vax. Ultima sua battaglia è quella contro il coronavirus, o meglio quella che l’ex militare ritiene un espediente che serve solo «a tenere il popolo agli arresti domiciliari». La dimostrazione? «Un mio amico di Bergamo ha avuto i sintomi ed è guarito facendo yoga, perché l’uomo è fatto di fisico ma anche di mente».

I nostalgici con falce e martello. Francesco Maria Del Vigo il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. All'armi son comunisti. E sono tanti. Più di quello che ci si potrebbe immaginare. Basta dare un'occhiata alle liste dei candidati dei principali comuni al voto. All'armi son comunisti. E sono tanti. Più di quello che ci si potrebbe immaginare. Basta dare un'occhiata alle liste dei candidati dei principali comuni al voto: è tutto un fiorire di falci e martelli sulle schede elettorali. Nonostante negli ultimi giorni sotto i riflettori della stampa sia finita la presunta galassia nera, c'è un'intera costellazione rossa che, sotto molteplici insegne, corre per avere un posto in consiglio comunale. Tutto assolutamente legittimo e legale, ma nel 2021 a cento anni dalla fondazione del Pci (quello originale, non uno degli attuali tarocchi) e a più di centocinquant'anni dal primo volume del Capitale tutto questo proliferare di compagni è quantomeno naïve. A Milano i partiti che esibiscono la falce e il martello nel loro simbolo sono addirittura tre. E mica corrono insieme, bensì uno contro l'altro armati. D'altronde si sa, ogni qualvolta s'incalza un nipotino di Marx sui crimini commessi da quell'ideologia in Unione Sovietica o in Cina, lui risponde serafico: «No, ma quello è un altro comunismo». È la moltiplicazione delle falci e dei martelli, il marxismo à la carte, la diaspora dei compagni. Perché il comunismo cattivo è sempre quello altrui e, quando si chiede loro di indicarci quello buono, incredibilmente, non riescono mai a trovare un valido esempio in tutto l'orbe terracqueo. Stalin, Mao e Fidel sono sempre compagni che sbagliano. Quelli che non sbagliano, al momento, sono irreperibili. Torniamo a Milano e alle sue liste: il Partito Comunista, il Pci e il Partito Comunista dei lavoratori. Solo Torino riesce a offrire una scelta più ampia ai suoi cittadini: ai tre simboli presenti nel capoluogo lombardo si aggiunge anche Sinistra Comune. A dire il vero c'è anche Potere al popolo, che non ha la falce e il martello nel simbolo, ma abbiamo buone ragioni di pensare che non sia un covo di moderati e liberali. Gli elettori di Roma e Bologna sono decisamente più sfortunati: compaiono solo due partiti comunisti su ogni scheda elettorale. Insomma, nonostante l'allerta sempre altissima per il ritorno delle formazioni di estrema destra, quelle di estrema sinistra sembrano godere di ottima salute ed essere iperattive nella vita democratica dello Stivale. Il proliferare di tutti questi simboli oramai viene derubricato come folklore politico. E va bene così, non ci sono, per fortuna, armate rosse alle porte delle nostre città e il marxismo è stato già ampiamente sconfitto dalla storia, prima ancora che nelle urne. Però vale la pena ricordare la storica risoluzione europea del 19 settembre del 2019, quella che equipara il nazismo al comunismo perché, dietro quel simbolo che oggi è poco più che una carnevalata, c'è una ideologia criminale e, dietro quell'ideologia, qualche milione di morti.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

«Populismo classista». La maleducazione della sardina con infondata autostima e la dittatura del caruccismo. Guia Soncini su L'Inkiesta il 9 Ottobre 2021. È un ottimo momento per approfittarsene, se sei una donna. Come ha fatto una giovane biondina a Piazzapulita che borbottava costantemente impedendo a un maschio di rispondere a una domanda che lei stessa gli aveva fatto. Pronostico per lei un ruolo da ministro entro cinque anni. È un ottimo momento per approfittartene, se sei una donna. Ci pensavo giovedì sera, mentre una biondina con infondata autostima (e quindi sardina, movimento politico d’elezione dei biondini con inspiegabile autostima) borbottava costantemente impedendo a un maschio di rispondere a una domanda che lei stessa gli aveva fatto. Il conduttore provava a dirle di lasciar replicare l’altro ospite, ma non poteva sbottare «ahò, e basta un po’» come avrebbe plausibilmente fatto con un uomo altrettanto maleducato: a una donna «stai zitta» non lo puoi dire, sennò diventi protagonista d’un bestseller sul (tuo) maschilismo. In C’eravamo tanto amati, un film del 1974, Giovanna Ralli interpretava l’ereditiera cessa di cui s’innamorava Vittorio Gassman. Era un’ignorante che tentava di sembrare colta, che diceva di non poter mangiare «idrocarburi» intendendo «carboidrati», che trovava «molto tosto» il romanzo suggeritole da Gassman (I tre moschettieri), che si compiaceva del suo ruolo di spettatrice di Antonioni e lettrice forte («Si vede che non hai letto il Siddharta»). Oggi quel personaggio lì non potrebbe che essere interpretato da una belloccia, perché non esistono più figlie di ricchi coi dentoni e gli occhiali dalle lenti spesse, perché al cinema e nei talk show vige la dittatura del caruccismo. E infatti la biondina è assai caruccia, e neanche ti viene da infierire quando dice all’interlocutore che il suo è un «populismo classista», e perché non un’acqua asciutta, ragazza mia. («Populismo» ha superato «radical chic» nella classifica delle parole che vorrebbero dire tutt’altro e vengono ormai usate come un generico segno di disprezzo dell’interlocutore). La biondina è belloccia, dice cose a caso, e probabilmente non mangia idrocarburi. Pronostico per lei un ruolo da ministro entro cinque anni. È un ottimo momento per approfittarsene, con la scusa delle donne. La scuola cattolica, film sul delitto del Circeo tratto dal romanzo di Edoardo Albinati, esce al cinema vietato ai minori di 18 anni. Ha senso vietare ai minori un luogo – il cinema – dove è probabile entrino quanto in una balera e in una cabina telefonica? A quei minori che hanno YouPorn sul cellulare e possono vedere ben di peggio senza pagare il biglietto? Probabilmente no, ma sottolineare l’insensatezza del «vietato ai minori» nel 2021 sarebbe una scelta meno furba di quella fatta dai distributori. Che hanno comprato pagine pubblicitarie sui quotidiani e, sulla locandina del film, hanno stampato a caratteri cubitali «CENSURATO IL FILM CHE DENUNCIA LA VIOLENZA SULLE DONNE». È un ottimo momento per il ricatto dialettico: se metti il divieto ai diciotto, sei a favore della violenza sulle donne. (Ho il sospetto che, a parte gli stupratori, siamo un po’ tutti contrari alla violenza sulle donne; ho altresì il sospetto che gli stupratori non verranno rieducati da un film, non più di quanto i guidatori spericolati siano stati rieducati dal Sorpasso e i rapinatori da Die Hard). Ma hanno ragione loro, «Non vogliamo abolire il criterio per cui uno stupro dev’essere vietato ai minori: vogliamo una deroga per lo stupro inserito in uno storytelling educativo» è una richiesta senz’altro sensata. È un ottimo momento per approfittarsene, se sei una buona che prospera grazie ai cattivi. Sulla copertina dell’edizione italiana di Vogue c’è Chiara Ferragni, intervistata (per così dire) da Michela Murgia. La direttrice di Vogue l’altro giorno ha giustamente approfittato del non funzionamento per mezza giornata di Instagram per dire che nell’intervista la bionda e la mora avrebbero affrontato anche quel tema: dove sarebbe Chiara Ferragni senza Instagram. In realtà nell’intervista – nella quale come sempre Chiara Ferragni non dice assolutamente niente: non è mai il momento giusto perché i giornali italiani la smettano d’avere ipertrofica fiducia nel formato-intervista e chiedano agli scrittori di farsi venire loro un’idea e di ritrarre un personaggio il cui mestiere non sono le parole, invece di chiedergli di inefficacemente raccontarsi – la domanda è cosa farebbe la Ferragni se Zuckerberg le togliesse l’account come l’ha tolto a Trump; e la risposta è che non succederà mai, perché lei è una dei buoni, mica usa la piattaforma come la usava quel cattivone di Trump. In contemporanea Time ha una copertina in cui al faccione di Zuckerberg si sovrappone la finestra che ci chiede conferma quando stiamo per cancellare un’app: siamo sicuri di voler eliminare Facebook? Se Zuckerberg fosse una donna, chissà se potremmo indicarlo con tanta disinvoltura come simbolo di tutti i mali, o se finirebbe come giovedì sera in tv, con la sardina che dice che le critiche alla Raggi sono sessiste perché la criticano come persona (e la personalizzazione della politica e quindi del discorso attorno a essa è una cosa che mai mai mai avviene coi maschi, da Berlusconi a Trump, da Renzi a Sarkozy). E se Zuckerberg l’avesse fatto apposta? Se il blackout dell’altro giorno fosse stato non un imprevisto ma un monito? Guardate come sarebbero le vostre giornate senza poter mandare vocali ai vostri flirt, senza poter guardare in diretta le giornate della Ferragni, senza poter condividere i più imbarazzanti momenti dei talk politici. Se non fosse stato un malfunzionamento ma il modo in cui Mark ci annaoxeggia che, senza di lui, la vita sa di fumo e di malinconia, e per distrarci finisce che ci tocca persino andare al cinema? Non m’ero mai accorta, prima del blackout, che Mark fosse l’innominato protagonista di quella canzone, quello che sa che «sarebbe inutile parlare ancora dei problemi miei», e infatti i social di Mark sanno che vogliamo solo fotografare pizze, «così mi chiedi se ho mangiato o no». Non m’ero mai accorta che il Festivalbar dell’83 avesse previsto i social, e i problemi nostri di donne e di fotografatrici di tramonti sul Tevere («senza di te cosa si fa nei pomeriggi troppo blu»). Scusaci, Mark. Pensavamo che i problemi fossero il maschilismo, il populismo, il sovranismo. E invece il problema è che, senza di te, libertà è il nome d’una bugia.

L’erba voglio e la società dell’obbligo. Marcello Veneziani, La Verità (17 settembre 2021). Indovina indovinello, cosa mancava all’appello e alla filiera dopo i diritti omo-trans, l’utero in affitto, le applicazioni gender, l’aborto, l’eutanasia, lo ius soli? Ma la droga, perbacco. Mancava un grano al rosario progressista della sinistra, e in particolare al Pd che è un partito radicale a scoppio ritardato; e puntualmente è arrivato a colpi di firme sulla cannabis. Riciccia per l’ennesima volta la battaglia per la sua legalizzazione, ora in forma di referendum. Una proposta proteiforme e reiterata che si modifica di volta in volta secondo le circostanze e le opportunità del momento, ponendo l’accento ora su uno ora su un altro aspetto. Stavolta l’ariete per sfondare la linea è la coltivazione di canapa o marijuana a scopo terapeutico. Chi è così disumano da opporsi al caso limite di un malato che usa la droga e se la fa crescere in giardino per lenire le sue sofferenze e curare i suoi mali? Poi sotto la pancia delle greggi, come fece Ulisse con Polifemo, passa di tutto: non solo leggi per malati e sofferenti e ben oltre le rigorose prescrizioni e certificazioni mediche sull’uso terapeutico di alcune sostanze o erbe. Curioso questo paese che non consente i minimi margini di libertà e di dissenso nelle cure e nei vaccini per il covid, anzi perseguita e vitupera chi non si allinea e poi permette che ciascuno sia imprenditore farmaceutico di se stesso e si fabbrichi e si coltivi la sua terapia lenitiva direttamente a casa sua… L’autoritarismo vaccinale si trasforma in autarchia terapeutica se di mezzo c’è la cannabis. È il green pass al contrario: il pass per consumare green, cioè erbe “proibite”. Ma non è di questa ennesima battaglia, a cui ci siamo già più volte dedicati in passato, che vorrei parlarvi; bensì di quella filiera, di quel presepe di leggi, referendum e diritti civili di cui fa parte e che compone un mosaico dai tratti ben precisi. Ogni volta ci fanno vedere solo un singolo caso di un singolo problema portato all’estremo e noi dobbiamo pronunciarci come se fosse un fatto a sé, o un caso umano, indipendente dal contesto. E invece bisogna osservarli tutti insieme, perché solo così si compone la strategia e l’ideologia e prende corpo il disegno che ne costituisce il motivo ispiratore, l’ordito e il filo conduttore. È solo cogliendo l’insieme che si vede più chiaramente dove vanno a parare questi singoli tasselli o scalini, verso quale tipo di società, di vita, di visione del mondo ci stanno portando. Qual è il filo che le accomuna, la linea e la strategia che le unisce? Per dirla in modo allegorico e favoloso, è l’Erba Voglio. Avete presente la favola dell’erba voglio del principino viziato che vuole continuamente cose nuove e si gonfia di desideri sempre più grandi? Ecco, l’erba voglio è la nuova ideologia permissiva, soggettiva e trasgressiva su cui è fondato tutto l’edificio di leggi, di proposte, di riforme. Il filo comune di queste leggi è che l’unico vero punto fermo della vita, l’architrave del diritto e della legge è la volontà soggettiva: tu puoi cambiar sesso, cambiare connotati, mutare stato, territorio e cittadinanza, liberarti della creatura che ti porti in corpo o viceversa affittare un utero per fartene recapitare una nuova, puoi decidere quando staccare la spina e morire, decidere se usare sostanze stupefacenti e simili. Tu solo sei arbitro, padrone e titolare della tua vita e del tuo mondo; questa è la libertà, che supera i limiti imposti dalla realtà, dalla società, dalla natura, dalla tradizione. E non importa se ogni tua scelta avrà poi una ricaduta sugli altri e sulla società, su chi ti è intorno, su chi dovrà nascere o morire, sulla tua famiglia, sul tuo partner, sulla tua comunità, sulla tua nazione. Il tuo diritto di autodeterminazione è assoluto e non negoziabile, e viene prima di ogni cosa. Ora, il lato paradossale di questa società è che lascia coltivare, in casa, l’Erba Voglio ma poi dà corpo a un regime della sorveglianza e del controllo ideologico, fatto di censure, restrizioni e divieti. Liberi di farsi e di disfarsi come volete, non liberi però di disubbidire al Moloch del Potere e ai suoi Comandamenti pubblici, ideologici, sanitari, storici e sociali. Anarchia privata e dispotismo pubblico, soggettivismo e totalitarismo, Erba Voglio e Pensieri scorretti proibiti, Erba voglio e divieto di libera circolazione. Ma le due cose non sono separate, estranee l’una all’altra e solo casualmente e contraddittoriamente intrecciate. La libertà nella sfera dell’io fa da contrappeso, lenitivo e sedativo della coazione a ripetere e ad allinearsi al regime della sorveglianza. Ci possiamo sfogare nel privato di quel che non possiamo mettere in discussione nella sfera pubblica. Porci comodi nella tua vita singola in cambio di riduzione a pecore da gregge nella vita global. Puoi sfasciare casa, famiglia, nascituri, te stesso e i tuoi legami ma guai se attenti all’ordine prestabilito e alle sue prescrizioni tassative. Liberi ma coatti. La droga libera è oppio dei popoli e cocaina degli individui, narcotizza i primi ed eccita i secondi; aliena entrambi nell’illusione di renderli più liberi, li rende schiavi mentre illude di renderli autonomi. Benvenuti nella società dell’erba voglio e dell’obbligo di massa. MV, La Verità (17 settembre 2021)

Cari sì pass, ricordatevi “Philadelphia”.  Redazione di Nicolaporro.it il 19 Settembre 2021. Sono diventati ciò che odiavano. La pandemia ha completamente ribaltato la loro prospettiva sul mondo frutto di anni di lotte e conquiste sociali e politiche. Ci riferiamo ovviamente a tutti coloro che fino al 2019 si riempivano la bocca di parole quali uguaglianza, diritti, inclusione sociale, lotta a qualsiasi tipo di discriminazione. Ecco, di fronte al virus tutto questo si è disciolto come neve al sole. Oggi il fine giustifica qualsiasi mezzo, financo l’annullamento del diritto al lavoro sancito all’articolo 1 della loro amatissima carta costituzionale. Sono passati dall’altra parte della barricata, insomma, da vittime a carnefici. Già, ora sono loro i cattivi della storia. E a questo proposito, ci torna in mente uno di quei film che hanno fatto la storia del cinema degli anni ’90. “Philadelphia”, il capolavoro di Jonathan Demme con Tom Hanks (premio Oscar miglior attore protagonista) e Denzel Washington nei panni dei protagonisti.

La trama. Ricorderete tutti la trama, Andrew Beckett (Tom Hanks) è un brillante avvocato di un prestigioso studio legale di Philadelphia. E’ omosessuale e si ammala di AIDS nascondendo la malattia ai suoi datori di lavoro. Se non che i boss lo scoprono e lo licenziano per “giusta causa”. Toccherà poi a Joseph Miller (Denzel Washington) difendere il collega dimostrando che la reale motivazione alla base del suo allontanamento era in realtà l’orientamento sessuale di Andy e la paura della diffusione del contagio di HIV da parte dei colleghi. Già, la paura. Il pregiudizio. Il film si basa tutto su questo e su come Miller riesca pian piano a superare gli stereotipi della società in cui è cresciuto, diventando amico di Andy e vincendo la super causa milionaria. Una storia che ha commosso tutti, senza distinzione di credo politico, tanto da fare entrare Philadelphia nel gotha del cinema, anche e soprattutto in virtù degli insegnamenti e dei principi che veicolava.

Parallelismi con il presente. Come non trovare dei punti di contatto con quello che sta accedendo nel tempo del Covid. Oggi come allora si lotta contro un virus. Solo che nei primi anni ’90, periodo in cui è ambientato il film, l’HIV mieteva molte più vittime e le conoscenze mediche del fenomeno erano scarse, soprattutto per quanto riguardava la trasmissibilità. Quindi il timore di ammalarsi, poteva essere, per certi versi, anche giustificato. Eppure Andy ha vinto la causa. Fu pregiudizio, discriminazione. E qual è l’essenza della discriminazione? Ce lo spiegano Beckett e Miller: “il formulare opinioni sugli altri non basate sui loro meriti individuali ma piuttosto sulla loro appartenenza ad un gruppo con presunte caratteristiche”. Ebbene, questo è esattamente ciò che sta avvenendo oggi nei confronti delle persone non vaccinate che da metà ottobre non potranno più recarsi al lavoro senza avere il lasciapassare. Discriminazione. Si obietterà che, al contrario del protagonista del film, questi individui abbiano la possibilità di scelta. Vero, ma attenzione: chi l’ha detto che una persona non vaccinata sia automaticamente malata? Un individuo non è sano fino a prova contraria? E anche se non lo fosse, siamo così certi che sarebbe colpa sua? Era forse colpa di Andy se era omosessuale e se ha contratto la malattia? Sospensioni, multe, blocchi di stipendio. Ma fino a dove saranno disposti a spingersi? Checché se ne dica, nessuna carta costituzionale al mondo, nessuna legislazione giuslavoristica, nessuna norma etico-morale può concepire una tale prevaricazione dell’uomo sull’uomo. Eppure sta succedendo. Devono essersi proprio dimenticati tutto. Hanno versato lacrime per Andy che se ne è andato in pace, sereno, dopo aver ristabilito il suo onore. Hanno fatto il tifo per l’avvocato buono che era saputo andare oltre i suoi limiti e ha lottato in difesa dei più deboli. Oggi, invece, sono diventati esattamente come i colleghi e i datori di lavoro del legale sieropositivo. Vigliacchi, impauriti, cattivi. Pronti a tutto pur di difendere la loro salute e la loro confort zone morale. Chissà che riguardare Philadelphia oggi non possa avere un effetto catartico su queste persone. Dio solo sa quanto ci sia bisogno di redenzione.

Il giacobinismo liberal malattia infantile della nuova sinistra. Carlo Galli su La Repubblica il 17 settembre 2021. La copertina dell'Economist che ha lanciato il dibattito sulla sinistra illiberale. Ecco perché non bisogna sottovalutare la cancel culture, campanello di allarme di un disagio: prosegue il dibattito nato dalla copertina dell’Economist. Nell'ottobre del 1793 la Francia repubblicana abbatte e decapita le statue dei re che ornavano la cattedrale di Notre-Dame. Oggi la definiremmo cancel culture; allora fu la prosecuzione simbolica delle decapitazioni, avvenute nel gennaio dello stesso anno, del re e della regina, di Luigi XVI e di Maria Antonietta. In effetti, non c'è nulla di più illiberale che una rivoluzione, di più intollerante che la pretesa di ricominciare da capo la vita politica e civile, di meno dialogante che ergersi a giudici del passato, per punirne e vendicarne le colpe, le violenze e le ingiustizie.

Enrico Franceschini per "la Repubblica" il 15 settembre 2021. Un fantasma si aggira per l'Occidente: lo spettro della «sinistra illiberale». A lanciare l'allarme è l'Economist, bibbia del liberalismo anglosassone e anche di quello mondiale, in quanto da almeno vent' anni settimanale non più soltanto britannico bensì globale. In un servizio apparso in copertina, il giornale che per i suoi conflitti d'interesse definì Silvio Berlusconi «indegno di governare» avverte che il liberalismo occidentale si trova ad affrontare una doppia minaccia: all'estero le superpotenze autocratiche quali Cina e Russia, che lo deridono come fonte di egoismo, decadenza e instabilità; in patria il populismo di destra e di sinistra, che lo contesta come presunto simbolo di elitismo. Le critiche di Xi e Putin sono un ipocrita riflesso del rifiuto a creare una società veramente libera e democratica in casa propria. L'offensiva della destra populista in America e in Europa rimane la più pericolosa per la democrazia liberale, ma dopo avere raggiunto l'apice durante la presidenza di Donald Trump si sta screditando di fronte alla crisi del Covid con il suo ostinato rifiuto dell'evidenza scientifica. «L'attacco da sinistra è più difficile da comprendere», ammonisce tuttavia l'autorevole pubblicazione londinese, in parte perché, particolarmente negli Stati Uniti, il termine "liberal" ha finito per includere una "sinistra illiberale". La terminologia inglese può suscitare confusione nel lettore italiano, perché "liberal" negli Usa è l'equivalente di "progressista", spesso utilizzato addirittura come un insulto dalla destra trumpiana, dunque differente dal nostro "liberale", che ha un significato decisamente più conservatore. A confondere ulteriormente le idee ha provveduto il termine "neo-liberal", traducibile come neo-liberale o neo-liberista, l'etichetta delle politiche di destra introdotte da Ronald Reagan e Margaret Thatcher negli anni Ottanta del secolo scorso. Infine c'è da considerare il liberalsocialismo, che in Italia ha ispirato i fratelli Rosselli e Gobetti, il Partito d'Azione e alcune delle menti migliori del dopoguerra, dal Mondo di Pannunzio al partito radicale. Per chiarire ogni equivoco, quello che intende l'Economist (posseduto al 43% da Exor, che controlla anche Repubblica) con «sinistra illiberale» è l'atteggiamento dogmatico, intollerante, scettico nei confronti del mercato, votato alla purezza ideologica, incapace di riconoscere che anche la controparte può avere in determinate circostanze qualche ragione. È un cocktail di opinioni da cui sbocciano fenomeni come la cancel culture, dove la legittima esigenza di condannare gli errori e gli orrori del passato rischia di riscrivere la storia dal punto di vista del presente, e gli eccessi del politicamente corretto. Nel suo editoriale il settimanale non fa nomi specifici, ma traspare il riferimento alla svolta impressa da Jeremy Corbyn al partito laburista nel Regno Unito o alla rigidità talvolta manifestata dall'ala del partito democratico americano che fa riferimento alla deputata Alexandria Ocasio- Cortez (andata al Met Ball, il gran ballo annuale di beneficenza a New York, con un vestito con la scritta "tax the rich", tassare i ricchi, sebbene in questo non ci sia nulla di illiberale). «La società che mette l'eguaglianza prima della libertà finirà per non avere né l'una né l'altra» è il motto citato dall'Economist per chiarire dove sta il problema: parole di Milton Friedman, economista premio Nobel e padre del laissez- faire ovvero dell'antistatalismo, non proprio un riferimento della sinistra. Ma il dibattito sulla sinistra "illiberale" esiste da tempo: sull'altra sponda dell'oceano la denunciava già cinque anni fa il mensile Atlantic, ammonendo che il partito democratico, non opponendosi a chi vuole togliere diritto di parola agli avversari, cederà il controllo ai suoi elementi più estremi. Richard Dawkins, biologo evoluzionista di Oxford e autore di bestseller in difesa dell'ateismo, la chiama «sinistra regressiva», accusandola per esempio di astenersi dal criticare anche le peggiori aberrazioni dell'Islam in nome del rispetto per la cultura di quella religione («e allora io rispondo, al diavolo la cultura», dice il professore). La definizione è entrata perfino nel linguaggio di una star di Hollywood come l'attore premio Oscar Matthew McConaughey, secondo il quale «la sinistra illiberale ha completamente abbandonato il tradizionale pensiero liberale, diventando condiscendente o arrogante verso il 50 per cento della popolazione che non ne condivide il progetto». Qualcuno annovera nella sinistra illiberale anche la malaugurata dichiarazione che contribuì a fare perdere le elezioni del 2016 a Hillary Clinton, quando durante la campagna presidenziale la candidata democratica alla Casa Bianca definì dispregiativamente i sostenitori di Trump come appartenenti a un «basket of deplorables», un cestino dei deplorevoli, insomma tutti gentaglia, che a quel punto non avrebbero certo cambiato casacca votando per lei. Nella discussione, beninteso, c'è chi dice che a denunciare la presunta sinistra "illiberale" sono i difensori dello status quo e dei propri interessi: insomma la destra, cui farebbe gioco dipingere la sinistra come estremista e poco democratica. L'Economist riconosce che pure i "liberal" (nell'accezione conservatrice o progressista) sbagliano: dopo il collasso del comunismo in Unione Sovietica e in Europa orientale hanno creduto che la storia fosse finita, come sentenziò il celebre saggio del sociologo Francis Fukuyama; dopo la crisi finanziaria del 2008 non hanno trattato la classe operaia con la dignità che meritava; e troppo spesso usano la meritocrazia come un alibi per mantenere i propri privilegi. La conclusione della cover-story è che oggi troppi liberal di destra sono inclini a scegliere uno spudorato matrimonio di convenienza con i populisti e troppi liberal di sinistra minimizzano la presenza di un'ala intollerante nelle proprie file. Se invece di unire le forze si dividono, è il monito finale, le due correnti del pensiero liberale lasceranno prosperare gli estremisti.

Dura lex, sed Rolex. Stefano Bartezzaghi su La Repubblica il 4 settembre 2021. È l'epoca della rappresentazione e come ci si fotografa o ci si fa fotografare è un fatto bello e buono. E allora quell'orologio un tema lo diventa. Un eventuale candidato latinista (ve ne sono?) potrebbe commentare: Dura lex, sed Rolex. Che poi sembra non sia neppure un Rolex ma un orologio comunque costosissimo e di marca, quello che Roman Pastore, giovane candidato a un consiglio municipale romano, sfoggia in diverse fotografie. È nella lista per Carlo Calenda e proprio il leader è stato raggiunto al proposito da polemici tweet di Barbara Collevecchio, psicanalista molto presente sui social nonché junghiana, quindi avvezza agli archetipi.

 L’orologio più buio. L’impossibilità di uscire dalla cultura del linciaggio (o anche solo di discuterne). Francesco Cundari il 4 settembre 2021 su L'Inkiesta. Anche su che cosa porta al polso, la sinistra si divide in due tribù costantemente impegnate nel tentativo di menarsi a vicenda, chiocciolandosi e ritwittandosi tra piccole orde di consanguinei ululanti. Avrei voluto cominciare qui un lungo e noioso discorso sugli effetti di lungo periodo dell’ondata populista culminata nella Brexit e nell’ascesa di Donald Trump nel 2016, sulla loro persistenza e pervasività, a dispetto dell’impressione contraria suscitata nel mondo dalla netta vittoria di Joe Biden, e in Italia dall’insperato arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Avrei voluto partire dal ritiro americano dall’Afghanistan e dal modo in cui Biden lo ha attuato e difeso, due cose su cui l’influenza del predecessore mi è parsa assai significativa e allarmante. Avrei voluto infine collegare tutto questo alla questione della «sinistra illiberale» sollevata nell’ultimo numero dell’Economist. Mi riferisco all’editoriale in cui il settimanale invita i liberali di destra e di sinistra a resistere all’egemonia populista, senza illudersi di poter carezzare impunemente la tigre nel verso del pelo: gli uni accodandosi al nazionalismo xenofobo e autoritario, gli altri al fanatismo della politica identitaria, della cancel culture e del radicalismo di sinistra in generale. L’articolo che stavo immaginando sarebbe stato lungo e noioso anzitutto per il gran numero di sottili distinzioni che avrei dovuto fare. Per esempio, sull’ultimo punto, avrei invitato a non confondere la contestazione anche radicale di quelle che l’Economist definisce come le posizioni del «liberalismo classico» in materia di economia con analoghi attacchi ai fondamenti dello stato di diritto e della libertà individuale: cose che non hanno lo stesso peso e non andrebbero messe sullo stesso piatto della bilancia. Direi anzi che l’ambiente più favorevole alla crescita di un dibattito pubblico democratico e pluralista è esattamente quello in cui la stragrande maggioranza condivide i principi fondamentali che garantiscono la libertà di ognuno e si divide su tutto il resto. Di questo intendevo scrivere, e già cominciavo a organizzare mentalmente la lunga serie di premesse di metodo e di merito necessarie ad arrivare sano e salvo in fondo al ragionamento, quando ho acceso il computer e aperto Twitter, dove era in corso uno di quei tipici spettacoli che da qualche anno prendono regolarmente il posto del dibattito politico, cioè una specie di guerra etnica combattuta in un asilo. Stesso miscuglio di ostilità preconcetta e odio primitivo, uniti però all’assoluta idiozia del pretesto, del contesto e del sottotesto, nel caso specifico il costoso orologio esibito in foto da un giovane candidato a un consiglio municipale nella lista di Azione (dunque, con tutto il rispetto per i consigli municipali e per il partito di Carlo Calenda, non proprio un uomo destinato a esercitare una straordinaria influenza sull’indirizzo politico del Paese, perlomeno nel prossimo futuro). Dall’orologio costoso si passava quindi all’incredibile uscita di Matteo Renzi sul reddito di cittadinanza e i giovani che «devono soffrire», e in qualche caso, non ricordo più per quali vie, persino alle foibe (a conferma del fatto che la politica italiana si ripete sempre due volte, la prima in forma di sketch di Avanzi). Per una volta, non vorrei prendere le parti degli aggrediti né quelle degli aggressori, ma nemmeno ostentare un’impossibile equidistanza. La diffusa cultura del linciaggio che ci circonda ha sempre qualcosa di orrendo in sé, anche quando il suo esito sia il più infantile e ridicolo, e forse relativamente innocuo. Ora però mi interessa di più sottolineare come sui social network la cosiddetta sinistra, quella che dovrebbe combattere il populismo, sia divisa grosso modo in due tribù, costantemente impegnate nel tentativo di linciarsi a vicenda, con argomenti, toni e modi squisitamente populisti, chiocciolandosi e ritwittandosi tra piccole orde di consanguinei ululanti, nel momento stesso in cui ciascuna delle due bande accusa l’altra di rappresentare la quinta colonna dei populisti (salviniani gli uni, grillini gli altri) e di adottarne anche i deplorevoli metodi, a cominciare da gogna e linciaggi social. Forse è per questo che in Italia, tutto sommato, la cancel culture non ha (ancora?) particolarmente attecchito, e nemmeno il politicamente corretto: perché in America, come sembra suggerire anche l’Economist, trumpismo e cancel culture sono due diverse forme di intolleranza che si rafforzano a vicenda, opposte e complementari come le due metà di una stessa mela. Mentre qui in Italia, dove gli epigoni e anche i precursori di Trump affollano l’intero spettro politico, giornalistico e intellettuale, abbiamo solo infinite repliche della stessa metà della mela, e nessuna traccia dell’altra mezza. Basta accendere la tv o sfogliare un giornale per verificare come tutto sia infatti perfettamente dicibile, pressoché ovunque, anche quello che nei paesi civili è giustamente considerato istigazione all’odio e al razzismo. Non così in Italia, dove sulla derisione di handicap, difetti fisici e qualsiasi altro dettaglio legato a sesso, età, etnia, zeppola o altezza dell’avversario sono fiorite carriere e sono nati interi gruppi editoriali, perché non c’è nulla che ci piaccia tanto come darci di gomito mentre sghignazziamo del comune bersaglio. Capite dunque perché, dopo aver passato soltanto pochi minuti esposto a questo genere di spettacolo, ho avvertito tutta l’inanità dello sforzo che mi accingevo a compiere per argomentare la mia tesi, e mi sono rassegnato a non scrivere l’articolo.

Fulvio Abbate per Dagospia il 5 settembre 2021. Lo dico subito, prendendo in prestito una leggendaria battuta riferita, un tempo, a una leggendaria caramella di un bianco polare dissetante: qui c’è soltanto l’orologio con Roman Pastore intorno. In tutto ciò, la cosa più desolante nella vicenda del giovane Pastore (e del suo ormai leggendario orologio), ventunenne candidato con la lista di Carlo Calenda al Consiglio comunale di Roma, finita per lui in modo un po’ penoso, per aver esibito appunto al polso un Audemars Piquet, riguarda l’incapacità interpretativa di molti.  La stampa di destra, per bocca dell'amico Alessandro Sallusti, per l’occasione ha fatto l’elogio del lusso, che peraltro, personalmente, condivido in pieno, in modo assoluto, e ci mancherebbe altro. Essendo tutti noi, come spiega alla perfezione il filosofo esistenzialista Albert Camus, impossibilitati alla felicità, coscienti d’essere condannati a morte fin dalla nascita, niente è più rassicurante, se non doveroso, del concedersi ogni piacere, cominciando dalle gioie del collezionismo, poco importa se di capolavori di Picasso o fosse anche di un prestigioso anello tempestato di gemme preziose, così da poterlo indossare perfino nel proprio pisello. E non sembri questa una caduta di stile, semmai un magnificat del principio del piacere. Purtroppo, nel nostro paese segnato da un ampio analfabetismo talvolta addirittura funzionale e dalle tare catto-comuniste, la semiologia non ha mai sfondato, nessuno che davvero abbia acceso una luce votiva sotto il volto di Roland Barthes, gigante della spiegazione delle cose accompagnate fin dentro i loro significati, significanti e referenti.  La questione che investe Roman Pastore va affrontata, appunto, sul piano semiologico: e qui spero che Carlo Calenda, da noi già definito amichevolmente “spermatozoo d’oro di una certa Roma”, essendo egli persona ironica di mondo, comprenda bene il senso delle cose, al punto da trasferire queste nostre serene considerazioni al ragazzo, al suo campioncino di lista. In breve, il problema di Roman Pastore è spiegabile in modo semplice: come ho scritto ieri su tweet, il ragazzino nel suo scatto elettorale assai orgoglioso del proprio orologio (che, beninteso, non è un Rolex, come alcuni imprecisi hanno sostenuto per accreditare il luogo comune ordinario, appunto, dei “comunisti col Rolex”) semmai un Audemars Piquet, feticcio del lusso smart non da meno, cose da remake in politica di “Riccanza”. Purtroppo per Pastore, a una attenta osservazione si comprende che non è il diretto interessato a indossare il prestigioso orologio, semmai è l’orologio a indossare, tragicamente, il candidato, surclassando ogni altra possibile immagine politica. In quanto ostentato come must, come benefit, di più, dal Pastore ritenuto valore aggiunto, kriptonite dell'identificazione che porterebbe voti e plauso. In realtà, brilla invece qualcosa di mostruosamente caricaturale nella sua ostentazione, e lo stesso credo possa valere per altri “segni” che il giovane altrettanto porta addosso, tracce sovrastrutturali che il semiologo, se davvero fosse ancora tra noi, potrebbe spiegare assai meglio di me. Nell’ordine: la montatura degli occhiali “performanti”, la polo blu bordata di bianco, tutte cose che sembrano dire: guardatemi, lavoro per essere classe dirigente, per, come direbbe uno studente della LUISS o della Bocconi, “per creare la mia leadership” (sic). Osservando il tutto ancora meglio c’è però da rilevare qualcosa di visibilmente “cartonato” nel ventunenne Roman, la sconfitta di ogni possibile casual a favore invece di un abbigliamento che nella narrazione dell’ammezzato subculturale politico nazionale rimanda alle vetrine di “Davide Cenci”, negozio in Campo Marzio, Roma, dove si rifornisce il generone politico e non solo. Ora, Carlo Calenda, pervenuto alla coscienza dell’informalità da torneo di tennis a Orbetello, come nella canzone-manifesto di Flavio Giurato, invece di difenderlo d’ufficio, ascoltando le nostre parole dovrebbe semmai dissuaderlo da questo genere di outfit (orrenda parola) per l’appunto da cartonato dirigenziale di piazzale delle Muse. Come non accorgersi che dietro l’apparente eleganza del ventunenne arde qualcosa di spettralmente banale, degna del più grigio conformismo dello status, con cui invece Roman Pastore suppone di presentarsi al meglio ai suoi potenziali elettori. Wittgenstein sosteneva, in opposizione a coloro che ritenevano il grigio un non-colore che si trattasse piuttosto di un colore “solido”. Bene, quanto alla solidità politico culturale del ragazzo Pastore, cercando qualcosa, una traccia umana che vada oltre l’orologio, per usare nuovamente una battuta riferita, un tempo, alla leggendaria caramella dissetante: qui c’è soltanto l’orologio con Roman intorno. Chissà se questa la capiranno coloro che l’hanno difeso contro la gente “di sinistra” che sul tema ha fatto, altrettanto tragicamente, un discorso al limite del pauperismo, chiamando in causa perfino il reddito di cittadinanza grillino contrapposto alla voglia di lusso. Viva la ricchezza, ma anche un’idea di stile che trascenda la lunga linea antracite del generone in questo caso fedele a se stesso già dal primo semestre della post-adolescenza. 

Giampiero Mughini per Dagospia il 6 settembre 2021. Caro Dago, non figurando in nessuno dei social possibili e immaginabili di volti e personaggi raffigurati in un messaggio elettronico ne ricevo soltanto da whatsapp. Salvo rarissime eccezioni non li guardo mai, un colpo del pollice e li cancello. Figurati se mai e poi mai mi sarei accorto che un qual certo ragazzo ventunenne che vorrebbe fare vita pubblica avesse al polso un orologio di un qualche valore. Leggo che lo aveva, e se ne è scatenata una furia sul web, furia di cui io so soltanto perché leggo le tue pagine. Sì lo aveva, e allora? Giudico (in silenzio) una persona che ho davanti da cento cose, non certo dall’orologio che ha al polso. E senza dire la cosa più importante di tutte, e che è la ragion d’essere della letterina che ti sto inviando. E cioè che ciascuno porta l’orologio, la giacca, la cravatta, il mantello, la montatura degli occhiali che vuole, e che nessuno ha il diritto di rompergli i coglioni. Io adoro il mio swatch in plastica che costa sì e no 90 euro, e non lo darei in cambio per nessuno di quegli orologi sontuosi di cui leggo che costano parecchie migliaia di euro a cadauno. In compenso, e alla faccia di chi non mi vuole bene ho speso una caterva di soldi nella mia vita a comperare le prime edizioni dei libri di Eugenio Montale, che sono tanti e che ho tutti. E allora? Ognuno i suoi soldi li spende come vuole e in quel che vuole. Finito lì. Non deve rendere conto a nessuno o meglio sì, all’Agenzia del Fisco. Quello sì. Io nella terza di copertina dei miei libri metto solo che abito e lavoro a Roma, e nessunissima grande impresa di cui sia stato eventualmente autore. Un’altra cosa però la metterei, e tanto per chiarire chi sono e quel che faccio. L’importo netto del mio reddito annuo e il relativo carico fiscale che ci ho pagato sopra. Tanto per chiarire. Tanto perché lo sappiano eventualmente i miei nemici ma anche i miei amici, tipo Fulvio Abbate. La differenza tra i soldi guadagnati e i soldi dati al fisco è mio diritto essermela sparata come e quando volevo, eventuali mignotte niente affatto escluse. Non che io voglia fare attività pubblica. Ci mancherebbe anche questo. Solo me ne sto nel mio cantuccio, con accanto le prime edizioni dei libri di Montale. E che nessuno ci provi a rompermi i coglioni ove domani mi venisse in mente di mettermi chissà quale orologio al polso. O magari in punta al naso. Così, per farlo un po’ “strano”.

Compagni che cancellano. La sinistra illiberale non è meno pericolosa della destra autoritaria. Christian Rocca il 3 settembre 2021 su L'Inkiesta. Uno straordinario numero dell’Economist mette in guardia il mondo occidentale dalla minaccia costituita dalla politica identitaria, altrettanto grave quanto quella dei Salvini, dei Trump e dei Putin. Siamo cresciuti con l’idea che l’arco della storia tende necessariamente verso il progresso e con la consapevolezza che il progresso è una conquista quotidiana ma inesorabile che si ottiene attraverso un dibattito pubblico informato e una coerente azione riformista. Nonostante i mirabolanti successi sociali, economici e culturali in oltre mezzo secolo e in ogni continente della Terra, negli ultimi tempi questa idea e questa consapevolezza sono state messe in crisi dal populismo di destra e dai regimi autoritari, da Donald Trump e dalla Cina di Xi Jinping e dalla Russia di Vladimir Putin, per mille ragioni che la nuova copertina dell’Economist affronta con la tradizionale capacità di analizzare i fenomeni globali in corso. Il settimanale inglese, però, aggiunge un elemento non banale all’attacco al sistema liberale, ovvero che il pericolo per il mondo come lo conosciamo non arriva soltanto da lì, dalla destra populista e autoritaria. Fin dal titolo della cover di questa settimana, l’Economist rifonosce «la minaccia della sinistra illiberale», un tema ricorrente sulle colonne de Linkiesta, in particolare negli articoli di Francesco Cundari e di Guia Soncini. C’è, intanto, la questione del bipopulismo. L’Economist spiega che i due populismi, quello di destra e quello di sinistra, «si nutrono patologicamente a vicenda» in una campagna di odio nei confronti degli avversari che favorisce soltanto le ali estreme. Ne sono complici, scrive il settimanale inglese, i liberali classici che per interessi indecenti si consegnano ai nazional sovranisti (in Italia siamo pieni di retequattristi e di tiggidueisti, di liberali per Salvini, per Putin, per Trump). Ma ne sono altrettanto responsabili i liberal progressisti che si illudono che gli intolleranti di sinistra siano soltanto una minoranza, e pure facile da addomesticare: «Non preoccupatevi, dicono, l’intolleranza fa parte del meccanismo del cambiamento: concentrandoci sulle ingiustizie sociali, si sposteranno al centro» (qui pare che l’Economist si rivolga direttamente al Pd e alla surreale idea di alleanza strategica con i Cinquestelle). Poi c’è la delicata questione della identity politics, la politica della suscettibilità identitaria, nata nelle università americane e diffusasi nella società occidentale a mano a mano che gli studenti addestrati a questa nuova religione contemporanea si sono laureati e hanno cominciato a lavorare nei media, in politica, nell’istruzione e nel business «portando con sé il terrore di non sentirsi a proprio agio, una propensione ossessiva e limitata ad ottenere giustizia per i gruppi identitari oppressi e i metodi per costringere tutti quanti alla purezza ideologica, censurando i nemici e cancellando gli alleati che hanno trasgredito, con echi di quello stato confessionale che ha dominato l’Europa prima che prendesse piede il liberalismo alla fine del diciottesimo secolo». Nonostante i liberali e la sinistra illiberale abbiano in comune molte cose, a cominciare dalla ricerca costante del cambiamento fino all’opportunità universale di farcela a prescindere dal genere o dalla razza, scrive l’Economist, «in occidente sta succedendo qualcosa di straordinario: una nuova generazione di progressisti sta ripristinando metodi che sinistramente ricordano quelli di uno stato confessionale, con versioni moderne dei giuramenti di fedeltà e delle leggi sulla blasfemia». Mentre c’è ancora chi rifiuta di riconoscere che cosa sta succedendo, grazie alla copertina dell’Economist forse qualcun altro capirà che è arrivato davvero il momento per i liberali di destra di smetterla di giocare col fuoco nazional populista e per i progressisti di sinistra di cominciare a domare l’incendio appiccato dai compagni illiberali.

Ben alzato, Economist. Confessioni di anticancellettista della prima ora, ora che l’élite le dà ragione.  Guia Soncini il 4 settembre 2021 su L'Inkiesta. Da oltre un anno, nonostante i dubbi della redazione, Soncini avverte quasi quotidianamente dei rischi di un mondo progressista che si comporta come la peggior destra. E adesso chi la tiene più, la mitomane. Ben alzato, Economist. C’è una nuova ortodossia nelle università, scrivi nella storia di copertina del tuo nuovo numero. Andrew Sullivan l’ha scritto sul New York Magazine nel febbraio del 2018, We all live on campus now. Persino un’italiana c’era arrivata prima di te: nella classifica dei libri del Corriere, nella primavera di quest’anno, trovi un libro sul disastro dell’istruzione suscettibile, d’una certa Guaia Soncini. Trovi anche alcune decine di suoi articoli sul tema già nel 2020, su Linkiesta, firmati non si sa perché con una vocale in meno. Ci fa piacere che anche tu abbia capito che la sinistra prescrittiva è un problema più della destra cafona. Ci ho messo un po’ a convincere di questo concetto anche i ragazzi qui a Linkiesta, ma il direttore si è arreso, persino Cundari pur mugugnando ammette che no, non è normale dover dire che due più due può fare cinque durante le lezioni di matematica altrimenti gli allievi della tal etnia che fin lì hanno preso brutti voti in addizioni si frustrano, e insomma, caro Economist, mancavi solo tu. Vieni, ti verso da bere. Ricopio qualche tua riga, quelle in cui dici che il liberalismo non è un pranzo di gala, e che spesso va contro ogni istinto di noialtri umani di tendenza suscettibile. «Richiede che tu difenda il diritto di parola del tuo avversario, anche quando sai che dirà cose sbagliate. Devi mettere in discussione le tue più profonde convinzioni. Non devi tutelare le imprese dai venti della distruzione creatrice. Le persone care devono far carriera solo per i loro meriti, anche quando il tuo istinto sarebbe di favorirle. E devi accettare la vittoria elettorale dei tuoi nemici, anche quando sai che porteranno alla rovina il paese». Quest’ultima a quegli altri sembrerà parli di Trump, ma noialtri sappiamo che parla degli ultimi trent’anni di politica italiana. Primo flashback, 2020. Linkiesta pubblica alcuni articoli – a memoria direi di Cundari e Rodotà – che mettono in dubbio l’esistenza della cancel culture. L’idea è quella che ho sentito esprimere tante volte: ma c’è Trump, c’è Salvini, ti pare che il problema possa essere la censura di sinistra. Sto scrivendo “L’era della suscettibilità”, ed è in quel momento, in una conversazione a proposito di uno di quegli articoli, che metto a fuoco quella che diventerà una delle chiavi della mia interpretazione di questi tempi: non è una contrapposizione tra destra e sinistra. Il punto è trovare uno spazio non beghino a sinistra. La questione è tra chi si dice di sinistra bruciando i libri di Harry Potter perché JK Rowling ha osato dire che il sesso biologico esiste, e chi sa che non sei di sinistra se non pensi che la Rowling possa dire il cazzo che le pare. E questo non perché abbia ragione (ce l’ha), ma perché la libertà di parola non serve a tutelare chi ci è affine o chi dice cose impeccabili: quelli si difendono da soli. Il direttore della testata che state leggendo mi dice che secondo lui è una distinzione troppo sottile, è impossibile farla passare. Ma io sono cocciuta, e la scriverò tale e quale in quel libro che ci è arrivato prima dell’Economist: chi ha l’indubbia fortuna di parlare con me sa che utilizzo il metodo del maiale, e non butto via nessuna conversazione. Secondo flashback, giugno 2021. Sono a Fano, a un festival letterario di quelli ai quali gli autori vanno per parlare dei loro libri e mangiare a scrocco. M’intervista Flavia Fratello, giornalista di La7 molto interessata a questi temi. A un certo punto, sul palco, dice: Maria Laura Rodotà sostiene che in Italia la cancel culture non esiste perché Calderoli può dare dell’orango alla Kyenge. Niente, questo su destra e sinistra è il dibattito della marmotta. Ma a destra possono fare quello che vogliono, sospiro. Trump può dire che prende le donne per la passera e vincere comunque le elezioni. Le regole valgono a sinistra. È a sinistra che passi da scrittrice da Pulitzer a reproba se, in un dialogo dell’Ottocento che parla d’una cameriera, usi la parola «negra» (sì, ho visto lo sdegno su Facebook perché Jennifer Egan aveva osato non usare in una conversazione ambientata duecento anni fa termini quali «bipoc», black and indigenous people of color, che si orecchiavano spesso nelle piantagioni). Non lo si ripete mai abbastanza, se a settembre 2021 anche all’Economist sembra una novità. D’altra parte Sullivan lo ripete da anni, che i suoi amici gli dicono che l’illiberalismo insegnato nelle università è roba da universitari. Poi passa. Oppure no, come nota ora l’Economist; e come sei mesi fa, intervistandomi per il suo podcast, mi suggerì Daniele Rielli: gli studenti cui è stato insegnato che, se Shakespeare li turba, Shakespeare non dev’essere insegnato, poi diventano giornalisti, scrittori, editori. Diventano quei giovani fanatici dei quali i vecchi del New York Times sono terrorizzati, come ha raccontato Bari Weiss andandosene da quel giornale. Diventano quei giovani fanatici per i quali il quieto vivere è sacro e chi è sospetto d’avere comportamenti perturbanti va rimosso dal nostro orizzonte: quelli che minacciano di licenziarsi se la casa editrice pubblica l’autobiografia di Woody Allen. Insieme al fatto che è una questione interna alla sinistra, la cosa più difficile da far capire è che la presunta sinistra non è sinistra illiberale: è destra. È gente che sogna Il racconto dell’ancella. Certo, se glielo chiedi ti diranno che l’incarnazione del Racconto dell’ancella è il Texas che vieta l’aborto, ma non è esatto: è molto più atwoodiano il mondo prescrittivo che sognano loro, in cui posso stabilire cosa tu possa dire e cosa pensare, e punirti se non ottemperi. Sospetto sia colpa nostra. Di noi quarantacinquantenni che, oltre a essere i meno autorevoli della storia e quindi un disastro come genitori, siamo anche determinati a scusarci di non si sa bene quali fortune. Tempo fa una quarantenne che lavora coi ventenni mi ha detto che per loro le questioni identitarie sono molto importanti perché hanno solo quelle: noi avevamo un futuro professionale ed economico, loro sanno che è tutto finito e che, invece di puntare sull’avere una carriera, gli conviene intrattenersi con l’identità di genere. A 23 anni facevo l’autrice d’un programma televisivo con tre trentenni. Era per tutti e quattro la prima volta: avevamo fin lì fatto altro, e la maggior parte di noi sarebbe tornata a far altro. Venticinque anni dopo, uno di loro è tornato a fare il supplente, uno è tornato a tentare senza successo la fortuna nell’editoria, io sono io; il quarto, che fino a quel programma faceva il rappresentante d’elettrodomestici, è diventato il più pagato sceneggiatore di commedie d’Italia.

Uno su quattro ce la fa. Mi sembra una media alla portata dei ventenni di questo secolo. Quelli che questa storia la racconterebbero per dire che ecco, lo vedi, ci avete rubato il futuro, i sogni, la possibilità di far carriera in tv. È colpa nostra, che quando frignano non li prendiamo a coppini, che quando ci parlano delle loro istanze non gli diciamo che sono tutte stronzate (com’è stato detto a tutti i ventenni nella storia del mondo), che ci apriamo un Tik Tok per sentirli più vicini. I giovani hanno solo il dovere d’invecchiare, diceva quello. Aggiungerei che la sinistra ha il dovere di non comportarsi da destra. Guia Soncini

Hanno tutti ragione. Rolex e sinistra, piccola storia ignobile da Marx a Verdone. Stefano Cappellini su La Repubblica il 3 settembre 2021. Questo è il numero del 3 settembre della newsletter "Hanno tutti ragione", firmata da Stefano Cappellini. Qualche anno fa mi colpì la dichiarazione di un dirigente della sinistra, Cesare Salvi, il quale disse in una intervista che aveva i soldi sufficienti a comprarsi una Ferrari ma che non la acquistava per ragioni di opportunità. Avrei voluto chiamarlo, appena finito di leggere, per dirgli: "Vai, Cesare, comprala!". L'idea che un militante di sinistra si sentisse rassicurato dal fatto che i soldi di Salvi fossero parcheggiati in banca anziché in garage mi suonava, allora come oggi, una grossa sciocchezza.

Lorenzo D'Albergo per repubblica.it il 3 settembre 2021. Se la campagna elettorale è social, lo sono anche le polemiche. L’ultima, innescata su Twitter da un cinguettio della psicologa Barbara Collevecchio, ha per protagonista un giovanissimo candidato al consiglio comunale per Carlo Calenda. Roman Pastore, 21enne e social media manager degli under 30 che sostengono l’ex premier Matteo Renzi, è finito sotto i riflettori per le foto in cui al polso porta un orologio da decine di migliaia di euro. Comunisti col Rolex, verrebbe da canticchiare con Fedez e J-Ax navigando tra i tweet. I detrattori attaccano il ragazzo. Chi lo difende cita la collezione di cronografi di Fidel Castro, che ne portava spesso due per volta, e Che Guevara. Tornando al caso di Pastore - che per l’esattezza indossa un Audemars Piguet - vale la pena rintracciare la genesi del botta e risposta. Come detto, la prima a digitare è Barbara Collevecchio. Analista di scuola junghiana, sta per ultimare un saggio sul narcisismo in politica. Così si spiega il tweet d’esordio. La psicologa posta una foto di Pastore con amico e orologio: “Bisognerebbe educare i giovani ai valori genuini, non ad indossare Rolex e vestirsi da giovani vecchi wannabe renziani”. L’ultimo riferimento è alla camicia bianca indossata da Pastore. C’è anche un secondo intervento firmato Collevecchio: “Sempre sul ragazzetto e il “caso” Rolex. Poverino, candidato a 21 anni da Calenda, partecipa alla scuola di Renzi che predica che i poveri devono soffrire senza Reddito di cittadinanza e una notevole collezione di patacconi. Tutti regalati dal nonno?”. Apriti cielo. Ecco la risposta di Carlo Calenda: “Barbara, questo tweet è aberrante. Te la stai prendendo con un ragazzo di 21 anni per un orologio. Anche Salvini con Gad Lerner, che almeno aveva età e visibilità per rispondere, è arrivato a tanto. Fossi in te prenderei 12 ore di tempo per vergognarmi e poi mi scuserei”. Anche il leader di Azione, in corsa per il Campidoglio, si riserva un secondo post: “Si giudicano le persone per la qualità di quello che dicono o fanno, non sulla base di che orologio portano”. Nel frattempo il tema inizia a interessare sempre più utenti. I cinguettii sfiorano quota 10 mila. Non poteva mancare quello di Pastore. Reduce dalla scuola politica di Matteo Renzi a Ponte di Legno, prova a chiudere la polemica bloccando Collevecchio e rispondendo così: “Oddio! Sono stato scoperto! Mi hanno sfamato l’Audemars Piguet (non Rolex) che, mi pare, non è (ancora) un reato indossare. Ma la polemica politica riusciamo a farla sui temi o l’unica opzione è quella sempre di fare o di ricevere attacchi personali?”. La risposta al popolo dei social.

Roman Pastore, il candidato 21 enne di Calenda insultato dalla psicologa rossa per l'orologio di lusso: cortocircuito a sinistra. Libero Quotidiano il 03 settembre 2021. Lui è un giovanissimo candidato a consigliere municipale per Carlo Calenda. Si chiama Roman Pastore, ha 21 anni ed è social media manager degli under 30 che sostengono l’ex premier Matteo Renzi. Insomma, lui è un attivista di Italia Viva. Lei è una psicologa, collaboratrice dell'Huffingtonpost. Si chiama Barbara Collevecchio e si definisce "libertaria, anti autoritaria e antidogmatica", oltre che "#antifa". La "libertaria" e antifascista psicologa ha innescato una vera e propria shit-storm contro Pastore "colpevole" di indossare un orologio di valore, appartenuto, a quanto pare, al nonno defunto. Non un Rolex, ma un Audemars Piguet, da qualche decina di migliaia di euro. La Collevecchio, che emette più tweet che respiri, in uno dei tanti cinguetti ha postato una foto di Pastore con amico e orologio: “Bisognerebbe educare i giovani ai valori genuini, non a indossare Rolex e vestirsi da giovani vecchi wannabe renziani”, scrive. E poi ancora: "Sempre sul ragazzetto e il caso Rolex. Poverino, candidato a 21 anni da Calenda, partecipa alla scuola di Renzi che predica che i poveri devono soffrire senza Reddito di cittadinanza e una notevole collezione di patacconi. Tutti regalati dal nonno?”. Se ne leggono di ogni sul profilo della Collevecchio. "Povertà diseducativa e colpa, patacconi al polso e Jaguar educative. A 20 anni! Gli altri devono soffrire e sgobbare per mantenere i privilegi di pochi. Questi sono i liberal liberisti italiani, Il mondo dei Renzi e Calenda". Il concetto è sempre lo stesso, la psicologa lo ribadisce: "Si critica i genitori che insegnano ai figli che conta quanto ostenti la tua ricchezza, che vali in base ai soldi che hai. Si critica la vacuità di chi si mette in posa con orologi che una famiglia normale non si potrebbe permettere mai e Jaguar. Un mondo sballato senza valori". E ritwitta critiche e insulti. Carlo Calenda sbotta: “Barbara questo tweet è aberrante. Te la stai prendendo con un ragazzo di 21 anni per un orologio. Neanche Salvini con Gad Lerner, che almeno aveva età e visibilità per rispondere, è arrivato a tanto. Fossi in te prenderei 12 ore di tempo per vergognarmi e poi mi scuserei". Il ragazzino sotto accusa invece risponde e si difende da solo: "Oddio! Sono stato scoperto! Mi hanno sfamato l’Audemars Piguet (non Rolex) che, mi pare, non è (ancora) un reato indossare. Ma la polemica politica riusciamo a farla sui temi o l’unica opzione è quella sempre di fare o di ricevere attacchi personali?”. E il suo sembra l'unico tweet intelligente. 

Ecco "l'orologio di cittadinanza". A sinistra il lusso diventa peccato. Francesco Maria Del Vigo il 4 Settembre 2021 su Il Giornale. Nell'era del politicamente corretto imperante, qualcuno potrebbe anche chiamarlo watch shaming. L'insulto e la discriminazione in base all'orologio. Nell'era del politicamente corretto imperante, qualcuno potrebbe anche chiamarlo watch shaming. L'insulto e la discriminazione in base all'orologio. Ma noi ce ne guardiamo bene. I fatti: Roman Pastore è un ventunenne candidato alle comunali capitoline con Carlo Calenda. Il giovane è finito al centro delle polemiche per una serie di foto in cui sfoggia un costoso orologio. «Ha un Rolex al polso», ha tuonato indignata la stessa sinistra che per anni ha difeso a spada tratta le barche a vela di Massimo D'Alema, gli arsenali di cashmere quadruplo filo e i tre Warhol di Bertinotti (che però rappresentano il faccione di Mao e quindi vanno bene e sono proletari comunque). Tra l'altro l'orologio di Pastore, per amor di precisione, era un Audemars Piguet e quindi pure più caro di un medio Rolex (vi tranquillizziamo: ne ha uno anche di quelli). Ma l'importante è attaccare Calenda e il suo giovane candidato. Che poi Calenda non ha esattamente il physique du rôle di un borgataro, non è mica Che Guevara. Il quale per altro sfoggiava un bellissimo Rolex gmt e il suo compagno Fidel, si narra, ne portasse addirittura due contemporaneamente. Ma c'era un motivo squisitamente politico e sociale, era una necessità: su uno aveva l'ora di Cuba e sull'altro quella di Mosca. Dictature online. Dal Che a Fedez l'immarcescibile mito del comunista col Rolex. Che poi lo avranno anche i fascisti, i liberali, i socialisti e persino i sovranisti. Ma almeno loro non rompono le scatole a chi lo ha. I vezzi radical chic, evidentemente, possono permetterseli solo i compagni duri e puri. Se hai il Capitale sopra il comodino puoi girare in Porsche con i polsi foderati da costosi segnatempo. Se sei anche solo di centrosinistra e magari sei affetto da una lieve forma di liberalismo vieni subito lapidato. Così il povero Roman Pastore, non essendo affatto povero, è finito nel mirino di quella sinistra che si nutre di invidia e odio sociale. E via con insulti di ogni genere a partire dal classico «figlio di papà», qualità che tecnicamente possediamo tutti, ma che in questo caso è pure una gaffe, dato che il padre di Pastore è morto, lasciandogli appunto quegli orologi in eredità. Una tempesta di improperi di ogni genere su un ragazzino che ha commesso l'errore di mostrare un orologio di valore. Perché per un certo Pd e una buona fetta dei Cinque Stelle il lusso è una colpa, il successo un reato e i soldi - quelli degli altri, non i loro - sono una vergogna. Il paradosso è che quelli che hanno messo alla gogna Pastore, sono gli stessi che ogni giorno fingono di battersi contro ogni tipo di discriminazione e per la difesa dei diritti di chiunque. E poi sono sempre in prima fila a insultare e discriminare: troppo impegnati a vedere cosa si porta al polso per interessarsi a cosa uno ha nella testa. Ma comunque: hasta el Rolex siempre! E pure l'Audemars Piguet.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

La polemica del giorno. Chi è Roman Pastore, il candidato a Roma con Calenda attaccato per il “Rolex”. Vito Califano su Il Riformista il 3 Settembre 2021. La polemica politica del giorno si è scatenata sui social network, niente di strano. A scatenarla le foto di Roman Pastore, candidato con Calenda a un Municipio di Roma, con un vistoso orologio al polso. L’hashtag #Rolex è arrivato in cima ai trendig topic di twitter, anche se quell’orologio di lusso era un Audemars Piguet. Pastore si trovava alla scuola politica di Matteo Renzi, leader di Italia Viva ed ex premier, a Ponte di Legno. Roman Pastore ha 21 anni, è candidato a un Municipio di Roma con Azione di Carlo Calenda ed è social media manager degli under 30 che sostengono Renzi. È stato definito “figlio di papà” per quelle foto. Una critica a una sinistra che non è sinistra a un evento che si schiera apertamente contro il reddito di cittadinanza E lui ha replicato a tutta la polemica sui social: “Oddio! Sono stato scoperto! Mi hanno ‘sgamato’ l’Audemars Piguet (non Rolex) che, mi pare, non è (ancora) un reato indossare. Ma la polemica politica riusciamo a farla sui temi o l’unica opzione è quella sempre di fare o di ricevere attacchi personali? Forse è chieder troppo …”. A scatenare il tutto erano stati alcuni commenti indignati definiti subito di sinistra radical chic. “Bisognerebbe educare i giovani ai valori genuini, non a indossare Rolex e vestirsi da giovani vecchi wannabe renziani”, quello che ha innescato tutto, a firma Barbara Collevecchio, psicologa. “Il problema è che il ragazzo con il #Rolex avrà una vita piena di occasioni meritate o meno mentre quello con il #RedditoDiCittadinanza dovrà faticare parecchio anche per le cose essenziali. Ma questo il ragazzo con il rolex non può comprenderlo”. Oppure: “Sempre sul ragazzetto e il ‘caso’ #Rolex. Poverino, candidato a 21 anni da Calenda, partecipa a scuola di #Renzi che predica che i poveri devono soffrire senza #RedditoDiCittadinanza, e una notevole collezione di patacconi. Tutti regalati dal nonno?”. E ancora: “Se un candidato fa di tutto per evidenziarlo vuol dire che più che la sostanza, si vuole mettere in mostra l’involucro. Roma merita contenuto non l’incarto. Può tranquillamente saltare un giro e tornare a studiare per capire i bisogni di Roma”. Pastore ha anche spiegato il significato di quell’orologio in un altro tweet: “Figlio di papà? Orgogliosamente figlio di mio padre, che purtroppo non c’è più da diversi anni. Mi ha lasciato un orologio ma mi ha insegnato a non giudicare nessuno dalle apparenze, senza sapere nulla di lui e della sua vita. Il suo odio è spaventoso, spero se ne renda conto”. A difenderlo anche il leader di Azione, candidato a Roma ed ex ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda cha definito il “linciaggio” del tutto “inaccettabile. Esattamente come lo era quando Salvini definiva Lerner il comunista con il Rolex e noi, giustamente, lo difendevamo, si giudicano le persone per la qualità di quello che dicono o fanno, non sulla base di che orologio portano”. Oddio! Sono stato scoperto! Mi hanno “sgamato” l’Audemars Piguet (non Rolex) che, mi pare, non è (ancora) un reato indossare. Ma la polemica politica riusciamo a farla sui temi o l’unica opzione è quella sempre di fare o di ricevere attacchi personali? Forse è chieder troppo… 

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 4 settembre 2021. Un politico di vent' anni che si veste da fighetto e indossa un pataccone con le lancette che costerà come trenta redditi di cittadinanza non è il prototipo del mio «congressman» ideale. Ma è un problema mio e di chi, come me, è cresciuto a Torino, dove il lusso ostentato è stato sempre considerato un po' cafone. Però da qui a insultare e minacciare sui social Roman Pastore, candidato da Calenda a uno dei consigli municipali di Roma, ce ne passa. E non solo perché a Roma un pastore fa decisamente comodo, con tutti gli animali allo stato brado che pascolano in giro. Intanto il rolex, che non è neanche un Rolex, sarebbe il lascito ereditario del papà defunto: un mezzo colpo basso per noi sentimentali. Inoltre, risulta abbastanza ipocrita chiedere ai politici di guadagnare poco e poi indignarsi se alla vita pubblica si accostano ormai soltanto i ricchi di famiglia. E comunque, meglio uno che entra in politica con il rolex di uno che vi entra senza e se lo mette dopo, inducendo gli elettori a credere che gli sia stato regalato in cambio di un favore. L'unico appunto che proprio non si può fare al ragazzo crono-munito è di essere il classico «comunista col rolex» che predica l'uguaglianza delle opportunità e incarna il suo contrario. Presentandosi con Carlo Calenda, e provenendo dal vivaio del futuro capo del centrodestra Matteo Renzi, Roman Pastore è semmai un perfetto esempio di rolex senza comunista.

VITTORIO FELTRI per “Libero Quotidiano” il 4 settembre 2021. A volte non si sa se ridere o bestemmiare. Il caso in esame è talmente assurdo da meritare un sberleffo e nulla più. Apprendiamo che a Roma è esplosa una polemica insensata poiché Calenda, già ministro, di tiepida sinistra, presentando la sua lista in regola per l'elezione del prossimo sindaco, ha sottolineato di avervi inserito un giovanotto poco più che ventenne. Fin qui tutto tranquillo. Sennonché gli avversari dell'ex uomo di governo, vedendo la fotografia del giovin candidato sono inorriditi. Perché? Udite udite. Il ragazzo in questione nella immagine sfoggia un elegante orologio di marca, un Audemars Piguet, che è subito stato interpretato dai progressisti da strapazzo come un simbolo di ricchezza inaccettabile per la gente di sinistra. L'episodio è grottesco. Il problema è che quelli del Pd non si rendono conto di non dichiararsi più stalinisti come erano un tempo non lontanissimo, ma di essere approdati in terra democratica, pertanto dovrebbero giudicare l'idoneità di una persona a partecipare a elezioni non in base a un cronometro, di legittima provenienza, bensì in relazione alle sue idee. Niente. Nei cervellini degli ex inquilini di Botteghe Oscure questo concetto elementare non entra neanche con le martellate. Sono ancora qui a guardare all'oggettistica di cui un uomo dispone, ne sa qualcosa Massimo D'Alema che alcuni anni orsono fu vituperato in quanto calzava scarpe inglesi, più care di quelle di Vigevano. Gli ex padrini del proletariato non demordono, con la testa sono sempre in sciopero, non capiscono di rendersi patetici allorquando si attaccano a un orologio per delegittimare qualcuno che non sia un loro compare. Ai quali vorrei far notare che la Capitale è piena di gravi problemi, che vanno dai gabbiani da guerra ai cinghiali a spasso sui marciapiedi, ai trasporti che non trasportano, al pattume che sovrasta la città. Mi pare evidente che una campagna elettorale decente dovrebbe affrontare le emergenze urbane, non il dramma di un orologio regolarmente acquistato da un giovanotto di buona famiglia in un negozio, mica da un ricettatore magari rom. Poi la sinistra si stupisce perché perde voti, cominci a non perdere la dignità e il buonsenso.

Giuseppe Alberto Falci per il “Corriere della Sera” il 4 settembre 2021. È diventato l’oggetto della contesa. La destra lo ha difeso: «Evviva la ricchezza!». Una parte del mondo di sinistra lo ha attaccato: «Figlio di papà!». Tutta colpa di un Rolex. Anzi, no. Di un Audemars Piguet, preciserà il diretto interessato, vale a dire Roman Pastore, 21enne capitolino, studente universitario della Sapienza, candidato al consiglio municipale con la lista civica di Carlo Calenda. Pastore è finito sotto i riflettori per avere pubblicato un selfie due giorni fa, direttamente dalla festa di Italia viva a Ponte di Legno, nel quale indossava il lussuoso orologio svizzero. In un amen l’autoscatto fa il giro dei social. Piovono gli insulti. Il popolo del web si divide. Finisce così: guelfi contro ghibellini. Destra contro sinistra. Sinistra contro sinistra. Barbara Collevecchio, psicologa ad orientamento junghiano, pubblica un post in cui c’è la foto di Pastore con l’orologio di marca. A corredo il commento: «Bisognerebbe educare i giovani ai valori genuini, non ad indossare Rolex e vestirsi da giovani vecchi wannabe renzini». E ancora, sempre Collevecchio insiste: «Poverino, partecipa a una scuola di Renzi che predica che i poveri devono soffrire senza reddito di cittadinanza, e una notevole collezione di patacconi. Tutti regalati dal nonno?». Prova a spegnare il fuoco Calenda: «Prendono di mira Roman e il padre mancato da due anni e mezzo. È piuttosto colpito. Chiudetela qui. Avete già usato olio di ricino e manganello. Può bastare». Dopo aver ricevuto la solidarietà di Virginia Raggi, il giovane renzian-calendiano risponde al Corriere. Dice di essere «ancora ferito per questo linciaggio. Sono stato oggetto di bodyshaming».

Rifarebbe quella foto?

«E perché no? Non penso sia importante che orologio metta. E non è nemmeno un reato che sia di marca. Oltretutto quello di cui tanto si parla non è un Rolex ma un Audemars Piguet donatomi da mio padre, che non c’è più da due anni. Non vorrei accostarmi a Mario Draghi, anche il premier è stato definito “figlio di papà”, nonostante lo abbia perso da piccolo». 

Eppure, in un’altra foto porta un Rolex modello Submariner. Quanti ne possiede?

«Non penso sia una cosa fondamentale. Penso sia importante soffermarsi sulla qualità e sul linguaggio della persona che si ha di fronte. Sono uno studente universitario di Scienze politiche e relazioni internazionali che sta partecipando a una scuola di formazione con altri 400 ragazzi». 

A proposito, è renziano o calendiano?

«Basta con le etichette. Io sono iscritto a Iv e concorro come candidato al consiglio municipale nella civica di Calenda. Preoccupiamoci se una persona approfondisce. Dice sempre Renzi: open mind. Che significa allargare la foto e non soffermarsi sul click. Adesso devo staccare».

Ecco il populismo spiegato bene. Roberto Chiarini il 4 Settembre 2021 su Il Giornale. Effetto e causa della crisi della democrazia, può comunque aiutarla a correggersi. Non c'è dubbio che il populismo rappresenti una sfida per la democrazia, e per di più una sfida in duplice senso. Costituisce una minaccia alla democrazia rappresentativa, l'unica che abbiamo conosciuto in Occidente in questi due ultimi secoli. Al contempo, le offre anche un'opportunità, aiutandola a prendere coscienza di quelle insufficienze e contraddizioni in cui è impaniata ormai da alcuni decenni. In tal senso, la democrazia viene sollecitata a riformarsi, se non proprio a rifondarsi. Assodato che il populismo è un esito e insieme un fattore della crisi della democrazia, resta da capire se questa crisi sia accidentale o strutturale, se abbia profonde radici nella sua storia, o se questa ultima versione presenti tratti di originalità. Va detto innanzitutto che il populismo non ha un carattere di occasionalità o di casualità. È anzi una presenza strutturale della democrazia. Il suo (questo è il pensiero di fondo) è un rifiuto pregiudiziale dell'istituto della delega, il mandato rilasciato agli eletti che espropria l'elettore e sequestra la volontà popolare per ben due volte. Primo, perché consegna a un ceto di politici professionisti il potere sovrano. Secondo, perché finisce coll'affidare ai partiti un potere di intermediazione ulteriormente distorsivo. «L'elezione - ha detto bene Raffaele Simone - è un lasciapassare incondizionato per la più ampia discrezionalità di comportamenti da parte degli eletti». Il populismo va considerato insomma parte integrante della democrazia. È come un fiume carsico che resta per lo più sommerso, ma che emerge talora in modo tumultuoso. Esercita quindi stabilmente un condizionamento della vita politica: o indirettamente come minaccia o direttamente come protesta, quando non dà vita a un vero e proprio partito. Una componente populista si annida inoltre in molte culture politiche, a vario titolo diffidenti verso la democrazia delegata, come lo sono state quella socialista e quella cattolica. Per emergere, il populismo ha bisogno di una crisi di sistema, ossia di una situazione nella quale la democrazia accusi forti difficoltà a soddisfare le istanze emergenti dalla società. Venendo ai tempi nostri, si può affermare che il populismo abbia trovato una congiuntura particolarmente favorevole. I fattori che lo propiziano sono molti. Sono i processi d'integrazione globale che erodono la base del benessere e quindi anche del consenso delle democrazie occidentali. E poi, la perdita di sovranità degli Stati nazionali a favore di istituzioni pubbliche e corporations private che calpestano la sovranità popolare con una cosiddetta «politica dell'ABC» (Agencies, Boards, Commissions). Inoltre, il senso di abbandono che prova il cittadino di fronte ad una politica impotente. Potremmo aggiungere: il «tradimento delle élite», ossia la loro incapacità - o addirittura indisponibilità - a fungere da classe dirigente, proiettate come sono a integrarsi nel mercato mondiale. Infine - last but not least - l'affermazione di una società individualistica, soggettivistica, narcisistica, relativistica. È un processo innestato dalla crisi delle ideologie e dei partiti. La loro scomparsa ha fatto emergere con forza - ha acutamente fatto notare Guido Mazzoni - «il lato inappartenente e narcisistico che è implicito nella rivendicazione dell'autonomia» individuale, divenuta ormai l'aspirazione dominante. Questa ha portato alla contestazione indistintamente di ogni autorità: culturale, sociale, politica, in nome della rivendicazione dei diritti soggettivi individuali. Il rifiuto di ogni identificazione ha prodotto la «fine di quei legami collettivi di cui i partiti moderni erano l'effetto e in parte la causa». È diventato difficile, se non impossibile, per il cittadino del XXI secolo credere in valori collettivi, ancor più costruire identità collettive. C'è poi una specificità dell'Italia. Il nostro Paese ha fornito da sempre al populismo un habitat particolarmente favorevole. Esso partecipa di quel sentimento insieme di lontananza ed estraneità alla politica, la cosiddetta anti-politica, assai diffuso e tenace nella nostra vita pubblica. Questo sentimento si è nel tempo consolidato in una specifica cultura civica nazionale che ha incorporato come suo tratto saliente il disprezzo/rigetto della politica. A consolidarlo ha pesato la lunga dominazione straniera, quello che Machiavelli ha chiamato «il barbaro dominio». Il sequestro della sfera dei «pubblici affari» ha lasciato agli italiani solo la cura dei «negozi privati». Tale deficit di legittimità della politica non è stato riassorbito nemmeno al momento della costruzione dello Stato e della nazione. Lo State Building e la Nation Building, due processi storici che altrove hanno contribuito in modo determinante a promuovere un processo di inclusione allargata e a forgiare un saldo sentimento di appartenenza, da noi non hanno funzionato a dovere. Non solo, non hanno sradicato il sentimento di estraneità alla politica. Non lo hanno nemmeno attenuato. Hanno contribuito viceversa a rafforzarlo ed estenderlo. Un ruolo non irrilevante nell'alimentare una suggestione genericamente populista è stato inoltre esercitato dalle culture politiche socialista e cattolica, a lungo scettiche o apertamente contrarie allo Stato unitario e alla democrazia parlamentare. Ne è seguita una lacerazione del tessuto connettivo che lega la comunità nazionale oltre, e al di sopra, delle articolazioni proprie della lotta politica. Da ultimo, la nostra democrazia ha sofferto della scomparsa dei partiti cosiddetti d'integrazione di massa. Questi hanno occupato ininterrottamente, dalla caduta del fascismo fino al loro tracollo con Tangentopoli, il ruolo non solo di attori protagonisti della vita pubblica, ma addirittura di titolari di una legittimità predominante rispetto a quella riconosciuta allo Stato. La crisi di questi partiti ha quindi equivalso alla crisi tout court della democrazia, ritrovatasi spoglia al contempo di un supporto vitale e di una credibilità in forma più grave che in altre nazioni occidentali. La riemersione del populismo nella vita democratica ha trovato un clima favorevole e non sembra ci siano prospettiva che torni a inabissarsi. Roberto Chiarini

La lunga marcia del populismo americano. Luca Gallesi su Inside Over il 21 luglio 2021. Come già accennato in un precedente articolo dedicato a John Adams, il “fenomeno Trump” non è l’exploit improvviso di un bizzarro outsider, ma si inserisce, in modo sicuramente eccentrico, nel vasto e profondo sentimento populista che scorre nella storia americana sin dagli albori. Tale schieramento primeggiò grazie a figure eccezionali come il secondo e il terzo presidente Usa, rispettivamente John Adams e Thomas Jefferson, che furono gli antesignani di quello che, cento anni dopo, sarebbe diventato il populismo propriamente detto, incarnato nei partiti e movimenti esplicitamente populisti, come la Granges, il Greenback Movement e, ovviamente, il vero e proprio People’s Party, che sfiorò la vittoria alle presidenziali del 1896 con il candidato democratico-populista William Jennings Bryan. Può essere azzardato definire il termine “populismo americano” in un’accezione tanto larga da comprendere personaggi apparentemente lontani tra loro come gli stessi Jefferson e Adams e i loro epigoni, ma è sicuramente vicina alla realtà la definizione di “risposta dei ceti meno favoriti e spesso non rappresentati” che manifestarono politicamente il loro dissenso, spesso radicale. La prima forma di contrapposizione populista fu quella tra città e campagna, soprattutto nel momento in cui la realtà urbana, divenuta motore industriale e cuore finanziario del Nuovo mondo, crea, inevitabilmente, una tale concentrazione di ricchezza da impoverire e soprattutto sfruttare, il vasto mondo agricolo, rimasto ancorato a una visione pre-capitalista ricca di lavoro e molto produttiva, ma povera di mezzi e quindi necessariamente indebitata. Si ripropose, quindi, in termini a volte molto accesi, la contrapposizione tra le “due città”, tra i ricchi e i poveri, ovvero i produttori, piccoli proprietari, o fittavoli che dovevano ipotecare il proprio raccolto per continuare a lavorare, contrapposti ai “parassiti” delle città che controllavano la voluta scarsità di denaro per continuare a dominare l’economia nazionale. Questo, molto semplificato, è il quadro in cui, nella seconda metà dell’Ottocento i problemi lasciati aperti dalla Guerra civile si sommavano alla concentrazione delle ricchezze in mano a pochi e ristretti gruppi di potere. A partire dagli anni Settanta, e in particolare dopo il panico seguito alla crisi del 1873, dilagarono quindi a Sud e a Ovest i movimenti di protesta agraria contro la politica del governo che favoriva l’industrializzazione, costringendo i contadini a un indebitamento cronico nei confronti del capitale dell’Est, abbandonando a loro stesse le classi sociali più deboli. È in questo contesto che emerge il populismo vero e proprio, che diventò – questa forse la somiglianza maggiore col populismo del XXI secolo – un movimento di massa, indifferente, anzi contrario, alle strutture istituzionali esistenti, che dà voce a un vasto settore della popolazione fino ad allora inascoltato e senza potere. Nel 1892, a St Louis, nacque, così, il terzo partito, che, in contrasto con gli altri due partiti storici, si proponeva di ridare il governo al popolo, togliendolo alle élite democratiche e repubblicane che ormai si curavano esclusivamente dei propri personali interessi. La base restava agraria, ma in prospettiva avrebbe rappresentato tutti i lavoratori sfruttati da chi, invece di lavorare, si arricchiva manipolando la ricchezza da loro prodotta. Il People’s Party si diede subito una piattaforma programmatica molto ambiziosa, che alcuni chiamarono la Seconda Dichiarazione d’Indipendenza Americana, un appello alla cooperazione di tutte le forze sane della nazione americana: “Noi ci troviamo nel mezzo di una nazione portata sull’orlo della rovina morale, politica e materiale. La corruzione domina le urne, le Assemblee legislative, il Congresso, e sfiora ogni toga della Corte. La popolazione è demoralizzata, la stampa prezzolata e imbavagliata, l’opinione pubblica costretta al silenzio, gli affari prostrati, le nostre case sommerse da ipoteche, il lavoro impoverito, la terra concentrata nelle mani dei capitalisti”. Ora, se togliamo queste parole dal loro contesto, e le trasportiamo nell’America attuale, sostituendo il termine “capitalisti” con il neologismo GAFAM, non sarebbe difficile immaginarle pronunciate dall’ex presidente Donald Trump, così come non sarebbe del tutto improprio sovrapporre ai ceti agrari dell’Ottocento che trovarono rappresentanza nel People’s Party i numerosi lavoratori, spesso bianchi ma non necessariamente WASP, che videro una possibilità di riscatto nel presidente outsider, che, ironia della sorte, era pure lui un miliardario, per quanto eccentrico. Tornando al 1892, a St Louis, dunque, comincia la marcia verso il potere del “Partito del Popolo”, che il potere, quattro anni dopo, arriverà davvero a sfiorarlo, grazie all’azione di un personaggio straordinario, quel William Jennings Bryan di cui abbiamo già parlato, e che sarà il protagonista del prossimo articolo.

Insulti, dogmi, risse: il dibattito italiano tra tifoserie rivali che uccide la logica. Alessandro Sterpa su Il Riformista l'1 Settembre 2021. Assistiamo in maniera crescente all’impiego dell’insulto nella comunicazione sociale e in quella politica, fino ad arrivare ad una preoccupante diffusività della minaccia verbale e fisica che sta caratterizzando in particolare il tema dei vaccini e delle limitazioni in epoca Covid-19. Evidente che l’emotività ha preso il sopravvento si dice, ma sarebbe davvero riduttivo fermarsi a questo tipo di analisi. L’emotività c’è sempre stata a caratterizzare le relazioni umane, il punto è che oggi essa ha una pretesa assoluta nella “dialettica delle verità”. Un termine che evoca una contraddizione in re ipsa: non ci può essere dialettica tra due cose incompatibili e ritenute entrambe vere, una deve soccombere per legittimare l’altra. Il diritto costituzionale è nato per garantire il pluralismo nelle “società senza verità” (se non forse quelle tecniche) e si trova a dover fronteggiare crescenti spinte ad affermare verità ad horas. Non si media (nel senso che non si raggiungono compromessi) perché con la verità non hanno senso le mediazioni, ma si pretende che i media trasmettano la verità del momento altrimenti andrebbero addirittura puniti. Quando le emozioni prendono il dominio i compromessi della logica sono declassati a semplici e dolorose offese. L’“emotivamente vero” è spesso non solo privo della logica razionale che lo colloca nel mondo dei contrasti rendendolo compatibile con il convivere: c’è di più. Esso è anche “emotivamente parziale” perché seleziona tra diverse emozioni quella che in quel momento più sanziona in modo netto la veridicità di una posizione e la cristallizza. Dovremmo riscoprire l’importanza del “velo” davanti ad ogni “vero” perché così ci ricorderemmo che vero non è. Quel velo è il dubbio, l’altro, la prospettiva diversa. Mediare tra le emozioni è ancora più difficile che mediare i concetti con la logica razionale. Immaginiamo di dover tenere un referendum o di esaminare una legge sulla produzione energetica nucleare dopo un disastro in un impianto che ha prodotto molti danni. Esito facile: negheremmo l’attività delle centrali nucleari. Dopo 30 anni, costretti a produrre in altro modo l’energia elettrica, scopriamo che con altre tecniche abbiamo innalzato i livelli di inquinamento atmosferico con importanti esternalità negative sull’ambiente. A quel punto convertiremmo le centrali in nucleare perché l’incidenza dei potenziali incidenti è statisticamente minima rispetto alla certezza dell’inquinamento prodotto dalle altre modalità o perché vedremo foto di volatili uccisi dallo smog piuttosto che petrolio in mare che copre le spiagge? Emotività chiama emotività in un circolo vizioso di legittimazione delle emozioni. Dietro ad ogni emozione c’è un assoluto percepito come “giusto” su di un piano di parametri soggettivi in un brodo di buone intenzioni. Il punto è che dovremmo spezzare questo circolo che autoalimenta la “prossima emozione” ossia la “prossima verità” con un impegno che non deve estirpare le emozioni ma collocarle nel contesto logico, renderle gestibili. Serve una comunicazione che ritrovi le parole, che sono i numeri della logica, mezzo insostituibile. Più parole insomma (e qui si aprirebbe una lunga discussione sulle immagini…). E tra le parole serve rilegittimare a pieno titolo in particolare le congiunzioni avversative arricchendo la comunicazione di anzi, eppure, ma, però, tuttavia, bensì e quelle eccettuative (tranne che, eccetto che, salvo che, se non che, a meno che). Nel mondo globale dove tutto è connesso e complicato tendiamo a semplificare scatenando e sfruttando le emozioni. Il diritto è l’arte della mediazione formale delle idee e degli interessi e si adegua nella forma per raggiungere la sostanza del risultato che è suo compito perseguire. La giurisprudenza in questo aggiunge un complesso e articolato lavoro di bilanciamento, connessione e raccordo che tiene insieme le regole, i principi e i valori con un abbondante impiego di congiunzioni “anti verità” e adotta decisioni. Fino ai casi di cronaca nei quali si manifesta innanzi ai tribunali per invocare la “sentenza giusta”, l’appagamento dell’emozione in certi casi magari di vendetta punitiva. Pensate a certi miti del “normativismo emozionale”: “abolizione della povertà”, “pene esemplari”, “certezza della pena” oppure “guerra a…” con la categoria che emoziona in quel momento piuttosto che alla riforma di turno che “salva” la categoria odiata o amata di turno (“salva ladri”, “salva corrotti”…). In questo possiamo ben dire che c’è un ruolo dei media non sempre attento a non cavalcare le emozioni e che opera semplificando. Perché comunicare le emozioni pretende un certo grado di semplificazione. Proprio quando servirebbe una educazione alle emozioni, assistiamo al loro sfruttamento, anche da parte della stampa che adesso ne è purtroppo ingiustamente vittima. Quante volte nel titolo del quotidiano troviamo espressioni eccessive ed esemplificatrici? Quante volte nella descrizione della notizia troviamo aggettivi e avverbi che suscitano interesse al clic emozionando, incuriosendo chi cerca una emozione? Un tema antico, certo, ma oggi sarebbe utile che la rivoluzione delle parole che già interessa il diritto (pregi e difetti della questione) sia esportata nella comunicazione tradizionale e nuova dei media. Senza questa attenzione il circo(lo) delle emozioni rischia di essere una giostra dalla quale si scende tutti molto stremati, politici, giuristi e giornalisti. Volevamo uscirne emozionati e ne usciremo emaciati? Alessandro Sterpa

Gli errori che creano le fazioni. Claudio Brachino il 2 Settembre 2021 su Il Giornale. Io vax, tu no vax. Alla fine anche su un tema cruciale per la vita, delle persone e della società, siamo finiti al solito come i Guelfi e i Ghibellini. Divisi, in lotta, culturale e materiale, una pericolosa guerra civile del vaccino la cui posta in gioco è il futuro. Ma chi sono i no vax? Se togliamo le frange estreme, chi soffia sul fuoco, i rancorosi e i pazzi, dietro alle proteste e alle minacce, c'è un sottostrato sociale che va indagato. Ci sono milioni di italiani che non ne vogliono sapere di vaccinarsi. Sono una minoranza rispetto al 70% di over 12 che l'ha fatto, ma ci sono. Riprendiamo le immagini retoriche dell'arrivo della prima dose, la luce in fondo al tunnel e mettiamole accanto a quelle di questo fine agosto. Sono passati appena otto mesi. Cosa non ha funzionato nella narrazione? La scienza in primis, che non ha saputo trasmettere all'opinione pubblica la potenza delle proprie scoperte. Il tempo breve anziché un successo è diventato un fattore di diffidenza, troppi annunci contraddittori e una frettolosa spiegazione sui cosiddetti effetti collaterali. La statistica non basta a tranquillizzare. Poi anche in campo medico abbondano gli eretici. Il mio barista mostra il cellulare aperto su un canale con specialisti che raccontano di danni pazzeschi. Serve i clienti e fa propaganda contro. Secondo tema, la comunicazione. In questi giorni dito puntato contro i cattivi maestri. Ce ne sono certo in tv, sui giornali, in libreria dominano i saggi negazionisti. Ma il vero problema è la non mediazione del web, la sua forza disinformativa globale. Non solo fake, ma news profilate con gli algoritmi sulle angosce di ognuno. Basta rivedere il documentario The social dilemma o avere in casa un adolescente non conformista. Vai nel suo mondo e trovi l'orrore. Più clicchi e più vieni profilato. I dubbi diventano in fretta convinzioni ferree e poi rabbia. Ultima, ma non ultima, la politica. Non si può giocare sul consenso. Le posizioni devono essere chiare e responsabili. Né serve estendere il green pass come moral suasion. Alla fine, molto presto, sarà obbligata la politica a discutere sull'obbligo vaccinale, con buona pace dei teorici della libertà rimasti in silenzio con i lockdown e i coprifuoco. Claudio Brachino 

I sociologi e l'Italia divisa: "La frattura può peggiorare". Lodovica Bulian il 2 Settembre 2021 su Il Giornale. Disuguaglianza, incongruenze e incertezze alla base della spaccatura: "La terza dose accentuerà la tensione". Le annunciate manifestazioni di ieri sono state un flop, ma la frattura nel Paese sull'asse green pass, vaccini e diritti «esiste», «non va sottovalutata». E rischia, secondo le analisi di diversi sociologi, di «accentuarsi nei prossimi mesi con il dibattuto sulla terza dose». «Si tratta di una frattura non politica, ma di sensibilità, di irritabilità e di fastidio verso certe misure, che divide le popolazioni. Dietro non c'è un partito e non si formerà un movimento dei no green pass. Questa fase risponde piuttosto a una richiesta di allentamento della pressione del controllo sociale da parte della popolazione - spiega Francesco Alberoni - E la platea è eterogenea. Per quanto riguarda i no vax, dietro c'è invece una base culturale ben precisa di diffidenza rispetto alla medicina. Ma quando parliamo di green pass parliamo di una costrizione personale - non poter salire un treno, entrare in un locale - che può dare fastidio. Credo che le divisioni si acuiranno quando si discuterà di terza dose. Ci vuole molta prudenza da parte di tutti, soprattutto da parte della politica». Il popolo dei no pass «non va delegittimato», avverte Luca Ricolfi. Perché non ci sono solo i no vax «duri e puri, e quelli neanche li considero perché sono una parte minima». Ci sono anche persone favorevoli ai vaccini ma che hanno dubbi sull'obbligo del certificato. «Io stesso mi sono vaccinato e non sono contro il pass, ma non mi piace per niente. Bisogna accettare che esistano opinioni diverse e non bollarle come ignoranti. Il green pass si basa su dati di fondo sulla situazione epidemiologica non chiari, e che costringono la gente - pensiamo alle madri di bambini di 12 anni - a prendere decisioni senza avere certezze, senza la tranquillità sugli effetti a medio e lungo termine del vaccino. Quindi al di là dei no vax - dice Ricolfi - che hanno una posizione ideologica e che sono una percentuale ridottissima, ci sono persone che hanno un'esitazione. Medici e insegnanti sono forse persone ignoranti? Anche i dubbi sul pass sono legittimi, non condivido la posizione paternalistica e sprezzante di chi lo considera uno strumento di regolazione. Non parlerei nemmeno di discriminazione, ma un problema di limitazione alle libertà e di un prolungamento indefinito dello stato di emergenza c'è». Come se ne uscirà? «Se la campagna vaccinale avrà successo, allora sarà più difficile opporsi agli strumenti che la accompagnano. Ma il dibatto si sposterà sulla terza dose». Secondo Franco Ferrarotti quella che si è vista nelle piazze in questi mesi, prima contro i lockdown e poi contro il pass è una «spaccatura autentica». Che però ha le sue radici in una società stravolta dalla pandemia: «Si sono aggravate le disparità le ingiustizie sociali preesistenti - spiega - Una grande quantità di persone si è trovata senza mezzi di sussistenza. Il malessere si manifesta anche gridando «no vax» o «no pass», ma i vaccini c'entrano ben poco. Sono - e parlo delle frange violente delle piazze - dei pretesti. Il problema è che non dovrebbero essere i politici ma le acquisizioni nel campo scientifico a indicare la via. Purtroppo con questo virus anche l'analisi scientifica ha dei limiti. La politica però ha una sua responsabilità con la confusione che ha ingenerato tra affermazioni e propaganda». Più che una spaccatura, quella che vede invece Paolo Crepet è una «fratturina». «Si può manifestare la propria contrarietà - chiarisce - ma non impedire a qualcuno di prendere un treno. Uno può arrabbiarsi per il green pass ma non può pretendere di entrare scuola non essendo vaccinato. Sull'obbligo del certificato non ci trovo niente di scandaloso, però va detto che ci sono delle incongruenze che alimentano lo scetticismo. Un esempio? I treni pieni all'80% e i teatri al 50%. L'allargamento di questa frattura dipende molto da quanto terreno verrà ancora lasciato all'incertezza, all'interpretazione delle regole». Lodovica Bulian

Dieci anni fa la lettera della Bce. La gogna contro la Fornero segnò l’inizio del populismo italiano. Giampaolo Galli su Il Riformista il 13 Agosto 2021. Ai primi di agosto del 2011, il giorno prima della lettera della Bce, i sindacati (tutti: da Cgil, Cisl, Uil fino all’Ugl) e le organizzazioni datoriali (tutte, da Confindustria e Abi fino a Confcommercio e Confapi) ottennero dal governo di essere convocati a Palazzo Chigi sulla base di un breve documento comune che metteva al centro la gravità del momento e l’urgenza di risanare i conti pubblici. Ce lo siamo dimenticati tutti quel documento proprio perché il giorno dopo è arrivata la lettera della Bce, ma esso è molto significativo, perché dice cose molto simili a quelle contenute nella lettera della Bce, dalla scarsa credibilità degli impegni del governo in materia di pareggio di bilancio fino alle liberalizzazioni e alla modernizzazione del welfare e delle relazioni sindacali. Alla luce di quel documento, tanto ampiamente condiviso, diventa davvero difficile dire che la Bce ci ha imposto dall’alto la ricetta liberista. Quella ricetta era considerata necessaria quasi da tutti nelle condizioni di allora. Negli anni successivi quella stagione della nostra storia sarebbe stata oggetto di una straordinaria campagna di criminalizzazione che ha coinvolto persone per bene, oltre che molto competenti, come Mario Monti ed Elsa Fornero e lo stesso Presidente Napolitano. Ristabilire la verità sugli eventi di quei mesi è utile per contribuire a mettere fine all’orgia populista che ne seguì e che fu alimentata da una inaudita e inaccettabile campagna di disinformazione fatta in particolare da alcuni dei ministri del governo che era in carica nel 2011. Si è parlato di colpo di mano della Bce, di dittatura dei mercati, di complotti (tedesco secondo alcuni, francese secondo altri) e persino di colpo di Stato. Il documento delle parti sociali si apre con la constatazione che le turbolenze che si stavano manifestando sui mercati finanziari erano in parte connesse a «fragilità intrinseche di un’Unione Europea che è ancora carente sotto il profilo politico e degli assetti istituzionali», ma subito dopo dice che «il momento è grave», che spetta solo a noi italiani risolvere i nostri problemi e che «la politica di bilancio resta il cuore dei nostri problemi». E ciò perché «senza alcun dubbio i mercati non hanno fiducia nell’impegno dell’Italia a conseguire il pareggio di bilancio nel 2014. Evidentemente occorre fare di più». Nel documento non si arriva a proporre ciò che chiese poi la Bce, l’anticipo dell’obiettivo del pareggio al 2013, ma si chiede di porre «il pareggio di bilancio – proprio così! – come obbligo costituzionale». Si osserva altresì che la manovra di luglio altro non aveva fatto che ridurre il deficit dell’ultima parte del 2011, scaricando però «maggiori oneri sul 2012». La conclusione è che «non si può prescindere da interventi strutturali per aumentare la produttività del pubblico impiego e per modernizzare il sistema di welfare». Non si citano esplicitamente le pensioni, ma il riferimento è del tutto evidente dal momento che questa frase sta in un breve paragrafo che ha per titolo proprio il pareggio di bilancio. Nella storia fatta con il (poco) senno di poi, il peso della riforma cadde tutto sulle spalle di Elsa Fornero, ma tutti sapevano che quella riforma andava fatta, anzi che era la chiave di volta per ripristinare la credibilità della firma sovrana dell’Italia. La gogna cui è stata sottoposta Elsa Fornero negli anni successivi da gran parte della politica è degna delle peggiori cacce alle streghe della Salem raccontata da Arthur Miller e segna un momento buio della nostra storia recente. Come nella lettera della Bce, nel documento delle parti sociali si proponevano una serie di misure per rilanciare la crescita e fra queste al primo posto vi erano- fatto assai significativo – “liberalizzazioni e privatizzazioni”. Alla riunione che si tenne a Palazzo Chigi il 4 agosto, con tutto il governo schierato, fra la parti sociali vi fu un accordo per far parlare una sola persona a nome di tutti. Lo scopo era quello di sottolineare la assoluta drammaticità del momento, il fatto che era in gioco la salvezza della nazione. Ad una sola persona toccò di dire al governo che la stanca ripetizione dei programmi dei singoli ministri, quale ci era stata propinata, era del tutto inadeguata rispetto alla gravità del momento. Qualche mese prima, all’inizio di maggio, si erano tenute la Assise di Confindustria, un evento cui parteciparono migliaia di imprenditori. Già allora, anche per effetto dei litigi fra ministri di primo piano, la credibilità del governo era pressoché azzerata. Nel timore che gli imprenditori potessero riservare una accoglienza molto dura al governo, si decise di non invitare nessun politico, cosa che a memoria non era mai accaduta prima. Altro che colpo di Stato e complotti! I complotti erano quelli che si facevano l’un l’altro i ministri di quello stesso governo. Giampaolo Galli

Il Partito unico e i dubbi. Alla ricerca della destra perduta: Salvini, Meloni e Berlusconi in cerca d’identità. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 13 Luglio 2021. La domanda sembra semplice e invece è quasi insensata: chi e che cosa è di destra oggi? La questione è quasi identica quando ti chiedi che cosa sia di sinistra, e scopri che questo orientamento – o sentimento, o disposizione naturale – non sa più se mettere le tende sulle questioni sociali o su quelle dei diritti civili. La destra è molto più complicata e così ho tentato socraticamente di usare me stesso – nessun narcisismo semmai masochismo – come cavia. Perché una tale dissennata avventura? Per provare a immaginare in che cosa potrebbe consistere la realizzazione della proposta di Berlusconi, di un raggruppamento di destra alla maniera del partito repubblicano americano. Quel partito creato da Lincoln mi è sempre sembrato come il cappello delle meduse spiaggiate: dentro l’involucro abita un intero ecosistema. Il Grand Old Party di Abraham Lincoln non è mai stato un vero partito, è un capello di medusa dove convivono idee diverse ma che possono stare insieme. e poi si trasformano in comitati elettorali quando arriva l’ora del voto. La mia storia è comune: vengo da una sinistra che considerava l’Unione Sovietica, prima e dopo Stalin, come una fonte di orrore. Lo so, questo è il momento in cui tutti devono insorgere gridando come ossessi “come ti permetti, mascalzone, non sai che i sovietici hanno sacrificato venti milioni di vite umane per vincere i nazisti?” Devo rassicurarli: lo so benissimo, ma so anche che ciò accadde per colpa di Stalin che scelse di iniziare la seconda guerra mondiale dalla stessa parte di Hitler invadendo con lui la stessa Polonia nello stesso settembre del 1939, ma ancor più per colpa dei comunisti di tutto il mondo, che nel biennio di quella losca alleanza esaltavano i successi hitleriani contro le corrotte democrazie borghesi e tifavano apertamente per il Terzo Reich a cominciare da Stalin che faceva pubblicare sulla Pravda i suoi sfrenati telegrammi di congratulazioni ad Hitler per le sue sfolgoranti vittorie dalla caduta di Varsavia, all’invasione di Olanda e Belgio fino a quando andò con le mani in tasca al Trocadero per guardare con soddisfatto rancore la svastica sventolare dalla Tour Eiffel. E non dimentichiamo neppure che Stalin si rifiutò di credere al voltafaccia di Hitler per due lunghe settimane dopo l’inizio dell’invasione nazista impartendo l’ordine di non contrattaccare i tedeschi perché ci dev’essere per forza un equivoco. Il punto è che soltanto dal momento in cui Hitler capovolse i fronti, anche i comunisti capovolsero la lista dei loro nemici e si degnarono di tornare all’alleanza con noi (storicamente parlando) “social-fascisti”, nel senso che i socialisti erano insorti contro la turpitudine del connubio armato fra nazional-socialisti e comunisti durante i primi due anni di guerra. Non sto parlando di faccende militari, ma di carne viva e sanguinante, dal momento che da allora si sono creati dei falsi fronti fra destra e sinistra che ancora producono effetti limacciosi e fuorvianti. Andiamo sul pratico e torniamo all’oggi: perché Giorgia Meloni è una borgatara del fascismo sociale e ha militato con i suoi camerati praticando quel genere di politica che con grande imbarazzo di tutti, era di sinistra e non reazionaria? Oggi Giorgia si muove verso una linea conservatrice ma il suo appeal politico è quello e non ha nulla in comune con la destra classica. E quale sarebbe la destra classica? Proviamo a narrala come una fiaba. C’era una volta un regno, anzi una umanità nell’Europa che era stata toccata dalla Rivoluzione Francese e poi dalle ingegnerie militar-sociali di Napoleone, in cui era facilissimo farsi il tampone e stabilire se tu fossi, per i parametri allora in uso, di destra o di sinistra. A destra se ne stava grassa e odiosa come nei disegni di George Grosz, la bieca e ricca borghesia capitalista con i grandi latifondisti, E a sinistra, emaciati ed esangui, più morti che vivi, gli sfruttati e i bambini schiavi dell’accumulazione primaria raccontata da Dickens con lo spietato cuore dei Racconti di Natale. Si poteva dire che scremando le due parti politiche dalle loro ali più aggressive quel che restava era un grande partito conservatore che raggruppava gli abbienti che possedevano ma anche producevano la ricchezza; e poi un altro partito che si poteva definire progressista che si batteva per salari e livello di vita degli sfruttati. Tutto era facile e si poteva anche dire con Disraeli che chi non è progressista a vent’anni è senza cuore e chi non è conservatore a quaranta è senza cervello. Quel che era successo dopo la Rivoluzione francese aveva però assunto tinte fosche e inaspettate perché per la prima volta nella storia erano saltati fuori i nazionalismi e le etnie, le appartenenze e le bandiere, l’urlo di tutti gli indipendentisti pronti a morire per una trascrizione fonetica, lo sdegno del romanticismo specialmente degli abitanti della penisola italiana che parlavano lingue e dialetti di origine romanza fra loro incomprensibili ma che facevano sfracelli con bombe e coltelli per l’anarchia o la nazione, la guerra al papa e lo schianto redentore della dinamite accompagnato dall’impegno sulle barricate per compensare piombo con piombo. Quelle mille lingue slave e romanze e tedesche provocarono un casino quando furono scoperchiati gli imperi centrali polverizzati dalla Grande guerra, cui si aggiunse anche quello Ottomano col medio oriente in fiamme. Non era più soltanto lotta di classe e di ricchi contro poveri e sfruttati contro sfruttatori, ma anche di un sacco di altre cose che provocarono dalla fine della grande guerra fino all’inizio della seconda, un’ondata di rivoluzioni egualitarie seguite da repressioni spietate, eserciti fantasma, ricorsi generosi al genocidio e all’annichilimento reciproco che già avevano scandalizzato mezzo secolo prima Carlo Marx che aveva ribattezzato Giuseppe Mazzini col nomignolo sprezzante di Teopompo, un vate del narcisismo sanguinario che nulla aveva a che vedere con la giustizia sociale. Io sono figlio della prima metà dello scorso secolo e quando venne l’adolescenza surfavo quell’onda che correva fra socialismo e rivoluzione, ma con la mano alla pistola che non avevamo, quando entravano in scena gli adorati compagni sovietici. Quando cadde anche l’Impero sovietico, l’Italia perse i suoi loschi privilegi di “terra di mezzo” fra Occidente e Oriente che le aveva permesso di far pagare dazio ad amici e nemici con quel genere di furbizie e doppi-pesi per cui eravamo guardati con legittimo sospetto dagli uni e dagli altri. Mi trovai per un caso professionalmente fortunato ad accompagnare un altro visionario eccitato, il presidente Francesco Cossiga che la sapeva lunga e aveva capito tutto in tempo. Risparmio al gentile e già ben informato lettore la storia di Mani Pulite, del giustizialismo e dagli altri derivati, a loro volta figli tardivi della politica berlingueriana che per divincolarsi dagli ultimi spasimi della Rivoluzione d’Ottobre, aveva fatto ricorso all’ideologia di una superiorità etica dei comunisti, santi subito. Quanto agli altri, meglio che andassero sotto processo. Semplifico e ne sono ben consapevole ma fu allora che furono mischiate ancora una volta tutti i tarocchi usati per dividere la destra dalla sinistra secondo i canoni e i cannoni dei tempi della guerra. L’Italia è un Paese conservatore come ripeteva Togliatti, anche se un po’ cinico e un po’ ridanciano, ma comunque efficiente e solido. Di quel conservatorismo era già campione l’imprenditore multimediale Silvio Berlusconi battendo in popolarità l’aristocratico avvocato Agnelli. Quando cadde l’impero sovietico, i socialisti pensarono ingenuamente che fosse arrivata l’ora della rivincita e invece era arrivata l’ora della pentola. L’antico odio fra socialisti e comunisti che si era ricomposto e rilacerato tante volta nel corso di un secolo tornò con tutta la violenza e avvenne questo rimescolamento per cui tutti ( o quasi) noi socialisti e gli altri naufraghi dell’Italia che adesso chiamiamo liberale, trovammo non solo utile ma sacrosanto salire sulla zattera che il borghese Berlusconi aveva costruito con un colpo di scena storico e che fece saltare la previsione di una vittoria l’ex Pci, ribattezzato PDS. Fu così che ci ritrovammo ancora una volta ad essere “social-fascisti” come ai vecchi tempi. Nell’alleanza creata da Berlusconi erano stati imbarcati i neoromantici identitari di Bossi e i neofascisti di Gianfranco Fini, ai suoi tempi pupillo di Giorgio Almirante, passato all’antifascismo militante. Il seguito è noto: con l’alleanza passata alla storia come “il Predellino”, di fatto Berlusconi assorbì il partito di Fini che a sua volta fu cancellato dalla politica attiva dopo la vicenda della “casa di Montecarlo”. Ma intanto la destra era diventata un’altra destra: sparito il partito neofascista erede del Msi che si rifaceva alla repubblica di Salò. Anche la ventata federalista e romantica della Lega di Umberto Bossi era stata affossata da scandali e rovine, mentre il successore Salvini passava al nazionalismo capace di raccogliere il consenso della paura dell’immigrazione incontrollata. È stato così che, fra evoluzioni, contorsioni e un drastico dimagrimento di Forza Italia dovuto dall’assenza forzata di Berlusconi, nasce l’idea – proprio di Berlusconi – di una alleanza fra diversi nella quale dovrebbero mantenere ciascuno la propria identità senza finire fagocitati e digeriti dal più forte. Di qui si torna al punto di partenza prima di iniziare il secondo giro della nostra ricognizione: di quale destra stiamo parlando, su che cosa dovrebbe o potrebbe riunirsi e – più che altro – su che cosa competere con la sinistra.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

I tre tenori del centrodestra cantano sempre la stessa solfa. Marco Follini su L'Espresso il 6 luglio 2021. Nell’eterna reiterazione di messaggi e slogan, il Paese premia la politica scarna. Ma l’elettorato è felice, per adesso. Assertivo, compiaciuto, pietrificato. Il centrodestra è un monumento, eretto a se stesso e ai suoi numeri elettorali. Come ogni monumento che si rispetti è imponente e retorico, scultoreo e immobile. Edificata sulla collina dei suoi consensi popolari, che non sembra destinata a smottare, la ex Casa delle libertà procede per certezze e ripetizioni mai troppo faticose. Le manca in compenso ogni capacità, ma anche ogni volontà, di aggiornare la propria agenda, il proprio lessico, i propri argomenti. Mentre la sinistra si dimena, si contorce, si reinventa ogni giorno, anche quando non ce ne sarebbe alcun bisogno, la destra si fa forte della propria attitudine a ripetersi. Cambiano le circostanze, questo sì. Si affermano nuovi leader (prima Salvini, poi Meloni), declina l’antico patriarca, si fanno largo qua e là figure meno segnate dal tempo. I suoi partiti vanno e vengono tra governo e opposizione, e a quel bivio le divisioni sembrano dar luogo a controversie, svolte e trasformazioni di non poco conto (vedi, da ultimo, la nascita del governo Draghi). Ma poi, quasi inesorabilmente, la destra ritrova la strada che le è più consueta e che le appare più comoda: quella della eterna reiterazione e della estrema semplificazione di sé e del suo messaggio. Le sfumature non le appartengono, i dubbi sembrano annoiarla. Per dire. La questione del suo assetto (un partito o tre, la federazione, il coordinamento) viene affrontata ormai quasi ogni giorno e utilizzata a mo’ di predellino, a giro, da ognuno dei suoi leader. Ma è piuttosto chiaro che non se ne farà nulla per un bel po’ di tempo. Mentre risulta oscuro cosa significhino tutte queste amenità. E cioè se dietro un assetto o l’altro si nasconda una o l’altra idea del paese e magari perfino un’idea nuova, non si sa mai. Ora, nessuno si può scandalizzare che sia in corso una disputa sulla leadership. Ma quella disputa dovrebbe almeno alludere a qualche progetto, qualche trasformazione, una minima evoluzione di sé. E invece appare solo come l’esempio della muscolarità dei suoi condottieri. L’intendenza, al solito, è chiamata a seguire, possibilmente applaudendo. Nelle seconde e terze file non spira un alito di brezza. Non sembra esserci nessuna disputa, né l’ambizione di introdurre argomenti e sensibilità che non siano quelli più canonici e sperimentati. Come se la dialettica politica fosse del tutto inappropriata. La sfida al primato dei rispettivi leader appare più che mai disdicevole, e anche l’evocazione di punti di vista almeno un po’ eterodossi suona come un fuor d’opera. Sarà pure un valore, la disciplina. Ma certi suoi eccessi finiscono per svalutare innanzitutto se stessi e la propria parte. Perfino quando la si pratica con le più nobili intenzioni. Certo alcune parole d’ordine restano lì, come per offrire un punto fermo. Più sicurezza, meno tasse. Eppure vengono recitate stancamente, ribadite come un mantra, senza che mai da quelle parti si levi una voce che segnali altre priorità, o magari anche solo altri modi per realizzare quelle più canoniche. L’eresia non è contemplata, sembra sempre l’anticamera dello scisma. Il sentimento d’ordine costringe all’obbedienza, mentre solo i tre condottieri possono dare libero sfogo a una certa propensione al litigio. Salvo negare il giorno dopo i loro singoli, reciproci pensieri del giorno prima. Nel silenzio deferente di tutti gli altri. Insomma, da quelle parti nessuno può essere irrispettoso del quartier generale. Tantomeno fantasticare di bombardarlo. Si dirà che la sinistra (non parliamo del centro) vive di troppe sfumature e ha fatto dei capelli spaccati in quattro, e magari in quarantaquattro, la sua dubbia virtù. Ma quel tanto, tanto, di disordine che si respira da quella parte non giustifica il troppo ordine che regna dalla parte opposta. Dove l’ortodossia celebra il suo trionfo ma la fantasia sembra troppo spesso lasciata fuori dalla porta. Ora, sia chiaro, il vento spira a destra, e questo va riconosciuto senza troppi giri di parole. Così è in Europa, a quanto pare. E così è da noi, dove la sinistra non è mai stata maggioritaria e dove le tendenze più conservatrici che la Prima Repubblica aveva tenuto a bada ora sembrano invece dispiegarsi in tutta la loro possenza. Dunque, i tre tenori di quell’orchestra possono intonare gli inni della loro tradizione e godersi gli applausi (e magari i voti) del pubblico che tifa per loro. Ma forse proprio per questo dovrebbero anche aprirsi a nuovi argomenti, ospitare dibattiti inediti, mettersi in questione quel che tanto che basta a incuriosire e suscitare sorpresa tra gli increduli. E invece sembrano avvolti tutti quanti nella confortevole coperta di Linus della loro ortodossia, senza che nessuno metta mai in discussione i loro assiomi e le loro gerarchie. Al momento, tutto questo non fa perdere voti, a quanto pare. Tutt’altro. Anzi, sembra quasi accordarsi con lo spirito di un Paese che è stanco della troppa politica e ne vorrebbe a questo punto dosi meno massicce da inoculare quotidianamente. In fondo, lo stesso apprezzamento per Draghi, sembra sottintendere il bisogno collettivo di ridurre la politica alla sua essenzialità, al suo buon funzionamento, senza i troppi arzigogoli che fanno la felicità degli addetti ai lavori. Dunque, che la destra non sia troppo problematica, che non faccia autocoscienza, che non vada in cerca di inedite fantasie, che ricalchi con studiata monotonia i propri argomenti, tutto questo ha un suo perché. E magari propizia perfino un vantaggio per chi aderisce a questo codice. Resta il fatto, però, che in un Paese come il nostro a lungo andare una politica così scarna, così ovvia, quasi rattrappita nella sua essenzialità, appare destinata a una fortuna piuttosto effimera. E che da una forza, o un insieme di forze, che si propone come l’Italia prossima ventura sarebbe lecito aspettarsi qualcosa di più che non la celebrazione di se stessa. La destra, per sua natura, è depositaria di un’idea di sicurezza. Dunque, è piuttosto ovvio che essa celebri e reiteri questa parola d’ordine adattandola ai suoi leader e ai suoi programmi. Ed è perfino ovvio che all’occorrenza se ne faccia un merito al cospetto di una certa confusione che magari regna altrove. Ma è altrettanto vero che un paese maledettamente complicato e felicemente pluralista come è l’Italia sopporta a fatica questa reductio ad unum di cui la destra sembra fare la propria bandiera. E per quanto i numeri avvalorino gli schemi di cui sopra, resta il fatto che numeri e schemi sono per loro natura un po’ ballerini. Per il momento resta da segnalare quell’alto tasso di ripetitività, e quasi di monotonia, nei messaggi che risuonano da quella parte. Come se il loro modello fosse più la granitica certezza ideologica che animava la sinistra di una volta piuttosto che la flessibilità a volte fin troppo disinvolta che spiega e magari illustra il quasi cinquantennio di predominio democristiano. Ma, si sa, è il nemico apparentemente più lontano quello che ti guida nel labirinto che ancora non conosci.

Il documento sovranista firmato da Matteo Salvini e Giorgia Meloni spiega bene cosa è questa destra. di Sofia Ventura su L'Espresso il 13 luglio 2021. Nel testo sottoscritto insieme ad altri leader europei come Orban si parla tanto di nazioni e poco di cittadini. E di diritti neanche l’ombra. Chi parla di loro come di moderati farebbe bene a leggerlo. Matteo Salvini e Giorgia Meloni di nuovo insieme. Insieme come firmatari di un documento sottoscritto all’inizio di luglio da una quindicina di leader di partiti dell’estrema destra europea, dall’ungherese Fidesz allo spagnolo Vox, dal polacco Pis al francese Rassemblement National. Due paginette dedicate al futuro dell’Europa, un futuro ben diverso da quello sul quale si sta ragionando attraverso il processo partecipativo avviato dalle istituzioni europee con la Conferenza sul futuro dell’Europa. Sul documento sono confluite formazioni appartenenti a due gruppi del Parlamento europeo, Identità e Democrazia, del quale fanno parte la Lega di Salvini e il Rassemblement di Le Pen, e Conservatori e Riformisti Europei, presieduto da Giorgia Meloni. Nei commenti a questo appello ci si è soprattutto soffermati sui potenziali risvolti politici, ad esempio con riguardo alla futura collocazione di questi partiti nel Parlamento europeo, o con riferimento alle contraddizioni interne, come quelle relative alle “amicizie internazionali”. I contenuti del documento sono stati descritti e perlopiù evidenziati per la loro natura ostile all’attuale Unione e il loro carattere sovranista. Ma, in realtà, ciò che li rende particolarmente interessanti è la reinterpretazione, fumosa, omissiva, ambigua, della Storia che propongono. «La turbolenta Storia dell’Europa», si legge nel documento, «in particolare nell’ultimo secolo, ha prodotto molte sventure. Nazioni che difendevano la loro sovranità e la loro integrità territoriale da aggressioni hanno sofferto al di là di ogni immaginazione. Dopo la Seconda Guerra mondiale, alcuni paesi europei hanno dovuto combattere per decenni il dominio del totalitarismo sovietico prima di riottenere la loro indipendenza». Non si dice altro su quella fase storica. Si lasciano indistinti gli accadimenti del Secondo conflitto mondiale. Forse li si mescola con quelli della Grande Guerra, in un calderone dove i vari nazionalismi possano attingere per costruire i propri miti. Si pensi alla manipolazione della Storia a fini propagandistici che sta operando da diversi anni Viktor Orbàn, centrata sulle perdite territoriali dell’Ungheria in seguito al trattato di Trianon (1920). Al tempo stesso, e soprattutto, mentre si fa esplicito riferimento al totalitarismo sovietico, nemmeno si nominano il nazional-socialismo tedesco, il fascismo italiano e i loro tanti alleati e collaboratori. Com’è possibile ometterli allorquando si evoca la «turbolenta Storia» dell’ultimo secolo? Se lo si fa vi deve essere una ragione. Forse non si vogliono irritare segmenti di un potenziale elettorato. O comunque si preferisce sfumare quel “passaggio” della Storia europea per non doversi confrontare con esso nello stesso momento in cui si pone al centro delle propagande sovraniste l’esaltazione della nazione. Quante “tradizioni nazionali” uscirebbero malconce da un tale confronto! Ricordare il totalitarismo sovietico, ma dimenticare tutto il resto. Questo sconcertante approccio fa venire alla mente le osservazioni sviluppate nel suo ultimo libro da Anne Applebaum, liberale e conservatrice, premio Pulitzer per l’opera “Gulag”, sulla fine del comunismo. Su come quest’ultima evidenziò che non per tutti l’anti-comunismo era stato un sentimento vissuto, una battaglia condotta, in nome della libertà, un atto anti-totalitario, riprendendo il titolo del saggio di André Glucksmann. D’altro canto, in quelle due paginette, che tanto dicono dei loro estensori, non si parla mai di libertà. Se non in due passaggi, dove si richiama la libertà delle “nazioni”. Le “nazioni” sono al cuore dell’Europa, non i diritti e le libertà individuali. D’altro canto, nelle tragedie del XX secolo sono le nazioni ad essere indicate come le vittime, non le vite sconvolte e strappate di milioni di donne e uomini. Le nazioni come corpi organici. Non cercatelo l’individuo, non lo troverete. Tanto meno i suoi diritti. I diritti sono quelli della nazione, richiamata in due cartelle quattordici volte; due volte sono ricordati i cittadini: quelli che rispettano le tradizioni europee e sono rappresentati dai partiti che le difendono e i membri delle nazioni europee che stanno perdendo fiducia nelle istituzioni dell’Unione. La Conferenza sul futuro dell’Europa prima citata richiama i valori «sanciti dall’articolo 2 del trattato sull’Unione europea: dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, Stato di diritto e rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze». In ultima istanza è l’uomo, con la sua libera ricerca della felicità, il valore ultimo da tutelare e affermare. Tradizione, Cultura, Nazione, sono invece i valori ultimi per queste nuove (ma anche vecchie) destre europee, e poco importa che i loro leader ci credano davvero: agiscono come se ci credessero e della interpretazione di quei concetti reificati fanno strumento di consenso e di potere. E manipolano la Storia, con omissioni, confusioni, banalizzazioni. Per poter liberamente proporre come nuovo un discorso pubblico tragicamente già noto e celarne la enorme, potenziale, pericolosità, oltreché la sua più completa illiberalità. Denunciano la volontà di creare un Super-Stato europeo implicitamente evocando come spauracchio il modello sovietico per potere esaltare l’incapsulamento dei cittadini in nazioni autonome: che una delle grandi conquiste della cultura europea sia l’idea dei diritti universali che trascende appartenenze e particolarità lo ignorano (o preferiscono ignorarlo). L’adesione di Salvini e Meloni a questa destra costituisce un’ipoteca sul futuro del nostro Paese. E non si tratta di un’adesione superficiale o occasionale. Certamente non lo è nel caso di Giorgia Meloni, il cui libro da poco pubblicato può essere visto come lo svolgimento della traccia sviluppata nel documento anche da lei firmato, mentre la sua propaganda è sempre coerente con quello svolgimento. Più difficile fornire una valutazione nel caso di Salvini. Tuttavia, il fatto che pur sostenendo il governo Draghi non abbia esitato a unirsi ai fautori dell’“altra” Europa, ci dice che l’opzione estremista, per motivi contingenti - la competizione con Meloni - ma anche strutturali - quello dell’estremismo è l’unico gioco che sa davvero giocare - resta per il capo della Lega un’opzione sempre possibile. Anche Salvini, d’altronde, come Meloni, del passato fascista si rifiuta di parlare, mostrando così, come la leader di Fratelli d’Italia, l’estraneità all’europeismo dei padri fondatori che nell’antifascismo aveva un proprio pilastro. Meloni e Salvini questo sono. Sottoscrivendo l’appello della destra sovranista europea lo hanno confermato, sarebbe auspicabile che su di loro si smettesse perlomeno di farsi illusioni. Su di loro e su di una destra che vorrebbe riscrivere la storia europea dell’ultimo secolo per costruire un futuro che da democratici e liberali preferiremmo relegato alle fiction distopiche.

Mario Ajello per "il Messaggero" il 9 luglio 2021. Devono ritenerlo in modo, soprattutto il Pd e i 5 stelle, di togliere terreno ai Ferragnez, di entrare in sintonia con i giovani, di farsi millennial tra i millennials per aumentare i propri consensi. E così - al netto del fatto che il calcolo potrebbe essere sbagliato, visto che i ragazzi della politica per lo più se ne infischiano e non scendono in piazza per chiedere di parteciparvi di più - ecco il Senato che approva definitivamente e quasi all' unanimità l'allargamento del diritto di voto ai 18enni per Palazzo Madama. Non più gli over 25 ma anche gli under potranno scegliere i senatori. Ne sentivano il bisogno? Non parrebbe. E comunque: dal prossimo appunto per le Politiche (nel 2023 presumibilmente) 4 milioni di ragazzi si aggiungeranno nella platea elettorale. Per la promulgazione di questa legge costituzionale - votata ieri con 178 sì, 15 no e 30 astenuti - dovranno passare tre mesi, durante i quali potrà essere richiesto il referendum confermativo: il 9 giugno scorso infatti la Camera ha approvato il ddl senza raggiungere il quorum dei due terzi. Intanto siamo agli entusiasmi, e quello di Enrico Letta è incontenibile: «Fino ai ieri un giovane tra i 18 e i 25 anni aveva un potere dimezzato rispetto agli altri elettori più anziani. Votava solo alla Camera. Da adesso voterà anche per il senato. Un piccolo ma concreto passo per dare più forza alla voce dei giovani». 

RUBABANDIERA Sì, i ggiovani. Toglierli ai Ferragnez e recuperarli ai partiti sembra impresa disperata. E non è certo il contentino del voto dei 18 per il Senato - e anche il voto in generale ai 16enni su cui sempre il Pd insiste assai, parlando addirittura di «rivoluzione generazionale» per questa eventuale riforma non chiesta dai giovani ma dai giovanilisti - quello che appare molto adatto per recuperare un minimo di attenzione da parte dei ragazzi e delle ragazze che a milioni (di follower) si riversano sui Ferragnez e su altri interessi che non sono il Nazareno o altre botteghe partitiche. Sui quali i clic e i like dei millennials non si riversano e continueranno a non riversarsi. Il paradosso è che questo tipo di iniziative legislative per i ggiovani, nel disinteresse dei destinatari, coincide con una fase in cui esistono altri problemi di grande impellenza per le sorti della nazione. Esempio. L' Unione Europea dà all' Italia una pagella da incubo sulla giustizia - processi lentissimi, scarsa indipendenza dei giudici, risorse umane insufficienti negli uffici e nei tribunali e dunque Bruxelles dice: o fate le riforme o non vi diamo i soldi del Pnrr - ma il Palazzo è tutto contento per il regalo non richiesto donato ai propri ragazzi quando si potrebbe fare molto altro e molto di più, ossia grandi riforme strutturali, invece di un pannicello caldo come il voto senatoriale ai 18enni e poi magari ai 16enni. E verrebbe da allargare il discorso alla legge Zan. Naturalmente importante: ma è davvero una priorità, mentre la Ue ci chiede riforme di sistema - non solo la giustizia ma anche il fisco, la burocrazia, le infrastrutture - e vincola alla loro realizzazione l'assegnazione dei soldi del Recovery Plan?

I NODI VERI E' curioso che, tra le tante riforme necessarie alla Costituzione, quella meno sentita e di cui meno si è parlato - cioè appunto questa del voto ai 18enni per il Senato - è l'unica che viene fatta. Nell' indifferenza dei più. A riprova che i partiti, mentre Draghi governa e cerca di garantire all' Europa che le riforme di sostanza le faremo, per lo più si cimentano su temi che - si veda anche l'insistenza dem sullo ius culturae - non sembrano in questo momento appassionare le masse.

Evviva il voto ai ragazzi, insomma, ma evviva soprattutto tante altre cose, ossia - se ci saranno - i grandi interventi per l'economia, per la crescita, per il lavoro.

Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa" il 9 luglio 2021. «Quando si aprono nuovi bacini elettorali, c' è sempre una certa attenzione da parte dei partiti. Sono situazioni che possono creare cambiamenti», dice Edoardo Novelli, professore di comunicazione politica all' università RomaTre. 

Quali precedenti ci sono nella storia italiana?

«Il voto alle donne nel 1946 fu una novità consistente: era il 50 per cento della popolazione, meno politicizzato e alfabetizzato, di orientamento prevalentemente cattolico. Ma non si crearono particolari cambiamenti, a differenza di quanto accadde negli Anni 70». 

In che senso?

«L' altra grande novità fu nel 1976, con l'abbassamento a 18 anni dell'età per votare per la Camera. Era una situazione particolare: significava l'immissione di una grande quantità di persone, tutti i figli del boom economico». 

Quali erano le differenze?

«In questo caso la politicizzazione era molto forte, due anni prima il referendum sul divorzio aveva mostrato l'esistenza di una società radicalmente cambiata, nel 1975 c' era stata la grande avanzata del Pci alle elezioni amministrative con il supporto dei movimenti extraparlamentari». 

Uno spostamento a sinistra ci fu?

«La Dc era molto preoccupata dopo queste sconfitte e lo temeva. In effetti le elezioni segnarono un ulteriore avanzamento del Pci, pur senza sorpasso». 

E poi non è successo più nulla, come mai?

«Nel 2005 si era tentata un'operazione di allargamento con l'introduzione delle primarie dell'Unione per selezionare il leader della coalizione. Votarono sedicenni e immigrati residenti e fu un successo». 

Adesso qual è la situazione?

«In assenza di grandi cambiamenti, ci sono due forbici: la disaffezione al voto, con percentuali calanti di affluenza soprattutto tra i giovani, e di conseguenza il tentativo di ampliare il bacino elettorale. Il punto è che i giovani sono proprio i più disaffezionati». 

Che effetti potrebbe avere la riforma?

«Il numero di giovani interessati è relativamente contenuto. E poi la riduzione del numero dei parlamentari annacqua la potenzialità "destabilizzante" di questi voti. E poi mentre nel 1970 l'orientamento era verso sinistra, ora il quadro è più equilibrato, ci sono posizioni più conservatrici». 

Come reagiranno i giovani?

«La fame di partecipazione non è così diffusa. L' idea di poter partecipare potrà avere, se non altro all' inizio, un qualche effetto. Ma non prevedo code ai seggi». 

Perchè?

«Una legge elettorale con liste bloccate disincentiva la partecipazione. E poi la vera questione riguarda l'offerta politica per i giovani e il linguaggio della comunicazione con riferimento a una generazione che comunica in modi completamente nuovi. Un quadro politico confuso difficilmente suscita partecipazione. Insomma: i giovani come e per cosa dovrebbero andare a votare?». 

 "Versione luxury...", "Influencer..". La bufera su Fedez. Francesco Curridori il 10 Luglio 2021 su Il Giornale. Fedez e sua moglie Chiara Ferragni dettano l'agenda della politica, soprattutto sul Ddl Zan. A tal proposito ecco le opinioni dei deputati Augusta Montaruli (FdI) e di Fausto Raciti (Pd) per la rubrica Il bianco e il nero. L'attivismo di Fedez e di sua moglie Chiara Ferragni a favore del Ddl Zan continua a dividere la politica. Per la rubrica Il bianco e il nero abbiamo interpellato la deputata di FdI, Augusta Montaruli e il piddino Fausto Raciti. Cosa pensa dell'impegno mediatico di Fedez a favore del ddl Zan?

Montaruli: “Che appunto è mediatico e l’impegno non può essere consegnato ai like. Dopodiché il lusso non fa lo stile e la notorietà non fa la verità. Il tentativo di utilizzare la popolarità del personaggio Fedez così come di altri per fare pressione sull’approvazione del ddl zan avviene perché se gli stessi si calassero nella piazza reale subirebbero un irresistibile contraddittorio”.

Raciti: “Non ci vedo nulla di male né nulla di strano, da sempre le personalità della musica, della cultura, dello sport, del cinema, dicono la loro. Che Fedez faccia una diretta Instagram su un argomento popolare è del tutto in linea col suo modo di comunicare. È un influencer, no?”.

Secondo lei, Fedez punta a entrare in politica? Potrebbe avere successo?

Montaruli: “Non so a cosa punti Fedez sicuramente interpreta il suo personaggio da influencer. Non credo quanto un like possa trasformarsi in un vero consenso. Spero ancora che la politica sia un’altra cosa”.

Raciti: “Mi sembra uno abbastanza contento della vita che fa e dei soldi che guadagna col suo lavoro. Lavoro che sa fare molto bene dato che mi sta facendo un'intervista su di lui. Purtroppo molti politici sembrano degli influencer o gli piacerebbe sembrarlo, da un lato. Dall'altro il partito di maggioranza relativa è stato fondato e guidato da un comico”.

I politici fanno veramente tutti schifo, come dice la Ferragni oppure una frase del genere stavolta indigna meno perché è rivolta a Renzi che vuol modificare il ddl Zan?

Montaruli: “I politici non fanno tutti schifo e dirlo è grave sempre ancora di più se a prescindere dalle posizioni lo dice una persona che ha l’ambizione di comunicatore a tanti italiani soprattutto giovani. Minare la fiducia nei confronti dei politici e del dibattito politico è fare un danno alle nuove generazioni. Stiamo assistendo ad un grillismo versione luxury”.

Raciti: “Lo chiede a uno che si è iscritto a un partito a 15 anni e oggi fa il parlamentare, non sarò mai d'accordo con una cosa così qualunquista. Detto questo il nostro parlamento è pieno di gente che ci è entrata dicendo esattamente la stessa cosa. La Ferragni non è stata molto originale”.

Stefano Feltri, direttore del Domani, ha proposto di regolamentare Per legge l'influenza degli influencer. Lei sarebbe d'accordo?

Montaruli: “La differenza tra noi e Fedez è che noi rispettiamo la libertà di pensiero per questo non credo che ci possano essere provvedimenti che la limitano. Per ottenere par condicio versione social sarebbe già tanto arrivare ad impedire censure che attualmente avvengono da parte dei gestori ma sempre e solo a senso unico contro un’unica parte politica o persone che interpretano idee non compiacenti ai colossi della comunicazione”.

Raciti: “Non ho capito cosa dovremmo regolamentare. Mi sembra come quando si diceva che Berlusconi vinceva le elezioni per le televisioni di cui era proprietario. Poi ti accorgi, e le difficoltà di Forza Italia oggi lo dimostrano, che la situazione era un po' più complessa. Invece di fare leggi sugli influencer bisogna farle sui partiti, che oggi sono formazioni di latta. E finanziarli anche, perché è lì che si dovrebbe formare una classe dirigente”.

Fedez ha detto che avrebbe messo a disposizione una piattaforma online per discutere di politica. Non è un film già visto e mal riuscito?

Montaruli: “Assolutamente sì , non sarebbe una novità. La democrazia non può essere mai appannaggio di un click ed anche chi si è illuso in passato di ciò ha avuto e sta avendo in questo periodo la conferma del fatto che tali piattaforme hanno ridotto lo spazio di confronto”.

Raciti: “Non saprei che dirle. Mi sembra che quel tipo di cose le abbiano già fatte con successo altri, oggi in crisi. Non so se c'è ancora lo spazio per quel tipo di cose. Ma quindi non mi voleva parlare del ddl Zan? “ 

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia

Chiara Ferragni e Fedez, se sul ddl Zan superano Letta a sinistra. Riecco la coppia dei miracoli contro il compromesso sull'omotransfobia (ma ci sarà un motivo se le femministe sono contro la legge, no?) Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 09 luglio 2021.

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Rieccoli all’attacco. Riecco i Ferragnez in versione arcobaleno, nella consueta posa da templari del Ddl Zan, mentre la legge contro la omostransfobia s’arrampica su sentieri legislativi tortuosi, ostacolata dal centrodestra, dal Vaticano e dal Renzi Matteo che butta un occhio al proprio elettorato cattolico e l’altro al suo nuovo palcoscenico. Dunque, avviene questo. Di prima mattina l’influencer da 20 milioni di followers Chiara Ferragni pubblica, a raffica, tre stories su Instagram immerse nella denuncia sociale e nel dileggio del Palazzo. Nella prima storia, in particolare, svetta una foto di Matteo Renzi con sopra la scritta “L’Italia è il paese più transfobico d’Europa” (cosa, peraltro non vera); e il commento: “Che schifo che fate politici”. Che suona un po’ come “quelli che la politica è una roba sporca” della canzone di Enzo Iannacci sul qualunquismo. E spiegazione dello “schifo” non è esattamente un articolato di legge: «La triste verità è che nonostante una legge che tuteli donne, disabili e persone appartenenti alla categoria lgbtq+ serva nel nostro paese e sia attiva nel resto dell’Europa da decenni, in Italia non verrà mai approvata perché la nostra classe politica preferisce guardare sempre il proprio interesse personale. La tutela contro l’odio verso queste categorie dovrebbe essere un obiettivo di tutta la popolazione e di tutti i partiti politici e il fatto che il ddl Zan non verrà probabilmente mai approvato è una grande sconfitta per tutti noi. Una sconfitta per ognuno di noi». Renzi che nei social ci zampetta assai, viene tramortito dall’impeto di Ferragni, e replica su Facebook: “Fa bene Chiara Ferragni a dire quello che pensa. Solo che da lei mi aspettavo qualcosa in più di una frasina banale e qualunquista”. E continua il segretario di Italia Viva: “Da una persona che stimo mi aspetterei un confronto nel merito. Perché sapete chi fa davvero schifo in politica? Fa schifo chi non studia, chi non approfondisce, chi non ascolta le ragioni degli altri, chi pensa di avere sempre ragione”. Non che Renzi abbia tutti i torti. Anche perché pur il senatore ribadendo e articolando tutti i punti su cui Iv chiederà la modifica del ddl Zan –ossia gli articoli 1,4 e 7 su definizione di genere, libertà d’espressione e autonomia delle scuole cattoliche- non riesce ad ottenere dalla Ferragni che una silente indifferenza. Renzi si dice anche “pronto a un dibattito pubblico con la dottoressa Ferragni, dove vuole e come vuole. Sono sempre pronto a confrontarmi con chi ha il coraggio di difendere le proprie idee in un contraddittorio. Se ha questo coraggio, naturalmente”. Ma pare che Chiara, impegnata nella pubblicità di un prodotto per capelli di cui è testimonial non abbia questo coraggio. O forse, banalmente, non ha tempo. L’indifferenza è l’ultimo terrore, scriveva Tommaso Landolfi (e Renzi, all’indifferenza, è molto sensibile). Ma ecco, ad un tratto, intervenire Fedez, nelle veci della moglie, stavolta via Twitter. “Stai sereno Matteo, oggi c’è la partita. C’è tempo per spiegare quanto sei bravo a fare la pipì sulla testa degli italiani dicendogli che è pioggia”, dice il rapper. Ce ne fosse uno che usasse lo stesso social. Reazioni politiche? Pochissime, la materia è incandescente. C’è giusto l’ipercattolico Mario Adinolfi: «Con il mio nuovo look fresco e estivo mi rendo conto di non poter competere con lo stile di Chiara Ferragni e del marito Fedez. Allo stesso modo, consiglio ai suddetti d’adottare messaggi dubitativi quando s’occupano di politica, evitando il qualunquismo e accettando il confronto». E neppure Adinolfi ha torto. Anzi, in questa ennesima querelle, dal loro punto di vista, avrebbero tutti ragione. Ha ragione Chiara Ferragni nel dire che non c’è interesse della classe politica ad attuare una “legge di civiltà”; pure se non ha interesse nemmeno la sinistra ad andare al voto in aula senza modifiche, a testa bassa, senza avere i numeri, col voto segreto (anche perché se passa così è un trionfo ma se non passa la colpa sarà comunque di Renzi e di Salvini). E ha ragione Renzi quando richiama l’arte del compromesso in politica e dice che è meglio una legge lievemente modificata che nessuna legge (d’altronde le Unioni civili sono nate stralciando la stepchild adotion, e pure il Concordato e lo Statuto dei lavoratori sono stati il frutto di accordi). La differenza tra la coppia shakespeariana dei social e i politici che “fanno schifo” sta nel fatto che per i primi non puoi pensarla diversamente da loro che subito ti scaraventano addosso la forza d’urto dei propri followers. Ma, in realtà, cari Fedez e Ferragni, servirebbe far transitare le idee. Per esempio: vi siete chiesti se passasse l’interpretazione dell’art.1 della Legge Zan che fine farebbero le quote rosa? Ci sarà un motivo se molte femministe sono incazzatissime contro lo Zan? Dite che Renzi in Senato ripudia il testo che aveva firmato alla Camera? Certo, ma non era intervenuta la Santa Sede col suo elettorato. Magari la politica farà schifo, ma se la si prendesse sul serio ho idea che varrebbe della marca di una lacca o di legioni di followers… 

Fedez e Chiara Ferragni, figuraccia colossale sul ddl Zan: per chi scambiano Ivan Scalfarotto. Libero Quotidiano il 10 luglio 2021. Figuraccia colossale per Fedez e la consorte Chiara Ferragni, ormai divenuti paladini della sinistra pro-ddl Zan. Peccato però che sulla legge contro l'omotransfobia la coppia di influencer sappia ben poco. È bastata la diretta Facebook tra il rapper, Pippo Civati ex deputato dem della Brianza, Marco Cappato ed Alessandro Zan, il promotore della legge, a dimostrarlo. "Nell'imbarazzo - spiega Il Tempo -si ritrova, l'onorevole Zan, a dover spiegare al Lucia (cognome di Fedez), quelli che sono i meccanismi parlamentari difendendo pure Matteo Renzi". Il quotidiano romano parla di continui "strafalcioni". Uno a caso? Il marito della Ferragni scambia Ivan Scalfarotto, deputato renziano, per un giornalista. Non solo perché poi il rapper si lascia andare a difese ridicole: "Mia moglie è una imprenditrice e dice ciò che pensa come cittadina italiana. Renzi è invece pagato dagli italiani". E ancora: "Che Renzi voglia confrontarsi con mia moglie, è qualcosa di imbarazzante". E in effetti, visto il livello...La nota più divertente della diretta è però il siparietto che vede coinvolta proprio la Ferragni che a un certo punto manda un messaggio in diretta, ricordando a tutti quanti, l'importanza del dibattito in corso: "Ciao Fede amore mio, che fai? Mi saluti in diretta?". Chiarissimo. 

Francesco Olivo per "la Stampa" il 9 luglio 2021. Più degli emendamenti poterono i post. Una storia, un tweet, un video di pochi secondi può cambiare il codice penale e magari anche il risultato elettorale. Per Elodie i politici «sono indegni». Per Chiara Ferragni «fanno schifo». Alessandra Amoroso mostra la mano con lo slogan e l'hashtag disegnato, Fedez attacca Renzi. Milioni di visualizzazioni, tantissimi like. Segue dibattito, ma dura il tempo di una «storia» su Instagram. Emozioni molte, e impegno, forse effimero ma molto diffuso. Al centro dello scontro c' è il ddl Zan, il disegno di legge contro l'omo-transfobia, che è finito quasi da subito dallo stenografico del parlamento alla popolarità, ormai non più virtuale, dei social. Con gli influencer, grandi e piccini, che dominano la scena e i politici costretti ad adeguarsi, quasi mai ribellandosi. Dietro ci sono rischi e opportunità: un dibattito semplificato e superficiale, che però per la prima volta non esclude la cosiddetta generazione Z, che volutamente evita la politica dei partiti (spesso ricambiata) e diffida dei media tradizionali. I numeri dell'Osservatorio di Buzzoole, una società che si occupa del cosiddetto «influencer marketing», certificano la realtà: da gennaio a oggi sono oltre 12 mila i post pubblici degli influencer, etichettati con gli hashtag della campagna a favore del disegno di legge (#ddlzan; #iostoconzan; #alessandrozan; #leggezan). Le persone raggiunte, sempre secondo i calcoli di Buzzoole, sono 5,5 milioni. Così, se ci si limita a seguire la vicenda parlamentare di un disegno di legge, si rischia di perdere il grosso dello scontro nel Paese. «Il ddl Zan funziona molto bene sui social è un tema adatto per la costruzione di una propria identità - spiega Nicoletta Vittadini, docente di Sociologia della Comunicazione e dei Media Digitali alla Cattolica di Milano -, con una dinamica polarizzata tipica del tifo, si è pro o contro e lo si esprime negli spazi pubblici di oggi». Quello che appare chiaro è che questo modello non scomparirà presto: «Non ce ne libereremo - dice Alberto Marinelli, professore di Sociologia dei processi culturali alla Sapienza di Roma -, si è creato uno schema in cui la politica, in forma più o meno consapevole, assume le forme delle piattaforme: messaggi secchi, semplificati, a volte settari. I primi a capirlo sono stati Trump e in Italia Salvini e ora la cosa si estende. I partiti non controllano il dibattito, ma gli corrono dietro, cavalcandolo o al limite tacendo». Non è la prima volta che l'introduzione o, come in questo caso, l'estensione dei diritti provoca divisioni nel Paese, «ma nel caso dell'aborto o del divorzio - conclude Marinelli - il Parlamento aveva la consapevolezza della propria centralità e i partiti non rinunciarono a operare delle mediazioni». Proprio la difficoltà di trovare compromessi, come emerso in questi giorni, «è la conseguenza dell'aumento della polarizzazione e dello scontro tra tifoserie - spiega Giovanni Diamanti, comunicatore politico, co-fondatore di YouTrend -, ma va sottolineato che gli influencer avvicinano alla politica una generazione la cui fiducia nei partiti è inferiore al 10 per cento. Sul ddl Zan in tanti stanno partecipando per la prima volta al dibattito pubblico ed è un fatto rilevante». L' allargamento del pubblico è il dato più rilevante, secondo Vincenzo Cosenza, responsabile del marketing di Buzzoole, «sono molte di più le persone alle quali arrivano le informazioni. Magari sono pochi quelli che approfondiscono, ma è comunque un allargamento. La politica ora subisce la fascinazione, d' ora in poi dovrà tenere conto degli influencer, le aziende già lo fanno da tempo». C' è poi una nuova frontiera: i media si concentrano sulle "celebrities", «ma stanno nascendo influencer impegnati su temi specifici, come l'ambiente e le questioni di genere. Non hanno ancora il seguito dei più noti, ma stanno crescendo». «La pandemia ha cambiato molte cose - conclude Vittadini -. Durante la pandemia gli influencer hanno preso posizioni che sono state molto valorizzate, aiutando la campagna di vaccini. Ora hanno un ruolo ed è impossibile non considerarli».

Chiara Ferragni contro Renzi e Salvini: "Politici, fate schifo". Ddl Zan e insulti: "Sei hai coraggio, parliamone". Libero Quotidiano il 06 luglio 2021. Ci mancava solo Chiara Ferragni contro Matteo Renzi. La polemica sul Ddl Zan spacca la sinistra e fa guadagnare ai suoi leader una bella raffica di insulti. Per Matteo Salvini, due piccioni con una fava. L'influencer, potentissima su Instagram, è da tempo schierata insieme al marito Fedez a favore della legge contro l'omostransfobia sostenuta dal Pd e difesa a spada tratta da Enrico Letta, mentre il leader di Italia Viva si è schierato a favore dell'alternativo Ddl Scalfarotto, alla ricerca di un "compromesso" con la Lega per far passare "una buona legge". All'insegna del motto "piuttosto che niente, meglio piuttosto". Ma la Ferragni non ci sta e sui social tuona, senza mezzi termini, contro il Parlamento che non sa (o non vuole) decidere su un argomento spinoso sì, ma molto sentito dai giovani. "Entra nel dibattito sulla Legge Zan dicendo ai suoi 24 milioni di follower 'Che schifo che fate politici', con la mia faccia - scrive su Facebook Renzi, in tutta risposta - Sono pronto a un dibattito pubblico con la dottoressa Ferragni, dove vuole e come vuole. Sono sempre pronto a confrontarmi con chi ha il coraggio di difendere le proprie idee in un contraddittorio. Se ha questo coraggio, naturalmente". Già a maggio, al famoso concertone, Fedez si era schierato a favore del Ddl Zan e accusando la Lega di posizioni omofobe, per poi montare la polemica contro la Rai che a suo dire aveva tentato di censurarne il monologo sul palco. "L'Italia è il Paese più transfobico di Europa - è l'accusa ora della Ferragni -. Ed Italia viva (con Salvini) si permette di giocarci su". La foto di Renzi e la scritta "Che schifo che fate politici" era piuttosto inequivocabile. "Ho sempre difeso Ferragni da chi la criticava quando postava dagli Uffizi o da chi vorrebbe minimizzare il ruolo degli influencer - continua Renzi nella sua replica -. Lo faccio anche oggi. Fa bene Chiara Ferragni a dire quello che pensa. Solo che da lei mi aspettavo qualcosa in più di una frasina banale e qualunquista. Dire che i politici fanno schifo è il mediocre ritornello di chi vive di pregiudizi. Da una persona che stimo mi aspetterei un confronto nel merito. Perché sapete chi fa davvero schifo in politica? Fa schifo chi non studia, chi non approfondisce, chi non ascolta le ragioni degli altri, chi - incalza - pensa di avere sempre ragione. Io ho firmato la legge sulle unioni civili, mettendoci la fiducia: quella legge - ammonisce - dura più di una storia su Instagram. Per firmarla ho preso insulti, ho rischiato la vita del governo, ho fatto compromessi".

Ddl Zan, Pietro Senaldi contro Fedez dopo gli insulti a Renzi: "L'uomo delle caverne di Chiara Ferragni, maschilista con la clava". Libero Quotidiano il 06 luglio 2021. "Si scopre che anche le menti più evolute e moderne hanno istinti da uomini delle caverne". Pietro Senaldi, condirettore di Libero, interviene oggi sul botta e risposta tra Chiara Ferragni - che ha attaccato Matteo Renzi perché non condivide le sue idee sul Ddl Zan -, il leader di Italia Viva e il rapper Fedez. Senaldi ricorda che "Chiara Ferragni è la più grande influencer italiana, una potenza economica, mediatica in confronto alla quale Renzi è polvere sul comò". Il problema, è che "anziché lasciarli dibattere fra di loro", puntualizza il direttore, "interviene il John Wayne della situazione, il maschio forte: Fedez. Che subito tira fuori tutta l'attrezzatura in difesa della moglie dicendo, con la consueta gentilezza che 'Renzi piscia sulla testa degli italiani'". "Un comportamento, quello di Fedez, che è maschilista", dice Senaldi che continua rivolgendosi direttamente al rapper: "Tu sei sposato con la donna più potente d'Italia, lei critica legittimamente un politico anche se lo fa in maniera ruvida, il politico risponde in maniera più garbata di come è stato trattato, e tu subito devi tirare fuori la clava". "Francamente è un po' ridicolo", puntualizza il direttore Senaldi facendo notare che "siccome i Ferragnez non hanno grande classe, prenderanno una bella lezione da Renzi". "Immagino che Agnese, la moglie di Renzi, non risponderà in difesa del marito perché ha una classe superiore", conclude Senaldi.

E Fedez risponde: "Matteo stai sereno". Rissa tra Renzi e i Ferragnez sul ddl Zan: “Banale e qualunquista dire che i politici fanno schifo”. Vito Califano su Il Riformista il 6 Luglio 2021. Quel voltafaccia, quell’antipatico, quel machiavellico opportunista di Matteo Renzi e di tutta Italia Viva. Chiara Ferragni, e il marito Fedez, per brevità detti Ferragnez, si sono indignati per l’inversione a U di Iv sul ddl Zan. “Che schifo che fare politici”, ha scritto l’influencer condividendo una stories della pagina felicementelgbt che recitava: “L’Italia è il Paese più transfobico d’Europa ed Italia Viva (con Salvini) si permette di giocarci su!”. È scoppiato un caso, soprattutto sui social network, riguardo al disegno di legge che sta agitando e dividendo la politica negli ultimi mesi. Renzi ha risposto, ha proposto un dibattio. Fedez è intervenuto e ha rispolverato lo “stai sereno” di renziana matrice e memoria, ai danni dell’allora premier e attuale segretario del Partito Democratico Enrico Letta. Il punto è sempre il Ddl Zan dunque. Prevista oggi pomeriggio la calendarizzazione del disegno di legge contro discriminazioni e violenze per orientamento sessuale, genere, identità di genere e abilismo. È stato approvato alla Camera nel novembre 2020 e in impasse al Senato per l’opposizione di Lega, Fratelli d’Italia e parte di Forza Italia. Il relatore è il leghista Andrea Ostellari. All’ultimo giorno e momento disponibile Iv ha presentato i suoi emendamenti gettando scompiglio sul ddl. Renzi & co. hanno proposto modifiche agli articoli 1, 4, 7 del testo di legge, gli stessi fortemente contestati da Lega e Forza Italia. A firmare gli emendamenti il capogruppo al Senato Davide Faraone e il capogruppo in commissione Giustizia Giuseppe Cucca. I passaggi più delicati prevedono di cancellare il riferimento all’”identità” di genere” e “tornare al testo di Ivan Scalfarotto dove si parlava soltanto di omofobia e transfobia” e quindi il rispetto “dell’autonomia scolastica” per quanto riguarda l’istituzione della Giornata contro omotransfobia prevista dall’articolo 7. Italia Viva aveva votato la legge alla Camera. Da qui il patatràc degli ultimi giorni. E l’indignazione dell’influencer italiana più famosa al mondo, e tra le più famose al mondo in assoluto, oltre che la più imitata e anche corteggiata, anche dalla politica, sulla quale negli ultimi tempi non ha esitato a esprimersi, in particolare sulla gestione della pandemia. “Fa bene Chiara Ferragni a dire quello che pensa. Solo che da lei mi aspettavo qualcosa in più di una frasina banale e qualunquista. Dire che i politici fanno schifo è il mediocre ritornello di chi vive di pregiudizi”, ha osservato Renzi sulla sua pagina Facebook rispondendo alla stories di Ferragni. “Io ho firmato la legge sulle unioni civili, mettendoci la fiducia: quella legge dura più di una storia su Instagram. La politica è serietà, passione, fatica: non è un like messo per far contenti gli amici – ha aggiunto l’ex premier – Se Chiara Ferragni vuole confrontarsi sugli articoli 1, 4, 7 della legge Zan e sugli emendamenti Scalfarotto io ci sono. Se chiara Ferragni vuole conoscere come funziona il voto segreto al Senato, ai sensi dell’articolo 113.4 del Regolamento, io ci sono. Se Chiara Ferragni vuole discutere, criticare, approfondire io ci sono. Ma sia chiaro. La politica, cara Ferragni, è un’attività nobile e non fa schifo. E la politica si misura sulla capacità di cambiare le cose, non di prendere i like”. Un dibattito tra un politico, ex premier, contro un’influecer sarebbe sicuramente un inedito. I dibattiti ormai vanno avanti d’altronde a colpi di post. E infatti: manco il tempo di postare che è arrivato il post, decisamente più aggressivo, di Fedez: “Stai sereno Matteo, oggi c’è la partita. C’è tempo per spiegare quanto sei bravo a fare la pipì sulla testa degli italiani dicendogli che è pioggia”. Fedez che pure si è costantemente espresso sul Ddl Zan facendo scoppiare un mezzo caso sul palco del Primo Maggio, nell’ultima edizione, leggendo un messaggio e accusando la Rai di averlo voluto censurare. Nessun accordo intanto fuori dai social: alle 16:30 in Senato di voterà per calendarizzare il testo in Aula per il 13 luglio. Italia Viva si è impegnata a votare tale calendarizzazione con Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Liberi e Uguali. Il centrodestra avrebbe provato a portare a domani il voto di oggi. Niente da fare.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro. 

Selvaggia Lucarelli? Se non nomini Alessandro Zan ti bastona: "Non so se è peggio Chiara Ferragni o Matteo Renzi", a cosa si è ridotta. Libero Quotidiano il 06 luglio 2021. Poteva mai la sacerdotessa del giusto, ovvero Selvaggia Lucarelli, esimersi dall'alzare il metaforico-ditino social e dire la sua sul caso politico del giorno, ossia la presa di posizione di Chiara Ferragni contro Matteo Renzi in primis ma anche contro Matteo Salvini? L'influencer, infatti, si è spesa in un democraticissimo "che schifo i politici" riferendosi ai due, "rei" - secondo l'insindacabile giudizio della Ferragni - di star brigando per limare il ddl Zan, così come chiesto dalla Lega. Insomma, la Ferragni appiattita sulle posizioni del Pd: vietato il dialogo, o il ddl Zan lo si fa così come chiesto e imposto dalla sinistra o si fa "schifo", ci permettiamo di produrci in una brevissima sintesi del pensiero della moglie di Fedez, il rapper più amato dalle bambine il quale, parimenti, si è assai speso in favore del ddl Zan (tutti ricorderanno la sceneggiata del presunto martire Fedez, quando gridò alla censura contro la Rai in occasione del concertone del primo maggio, salvo poi essere tutto tranne che censurato). Bene, e dopo queste lunghe e inevitabili premesse, ecco che si arriva alla sacerdotessa del giusto. La sentenza di Selvaggia Lucarelli, va da sé, piove su Twitter, laddove cinguetta: "Non so se è peggio la Ferragni che 'CHE SCHIFO I POLITICI' dimenticando che anche Alessandro Zan è un politico o Matteo Renzi che la invita a UN CONFRONTO", conclude la Lucarelli. Se ne evince, insomma, che per certo Renzi le faccia schifo. Ma anche la Ferragni, insomma, tanto giusta non è: si è addirittura dimenticata di mettere tra le esenzioni a quel "che schifo" il piddino Alessandro Zan, dimenticanza questa che, per la sacerdotessa del giusto Selvaggia, è più che sufficiente per provare "schifo", nei confronti della Ferragni. La sacerdotessa ha sentenziato... 

Selvaggia Lucarelli per "tpi.it" il 9 luglio 2021. Confesso che avevo paura di guardare l’incontro Fedez/Civati/Zan/Cappato perché temevo la sensazione atroce che mi avrebbe permeata in seguito. E in effetti la sensazione che mi permea dopo essermi sorbita un’ora di Fedez è che siamo sempre troppo severi nei confronti di Matteo Renzi. Che è quello che è, senza sconti, ma sa quello che dice, sempre. Il problema insuperabile di Fedez è quello di non sapere mai nulla di quello che dice oltre le 4 cose che gli segnalano le Fiorellino98 sul web o che si appunta sulla mano come in terza elementare e di diffonderle, però, con il piglio del rivoluzionario cubano. Mi ricorda un po’ Flavia Vento quando parlava di animali, che a forza di sentirle dire scemenze pure quando nella sostanza aveva ragione, si finiva per comprare un fucile a canne mozze per impallinare cerbiatti. Io una volta dopo che ho sentito Flavia Vento dire che “Verrà un giorno che io sarò premier, tutti saranno felici, i canili non ci saranno più e le guerre pure”, ho mangiato una marmotta viva. E il bello è che Fedez ha fatto una figura incresciosa giocando in casa con quei tre fuoriclasse amici di Civati/Zan/Cappato, figuriamoci cosa potrebbe fare in un confronto con degli avversari. Ti credo che rifiuta il caffè con Salvini. Roba che probabilmente scapperebbe prima di aver girato lo zucchero come Sandra Milo chiamando Ciroooooo e la Lega arriverebbe al 98 per cento, con voto della Boldrini incluso. Come al solito, la moglie che si sottrae alla dialettica e scrive banalità nelle sue storielle su Instagram senza rischiare nulla, è più furba di lui. Conosce i suoi limiti, si ferma prima. Lui no. Lui si lancia con la superba vanità dell’arruffapopoli, con un italiano zoppicante, con una totale assenza di cultura giuridica e politica ma con indosso la maglietta del suo podcast che vende come gadget perché “parlo di ddl Zan e la foto finirà nelle home di tutti i siti, mica so’ scemo”. E quindi, in questa surreale diretta in cui con le facce imbarazzate dei suoi interlocutori si potrebbero ricreare le controfigure del pubblico di Sanremo durante “Dov’è Bugo?”, succede nell’ordine che:

a) Fedez premette subito che segue la politica, è appassionato, ha una coscienza civica e politica quindi lui si interessa di questi temi e ha il diritto di parlare. 

b) Che uno dice “e va bene, parla”. Parla “Ora vi leggo una cosa che ha scritto il giornalista Scalfarotto”. IL -GIORNALISTA-SCALFAROTTO. Cioè, Scalfarotto è da mesi sui tutti i giornali e le tv prima per le dimissioni da sottosegretario dal governo assieme alle due ministre, ora per aver rivisto la sua posizione sulla legge Zan, dopo che lui stesso ne era stato firmatario. In questi giorni occupa la discussione politica, la infiamma, è accusato da tutta la comunità Lgbt (o quasi) di essersi venduto a Renzi e Fedez, l’appassionato di politica e il grande sostenitore della Legge Zan, crede che anziché un deputato e sottosegretario sia un editorialista di Libero.

c) Quando dice “il giornalista Scalfarotto” a Zan viene la faccia di quello che non sa se correggerlo tipo quando Di Maio ha detto che Matera era in Puglia e Emiliano ha suggerito “no, in Basilicata” sottovoce, tipo anche un po’ ai bambini quando si stanno scaccolando al ristorante e non vuoi sgridarli ad alta voce. Zan alla fine sceglie saggiamente di fingersi morto e di farlo finire di leggere le parole del giornalista Scalfarotto sperando che non citi anche la testata perché se poi dice “sull’Unità di oggi” gli deve anche spiegare che l’Unità non esce più da un po’.

d) Poi Fedez chiarisce che Zan (?), Cappato e Civati gli piacciono perché fanno politica fuori dal palazzo e allora uno dice “Accidenti, non conosce quelli che stanno nel palazzo, conosce quelli che stanno fuori!”. Ma tu pensa. 

e) Allora inizia a chiarire finalmente quello per cui si sta battendo da quando sul palco del Primo Maggio ci ha ricordato che i lavoratori ‘sti cazzi dello stipendio e dei licenziamenti anche perché io so’ testimonial Amazon e devo distrarvi, devo sventolare il drappo rosso sennò il toro incorna me. E allora uno dice: bene ora finalmente ci spiega i nodi principali della battaglia.

f) Solo che lui non ha capito niente del ddl Zan e, come la Meloni che però ha la faccia di dire “il gender non so che sia”, non ha capito neppure cosa sia l’identità di genere. Notare che l’identità di genere è il cuore del dibattito che vuole cavalcare, della legge che sostiene, delle paure delle destre che lui schifa, dell’avversione nei confronti della Legge che vuole venga approvata. E quindi Fedez, nella sua beata ignoranza, afferma: “Ho visto un video bellissimo con una ragazza che ha in mano la carta di identità e dice ‘guardate ho cambiato sesso!’, insomma, ha cambiato la sua identità di genere!”.

Zan fa di nuovo la faccia di Emiliano con Di Maio a Matera patria delle orecchiette con le cime di rapa. Ma Zan è un uomo buono, un tollerante vero sennò avrebbe chiuso la diretta in tutta fretta dicendo che aveva yoga e fa lo gnorri. Non gli spiega che l’identità di genere è come uno si percepisce al di là di un eventuale percorso di transizione e dell’eventuale cambio di sesso. Ma Fedez non lo sa, si crede beatamente istruito e preparatissimo e sorride senza sospettare l’immane figura di merda che ha appena fatto.

g) Poi comincia a discettare di ego, di idea grandiosa di sé, di manie di protagonismo, di cose fatte non per reale interesse ma per obiettivi altri e di una tendenza accentratrice. Si riferisce a Renzi ma potrebbe tranquillamente parlare di sé, nessuno noterebbe la differenza. 

h) Poi è tutto un premettere “io sono una mente semplice”, “io sono ignorante”, “io non so niente eh però”, che uno dice: e allora visto che hai milioni di follower e vuoi parlare di politica e diritti civili perché non vai a studiare e torni quando sai qualcosa, per esempio? 

i) Cappato, eroicamente, prova a spiegargli che la questione del voto segreto è un po’ più antica e complessa di come la mette giù lui (“io voglio sapere cosa votano i miei senatori di riferimento!”), ma Fedez è troppo preso dallo stupore di aver scoperto come si fanno i referendum, descrivendo i “banchetti per le firme” come unicorni rosa volanti. 

j) Quindi Fedez spiega che tranquilli, lui e Chiara Ferragni non vogliono buttarsi in politica, ma parlare di politica da cittadini. Che voglio dire, non avevamo dubbi: ce li vediamo i due a rinunciare alle marchette milionarie per uno stipendio da parlamentari, come no. Molto meglio “fare politica” conservando tutti i privilegi del caso, mica scemi.

k) Poi cita Montanelli, che è il giornalista più citato da tutti quelli che non l’hanno mai letto e più in generale da tutti quelli che non hanno mai letto, e questa volta, al contrario che con Scalfarotto, non specifica “giornalista”, quindi sarà stato convinto di citare un ex segretario di partito. 

l) Poi la grande chiusura: “Renzi potrebbe far passare la legge Zan così si fa perdonare l’Arabia Saudita”. E’ certo. Invece lui che va in vacanza con tutta la famiglia a Dubai, altra culla del nuovo Rinascimento in cui i gay sono accolti con le collane di fiori in aeroporto come in Polinesia, è già perdonato. Del resto, mica è un politico, l’ha detto lui. È solo un gran paraculo. E no, non è nemmeno utile a cause che spoglia di profondità, di spessore, di valore. Cause che veste di boria furba e superficiale.

Del resto, per rimanere in tema, è la percezione che ha di sé, il suo guaio, ma per capirlo dovrebbe studiare cosa sia l’identità di genere. Lo farà con calma, magari dopo che una legge di cui non ha capito nulla sarà approvata, chissà. Senza fretta.

Da repubblica.it il 7 luglio 2021. Non è finita. Continua anche oggi lo scontro via social tra politici e influencer. I protagonisti sono sempre i “Ferragnez” contro i due 'Matteo', Renzi e Salvini. L'oggetto? Sempre il ddl Zan, che il 13 luglio sarà all'esame finale dell'aula del Senato. Questa mattina Fedez è tornato sul botta e risposta a distanza tra la moglie Chiara Ferragni e il leader di Italia viva. A colazione con la tazza in mano, ha fatto una nuova storia su Instagram dove ha attaccato di nuovo Matteo Renzi dopo la replica di ieri al commento di Ferragni ("Che schifo che fate politici") sul Ddl Zan e l'invito da parte del leader di Italia viva ad un dibattito sul tanto discusso disegno di legge. "Cogliere la bassezza della politica italiana è vedere Matteo Renzi chiedere un dibattito pubblico a Chiara Ferragni, questa è la cosa triste", commenta il rapper che chiede di non fare più paragoni tra Renzi che "è un politico pagato dagli italiani per rappresentarli" e la moglie che "è un'imprenditrice che non grava sulle tasche degli italiani e che esprime un suo pensiero e può permettersi di farlo anche in maniera banale''. I toni quindi non si abbassano. Oggi anche Matteo Salvini ha lanciato la sua frecciata al rapper di Rozzano: "Renzi nel mirino di Fedez per il ddl Zan? Mi piace l'ultimo pezzo ma io preferisco Orietta Berti". Tra i due la tensione è alta da tempo, soprattutto dopo il Concertone del Primo maggio quando dal palco Fedez ha attaccato il partito di Salvini sul disegno di legge contro la omotransfobia accusando anche la Rai di censura. Ora Ferragni e, di conseguenza anche suo marito, hanno puntato il dito contro Italia viva che ha chiesto modifiche al testo come anche la Lega, altrimenti il disegno di legge in Senato non passerà. "Meglio un compromesso che nessuna legge", ha dichiarato Renzi in una intervista a Repubblica. ''Quello che mi stupisce è che ogni volta che io e mia moglie ci permettiamo di esprimere un nostro libero pensiero sul nostro paese è vedere questa distesa di intellettuali, politici e giornalisti che, dandoci degli ignoranti a noi, non fanno altro che mettere sullo stesso livello il pensiero di Chiara Ferragni e quello dei politici italiani", continua il rapper su Instagram dove ha annunciato la diretta nel pomeriggio dedicata proprio al Ddl Zan. "Per chi volesse approfondire cosa sta succedendo in Senato - spiega - ho organizzato una diretta stasera alle 18.30 con Alessandro Zan, Marco Cappato e Giuseppe Civati, voci più autorevoli della mia, che posso farvi comprendere meglio quello che sta accadendo e che potrà avvenire''. Poi rivolgendosi a Matteo Renzi chiede: "Ci tiene davvero al Ddl Zan o è il solito parac... che ha sempre dimostrato di essere in questi anni di politica italiana? Il voto segreto sul Ddl Zan è davvero necessario? Perché io, mente stupida, semplice e ignorante da cittadino - dice ironico - vorrei sapere che cosa votano i senatori che ci rappresentano per valutare il loro operato e allora perché secretare il loro voto?''. Il leader di Iv risponde con la dedica che compare in "ControCorrente", il suo ultimo libro: "'A chi in quelle ore difficili ha creduto ancora in noi e a chi sa ancora riconoscere la differenza tra politici e influencer'. L'avevo scritta un mese fa. Vedendo quello che sta succedendo in queste ore sembra costruita a tavolino. O fai politica con le tue idee o segui la massa e i populisti. Noi siamo ControCorrente", dice Renzi. Nel dibattito sul ddl Zan interviene anche il segretario del Pd, Enrico Letta: "Nella legge di Orban l'omosessualità è posta al livello della pornografia e la protezione dei bambini è usata solo per discriminare dice @vonderleyen. Noi stiamo con Ue. Salvini e Meloni con Orban. Come si può dar credito alle loro presunte proposte di mediazione sul ddlZan???". Gli risponde direttamente il leader della Lega: "Noi continuiamo a chiedere a Letta ascolto, confronto e dialogo, non è possibile non voler ascoltare e andare allo scontro in aula che significa non approvare nulla - dice a L'aria che tira estate su La7 - Letta parla dell'Ungheria? Ma cosa c'entra l'Ungheria? Perché Letta scappa? Ha paura del confronto, ha paura del Papa e delle associazioni gay e lesbiche che chiedono un confronto?".

Da liberoquotidiano.it il 7 luglio 2021. "A fr****e di m***". Chissà Rosamaria Sorge, dirigente Pd ed ex candidata a Civitavecchia, invocherà il diritto di satira oppure dirà di essere stata fraintesa. Ma la frase scritta dall'incauta e improvvida esponente democratica su Facebook scatena un nuovo psicodramma a sinistra sul Ddl Zan. Sono le ore, caldissime, dello scontro tra Pd e Italia Viva sulla legge contro l'omotransfobia. I dem non rinunciano al disegno il cui capofirmatario è il deputato Alessandro Zan e vogliono lo scontro in aula, il voto che potrebbe far approvare in Senato la norma, oppure affossarla clamorosamente. Dall'altra parte ci sono i renziani, ufficialmente "compagni di coalizione" nel centrosinistra ma in realtà nemici giurati, vuoi per agenda, vuoi per strategia politica vuoi per semplici rancori personali. Matteo Renzi ha sganciato la bomba nei giorni scorsi proponendo a Matteo Salvini e alla Lega una mediazione, "un compromesso per portare a casa una buona legge" piuttosto che fare il gioco delle bandierine ideologiche e rimanere, alla fine, con un pugno di mosche in mano (il rischio che corre Enrico Letta, niente di più, niente di meno). Il terreno della trattativa è rappresentato dal Ddl Scalfarotto, che prende il nome da Ivan Scalfarotto, ex Pd e oggi tra i big di IV. Al Nazareno l'hanno presa malissimo, accusano i renziani di tradimento, di voltafaccia a gay, lesbiche e trans (avevano votato il Ddl Zan alla Camera, anche se in un contesto politico totalmente differente), di inciuci con Salvini (ora, ma soprattutto in vista dell'elezione del nuovo presidente della Repubblica tra 6 mesi). E così le frasi della Sorge, non certo una dirigente di primo piano dei dem, non possono che scatenare la reazione piccata di quelli di Italia Viva. "Mi chiedo cosa ne pensi Enrico Letta delle parole vergognose", chiede polemica su Twitter l'ex ministra dell'Agricoltura Teresa Bellanova, pubblicando lo screenshot del post della Sorge. "Non stiamo forse esagerando?". A voi la risposta.

Piergiorgio Odifreddi per “La Stampa” il 7 luglio 2021. Sul ddl Zan gli schieramenti contrapposti sono da tempo al muro contro muro, e ciascuno ha i suoi dubbi sponsor: Salvini e il Vaticano, da una parte, e Fedez e la Ferragni, dall'altra. Chi abbia i modi eterei e raffinati di quest'ultima, può dire semplicemente che "fanno schifo tutti", e finirla così. Ma nel frattempo a scompaginare le carte si è intromesso pure Renzi, sul quale si può peraltro pensarla allo stesso modo. Forse sarebbe però più sensato evitare di fare la ola per l'uno o per l'altro, come se le vicende parlamentari fossero un'estensione dei campionati di calcio. Sulle leggi non si dovrebbe tifare per una squadra, ma ragionare tranquillamente sulla teoria e sulla pratica di ciò che esse intendono regolamentare. La cosa sembra semplice, ma che sia complicata lo ricorda un'osservazione che fece una volta Yogi Berra, il famoso giocatore di baseball dal quale ha preso il nome l'Orso Yoghi. Berra era famoso per pronunciare frasi enigmatiche, e una di queste era appunto: "La teoria e la pratica, in teoria sono uguali, ma in pratica sono diverse". Ora, la pratica del ddl Zan è che non ci devono essere discriminazioni di tipo sessuale: ognuno ha il diritto di scegliere con chi avere dei rapporti sentimentali e sessuali, e sono e devono essere soltanto fatti suoi. La teoria su cui il decreto basa questa sacrosanta pratica, è invece la "dannata" ideologia di genere: secondo i promotori, il diritto alla libertà sessuale si baserebbe sull'affermazione che i sessi non esistono. O, se proprio esistono, comunque non contano, perché a contare non è quello che uno è, ma quello che uno sente di essere. In questa logica c'è però un "non sequitur". Si possono infatti benissimo difendere i diritti dei diversi, senza dover per forza affermare che i diversi non esistono. Anzi, forse si dovrebbe fare proprio questo: un mondo in cui ci sono diversità è molto più bello e variegato di uno monolitico in cui tutti sono uguali. In politica però le cose si ingarbugliano sempre, perché i ragionamenti logici cedono il passo agli interessi partitici, che nel caso in questione sono abbastanza chiari ed evidenti. Il Pd ha trovato nella difesa a oltranza dell'identità di genere una battaglia considerata "di sinistra", la Lega nel suo rifiuto a oltranza della stessa nozione una battaglia considerata "cattolica", e Renzi nel suo ondivagare dall'approvazione alla Camera alla disapprovazione in Senato un modo per diventare di nuovo visibile e determinante nella scena politica. In realtà, sbagliano tutti. Sbaglia il Pd, perché semmai è di sinistra la difesa dei diritti dei diversi, e non la professione di un'ideologia che è stata contrastata, anche a sinistra, da tutti coloro che credono che l'identità di genere non abbia senso. Ad esempio, le femministe, che per poter essere tali devono appunto pensare di essere femmine. O i transessuali, che per poter pensare di voler cambiare sesso, devono appunto pensare di essere del sesso sbagliato, e di poter transire a un altro. Per non parlare degli eterosessuali, che sono la stragrande maggioranza (secondo l'Istat, superiore al 90%), e pensano semplicemente che i sessi sono i loro due. Sbaglia la Lega, perché il cattolicesimo è variegato, e mentre esiste al suo interno uno schieramento conservatore e ottuso, che rifiuta le unioni civili e i diritti dei sessualmente diversi (schieramento che, a scanso di equivoci, comprende anche il Papa regnante), esiste anche uno schieramento contrapposto che la pensa al contrario, e che è l'analogo dei cattolici che nel 1974 votarono a favore del divorzio civile, pur pensando che il matrimonio religioso dovesse essere indissolubile. E sbaglia Renzi, perché non sarà certamente su un argomento così marginale e di nicchia che un partito potrà basare la propria diversità politica. L'identità di genere non è affatto un problema sentito dalla maggioranza della popolazione, com'era appunto il divorzio negli anni '70. È piuttosto un problema sentito da una minoranza della politica, che è disposta a tutto pur di inserirlo in una legge: anche a non fare compromessi sulla difesa dalla violenza sui diversi, che rischia di essere sacrificata sull'altare di un'ideologia alla moda.  

La diretta con Zan, Civati e Cappato. Fedez contro Renzi su Instagram per il ddl Zan: ma il bastonatore finisce bastonato. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 7 Luglio 2021. Fedez è l’influencer che ha deciso di dimostrare plasticamente che la quantità di follower non ha nulla a che fare con la quantità di informazioni in gioco. Anzi, talvolta il bilancio è davvero magro. Nella diretta di queste ore il cantante ha deciso di attaccare Matteo Renzi a testa bassa, forte di un appunto di carta che ha tenuto accanto a sé durante l’improvvisato show. E lo ha attaccato sul Ddl Zan, chiamando Alessandro Zan a fargli da spalla. Il senso dell’attacco di Fedez? “Renzi non vuole questa conquista di civiltà. Cerca un pretesto per non votare la legge Zan”. Come tutti sanno, fino a oggi Renzi al contrario ha certificato nero su bianco il suo voto e quello di Italia Viva a favore, ma messo tutti in guardia per i prevedibili agguati che il voto segreto riserva a chi si avventura in Senato su questioni etiche. Fedez, a quanto pare, non l’ha capito. “Renzi si è messo d’accordo con Salvini”, è quello che ripete. Come? Quando? Perché? Non lo si dice. Ma si sarebbe accordato con Salvini per far naufragare il Ddl Zan. Zan, che è presente, alza il sopracciglio. Non obietta a muso duro ma si vede l’imbarazzo. Fedez non sa che Zan è stato eletto in quota renziana, nel Pd a guida Renzi. Fu proprio il Matteo di Firenze a volerlo in lista come esponente di punta del mondo Lgbt. “Ma Renzi ce l’ha con i gay”, continua Fedez. E allora Zan lo ferma, ed obietta: “Veramente è quello che ha realizzato la legge sulle Unioni Civili”. Allora Fedez guarda al foglio che deve aver appeso accanto al telefono con cui va in diretta. “La ministra Bonetti è di Italia Viva e non difende il Ddl Zan”. Il diretto interessato lascia cadere, sempre più in imbarazzo. E allora Fedez chiama in live anche Marco Cappato. L’esponente radicale si collega e sorride, ma inizia con i distinguo. Non può essere Renzi l’obiettivo di tutto questo circo. “Renzi al Senato vuole far votare i suoi con il voto segreto per affossare la legge”, va giù duro Fedez. Cappato lo prende idealmente per mano, sorride ancora e spiega: “Veramente non è Renzi, è che il regolamento del Senato prevede il voto segreto sempre, per le questioni etiche”. Fedez non ha capito. Torna: “È perché si vergognano a votare in modo diverso dalle indicazioni dei partiti”. Cappato è gentile ma fermo: “No, si fa sempre così. È la prassi del Senato”. E gli tocca precisare: “Renzi non ha detto una cosa sbagliata, ha fatto notare un rischio reale, perché da Pd e M5S è lecito aspettarsi diversi franchi tiratori, che in aula voteranno secondo coscienza e dunque contro il Ddl Zan”. Fedez non demorde: “Bisognerebbe avere il coraggio di votare apertamente, di metterci la faccia”. A quel punto anche Cappato alza le mani, capisce che non c’è partita senza avere un playground su cui giocarla. “Ho letto un articolo del giornalista Scalfarotto…” prova a dire Fedez disperato, arrampicandosi su specchi che non ha. Ivan Scalfarotto è in realtà un parlamentare di Italia Viva, non un giornalista. I fan si accorgono della mala parata e qualcuno commenta in diretta: “Forse è meglio se non parli di politica, si vede che non ne sai”. In effetti chi guarda si fa un’opinione piuttosto severa sul bastonatore che finisce bastonato. A Fedez mancano alcune imprescindibili basi: la politica è fatta di regolamenti, leggi, prassi, conseguenzialità, correlazioni, accordi, disaccordi: parti di una strategia articolata e di lungo corso che contempla e contempera mille cose. Non servono quarti di nobiltà, né doti particolari. Bisogna però studiarli in controluce, i passaggi in filigrana di quelle leggi di cui si parla. Piano piano, magari quando la diretta è finita.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Salvatore Dama per "Libero quotidiano" l'8 luglio 2021. I "Ferragnez" non mollano il polpaccio di Renzi. Dopo Chiara, che aveva dato dello "schifoso" a Matteo per aver ipotizzato un compromesso che salvasse il ddl Zan (messo a rischio al Senato dalla prova di forza di Enrico Letta), ora tocca a Fedez. Martedì lo aveva accusato di pissing. Cioè di «pisciare in testa agli elettori» facendo passare la minzione per pioggia. Ieri mattina il rapper è tornato alla carica definendo il leader di Italia viva «un paraculo». E annunciando un dibattito nel pomeriggio sul suo canale Instagram. Dibattito che in realtà si rivela a tratti un comizietto di periferia, a tratti un processo in contumacia. Federico Lucia chiama al confronto non Renzi, come magari era opportuno fare, ma Alessandro Zan, promotore della legge sull' omotransfobia, e il radicale Marco Cappato. A seguire, in uno dei quadrati della diretta Instagram, riciccia fuori anche un vecchio nemico renziano sparito dal radar: Giuseppe Civati. Ed è subito effetto "Primarie Pd 2013". Manca solo Gianni Cuperlo.

IN DIFFICOLTÀ Fedez lascia la parola ai suoi interlocutori. Ai quali però fa delle domande. Dalle quali si intuisce tutta la difficoltà della webstar con i regolamenti parlamentari. Lucia prova a spiegare cosa sia il voto segreto: «È un non senso». Però poi, nel definirne il funzionamento, si incasina. E lo aiuta Marco Cappato. Quindi Fedez sale di livello. E tenta di spiegare ai suoi follower il referendum, ma si inceppa nella differenza tra "costituzionale" e "abrogativo". Anche qui lo salva l'ex leader radicale. Bocciato pure sulla cronaca parlamentare: «Non era Pillon il relatore del ddl Zan?», chiede a Zan. Sbagliato: «Era Ostellari», lo riprende il deputato democratico. C' è pure qualcuno fuori onda che prova a dargli qualche suggerimento. Ma non è una cima manco lui. Il gobbo. «Però i politici non sono depositari della politica», insiste il marito di Chiara Ferragni, «io cerco di dare il mio contributo da cittadino, mettendo a disposizione la mia utenza», 12 milioni di seguaci, «a persone che possono dire qualcosa di interessante». Purché siano contro Renzi. Visto che i suoi ospiti però non gli danno grande soddisfazione (a parte un po' Civati), alla zeppa pesante ci pensa lui: «Voglio lasciare un messaggino all' ego di Renzi: con il ddl Zan ha l'occasione di riscattarsi, dopo aver fatto quell' elogio dell'Arabia Saudita, che non è proprio un esempio sui diritti». Questa se l'era preparata. È chiaro. Nell' attacco al Vaticano, invece, Federico trova la sponda di Cappato e un po' meno quella di Zan: i dem non vogliono fare arrabbiare ulteriormente la curia romana. A difendere Renzi interviene poi Ivan Scalfarotto, a SkyTg24: «La cosa singolare è che Fedez pensi che sia lecito parlare di Renzi ma non con Renzi». Poi il sottosegretario all' Interno ricorda quando il cantante nei suoi testi offendeva i gay: «In passato su di noi ha detto cose terribili. Sono felice che ora Fedez difenda le persone lgbt, che abbia cambiato idea».

VOTO SEGRETO Italia viva fa sapere che non chiederà il voto segreto sul ddl Zan al Senato. Ma lo farà il centrodestra. Ed è un bel problema soprattutto per il Pd. Perché non sono pochi i senatori dem che hanno perplessità sul testo da votare. Ieri è venuto allo scoperto Mino Taricco: «L' attuale testo presenta delle criticità e la necessità di alcune correzioni nei punti più sensibili di cui molto si è parlato in queste settimane ed anche in questi ultimi giorni». Pure lui cita gli articoli 1,4 e 7. Il paradosso è che, con il voto segreto, potrebbe non venire meno il consenso di Italia viva, ma quello del partito di Zan e Letta. Cosa che entrambi fanno finta di non vedere. Apparentemente. Il segretario dem mette di nuovo nel mirino il leader leghista: «Noi stiamo con l'Unione Europea. Salvini e Meloni con Orban». Matteo replica così: «Noi proveremo col dialogo fino all' ultimo, se Letta vuole affossare la legge, ci sta riuscendo». E su Fedez che attacca Renzi: «Mi piace l'ultimo pezzo, ma io preferisco Orietta Berti…»

Guia Soncini per "linkiesta.it" l'8 luglio 2021. C’è un momento in cui il marito della Ferragni dice «come diceva Montanelli», e io penso ma tu guarda, che apertura mentale, non è più un vecchio porco, razzista e pure pedofilo, è un saggio il cui pensiero è citabile dal club dei giusti – e invece no. È solo che l’intersezionalismo non funziona, almeno non l’intersezionalismo delle sinapsi, quello che mentre la giusta causa del mese è la lotta alla transfobia pretenderebbe tu ti ricordassi di chi era il nemico la settimana in cui la giusta causa era la lotta al sessismo, o quella al razzismo. Ieri, dunque, è andata così. Che al mattino il marito della Ferragni ci ha spiegato quanto siamo scemi a scrivere di lui e di sua moglie come avessero il dovere di capirci qualcosa: mica sono politici, loro; e al pomeriggio ha organizzato una diretta Instagram, con ospiti Alessandro Zan, Giuseppe Civati, e Marco Cappato (che in confronto al resto dei convenuti pareva Churchill). La moglie era a Cannes, e in diretta scriveva nei commenti, lasciava bandierine arcobaleno o compitava solleciti «ciao amore». È stata, quella della diretta Instagram dell’Harvey Milk che ci possiamo permettere, un’ora interessante non per aspiranti giuristi o per preoccupati omosessuali, ma per studiosi del concetto di personal branding. A un certo punto il marito della Ferragni dice: «C’è un po’ di protagonismo, di voler mettere il cappello su questa storia». Sta parlando di sé? Macché: sta parlando di Renzi, che incombe sulla conversazione tra i quattro come neanche Rebecca la prima moglie. Poco dopo dice: «Non vorrei che passasse la narrazione che un politico con manie accentratrici che non aveva a cuore i diritti delle persone si mettesse il gagliardetto “io ci ho provato”». Dice «politico», ma intende «influencer», è ovvio. A un certo punto mi viene in mente Berlusconi, e la sua saggia convinzione che l’elettore sia un ragazzino delle medie che non è neanche il primo della classe. I presenti, consapevoli d’aver davanti uno con gli strumenti culturali d’un ripetente di seconda media, col quale è tuttavia bene essere ossequiosi per non alienarsi i dodici milioni e fischia di follower (trentamila che seguono la diretta, e dodici milioni che senz’altro la recupereranno successivamente), fanno dei giri di parole per non dirgli di ripresentarsi quando avrà studiato. Il marito della Ferragni dice che loro sono su Instagram perché «non esiste un luogo depositario in cui parlare». Nessuno gli chiede: intende «preposto»? Non è madrelingua? Non è paroliere? Il marito della Ferragni dice che è scandaloso il voto segreto, l’elettore ha diritto di sapere, e Civati aspetta mezz’ora prima di illustrargli il concetto di libertà di coscienza con parole così semplici che secondo me sta pensando «Ti faccio un disegnino». Il marito della Ferragni fa un esempio delirante per spiegare l’identità di genere – una ragazza operata che fa vedere il documento con scritto «femmina» – e mezz’ora dopo (cosa sarà mai mezz’ora, con la soglia d’attenzione con cui guardiamo le dirette Instagram) arriva Cappato e dice che la ragazza col documento problemi di identità di genere non li ha, il punto è chi non s’è operato ma ha la sua brava disforia, è lui che dovresti tutelare (nessuno dice «disforia», perché sono tutti abbastanza svegli da non usare parole più complesse di «cane, pane, minestrina col dado»). Nell’articolare il suo esempio, il marito della Ferragni aveva anche pronunciato la formidabile frase «Identità di genere è: maschile, femminile». Che, considerato che l’indispensabilità del concetto nell’articolazione della legge viene sostenuta in relazione alla questione dei non binari, dimostra che il portavoce delle giuste cause che ci possiamo permettere non ha capito quale giusta causa sostiene. Il personal branding ti vuole sostenitore di buone cause, mica informato sulle stesse: se non è Zeitgeist questo (mi permetto di dire «Zeitgeist» perché ho meno pubblico della famiglia Ferragni: quando ti rivolgi alla nicchia a volte puoi osare persino un quadrisillabo bisdrucciolo). È la diretta del vale tutto, è evidente quando Zan dice «bisogna aiutare questi bambini nel loro percorso di transizione», e lì non c’è non dico uno psichiatra ma anche solo uno che abbia letto mezzo testo sul tema e sappia che la maggior parte delle disforie infantili si risolve senza alcun bisogno di transizione. A proposito di «non c’è uno»: sono tutti maschi (maschi cis, direbbero loro: maschi nati maschi, orrendi colonizzatori e padroni dell’universo), ma nessuno pare notarlo, o comunque non chi commenta «Questa diretta è un orgoglio nazionale». Meno male che Cappato c’è, e prova a spiegare che la testa della gente non si cambia a botte di codice penale, e che tuttavia da ’sta benedetta legge si può solo sperare che cambi la testa di chi è così rincitrullito da menare la gente per strada, non certo che uno pensi che non gli conviene menarti perché gli danno sei anni di galera invece di quattro. Poco dopo arriva Civati e dice «se una cosa è giusta e la fanno altri paesi europei», ed evidentemente i suoi genitori non gli hanno mai spiegato che a loro non importava di cosa facessero gli altri bambini, gli è rimasta la smania di emulare gli altri. Sembra ieri che i suoi promotori dicevano che la Zan sarebbe stata la prima legge di questo impatto in Europa: in un niente è diventata l’ultima. Il marito della Ferragni dice che viviamo in «uno scenario distopico», e invoca «l’opportunità di essere un pochino al passo coi tempi, di non essere anacronistici», e non sta ipotizzando un paese in cui i gay possano adottare o i paralitici possano trovar liberi i marciapiedi (ci sarebbe anche l’abilismo, nella Zan, ma va meno di moda parlarne). Sta parlando solo di darci il permesso di dirci maschi seppur con molte tette, ovvero di tutelare l’identità di genere, quella cosa che lui crede sia «maschile, femminile». Va tutto bene. «Siamo ai primi di luglio e già il pensiero è entrato in moratoria. Drammi non se ne vedono, se mai disfunzioni», scriveva cinquanta estati fa Montale, che persino a casa Ferragni avranno avuto nei testi delle medie. Zan, un altro che non è certo lì per il personal branding, a un certo punto promette di dare il merito a Renzi se la legge passerà, col tono con cui potrebbe dire che Bruto è un uomo d’onore (scusate, lo so che alle medie non si fa Shakespeare). Intanto, sotto, passano i commenti del paese reale che sta guardando la diretta che ci renderà un paese migliore: «Ciao Fede mi saluti?».  

Massimiliano Panarari per "la Stampa" il 7 luglio 2021. Renzi vs. Ferragnez. No, non è un peplum - quei film che furoreggiavano nell' Italia balneare di qualche decennio or sono, stile Maciste contro Ercole -, ma il rumore di spade e il clangore di trombe è il medesimo. Come lo sono le botte da orbi che si sono scambiate l'influencer e il politico intorno al ddl Zan. Il duello tra Chiara Ferragni e Matteo Renzi è un compendio degli effetti del tracimare della disintermediazione, allorché la classe politica sempre più sovente (e sconsolatamente) segue - un po' come l'intendenza. E un'istantanea degli eccessi della celebrity politics, che ha fragorosamente abolito da tempo le distinzioni di ambito professionale in materia di acquisizione della popolarità e della visibilità nelle democrazie del pubblico, composto di cittadini-consumatori, cittadini-elettori, cittadini-spettatori e "opinionisti" a seconda delle tipologie dei media.  E dove tra spettacolo e politica spesso non vi è più alcuna soluzione di continuità. Esattamente come in queste «baruffe chiozzotte» che si nutrono, infatti, della chiacchierata infinita che si svolge sui social network. Solo che - per citare l'«antropologa del cyberspazio» Sherry Turkle - non siamo dalle parti della «conversazione necessaria» del faccia a faccia (che è stato fondamentale per portare in tanti casi la lotta politica a convertirsi in dialogo tra i diversi), ma alla guerra simulata transmediale. E, una volta di più, alla starizzazione della politica, alimentata da politici-star contro star che si mettono a fare quella che può sembrare politica. Nella fattispecie, la singolar tenzone è, ovviamente, smaterializzata. E, quindi, in attesa di sapere se Ferragni, sfidata da Renzi a incrociare le lame de visu, raccoglierà il guanto, per adesso la saga si può seguire solo via social. In un tripudio di litigation e tifoserie, come tipico del processo di hooliganizzazione da cui la politica viene pressoché istantaneamente assorbita una volta trapiantata sui media sociali e "personali". Ovvero quegli strumenti tecnologici che avrebbero dovuto garantire le sorti magnifiche e progressive di una rinnovata partecipazione e «democrazia diretta», e hanno invece generato soprattutto un'escalation di aggressività. A conferma del fatto che chi di disintermediazione colpisce, può perire. O, quanto meno, si ferisce. Perché è stato proprio l'attuale leader di Italia viva che, da segretario del Pd e premier, ha spinto più in alto l'asticella della disintermediazione - insieme a quella della personalizzazione - nel campo del centrosinistra. Infrangendo dogmi e consuetudini per sintonizzarsi sullo spirito del tempo postmoderno e antipolitico, ma scoperchiando così un vaso di Pandora che ha liberato potenze incontrollabili. E ha prodotto un effetto boomerang che finisce per ritorcerglisi contro, dal momento che nel mare magnum del web vale la stessa regola sintetizzabile con le (presunte) parole pronunciate da Stalin al vertice di Yalta: «Quante divisioni ha il Papa?». Che su Internet si chiamano milioni di follower, come i 24 sonanti posseduti da Chiara Ferragni. Il match Renzi-Ferragnez, quindi, è soltanto l'ultima pagina di una politica pop sempre più mediatizzata in cui le barriere sono cadute da tempo, e si sconfina "allegramente" alla ricerca dell'obiettivo fondamentale, che è di tipo rigorosamente quantitativo. Un like non corrisponde precisamente a un voto (e men che meno a uno ponderato), ma sempre e comunque di costruzione del consenso si tratta per la campagna elettorale permanente di un partito (specie se non baciato dalla fortuna nei sondaggi). Così come certe forme di impegno civico degli influencer, a volte, danno l'impressione di essere l'equivalente della voce «allargamento del mercato» di un business plan, o di risultare ispirate da una forma opportunistica di marketing. Nel frattempo ci tocca così assistere pure all'«istituzionalizzazione» di Instagram, diventato la "Quinta" o "Sesta Camera" (ormai si è perso il conto...). Per Renzi, boxeur e pokerista, la battaglia con i Ferragnez è una sorta di «piatto ricco, mi ci ficco», ancor più perché alla vigilia dell'uscita di un libro (e il suo fiuto autopromozionale oramai sopravanza parecchie altre cose che sarebbero più opportune per chi fa politica). Ma dire - come ha fatto Ferragni - «che schifo che fate politici» suona effettivamente come uno slogan populista (e pure, giustappunto, un po' qualunquista). E, difatti, c' è chi scommette che il marito Fedez stia scaldando i muscoli per inserirsi nel vuoto politico lasciato da un grillismo prossimo alla smobilitazione.

«Politici fate schifo», Ferragnez influencer da gabbia e da voliera. Carlo Fusi su Il Quotidiano del Sud il 7 luglio 2021. LA STORIA insegna che “Politici fate schifo” è il bramito più squisitamente qualunquista che ci sia. È ricorrente, perché periodicamente riempie la gola di chi scaglia il proprio disprezzo verso il Palazzo e ciò che rappresenta. Esempi vecchi e nuovi non mancano: il dannunziano lancio del pitale sul Parlamento ad opera del pilota Guido Keller nel novembre del 1920. O il cappio sventolato in aula a Montecitorio dal leghista Luca Leoni Orsenigo il 16 marzo del 1993. Stavolta l’urlo è arrivato via social dall’influencer Chiara Ferragni, moglie del rapper Fedez, già noto per la polemica con Salvini e la Rai nel concertone del primo maggio. Il post della signora Ferragni conteneva l’immagine di Matteo Renzi e il riferimento era alla legge Zan e ai suoi tortuosi – e platealmente criticati – arabeschi parlamentari. A condimento, la scritta “l’Italia il Paese più transfobico d’Europa ed Italia Viva con Salvini si permette di giocarci su”, per togliere ogni dubbio a chi ci si voleva riferire. Renzi ha replicato per le rime: per ora la cosa è finita così ma non sono escluse repliche. Il punto di partenza obbligato, come detto, è il singulto qualunquista – che naturalmente è cosa che non c’entra nulla col diritto intoccabile di ciascuno di esprimere ciò che pensa – che stavolta però assume una curvatura particolare. Negli anni, infatti, in particolare per ciò che concerne i sistemi democratici, un simile riflesso scattava quando andava in tilt il rapporto tra Paese reale e Paese legale. Quando cioè il legame tra rappresentanti e rappresentati si deteriorava fin quasi a spezzarsi e uno iato inquietante finiva per dividere i cittadini dalle istituzioni. Adesso a quel binomio si è aggiunto un terzo attore, ossia la dimensione social. Che è capace di, appunto, influenzare il dibattito pubblico perché alimentato da personaggi che hanno una dimensione virtuale ma che sono in grado di trascinare con loro milioni di utenti. Naturalmente i like sono tutt’altro rispetto ai voti raccolti nelle urne, hanno una qualità e un peso molto differente.  Per loro natura sono più “leggeri”. Tuttavia sarebbe sbagliato sottovalutare la capacità di orientamento degli influencer, che passano con tranquillità dalla moda alla politica trascinandosi appresso i tantissimi che si fidano di loro. Forse però il punto è proprio questo. La distanza tra Paese reale e Paese legale veniva di norma riempita dalle elezioni: il voto popolare ridisegnava i rapporti di forza tra i partiti e dunque assegnava a quelli più in sintonia con l’umore dei cittadini il potere di governare. Niente del genere avviene nell’universo digitale. I like vanno e vengono con velocità non paragonabile ai voti, costruendo così una bolla autoreferenziale che smarrisce il rapporto con la realtà. Il che fa sì che nel perimetro social non solo si possano scatenare gli impulsi più primordiali e dare in tal modo spazio ad eserciti di “odiatori” in grado di scegliersi di volta in volta i bersagli. Quel che davvero conta è che la possibilità di confronto ne risulta fortemente ridotta, in non pochi casi del tutto azzerata. Uno dei riflessi condizionati del caleidoscopio social è che ritiene di esportare la propria capacità di condizionamento sul mondo legale. Quando ciò non avviene perché le regole della politica e il ruolo delle istituzioni hanno finalità opposte e il compito specifico di favorire il confronto, di stimolare la discussione e soprattutto di definire una sintesi finale da mettere nero su bianco, allora il mondo social esplode. Per il semplice motivo che appare evidente che la sua presa sul “reale-istituzionale” è inevitabilmente limitata. Di qui il bramito, figlio di un ridimensionamento considerato inaccettabile. Se si innesca una simile discussione, a questo punto di norma ci si trova di fronte alla considerazione “però la politica oggi si fa così”.  È una valutazione del tutto legittima, ma parziale: bisogna aggiungere che in tal modo si avvelenano i pozzi, anche se per onestà intellettuale va detto che quelli della politica sono in forte via di essiccazione. Ma anche fosse, quell’essiccazione non può essere considerato un alibi per nessuno. Per quanto screditata, infatti, la politica e le modalità con la quale viene esercitata nel circuito della democrazia delegata, rimane l’unico strumento – concreto, non virtuale – in mano ai cittadini per far sentire la loro voce e, stavolta sì, influenzare direttamente le scelte parlamentari e di governo. Solo rispettando questa mission e anche tutelando la legittimità di chi la pensa diversamente è possibile ottenere risultati che implementino la civiltà della vita sociale. Il mondo social esercita una perversa attrattività  perché fornisce la sensazione che le regole si fanno e disfano praticamente a piacimento. E in caso di tracimazioni, nessuno o quasi paga dazio. È possibile, e per alcuni casi persino doveroso, bannare. Tuttavia si tratta sempre e solo di una parodia del meccanismo democratico. Anche per gli influencer da milioni di follower succede che la realtà è altrove. Fuori portata, o se si preferisce a distanza di sicurezza, dei like.

Luigi Mascheroni per "il Giornale" il 7 luglio 2021. La più grande impresa di Chiara Ferragni e del marito Fedez - in arte, e business: «Ferragnez» - alla fine sarà quella di averci reso simpatico Matteo Renzi. Anche se resta ancora da capire chi sia il più insopportabile fra i tre. I primi due sono furbi. L' altro, cinico. E non si sa cosa è peggio. Solo in una Repubblica 2.0 in cui la democrazia è fondata sui like invece che sui voti poteva succedere che un ex presidente del Consiglio che gioca a fare il ragazzino si mettesse a litigare sui social con due ragazzini che si credono gli Obama. In mezzo: il Ddl Zan. Prima la influencer su Instagram accusa Renzi di boicottare il decreto pro gender, aggiungendo: «I politici fanno schifo». Renzi replica su Facebook: «Banale e qualunquista, parliamone se hai coraggio. Io ho firmato la legge sulle unioni civili, mettendoci la fiducia: quella legge dura più di una storia su instagram...». E alla fine, a chiudere il post, arriva Fedez, fine politologo: «Stai sereno Matteo. C' è tempo per spiegare quanto sei bravo a fare la pipì sulla testa degli italiani dicendogli che è pioggia». I Ferragnez hanno rispettato la prima regola dei social: «Sapere poco, commentare tutto». Renzi ha infranto quella della politica: «Mai scendere a livello dei tuoi avversari». La celebre coppia dello spettacolo che da tempo si è buttata in politica ha dimostrato di non avere idea di come sia fatta una proposta di legge: ignora cosa sia un iter legislativo. Il famoso politico al quale è sempre piaciuto dare spettacolo ha confermato di mancare di senso delle proporzioni: se hai il 2% è suicida polemizzare con chi ha 24 milioni di follower. Come l'ideologia da salotto e il fatturato dei clic possono battere l'intelligenza e l'arte della politica. Ferragnez supremacy. E così, la Sinistra - che ha perso il popolo e ha guadagnato le «celebrity» - riparte dai #Ferragnez: qualunquismo (dire che i politici fanno schifo è solo un gradino sotto i Cinque Stelle), populismo (aizzare i propri follower contro il nemico lo è) e grandi patrimoni. L' élite all' italiana. I diritti civili ultimamente sono un trend sui social. E i #Ferragnez sono un marchio. Il combinato disposto, oltre a aumentare i ricavi della Ditta, influenza il dibattito pubblico. Probabilmente Enrico Letta ha anche messo un «Mi piace» alle Instagram Stories dei due influencer... Opportunismo commerciale, rap omofobo, unghiette arcobaleno e protagonismo comunicativo. Non ne usciremo, nonostante tutto l'impegno di Mario Draghi. E per il resto, se i #Ferragnez vogliono fare politica, come disse quel tale (di Sinistra), fondino un partito. E vediamo quanti voti prendono! (Speriamo di no).

Giuliano Guzzo per "la Verità" il 7 luglio 2021. Da quando domenica, in prima pagina su Repubblica, è uscita la notizia di alcuni emendamenti da parte di Italia viva al ddl Zan, il clima festoso tra i sostenitori della legge contro l' omotransfobia è improvvisamente venuto meno, lasciando spazio a critiche velenose, frecciatine, perfino insulti. Così, dove prima risplendeva l'arcobaleno, ora volano stracci. Ad accendere la miccia dello scontro ci ha pensato direttamente il primo firmatario del ddl, Alessandro Zan. Il deputato del Pd, in una diretta su Facebook lunedì pomeriggio, ha preso di mira il partito di Matteo Renzi e, in particolare, l'idea di Italia viva di espungere dal testo già approvato alla Camera a novembre il concetto di identità di genere, riprendendo quelli di omofobia e transfobia contenuti nel ddl a suo tempo proposto da Ivan Scalfarotto. Una proposta giudicata irricevibile. «La locuzione "contro tutte le discriminazioni motivate da omofobia e transfobia" del testo Scalfarotto», ha spiegato Zan, «non si può utilizzare da un punto di vista giuridico. Perché in una proposta di legge si devono inserire termini neutri, per garantire la tassatività dell'azione penale». «Per questo abbiamo usato "identità di genere", "orientamento sessuale" e "sesso", che sono parole che comprendono tutti», ha concluso il dem. Ora, a parte che il ddl Scalfarotto fu firmato appena due anni fa pure dallo stesso Zan, il quale dunque dovrebbe spiegare come mai ieri sottoscriveva proposte che invece oggi boccia così sonoramente, comunque il parlamentare Pd sul punto ha ragione. Nel senso che, in effetti, «omofobia e transfobia» sono termini che difettano di precisione e univocità. Beninteso, la stessa identità di genere è in realtà un concetto di vaghezza notevole - tanto che il suo significato ricade nell' inafferrabile sfera delle «percezioni di sé» -ma non si può dire che «omofobia e transfobia» siano parole il cui senso sia da tutti condiviso. Da tale constatazione, però, scaturisce un dilemma di non poco conto, e cioè: perché allora questi termini, così poco «neutri» da non poter rientrare in una norma a detta di Zan, possono restare centrali sui media e, ancor prima, nel dibattito pubblico? L' ambiguità non dovrebbe esser rifiutata sempre? L' impressione è che omofobia e transfobia, proprio per la loro vaghezza, siano clave lessicali perfette in mano al movimento Lgbt, che grazie ad esse può bollare in malo modo chiunque si opponga ai diktat arcobaleno. Del resto, gli indizi che vanno in questo senso abbondano. Per dire, nel marzo 2017 perfino Repubblica venne accusata di omofobia solo perché in un articolo aveva definito «compagno» - anziché marito - il partner del premier lussemburghese Xavier Bettel. A muovere l'accusa sul suo profilo Facebook, manco a dirlo, fu proprio Ivan Scalfarotto. Lo stesso che oggi, per aver detto che «il ddl Zan è un'ottima legge, ma senza modifiche non passerà», è sotto il fuoco delle critiche. Per rendersene conto, basta farsi un giro su Twitter, dove Scalfarotto è descritto in un modo al cui confronto Giuda Iscaritota diventa un emblema di fedeltà: «Stai deludendo tanti di noi», «non ti vergogni?», «ipocrita», «pagliaccio». Questo il tenore dei commenti grandinati a decine sul suo profilo in queste ore. Per completezza, va precisato che i critici non sono stati più teneri con Matteo Renzi. Contro l'ex sindaco di Firenze e quanti osano giudicare emendabile il ddl Zan sono infatti scesi in campo nientemeno che i Ferragnez. «Fate schifo», è stato il raffinato commento della reginetta delle influencer postato sotto una foto di Renzi, mentre il marito, per non essere da meno, ha rincarato la dose: «Stai sereno Matteo, oggi c' è la partita. C' è tempo per spiegare quanto sei bravo a fare la pipì sulla testa degli italiani dicendogli che è pioggia». Così, tra richiami urinari e accuse di tradimento, sia Renzi sia Scalfarotto sono finiti nel tritacarne social di chi osa dissentire dal verbo Lgbt. Il risultato è quindi che il ddl Zan finirà nell'aula del Senato il 13 luglio, e non solo manca un accordo tra le forze di governo, ma potrebbero davvero non esserci i numeri. Del resto, se si pensa che l'ago della bilancia è ancora una volta nelle mani di Italia viva - che, come dimostra il naufragio del Conte bis, quando si impunta poi son dolori -, c' è da aspettarsi di tutto. Nel frattempo, per tornare a noi, non si può che ringraziare Alessandro Zan per aver confermato che omofobia e transfobia sono termini da prendere con le molle. Peccato che siano tra quelli che lui per primo, ogni santo giorno, usa di più. 

Pietro Senaldi a gamba tesa: "Fate una legge per Renzi. Altro che gay, è lui l'unica minoranza che si può insultare". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 07 luglio 2021. Bisognerebbe fare una legge che punisca il reato di Renzi -fobia. In questo clima di tutela assoluta delle minoranze, i seguaci dell'uomo di Rignano e i parlamentari di Italia Viva sono la sola minoranza che chiunque può insultare, e perfino minacciare di morte, senza incorrere  in sanzioni o reprimende. Eppure, oggi in Italia i renziani sono molto meno degli immigrati, degli omosessuali o dei disabili che vuole tutelare la legge Zan, almeno a guardare i trattamenti Inps che vengono erogati. L'insulto a Renzi è di moda, lo si fa per sentirsi democratici. E se il tapino si difende, si passa direttamente alla lapidazione. Quanto successo ieri con Chiara Ferragni e Fedez è solo l'ultimo capitolo. La premessa è che il Matteo di sinistra, come quello di destra, non condivide la legge Zan e la vuol cambiare. L'influencer milionaria lo ha perciò insultato in rete, postando la sua foto sopra la scritta «i politici fanno schifo». L'ex potente ha risposto «parliamone» e per questo è stato investito dagli improperi del marito della signora, un Fedez in versione John Wayne. «Matteo stai sereno, guarda la Nazionale e smettila di pisciare in testa agli italiani» è stato il civile messaggio del rapper che ama la libertà d'espressione al punto da coltivare il vizietto di registrare a tradimento chi parla con lui al telefono. Il macho dalla parte degli omo ha alzato la voce per perorare la causa della sua donna come un bullo di periferia, malgrado la Ferragni sia in grado di difendersi da sé. Al momento Renzi non gli ha fatto rispondere dalla moglie Agnese, impartendo alla bella e al tatuato una lezione di stile. Non c'è da stupirsi. Per aver successo sui social basta vedere cosa dice la massa e ripeterlo con parole meglio confezionate. Se poi c'è un bersaglio facile, come è Renzi, gli si spara contro con la maggior violenza possibile e il gioco è fatto, si passa per maitre a penser sagaci, spietati e illuminati. Ci provano anche i politici, solo che non sono del mestiere e per questo gli va sempre male quando si scontrano contro i guru della rete. Il Pd lo ha capito meglio di tutti e ormai si serve di cantanti, calciatori e influencer per fare politica. Si limita a fornire loro l'obiettivo e questi sparano. Matteo Renzi è la preda preferita dalla sinistra, ancora più di Salvini e della Meloni. Ma perché tanto odio? Certo, Letta non gli ha perdonato di avergli fatto le scarpe con un messaggino canzonatorio, il famigerato «Enrico stai sereno». La sinistra poi mal sopporta che l'ex premier abbia cercato di usare il Pd come un tram e ora si faccia gli affari suoi. Ma quello che i dem non possono tollerare è che l'ex capo levi loro per la prima volta il pallino nella scelta del presidente dello Repubblica. Letta e i suoi sono terzi o quarti nei sondaggi, dopo le scissioni hanno una forza parlamentare del 14% scarso, ma ritengono di avere il diritto divino di decidere chi deve andare al Colle. Solo che, se Renzi si mette di traverso, con i grillini squagliati come sono, la sinistra non ha i numeri. La modifica della legge Zan suona alle orecchie dei dem come un campanello d'allarme, una prova generale di una nuova maggioranza, che oggi può cambiare la legge anti-omofobia e domani scegliere il sostituto di Mattarella. Per esempio Draghi, un nome che Letta dovrebbe trangugiare senza poter fare storie. Nel caso, chi sostituirà SuperMario a Palazzo Chigi, un tecnico indicato direttamente dal nuovo capo dello Stato, potrebbe essere poi lo stesso uomo che guiderà l'Italia del governo di centrodestra che scaturirà dalle elezioni del 2023. Una figura di garanzia, all'estero e in patria, inattaccabile dai soloni della sinistra.  

(ANSA il 6 luglio 2021) - "Fdi ha presentato in Parlamento una mozione per impegnare il Governo ad andare in Europa per chiedere che la UE condanni apertamente gli Stati che prevedono nei loro ordinamenti il reato di omosessualità e non stringa con loro accordi di cooperazione culturale. Sono ben 69 le Nazioni che, spesso in virtù dell'applicazione della legge coranica, prevedono pene variabili da un anno fino all'ergastolo e alla pena capitale. Vedremo come si esprimeranno i cosiddetti 'paladini dei diritti Lgbt', che oggi chiedono di censurare le leggi rimasti in silenzio quando si parla di difendere gli omosessualii"- Lo ha detto la Giorgia Meloni. 

Se il populismo chiude bottega. Marco Zucchetti il 4 Luglio 2021 su Il Giornale. In attesa che gli storici indaghino sul peso della pandemia nei cambiamenti politici in Europa, per ora si segnala la crisi generale di quei movimenti generalmente e superficialmente considerati "populisti di sinistra". In attesa che gli storici indaghino sul peso della pandemia nei cambiamenti politici in Europa, per ora si segnala la crisi generale di quei movimenti generalmente e superficialmente considerati «populisti di sinistra». Dai 5 Stelle a Podemos, passando dai Pirati tedeschi e Syriza, le forze anti-sistema di estrazione più socialista sono in caduta libera, mentre quelle più nazionaliste e di destra (finora meno coinvolte nella responsabilità di governo, Lega esclusa) ancora tengono. Ognuno ha i suoi guai specifici, ma il contesto è comune: la loro offerta politica di decrescita e assistenzialismo non incontra più le esigenze degli elettori. Se la politica è l'outlet delle idee e il bazar delle soluzioni, non tutti i partiti «vendono» la stessa merce. Ci sono realtà storiche, tradizionali, magari esauste e in crisi di identità, ma che rispondono ad afflati senza tempo come l'uguaglianza, la conservazione, la libertà. E poi ci sono realtà sorte per dare risposte contingenti, i «temporary shop» della politica, che offrono quel che va di moda e occorre in un certo momento, come i negozi di dolciumi sotto Natale. Funzionano e sono utili. Ma se a gennaio non cambiano business rischiano di fallire. I movimenti nati dagli Indignados spagnoli o dal Vaffa-Day hanno avuto un ruolo innegabile. Segnalavano che il corpo politico era malato e che l'indomani della crisi economica era una palude. Perciò sono stati premiati nelle urne dal 2015 al 2018, andando al governo sia nelle città (Roma, Torino, Madrid, Barcellona), sia nei Parlamenti. Ed è allora che si sono dimostrati intrinsecamente deboli. Perché chi segnalava i sintomi del morbo, poi non sapeva curare il paziente. Se Podemos è passato dal 21% al 7% e il leader Pablo Iglesias ha lasciato, il M5s si è dimezzato (sia nei voti, dal 32% al 16, sia nella leadership dicotomica) e il movimento dei Gilet gialli - la cui anima di sinistra è discutibile - è scomparso, significa che gli europei non pensano più che le loro ricette siano utili in questo tempo di rinascita e ripartenza economica. Così come l'Ukip inglese ha perso senso dopo la Brexit, anche la loro missione è - se non compiuta - almeno giunta a un punto morto. La mobilitazione dal basso serve a fare pressione sulle istituzioni. La politica a corto raggio - non è anti-politica - cavalca richieste che somigliano a tendenze, dal disgusto per la corruzione all'ambientalismo. Ma quando poi entra nelle istituzioni, dove il focus si sposta su visione globale e competenza, allora si sfalda. La mancanza di struttura organizzativa e teoria politica solida si fa sentire; gli interessi di parte, le clientele e le lotte di potere interne prendono il sopravvento. E il messaggio iniziale di protesta e rivoluzione diventa una mesta ammissione di impotenza. Così, davanti a un «temporary shop» che offre merce demodé, i clienti ridanno fiducia ai partiti tradizionali, con le loro magagne e i loro vizi, ma con un progetto di costruzione e una classe dirigente in cui tornare a sperare. Almeno fino al prossimo ciclo di delusione e illusione collettiva. Marco Zucchetti

I grillini e le faide incomprensibili che fanno scappare gli elettori: l'inquietante precedente francese. Renato Farina su Libero Quotidiano l'1 luglio 2021. Occhio alla Francia e al suo fiasco. E non parliamo di calcio nel senso di football, ma di calci nel sedere che i cittadini elettori hanno rifilato ai partiti in quanto tali. I due turni per le elezioni regionali galliche hanno registrato un astensionismo che non ha avuto nessun carattere di protesta, o di nervosismo, ma è stato quanto di più sia mai somigliato allo sbadiglio nella storia della democrazia transalpina. È stato un voto, ha scritto Le Figaro, che ha sì eletto dei presidenti per l'Aquitania e per la Provenza eccetera, ma in realtà ha sancito la "secessione" dei francesi dal loro sistema politico. Alle urne si è recato solo un francese su tre. E dire che si è trattato di elezioni "di vicinato", che implicano interessi immediati, decisioni che pesano sul destino del tuo orticello. Niente da fare, si è comunque battuto ogni record. Cari politici italiani di destra, di sinistra e di centro, di sopra e di sotto, con i vostri bei candidati più o meno civici già bruciati o di là da venire, vi state rendendo conto o no che il rischio clamoroso è quello di aggiudicarvi un trofeo che conta come una patacca, delegittimato in partenza dalla diserzione delle urne e perciò debolissimo? Osserviamo il campo. Il governo Draghi è un'entità che regna da sopra le nuvole. La maggioranza vastissima (il 90 per cento dei parlamentari) su cui si regge è così multiforme e ideologicamente scombinata che accetta quietamente qualunque cosa Super Mario con i suoi scudieri gli ammannisca. C'è una specie di delega universale a prescindere. Come diceva quella pubblicità con Virna Lisi? Con quella bocca può dire ciò che vuole. Per fortuna Draghi non solo dice ma fa e pure bene, tant' è vero che il suo consenso popolare cresce e supera il 70 per cento. Ma tutto questo non fa guadagnare credibilità ai soggetti costituzionalmente abilitati a tradurre la volontà dei cittadini in rappresentanza e in programmi. Parliamo dei partiti, ovviamente. Essi stanno giocando in Italia una partita estenuante, una specie di surplace, in vista delle elezioni municipali delle grandi città del prossimo settembre. Stanno calcolando le mosse per battere l'avversario, e mandare a dama la loro pedina. È come se dessero per scontato che lo stadio sarà pieno e l'incitamento possente a favore dei rispettivi gladiatori. Ehi, forse per l'autunno gli anfiteatri del calcio, finita l'asfissia pandemica, torneranno ad essere la bolgia di una volta. Gli europei attualmente in corso ne sono una prefigurazione. Invece non si avverte nell'aria alcun desiderio di tornare a riempire le piazze per comizi e affini, né tanto meno le cabine elettorali.

Mediocrità. A sinistra le primarie per scegliere i candidati sono state la fiera della mediocrità. Le rincorse amorose di Enrico Letta dei Cinque Stelle hanno dimostrato la sua inconsistenza politica, il suo fiuto piuttosto scarsino lo ha condotto ad abbracciare un leader inesistente come Giuseppe Conte, impegnato da mesi a pretendere l'eredità esclusiva degli escrementi (come tradurre in italiano politicamente corretto le stronzate e i vaffa?) lasciati lungo la strada da Beppe Grillo. I sondaggi danno il Pd al 20 e il M5S al 15? Ma sono una graduatoria che equivale al conteggio dei followers, non hanno consistenza reale. Non fanno massa, ma ologramma. A destra (o centrodestra) va meglio sì ma mica tanto. Certo, l'alleanza dei tre partiti che in ordine alfabetico si chiamano Forza Italia, Fratelli d'Italia, Lega per Salvini (più Cambiamo, Noi per l'Italia, Cdu) è clamorosamente in vantaggio quanto a sondaggi rispetto ai concorrenti. Ma accidenti questa coalizione com' è possibile non riesca a trovare un candidato unitario in cui credere a Milano, Bologna, Napoli e in parecchie altre città e cittadine? Tutti dicono uniti -si-vince, non facciamo il partito unico perché la differenza è ricchezza, ma questo spettacolo di incertezza è dissipazione di quel bene raro che è oggi la fiducia. Un conto è rispondere al telefono o mettere una crocetta su un questionario che ti arriva in casa, come fanno i sondaggi (ricevere una telefonata nel mondo d'oggi, dove non ti vogliono vendere nulla, ma solo sentire un'opinione è molto gratificante, ormai ti telefonano soltanto quelli del gas e della luce). Un altro è dirigersi una domenica mattina alle urne. Perché andare alle urne dopo l'esperienza del Covid è in sé una dichiarazione di fiducia nel sistema, è come andare sulla strada a veder passare il Giro d'Italia invece che guardarselo un momento alla tivù, è un attestato di passione.

Antipolitica sconfitta. E lo spettacolo cui si assiste (finora: non disperiamo di qualche colpo di reni nei pressi del traguardo) non è tanto meglio di quello che in Francia ha preceduto il flop. La volontà di ribellione allo status quo, a Parigi e dintorni, non ha trovato la sua casa nell'opposizione radicale di destra o di sinistra. Il Rassemblement national di Marine Le Pen e La France insoumise di Jean-Luc Mélenchon hanno perso di brutto. In Italia l'antipolitica e l'odio contro parlamentari e affini aveva trovato il caravanserraglio nel grillismo i cui ragli d'asino avevano il loro fascino da gabbia dei matti. Quel tempo è finito. Il rischio è l'astenia, l'abitudine al coprifuoco morale. Gaël Brustier, politologo che va per la maggiore Oltralpe, parla di «domanda passiva di depoliticizzazione autoritaria». L'astensionismo oggi, traducendo la formula in soldoni, equivale a consenso a un governo scolorito purché forte, agisca tipo Draghi- Figliuolo, e non ci rompa troppo los cojones, dicendola stavolta alla spagnola. Al centrodestra va bene così? A quanto pare sì. Allora si vada avanti a invidiare i sondaggi gli uni degli altri, e a bruciare fantocci nel falò delle proprie vanità. 

Da Bersani a Travaglio: il partito di Conte già c’è e va oltre gli ex grillini. La nascita di una nuova forza politica in cui confluire, magari guidata dall'ex presidente del Consiglio, è una manna dal cielo per Art.1. Paolo Delgado su Il Dubbio l'1 luglio 2021. In discussione non c’è il ‘se’ ma il ‘quando’ e il ‘come’. Se anche Giuseppe Conte non volesse dar vita a un suo partito, e si tratta di un periodo ipotetico dell’irrealtà, sarebbe a questo punto costretto a farlo dalle pressioni imperiose che lo spingono da più parti in quella direzione. Ieri le agenzie di stampa erano un florilegio di dichiarazioni pentastellate nelle quali generali e ufficiali confessavano di interrogarsi sulla loro permanenza nel Movimento. Si interroga anche Vito Crimi, un fedelissimo fino a qualche nanosecondo fa, che ora non esita ad azzuffarsi con l’Elevato sulla legalità del voto sulla piattaforma Rousseau. La presa di Conte sugli eletti, o su una percentuale ampia di loro, è indiscutibile ma non c’è solo questo. L’incognita del doppio mandato pesa altrettanto e forse anche di più e chi verrebbe fatto fuori da quelle regola non più aurea è comprensibilmente attratto da un partito che avrebbe spiacevoli limiti del genere. Eppure neppure questo è decisivo. L’elemento chiave, come spesso capita, è la sensazione che quella sia la carta vincente, il carro destinato a correre, all’opposto dell’astro calante del gran capo descritto ormai da molti, inclusi parecchi sin qui adoranti, come una specie di pazzo furioso. La politica c’entra poco, anche perché se ne è discusso poco e niente. Per la prima volta forse nella storia una formazione politica cambia radicalmente il proprio dna senza neppure discuterne, senza che emergano dubbi, necessità di chiarimenti, richieste di chiarificazione. La partita è apertamente giocata solo sul nome del Cesare di turno, quale più adeguato ai tempi e quale passato di moda. Se per capriccio dei sondaggi domani si scoprisse che a tirare è ancora l’uomo del vaffa e non l’avvocato del popolo e se sparisse per incanto la maledizione dei due mandati molti di quelli che ‘ si interrogano’ sul senso della loro permanenza nel M5S si risponderebbero permanendo. Un capitolo a sé merita la sinistra del Pd, oggi concentrata in Articolo Uno, componente ( ormai quasi unica) di Leu. Da mesi nessuno esalta e difende Conte con trasporto maggiore di Bersani e del gruppo di ex notabili Pd ritrovatisi più o meno homeless. Neppure i 5S hanno difeso il governo Conte con più veemenza di loro. Nessuno si mostra a tutt’oggi più scettico nei confronti del governo Draghi. In termini di percentuale contano poco, è vero. Ma non ci sono solo i sondaggi e il gruppo di Articolo Uno porterebbe in dote quell’esperienza politica che manca sia a Conte che agli eventuali transfughi dei 5S, una rete di rapporti intessuti nel corso di una militanza a e di una carriera di lungo o lunghissimo corso, una capacità amministrativa, in alcuni casi, indiscutibile nonché un rapporto stretto con i sindacati e in particolare con la Cgil. La loro presenza basterebbe a qualificare come "di sinistra" il partito di un leader al quale la formuletta in questione non si riesce a estorcerla neppure con le tenaglie. Articolo Uno e i suoi leader, Bersani e Speranza, sono convinti da un pezzo che non si possa affrontare l’agone elettorale con il proprio simbolo. Prevedono risultati catastrofici e probabilmente hanno ragione. L’interlocuzione con il Pd è però faticosa e di dubbio esito. L’apparizione miracolosa di un partito nuovo di zecca e che oltre tutto se non proprio di sinistra sarebbe almeno ‘ contro la destra’ li trarrebbe fuori dal vicolo cieco di corsa. Poi c’è Il Fatto, ed è una presenza di primissima grandezza. Per gli elettori reali e potenziali dell’area pentastellata la parola di Travaglio è più o meno Vangelo e Travaglio punta dritto al partito contiano. Era schieratissimo sin dall’inizio ma negli ultimi giorni ha rotto gli argini fino a lanciarsi in un appello agli eletti 5S perché "lascino solo" il Folle che, parola di san Marco, ‘ scambia le allucinazioni per visioni’. Il partito che ancora non c’è insomma ha già un house organ, una massa di parlamentari, un certo numero di ‘ quadri’ e di amministratori esperti. Non basta a fare un partito. Ci vorrebbe un progetto politico, ma a queste facezie non guarda più nessuno. Ci vorrebbe una linea, e lì il guaio è più serio perché il partito di Conte non può essere troppo draghiano anche se gli anti draghiani doc resteranno o torneranno nella casa madre. Ma soprattutto ci vuole un leader e, al contrario delle apparenze, non è affatto detto che ci sia. O almeno non è detto che sia in grado di ricoprire il ruolo. Conte ha gestito peggio di come non si poteva la crisi finita con la sua dipartita da palazzo Chigi. Ha bissato con lo psicodramma della leadership 5S. Nulla autorizzi a credere che si comporti in questo frangente con maggiore perizia. Ma un primo segnale lo si avrà presto. Se come sua abitudine Peppi prenderà tempo e rinvierà la decisione invece di battere il ferro subito sarà il più infausto tra i presagi.

L'Ipocrisia dei due Mandati. Montesquieu per “La Stampa” il 19 giugno 2021. Dago: dietro il nom de plume, Montesquieu, si cela un ex altissimo dirigente dello Stato, Mauro Zampini, già Segretario generale della Camera. Fioccano interviste dei principali protagonisti del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Non tutto è chiaro, non tutto coincide. Una certa genericità nelle risposte, poco a che vedere con l'originale del movimento, nel cui nome popolano le camere centinaia di deputati e senatori. E nei cui confronti, e soprattutto nei confronti di tanti elettori, nessuno si pone interrogativi di coerenza. Permangono ambiguità ed imbarazzo a fronte della più semplice delle domande, quella sul limite dei due mandati parlamentari. Si conferma la distanza dall'idea di partito disegnata con pochi, ineludibili tratti, nell' articolo 49 della Costituzione, definito da Conte, con un certo distacco, partito «novecentesco». E con poco riguardo per l'art. 49 della nostra Costituzione, colpevolmente mai attuato dai partiti del tempo: partiti in regola con i requisiti richiesti, ma desiderosi di avere le mani libere dalle puntualizzazioni di una legge attuativa. Se questa lunga e misteriosa traversata nel deserto trasformerà il movimento in un partito, come sostengono in parecchi, sarà un partito come lo si intende da quasi tre decenni. Partiti personali, leaderistici, con una dissimulata ma incolmabile distanza tra vertice e militanti. Vengono capovolti, letteralmente, tutti i requisiti posti nell' articolo 49: l'iniziativa cala dall'alto, anziché essere coagulo spontaneo di persone unite dalle idee; nessuna collegialità, metodo democratico neanche a parlarne, un capo assoluto, spesso un proprietario. Si vanta la fine delle correnti, in realtà è la fine di ogni dialettica interna. La finalità di determinare la politica nazionale è incompatibile con l'interesse di una o poche persone. Di conseguenza, un leader disinvolto può esibirsi, in poco tempo, in veste di separatista e nazionalista, antimeridionalista e nazionale, estremista e moderato, europeista ed euroscettico, giustizialista e garantista. Il tetto ai mandati parlamentari è figlio di questa trasformazione, e si perfeziona con la ventata populista. Che nasce da lontano, con il trascinante successo di un libro sulla classe politica disegnata come una casta (di Rizzo e Stella, ndD); con la geniale avventura berlusconiana, che partorisce creature simili, anche a sinistra; si insinua nel grande e molle partito della Costituzione, il pd versione renziana, fino a specchiarsi nell' idea iperpopulista del «Senato gratis»; quindi, la sublimazione con il movimento di Grillo e Casaleggio. Nel tempo, i militanti di cui all' art. 49 sono diventati lavoratori dipendenti, e come tali vengono reclutati e neutralizzati. Deputati e senatori sono valutati con i parametri quantitativi del lavoro manuale, che si traduce spesso nella inutile e inerte presenza nelle aule. Cessa l'immagine di una figura la cui attività si prolunga dal collegio al parlamento e ritorno, senza soluzione di continuità: quello di parlamentare per la Costituzione costituzionale è uno stato permanente, come la rappresentanza, non una somma di gesti teleguidati. Oggi, con il concetto di rappresentanza, viene negata la stessa idea di popolo sovrano. I parlamentari rappresentano solo il proprio datore di lavoro, il capo del partito, a cui devono la "nomina" in una delle camere, senza alcun contributo degli elettori. Questo processo stritola un altro bastione della nostra Costituzione parlamentare, l'art. 67, l'autonomia del parlamentare. Così nasce e prospera l'ingiurioso fenomeno della migrazione parlamentare. Fenomeno praticamente assente nella prima Repubblica, legato solo a sporadici e nobili eventi politici, scissioni o altro di simile; oggi prodotto dalla condizione di lavoratori dipendenti e dalla naturale valutazione della convenienza di nuove offerte di impiego. Un fenomeno, questo delle migrazioni in parlamento, divenuto tristemente lavoro per magistrati e tribunali, e non raramente. Pezzi di Costituzione esplodono, come in un campo minato: l'art.72, il procedimento legislativo, strappato alle camere dai governi; gli articoli 49 e 67, l'essere partito e parlamentare di un partito, irriconoscibili. E tanto altro. Pezzi di costituzione che rimangono scritti, per l'ipocrisia dei partiti in tempi di populismo. La prima Repubblica - questa è una informazione probabilmente sconosciuta ai più - conobbe essa stessa situazioni di limitazioni di fatto a due mandati parlamentari. Praticate soprattutto dal partito comunista, attraverso la dichiarazione di inabilità per l'appunto dopo due mandati complessivi, e la conversione degli "inabili" al lavoro per il partito. Con assegno di inabilità. Pratica del tutto incommendevole, almeno sotto il profilo della liceità morale, attraverso certificazioni mediche ufficializzate dagli uffici di presidenza di Camera e Senato. Organismi in cui era ed è rappresentato l'intero ventaglio dei gruppi parlamentari. Ma pratica priva di ribellione costituzionale, come quelle successive; pratica semmai dovuta alla dovizia di militanti, al costo dei partiti, all' assenza di finanziamento pubblico della politica. Con aneddoti addirittura grotteschi, di parlamentari già dichiarati inabili al lavoro parlamentare, e rieletti in altri partiti. Costituzione sfigurata, in conclusione , ma corrosa dall'interno, mentre l' aspetto esteriore si presenta perfetto. La politica prospetta riforme istituzionali, anzichè eliminare la ruggine corrosiva che gli stessi partiti hanno provocato.

La fine di quella stagione è la prova che siamo in stallo. Segni e il referendum, storia di un sogno infranto. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 9 Giugno 2021. Sono passati ormai trent’anni da quel 9 giugno che inaugurò la stagione dei referendum elettorali. L’iniziativa, che ebbe come indiscusso leader e tenace promotore Mario Segni, fu uno dei punti più alti dello sforzo di riforma istituzionale e anche una delle poche occasioni in cui le speranze di rinnovamento durarono più dello spazio di un mattino. In quest’epoca in cui qualcuno si illude che i problemi della politica sarebbero miracolosamente risolti dalla democrazia diretta, bisogna ricordare che quel referendum non fu pensato per abbattere le istituzioni rappresentative. Al contrario fu il tentativo di innescare un processo riformista per rivitalizzare la democrazia parlamentare rendendola più efficiente e più responsabile di fronte al corpo elettorale. Esso, inoltre, si rivelò l’unico mezzo per sbloccare la stagnazione riformatrice, cui i partiti ormai da un quindicennio non riuscivano a far fronte. Tramontati i tentativi di rinnovamento per via istituzionale (la “Grande riforma” craxiana e la Commissione Bozzi) o politica (l’ambizione di costruire una democrazia dell’alternanza mediante la formazione di una sinistra europea anche attraverso il riequilibrio di forza tra socialisti e comunisti), la X legislatura (1987-1992) si rivelò l’apoteosi della stagnazione, simboleggiata dal famoso Caf (dalle iniziali di Craxi, Andreotti, Forlani) e priva di qualsiasi respiro strategico. Il referendum del 1991 (insieme al successivo del 1993) rappresentò inoltre l’estremo tentativo di cambiare il sistema “per via politica”, prima che su di esso si abbattesse la valanga di Mani Pulite nel 1992. Certamente sia il referendum che le iniziative giudiziarie concorsero oggettivamente all’abbattimento della prima Repubblica, ma sarebbe storicamente errato (benché questo ci dica la vulgata ufficiale) dimenticare che il movimento referendario precedette le inchieste. Queste, forse, avrebbero avuto un altro decorso se dal sistema politico fosse giunta una risposta più adeguata alle istanze di cambiamento. I referendum non furono un escamotage tecnicistico. Furono preparati da un lungo dibattito culturale. La riflessione sul compimento della democrazia e sulla necessità di superare il modello consociativo (figlio del contesto geopolitico della guerra fredda) fu ricchissima. Si invocava la democrazia dell’alternanza, resa difficile anche dalle scelte costituenti, che, per necessità, avevano privilegiato gli istituti di “mutua garanzia” tra i partiti, piuttosto che governi stabili ed efficaci. Alla caduta del muro di Berlino, nel 1989, la “massa critica” per tentare un cambiamento era ormai matura. Nel 1988 nacque il Movimento per la Riforma elettorale, di Segni, che incontrò sulla propria strada le proposte dei radicali di Marco Pannella. Sulle riforme poi si mostrò qualche attenzione di leader come De Mita e Occhetto e di studiosi come Roberto Ruffilli, ucciso nel 1988 dalla Brigate rosse. Ho avuto l’opportunità di partecipare a quelle vicende da un angolo visuale molto particolare. Fu, infatti, la Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) che io presiedevo insieme a Anna Maria Debolini (la parità di genere era praticata per statuto), a lanciare pubblicamente, nel suo 49° Congresso, a Bari, l’idea del referendum. Sul piano tecnico le soluzioni non erano semplici. Si trattava di superare una giurisprudenza costituzionale che escludeva simili interventi, qualora, all’esito del referendum, non fosse scaturita una “normativa di risulta” capace di funzionare (e consentire le elezioni) senza necessità di ulteriori interventi del legislatore. L’idea su cui si lavorava era quella di utilizzare l’impianto uninominale della legge elettorale del Senato togliendo le disposizioni (aggiunte a seguito di un emendamento in Assemblea Costituente) che, di fatto, trasformavano il sistema in un proporzionale pressoché puro. Il problema era che nel corso degli anni il numero dei collegi uninominali non era stato aggiornato: ne mancavano 77 su 315. Così, proposi di costruire il quesito in modo da sfruttare la normativa proporzionale solo per eleggere quei 77 senatori, trasformando in uninominale tutto il resto: un maggioritario corretto con una quota proporzionale. Purtroppo quel referendum fu comunque bocciato dalla Corte (il via libera arrivò solo nel 1993). Nel 1991 rimaneva solo il referendum sulla preferenza unica. Meno “dirompente” ma dal significato altamente simbolico. Le preferenze multiple erano, infatti, un elemento di inquinamento e, persino, di controllo del voto in alcune zone del paese. E il referendum passò con il 60% dei sì, la maggioranza assoluta degli italiani. A distanza di trent’anni, lo scetticismo sulle riforme è ormai dilagante. Tanto che persino il movimento referendario viene liquidato come un’ambizione illusoria e inconcludente. È una narrazione che conviene a tanti. A chi è contro il maggioritario, ma anche a chi preferisce giocare nella confort zone dello status quo, piuttosto che rischiare il cambiamento che magari gli converrebbe pure. In realtà quei referendum non furono affatto inutili. Fin quando durò, il maggioritario assicurò comunque (dati alla mano) la maggiore stabilità dei governi della storia repubblicana e pre-repubblicana. E consentì anche politiche economiche (e governo del debito) più virtuose di quelle che si ebbero prima e anche dopo. Il fallimento, invece, fu ancora una volta della politica. Le leggi elettorali, infatti, possono fare solo una parte del lavoro. Il resto devono farlo riforme costituzionali e regolamentari che nessuno riuscì mai a portare a termine. Per quelle, purtroppo, non c’era possibilità di un referendum popolare. La fine della stagione referendaria, insomma, più che essere una prova del fallimento dell’iniziativa è semmai una conferma della gravità dei problemi in cui il nostro sistema politico ormai da cinquant’anni langue e in cui continua ad agonizzare senza il coraggio e la capacità di affrontarli una volta per tutte. Coi risultati che vediamo. Giovanni Guzzetta

Da Scelba a Mancino fino alla legge Zan. Quell’attrazione irresistibile per il reato “ideologico”. David Romoli su Il Riformista il 4 Aprile 2021. Stando alle premesse e alle promesse di questo primo ventennio, il XXI secolo sembra essere, per la giustizia italiana, quello delle “aggravanti”, della casistica minuziosa che calibra le pene non sul reato ma sulla maggiore o minore censurabilità delle sue motivazioni, distingue le vittime tarando la pena sulla loro vulnerabilità e sull’allarme sociale che di volta in volta le circonda, si concentra sull’istigazione a delinquere allargando l’area a dismisura, sino a confinare e spesso sconfinare con la lesione delle libertà di pensiero e di espressione. I rami sono fioriti come in una foresta tropicale in questo secolo, ma l’albero era stato piantato alla fine di quello precedente, con la legge Mancino del 1993 che prende il nome dall’allora ministro democristiano degli Interni, poi presidente del Senato. In realtà Nicola Mancino si limitò a proporre una legge, il cui contenuto fu invece messo nero su bianco soprattutto dall’allora deputato del Pri Enrico Modigliani, nipote del premio Nobel per l’Economia, Franco Modigliani. Il clima di allarme sul quale la legge interveniva era dovuto all’intensificazione in quei mesi di manifestazioni neofasciste, soprattutto a opera di un gruppo che esisteva già da una decina d’anni ma che, nel tracollo della prima Repubblica, aveva conquistato maggior visibilità e assunto caratteri più minacciosi, il Movimento Politico Occidentale guidato da Maurizio Boccacci, che infatti fu sciolto subito dopo il varo della legge. La legge si ricollegava alla famosa legge Scelba del 1952 sul divieto di ricostituzione del Partito fascista, molto citata e lodata anch’essa negli ultimi anni dimenticando che Scelba abbaiava contro l’estrema destra solo per mordere la sinistra, contro la quale le sue forze dell’ordine usavano abitualmente non le leggi ma le armi da fuoco. Le novità della Mancino erano essenzialmente nell’articolo 1, che fissava una pena fino all’anno e mezzo di carcere per chiunque propagandasse idee di superiorità razziale o etnica e dai 6 mesi ai 4 anni per chi incitasse a commettere atti di violenza o di “provocazione alla violenza” per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. La legge Mancino, a tutt’oggi considerata ed elogiata come “il principale strumento contro i reati d’odio, fu una vera rivoluzione nella concezione del diritto. A essere sanzionati non erano i crimini e neppure l’istigazione a delinquere ma l’espressione di idee che avrebbero potuto portare a quell’istigazione e poi a violenze effettive. Per la prima volta, inoltre, la gravità del reato era misurata non sull’identità dei colpevoli, come nei casi del terrorismo o della criminalità organizzata, ma su quella delle vittime. Il rischio di degenerazione nella criminalizzazione non degli atti ma delle opinioni, la cui libera espressione sarebbe garantita, per quanto esecrabili, dall’art.21 della Costituzione, era evidente e fu segnalato sin dal primo momento. La legge del 2006 sui reati d’opinione intervenne infatti su quel testo modificandone in modo significativo i termini. La “diffusione” di idee razziste penalizzata dalla legge del 1993 fu sostituita con la “propaganda” delle stesse. A costituire fattispecie di reato non fu più l’ “incitazione” ma l’ “istigazione”. La legge Mancino restò più o meno lettera morta fino a che, nel nuovo secolo, le campagne contro i “discorsi d’odio” partite negli Usa, la diffusione dei social e il dilagare di umori ostili all’immigrazione a volte apertamente segnati e sempre venati dal razzismo, resero quella legge già vecchia lo strumento per intervenire su fenomeni nuovi. Nel 2007 l’allora ministro della Giustizia Mastella propose una legge che punisse il negazionismo, cioè qualsiasi posizione negasse la realtà storica della Shoah. All’epoca ci fu una vera e propria insurrezione degli storici che in massa bocciarono la proposta, impugnando non solo la difesa della libertà d’espressione e di ricerca ma anche l’inopportunità di offrire ai negazionisti l’occasione per “ergersi a paladini” della stessa. Mastella ingranò la retromarcia, ripose nel cassetto la proposta. La riprese nel 2012 il Pd, senza riuscire a convertirla in legge per lo scioglimento delle Camere l’anno successivo e stavolta le critiche degli storici e anche di alcuni esponenti di rilievo della Comunità ebraica furono molto più fievoli della levata di scudi di 5 anni prima e comunque rimasero inascoltate. Riproposta nel 2013, la legge contro il negazionismo è stata approvata nel giugno del 2016. È una “estensione” della Mancino che punisce con la reclusione dai 2 ai 6 anni chiunque neghi “in tutto o in parte” la Shoah e i crimini contro l’umanità e di genocidio. Qui il confine tra sanzione contro il reato commesso o l’istigazione a commetterlo e il divieto di espressione letteralmente scompare. Ma in generale gli anni a ridosso della pandemia sono quelli della grande fioritura delle leggi eccezionali miranti a colpire le parole più che gli atti, le espressioni, per quanto aberranti, più che non le azioni criminali. Nel 2017 l’allora presidente della Camera Laura Boldrini invocò a voce altissima una legge severa contro gli hate speech, i “discorsi d’odio”, in rete. Chiese punizioni severe e per dare l’esempio spedì la polizia a casa di un ragazzo colpevole di aver diffuso in rete fotomontaggi da lei ritenuti offensivi. La richiesta, avanzata più volte e sostenuta da numerosi opinionisti e politici, non è mai diventata effettiva proposta di legge ma si tratta solo di una sospensione dovuta alla pandemia. La prospettiva resta ed è recentissima la rinnovata richiesta di una legge contro i discorsi d’odio in rete avanzata da un gruppo di senatori di LeU e del gruppo Misto dopo le minacce in rete contro il ministro della Salute Speranza. Era invece arrivata all’approvazione della Camera la legge contro l’apologia di fascismo proposta nel 2017 dal deputato del Pd Emanuele Fiano, figlio di un sopravvissuto di Auschwitz. Contava un solo articolo e penalizzava qualsiasi richiamo al fascismo, dall’oggettistica al saluto con il braccio destro teso. Bloccata prima dell’approvazione finale a palazzo Madama dalla fine della legislatura la legge, a differenza di quella sugli hate speech, potrebbe non risorgere, neppure in presenza di una maggioranza parlamentare disposta a votarla. Al momento l’ondata di panico da fascismo alle porte che per qualche anno ha percorso l’intera Europa, con qualche fondamento e molta esagerazione, sembra alle spalle. Certo bisognerà vedere quale sarà il quadro dopo la pandemia. Anche la legge approvata alla Camera e ferma al Senato per l’ostruzionismo in commissione Giustizia della Lega, quella Zan contro la transfobia, ha una lunga gestazione. Riassume infatti diversi ddl, a partire da quello presentato dalla Pd Paola Concia nel 2012. Anche in questo caso si tratta di una estensione della legge Mancino, che sfiora pericolosamente e forse oltrepassa i confini della libertà d’espressione costituzionalmente sancita in due punti chiave. Nel 2018 i contenuti della legge Mancino sono stati assunti dal Codice penale, in due articoli tra cui il 604-bis che penalizza la “propaganda di idee e istigazione a delinquere”. La legge sopprime la seconda parte della formula lasciando solo la propaganda di idee. Il testo assicura poi la piena libertà di esprimere opinioni “purché non idonee” a determinare il pericolo di conseguenti atti violenti. Formula, difficile negarlo, a maglie tanto larghe da rendere arduo determinare una casistica tanto precisa da escludere il reato d’opinione. Del resto la ratio delle leggi moltiplicatesi nell’ultimo decennio è proprio quella di “rieducare” a colpi di divieti e sanzioni, di intervenire sulle mentalità prima e più che non sugli atti. Con una missione non confessata ma neppure troppo nascosta simile: tracciare un confine preciso che metta al riparo dal reato d’opinione è semplicemente impossibile.

Il metapartito che ingloba tutti. Se Conte è il grillino dei poveri, Letta aspira ad essere il grillino dei ricchi. Michele Prospero su Il Riformista il 26 Marzo 2021. Una “affascinante avventura”, ha dichiarato Letta presentando la foto con Conte. Affascinante, può darsi. Avventura di sicuro. Se l’inizio ha sempre un che di evocativo, quello di Letta annuncia cadute inevitabili nell’alleanza organica con Grillo come destino. È in atto un passaggio significativo, di sistema. Croce parlava di quello liberale come di una sorta di metapartito. Non un singolo soggetto ma molteplici attori confluivano nella grande galassia liberale così elastica da essere per l’appunto un vero metapartito aperto e senza confini organizzativi. Oggi il metapartito, che raduna spezzoni diversi di ceto politico, ha le sembianze della vecchia Dc. Il sistema attuale è abitato quasi in ogni spazio politico disponibile dal metapartito democristiano. Le prove surreali di realismo in salsa Bettini-Zingaretti, con la fuga precipitosa dopo la trasformistica toccata, hanno reso al momento irreversibile l’omologazione di ogni cosa sotto la accogliente balena democristiana. Tranne la post-fascista Meloni, coerente con una identità come nessun erede del Pci è stato capace di fare con la propria storia, tutti i protagonisti della piccola politica sono organici a vario titolo allo scudo crociato, da Renzi ai centristi, dai populisti alla “sinistra”. Berlusconi è da tempo membro autorevole del partito popolare europeo. Persino nella Lega c’è Giorgetti che spinge per un analogo approdo post-sovranista. Il non più ribelle non-partito grillino spera in un democristiano moderato come Conte per sopravvivere come soggetto di potere e spartizione. Il Pd è finito per diventare una pura e semplice ridotta democristiana. A Letta si oppongono Guerini (di ascendenza andreottiana), Lotti (ultramoderato dc) e a suo fianco opera, come regista di ogni investitura del sovrano di turno, l’eterno Franceschini. Parafrasando Gentile, tutto nella Dc e niente all’infuori della Dc. Che differenza di fondo c’è da rilevare tra il populista “sano” Conte e il populista omeopatico Letta? Proprio nessuna. Conte gioca al populismo che parte dal basso. Letta predilige il populismo dei ceti elevati. Se Conte è il grillino dei poveri, Letta aspira a essere il grillino dei ricchi. La convergenza della foto sta nelle cose. Il neosegretario avrebbe potuto fissare alcuni punti differenzianti: sul piano sociale, spendendo qualche parola sullo sciopero degli invisibili di Amazon, sul piano politico, sulla necessità di correggere la sconcezza della soppressione della prescrizione. Nulla di tutto questo. Comunicazione e spot allo stato puro: voto a 16 anni, decapitazione delle correnti interne con l’imposizione di stampo virile di una donna ai vertici dei gruppi parlamentare. Dopo aver cancellato da presidente del consiglio il residuo di finanziamento pubblico dei partiti, Letta prosegue nel suo viaggio antipolitico chiamando alla segreteria un non iscritto al partito. Insomma, per stare nel clima curiale dell’epoca, un cardinale reclutato tra i non battezzati. Che adesso il democristiano Letta si proponga come traghettatore del M5S nel partito del socialismo europeo (dove peraltro il Pd è entrato su iniziativa dell’altro tosco crociato) svela come si è nel tempo ridotta ad essere quella casa che un tempo sembrava un miraggio irraggiungibile, un attestato di riconosciuta maturità per le forze politiche rimaste nel limbo del post-comunismo. Che un non-partito passi con disinvoltura dai banchi di Farage a quelli dei socialisti appartiene al grottesco, ed è una pura e semplice blasfemia che quale Virgilio dei grillini si proponga il capo del Nazareno. Il guaio è che alla sinistra, ridotta all’irrilevanza per la sua manifesta incapacità, oggi è riservato solo il lamento sterile verso il galoppante andamento del metapartito democristiano. Le tocca fare come Machiavelli nel Proemio al Libro secondo dei Discorsi, costretto dal bruciante pensiero della sconfitta a indignarsi sulle cose e quindi dal piano del politico scendere al momento etico. Una sconfitta bruciante, una vera disperazione politica senza rimedio nell’immediato.

Il dibattito. Il Pd di Letta non è erede dei democristiani, la Dc odiava il populismo. Marco Follini su Il Riformista il 27 Marzo 2021. Ma davvero sono diventati tutti democristiani? Letta, ma anche Conte e perfino un po’ Giorgetti. Democristiani loro, democristiano il loro retroterra e assai democristiana la trama dei loro rapporti. Un vero e proprio “metapartito”. Così almeno fa capire Michele Prospero sul Riformista di ieri. Il suo racconto è suggestivo, ma mi permetto di obiettare. Questa idea che ricorre tanto spesso del partito-spugna, capace di assorbire e mescolare gli umori più diversi, ma al fondo privo di una sua identità, duttile fino all’estremo, finisce infatti per saltare a piè pari molta della controversa storia del dopoguerra. La Dc aveva le sue furbizie, s’intende. E affrontava la battaglia politica concedendo il giusto – e a volte anche più del giusto – alle esigenze della mediazione, della manovra, dello scambio. Non aveva rigidità ideologiche, forse. Ma su alcuni, pochi, punti sapeva essere fin troppo rigorosa. Soprattutto, la Dc aveva piantato alcuni paletti pressoché insuperabili intorno a sé. Non si poteva trafficare con tutti. Agli eredi delle grandi ideologie del tempo si doveva opporre una barriera assai difficilmente valicabile. Ma soprattutto, verso il populismo c’era un’ostilità drammatica e profonda, che non conobbe mai neppure le eccezioni che forse la tattica avrebbe potuto consigliare. Tant’è che quando si affermò il movimento dell’Uomo Qualunque (il populismo dei tardi anni quaranta), De Gasperi si diede a contrastarlo con un’intransigenza assoluta. Togliatti civettò con Guglielmo Giannini, i democristiani no. Nessuno di loro. C’era in quella classe dirigente la consapevolezza che quando ci si divideva sull’idea di “popolo” non era più ammessa nessuna indulgenza. A quanti riducevano quel popolo alla massa, alla folla, a un insieme indistinto, privo di ogni articolazione, lasciato in balia degli imbonitori del momento, non si poteva far altro che opporre un’altra idea di popolo: quella fondata sui legami della rappresentanza. Verso il populismo la Dc tenne sempre un punto fermo. I nostri padri erano consapevoli che se si fosse imboccata quella strada si sarebbe messo in pericolo il carattere di una democrazia che per loro doveva fondarsi sulla mediazione. E dunque organizzarsi per corpi intermedi. Ma soprattutto esercitare tutte quelle virtù di ascolto, pazienza, tessitura che ora la nostra sgangherata “modernità” politica ha largamente disperso. Tutto questo per dire che no, di questi tempi non soffia più lo spirito democristiano. Forse tornerà a soffiare quando il vento del populismo dovrà ammainare le sue bandiere. Magari dopo aver dato una mano, anche noi, a farle ammainare.

Il dibattito. Quando Scoppola aprì al populismo della Democrazia Cristiana. Michele Prospero su Il Riformista il 30 Marzo 2021. Marco Follini su un punto ha ragione. La Dc ha poco a che fare con il populismo verso cui invece strizzano l’occhio Franceschini o Letta. Estranei al populismo erano anche gli altri grandi partiti dell’Italia repubblicana. Forse i liberali avevano una qualche debolezza verso Giannini ma solo perché il commediografo aggrediva un loro antico nemico (di Croce, di Mosca, di Orlando), il partito burocratico di massa con il professionismo politico. È chiaro che la democrazia dei partiti costituiva in sé l’antitesi “tecnica” al populismo. Solo quando declinano i partiti storici e cade la “mediazione” politica comincia il tempo lungo del populismo. Poiché non si dà un assoluto punto zero nei processi politici, deve esserci stato nella vicenda dei due principali protagonisti del bipartitismo imperfetto qualcosa che ha lasciato incuneare nel loro corpo il momento populista. E questa congiunzione, che dai partiti di integrazione di classe conduce alla egemonia dell’antipolitica, chiama in causa il modo con cui Dc e Pci-Pds hanno gestito (con il congedo dalle categorie istituzionali di Togliatti e di De Gasperi ispirate ad una “democrazia mediata”) la transizione italiana dei primi anni ’90. Il mito politico del passaggio “dalla repubblica dei partiti alla repubblica dei cittadini” è nato nel cuore della cultura cattolica. Con sofferenza lo stesso Scoppola che coniò l’immagine avvertirà presto i rischi involutivi della sua formula-manifesto che in effetti si prestava a fughe mitologiche. La società civile divenne all’istante il canone legittimante del nuovissimo partito azienda che occupava lo Stato e l’elettore, dopo aver riconquistato lo scettro usurpato dai partiti, divenne nel tempo “il cittadino punto e basta” cantato nell’inno del finto ribellismo grillino contro la casta. Il movimento referendario che, parole di Segni, intendeva «dare un calcio al culo della partitocrazia» (è proprio il dc conservatore il vero inventore del “vaffa day”), la Rete con la mobilitazione etica contro lo Stato raffigurato come opaco livello del compromesso con la mafia stragista-imprenditrice, sono costole del partito-Stato che nella crisi dell’ordinamento invocano il nuovo inizio, i riti purificatori della discontinuità, la semplificazione moraleggiante della grammatica del sospetto. Il movimento referendario (che impone il rifiuto pregiudiziale di ogni riforma istituzionale incrementale gestita dal parlamento “degli inquisiti”) e il giustizialismo (che rigetta ogni risposta di sistema alla demolizione togata dei partiti) sono gli antecedenti storico-culturali del populismo trionfante. Nati nelle casematte del cattolicesimo democratico, e sorrette in gran spolvero dal partito di Repubblica, il nuovismo e il giustizialismo garantirono una identità ritrovata per il post-Pci smarrito in una confusa lotta contro il regime dei partiti, il consociativismo, la democrazia bloccata. La soluzione politica a tangentopoli venne rifiutata dinanzi alla insubordinazione delle toghe accorse sul Piave, alla indignazione del popolo dei fax. E il “procurattore”, che inveiva contro Forlani o Craxi rivolgendosi direttamente alle telecamere presenti in aula per la diretta video, proprio quando era caduto in disgrazia venne recuperato e, poco contavano le sue simpatie per il Msi, accompagnato a correre nella tranquilla pista rossa del Mugello. Altri tasselli della cultura dei cattolici democratici degli anni ’90 erano quelli della democrazia immediata (elezione diretta della carica monocratica con premi di maggioranza alla coalizione per sapere la sera stessa dello scrutinio il volto del vincitore), della ostilità alla forma partito (l’Asinello era proprio il simbolo del maltrattamento da riservare alla politica organizzata che aveva osato esiliare il padre dell’Ulivo ai vertici dell’Europa). Questa mitologia della disintermediazione e del partito-cartello elettorale sfonda senza alcuna resistenza a sinistra dove si afferma l’obsolescenza del partito di iscritti e di sezioni per inseguire il cittadino delle primarie che si presenta nei gazebo dove uno vale uno (principio metafisico seguito pure nelle candidature di Veltroni nel 2008). Se la “mediazione” è il bersaglio principale del populismo, è evidente che tracce di populismo sono ravvisabili nella cultura politica in età declinante della Dc e del Pds che sono stati senza colpi ferire sedotti dalla fascinazione ulivista, dai non-statuti, dai non-congressi, dalle non-identità, del non-radicamento nei conflitti di classe. La simpatia con cui questi ambienti (e persino figure come Bersani, D’Alema, Orlando) guardano ai grillini, anche dopo la loro disvelatrice esperienza di governo con Salvini, si giustifica solo con il populismo dormiente che dagli anni ’90 è depositato nel cervello annebbiato del Pds e della Margherita. Nella battaglia di potere (non certo di idee, di progettualità organizzativa) tra ex Ds ed ex Margherita ha vinto largamente quest’ultima che esprime il capo dello Stato, il presidente del parlamento europeo, il commissario europeo, il segretario del Pd e i leader dei suoi oppositori interni o dei suoi competitori esterni. Non c’è più contesa, il metapartito democristiano, erede di quella Dc smarrita e minore che negli anni ’90 da partito-istituzione si converte in un partito-movimento, ha stracciato i rivali che hanno ormai gettato la spugna per carenza di cultura politica. Accade come nei Paesi dell’est, dove quasi tutti i protagonisti della transizione democratica vengono (persino Orban) dal partito unico. Ciò non significa che sia tornato il comunismo. Lo stesso vale per l’Italia. Sono tutti figli della Dc i politici di successo (nei palazzi, non nella società che anzi potrebbe avvertire il vuoto di sinistra) ma da ciò non si deve inferire che sia ricostituita la vecchia balena bianca, che nei suoi molteplici residui odierni è solo un metapartito come furono i liberali (che divennero partito solo a dieci giorni dalla marcia su Roma). E anche Follini dovrebbe smettere di sognare lo scudo crociato come un partito e consolarsi dinanzi alla ancora più triste sorte degli eredi di Gramsci che non hanno neppure un metapartito e tocca loro convivere con la pura disperazione politica nell’età parrocchiale dell’anima e del cacciavite.

Il dibattito. Scoppola populista è una tesi infondata. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 31 Marzo 2021. Molte cose si possono sostenere nelle ricostruzioni storico-politiche, ma fare addirittura di Pietro Scoppola uno dei teorici (sia pure involontari) del populismo, come ha fatto ieri su queste colonne Michele Prospero, è operazione piuttosto ardita se non palesemente infondata, sempre che non si faccia del populismo una notte in cui tutte le vacche dell’innovazione politica sono nere e sempre che si ritenga possibile imbalsamare un sistema politico pre-esistente che aveva con evidenza esaurito la sua spinta propulsiva. Indubbiamente la rivista Appunti di cultura e di politica, che sotto la guida di Scoppola e di Giorgio Tonini (nonché con la partecipazione di altri tra cui il sottoscritto) fin dal dicembre 1988 lanciò le Nove tesi per l’alternanza, il Congresso della Fuci del marzo 1989 che prospettò con Giovanni Guzzetta e Salvatore Vassallo l’ipotesi dei referendum elettorali, il convegno della sinistra dc di Chianciano dell’ottobre 1989 in cui Beniamino Andreatta la sostenne con forza, il ruolo protagonista delle Acli di Giovanni Bianchi nelle campagne referendarie del 1991 e del 1993, costituirono uno dei perni principali su cui poggiò il movimento referendario, insieme al nuovo Pds di Occhetto, Veltroni e Barbera e ai radicali. Esso non poggiava su nessuna premessa populista o genericamente antipartitica, ma sull’idea del passaggio a una democrazia dell’alternanza in cui i cittadini decidessero sovranamente tra alternative offerte da forze politiche, non quindi nate nel vuoto, da una presunta società civile autosufficiente. L’obiettivo polemico non era quindi la mediazione dei partiti in sé, obiettivo in cui consiste certo uno dei pilastri del populismo in antitesi alla democrazia rappresentativa, ma quella particolare forma di “democrazia mediata” che aveva smarrito (come già capitato nella Quarta Repubblica francese in cui quella definizione era stata coniata da Maurice Duverger, anch’egli cattolico democratico, socialista in Francia, eletto dal Pci al Parlamento europeo), qualsiasi legame chiaro tra consenso, potere e responsabilità. Non quindi una condanna della mediazione in sé, che anzi la cultura della mediazione era ed è uno dei perni chiave della cultura cattolico democratica sia contro le pretese di deduzioni immediate di scelte politiche dalla fede religiosa sia contro una visione politica basata sul rigido schematismo amico-nemico, ma invece la condanna puntuale di un tipo oligarchico di mediazione, tutta bloccata nelle dinamiche oscure dei veti reciproci e dell’uso spregiudicato del potere di coalizione. Quel blocco senza alternanza che consentiva, caso unico nelle democrazie parlamentari, di accedere alla Presidenza del Consiglio a leader di forze politiche minori in coalizioni costantemente rinegoziate in corso di legislatura e che pertanto andava rimosso anche attraverso le opportune riforme elettorali e istituzionali, le quali accompagnassero il superamento politico delle due anomalie del sistema italiano tra loro strettamente intrecciate, l’egemonia comunista sulla sinistra e l’unità politica dei cattolici. Anomalie di cui era particolarmente cosciente quella parte del cattolicesimo democratico che, attraverso i legami europei, come la Fuci e le Acli, dove entrambe quelle anomalie non esistevano ed era pacifica la presenza di credenti nei partiti della sinistra non comunista. Non c’era quindi populismo nella scelta dei fini, dato che si trattava di giungere al funzionamento fisiologico delle grandi democrazie parlamentari, facendo, come aveva scritto profeticamente Ruffilli prima della caduta del Muro di Berlino (che vedeva in questo il compimento del disegno moroteo), del cittadino l’arbitro delle scelte dei Governi. Anche il richiamo di Scoppola a una “democrazia dei cittadini” che sarebbe subentrata al ruolo monopolistico dei partiti della prima fase repubblicana non aveva nulla della facile polemica antipopulista, specie se si considera che quella espressione era mutuata dal già citato Duverger, che in un suo testo del 1982 l’aveva ricollegata alle evoluzioni delle democrazie rappresentative nonché ad autori come Blum, Mendès-France e Popper. Non c’era populismo neanche nella scelta dei mezzi, giacché l’uso dello strumento referendario non era stato visto né come salvifico né come autosufficiente. Esso si era rivelato necessitato dopo che il Governo Andreotti nel marzo 1990 aveva posto per quattro volte la fiducia contro la maggioranza parlamentare trasversale favorevole all’elezione diretta del sindaco e non fu autosufficiente perché il Parlamento ben perfezionò nel 1993 il quesito referendario sui Comuni con una buona legge elettorale e un’ottima forma di governo (ripresa anche qui da Duverger attraverso la mediazione di Barbera), che non a caso nessuno propone di modificare da allora e che furono poi estesi, sempre dal Parlamento, alle Regioni nel doppio passaggio 1995 (legge elettorale) e 1999 (riforma costituzionale), mentre il disegno purtroppo non si è sinora compiuto coerentemente sul piano nazionale. Peraltro, non casualmente nessuno né dell’area cattolico democratica né del Pds sottoscrisse il referendum radicale sull’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Neanche si può parlare del populismo giudiziario come levatrice del movimento referendario perché il successo del primo referendum elettorale del 9 giugno 1991 fu precedente alle inchieste di Tangentopoli ed esprimeva una domanda di politica a cui il sistema reagiva con colpevole lentezza. Le inchieste furono rese possibili per l’incapacità di ristrutturare l’offerta politica e fu quel vuoto a determinare anche le scorciatoie giustizialiste, certo estranee alla cultura del cattolicesimo liberale di Scoppola e Andreatta, della Fuci e delle Acli. In altri termini, questo è il punto-chiave, il movimento referendario nacque da una preesistente crisi del sistema dei partiti, a cui cercò di replicare in positivo, non fu invece esso la causa di quella crisi che le preesisteva in tutta la sua forza. Né si può parlare di populismo perché seguendo intuizioni di apertura già presenti nei partiti precedenti (gli esterni della Dc, gli indipendenti sinistra per il Pci) esse furono poi sviluppate originalmente dal Pd in un modello di partito che si voleva estroverso e contendibile e che, caso mai, fu presto neutralizzato nella sua costituzione reale. È stato anzi il persistere di forme tradizionaliste di politica nell’ambito del centrosinistra, di una mentalità per la quale l’Ulivo, il Pd, le nuove regole elettorali e istituzionali potevano essere viste solo come tristi necessità a cui rassegnarsi superando un’età dell’oro collocata nel passato, che si sono frenate le risposte adeguate e si è creato il terreno per scorciatoie populiste. Se viene riproposta la Messa in latino a chi non sa più il latino, se si pretende di sciogliere il popolo quando è in dissenso col Governo (come diceva Brecht a proposito della prima rivolta degli operai della Ddr nel 1953) allora sì che si è parte del problema e non della soluzione. Ma, per fortuna, anche il nuovo segretario del Partito Democratico Enrico Letta col suo maestro Andreatta ha ben vissuto quel crogiuolo di innovazione politica che è stato il movimento referendario ed è pertanto in grado non solo di difendere l’eredità del passato nelle nuove regole per comuni e regioni e nelle nuove forme del Pd, ma anche di rilanciarla, con l’aiuto di tutti, per completare coerentemente la transizione sul piano nazionale.

Le bordate di Segni, Cossiga e Orlando furono anomalie che la Dc visse male. Marco Follini su Il Riformista il 31 Marzo 2021. Il professor Prospero, quasi democristianamente, mi concede qualche ragione per potermi dare meglio torto. Si, egli dice, la Dc non fu populista, anzi. Però tra le tante cose che si agitavano nella sua pancia ribollivano argomenti, suggestioni, tentazioni che arrivavano a quei confini e qualche volta li valicavano. Segni, per esempio, in lotta contro la partitocrazia. E Orlando alle prese con l’“opacità” altrui. Perfino la Repubblica dei cittadini, evocata da Scoppola contro quella dei partiti, sembra richiamare qualcosa, sia pure involontariamente, delle parole d’ordine che all’indomani della Dc avrebbero preso il sopravvento. Da parte mia potrei aggiungere, come contributo non irrilevante a questo elenco, le “picconate” di Francesco Cossiga. Tutto sta ad intendersi, però, su quale sia la regola e quale invece l’eccezione. E io resto convinto che la regola democristiana sia sempre stata quella di considerare il populismo come un nemico mortale e la demagogia come un peccato politicamente imperdonabile. E dunque di giudicare quelle eccezioni, che pure di tanto in tanto infrangevano le sue regole e i suoi princìpi, alla stregua di vere e proprie minacce alla sua stessa identità. Naturalmente non si possono iscrivere tout court Segni o Cossiga tra i progenitori dell’ondata populista dei nostri giorni. Ma io ricordo bene a quel tempo come anche solo i primi vaghi accenni con cui quelle figure denunciavano i guasti della partitocrazia venivano giudicati a piazza del Gesù alla stregua di una pericolosa forma di avventurismo. Per non dire di Orlando che nella Dc appariva fin dagli inizi come l’emblema di una controversia che non si sarebbe mai potuta risolvere. E infatti, non per caso, quel che rimaneva del partito di un tempo anche quella volta tentò di far quadrato intorno alle sue storiche bandiere. E visse Segni come un figlio che rinnegava la sua famiglia, Cossiga come uno zio che se ne era posto ai margini e Orlando come un genero che aveva fatto il matrimonio più sbagliato. Nelle loro denunce i democristiani del tempo vedevano un rinnegamento delle proprie radici. E a loro volta in quelle denunce la Dc, ormai, non c’era già più. Quanto a Scoppola, egli immaginava che la Repubblica dei partiti avrebbe dovuto cedere il passo a istituzioni più severe, più asettiche, meno colorate dalle passioni e dalle parzialità della contesa politica. E cioè un percorso che andasse dalla parte opposta rispetto a quella che abbiamo poi imboccato. Confidava nella democrazia dei notabili evocata da De Gasperi e credo che oggi avrebbe anche lui la sua parte di difficoltà a fare i conti con l’esito di tante insofferenze che invocando il conte di Cavour si sono ritrovate alle prese con Juan Domingo Peron. E infine, per quanto riguarda il sottoscritto. Io non sogno affatto “lo scudo crociato come un partito”. Ma anche per questo vorrei almeno evitare l’incubo di certe sue caricature.

La seconda repubblica e il crollo del pentapartito. Il Pds fu complice del partiticidio, dopo fu solo populismo. Michele Prospero su Il Riformista il 4 Aprile 2021. In ogni disputa teorico-politica bisognerebbe, per evitare incomprensioni, condividere subito la mozione di Hobbes. Ovvero, precisare con definizioni rigorose i concetti evocati per impedire così un uso equivoco o metaforico delle parole. Per quanto riguarda il populismo, la migliore definizione rimane quella suggerita da Huntington. «Il populista nega la necessità di una struttura che colleghi il popolo ai leaders politici e vagheggia la democrazia senza partiti che sono ritenuti un ostacolo all’espressione della volontà di tutti». Si tratta non di un insulto quindi ma di una modalità di politica che salta le mediazioni, contrae le strutture organizzate denunciate come un diaframma che comprime la bella società civile, i mitici cittadini. Entro questa generale avversione alle mediazioni si possono distinguere una declinazione iperdemocratica, come quella americana del primo Novecento (primarie, limite dei mandati, revoca), e una versione illiberale come quella raccolta dal M5s in una chiave di ostilità alla rappresentanza. In America le istanze del forte movimento populista sono state istituzionalizzate, non hanno rotto il sistema politico-costituzionale. In Italia invece in un quadro assai più compromesso la richiesta del cattolicesimo democratico (e raccolta quale nuova ideologia dal “Pds di Occhetto, Veltroni, Barbera”, come dice Ceccanti) non ha trovato una rete di istituzioni forte e assorbente e anzi il cambiamento del sovrano (dai partiti al cittadino), accentuando la rottura del sistema già in crisi per molteplici cause, ha favorito l’insorgenza delle varianti illiberali di populismo. Il rimprovero, che Follini però non coglie, è anzitutto rivolto al Pds come principale partito sopravvissuto alla catastrofe e che avrebbe dovuto proprio per questa “fortuna” assumere con “virtù” una ottica di sistema (salvare i partiti storici come interesse prioritario della democrazia). Forse per una carenza di identità, e anche per una fragilità di cultura politico-istituzionale, insomma per una lacuna di “leczione ed experenzia”, la leadership postcomunista nella crisi di regime ha preso la strada più breve. È anche legittimo provare l’ebbrezza della potenza per sbarazzarsi degli antagonisti, soprattutto in una fase difficile per la sopravvivenza e accodarsi al movimento referendario e al clima dell’epoca che consentivano di convertire la crisi esterna (crollo del comunismo) in crisi interna (delegittimazione dei partiti di governo). Fa parte dell’essenza della politica sprigionare ambizione di potenza. Ma se questa esibizione di forza culmina nella sconfitta della gioiosa macchina da guerra, allora si è trattato semplicemente, come chiarisce Machiavelli, di una “cattiva ambizione” che scivola in “sciaura”. La liquidazione dello storico Psi con il tintinnio delle manette e le forbici referendarie ha aperto una ferita lacerante, mai riassorbita. Una soluzione politica era costosa, difficile da spiegare al popolo dei fax e delle monetine, ma non è stata mai presa in considerazione. Quando Gerardo Bianco ha chiesto una dilazione temporale del voto per consentire ai popolari di riorganizzarsi in vista del maggioritario, il Pds si è voltato dall’altra parte invocando quello che Occhetto chiamò il “lavacro democratico”. Il giornale di riferimento, Repubblica, dipingeva la richiesta del tutto ragionevole dei post-Dc come la prova di una controrivoluzione in atto. La volontà di incamerare una vittoria annunciata era così forte che il Pds aveva già pronti “manifesti, adesivi, depliant. Tutto pur di sostenere la petizione popolare per la richiesta di elezioni immediate” (A. Caporale, Repubblica del 17 novembre 1993). Certo il Pds ha avuto con la sua condotta egoista almeno dieci anni in più di vita rispetto ai competitori, ma l’assenza di una preoccupazione di sistema, accantonata per cavalcare l’onda ingannevole della “rivoluzione italiana”, ha contribuito al collasso storico della democrazia repubblicana e in definitiva alla triste scomparsa delle stesse forze post-comuniste. Il nodo dell’impatto delle aperture iperdemocratiche (i cittadini sono stati espropriati del loro potere da una casta, da una oligarchia, da una nomenclatura, da un regime) in un sistema semplificato e sfibrato dalla disintermediazione lo ha colto con efficacia Huntington rimarcando «il curioso paradosso per cui mentre la partecipazione popolare cresce, proprio la principale struttura pensata per organizzare e convogliare quella partecipazione –il partito politico- attraversa una fase di declino». Questo urto tra apertura (che raggiunge il culmine con i visitatori dei gazebo chiamati senza distinzioni a eleggere il segretario di un partito: il popolo è ritenuto dallo statuto del Pd come una entità omogenea, indifferenziata, il tutto nella grammatica specifica del populismo) e scomparsa della mediazione o politica organizzata provoca un insidioso corto circuito che alimenta in definitiva il sovranismo e il populismo. La fortunata formula della transizione dalla repubblica dei partiti alla repubblica dei cittadini ha provocato evidenti problemi di rendimento democratico. Proprio Scoppola ha richiamato questi nodi lancinanti parlando di un processo “che si è imposto in forme non guidate e senza un compiuto disegno politico”. Il mito della società civile, la retorica del cittadino-sovrano hanno estirpato le ultime radici di un sistema malconcio precipitando in un vuoto di direzione politica senza più poter contare su soggetti in grado di gestire la transizione. Il risultato del trentennio della seconda repubblica come complessivo momento populista è il susseguirsi non di regolari alternanze ma di crisi di regime con cadute e sostituzioni di interi gruppi dirigenti. La carenza di partiti quali soggetti per la selezione delle classi di governo, l’organizzazione del conflitto di classe, la socializzazione politica di massa ha prodotto un collasso della politica, del modello economico, della società civile. Ancora Huntington è illuminante al riguardo: «Uno Stato privo dei partiti è anche uno Stato privo dei mezzi istituzionali adatti a generare il mutamento e ad assorbirne l’impatto, la sua capacità di modernizzarsi, da un punto di vista politico, economico e sociale ne viene drasticamente limitata». Ma questa situazione non è più storia, è purtroppo ancora cronaca.

·        Riformismo e Riformisti.

Indecisi a tutto. La grande fifa dei riformisti di Lega, Forza Italia e Pd e la crisi della democrazia dei partiti. Mario Lavia su L'Inkiesta  il 6 novembre 2021. È tutto un sussurrare, mandare veline, dichiarare senza essere citati, incontrarsi nelle case private. È il terrore che corre sul filo di gente che teme di perdere ruolo, in qualche caso persino il lavoro. Al massimo si getta il sasso per vedere l’effetto che fa, come ha fatto Giorgetti con Salvini e Brunetta prima di lui. Ma poi ci si ferma lì. Non si può dire che Matteo Salvini sia stato ambiguo: tra Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti ha scelto Giorgia. La destra estrema. Tutto alla luce del sole, va detto: il giorno dopo che il suo numero due gli aveva chiesto di guardare ad Angela Merkel e Ursula Von Der Leyen, il leader della Lega si è rivolto a due para-dittatori di destra come Mateusz Morawiecki e Viktor Orbán per fare il gruppo della destra europea, altro che Partito popolare europeo. Più chiaro di così si muore.  Dopodiché, in perfetto stile cominternista, il consiglio federale della Lega ha votato all’unanimità il pieno sostegno al Capitano e alla sua linea. Anche Giorgetti si è accodato. Un esito avvilente, da Partito comunista dell’Unione sovietica, quando chi dissentiva era tenuto a pronunciare un elogio della linea ufficiale. In Forza Italia da mesi c’è un pezzo del gruppo dirigente che sbandiera il suo europeismo e filo-draghismo in contrapposizione a una linea giudicata troppo subalterna al sovranismo, un dissenso culminato nella impegnativa intervista di Renato Brunetta nella quale il ministro disegnava una linea alternativa a quella ufficiale del suo partito, tranne poi andare tutti a far festa nel villone romano di Silvio Berlusconi che è diventato anche il candidato di tutto il centrodestra al Quirinale. Quindi l’andazzo è continuato come prima, peggio di prima. Sul Partito democratico il discorso sarebbe lungo, ma basti qui osservare che la corrente sbrigativamente definita degli ex renziani che si chiama Base riformista da una parte sostiene il segretario e dall’altro (specie nei conversari privati) ne sottolinea l’inabilità e a voto segreto gli manda un segnale inequivocabile. Dopodiché la riunione del gruppo dei senatori, convocata sul disastro compiuto sulla legge Zan, si conclude all’unanimità: si sta da separati in casa, ma tutto procede come se niente fosse, domani è un altro giorno, si vedrà. Da tutto questo emergono alcune cose. Innanzitutto, il nervosismo che attraversa le principali forze politiche, tranne il monolite meloniano, almeno finché le cose andranno relativamente bene. Del Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte si fa presto a dire che non esiste una vera dialettica ma solo una ricerca di sopravvivenza individuale, dunque non è una questione politica. Questo nervosismo dentro la Lega, Forza Italia e Pd è chiaramente legato alle incognite che connotano i rispettivi orizzonti politici ma anche – questo è il punto – a una prassi malata della vita interna, ove prevale sempre il terrore di rompere, di essere emarginati, di non venire ricandidati, di finire nella cosca perdente. L’opportunismo è un vizio che c’è sempre stato ma mai a questi livelli. Nella Democrazia cristiana, nel Partito socialista italiano e a suo modo nello stesso Partito comunista (specie nell’ultimo Pci) le battaglie si facevano, le minoranze parlavano, facevano iniziative, avevano proprie riviste e si giocavano la leadership nei congressi, quelli veri. Senza esaltare un passato che ha conosciuto gravi magagne, tuttavia la dialettica era più limpida. Mentre adesso è tutto un sussurrare, mandare veline, dichiarare senza essere citati, incontrarsi nelle case private. È il terrore che corre sul filo di gente che teme di perdere ruolo, in qualche caso persino il lavoro. Quest’ultimo aspetto, in un tempo di crisi, è diventato davvero un freno alla libertà di movimento dentro i partiti. Oppure prevale l’idea di aspettare tempi migliori (ma quando arrivano?), per cui al massimo si getta il sasso per vedere l’effetto che fa, come ci pare abbia inteso fare Giorgetti e forse Brunetta prima di lui, ma poi ci si ferma lì. Poi per forza irrompe, e per fortuna, Mario Draghi: che stia lì, ormai, la Politica? E invece sta per giungere il momento in cui ciascuno dovrà scoprire le carte perché vuoi o non vuoi si sta entrando in un lunghissimo periodo pre-elettorale. Le posizioni andranno chiarite. Cosa vuol fare, ad esempio, Base riformista, dalla quale era lecito attendersi uno sforzo per evitare che il Pd scivolasse su posizioni identitarie con proposte meramente di bandiera, e invece è scivolata verso la linea frontista e tutto sommato attendista di Enrico Letta. Possibile che Irene Tinagli e Lorenzo Guerini non sappiano trovare una ragion d’essere che non sia un mesto aiutare Letta? Peccato che la prima occasione non sarà la più idonea per fare chiarezza: le votazioni al Quirinale potrebbero essere i pizzini contro questo o quel leader, un parossistico incrocio di messaggi cifrati all’ombra dello scrutinio segreto. Ci vorrebbe invece, come ai bei tempi, una stagione congressuale con Giorgetti contro Salvini, Mara Carfagna contro Antonio Tajani, mister X contro Letta. Uno scontro di idee, non (solo) una lotta per la leadership. Mentre aspettiamo che i piccoli – Azione, Italia viva, +Europa, Cambiamo, Coraggio Italia – decidano che cosa vogliono fare da grandi, sarebbe bello se i tre indecisi a tutto (cit. Ennio Flaiano) ci facessero capire qualcosa e aprissero le porte alla libera e trasparente battaglia interna.

Il manifesto di 17 intellettuali della sinistra. Sedici tesi sul riformismo. Redazione su Il Riformista il 28 Luglio 2021. 

ATTUALITÀ’ DEL RIFORMISMO

1) Nel ‘900 il termine riformista ha avuto un connotato prevalente: serviva a distinguere dai massimalisti e ovviamente dai conservatori, quali assertori del cambiamento attraverso riforme graduali, senza sconvolgimenti e violenza rispettando, come intangibili, le forme della democrazia politica. Non era solo una questione di metodo a distinguere riformisti e rivoluzionari. Al fondo dell’opzione riformista vi era l’assunzione della democrazia liberale e dell’economia di mercato come riferimenti orientativi dell’azione politica dei socialisti democratici.

2) Nella sinistra attuale questa distinzione che ha attraversato il secolo non ha più senso politico-culturale: il riformismo, cioè il metodo dell’azione politica in una democrazia liberale e in una economia aperta e di mercato, è la unica versione possibile del cambiamento. I riformisti hanno un atteggiamento contrario sia al pessimismo dei conservatori e alla pretesa che il mercato “miracoloso” risolva tutto, sia all’ottimismo facilone dei massimalisti. Il riformismo è di grande attualità, si propone di perseguire obiettivi di equità, pari diritti e opportunità per donne e uomini, cittadine e cittadini. Restringere la forbice delle diseguaglianze, accrescere la coesione sociale, stimolare lo sviluppo e l’innovazione, assicurare a tutti eguali condizioni di partenza e garanzie di sicurezza è la missione del riformismo.

3) Il pensiero riformista si è trovato per lungo tempo in condizioni di minorità rispetto ad altri indirizzi ideali. Caduto il fascismo, le grandi forze politiche egemoni in Italia furono il partito cattolico e il partito comunista. Tuttavia, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, hanno avuto un ruolo nella vicenda politica e culturale del Paese, seppure da posizioni di minoranza, gruppi e personalità riformisti. Il riformismo sociale keynesiano, che faceva capo originariamente alla rivista “Cronache sociali” di Dossetti, Fanfani e Moro, che si estrinsecò con Pasquale Saraceno, favorevole all’intervento pubblico in economia; quello di ispirazione liberal-progressista di Adriano Olivetti, il cui sogno era una fabbrica a misura d’uomo; per altro verso quello degli “amici del Mondo”. L’incontro di queste ispirazioni con la cultura del socialismo riformista che ebbe grandi protagonisti in Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti fu all’origine della stagione del centro sinistra storico. Una esperienza non priva di risultati per il Paese, produsse un insieme di riforme e consentì l’emergere di una domanda di modernità e progresso civile. Dopo un lungo oblio il riferimento al riformismo fu riproposto da Bettino Craxi all’inizio degli anni Ottanta. Il notevole contributo del Pci alla storia d’Italia, dalla Repubblica, alla Costituzione, al sorgere dello stato sociale, si collocò tuttavia a lungo nell’orizzonte della fuoriuscita dal capitalismo per edificare un altro sistema, quello socialistico. Questo rese difficile la unità dei riformisti. Unità che sarebbe stata essenziale per spingere in avanti il processo riformatore e contrastare i condizionamenti e le spinte a tornare indietro nella vita economica e civile del Paese. Spinte che si manifestarono durante la esperienza della collaborazione tra socialisti e cattolici e successivamente. Alla assunzione piena del valore del pensiero riformista e al suo arricchimento contribuiranno poi le componenti che nel Pci furono definite “miglioriste” e parte delle forze che, conclusa nel 1989 con il crollo del Muro di Berlino la storia del comunismo, si impegnarono alla costruzione di una nuova formazione politica della sinistra.

4) Riformista oggi rischia di diventare un’auto attribuzione se prescinde da riferimenti concreti agli specifici programmi e proposte per affrontare i problemi in cui si dibatte il Paese. Proposte e programmi dovrebbero essere il solo terreno per misurare incontri, convergenze, alleanze. In mancanza di ciò prevale l’uso astratto del termine riformista: un uso ideologico (che pretende di definire appartenenze) senza più l’ideologia. Questo svilimento del termine riformista, la perdita dei suoi contenuti concreti e di riferimento a riforme individuabili, si tenta di arginarlo con il ricorso alla retorica e alle aggettivazioni. Che non aggiungono chiarezza, ma solo alimentano il nominalismo e la confusione. Che cosa è, per esempio, un riformismo radicale? Una formula spesso utilizzata solo per alludere a presunti contenuti di maggiore profondità o antagonismo delle riforme proposte. Priva di senso, perché le riforme sono sempre quelle possibili e compatibili con la sostenibilità dell’economia e delle libertà, si giudicano sulla base degli effetti che producono, sono realizzabili sulla base di una reale cultura di governo.

CEDIMENTI POLITICI E CULTURALI DEL PARTITO DEMOCRATICO AL GRILLISMO; CADUTA DEL GOVERNO CONTE: ERRORI, LIMITI E PERICOLOSI SBANDAMENTI IN POLITICA ESTERA, NON COMPLOTTI

5) Nella fase precedente all’attuale segreteria di Enrico Letta, è cresciuto nel Partito democratico il peso delle componenti più vicine al grillismo. È appena il caso di ricordare il cedimento su punti qualificanti, dalla giustizia a quota 100, dal gigantesco fallimento del reddito di cittadinanza con i suoi “navigator” al temporeggiare su tutto ciò che riguardava l’immigrazione a cominciare dai decreti sicurezza, al rinvio nella utilizzazione del Mes. In quanto al taglio dei parlamentari la condotta del Pd è risultata improvvida. Il “Si“ poteva avere senso solo in un contesto di riforme che lo avesse alleggerito del segno demagogico e antipolitico che aveva connotato dall’inizio la iniziativa dei grillini. Un impianto programmatico e culturale che ha rischiato di rendere sempre più flebili contatti e relazioni del Pd con mondi produttivi, settori moderni della società italiana, territori propulsivi della economia, generazioni più aperte.

6) La trasformazione del rapporto con il grillismo da incontro reso necessario per contrastare il disegno reazionario di Matteo Salvini, ad una alleanza strategica, rischia di assumere i caratteri di un blocco politico che non può presentarsi con una caratterizzazione riformista. Sul piano politico questa opzione strategica si è tradotta nei mesi scorsi in una sorta di mandato in bianco al presidente Conte. Nella seconda metà del 2020 sono tuttavia apparsi evidenti i limiti e gli errori gravi del governo sia nella gestione della pandemia che nella politica economica e soprattutto nell’elaborazione del Recovery Plan. Di qui la sua crisi.

SCONFITTA DEL POPULISMO E DEL SOVRANISMO, NASCE IL GOVERNO DRAGHI

7) Il populismo e il sovranismo hanno tentato, negli ultimi anni, di introdurre cambiamenti illiberali del nostro ordinamento e una revisione della storica collocazione europeista ed atlantica del Paese. Alla prova del governo, sono stati essi a franare, a collassare, a perdere i propri connotati antagonisti e a dover intraprendere un faticoso e, allo stato, impervio processo di revisione e re-identificazione.

8) Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dopo la manifesta incapacità delle forze che sostenevano Conte di giungere ad una nuova intesa, dando l’incarico a Draghi per un governo di salute pubblica ha evitato che il paese venisse a trovarsi in una drammatica impasse nel pieno della crisi epidemica. Costituisce una manifestazione di avvilente regressione politica e culturale ritenere che la crisi del governo Conte sia il risultato di un disegno messo in atto da non precisate “élite” nazionali ed internazionali. Il governo Conte, lo ripetiamo, è caduto per errori e limiti nella sua condotta e per oscillazioni pericolose sul tema della collocazione internazionale dell’Italia.

9) Il governo Draghi offre la occasione -se sarà colta- per fuoriuscire da uno stato di eccezione, quello degli anni del populismo e del sovranismo. La nostra democrazia, al termine dell’esperienza del governo unitario guidato da Mario Draghi, è auspicabile si riassesti sui binari della competizione bipolare tra centrodestra e centrosinistra. I termini della dialettica politica tra i grandi schieramenti e le coalizioni in campo dovrebbero tornare ad essere, messa sotto controllo la pandemia, le risposte ai due grandi problemi della democrazia italiana: la debolezza dei governi e l’esiguità della crescita economica. Sul primo punto occorre consapevolezza che il sistema politico-istituzionale non consente più di attivare in modo efficace, all’altezza del compito, la “funzione governo”. I tre anni ultimi della legislatura in corso ne sono stati la dimostrazione estrema e parossistica. Senza un convinto e tenace impegno riformista sul terreno istituzionale da parte della sinistra, la crisi in cui l’Italia si trova da tempo non si risolve e si aggrava continuamente. Per correggere la fragilità italiana sul terreno economico occorrono le riforme (fisco, spesa pubblica, mercato del lavoro, pubblica amministrazione, giustizia, investimenti nella tecnologia, nella ricerca, nelle grandi opere pubbliche, nelle infrastrutture digitali, nella sanità, nei trasporti, nella formazione). Sono quelle che chiede l’Europa. Sono quelle di cui ha bisogno il nostro Paese. Alcune di esse come la riforma della pubblica amministrazione sono indispensabili per realizzare gli impegni italiani per la transizione ecologica o energetica: una grandissima sfida riformista che misurerà la capacità dei Paesi a competere nella innovazione e nelle individuazioni delle soluzioni possibili nel campo della mobilità sostenibile, del cambio di infrastrutture e sistemi produttivi. È il caso di tenere ben presente il modo in cui gli Stati Uniti di Biden si dispongono ad affrontare l’impresa. Nelle scelte della nuova Amministrazione statunitense la forte ambizione ambientalista si accompagna alla razionale attenzione alle ragioni della crescita e della occupazione e alla necessità di tenere conto di entrambe le esigenze e del loro combinarsi.

MESSA IN SICUREZZA DALLA PANDEMIA; ATTUAZIONE DI ALCUNE CRUCIALI RIFORME

10) Nei mesi che separano dalla elezione del presidente della Repubblica tre sono gli obiettivi di fondo della azione del governo: la vaccinazione degli italiani e la loro messa in sicurezza dalla pandemia e dalle sue varianti, l’avvio a realizzazione del Pnrr, la concreta attuazione di alcune cruciali riforme. L’Italia che a causa dei dissensi sulla predisposizione del Piano ha vissuto una crisi di governo alla fine è riuscita a rispettare la tempistica europea. Occorre ricordare a tutti e in particolare al leader della Lega Matteo Salvini, che la parola chiave del Recovery Plan è Riforme. Quelle previste dal Pnrr presentato dal governo italiano riguardano la Pubblica amministrazione, la giustizia, la semplificazione, la concorrenza e il fisco.

11) Su cinque questioni in particolare vorremmo soffermarci considerandole centrali nell’impegno riformista nei prossimi mesi:

a) Giustizia. La revisione della giustizia penale approvata dal Consiglio dei ministri su proposta della ministra Cartabia rappresenta un importante risultato delle forze che si battono da anni contro il populismo penale e il verbo giustizialista (che hanno trovato nell’ex premier Giuseppe Conte l’autentico continuatore), per una riforma del sistema giudiziario italiano nell’ottica liberale di un equilibrio dei poteri. Occorrerà procedere nella riforma del CSM prevedendo sistemi di elezioni che superino il ferreo dominio delle correnti il cui ruolo è positivo solo se esprimono un pluralismo di culture giuridiche e affrontare coraggiosamente il tema della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. In questo quadro, i referendum radicali che in diverse occasioni hanno svolto un ruolo positivo di sollecitazione e di stimolo per le riforme, ancora una volta possono farlo. Essi consentono, su temi delicati, che posizioni distanti dal punto di vista politico possano convergere nella battaglia riformatrice.

b) Istituzioni. La sinistra riformista oltre a definire con chiarezza l’insieme delle riforme e delle innovazioni che si propone di mettere in atto, deve esprimere nel modo più netto la necessità di riforme istituzionali che ricostituiscano in Italia le basi – oggi compromesse – per la possibilità stessa del governare. Per far fronte ad un compito tanto impegnativo devono essere chiamate alla responsabilità tutte le forze della democrazia italiana, anche quelle che contendono il governo alla sinistra. Si tratta di definire un nuovo circuito plausibile ed efficace che colleghi l’espressione della volontà dei cittadini attraverso il voto con l’indirizzo e la costituzione del governo. Farlo senza cedimenti plebiscitari, tutelando la funzione della rappresentanza come quella dei soggetti politici che alimentano e interpretano il pluralismo senza il quale la democrazia si impoverisce e deperisce. Ma farlo affidando alla decisione dei cittadini un peso dirimente ai fini dell’indirizzo e della responsabilità del governo nel periodo che va da una elezione all’altra. In questo quadro vanno realizzate la riforma dei regolamenti parlamentari, la riforma del titolo V della Costituzione la cui necessità è stata messa in evidenza da ciò che è accaduto nel corso della pandemia, va introdotta la “fiducia costruttiva”.

c) Sanità. Costituisce una grande esigenza nazionale da soddisfare la riorganizzazione della sanità nel nostro Paese alla luce di quanto emerso nei mesi drammatici del Covid. Nei primi dieci anni del secolo il finanziamento della sanità pubblica si è ridotto; è stata sottovalutata la necessità, in particolare nelle regioni meridionali, di un miglioramento di strutture e servizi. Oggi è indispensabile incrementare le risorse stanziate nel PNRR per la sanità. ll punto non è smantellare la sanità regionale ma è avere un sistema centrale in grado di fissare target e obiettivi e capace di commissariare le regioni inadempienti.

d) Mezzogiorno. La sfida al dualismo era il tratto distintivo della migliore politica italiana. Quella che fondava la propria iniziativa sulla convinzione che l’unità più salda dell’Italia sarebbe nata dal superamento del dualismo, dal mettere fine ad una storica arretratezza delle regioni meridionali. La sfida al dualismo deve tornare ad essere un elemento centrale nel confronto politico e culturale nel nostro Paese.

In uno scenario internazionale profondamente mutato e investito da processi globali occorre pensare al Mezzogiorno come la piattaforma logistica dell’Europa in un Mediterraneo che, con il raddoppio di Suez torna una rotta centrale nei traffici internazionali. A questa strategia è interessato il sud che non induce a un rivendicazionismo deteriore ma chiede investimenti per accrescere l’offerta di beni pubblici di base, la giustizia, la formazione, la sicurezza, e insieme investimenti pubblici per accrescere il patrimonio di infrastrutture materiali e immateriali. Ciò che si richiede in altri termini è un impegno costante – una strategia – capace di aiutare efficacemente nuove classi dirigenti delle regioni meridionali a valorizzare quelle risorse locali che ci sono e che sono gravemente sottoutilizzate: i beni culturali e ambientali, le conoscenze scientifiche racchiuse nelle università, il saper fare diffuso in agricoltura, elementi essenziali di un patrimonio che va messo a valore nelle città del Mezzogiorno.

e) Immigrazione. I flussi sono in aumento dall’inizio del 2020 anche a causa della diffusione della pandemia. La questione nasce e si sviluppa a partire dall’Africa sub-sahariana. Negli ultimi mesi centinaia di migranti sono scomparsi nelle acque del Mediterraneo al largo della Libia. L’Italia non può permettersi di ignorare le richieste di soccorso che arrivano dal mare né può affidare i salvataggi esclusivamente alla Guardia costiera libica perché significherebbe, come dimostrano i rifiuti a salvare barche in difficoltà, essere ostaggi dei loro ricatti e della loro incompetenza. A fronte di questa complessa e drammatica realtà, come ha affermato il presidente del Consiglio, la politica sull’immigrazione del governo deve essere equilibrata, efficace ed umana. Questo comporta una incisiva iniziativa diplomatica verso i paesi di partenza per ottenere una collaborazione più efficace nel controllo delle loro frontiere marittime e terrestri e nel contrasto delle organizzazioni dei trafficanti. Vanno rafforzati gli sforzi sul fronte dei rimpatri volontari e assistiti con la collaborazione delle agenzie delle Nazioni Unite. È necessario quindi lavorare alla stipula di intese bilaterali con i paesi di origine e di transito dei flussi. Adoperarsi perché le autorità libiche consentano alle agenzie delle Nazioni Unite e ai rappresentanti della Unione europea di controllare la gestione dei campi di accoglienza dei migranti per scongiurare forme di violenza e di prevaricazioni nei loro confronti. Decisivo è rilanciare l’accordo di Malta del 23 settembre del 2019. Esso prevede un “meccanismo temporaneo di solidarietà” per la redistribuzione dei migranti che giungono via mare in tutta l’Unione europea. Notevoli sono state le resistenze verso quest’accordo: per molti Stati l’accoglimento di migranti deve restare volontario. Questo rende del tutto potenziale la solidarietà prevista nella intesa di Malta. Intesa che, tra l’altro, la pandemia ha praticamente bloccato. Si tratta di riprenderne i contenuti e di applicare con regolarità questa forma di cooperazione. Necessario resta la riforma del regolamento Dublino con il superamento della regola del Paese di primo ingresso che rovescia sui paesi dell’Europa meridionale la responsabilità dell’accoglienza.

Queste scelte andranno collocate in un quadro assai chiaro di politica estera. Da un lato una rinnovata solidarietà occidentale favorita dagli indirizzi della Presidenza Biden; dall’altro, un impegno per costruire una Europa dotata di una politica estera e di sicurezza comuni e da una politica economica orientata verso la crescita. Un quadro in cui la politica europea sia caratterizzata da una netta differenziazione dagli Stati che conducono politiche illiberali e da una capacità di contrasto a “rivali sistemici” come le autocrazie russa e cinese.

I RIFORMISTI PER IL GOVERNO DELLA GLOBALIZZAZIONE E UNA POLITICA ECONOMICA CHE STIMOLI LO SVILUPPO, L’ INNOVAZIONE E LA CRESCITA

12) Il grande cambiamento indotto dall’estendersi tumultuoso del processo di globalizzazione ha dilatato le disuguaglianze che nei paesi sviluppati avevano conosciuto una riduzione nei decenni del dopoguerra, ha eroso le sicurezze collettive, ha messo in questione i diritti accumulati nel corso dei “trenta gloriosi”. La sinistra non è riuscita ad affrontare questo passaggio cruciale nella storia del capitalismo, a costruire un “blocco sociale” nuovo, più largo, capace di saldare i ceti medi con la tradizionale rappresentanza di ceti popolari, di tenere insieme le ragioni dei diritti e quelli dello sviluppo economico nell’epoca in cui a prevalere è il gioco duro della globalizzazione. Nel corso degli ultimi due decenni sono emersi e si sono imposti nuovi diritti individuali: conseguenza di eventi che hanno mutato il panorama esistenziale, emotivo e immaginario degli uomini, si pensi all’impatto delle biotecnologie e al sorgere della bioetica. Una forza di sinistra non può sottrarsi alla ricerca su come governare responsabilmente e razionalmente un tale fenomeno cogliendo le potenzialità di nuove libertà che maturano.

13) La critica da rivolgere alla sinistra è che essa ha stentato a capire che nel mondo in movimento in cui viviamo se non si producono le risorse necessarie è del tutto impossibile tutelare il complesso dei diritti: alla salute, alla istruzione, ad una vita dignitosa, alle prestazioni previdenziali ecc. Ecco perché la questione della crescita è decisiva. Ed è su questo punto che la sinistra non ha saputo battersi. Una questione che riguarda la sinistra europea nel suo complesso: la stessa transizione ecologica o energetica (decarbonizzazione) sarà impossibile se l’economia europea entro il 2025 non fuoriesce dalla crescita debole. In Italia, più che inseguire 5Stelle il Pd avrebbe dovuto concentrare la propria iniziativa nella promozione di investimenti pubblici e privati, di infrastrutture e occupazione nel Sud, nella qualificazione della spesa pubblica, riduzione del debito, aumento dei salari.

TRAGICO ERRORE POLITICO LEGARE LE SORTI DELLA SINISTRA AL CARRO DI BEPPE GRILLO E GIUSEPPE CONTE: SI CONDANNA IL CENTRO SINISTRA ALLA SCONFITTA

14) Per un centro sinistra impegnato a portare avanti la strategia delle riforme, per una coalizione che si ispiri all’europeismo e faccia del garantismo una propria battaglia è indispensabile l’apertura a nuovi apporti ed energie politiche.

Presentarsi ad un Paese che cerca di risalire la china sulla base di un piccolo e confuso agglomerato politico Pd-M5s non condurrebbe molto lontano. Assistiamo in queste settimane alla caduta nel nulla di un movimento, quello grillino, che ha travisato le istituzioni, ha introdotto odio giustizialista e violenza parolaia in un tessuto politico e civile già indebolito. Difficile che qualcosa o qualcuno risorga dalle macerie in cui si consuma il populismo grillino.

È stato un tragico errore politico aver pensato di legare la sorte della sinistra e del Pd al carro di Grillo e Conte. Quest’ultimo mosso da una parzialità fanatica verso il governo Draghi fino al punto di schierarsi contro le proposte di riforma della giustizia penale avanzate dalla ministra Cartabia.

UNA BATTAGLIA POLITICA E CULTURALE NEL PD PER RILANCIARE IL SUO PROFILO DI FORZA RIFORMISTA E CENTRALE NELLA VICENDA POLITICA ITALIANA

15) Una delle conseguenze più gravi di questa condotta è l’ambiguità con cui il Pd guarda al governo Draghi. Culturalmente penoso è il grossolano tentativo compiuto da settori non irrilevanti del Pd di trasformare il governo Draghi, reduce da una intesa con le parti sociali sulla delicata questione della durata del blocco dei licenziamenti, in un esecutivo di destra, preda del demone neoliberista. Una condotta infelice, una manifestazione di pigrizia mentale che consente alla Lega di Salvini di “intestarsi in modo strumentale” l’operato e i risultati della azione del governo.

In questa situazione, sarebbe importante se si aprisse una battaglia politica nel Pd tesa al mutamento della attuale linea politica, per rilanciarne il ruolo sulla base di un chiaro indirizzo riformista: un partito democratico che sostenga senza ambiguità la concreta azione del governo Draghi, ne assuma la agenda politica e programmatica e su queste basi si prepari ad affrontare le difficili prove politiche ed elettorali che si annunciano.

POSITIVO IL SORGERE DI UN SOGGETTO POLITICO LIBERALE ED EUROPEISTA

16) Consideriamo inoltre un fatto positivo che, anche alla luce del collasso del M5S, maturi una soggettività politica liberale, europeista, organicamente riformista attenta alle questioni dello sviluppo economico. Potrebbero riconoscersi in essa energie politiche e culturali provenienti dalla società civile, dal campo delle professioni, degli studi, del lavoro.

Un soggetto politico con tali caratteristiche potrà emergere sulla base di una mobilitazione di interessi e di energie sociali e anche con la iniziativa di forze di cultura liberaldemocratica, radicale e socialista presenti oggi nella vicenda politica italiana. A questo processo, chi ha a cuore le sorti del centro sinistra, non potrà che guardare con interesse. Altresì importante appare la crescita di un civismo che parli agli interessi più direttamente percepiti dalla gente. Un civismo autonomo dai conflitti di interesse, dagli schematismi ideologici, dalla ripetitività burocratica: una dimensione civica che cresca in piena autonomia.

Fabrizio Cicchitto,

Bobo Craxi,

Biagio De Giovanni,

Mauro Del Bue,

Ercole Incalza,

Alberto Irace,

Andrea Manciulli,

Maria Rosaria Manieri,

Biagio Marzo,

Gianvito Mastroleo,

Riccardo Nencini,

Bruno Pellegrino,

Claudio Petruccioli,

Sergio Pizzolante,

Gianfranco Polillo,

Umberto Ranieri,

Claudio Signorile

·        Il Tecnopopulismo.

Il paradosso della competenza in politica. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 15 Giugno 2021. L’ascesa dell’uomo qualunque nella politica italiana ha portato ad un paradosso. Invece di garantire più democrazia, ha avuto l’effetto contrario. Ha assicurato maggiore potere ai tecnocrati, non eletti, che hanno spesso dovuto supplire alle carenze tecniche degli eletti, “invadendone” lo spazio. La democrazia rappresentativa ha virato dunque verso un’aristocrazia, passando però per il mito della democrazia diretta e dell’individuazione dei candidati attraverso un mi piace, messo sotto ad una video-presentazione. Per la rubrica Lobby Non Olet di Telos A&S, ne abbiamo parlato con Lorenzo Castellani, politologo e autore de L’ingranaggio del potere (Liberilibri 2020). “[…] i poteri non-elettivi, a carattere tecnico, oggi condizionano la vita dei cittadini e le scelte politiche allo stesso modo, se non forse ancor di più, di quelli elettivi e rappresentativi” afferma Castellani. L’effetto di questa situazione è la Tecnocrazia, il “regime misto” tra potere dei tecnici e potere del popolo. Su questo argomento sono molto interessanti le dichiarazioni di una delle protagoniste del fenomeno della democrazia diretta, che ha portato i membri della società civile, a discapito dei politici di professione, a rappresentarci nei luoghi dove si gestisce la cosa pubblica. “Noi eletti quasi per caso eravamo la sfida al sistema […]. “Per Beppe [Grillo] e Gianroberto [Casaleggio] eravamo i granelli di sabbia nell’ingranaggio”. Sono le parole di Laura Castelli, viceministra del M5S, sia con il Governo Conte II sia con l’attuale Governo Draghi (intervista di Matteo Pucciarelli, La Repubblica, 8 giugno 2021). Sarebbe utile condurre un’indagine per appurare quanto i cittadini siano consapevoli di come il ruolo di persone che non hanno eletto condizioni la loro vita. A naso, possiamo dire che non ne sanno assolutamente nulla. Così come credo che siano totalmente inconsapevoli di come stanno realmente le cose la gran parte degli imprenditori e dei manager che rappresentano la forza produttiva del Paese. Lo sanno molto bene invece quelli che, come me, svolgono attività di rappresentanza degli interessi. Noi lobbisti abbiamo imparato da tempo che l’interlocutore non è necessariamente il ministro o il deputato, ma può e, talvolta, deve essere il capo di gabinetto o il direttore generale che, spesso, è la persona che ha la prima, ma anche l’ultima, parola su un argomento. Certamente la sua è una parola informata e competente, perché la classe dirigente della Pubblica Amministrazione italiana annovera personaggi di grande spessore. Ne è una prova il fatto che non è infrequente che lavorino per politici di schieramenti diversi, spostandosi da un ruolo all’altro in un “mercato” informale delle competenze, che certamente privilegia il merito. Ma la competenza, anche la più sofisticata, non basta per fare la democrazia. L’ultima parola dovrebbe essere sempre della politica.

L'antipartitismo e la depressione della politica. Il tecnopopulismo è la democrazia senza conflitti. Nadia Urbinati su Il Riformista il 22 Aprile 2021. La discussione sulla sinistra e il riformismo messa in campo dal Riformista è pregevole e utile. Ci consente di misurarci su concetti e categorie politiche, non solo su desiderata. Il riformismo sta sempre in un contesto storico-politico specifico, in quanto criterio di giudizio che dovrebbe orientare l’azione associata di cittadini verso, o in vista del raggiungimento di specifici obiettivi, per esempio la giustizia sociale o l’inclusione o l’estensione dei diritti o il controllo del potere, e così via. Ora, quale è uno degli aspetti del contesto storico-politico del nostro tempo? Il tempo presente è marcato dal populismo, sul quale sono state prodotte molte analisi sociologiche e politiche. Non tutti i populismi sono però uguali e hanno anzi una storia secolare, come la stessa democrazia. Oggi, in Europa assistiamo all’insorgenza di un nuovo tipo di populismo che riflette alcune specificità del continente, come l’espansione della dimensione non politica o impolitica della decisione, genericamente detta tecnoburocratica o tecnocratica. In un volume sul populismo curato da Yves Méni nel 2002, questo aspetto veniva già notato quando si cercava di spiegare i caratteri anti-partitici del populismo nell’era del processo di unificazione europea, per via regolatoria e impolitica. Infine, negli ultimi anni è stata coniata, teorizzata e ben spiegata e motivata la categoria del tecnopopulismo (tra gli altri da Christopher J. Bickerton e Carlo Invernizzi Accetti). Questa non è, come sembra di capire dalla critica che Massimo L. Salvadori mi muove sul Riformista del 20 aprile scorso, un fenomeno di sostituzione della politica con la tecnocrazia; non significa un tecnico al governo. Ciò non ha nulla a che fare con il tecnopopulismo, che non è la qualità di una persona ma la forma di un sistema e una concezione del governo e della politica democratici. La questione, insomma, non è la persona Draghi (come Salvadori mi fa dire) ma il governo Draghi. E non perché quel governo sia l’espressione di una volontà individuale, ma perché anni di integrazione di forme tecnocratiche e di forme politiche hanno avuto come conseguenza la formazione di una nuova visione dell’azione governativa e politica. Come è emerso molto bene con Emmanuel Macron, lo scopo di questa forma di governo e di politica è di federare tutte le forze anti-partitiche sotto le bandiere della competenza e della responsabilità, per superare la divisione tra destra e sinistra e infine la distinzione tra politica e tecnocrazia. In Europa, proprio per la storia della sua integrazione, la risposta tecnocratica è al populismo e alla politica dei partiti insieme. Ed è l’esito di una lettura del populismo che ne riporta le cause all’essenza stessa della politica, cioè il conflitto tra le parti. Se la causa della ‘malattia’ populista è collocata nell’iperpoliticismo e nella contrapposizione partitica, la cura verrà ad essere la depressione della politica e la riduzione del ruolo dei corpi eletti e delle maggioranze. L’antipartitismo è una soluzione, al di là di destra e sinistra, per promuovere misure che siano, dati alla mano, valide per tutti. Estendendo la sfera delle decisioni tecniche o non-politiche si doma il “noi” populista inglobandolo, rendendolo un “noi” generalista, depoliticizzato: l’interesse di tutti calcolato, gestito e validato da esperti e processi deliberativi imparziali. In questa soluzione tecnopopulista, la concezione unitaria e monolitica del ‘popolo’ non è smontata o criticata lasciando posto al pluralismo delle rappresentazioni dell’interesse generale e al loro conflitto, secondo la logica della democrazia dei partiti. Questa sarebbe la risposta più netta al populismo. Al contrario, il ‘popolo’ populista è mantenuto; ma invece di avere la faccia e il nome di un leader o un movimento demagogico ha quella di una classe di competenti che traducono la “volontà popolare” in politiche bipartisan capaci di incorporare direttamente l’interesse di tutti, al di sopra o al di là della supposta piaga del dissenso e dell’opposizione. Il tecnopopulismo è quindi un anti-partitismo decantato degli umori demagogici e tradotto in linguaggio consensualista: propone soluzioni definite in ragione della loro traducibilità in output misurati e monitorati. La democrazia tecnopopulista assorbe e supera la differenza tra le offerte politiche e mostra come l’interesse può derivare senza passare attraverso coalizioni politiche di parte. Stabilizzare una rappresentazione oggettiva dell’interesse della società diventa la priorità – soprattutto in un tempo emergenziale come è il nostro. E una volta tolto il pungiglione dell’ideologia e della retorica, il “noi” populista viene ad essere la base tecnica di una democrazia senza conflitti. Rispondendo a Salvadori, quindi, dire che non c’entra proprio nulla il profilo di Mario Draghi nella costruzione tecnopopulista, che non è una questione di attribuzione di qualità politiche o tecniche a qualcuno, ma il carattere di modo d’essere della democrazia. Che si situa nel contesto di un continente che da qualche decennio (beninteso per un’ottima causa) produce consociativismo tecnocratico. Nadia Urbinati

·        La Geopolitica.

Ecco come Roma inventò la geopolitica. Andrea Muratore il 4 Maggio 2021 su Il Giornale. Roma seppe manovrare con forza una complessa strategia geopolitica. Che fu la vera chiave della durata del suo potere. La geopolitica non è scienza esatta né supposta “arte magica” che guida la condotta delle potenze come alcuni suoi teorici o critici ritengono. Per quanto si possa ritenere difficile supporre l’esistenza di una precisa “grammatica strategica”, è chiaro che la relazione tra dinamiche geografiche e costruzioni politiche è diretta e strategica. La geopolitica in un certo senso nasce con la stessa storia delle istituzioni politiche, di fronte alla necessità per sovrani e regni di mediare tra le ambizioni di grandezza, le necessità di provvedere alla sicurezza collettiva dei popoli e i limiti che, soprattutto nell’antichità imponevano le grandi strutture fisico-naturali. Una potenza in particolar modo seppe veramente praticare vere e proprie dottrine geopolitiche in passato: Roma. Nel corso della sua ascesa da città isolata dell’Italia centrale a impero universale Roma seppe espandersi operando strategie in grado di conciliare la visione espansiva, missionaria e ideale con un pensiero strategico che non si esplicitava esclusivamente nella metodicità delle armate nel contesto delle campagne di conquista di nuovi territori e di ampliamento delle frontiere imperiali. Ma aveva il suo punto apicale nella chiara e precisa consapevolezza della valenza politici di temi come la costruzione di alleanze, la creazione di regni satelliti, la determinazione dei confini, lo schieramento delle legioni. A cui si aggiungeva una precisa capacità di cooptare gradualmente i popoli conquistati nel disegno imperiale dell’Urbe. Yann Le Bohec, storico francese specializzato in questioni militari, ha pubblicato sul tema il saggio Geopolitica dell’Impero romano per sottolineare come la visione dell’Impero seppe seguire precisi canoni geopolitici e come la geopolitica stessa plasmò, a più riprese, i destini dell’Urbe mano a mano che Roma raggiungeva quelli che erano ritenuti essere i confini naturali del suo impero. Al suo apogeo Roma aveva confini pienamente naturali in larga parte dei suoi territori. Il Reno e il Danubio segnavano il limes orientale in Europa; in Britannia il Vallo di Adriano segnava la volontà di Roma di non interessarsi al dominio delle impervie vette dell’attuale Scozia. I deserti dell’Africa e dell’Arabia segnavano i confini oltre il Mediterraneo, spazio che al suo massimo livello di sviluppo Roma aveva trasformato in un lago interno. Dividendo la competenza alla sicurezza interna a una serie di flotte divise in maniera simile a quanto fatto oggigiorno dalla United States Navy con gli oceani del pianeta. Le ragioni sono le stesse: il dominio dei mari garantisce libertà di commercio, sicurezza di contatto tra i popoli, una precisa simbologia del dominio. Laddove i confini si facevano più sfumati, nell’attuale Medio Oriente, arrivarono i principali punti d’attrito per Roma contro i Parti e i Sasanidi dominatori della Persia. Le frontiere mobili e la capacità del nemico di pensare la difesa dei propri territori in profondità con analoghi canoni geostrategici si unirono alle contese per le zone di confine come l’Armenia in una vera e propria rivalità degna di quanto oggigiorno tipico dei conflitti tra potenze nel quadro delle proxy wars. Le Bohec aiuta a comprendere, inoltre, quanto questi fattori seppero condizionare profondamente Roma e i suoi destini nel momento in cui la concentrazione del potere militare, principale determinante dell’autorità imperiale, si muoveva simmetricamente alla concentrazione delle minacce nelle varie parti dell’impero. Le legioni del Danubio intente a comandare le operazioni contro i popoli nomadi dell’Europa orientale erano spesso a disposizione come massa di manovra da utilizzare nei vari conflitti civili che divampavano entro i confini imperiali e ebbero la possibilità di elevare alla massima autorità dell’Impero figure come Settimio Severo (193), Massimino il Trace (235), Decio (249). Invece Aureliano (270) che sconfisse le usurpazioni galliche e la sedizione della città di Palmira e Diocleziano (284) furono elevati al trono dai comitatenses, la massa di truppe di manovra a disposizione come riserva strategica i cui quartieri generali divennero vere e proprie capitali de facto. Diocleziano, in particolare, ideò il sistema della tetrarchia come prova generale di una spartizione dell’impero funzionale a rendere più strutturata e operativa la sua strategia di difesa. Geografia fu comunque sinonimo di destino per l’Impero. Le debolezze strutturali, politiche e sociali dell’Urbe, nel lungo viale del tramonto durato dall’inizio del III alla fine del IV secolo, e la somma di guerre civili che lacerarono l’Impero per decenni non minarono la consistenza strutturale del potere di Roma fino a che l’impero fu in grado di mantenere saldo il controllo sulle sue frontiere naturali e a tutelare il cuore pulsante del potere nei pressi della Città Eterna, a mantenere i suoi retroterra strategici (dalla Gallia all’Egitto). Ma quando, dopo la rotta di Adrianopoli contro i Goti nel 378, Roma fu costretta a consentire l’esistenza di un potere allogeno entro le frontiere naturali dell’impero il crollo fu una logica conseguenza. Roma subì in tal senso le conseguenze della sovraestensione perdendo il punto di riferimento delle sue priorità strategiche e subendo una somma crescente di attacchi da diverse direzioni mano a mano che le frontiere si facevano più porose. La perdita dell’universalità della missione imperiale e lo sfaldamento del limes portò, in un secolo, alla dissoluzione della parte occidentale dell’Impero. Ma non alla fine della geopolitica imperiale, portata avanti per un millennio in quel mondo bizantino i cui tutelari non cessarono di definirsi Romanoi fino alla presa di Costantinopoli ad opera degli Ottomani nel 1453. La padronanza di una strategia realista sul versante geopolitico garantì lunga vita e prosperità alla prima e alla seconda Roma. Che non a caso sono i punti di riferimento per ogni dottrina politica che miri a fare propria la padronanza delle strategie di dominio dello spazio e, di conseguenza, del tempo.

·        La Coerenza.

Matteo Salvini. Emanuele Lauria per "la Repubblica" il 16 settembre 2021. L'ultimo passo indietro di un'inesorabile ritirata l'ha compiuto ieri mattina: «Il Green Pass? Ha senso per chi è a contatto con il pubblico. Se uno è chiuso nel suo ufficio che senso ha?». Messo all'angolo nel suo partito e isolato dal resto del centrodestra di governo (Forza Italia) che addirittura invoca l'obbligo vaccinale, Matteo Salvini si produce negli ultimi distinguo di una campagna estiva al fianco di   e no pass che non pochi, fra i compagni di viaggio, bollano senza mezzi termini come «fallimentare». Perché oggi, in Consiglio dei ministri, la Lega voterà sì all'ennesimo allargamento dell'obbligo di quel lasciapassare sanitario che il segretario, due mesi fa, definiva «una cagata pazzesca». La citazione fantozziana non ha portato fortuna al senatore milanese, la cui linea prudente sui provvedimenti anti-Covid è stata gradualmente rintuzzata dal pragmatismo del capodelegazione Giancarlo Giorgetti e dei governatori Zaia, Fedriga, Fontana, insomma di quell'"altra Lega" che non è, come dice Salvini con un altro riferimento naif, «una fantasia da Topolino», ma semplicemente una rappresentanza di big del partito sensibile alle richieste degli imprenditori del Nord con l'incubo chiusure. Il numero uno di via Bellerio, alla fine, prova a consolarsi con qualche dividendo (i tamponi gratuiti invocati anche dai sindacati) ma siamo all'atto finale di una commedia cominciata il 4 luglio, quando Salvini giurava, al termine di un faccia a faccia con Draghi, che l'Italia mai avrebbe imitato il modello della "patente" alla francese: «Il premier non è per gli estremismi ». «Green Pass? Non scherziamo », diceva poi il 22 luglio, poche ore prima del via al certificato da parte del governo. «Il Green Pass è da cambiare», tuonava il leader il 26 luglio a provvedimento fatto (e avallato dai suoi ministri). «Un lasciapassare per accedere agli istituti scolastici? Non scherziamo», il commento rilasciato il 27 luglio. Ma lo scherzo, di nuovo, l'esecutivo gliel'ha fatto il 9 settembre. Non pago, Salvini ha provato a mettere l'ultimo paletto sei giorni fa: «Qualcuno prevedeva l'obbligo del Green Pass anche per i dipendenti pubblici, grazie alla Lega non c'è». Non c'era, forse, visto che è in arrivo l'estensione del certificato a tutti i lavoratori, atto peraltro annunciato per primo da Giancarlo Giorgetti, ormai punto di riferimento principale di Draghi e persino oggetto di riconoscenza da parte di Enrico Letta: «Sono grato al ministro, il suo è il modo corretto di stare al governo». Il segretario del Pd, d'altronde, ha gioco facile nel puntare il dito sulle divisioni del partito che ieri sono riemerse in commissione, alla Camera, e che al Senato solo la fiducia posta dal governo alla conversione del primo Green Pass ha mascherato. Fra i dem c'è chi scommette addirittura su una scissione che lasci come alleata solo la Lega giorgettiana. Ma, almeno al momento, non ci sono i presupposti per una lacerazione di questo tipo. Di certo, però, sono sempre più forti i malumori verso la linea del segretario, si insinuano fra parlamentari ed esponenti di governo che si chiedono a cosa sia servita una fiera opposizione a «vincoli e obblighi», se poi alla fine il partito li ha approvati tutti. Peraltro pure col gradimento dell'elettorato, stando ai sondaggi. Non bastano più temi identitari come sicurezza e immigrazione a tenere compatto il partito: gli attacchi alla ministra Luciana Lamorgese che ieri hanno animato l'aula parlamentare continuano a infrangersi sul muro del resto della maggioranza (inclusa Fi) e su Draghi, mentre il tentativo di scambiare gli ostaggi (le dimissioni della titolare del Viminale per quelle già avvenute del sottosegretario leghista Claudio Durigon) rientra fra le mission senza successo dell'estate salviniana. «Se il motore di tutto è la competizione con Meloni, vediamo quali risultati porterà il 4 ottobre», sussurra un deputato leghista, convinto come tanti - che dopo le amministrative servirà un chiarimento. Il fronte di chi chiede congressi locali e maggiore democrazia è guidato da Roberto Marcato, assessore di Luca Zaia, tradizionale rivale interno con cui pure Salvini in questi giorni ha cercato di fare sponda. E ieri, all'improvviso, qualcuno ha rimesso in circolo la notizia, rilanciata dalle agenzie, che la "Lega per Salvini premier" è in ritardo pure sul congresso federale, che si sarebbe dovuto celebrare a un anno dall'approvazione dello Statuto, avvenuta a fine 2018. Una minaccia anonima alla indebolita leadership del Capitano.

Lucio Malan. Fabrizio Roncone per “Sette – Corriere della Sera” l'11 agosto 2021. L’altro giorno arriva la notizia che il senatore Lucio Malan ha improvvisamente sentito scattare qualcosa nella propria coscienza politica e che, perciò, non si riconosce più nei valori di Forza Italia. Così, di botto. Dopo un quarto di secolo passato a fare il berlusconiano duro e puro. Una martellante crisi di coscienza. Un groppo in gola. E poi commozione, incredulità. Anche perché con Fratelli d’Italia avrà la certezza di essere rieletto. Trovalo un partito che a 60 anni suonati ti garantisce ancora un posto in Parlamento. Ma a lui la capriola è riuscita, ed è lì che atterra: da Giorgia Meloni, che viaggia con sondaggi spaventosi e offre, ovviamente, garanzia di scranno quasi certa. Intendiamoci: per lei, mediaticamente, un colpaccio. Malan s’arrampica invece sugli specchi. «Purtroppo non potevo continuare a sostenere questo governo guidato da Mario Draghi». Grandioso. Mitico. Detto da uno che difendeva il Cavaliere anche quando volevano farci credere che Ruby Rubacuori, olgettina di origini marocchine, fosse la nipote di Mubarak (314 deputati votarono a favore di questa orrenda bufala). Va detto che lo Zio Silvio è però sempre stato molto generoso e comprensivo con Malan: prima lo accoglie proveniente dalle file della Lega, poi gli garantisce a ripetizione stipendi da deputato e senatore, e altri incarichi, e prestigio. Lui ricambia lavorando tanto. Nel 2002, proprio a Palazzo Madama, Malan è addirittura travolto dal sospetto di aver votato, per 4 volte, al posto dei colleghi assenti. Lui dice che non è vero, certe fotografie non dimostrano un bel nulla, scrive dure lettere di smentita e, naturalmente, tutti subito gli crediamo. Perché poi Malan ha quest’aria da buono, il ciuffo biondo, è esponente della Chiesa valdese: e infatti, a un certo punto, pare impossibile che abbia assunto la seconda moglie come segretaria particolare nel suo ufficio di senatore pdl, e che dopo la moglie abbia fatto un bel contratto pure alla nipote della moglie. Invece è esattamente così (su YouTube trovate la sua strepitosa intervista a La Zanzara). Che gran baldoria, per anni, sul carrozzone dello Zio Silvio. Che storie. E che facce. Adesso però saltano giù, in fretta e furia, sperando di farla franca: e no, Malan, perché qui ci ricordiamo tutto di tutti.

Marco Bresolin per “La Stampa” il 24 luglio 2021. Qual è stato il governo più sovranista degli ultimi 5 anni in Italia? In base al numero di procedure di infrazione aperte dall'Ue - in seguito alla mancata applicazione delle norme europee - la risposta è inequivocabile: il governo Conte. Ma non quello gialloverde, bensì il Conte2, frutto del matrimonio Pd-M5S. Nel 2020 l'Italia si è infatti vista aprire ben 36 procedure dalla Commissione, record assoluto del quinquennio (19 nel 2016, 12 nel 2017, 26 nel 2018 e 28 nel 2019). Alla fine dello scorso anno ne risultavano aperte ben 86: peggio di noi soltanto Grecia e Spagna.

Alessandra Mussolini. L'intervista a Vanity Fair. Alessandra Mussolini sgancia la bomba: “Sono una ragazza di sinistra, Ddl Zan è doveroso”. Vito Califano su Il Riformista il 12 Agosto 2021. Alessandra Mussolini è stata attrice e cantante, politica, donna di spettacolo, polemista, attivista, nipote della zia Sophia Loren. E soprattutto è stata sempre “la nipote di”: la nipote del Duce del fascismo Benito Mussolini. Ha 58 anni. Dopo 27 è fuori dalla politica e si dice più libera, alla domanda: “avrebbe mai potuto essere una ragazza di sinistra, se avesse voluto?” risponde così: “Ma lo sono! Sono una diversamente ragazza che ha fatto battaglie nelle quali ha creduto, al di là dei colori”. L’intervista, che sta facendo parecchio discutere, a Vanity Fair. “Fin da piccola ho visto le persone reagire quando pronunciavo il mio cognome. Non reagire a me, ma a quello che rappresentavo nel loro immaginario. Potevo chiudermi in me stessa, o andare avanti. Ho scelto di tirare dritto e fare tutto quello che non dovevo fare. Il cinema per mia zia, la politica per mio nonno”. La partecipazione a Ballando con le Stelle ha cambiato lei e la sua percezione presso il pubblico. Mussolini appoggia il Ddl Zan, la legge il disegno di legge contro le discriminazioni e la violenza per ragioni basate su sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità. Ha pubblicato un selfie su Instagram con la scritta “Ddl Zan” sul palmo della mano com’era tendenza qualche tempo fa. Una posizione che la destra, suo mondo di riferimento, non condivide. “Quella proposta da Zan è una legge doverosa perché è un semplice prendere atto di qualcosa che esiste già nella società. Per me la sessualità è un fatto personale, e anche temporaneo. Nella vita cambiamo tutti: in base alle esperienze, alle cose che ci accadono. Parlando con i miei figli ho capito che per i ragazzi l’orientamento sessuale non è nemmeno un tema: è come mettersi un abito che puoi cambiare, e a nessuno importa com’è”. E a proposito di libertà, della coscienza e dell’arbitrio nel mondo della politica: “Io certe cose le ho sempre pensate, ma siccome ero pur sempre in un ambito politico, non potevo dare loro spazio. Sono stata cacciata dalla Commissione affari sociali sulla procreazione medicalmente assistita perché ero per la diagnosi pre-impianto, che gli altri osteggiavano. Chiedevo: "Ma se gli embrioni poi non vanno bene?". Mi rispondevano: "C’è sempre l’interruzione di gravidanza". Come se il corpo della donna non contasse nulla, come se l’aborto non fosse un trauma”. Un’intervista piena di spunti e di riflessioni interessanti di una persona che dice di non aver mai avuto potere ma di aver sempre vissuto con il peso della “riconoscibilità” addosso: “Col mio cognome ho capito subito che ci dovevo convivere quindi per convinzione, o auto convinzione, ho deciso che era un dato che dovevo rendere positivo. Anzi di più: esaltarlo. Ma non è stato gratis: volevo studiare filosofia e mi fecero capire che era meglio che cambiassi aria. Allora mi sono iscritta a medicina. Un professore, dopo un esame, lanciò il libretto a terra. Ma l’ho accettato, ci poteva anche stare. Nella vita impari solo dai dolori e dalle delusioni atroci, quelli che io e mamma affrontiamo mettendoci occhi negli occhi, da sempre”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Silvia Nucini per vanityfair.it l'11 agosto 2021. Nella vita di ognuno c’è un quadro che un giorno si stacca. Quello di Alessandra Mussolini comincia a farlo impercettibilmente un pomeriggio dell’ottobre 2020. Lei e Maykel Fonts stanno provando un charleston per la successiva puntata di Ballando con le Stelle. La sequenza prevede che Alessandra cada all’indietro e il suo maestro la afferri al volo. Ma lei non ci riesce. «Devo vederti», gli dice. Chiede uno specchio, due specchi, che la coreografia venga cambiata, che si tolga quel passo. Lui dice no. «Alla fine lo faccio: sposto il peso, cado e lui mi prende. Mi potevo fidare di lui. E anche di me». Si fida e, settimana dopo settimana, va avanti: cade per davvero, sviene, piange, ride. Intanto il chiodo che regge quel quadro silenziosamente si muove sotto un peso che, semplicemente, non tiene più. Cede di schianto il 16 aprile 2021. Alessandra Mussolini prende un pennarello nero, si scrive Ddl Zan sul palmo della mano sinistra, si fa un selfie e lo posta su Instagram. E mentre la sua foto diventa una notizia, lei si sente leggera. Sul quadro caduto a terra c’è una donna che non le assomiglia più. Alessandra Mussolini ha 58 anni quasi tutti passati sotto un qualche tipo di riflettore, un’attitudine alla lotta e qualche cosa, nei fianchi, che ricorda che lei non è solo Mussolini da parte di padre, ma pure Scicolone da parte di madre: nei cromosomi aleggia zia Sophia Loren. Attrice e cantante agli esordi, politica (ovviamente di destra) per 27 anni della sua vita, quest’anno ha sorpreso tutti schierandosi a favore dei diritti della comunità LGBTQI+, una posizione non condivisa dal suo mondo di riferimento che però lei rivendica e che racconta come una tappa di un cambiamento più radicale. 

Sa che a molti quel suo post di Instagram è sembrato un fake?

«Lo so. Ma quella proposta da Zan è una legge doverosa perché è un semplice prendere atto di qualcosa che esiste già nella società. Per me la sessualità è un fatto personale, e anche temporaneo. Nella vita cambiamo tutti: in base alle esperienze, alle cose che ci accadono. Parlando con i miei figli ho capito che per i ragazzi l’orientamento sessuale non è nemmeno un tema: è come mettersi un abito che puoi cambiare, e a nessuno importa com’è». 

I suoi fan di destra si sono scatenati

«E che si scatenassero. Essere liberi di esprimersi vuol dire non pensare alla reazione degli altri. Prima mi preoccupavo di non deludere il mio elettorato, adesso: ciaone. Dopo una certa età è bello essere imprudenti».

Francesca Pascale ha detto che si sbattezzerà per protestare contro la Chiesa che osteggia il Ddl Zan.

«Sa, la Chiesa era anche contro la ferrovia. “E pur si muove”, rispose Galielo Galilei al tribunale dell’Inquisizione che lo accusava di eresia per le sue teorie sulla rotazione terrestre. La frase più potente della storia: dite quello che volete, ma è così».

È sempre stata così progressista e ce l’ha tenuto nascosto?

«Io certe cose le ho sempre pensate, ma siccome ero pur sempre in un ambito politico, non potevo dare loro spazio. Sono stata cacciata dalla Commissione affari sociali sulla procreazione medicalmente assistita perché ero per la diagnosi pre-impianto, che gli altri osteggiavano. Chiedevo: “Ma se gli embrioni poi non vanno bene?”. Mi rispondevano: “C’è sempre l’interruzione di gravidanza”. Come se il corpo della donna non contasse nulla, come se l’aborto non fosse un trauma».

Quanto l’ha costretta la politica?

«Tanto, ma non avevo la pistola puntata e l’ho fatta perché mi piaceva. Però ho capito presto di non essere libera. Se vuoi portare avanti le tue convinzioni, sei emarginata. Io spesso sono stata sola. Ne prendo atto senza nessun vittimismo. Io e la politica ci siamo lasciate di comune accordo e con serenità». 

Dopo 27 anni è fuori dai giochi. Non le manca il potere?

«Non ho mai avuto fascinazione per il potere. Ma forse perché vengo da una famiglia diversa».

Intende dire che il potere ce l’aveva già per il cognome?

«Potere no, riconoscibilità. Sono esposta da quando ero piccola, la mia vita è stata un Instagram ante litteram». 

Le è piaciuto?

«Essere riconoscibile è un’esperienza che screma: conosci meglio le persone, impari che esistono amici che quando le cose vanno bene ci sono, quando vanno male, spariscono. Fin da piccola ho visto le persone reagire quando pronunciavo il mio cognome. Non reagire a me, ma a quello che rappresentavo nel loro immaginario. Potevo chiudermi in me stessa, o andare avanti. Ho scelto di tirare dritto e fare tutto quello che non dovevo fare. Il cinema per mia zia, la politica per mio nonno».

Ha mai desiderato non avere tanti ingombri?

«Col mio cognome ho capito subito che ci dovevo convivere quindi per convinzione, o auto convinzione, ho deciso che era un dato che dovevo rendere positivo. Anzi di più: esaltarlo. Ma non è stato gratis: volevo studiare filosofia e mi fecero capire che era meglio che cambiassi aria. Allora mi sono iscritta a medicina. Un professore, dopo un esame, lanciò il libretto a terra. Ma l’ho accettato, ci poteva anche stare. Nella vita impari solo dai dolori e dalle delusioni atroci, quelli che io e mamma affrontiamo mettendoci occhi negli occhi, da sempre».

Il dolore primigenio: suo padre e sua madre si separano quando lei ha 4 anni. Poi lui si rifà una famiglia. È stato difficile?

«Molto». 

Non le è ancora andata giù?

«No. La famiglia allargata è una cosa bella, che può anche andare benissimo. E poi ci sono volte in cui la cosa non va». 

Ci ha provato, ad accettare?

«Sì, perché sono la primogenita. Mio padre con me faceva gli esperimenti: “Ale chiama”,  “Ale fai”. Una sera stavamo tutti a Villa Carpena, faceva freddo. Mio padre dice: “Mettiti il cappello”. Io penso: “Che premuroso”. Poi mi rendo conto che non parla con me, ma con l’altra figlia. La verità è che quando tu vivi con un figlio e con altri figli no, diventi più padre dei figli con i quali hai una quotidianità. È così».

Avrebbe mai potuto essere una ragazza di sinistra, se avesse voluto?

«Ma lo sono! Sono una diversamente ragazza che ha fatto battaglie nelle quali ha creduto, al di là dei colori». 

Per tanti concorrenti, lei compresa, Ballando è stato un momento di svolta. Come se lo spiega?

«Io non ho mai fatto psicanalisi. Ma ho capito che quando hai un occhio che ti guarda dall’esterno, ti puoi, paradossalmente, aprire di più. Io sono letteralmente esplosa. Magari ero pronta, magari ero stanca».

Come sta prendendo la sua famiglia questo cambiamento?

«Con sorpresa. Io ho sorpreso loro, loro hanno sorpreso me. Vede questo tatuaggio? È ghimel, la terza lettera dell’alfabeto ebraico che ha il valore numerico di 3. Sono i miei 3 figli Caterina, Clarissa e Romano». 

Che madre è?

«Molto ansiosa e per niente punitiva. Del resto nemmeno io sono mai stata punita. Tutt’al più mi menavano. Ricordo una volta mia nonna Romilda mi lanciò uno zoccolo di legno verde con le coccinelle. Mi prese in fronte. Ho vissuto in un matriarcato di necessità, nel senso che uomini non ce n’erano proprio. Pure i cani, i gatti e gli uccellini erano femmine a casa mia».

Com’è il suo rapporto con gli uomini?

«Da quando è nato mio figlio Romano ho capito che anche i maschi hanno le loro fragilità. Però è chiaro che siamo completamente diversi. Gli uomini a volte li capisco, a volte no, a volte mi chiedo: ma come facciamo a poter pensare di poter costruire qualcosa insieme nella società? Per questo mi piace questo presente così fluido, senza categorie. Pure io sono fluida». 

È fluida? Sessualmente?

«In questo momento, sessualmente, più che fluida sono disinteressata. Sono talmente poco interessata alla sessualità, che non capisco perché tutti gli altri ne siano, invece, così ossessionati».

Però fa la sexy.

«Ma va, faccio finta. Il sesso è sempre stata una cosa marginale nella mia vita. Perché, se proprio gliela devo dire tutta, penso che potevano farci diversamente. È un po’ troppo minuscolo tutto. Devi partorire? E fancell’ nu coso grande e elastico come la bocca del serpente di Gesù. Vuoi fare un clitoride? E faccelo, figlia mia, no ’sta cosa che lo devi andare a cercare nel mare magno. Quelle che dicono: “Ah, appena mi sfiorano ho un orgasmo!”. Che gli devi dire? Ma vattene via».

Siamo state fatte un po’ al risparmio?

«Brava! Perché nella pubblicità del gel lubrificante quella si deve buttare sul letto e contorcersi dal dolore? Perché la cistite viene solo a noi? Perché dopo la menopausa tutto si secca? Potevano farci una cosa “a soddisfazione”. Invece siamo a soddisfazione dell’altro».

Alessio Poeta per “Chi” il 22 giugno 2021. Alessandra Mussolini, negli anni, ha capito che la coerenza appartiene solo a chi non ha idee. Ha abbandonato la politica, ha trovato il suo equilibrio, si è interrogata spesso sul senso della vita e per questo ha scelto di supportare il Ddl Zan. «Non la chiamerei conversione, né redenzione. Sarebbe riduttivo. Io non faccio altro che analizzare le situazioni, senza barriere e senza essere condizionata, in alcun modo, dalle etichette. Eppure, ciononostante, viviamo una realtà così particolare dove la tolleranza non vale per tutti, ma solo per alcuni».

Domanda. La foto pubblicata sui suoi social con scritto Ddl Zan, sul palmo della mano sinistra, ha scatenato il putiferio e fatto il giro del mondo.

Risposta. «Ho aderito a una campagna per una battaglia che considero più che giusta. Niente di straordinario, tra l’altro, visto che è sempre stato il leitmotiv della mia esistenza. Oggi più che mai bisogna combattere tutti assieme le tante discriminazioni che, purtroppo, esistono ancora». 

D. C’è chi sostiene che questa sia una legge che limiti, in qualche modo, la libertà d’espressione.

R. «Sono dell’idea che, in questo caso specifico, la mia libertà finisce dove comincia quella degli altri».

D. A sposare certe lotte, non ha paura di deludere i suoi sostenitori?

R. «La verità? No! Chi ha apprezzato e condiviso il mio spirito libero e liberale, nonché le tante battaglie fatte, sono sicura che continuerà a farlo. E poi, io, parlo per me in quanto cittadina. Non rappresento, né voglio condizionare nessuno».

D. L’Italia e gli italiani sono pronti?

R. «Occorre iniziare oggi per le generazioni future. Ogni rivoluzione culturale necessita di tempi molto lunghi e su questo dissento da chi vorrebbe cambiare sempre tutto e subito. Se si pensa che ancora oggi la donna viene accompagnata all’altare, dal padre, e viene consegnata al futuro marito...».

D. Fa strano sentirla parlare così visto che, nel 2006 ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta, urlò a Vladimir Luxuria: «Meglio fascista che fr***o».

R. «Usai quell’espressione in risposta a una violenta provocazione sul mio cognome. Non volevo offendere, ma porre fine a una spiacevole discussione».

D. Ha mai chiesto scusa?

R. «Le basti pensare che io e Vladimir, oramai, siamo amiche. Ci troviamo spesso come ospiti nelle stesse trasmissioni televisive e non rinunciamo mai a due risate assieme». 

D. Sarebbe favorevole alle adozioni per le coppie dello stesso sesso?

R. «I bambini abbandonati negli istituti sono la peggiore sconfitta di ogni società. L’amore deve prevalere su tutto».

D. I detrattori delle battaglie arcobaleno usano la Gpa (gestazione per altri, volgarmente chiamata utero in affitto) per seminare dubbi.

R. «Non le nascondo che anche io, su questo argomento spinoso e delicato, nutro molte perplessità. Figuriamoci quando si parla di sfruttamento della donna dietro questa pratica». 

D. Se uno dei suoi tre figli, un domani le rivelasse la propria omosessualità?

R. «Per me conta, oggi più che mai, solo ed esclusivamente la loro felicità». 

D. E si è mai chiesta del perché molte famiglie siano così reticenti nell’accettare la sessualità dei propri figli?

R. «Perché, nonostante tutto, la nostra società non è così aperta come sembra, tanto che talvolta l’omosessualità di un figlio diventa un’onta per tutta la famiglia. Quando poi la sessualità non è nient’altro che la più intima condizione di ogni individuo sulla quale nessuno dovrebbe discutere. Invece oggi mi sembra ci sia una vera e propria ossessione».

D. Quando Platinette dichiara che “inserire l’identità di genere nei programmi scolastici è una violenza”, che cosa pensa?

R. «Mi torna in mente il mio disagio quando da bambina sulla pagella c’era scritto: “Firma del padre o di chi ne fa le veci”. I miei genitori erano divorziati e firmava sempre mia madre e questo non ha idea di quanto mi facesse soffrire». 

D. È più importante l’educazione in casa o nelle scuole?

R. «Senza alcun dubbio quella dei genitori».

D. Questo è il mese dell’orgoglio gay. Ritiene sia ancora utile marciare, tra carri e colori, sulle note di I will survive?

R. «Trovo che musica e colori siano la migliore cura dopo un periodo buio e triste come quello dal quale stiamo faticosamente tentando di uscire. Mi auguro che questo spirito si riversi in ogni manifestazione, politica e non».

D. Se venisse invitata come madrina?

R. «Madrina? Semmai padrina!». 

D. Il politicamente corretto e quest’attenzione maniacale alle desinenze affinché finiscano con la “a”, porterà a qualcosa?

R. «Trovo inutile e anche un po’ ridicolo cambiare al femminile un termine maschile. Non sarà mai questo a eliminare le disparità esistenti. E non è certo per questo che un sindaco, un notaio, un avvocato donna si sentono meno rappresentative della categoria». 

D. Ha mai ricevuto avance da parte di una donna?

R. «No, sempre e solo “disavance”». (Ride).

D. Sono stati più gli uomini o le donne, negli anni, a entrare in competizione con lei?

R. «In modo anche piuttosto preponderante gli uomini e, talvolta, usando anche mezzi abbastanza sleali, ma le dirò: meglio guardare avanti». 

D. E se le chiedessi di guardare al futuro?

R. «Mi fermerei al presente. La pandemia mi ha insegnato a vivere giorno per giorno».

D. E io che pensavo rispondesse, dopo questa intervista, “un ritorno in politica con il Pd”.

R. «Allora, come temevo, la strada che porta all’accettazione dell’altrui pensiero è ancora lunga. Molto lunga». (Sorride). 

D. Quando si guarda allo specchio, oggi, chi vede?

R. «Una donna soddisfatta di ciò che ha realizzato e che, con fatica, cerca di mantenere un atteggiamento di ottimismo nonostante quello che stiamo vivendo da oltre un anno».

D. Si piace?

R. «A fasi alterne». 

D. E se tornasse indietro poserebbe ancora per Playboy?

R. «Certo, a patto che venisse fatto un servizio anche per... Playgirl!».

Fabrizio Roncone per “Sette - Corriere della Sera” il 23 agosto 2021. Il leghista Claudio Borghi si conferma un gigante della capriola. Guardate che saperla fare è un'arte. Serve talento puro. E purissima faccia tosta. Perché le capriole di Borghi sono politiche. Così meravigliose da sembrare irrealizzabili. Ma posso testimoniare: è un vero campione. Una volta ero a un metro, forse meno. Mario Draghi aveva da poche ore ricevuto l'incarico di formare un nuovo governo e il mitico Borghi veniva giù camminando per via degli Uffici del Vicario, la stradina che da Montecitorio scende verso Campo Marzio. Gruppetto di cronisti e cameramen, groviglio di fili e microfoni e lui in mezzo, lo sguardo pensoso (è un trucchetto di molti politici: lo mettono su sperando di dissuaderti). Com'è, come non è, un cronista la domanda gliela butta sui piedi: gira voce che lei abbia cambiato idea su Draghi, è vero? Allora Borghi alza la testa e, un filo schifato, fa: «Cambiato idea, io?». Lei è un noto nemico della BCe, ha scritto cose terribili sull'Unione Europea e ha sempre considerato Draghi come il male assoluto. «Veramente per me - ribatte lui - Draghi è come Ronaldo, un fuoriclasse». E lo dice convinto. Con una promessa di sorriso. Avete presente quando il mago Silvan tirava fuori dall'orecchio il dieci di picche e poi, di colpo, compariva una colomba che partiva in volo? Uguale. Però da quel preciso istante è chiaro a tutti che la presenza di Borghi, nella Lega, non ha più alcun senso. E allora? Che si fa? Borghi ci pensa qualche mese, poi l'ideona: da No Euro divento No Vax. Così inizia un nuovo martellamento. Rilascia interviste, partecipa a un paio di sit-in con una decina di invasati, è contrario al Green Pass e naturalmente polemizza sempre sul generico, parla per slogan, non ci capisce niente di vaccini ma va tranquillo e borioso: tanto in Italia la competenza non è quasi mai richiesta (del resto anche il ministro degli Esteri è convinto che la Francia sia una democrazia millenaria e Pinochet un dittatore venezuelano). La domanda, a questo punto, è: Borghi non si è vaccinato? Oppure zitto zitto le due salvifiche siringate se le è sparate anche lui e fa bassa propaganda con la salute degli altri? (Per la cronaca: i governatori leghisti Zaffa, Fontana e Fedriga, impegnati sul fronte anti Covid, sono furibondi con il furbacchione). 

Gianluigi Paragone, "Mario Draghi? L'incappucciato della finanza che ha truccato le carte": accuse pesanti. su Libero Quotidiano il 06 febbraio 2021. “Mario Draghi è colui che ha portato dentro i bilanci della pubblica amministrazione e dello Stato il derivato che consentì di truccare le carte, permettendo all’Italia di entrare nell’Unione Europea”. Così Gianluca Paragone ha attaccato l’ex presidente della Bce, che è stato incaricato da Sergio Mattarella di formare un governo di “alto profilo”. Il leader di Italexit può essere definito una delle poche voci fuori dal coro in merito alla figura di Draghi. “È diventato un personaggio dalla forte vocazione europeista - ha continuato Paragone - perché fu il primo a compilare il derivato, importantissimo, dentro il quale si nascondevano tutte le debolezze contabili dell’Italia. Debolezze che agli occhi di Bruxelles e del trattato di Maastricht, quindi questo signore è stato il primo a truccare i bilanci”. Poi da giornalista il leader di Italexit se l’è presa con i suoi colleghi: “Ora sappiamo anche quali bomboloni mangia Draghi quando va a mare, sappiamo i giornali che legge, ovviamente che squadra tifa e come andava a scuola”. “Sappiamo anche quanto siano riservati lui e la moglie - ha aggiunto - stanno raccontando tutti gli aspetti della vita di Draghi, non ci fanno mancare nulla in questo racconto epico. Io ho solo una domanda da girare ai colleghi e a tutti quelli che si stanno cimentando in questa apologia di Draghi. È avanzato un po’ di inchiostro per ricordare cosa effettivamente ha fatto nella sua vita? Sembra quasi che ci sia un alone di santità, che si tratti di un novello Padre Pio”. Infine l’accusa pesante di Paragone: “Se il suo maestro Federico Caffè fosse vivo direbbe a tutti quelli che ricordano il passato di Draghi che quest’ultimo non c’entra nulla con i suoi insegnamenti perché è un incappucciato della finanza”.  Fonte video: Agenzia Vista/ Alexander Jakhnagiev

Massimo Falcioni per "tvblog.it" il 5 dicembre 2021. Il censurato che è sempre in televisione a criticare la tv che lo censura. Benvenuti nel paradosso dei paradossi che, in epoca di anti-vaccinisti e no-green pass, risulta sempre più frequente. L’accusa al mainstream e le critiche all’informazione tradizionale sono ormai uno spartito conosciuto, ribadito ad ogni occasione utile, da chi tuttavia sfrutta la stessa tv generalista per portare avanti le sue battaglie, con un ritorno di visibilità indiscutibile. Nella categoria in questione finisce di diritto Gianluigi Paragone, uno che il piccolo schermo lo conosce come le sue tasche, provenendo da lì. Approdato in Senato con i Cinque Stelle nel 2018 ed ora leader di Italexit, Paragone si è anche regalato una candidatura a sindaco di Milano, con un 2,99% che per un soffio gli ha impedito di guadagnarsi un posto in consiglio comunale. Paragone cavalca il mezzo, lo domina, ci gioca e se ne fa beffe. Compare, scompare, si imbavaglia, interrompe i collegamenti proseguendo le dirette sui social – considerata una zona franca e di libertà – dove però il picco più alto di visualizzazioni equivale ad un centesimo di quello che potresti ottenere in tv. Ecco allora il ritorno, come se nulla fosse, negli stessi contesti poco prima criticati, demonizzati, affossati. Paragone denuncia l’assenza del dissenso, eppure lui c’è sempre. Da solo vanta più apparizioni di Draghi e di tutti i ministri del governo messi assieme. Soffermandoci esclusivamente sugli ultimi diciannove giorni, ci si accorge che Paragone è stato in video praticamente un giorno su due. Dieci infatti le ospitate nei vari talk, a partire dal 17 ottobre quando l’ex volto de La Gabbia ha partecipato a Controcorrente, su Rete4. Il 19 ottobre è stata la volta di Cartabianca, che già lo aveva invitato sette giorni prima, mentre il 20 il senatore è approdato a Zona Bianca, con annesso scontro con Giuseppe Brindisi. Ventiquattr’ore dopo era a Piazza Pulita su La7 e qui si è rivisto martedì 26 con la partecipazione a Tagadà. La sera stessa ennesimo cartellino timbrato da Bianca Berlinguer, seguito dalla performance a Non è l’Arena il 27 e a Dritto e rovescio il 28. Martedì fa rima con Cartabianca e il 2 novembre era di nuovo lì, con tanto di imbavagliamento live realizzato per contestare il clima ostile nei suoi confronti. Un cerchio chiuso (o forse no) giovedì sera da Corrado Formigli. Della serie: ci epurano, ma abbiamo sempre i riflettori puntati addosso.

Pietro Senaldi affonda Gianluigi Paragone: "Gran situazionista, ecco perché ora approfitta dei no-vax". Libero Quotidiano il 26 luglio 2021. "Mi tocca attaccare il mio amico ed ex collega Gianluigi Paragone che a suo modo è geniale". Pietro Senaldi, condirettore di Libero, inizia così il suo video editoriale di oggi. Poi spiega: "È candidato sindaco a Milano, nonché fondatore del partito Italexit e la cosa lo ha evidentemente portato fuori di testa". "Impegnato nella campagna elettorale", prosegue Senaldi, "si è unito alle manifestazioni no vax improvvisando un comizio, da tribuno qual è, attaccando il passaporto verde, i vaccini, le dittature sanitarie; annunciando querela a Burioni che aveva dato del sorcio a chi non vuole vaccinarsi". "Possiamo dire che Paragone è un gran situazionista: dove c'è aria di protesta lui pastura. Pur non riuscendo a cambiare il mondo ovviamente, ne ricava sempre qualcosa di buono per lui, tanto è vero che è stato direttore della Padania, poi senatore dei Cinque Stelle, adesso ha fondato questo partito contro l'Europa che lo riporterà in parlamento; ha avuto trasmissioni giornalistiche. Insomma", dice il direttore, "ha avuto un successo in quasi tutto quello che ha fatto che però durava il tempo del mattino". "La sua grande abilità", fa notare Senaldi, "è saltare da un cavallo all'altro appena il cavallo su cui monta è sfiancato anche a causa sua". "È un grande opportunista il nostro Gianluigi", conclude il direttore, "e adesso approfitta dei no-vax pur, probabilmente, non essendo neppure un no-vax".

Falso padano, vero funambolo. Leader di sé e degli zerovirgola. Luigi Mascheroni l8 Agosto 2021 su Il Giornale. Già bossiano, berlusconiano e senatore 5s, anti-tutto fonda il suo partito e corre da sindaco a Milano. Boy scout, chitarra, judo, politica e giornalismo. Fa tutto così così, ma sempre entusiasta. Sintomo della sindrome di Hubris, caratterizzata da comportamenti ispirati a presunzione e un'ossessione maniacale per la propria immagine, a Gianluigi Paragone piace molto parlare di se stesso, in terza persona. «Il Para ha detto...», «Il Para ha fatto...», «Devi sentire cos'hanno detto del Para...», «Hai visto il Para?». Purtroppo, sì.

Paradossale, paradigmatico, para (culo si può dire?), Gianluigi Paragone risata sonora, tipica di chi ride alle proprie battute, e voce squillante da bottiglia appena stappata, spumante Barone Pizzini, Franciacorta e giacche troppo larghe - ha compiuto una parabola partitico-ideologica che copre l'intera storia dei movimenti politici del secondo Novecento, primi Duemila. Il suo è un approccio alla battaglia delle idee molto - diciamo così - «disinvolto». Come la scelta dei look: dai completi grigio-topo col cravattone anni Novanta, quando a vent'anni ne dimostrava 50, ai bracciali multietnici e jeans di adesso, che a cinquant'anni pensa di averne 25. Ma poi: era peggio allora coi calzoncini da boy scout o con l'orecchino oggi? Ed è già storia di ieri. Gianluigi Paragone - fenotipo sannita e aspirazioni padane è nato a Varese, o Vares, l'è sempar stess, ma è etnicamente sospetto. Origini molisane da parte di padre, addirittura siciliane di madre. A Busto Arsizio diciamo «diversamente nordici». Il suo peccato originale, a dirla tutta, non è che il padre fosse socialdemocratico. Ma che suonasse musica partenopea. Te voglio bene assaje. Noi un po' meno. Mai mischiare bruscitt e mandolino. Comunque, figlio di emigranti che poi avrebbe scritto contro i migranti, il giovane Paragone - dal Sud a Nord del profondo Nord - al liceo, mitico classico Cairoli di Varese, l'Alma Mater del leghismo, si candidò alle elezioni studentesche convinto di vincere, ma perdendo, come capiterà spesso - nelle liste di Fare Fronte, il braccio scolastico del Fronte della Gioventù, l'organizzazione giovanile dell'Msi. Però tra Almirante e Bertinotti non c'è Paragone. E da lì a poco ce lo ricordiamo tutti ai tempi dell'università, a Milano, aggirarsi per i cortili della Statale con il portaocchiali appeso al collo, la pipa (è vero!) e il Manifesto sotto il braccio. La sinistra intelligente da Masnàgh... Marx, cashmere e polenta uncia. Le rivoluzioni raramente partono dalle prealpi. Ma le carriere, a volte, sì. Il tempo di una stagione in tour per le birrerie della Valganna con la band rock-padana Bdm, ossia I Babbi di Minkia (prime voglie di palcoscenico e cover di Vasco) e il ragazzo che sembra presuntuoso ma è estroverso, premuroso e dall'ego smisurato, stacca la musica e inizia a ballare. Tra giornali, partiti, radio, tv, movimenti, teatri, politica. Sono anni di Lega Nord, di celti e d'idromele. Per un terún dell'Insubria come lui, perfetto. Entra nel quotidiano varesino La Prealpina, foglio di lega e antigoverno: segue il capo, che in inglese si dice boss, a Cassan Magnagh Bossi, e quando il capo chiama si risponde «Sun chì!». Il ragazzo è cattolico, capace e brillante. Nel centrodestra con molto meno si diventa Ministri. Lui: direttore del tg di Rete 55, poi l'infatuazione berlusconiana al Giornale, agenzia AdnKronos, quindi nel 2005 direzione del quotidiano di partito La Padania, anni fallaciani e anti-islamici, da lì a Libero e a quel punto la scalata nel mondo dell'informazione è più facile di quella del Mottarone: vicedirettore di Rai1, quindi di Rai2, conduzione del talk show Malpensa Italia - la battuta che il programma «non decolla» era veramente brutta; ma anche il programma poi L'ultima parola: nel 2011 prende le distanze dalla Lega e viene accusato in diretta tv da un deputato PdL di «salire sul carro dei vincitori» (questo proprio no!); quindi dalla Rai a La7, dove c'è sempre posto per tutti: sono gli anni, dal 2013 al 2017, della trasmissione La gabbia, un po' talk show, un po' circo (ma non stiamo dicendo che Paragone è un clown), trasmissione che è stata L'École nationale d'administration dei grillini: No-euro, sparate anti-sistema, Fusaro, «Fuori dall'Europa!», «Abbasso i poteri forti!» (ma rimanendo amici dei Cairo e i Della Valle), complotti e vaffanculo. Infatti, il passo successivo è Grillo. Alle elezioni politiche 2018 Gianluigi Paragone è eletto al Senato nelle fila dei Cinque stelle. Il tempo di capire dov'è il portone d'ingresso di Palazzo Madama per sbatterlo in faccia al movimento: espulsione da Casa-leggio, Gruppo misto (è rimasto nel resoconto stenografico della seduta parlamentare la volta che dichiarò: «Sono l'unico indipendente che non ha ricevuto una chiamata!», dimenticando che va bene il mercato delle vacche, ma c'è un limite a tutto) e, visto che gli fanno schifo i partiti degli altri, ne fonda uno suo: ItalExit. Come sta andando? Sere fa a Cuneo, ora dell'aperitivo, c'erano assembramenti ovunque: tranne ai Giardini Fresia, dove la presenza di Paragone e di Italexit ha garantito l'adeguato distanziamento sociale.

Molto social e tanto provinciale (nel senso di varesotto) - Paragone è forse l'ultimo NoEuro d'Italia «A Parago' ce sei rimasto solo tu...», e non sappiamo se è un complimento e, ultimamente, No Pass: è tra i massimi esponenti del movimento antivaccini, con Eleonora Brigliadori e Povia, praticamente la programmazione della seconda serata di Rete4. E a questo punto il dramma del Paese è che non si vede alcuna differenza tra Cacciari, Agamben, Claudio Borghi e Gianluigi Paragone. No, non andrà bene per niente. Leader di niente in cerca di tutto, zerovirgolista dell'antipolitica in protesta permanente e continua, già alfaniano, maroniano e lobbista formidabile, il paraLeghista venuto dal Sannio - el GianLuis Paragon è un entusiasta della vita (fa tutto, chitarra, judo, giornalismo: male, ma si diverte a farlo), e al netto delle giravolte alla fine pur cambiando cento posizioni resta coerente: a se stesso - non è antipatico (rispetto al virologo Roberto Burioni, col quale si è litigato molto, Paragone è un brillantone). Insopportabile sì, ma non antipatico. Alla gente tutto sommato piace. Forse è per questo, avendone coscienza, e contando sulla proverbiale predisposizione allo scherzo dei milanesi, che a maggio ha annunciato la sua candidatura a sindaco di Milano. Paragonesindaco.it. Contro Sala?!? Qualcuno non noi! ha detto che il Covid19 è sceso ufficialmente al secondo posto nella classifica delle paure legate all'uso della metropolitana a Milano. In prima posizione, con un distacco notevole sul virus, adesso ci sono i manifesti col faccione di Paragone candidato sindaco che ti punta il dito contro. «Ue, ti te set minga de Milàn». Ma fa bene. In fondo, fra il giornalismo e la politica non c'è Paragone. Pietra di Paragone. Termine di Paragone. Complemento di Paragone (in grammatica non andava benissimo). Un Paragone che non regge. Se mi lascia passare il Paragone... È un Paragone divertente (insomma...). Non regge il Paragone (ma anche: «Io il Paragone non lo reggo»). E comunque, i Paragoni sono sempre odiosi. A questo punto, uno che col sangue irpino è arrivato ai vertici della Lega, che dai sit-in con Forza Nuova al fuoco fatuo di Rifondazione comunista le ha viste tutte, che dal cospirazionismo politico-finanziario è passato al sogno di governare la City, cosa può fare ancora? Quello che in Italia fanno tutti dopo non aver ottenuto niente. Come lo stesso Paragone ha detto all'infettivologo Matteo Bassetti: «Lei è pronto per andare all'Isola dei Famosi». Ci andranno insieme.

BASTA CON LE BALLE NEI TALK TV. Il vizio strutturale di quei cantori anti-euro e di chi li manda in onda senza entrare nel merito. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud l'8 febbraio 2021. Vedere e ascoltare a ogni ora il confronto televisivo con pari dignità del pensiero economico di Di Battista e di Paragone, e del pensiero economico di Mario Draghi che ha salvato l’euro e l’eurozona, certifica che ci sono schiere di orchestrali del talk permanente italiano che con la testa e con il corpo sono ancora lì a ballare e saltare sulla tolda del Titanic Italia. Come si può accettare da spettatori di sentire il primo (Di Battista) e il secondo (Paragone) spararle grosse, anzi grossissime, senza dimostrare mai niente e senza ricordare mai nulla? Vedere e ascoltare a ogni ora il confronto televisivo con pari dignità del pensiero economico di un uomo senza mestiere e senza mandato parlamentare, Alessandro Di Battista, e del pensiero economico di Mario Draghi che ha salvato l’euro e l’eurozona, che uno stimato ministro americano dell’economia, Larry Summers, ha definito il più grande banchiere centrale del mondo degli ultimi trentacinque anni, certifica che ci sono schiere di orchestrali del talk permanente italiano che con la testa e con il corpo sono ancora lì a ballare e saltare sulla tolda del Titanic Italia. Mi ha fatto piacere sentire in diretta le parole di condanna sul metodo del direttore del Quotidiano Nazionale, Michele Brambilla, perché perdere i fondamentali nel racconto di un Paese è un qualcosa che ci rende molto simili alle repubbliche sudamericane. Purtroppo questo vizio strutturale del nostro modo di fare informazione contagia, con le dovute eccezioni, la televisione italiana che è l’ambito di discussione che più influenza la formazione della pubblica opinione. Tutto ciò continua sistematicamente a dominare nonostante un sussulto di buon senso della più screditata classe politica italiana. Che prova a riunirsi sotto le bandiere di un governo di unità nazionale che chiami a raccolta chi è capace di fare le cose e restituisca credibilità all’Italia nel mondo. Che si propone di disincagliare il Titanic nazionale dalla banchina del pre-default sovrano e della più grave crisi sociale dove lo hanno sbattuto la pandemia globale ma ancora prima un Paese bloccato nella trappola populista e sovranista dell’irrealtà. Non c’è spazio per segnalare i passi europeisti di contenuto della Lega, che dovranno ovviamente superare le prove della lunga distanza, ma guai a farsi mancare la lezione quotidiana di economia del più trasformista dei politici italiani come quel Gianluigi Paragone, ex direttore de la Padania e vice direttore in quota Lega di Rai 1 e Rai2, passato armi e bagagli ai Cinque stelle fino a farsi deferire ai probiviri e poi espellere dal movimento pentastellato che lo ha accolto dopo le sue performance televisive a La7 da share infinitesimali. Oggi Paragone guida il “suo” partito “personale” No Europa per l’Italia – Italexit. Come possa accadere di sentirlo disquisire su euro e gabbie europee ovunque accostando la sua opinione economica (formatasi dove? come?) a quella di Draghi riferita da altri spesso in modo dilettantesco, fa semplicemente drizzare i capelli in testa. Come si può accettare da spettatori di sentire il primo (Di Battista) e il secondo (Paragone) spararle grosse, anzi grossissime, senza dimostrare mai niente e senza ricordare mai nulla? Senza nemmeno mai dire che l’Europa compra i nostri prodotti e la Bce compra i nostri titoli pubblici perché vuole bene all’Europa e siccome noi siamo una componente importante dell’Europa ne compra tanti, ma ancora di più ne compra di quelli tedeschi e di quelli francesi. Senza mai dire che se noi ci indebitiamo con l’estero e poi svalutiamo il costo per le nostre imprese è altissimo. Che, quindi, la gran parte delle nostre aziende di media e di grande dimensione senza euro entrerebbero in crisi all’istante e dovrebbero licenziare un numero impressionante di dipendenti cumulandosi nelle macerie sociali con un sistema infinito di piccole imprese sull’orlo del baratro da pandemia. Che se abbiamo la scuola che abbiamo e le infrastrutture che abbiamo l’euro non c’entra niente e che la colpa è solo nostra. Che se non siamo in grado di importare tecnologia e esportare prodotti di alta capacità dipende da noi non dall’euro. Considerando che né il primo né il secondo dei cantori anti-euro hanno i requisiti per scrivere ciò che leggono e dicono, resta la curiosità di conoscere chi sono i veri autori di tutte queste balle. Nel frattempo, però, basta balle in tv!

Fabrizio Roncone per "Sette - Corriere della Sera" il 9 luglio 2021. Gianluigi Paragone arricchisce la sua già corposa biografia: per misurare la forza di Italexit, il partitino che ha fondato incorporando un lugubre programma politico nel nome, si candida a sindaco di Milano, la città più europeista d’Europa. Genio. Personaggione. Il Giornale, da tempo, lo chiama “Gigi La Trottola”. Feroce intuizione. Ha 49 anni e uno sguardo elettrico. Tipo veloce, grande eloquio, modi ferocemente cortesi. Furbissimo. I milanesi avrebbero potuto tranquillamente ritrovarselo allenatore dell’Inter. Poi l’Inter ha preso Simone Inzaghi, vabbé. Ma magari perché Paragone non era troppo convinto dei padroni cinesi. O perché pensava non fosse ancora arrivato il momento di darsi al calcio. Dico sul serio: perché Paragone fa esattamente quello che si mette in testa. È il genere di persona che incontri a una cena e ti racconta progetti strepitosi. Tu allora pensi: ecco, il solito mitomane. In effetti è pieno di mitomani, ma poi c’è pure uno come Paragone. Uno che comincia da cronista della Prealpina al seguito della Lega e, alla fine, ci entra: diventando il direttore del quotidiano La Padania. Avreste dovuto vederlo, e sentirlo. Uno duro e puro, purissimo al punto da dire all’Umbertone Bossi: «Dev’essere chiaro: io non voglio paracaduti politici». Infatti poi – in quota Carroccio – senza aver mai visto una televisione se non quella della sala da pranzo di casa, sbarca in Rai. Carrierona: prima vicedirettore di Rai1, poi di Rai2. Lascia tracce? No. Così, una mattina, può urlare di essere un giornalista libero, talmente libero da mettersi l’orecchino, prendere la chitarra e presentarsi a La7 per condurre La Gabbia (rock e populismo). Beppe Grillo ci casca: Paragone è uno di noi. E lo fa diventare senatore. Capito? Se-na-to-re. Si placa, Paragone? No. Perché sta lì che riflette: ma se invece un partito me lo fondassi da solo? Detto, fatto. Si fa espellere e adesso chiede il voto ai milanesi, promettendo di liberare la città dalle multinazionali e dalla finanza (in pratica, vorrebbe chiudere Milano). Ma non è nemmeno questo il punto. Quello vero è: che farà domattina Paragone? Consiglio a Stefano Pioli, allenatore del Milan: stia poco sereno. Paragone ha scartato la panchina dell’Inter. Ma magari ha già messo gli occhi su quella rossonera.

Estratto dell’articolo di Salvatore Merlo per ilfoglio.it il 19 marzo 2021. (…) “Draghi è Draghi. Ma la destra non può che stare con lui”. Però Giorgia Meloni è fuori. “Non voglio polemizzare, ma non capisco più cosa fa la Meloni. E’ il leader di una forza che prende il 15 o il 20 per cento. E i voti si raccolgono per governare. Poi lei dice "mai con i 5 stelle", e intanto oggi s’è presa tre grillini nel gruppo di Fratelli d’Italia. Boh. Sta giocando a dare più fastidio alla destra che alla sinistra. Io è alla sinistra nel pallone che romperei i coglioni”. Dunque Francesco Storace, una vita nel Msi, poi in An, oggi vicedirettore del Tempo - “senza tessera e senza obbligo di faziosità” - si sente più vicino a Matteo Salvini che a Giorgia Meloni, che pure è la sua famiglia. “Se ti senti un peso, la famiglia la lasci”, dice. “Senza polemiche”, ripete. “Forse con un po’ di delusione”, aggiunge. “Ma comunque senza rancori”. Dunque Storace leghista? Chissà. Potenza di Draghi, forse, l’uomo che tutto rimescola. “Salvini è un protagonista in questo governo. Basta osservare la scena. Il Pd è stralunato, non sa nemmeno dove si trova. I Cinque stelle sembrano l’aereo più pazzo del mondo”. (…) E se le malelingue sibilano che Storace voglia provare a entrare nel cda Rai - dove un tempo lo chiamavano “Epurator" - lui dice: "A Salvini non ho nulla da chiedere. Gli mando soltanto dei messaggini”. E lui? “E lui risponde. Incredibile in questa epoca in cui per avere l’attenzione di un leader devi supplicare”. Però Salvini lo ha subìto Draghi. Lo dicono in molti. “Secondo me è diverso: lo ha accettato. E si sta impegnando. Questi giri d’incontri che fa con ministri e sottosegretari non sono una trovata pubblicitaria. Li fa per capire cosa stanno facendo al governo. Salvini vuole capire come capitalizzare i risultati di questo governo. Questa è politica. (…) Ma non è strano che uno che viene dal Msi si ritrovi attratto dalla Lega? Quelli volevano appendere il tricolore nel gabinetto. “A me avrebbe dato più fastidio stare dalla parte di Mario Monti. Eppure c’era una destra che ci stava con Monti”. E Storace si riferisce al Pdl. Di cui Meloni era una dirigente. (…)

Dagospia il 19 marzo 2021. Miles Johnson e Davide Ghiglione per il “Financial Times”. Nel 2018, l'Italia ha eletto il parlamento più apertamente anti-UE nella storia del Paese. Una coalizione tra due partiti populisti attaccabrighe ha minacciato di assediare le istituzioni italiane e di ignorare le regole fiscali di Bruxelles. I mercati finanziari hanno tremato e gli alleati europei dell'Italia hanno guardato al Paese con preoccupazione. Tre anni dopo, tuttavia, la formazione di un nuovo governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi ha sconvolto la politica italiana. Mentre la composizione del parlamento del 2018 rimane la stessa, i partiti euroscettici del paese sono ora a malapena riconoscibili. Poco più di un mese dopo il giuramento di Draghi, ex presidente della Banca centrale europea, come primo ministro, il partito della Lega di Matteo Salvini ha abbandonato il suo euroscetticismo. Nel frattempo il Movimento Cinque Stelle, un raggruppamento precedentemente anti-euro che ha fatto infuriare il presidente francese Emmanuel Macron nel 2019 quando un alto esponente del partito ha incontrato un gruppo di attivisti dei gilet gialli jaunes vicino a Parigi, ha scelto l'ex primo ministro centrista Giuseppe Conte come suo leader in attesa. E il Partito Democratico (PD) di centro-sinistra, sempre risolutamente europeista, ha scelto un altro ex premier, Enrico Letta, come suo leader. Il suo ritorno dall'esilio come accademico a Parigi rappresenta la decisione da parte del PD di scegliere l'esperienza e l'affidabilità piuttosto che fare perno su un programma più radicale e su una leadership più giovane e fresca. Questo abbraccio della vecchia guardia potrebbe vedere le prossime elezioni italiane, previste per il 2023, combattute tra quattro ex primi ministri: Letta, Conte, Silvio Berlusconi di Forza Italia e Matteo Renzi di Italia Viva. Anche Salvini è stato ministro dell'Interno, Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni è l’unico unico grande partito con un leader che non ha ricoperto una delle più alte cariche dello Stato. Roberta Pinotti, senatrice del PD ed ex ministro della difesa italiana, crede che l'ingresso di Draghi abbia creato un'apertura per i partiti precedentemente anti-establishment a riconsiderare le loro precedenti posizioni. "Si è creato uno spazio per alcune forze politiche per ripensare se stesse in termini di idee, sia per riposizionarsi sia per lavorare in modo efficiente in parlamento", ha detto. "Penso che ci possa essere una maturazione di tutte le forze politiche". I Cinque Stelle, secondo gli addetti ai lavori, stanno rompendo decisamente con il loro radicalismo, ed è probabile che riemergano come qualcosa di simile a un partito verde europeo mainstream con un focus sul sud più povero dell'Italia. "Il Movimento è in silenzio radio di due settimane, a nessuno è permesso di parlare", ha detto un deputato Cinque Stelle. "È un chiaro segno che stiamo aspettando che le stelle si riallineino nella politica italiana prima di decidere una linea d'azione". Per alcuni, l'apparentemente improvviso riallineamento della politica italiana è un riflesso dei cambiamenti avvenuti altrove. La sconfitta di Donald Trump nelle elezioni americane di novembre ha fatto sì che nella destra italiana ci si iniziasse a chiedere se ci fosse un futuro a lungo termine nelle roboanti sfuriate trumpiane sui social media che hanno alimentato l'ascesa di Salvini quattro anni fa. "Abbiamo visto che l'estremismo non porta da nessuna parte se si vuole costruire qualcosa", ha detto Elena Pavan, un sindaco della Lega in Veneto. "La politica sta cercando risposte a problemi concreti come mai prima d'ora, e credo che tutti i partiti abbiano scelto un senso di responsabilità nell'affidarsi a Draghi", ha aggiunto. Anche il deputato del PD Alessandro Zan attribuisce all'uscita di Trump dalla scena internazionale, e all'impatto della crisi Covid-19, il merito di aver costretto tutti i partiti a rivalutare la loro posizione nei confronti dell'UE. Uno dei compiti principali del governo Draghi sarà quello di spendere più di 200 miliardi di euro del fondo di ripresa post-pandemia di Bruxelles, un'iniziativa che ha conquistato anche gli euroscettici incalliti in Italia. "Il grande shock causato dalla pandemia ha fatto nascere una collegialità europea molto forte che fino a qualche anno fa non si vedeva, o non esisteva affatto", ha detto Zan. Ma se la pace regna, per ora, ci sono già segni che le ostilità riprenderanno mano a mano che il paese si avvicinerà alle elezioni. Nei primi commenti Letta, nominato leader del PD domenica, ha sollevato la prospettiva di riformare le regole sulla cittadinanza italiana, guadagnandosi una rapida risposta da parte di Salvini. "Se ne parla, significa che vuole far cadere questo governo", ha detto Salvini. "Solo qualcuno che viene da Parigi, o da Marte... si preoccupa di dare la cittadinanza agli immigrati". Per il momento, comunque, il mondo della politica italiana, normalmente molto fragile, sta vivendo una tregua non facile.

·        Le Quote rosa.

Claudio Bozza per corriere.it il 7 ottobre 2021. Su 8 città chiave al voto, laddove c’era una donna candidata sindaco, nessuna è arrivata al ballottaggio. È un quadro a tinte sempre più fosche, quello della partecipazione delle donne in politica. Roma, Torino, Milano, Napoli, Salerno, Benevento, Rimini e Trieste: qui, a parte qualche eccezione in centri più piccoli, nessuna è arrivata al secondo turno . Numeri alla mano, è la conseguenza scontata di un quadro di partenza scoraggiante: su 145 candidati sindaco nei 17 Comuni capoluogo delle Regioni a statuto ordinario al voto figuravano solo 25 donne: appena il 17,2% rispetto all’82,8% degli uomini (120 in tutto). La più forte mediaticamente, per la sua visibilità, era Virginia Raggi, ma con il suo 19% e spiccioli è arrivata addirittura quarta, dietro Roberto Gualtieri, Enrico Michetti e Carlo Calenda. Ma per un’altra pentastellata, Layla Pavone a Milano, è andata ben peggio: appena 2,7% i voti raccolti. Male è andata anche per Valentina Sganga, fedelissima dell’uscente Chiara Appendino a Torino: 9% e addio sogni di gloria. Appena meglio, sempre tra le fila del Movimento, è andata per Alessandra Richetti a Trieste: per lei, però, solo il 3,4%. A Napoli Alessandra Clemente, fedelissima dell’uscente Luigi de Magistris, che dopo il doppio trionfo del’ex pm ha incassato solo il 5,7%. Sempre al Sud, Rosetta De Stasio, aspirante sindaca di Benevento per il centrodestra, si è fermata al 5%, dovendo fare anche i conti con una corrazzata come quella di Clemente Mastella. Mentre ha sfiorato il 9% Gloria Lisi (M5S), in corsa per guidare il Comune di Rimini. «Queste elezioni lasciano l’amaro in bocca — commenta Martina Carone, analista di Youtrend —. I dati relativi alle candidature femminili sono molto bassi; ma se consideriamo tutti i Comuni, scopriamo che meno di un candidato sindaco su 5 era donna». E poi: «In vista dei ballottaggi le cose sono ulteriormente peggiorate: nei 10 capoluoghi che andranno nuovamente al voto, le donne in campo sono zero — aggiunge Carone —. Un dato che dovrebbe far riflettere, che dipinge un quadro desolante, risultato di dinamiche diverse: da un lato, un meccanismo di selezione della classe politica poco attento alle questioni di genere; dall’altro, c’è stata forse la tendenza a non candidare donne alla guida di coalizioni competitive nei Comuni. Queste elezioni, dopo tante parole, potevano essere una buona occasione per mostrarsi realmente attenti al tema. Invece sono state un’occasione persa: l’ennesima». Un riequilibrio delle quote di genere, analizzando il dettagliato rapporto redatto dal ministero dell’Interno alla vigilia delle elezioni amministrative, si era verificato (ma solo teoricamente) nella corsa ai Consigli comunali, dove la presenza di candidate donne (grazie alla doppia preferenza) è normata da una regola precisa: un obbligo, insomma. Di conseguenza, su 13.281 candidati totali alle assemblee dei medesimi 17 Comuni capoluogo: le donne in corsa erano 5.956 (44,9%), mentre gli uomini 7.325 (55,1%). Ma anche su questo fronte, la partecipazione (in forze) delle donne alla vita politica è rimasta una chimera: perché, anche considerando il quadro più positivo della corsa alle assemblee cittadine, molte candidature femminili spesso si sono rivelate sono solo di facciata, giustappunto per rispettare la norma della doppia preferenza di genere. Proprio per questo, anche nei Consigli comunali, nonostante l’apparente riequilibrio, le elette sono state molte meno rispetto alle proporzioni di genere delle candidature.

Ai ballottaggi saranno tutti uomini. Donne sindaco cercasi: solo 25 su 145 candidati, le “quote rosa” non funzionano. Riccardo Annibali su Il Riformista il 6 Ottobre 2021. “Crederò nell’uguaglianza solo quando vedrò una donna incompetente occupare un posto di responsabilità” disse un giorno Francoise Giroud, famosa in Francia per essere stata la prima donna a occupare il posto di ministro delle Pari opportunità. Non una semplice battuta ma un modo leggero per confessare una grande verità. Soprattutto quando si invocano le ‘competenze’ per giustificare l’assenza delle donne dalla scena pubblica. Le urne sono ancora calde ma alcune somme sono state già tirate: calo della partecipazione, nuove liste, vecchie alleanze e previsioni di apparentamenti. La politica rimane indietro però sulla presenza delle donne tra le proprie fila, nonostante le nuove regole per costituire le liste elettorali e l’obbligo di rispettare la doppia preferenza di genere. Le “discriminazioni positive” delle quote rosa forse non sono il migliore strumento per arrivare ad un progressivo cambiamento di mentalità. E queste elezioni, se ce ne dovesse essere ancora bisogno, ne sono una dimostrazione: su 145 candidati sindaco nei 17 comuni capoluogo delle Regioni a statuto ordinario al voto figurano solo 25 donne: appena il 17,2% rispetto all’82,8% degli uomini che sono 120 in tutto. Ancora peggio, ai prossimi ballottaggi di donne non ce ne sarà nemmeno una.

Se non ci volessimo fermare alle città capoluogo, tra i candidati alla carica di sindaco di tutti i comuni delle Regioni a statuto ordinario, 2.855 in totale, solo il 18,60%, ovvero 531, sono donne. Gli uomini sono stati 2.324, pari all’81,40%. Questi i dati contenuti nel dossier del Viminale. Tra i candidati alla carica di consigliere comunale l’aria non cambia più di tanto, sono 36.283 gli uomini (58,24%) e 26.011 le donne (41,76%). Cercasi donne sindaco nelle grandi città. La più forte e famosa era Virginia Raggi, la sindaca uscente, romana di Roma e ricandidata della Capitale, ha fatto flop arrivando al quarto posto (su quattro). Delle altre aspiranti sindache delle grandi città e dei capoluoghi nessuna è andata al ballottaggio. Le grilline Layla Pavone a Milano, Valentina Sganga a Torino e Elisabetta Barone a Salerno, partivano con molte speranze, ma hanno pagato lo scarso risultato ‘nazionale’ del M5s, così come Alessandra Clemente che correva a Napoli per De Magistris. A Trieste, Caserta, Isernia, Varese, Benevento, Latina, Savona il 17 e 18 ottobre sarà uno spareggio tutto al maschile. Nei piccoli centri andrà meglio. Non proprio: il 50% dei comuni sotto i 5.000 abitanti coinvolti nella tornata elettorale 2021 non centra infatti l’obiettivo quote rosa. È il principale dato che emerge dal rapporto del Csel, elaborato in occasione della tornata elettorale delle amministrative. Sono 755 comuni con queste caratteristiche chiamati alle urne e solo 384 hanno schierato almeno un terzo di candidate. In 79 comuni i candidati uomini hanno rappresentato percentuali superiori all’80% del totale. Due i casi limite: Prunetto, un comune di 471 abitanti in provincia di Cuneo, e Pescolanciano, nell’isernino (878 abitanti), in cui c’è una totale assenza della componente femminile. Particolare il caso del comune di Santo Stefano Roero (1.407 abitanti), in provincia di Cuneo, che è l’unica amministrazione sotto i 5mila abitanti coinvolti in questa tornata elettorale, dove i due aspiranti sindaci (un uomo e una donna) hanno schierato due squadre tutte al femminile. Si tratta di una amministrazione che ha vissuto, nel recente passato, un dissesto e un commissariamento e sembra voler quindi ripartire puntando sulle donne. Non solo note negative però. Sono 8 le sindache elette, solo in Molise ad esempio si passa da 16 a 21 prime cittadine. Sara D’Ambrosio ad Altopascio (Lucca) si riconferma e vince al primo turno. Ad Assisi indossa la fascia tricolore Stefania Proietti e ad Arzano (Napoli) Vincenza Aruta. Risultato per gli annali invece la vittoria, partendo dalla posizione di vice, di Chiara Rossetti che diventa il primo sindaco donna di Bardonecchia, perla delle Alpi in alta Val di Susa. Sempre in cittadine piccole ma popolose vanno al secondo turno la sindaca uscente Cecilia Francese (liste civiche) e a Melito, Dominique Pellecchia. Riccardo Annibali

Quote rosa, cosa sono e perché non funzionano: i meccanismi beffa per le donne. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 28 marzo 2021. L’ha detto Mario Draghi, chiedendo la fiducia al Senato lo scorso 17 febbraio: «Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi». Lo prevede l’articolo 51 della Costituzione che dice: «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge». Ma l’aggiunta della frase «A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini», è arrivata il 30 maggio 2003, dopo un iter di quasi due anni, su iniziativa dell’allora premier Silvio Berlusconi e dei ministri Stefania Prestigiacomo e Umberto Bossi. Il neosegretario del Pd Enrico Letta ha appena nominato una segreteria di otto uomini e otto donne e si è battuto per due donne capogruppo alla Camera e al Senato. Ma l’introduzione degli «appositi provvedimenti» non ha prodotto granché: il 3 novembre 2017, con l’approvazione dell’attuale legge elettorale (il Rosatellum) vengono introdotte le «quote di lista». Ebbene, l’analisi dei risultati delle elezioni Politiche del 2018 lascia pochi dubbi: la parità formale è uno specchietto per le allodole. Ecco quali sono i meccanismi che beffano le donne.

Candidature che penalizzano. In Italia votiamo con un sistema misto. Il 37% dei seggi è assegnato con il maggioritario, dove vince chi prende un voto in più (collegi uninominali). Mentre il 63% dei seggi è distribuito con il proporzionale, ossia in base alle percentuali ottenute dai diversi partiti (collegi plurinominali). Politiche 2018, Camera dei Deputati: nei 232 collegi uninominali il 40% dei candidati di ciascuna coalizione deve essere donna. Ai nastri di partenza le quote sono sempre rispettate, ma all’arrivo la musica cambia, e i dati dimostrano che la scelta di candidare in un collegio un uomo o una donna è un po’ studiata a tavolino.

I partiti, che i territori li conoscono bene visto che i collegi sono di piccole dimensioni, tendono a candidare le donne dove prevedono meno chance di successo. Infatti nel centrodestra su 139 candidati uomini vincono in 72 (52%), mentre su 92 donne candidate le elette sono 39 (42%). M5S, 134 candidati uomini, eletti in 59 (44%); 98 candidate donne, elette 34 (34%). Centrosinistra candidati uomini 137, eletti 18 (13%); candidate donne 95, elette 8 (8%). Significa che un candidato uomo dei due schieramenti più votati – il centrodestra e il M5S – ha il 10% di possibilità in più di essere eletto rispetto alla candidata donna del suo stesso partito, e il 5% se è di centrosinistra. Inoltre tra quelle che conquistano il seggio, il 25% lo fa per il rotto della cuffia, mentre gli uomini eletti con un margine altrettanto basso sono solo il 16%. Risultato: gli uomini eletti alla Camera sono 150 (65%), e le donne 82 (35%). Se poi guardiamo i numeri di chi arriva secondo vediamo che gli uomini sono 130, cioè meno di quelli che hanno vinto, e 106 le donne, ben di più delle elette. Ma i «secondi» non vanno tutti a casa, perché c’è il ripescaggio, e anche qui, come vedremo, è furbescamente organizzato a vantaggio degli uomini.

Collegi sicuri e paracadutati. In pratica ciò che conta non è tanto l’essere uomo o donna, ma piuttosto quanto è blindato il seggio per cui corri. Si salvano le candidate con peso politico. Mariastella Gelmini trionfa nel collegio storicamente di centrodestra di Desenzano del Garda con il 51,6% dei voti e un vantaggio del 30%. Idem Maria Elena Boschi a Bolzano, forte dell’alleanza del Pd con la locale Svp, batte Micaela Biancofiore, che però alla Camera entra comunque come capolista in un collegio plurinominale dell’Emilia-Romagna. Infatti quando la situazione è incerta, il partito può proteggerti candidandoti contemporaneamente anche nei collegi dove si vota con il proporzionale, e se sei capolista il seggio è in pratica assicurato. Ma per le donne i trattamenti di favore sono eccezioni. Prendiamo il collegio uninominale di Scandiano (Reggio Emilia), uno dei più combattuti delle ultime elezioni: lo vince la candidata di centrosinistra Antonella Incerti, che batte Rossella Ognibene del M5S con uno scarto dell’1,2% e Maura Catellani del centrodestra con uno scarto del 2,2%. La battaglia è difficile e tutte e tre rischiano di andare a casa, però nessuna di loro viene candidata anche nel proporzionale. Nel centrosinistra i paracadutati invece sono 12, di cui 10 uomini. Tra gli altri spiccano Dario Franceschini, l’ex ministro Marco Minniti, Matteo Orfini, il figlio del presidente della Campania Piero De Luca, e l’ex magistrato Cosimo Ferri, già membro del Csm.

Le sicurezze dei secondi in lista. Nei 63 collegi plurinominali i seggi si ripartiscono in proporzione ai voti di ogni partito, e per legge si hanno liste bloccate. Anche qui il 40% dei capilista deve essere donna, con obbligo dell’alternanza di genere: se il capolista è un uomo, il secondo è una donna e viceversa. Eletti 247 uomini (64%) e 139 donne (36%). Come mai? Dove si confida di prendere molti voti capolista è una donna, poiché sono alte le probabilità che entri anche il secondo in lista. Al contrario, se la storia è incerta piazzi per primo un uomo: mal che vada viene eletto, e pazienza se non si porta dietro la seconda. La prova, ancora una volta, nei numeri: su 38 eletti arrivati secondi nel centrodestra, 28 sono uomini e 10 donne. Un po’ più equo il centrosinistra: su 24 eletti, 15 uomini e 9 donne. Per la parità di genere il M5S: su 50, 26 uomini e 24 donne. Risultato: le donne in Parlamento oggi sono 334, prima del Rosatellum 299. Solo 35 in più. Erano aumentate di 97 dal 2008 al 2013, quando le quote di lista non esistevano.

Le Regioni. Le Regioni hanno invece adottato le quote di lista progressivamente dal 2009, in seguito ad un’altra legge costituzionale del 2001, che inserisce nell’articolo 117 della Costituzione la frase: «Le leggi regionali promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive». La prima a recepirla è la Campania (marzo 2009), l’ultima la Calabria (settembre 2020). All’appello manca soltanto il Piemonte, dov’è aperta la discussione. Inoltre, 16 hanno previsto la doppia preferenza di genere: se vuoi dare due voti, i candidati devono essere di sesso diverso. Questi meccanismi hanno contribuito ad aumentare la presenza femminile solo nelle assemblee regionali dove le donne erano già superiori alla media. Confrontando prima e dopo, in Emilia-Romagna le elette passano da 10 a 20, in Toscana da 10 a 14, in Veneto da 11 a 18, ma in Basilicata si va da 0 a 1, in Liguria addirittura diminuiscono, passando da 5 sono a 3 dopo le elezioni regionali del 2020.

Il caso della Puglia. In Puglia il Consiglio regionale si rifiuta di introdurre la doppia preferenza di genere, e così lo fa d’imperio il Governo nazionale a luglio 2020 in vista delle elezioni di settembre. L’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, di origini pugliesi, commenta così: «Oggi abbiamo scritto una nuova pagina nella storia italiana dei diritti politici e, in particolare, dei diritti delle donne. Per il Governo l’empowerment femminile è un imperativo morale, politico e giuridico». Risultato storico? Dopo le elezioni di settembre le donne in consiglio regionale pugliese passano da 5 a 7. Nei fatti, oggi in 13 regioni le donne elette sono meno del 25%. (ha collaborato Alessandro Riggio) 

·        L’uso politico della giustizia.

«Tutti vogliono il procuratore amico perché nessuno lo vuole nemico». Intervista ad Alberto Cisterna, presidente di sezione al Tribunale di Roma, «La politica vuole il procuratore amico perché nessuno lo vuole nemico». Valentina Stella su Il Dubbio il  7 dicembre 2021.

Per Alberto Cisterna, presidente di sezione al Tribunale di Roma, «la politica non riesce purtroppo a tirarsi fuori dai condizionamenti che la magistratura esercita su di essa. Tutti vogliono il procuratore amico perché nessuno lo vuole nemico». E ancora: «Io non credo a tutto questo dibattito ideale sulla palingenesi etica della magistratura: le norme sono chiare e stringenti per le procedure di nomine dei dirigenti e se non é bastato il codice penale, certo non serviranno codici etici aggiornati».

Come legge le recenti elezioni nei distretti locali dell’Anm?

Bisogna tenere presente che dai soli distretti di Roma e Palermo non si può ricavare una misurazione esatta dell’andamento dei nuovi assetti all’interno della magistratura. Certamente però esprimono forme di malessere in parte diverse, visto che nella prima ha vinto Magistratura Indipendente e nella seconda i 101. Mentre questi ultimi rappresentano un voto di protesta, il risultato romano esprime una sorta di complessiva presa d’atto della magistratura laziale sul fatto che non si può far coincidere la vicenda Palamara semplicemente con quella di due gruppi associativi che sono rimasti più direttamente impigliati nel trojan e postergando tutto il resto. Credo che i colleghi abbiano ritenuto che le responsabilità, che all’inizio sembravano troppo spinte verso alcune componenti, vadano invece meglio ripartite tra tutti i gruppi associativi.

Il cammino di Unicost è sicuramente più in salita.

È probabilmente più complesso. A parte l’Hotel Champagne, nelle chat di Palamara ci sono molti più colleghi di quel gruppo associativo coinvolti. Mentre da un lato ci sono alcuni esponenti di una corrente, MI, che hanno lavorato solo – si fa per dire – per sponsorizzare un magistrato alla Procura di Roma, dall’altro lato le chat di Palamara hanno evidenziato una rete diffusa di collegamenti e contatti tra molti appartenenti ad Unicost. In pratica nel voto sembrano aver avuto più peso le chat che l’incontro all’hotel Champagne. Lo scarto vero di tutta questa vicenda sarà la nomina del Procuratore di Roma. Questa vicenda, se passata al setaccio, rivela debolezze associative ma anche cedevolezze istituzionali. Sembra che le valutazioni dell’Hotel Champagne fossero più prossime al corretto merito di quanto lo siano state successivamente quelle del Consiglio Superiore della Magistratura e le sentenze della giustizia amministrativa vanno in quella direzione.

Non c’è il pericolo che per una parte della magistratura la dura sanzione inflitta a Palamara possa estinguere il problema?

Io non credo a tutto questo dibattito ideale sulla palingenesi etica della magistratura: le norme sono chiare e stringenti per le procedure di nomine dei dirigenti e se non é bastato il codice penale, certo non serviranno codici etici aggiornati. Quindi si tratta di un problema che non attiene alla rifondazione morale, anche perché la maggior parte della magistratura è sana, ma alla necessità di fissare regole che risultino in qualche misura inderogabili quando si tratta di andare a valutare gli incarichi direttivi e a decidere la carriera dei magistrati. Non è possibile che l’autogoverno della magistratura si trasformi in una sorta di spazio vuoto in cui si creano le regole per poi violarle. Sono state regole lasche a generare un carrierismo ma soprattutto quel clientelismo che costringe i giudici a soggiacere alle disponibilità e alle concessioni dei capi- corrente. Le regole devono essere fissate per legge e non per circolare. In questo 101 ha un vantaggio perché punta il dito sulle regole.

E punta sul sorteggio.

Sono contrario al sorteggio. Non si può fare tabula rasa del Consiglio. Il presidente Mattarella nel suo discorso alla Scuola superiore della Magistratura ha detto: «L’attività del Csm, sin dal momento della sua composizione, deve mirare a valorizzare le indiscusse professionalità su cui la Magistratura può contare, senza farsi condizionare dalle appartenenze». Quindi ha fatto capire che una legge elettorale che punti al sorteggio non è compatibile con la Costituzione. Aggiungo che sarebbe una resa per la magistratura. Scegliere i migliori è incompatibile con il sorteggio. Rappresenta, quella del Quirinale, una forte indicazione sul tipo di legge elettorale che il legislatore dovrà configurare. Queste “indiscusse professionalità” sono dei colleghi che negli ultimi dieci, quindici anni sono completamente scappati dalla vita associativa, che lavorano tanto e in silenzio. Recuperare questi colleghi dagli anfratti in cui si sono rifugiati per seguire la propria idea di giustizia al riparo da influenze è una operazione complicata, per un sistema abituato ad altri metodi.

Torniamo un attimo alla questione degli incarichi semidirettivi e direttivi.

I tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, di tutta una categoria di magistrati che, come loro bravissimi, erano penalizzati dall’anzianità per ricoprire determinati ruoli, sono finiti. La magistratura italiana vive in una aurea mediocritas: non ci sono quelle eccellenze, quelle punte di novità per le quali occorra ancora derogare alla regola dell’anzianità. Quest’ultima, ovviamente senza demerito, può essere tranquillamente ripristinata e aggiustata. Gli ultimi dieci anni sono stati segnati da un rampantismo carrieristico fortemente incentivato dall’essersi fatto beffa dell’anzianità.

Ma non le sembra che le correnti ancora non vogliano abbandonare alcune trincee, mentre Mattarella, Cartabia e Ermini costantemente ricordano che l’unica trincea è quella dell’indipendenza e autonomia?

È crollato un sistema e ciò porta ad una serie abbastanza numerosa di regolamenti di conti interni alla magistratura. Il legislatore dovrebbe avere il coraggio e la forza, che non ha, di tracciare delle linee chiare. La politica non riesce purtroppo a tirarsi fuori dai condizionamenti che la magistratura esercita su di essa, che non sono solo quelli dei processi ma anche quelli che si innestano su rapporti e vicinanze, che caratterizzano quel mondo opaco della contiguità tra le due realtà. Tutti vogliono il procuratore amico perché nessuno lo vuole nemico. Manca il coraggio di dire che il mio destino di politico non può dipendere dal Procuratore della Repubblica e di invocare regole coerenti. Ci ha provato Renzi ma ora mi pare che non stia messo benissimo.

Nel dopo Palamara, la magistratura è pronta ad abbandonare il suo ruolo di moralizzatrice?

Certo. L’aspetto positivo dell’affaire Palamara è l’aver intaccato, non tanto l’idea del magistrato custode della moralità, ma il moralismo. I magistrati con una mano complottavano per le carriere e con l’altra pretendevano di giudicare l’abuso d’atti di ufficio di un sindaco o di un funzionario. La scoperta del clientelismo ha finalmente collassato il moralismo. Che poi i magistrati non debbano esercitare un controllo sulla moralità pubblica è un altro discorso ancora. Luciano Violante qualche giorno fa sul Foglio individua in una norma del codice di procedura penale, ossia l’articolo 330 ( acquisizione delle notizie di reato, ndr) la rottura della separazione tra potere giudiziario e potere amministrativo. Il pm può acquisire anche di propria iniziativa le notizie di reato, una crisi del principio di separazione dei poteri dice Violante, perché non è più la Pg a portare la notizia di reato. Ciò ha fatto sì che la magistratura si impossessasse del controllo di legalità che non le appartiene. E a questo fenomeno è molto complicato mettere un freno. D’altra parte nel Paese si sono mossi gruppi di magistrati e di Pg coesi l’uno con l’altro che hanno fatto carriera insieme e si promuovono a vicenda, ficcandoci dentro qualche giornalista, come ricorda Palamara.

Ma non ci sono anche Pg che fanno concorrenza alle Procure?

Ci hanno provato fino a qualche decennio fa. Poi tre o quattro inchieste ben assestate sul Ros dei carabinieri hanno fatto capire a tanti che era meno pericoloso sottostare alle indicazioni del Pubblico ministero.

L'opera di Verdi. Il Machbeth racconta il carrierismo delle toghe: la brama, la colpa e il potere. Eduardo Savarese su Il Riformista il 7 Dicembre 2021. «Pien di misfatti è il calle della potenza. E mal per lui che il piede dubitoso vi pone e retrocede». Questo declama Lady Macbeth nel suo ardimentoso recitativo, atto primo di quel Macbeth verdiano – custode della più affilata meditazione sul potere – che apre oggi la stagione scaligera. Secondo la tragedia shakespeariana, in un remoto regno di Scozia il prode Macbeth, di ritorno da una delle tante vittorie col compagno d’armi Banquo, fa un incontro incredibile: un gruppo di streghe gli profetizza una serie di titoli (prima signore di Cawdor, poi, addirittura, re di Scozia). Da questo momento Macbeth, incitato dalla spietata consorte, tenterà di realizzare, con plurimi omicidi politici, il vaticinio delle streghe: uccide nottetempo il re Duncan mentre è ospite del loro castello, uccide Banquo, uccide la moglie e i figli di Macduff. Il sangue cerca altro sangue e il potere che pare consolidato dall’ennesimo atto di violenza riprende il giorno dopo a vacillare. Nel comporre l’opera Verdi volle snellire la fonte letteraria per concentrarsi su lui (Macbeth), lei (Lady), loro (le streghe): il potere si nutre sempre di qualche complice sodalizio, di un patto tra solitudini. Mentre Macbeth all’inizio, perseguitato dai sensi di colpa, è titubante (Lady canterà “quell’animo trema, combatte, delira”), sua moglie lo spinge senza tentennare (“il fatto è irreparabile”), fino al punto in cui le parti si invertono: Lady morirà, perseguitata in tetre notti di sonnambulismo dal sangue irredimibile degli assassinati, Macbeth affronterà con la sua “fibra inaridita” l’ultima battaglia per un potere che, infine, i nemici polverizzeranno. Ma a dettare le scelte dei due sono profezie ingannevoli, dalle quali i “coniugi” si sentono rassicurati: le streghe sembrano agevolare la scalata al potere, ma poi abbandonano beffardamente lo scalatore (magia e tecnologia giocano partite analoghe, dunque). Verdi ci ha visto giusto: nella triangolazione Macbeth-Lady-Streghe c’è l’essenziale della dinamica stritolante del potere. Certo, non ogni potere è omicida, non ogni potere è tiranno: ogni potere, però, serba dentro di sé i germi dell’eliminazione sleale dell’avversario, della spinta ad auto-conservarsi a dispetto di tutto il resto. Vi è un aspetto particolarmente inquietante nel comportamento di Macbeth e Lady: essi non soltanto mentono, osano anche spingersi col linguaggio verso il confine di una costante provocazione. Due esempi. Dopo aver ucciso il re Duncan, si fingono costernati e, nel magnifico concertato finale che chiude il primo atto, invocano l’ira divina sull’omicida: non rispettando il peso delle parole, non temono le conseguenze della falsificazione, anzi, se ne compiacciono e irridono il linguaggio del dolore espresso dalla comunità. Allo stesso modo, dopo aver dato mandato di uccidere Banquo, la sera stessa festeggiano con i loro ospiti e, mentre Lady intona un brillante brindisi (“Si colmi il calice di vino eletto”), arrivano al punto di lamentarsi dell’assenza ingiustificata del nobile amico, che intanto giace, cadavere, ai margini di un bosco. Ed è qui che l’ombra di Banquo appare a Macbeth, ed è da questo momento che Macbeth comprende che non resta che alimentare il potere iniquo con altra iniquità (“sangue a me quell’ombra chiede e l’avrà, lo giuro”). Bisogna cogliere l’occasione di rivedere questa potente creazione verdiana, profittando della diretta streaming. In specie, l’occasione è propizia in tempi di democrazie vacillanti (ovunque circondate da vaticini di nuove streghe), e lo è poi per la necessità tutta italiana di arginare poteri ingrassati, eppure insaziabili. Riascoltando il Macbeth verdiano in questi ultimi giorni, non ho potuto non riflettere sulle vicende di riassetto del tutto apparente che da circa due anni e mezzo attraversano la magistratura italiana d.P. (dopo Palamara). Si tratta di questioni largamente ignote alla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica la quale registrò i fatti scandalistici dell’hotel Champagne per concludere che c’è del marcio. Ebbene, la magistratura e il parlamento si apprestano, tra pochi mesi, e sotto un nuovo settennato presidenziale, a rinnovare il Csm, organo di autogoverno che, in base alla Costituzione, deve assicurare autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario. Non sappiamo se da qui alle prossime elezioni ci saranno nuove regole elettive: quel che sappiamo, però, è che il percorso tanto di identificazione dei candidati, quanto di organizzazione del consenso resta saldamente nelle mani delle correnti in cui si articola tutt’ora la rappresentanza associativa della magistratura italiana che si dirige verso un sempre più marcato bipolarismo tra la sinistra giudiziaria (Area, MD) e l’ala dei cosiddetti moderati (Magistratura Indipendente), benché vada crescendo il peso del gruppo dei 101 col suo tentativo di scardinare consolidate logiche correntizie. La magistratura rappresentata, tra amarezza, timori e disillusione, resta in silenziosa attesa della prossima tornata elettorale mentre il Csm procede nel suo lavoro in un intrico di sentenze del Consiglio di Stato severe come ceffoni di antiche maestri su bambini ineducabili. Divorati dal carrierismo e dalla brama di consolidare assetti di potere, i meccanismi del nostro autogoverno potranno questa sera farci intonare Patria oppressa come il sublime coro verdiano del quarto atto: una magistratura oppressa da sé stessa che rischia di opprimere un intero Stato. Alla fine Lady muore di angoscia per l’insostenibilità psichica dei crimini commessi. Nel sogno rivela tutto. Alla fine Macduff uccide Macbeth e il coro esulta per la liberazione. Dovremmo forse confidare più nel primo processo che nel secondo: una grande, collettiva scena di sonnambulismo, per cominciare, cessati i terribili processi di tracotante falsificazione del linguaggio, a chiamare tutte le cose col proprio nome. Bisogna, cioè, che la magistratura rompa il silenzio assordante che si protrae da circa due anni. Eduardo Savarese

Quei magistrati "nascosti". Oltre duecento collocati nei ministeri e negli uffici legislativi. Benedetta Frucci su Il Tempo il 13 dicembre 2021. Accade che, in un Paese in cui dovrebbe vigere il principio della separazione fra i poteri, un magistrato possa tranquillamente candidarsi e poi, qualora e quando lo ritenga opportuno, tornare in magistratura. Accade poi che addirittura, egli possa, come Catello Maresca, candidato a sindaco di Napoli, mantenere il ruolo di consigliere comunale e nel contempo rientrare in magistratura.

Oppure che, come Michele Emiliano, possa governare una Regione, candidarsi alle primarie di un partito e, nel momento in cui il Csm gli vieti l’iscrizione al Pd, decidere di tirarne su uno personale.

Accade ancora che un magistrato, due volte sottosegretario d’area centrosinistra, possa, tornato in magistratura, giudicare un avversario politico: vedere alle voci Giannicola Sinisi e Augusto Minzolini.

Casi eclatanti di un sistema che solo a parole rispetta il principio della separazione fra i poteri, che dovrebbe essere la base di una qualunque democrazia.

Esiste poi una commistione sommersa, ma ancora più subdola e preoccupante. All’interno dei ministeri e delle Commissioni parlamentari, come capi di gabinetto, responsabili degli uffici legislativi, consulenti, sono collocati oltre 200 magistrati fuori ruolo. Perché il Consiglio Superiore della magistratura li autorizza a distaccarsi, se al contempo lancia da tempo l’allarme sul fatto che la magistratura è sotto organico, da ultimo pochi giorni fa, quando ha denunciato la mancanza di 1000 magistrati che metterebbe a rischio l’attuazione del Pnrr? E perché, se ottenere il distacco presso i ministeri è così facile, nel momento in cui una commissione d’inchiesta particolare come quella sul caso David Rossi fa richiesta di due togati, a titolo gratuito e senza che essi vengano collocati fuori ruolo, il consigliere Nino di Matteo formula un parere contrario?

Nel giustificare il niet emesso nei confronti del pm Patrizia Foiera del giudice Michele Romano, il dottor Di Matteo ha spiegato che l’incarico sarebbe inopportuno perché si sovrapporrebbe agli accertamenti della magistratura che, dice Di Matteo, deve apparire indipendente e imparziale. E in effetti, Di Matteo fa bene a preoccuparsi dell’immagine della magistratura nel caso David Rossi, soprattutto se fosse confermato, come ha rivelato in audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta il colonnello dei Carabieri Aglieco, che il pm Antonino Nastasi avrebbe risposto al telefono di David Rossi poco tempo dopo la sua morte e che la scena del crimine fosse stata inquinata prima dell’arrivo della scientifica.

Ma torniamo ai magistrati che dentro i ministeri sono stati invece collocati: tecnicamente, questi signori scrivono le leggi che, si sa, sono sempre e spesso oscure a una prima lettura. Quindi, facilmente maneggiabili. Il potere giudiziario, nei fatti, esercita il potere legislativo. E non è un caso - leggasi Palamara - che quei posti nei ministeri rientrino nel gioco di spartizione delle correnti, esattamente e non diversamente dalle altre nomine. Come denunciato dal Presidente delle Camere Penali, l’avvocato Gian Domenico Caiazza, questa commistione fra i poteri è un fatto unico al mondo. Una stortura che andrebbe risolta quanto prima anche solo per dare una parvenza di dignità e indipendenza alla politica, tanto sottomessa al potere giudiziario da appaltargli addirittura il compito di legiferare.

Fuori ruolo. La carica dei 200 magistrati che scrivono le leggi al posto dei politici. Marco Fattorini su L'Inkiesta.it l'8 dicembre 2021. Il Csm denuncia la mancanza di mille giudici in organico, ma ci sono molte toghe lontane dai tribunali che fanno i capi di gabinetto o guidano gli uffici legislativi dei ministeri. «Un’occupazione militare», secondo il presidente delle Camere Penali Caiazza. «Così il potere giudiziario influenza l’esecutivo e il legislativo», secondo l’ex viceministro Costa. Ce ne sono decine nei nostri ministeri. Occupano posizioni di vertice, scrivono le leggi, guidano i dipartimenti. Sono i magistrati “fuori ruolo”, quelli che non vanno in tribunale ma lavorano per altre amministrazioni dello Stato. Restandoci per molti anni. Sono circa 200, un numero significativo in un momento di sofferenza per il settore. Solo pochi giorni fa il Consiglio superiore della Magistratura ha lanciato l’allarme: «Su 10.751 posti previsti nelle piante organiche, le presenze effettive di magistrati in servizio sono 9.131». Ne mancano più di mille. Ragion per cui, incalza l’organo di autogoverno, è necessario riformare il concorso aprendolo a tutti i neolaureati in giurisprudenza. Anche in vista della realizzazione degli obiettivi posti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, cioè lo smaltimento dell’arretrato e il taglio della durata dei processi civili e penali, rispettivamente del 40 e del 25 per cento. Manca il personale, eppure 200 toghe sono assegnate ad altre amministrazioni. Solo al ministero della Giustizia ci sono un centinaio di magistrati con ruoli di primissimo piano. Capi di gabinetto, direttori generali, membri dell’ufficio legislativo, ispettori generali. «Un’occupazione militare e un’anomalia mondiale», la definisce il presidente dell’Unione Camere Penali Gian Domenico Caiazza. Non è solo una questione di risorse e organici. A via Arenula i magistrati scrivono materialmente le leggi, gli emendamenti, i commi. Capo e vicecapo dell’organo legislativo sono due toghe, cui si aggiunge una decina di colleghi nello stesso ufficio. «Così il potere giudiziario si insinua nell’ambito dell’esecutivo e del legislativo», spiega a Linkiesta Enrico Costa, già viceministro della Giustizia, oggi deputato di Azione. «Il 90 per cento delle norme che passano dal ministero sono scritte dagli uffici legislativi. I membri del governo le recitano come juke box perché non conoscono la materia specifica e si fidano di quegli uffici». Dietro le scrivanie siedono giudici e pubblici ministeri. «Professionisti qualificati», chiarisce Costa. «Ma si rischiano sbilanciamenti nella valutazione delle norme e resistenze corporative». Una consuetudine, per qualcuno. Di fatto una pericolosa sovrapposizione. «Il potere giudiziario non dovrebbe mettere bocca su come si scrive una legge», riflette Gian Domenico Caiazza al telefono con Linkiesta. «Invece ogni volta in cui si forma un governo, si fa quest’operazione politica con le correnti della magistratura per distaccare giudici e pm. Un tema evidente ed enorme su cui tutti stanno zitti». Un esempio di questa prassi l’ha raccontato Luca Palamara nel suo libro “Il sistema” pubblicato un anno fa. L’aneddoto riguarda Paola Severino, ministro della Giustizia del governo Monti. Il magistrato e consigliere del Quirinale Loris D’Ambrosio avvertiva l’ex capo dell’Associazione nazionale magistrati: «La Severino è un grande avvocato ma non conosce gli equilibri della magistratura. Tu la devi aiutare, devi avere un feeling con lei». Palamara traduce: «Dovevo mettere i miei uomini al ministero. Così ogni corrente ha piazzato i suoi nella più classica delle lottizzazioni, persone che la Severino neppure conosceva. Del resto il potere è innanzitutto controllo». Le toghe non circolano solo a via Arenula, ma un po’ in tutti i Palazzi del potere romani. Con incarichi che in altri Paesi vengono svolti da alti funzionari di carriera. Scorrendo la lista redatta dal Csm, aggiornata al 30 aprile 2021, si legge che cinque magistrati lavorano alla Farnesina, mentre il capo dell’ufficio legislativo del ministero delle Finanze è un magistrato proveniente dalla Corte d’Appello di Roma. La numero due dello stesso organo al ministero dell’Ambiente è una giudice. Il capo di gabinetto del ministero del Lavoro è una ex pm. A dirigere l’ufficio di stretta collaborazione di Roberto Speranza c’è un’ex giudice per le indagini preliminari. Altri colleghi sono distaccati a Palazzo Chigi e al ministero dei Trasporti. Poi ci sono le autorità indipendenti: quella per la Concorrenza e il Mercato è guidata da un giudice tributario e ha come capo di gabinetto una toga proveniente dal Tribunale delle Imprese di Napoli. L’Authority per l’infanzia e l’adolescenza è nelle mani dell’ex presidente del Tribunale per i minorenni di Trieste. Altri magistrati sono in enti internazionali, da Bruxelles a Strasburgo. Ma ci sono anche alcuni casi emblematici, che si ripetono da anni. «Perché ai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ci devono essere sempre dei pubblici ministeri?». La domanda del capo delle Camere Penali Caiazza resta senza risposta. Le toghe nei ministeri sono personalità di alto livello. Hanno curricula inattaccabili. Ma c’è anche una ragione squisitamente economica per la loro presenza così massiccia nelle stanze dei bottoni. «Il ministro – spiega Enrico Costa – ha un budget da spendere per comporre il suo gabinetto. Se prende una persona già stipendiata da un’altra amministrazione dello Stato, risparmierà quei soldi e dovrà pagare solo l’indennità aggiuntiva. Questa collocazione conviene anche ai fuori ruolo, che andando al ministero ottengono una retribuzione aumentata rispetto a quella solita. Oltre a un lavoro meno valutabile». La situazione è nota da anni. La ministra Cartabia ha fatto un primo passo, nominando come vicecapo di gabinetto un professore universitario. L’Unione delle Camere Penali sta lavorando a una legge di iniziativa popolare sul distacco dei magistrati. «Per parlare di indipendenza e autonomia tra magistratura e politica bisognerebbe partire da qui», ragiona Caiazza. In molti invocano una riforma del Csm che faccia chiarezza sui fuori ruolo. A partire da Enrico Costa, che resta prudente: «C’è la volontà politica del Parlamento, bisogna vedere fino a che punto il governo abbia intenzione di scontrarsi con i suoi collaboratori. Ho un dubbio: con quale approccio l’ufficio legislativo del ministero analizzerà i miei emendamenti sul Csm in cui dico che i ’fuori ruolo’ non devono più esserci?». Ai magistrati l’ardua sentenza. 

«Ministero colonizzato dalle toghe: così il potere giudiziario si inserisce nel potere esecutivo». L'interpellanza del deputato Costa sui magistrati fuori ruolo rimane fondamentalmente senza risposta: «Il M5S dovrebbe intestarsi questa battaglia a difesa di tutte le toghe che invece sgobbano nei tribunali». Simona Musco su Il Dubbio il 4 dicembre 2021. Ce n’è uno in Perù, esperto giuridico nell’ambito di un progetto di cooperazione internazionale. Un altro si trova in Tunisia, come “prosecutor adviser” nella missione di assistenza alle frontiere dell’Unione europea in Libia. E un altro ancora a Rabat, come magistrato di collegamento con il ministero della Giustizia in Marocco. E poi toghe dislocate a Parigi, Bruxelles, L’Aja e decine sparse per i vari ministeri, in particolare a via Arenula. Si tratta di alcuni esempi pescati dal lungo elenco dei magistrati fuori ruolo, 161, stando alle informazioni consultabili sul sito del Csm e aggiornate al 30 aprile 2021. Numeri dei quali ieri ha chiesto conto il deputato di Azione Enrico Costa, in un’interpellanza urgente indirizzata al governo e alla quale ha risposto la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina, che ha ricordato norme vigenti e impegni futuri, senza però entrare nel merito delle questioni evidenziate dall’ex ministro. Che ha denunciato il “pericolo” di una sovrapposizione dei poteri dello Stato, con una colonizzazione, di fatto, della politica della giustizia da parte delle toghe. «La commissione presieduta dal professor Luciani ha proceduto a formulare proposte integrative del disegno di legge pendente, miranti alla razionalizzazione delle tipologie di incarichi da svolgere fuori dal ruolo organico della magistratura, e condizionando il collocamento fuori ruolo ad un interesse dell’amministrazione di appartenenza», ha affermato Macina nel concludere il proprio intervento. Nel quale ha ricordato che il limite di tempo massimo fuori ruolo è di dieci anni complessivi e che il trattamento economico rimane identico a quello goduto da magistrato, salvo specifiche indennità. Ma il nocciolo dell’interpellanza di Costa è ben altro, dal momento che sono un centinaio i magistrati che operano all’interno del ministero della Giustizia. Il che significa, evidenzia Costa, che «noi avremo sempre dei pareri, delle soluzioni, degli emendamenti e delle valutazioni orientati in una certa direzione». Ma c’è di più: «Il potere giudiziario si inserisce nel potere esecutivo, attraverso questo nucleo e attraverso questa struttura. E io sono certo, sottosegretaria Macina – ha affermato – che quello che mi risponderà lei oggi saranno documenti e atti scritti proprio da quell’ufficio legislativo». Nel suo intervento Costa ha tirato in ballo anche l’Associazione nazionale magistrati, silente, ha evidenziato, di fronte ad un fenomeno che lascia un peso eccessivo sulle spalle dei magistrati che, invece, lavorano nei tribunali. E che sono troppo pochi, come ha evidenziato ieri, a Reggio Calabria, il vicepresidente del Csm David Ermini: «Attualmente il numero dei posti scoperti nella pianta organica dei magistrati ordinari raggiunge le 1300 unità – ha evidenziato il numero due di Palazzo dei Marescialli – e sono posti che andrebbero coperti con urgenza per far funzionare al meglio le riforme messe in campo». Certo, 161 toghe in più forse non risolverebbero il problema e comunque rimane forte l’esigenza di nuove assunzioni, per le quali sono state appostate delle risorse nella legge di Bilancio. Ma di certo sarebbe un’iniezione di forze non di poco conto, data l’urgenza di ridurre i tempi della giustizia, richiesta che l’Europa ha ribadito e che necessita di una risposta. L’occasione per cambiare le cose è, dunque, la riforma del Csm, che però procede a rilento, tanto da spaventare i partiti, che non nascondono i dubbi sulla possibilità di arrivare alla prossima elezione dell’organo di autogoverno (prevista a luglio) con una nuova legge elettorale. «Penso che ci sia veramente un’intersecazione, un incrocio, che costituzionalmente non è accettabile – ha evidenziato Costa -, soprattutto per quello che attiene al ministero della Giustizia». Alcune domande formulate dal deputato di Azione sono rimaste senza risposta, come quella relativa ai criteri di scelta. E l’ipotesi di Costa è che anche in questo caso le correnti possano avere un ruolo nella selezione delle toghe. Così l’idea potrebbe essere quella di procedere per sorteggio, «perché mi risulta che in molte circostanze ci siano state assegnazioni finalizzate a rispettare quegli equilibri correntizi, gli stessi equilibri correntizi che il Governo, con un’altra mano, ci dice di volere scongiurare attraverso un disegno di legge». C’è poi un altro aspetto: anche in questo caso sono le toghe inquirenti quelle “preferite”. Come per il Dap, a capo del quale, «anche se non c’è la legge che dice questo, abbiamo solo dei magistrati» e solo pubblici ministeri, «guai a chiamare dei giudici». E poi l’ufficio legislativo del ministero della Giustizia, dove a fianco di 10-12 toghe siede solo un’unità “laica”. «Mi spiace perché, quando faccio una proposta, come mi è capitato l’altro giorno, di un ordine del giorno, ovviamente arriva il parere negativo del ministero della Giustizia. Si diceva, semplicemente, che le sentenze di assoluzione devono avere sui giornali lo stesso spazio dedicato alle inchieste; e non va bene. Perché le inchieste chi le fa? Le fanno i magistrati – ha sottolineato Costa -, le fanno i procuratori della Repubblica che fanno le loro belle conferenze stampa; non vogliamo mica togliere questo palcoscenico». Negli uffici del ministero scarseggiano, invece, gli avvocati. «Chiediamoci perché», ha aggiunto Costa, che ha provato anche a rispondere: «Perché probabilmente, gli avvocati li dovrebbero pagare con quel budget ministeriale. Invece, i magistrati sono già pagati come se svolgessero funzioni giurisdizionali e, quindi, si distoglie la persona ma non si distoglie la risorsa e se ne possono prendere di più. Questa è la vera ragione, è una ragione di convenienza. Lei viene dal M5S, sottosegretaria: questa dovrebbe essere una vostra battaglia», ha concluso, a tutela di «quelli che lavorano e sgobbano nei tribunali. Quindi la invito anche ad affrontare questo tema nel tempo che ci rimane prima dell’approvazione della riforma del Csm, perché penso che tutti insieme potremmo fare un buon lavoro. Ma, per fare questo, dovremo accantonare quei pareri che vengono da quegli uffici e costruirci un’identità, costruirci un’idea, costruirci delle conoscenze, costruirci delle competenze su questo tema».

L'ex capo della procura milanese. Francesco Greco: “Vedo molto revisionismo su Mani pulite”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Dicembre 2021. Ripristinare l’autorizzazione a procedere. Perché no? Se ne parla, e lo auspica uno studio molto serio. Guardate chi c’era, una sera a Milano. Rilassato, fuori dalla mischia del Palazzo di giustizia e di una procura covo di vipere come non mai, abbiamo ritrovato Francesco Greco impegnato a discutere di un tema decisamente più alto di quelli che lo avevano visto coinvolto nelle ultime settimane che hanno preceduto il suo pensionamento. Immunità parlamentare, check and balance, equilibrio tra i poteri: aria pura, o almeno così dovrebbe essere. L’occasione è data dalla presentazione milanese del libro dell’avvocato Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Einaudi, “L’eutanasia della democrazia. Il colpo di Mani Pulite” (Rubbettino, 14 euro), prefazione di Sabino Cassese. Cento pagine da distillare, concetti da assaporare uno a uno, perché c’è proprio tutto. Il quadro comparato tra i sistemi anglosassoni di common law e quelli europei di civil law. Il dibattito sull’articolo 68 dei padri costituenti tra il 1946 e il 1948, e poi quello in Parlamento tra il 1992 e il 1993. I primi cercavano di ricostruire l’equilibrio tra i poteri dopo gli anni sanguinosi, anche per il diritto, del fascismo. I secondi, terrorizzati durante la stagione di Mani Pulite, mostrarono di preferire alla fine la repubblica giudiziaria rispetto a una democrazia liberale. Francesco Greco ha il tono e la giovialità ritrovata di chi si è veramente tolto un peso. Anche se gli costa un po’ dirlo. Preferisce pizzicare, non senza una certa allegria, un paio di testate giornalistiche che non si sono fatte coinvolgere dal momento bello del suo commiato. Ho offerto champagne francese, quello vero, rivendica, e Repubblica il giorno dopo ha titolato “Greco lascia, brindisi al veleno”. E sul Riformista ..(fa il nome di una giornalista che conosce da molti anni) mi voleva in pensione sei mesi prima del tempo, e diceva “ma quando se ne va?”. Ma, champagne a parte, il veleno tra toghe, quello che ha portato la procura di Brescia a sottoporre a indagine diversi magistrati milanesi, non è arrivato dall’esterno della casta. Non dai giornalisti. Men che meno dalla politica. Hanno fatto tutto da soli. Sull’equilibrio tra i poteri e sul rapporto, in Italia decisamente malato, tra politica e giustizia, il procuratore Greco non cede di un millimetro. Rispetto al libro, la cui tesi sul tragico errore del Parlamento sull’articolo 68 è molto chiara, ma anche molto documentata e motivata, anche con il supporto e l’autorevolezza di Sabino Cassese, butta lì subito “Ritenevo assorbito il problema dal ‘93”. Il suo ragionamento è elementare: non siamo stati noi di Mani Pulite a distruggere i partiti della prima repubblica, i partiti si sono distrutti da soli, perché la politica costa e in Italia si commettono troppi reati. Problema assorbito dalla cultura del Paese, dunque? E’ stata solo una giusta punizione nei confronti della classe politica, e quindi del Parlamento, l’eliminazione dell’autorizzazione a procedere, che aveva il compito di impedire iniziative politiche da parte della magistratura? L’ avvocato Benedetto spiega con chiarezza perché, in un sistema in cui la magistratura è totalmente autonoma e nominata in modo burocratico, dove non c’è la separazione delle carriere e oltre a tutto esiste l’obbligatorietà dell’azione penale, è indispensabile un contrappeso che difenda le prerogative del Parlamento. Ma non c’è verso di comprendersi. Perché ogni richiamo ai principi sacrosanti di ogni società liberale, quelle in cui l’immunità dei parlamentari fa parte dell’equilibrio dei poteri, viene considerata come un attentato a quelle inchieste che furono, ai tempi di Tangentopoli. Non a caso Greco recita più volte “il revisionismo non mi è mai piaciuto”. Vasto programma, vien da dire. Ma lui lo precisa: “Su Mani Pulite vedo molto revisionismo”. E non è un caso il fatto che lui stesso ricordi come, avendo conosciuto, nel suo ruolo di capo della procura più famosa d’Italia, pubblici ministeri di tutto il mondo, si sia sempre sentito “un privilegiato”. Infatti il caso italiano è unico al mondo. Ma per la carenza di democraticità, andrebbe aggiunto. E per la protezione assoluta della casta dei magistrati, in particolare dei pubblici ministeri che non rispondono a nessuno. I suoi colleghi inglesi e americani infatti, e soprattutto i pm, nelle patrie del principio dell’habeas corpus, hanno uno stretto rapporto con il potere politico. Il quale non necessita quindi di essere protetto da particolari guarentigie, al contrario dei Paesi europei del civil law dove esiste il giudice burocrate, una figura impensabile sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito. Ma anche nella stessa Europa l’Italia rappresenta una “stranezza”. Perché il pubblico ministero è un soggetto potentissimo e irresponsabile (in altri Paesi risponde al guardasigilli), ma anche perché, al contrario di quel che accade in Francia, in Germania e in Spagna , con la controriforma del 1993, il parlamentare è un cittadino in balia di qualunque anomalia politico-giudiziaria, senza protezione alcuna. E non è che manchino gli esempi di quel che è accaduto, dal 1992 in avanti. Un argomento molto in uso è quello che dell’immunità parlamentare e dell’autorizzazione a procedere si era abusato nel passato. Verissimo. Ma altrettanto vero è che, prima di tutto proprio negli anni di Tangentopoli il Parlamento aveva cambiato registro, con esami più oculati di ogni singolo caso e concessioni più frequenti alla magistratura di indagare. E comunque, perché eliminare le guarentigie solo perché erano state mal applicate? Il cibo può essere buono anche se qualcuno ha fatto indigestione. Tra l’altro, nel corso del dibattito che tenne impegnati a lungo Camera e Senato, si era arrivati a una buona mediazione, spostando il momento della richiesta di autorizzazione alle Camere dall’inizio delle indagini a quello dell’esercizio effettivo dell’azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio da parte del pm. Ma non ci fu nulla da fare. Spirava in quel periodo un’ariaccia fetida in cui il ruolo di moralizzatore dei costumi se lo era assunto la Lega Nord, un po’ come più di recente i seguaci di Beppe Grillo. Il Parlamento era pieno di politici indagati, la gran parte dei quali anni dopo verrà assolta. Inutilmente Marco Pannella, uno dei pochi ad avere a cuore la sacralità del Parlamento, radunava tutti alle sette del mattino. Ma era in gran parte gente terrorizzata, che cercava solo il modo di non finire in galera. Avrebbero votato qualunque cosa. E così fu, purtroppo. E inutilmente un giorno lo stesso Pannella nell’aula gridò contro la demagogia e il populismo: “ Il nostro compito, per non essere antipopolari, è di essere semmai impopolari in alcuni momenti. Viva la Costituzione repubblicana! Viva l’articolo 68! Viva il Parlamento che saprà difenderlo!”. Andò diversamente. Il revisionismo non piace ai procuratori? Un motivo di più per riformare l’articolo 68 della Costituzione e rendere l’Italia un Paese più liberale e più libero.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Mani pulite, ecco il trucco dei pm del pool di Milano per arrestare più indagati. Luca Fazzo l'11 Dicembre 2021 su Il Giornale. Durante l'inchiesta Mani Pulite, le regole di assegnazione dei fascicoli nel tribunale di Milano vennero sistematicamente aggirate per garantire alla Procura di poter contare sempre e soltanto su un unico giudice. Durante l'inchiesta Mani Pulite, le regole di assegnazione dei fascicoli nel tribunale di Milano vennero sistematicamente aggirate per garantire alla Procura di poter contare sempre e soltanto su un unico giudice, pronto ad accogliere con rapidità fulminea tutte le richieste di cattura spiccate dal pool: un sistema che ora viene descritto con dovizia di particolari da un magistrato che nei mesi ruggenti del 1992 lavorava nell'ufficio da cui gli ordini di arresto venivano sfornati quotidianamente.

Settimo piano del Palazzo di giustizia, ufficio del giudice per le indagini preliminari, quello cui tocca firmare o negare gli arresti. Per garantire l'imparzialità dei gip, la norma prevede l'assegnazione automatica dei fascicoli in base ai turni prestabiliti. Cosa accadeva, invece, durante Mani Pulite? Scrive il giudice Guido Salvini, tuttora gip a Milano: «Era comodo per la Procura avere un unico gip già sperimentato, per alcuni già direzionato, e non doversi confrontare con una varietà di posizioni e di scelte che potevano incontrare all'interno dell'ufficio gip, formato da una ventina di magistrati. Andava evitata e prevenuta una possibile variabilità di decisioni dei giudici che potesse in qualche modo creare difficoltà alle indagini (...) così il pool escogitò un semplice ma efficace trucco costituendo, a partire dall'arresto di Mario Chiesa, un fascicolo che in realtà non era tale ma era un registro che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse unificate solo dall'essere da gestite dal pool».

Titolare del mega-fascicolo, che portava il numero 8566/92, era il giudice Italo Ghitti. Tutte, nessuna esclusa, le richieste del pool Mani Pulite arrivavano così a Ghitti, con la certezza di venire accolte nel giro di poche ore, alimentando la spirale delle confessioni a catena. «Questo espediente dell'unico numero - scrive Salvini - impediva la rotazione e consentiva di mantenere quell'unico gip iniziale, Italo Ghitti, che evidentemente soddisfaceva le aspettative del pool». Una sola volta, per una sorta di svista, una richiesta di manette firmata dal pool arrivò sulla scrivania di Salvini, che era il giudice competente per turno. Ma «nel giro di pochi giorni, prima ancora che potessi decidere, il fascicolo mi fu sottratto senza tanti complimenti e passò al gip Ghitti». Bisognava evitare che «qualsiasi altro gip dell'ufficio interferisse nella macchina di Mani pulite. Questa abnormità fu più che tollerata, e tollerata forse è dir poco, dai capi dell'ufficio». Contro la sottrazione del fascicolo, Salvini scrisse invano al suo capo, Mario Blandini. Mani Pulite continuò a macinare arresti. Blandini venne promosso procuratore generale. Ghitti venne eletto al Consiglio superiore della magistratura.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

Il periodo di Tangentopoli. Italo Ghitti, l’unico gip di Mani Pulite: svelato il trucco del pool per sceglierselo. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 19 Dicembre 2021. Italo Ghitti è stato “il Gip di Mani Pulite”. L’unico. Per capirci: se il Pool ha aperto in quel periodo, per dire, cento indagini, cioè cento fascicoli diversi, per reati tra loro diversi, con indagati diversi, contesti diversi, insomma diversi, il Gip è stato sempre lui tutte e cento le volte. Lo sappiamo da sempre, noi penalisti lo abbiamo denunciato da subito e per decenni, ma nulla, come se niente fosse. Ora una meritevole intervista ad un Gip milanese, il dott. Guido Salvini, almeno ci fa sentire meno soli. Come è potuto accadere? Semplicissimo. I Pubblici Ministeri, gli eroici cavalieri senza macchia e senza paura del leggendario pool di Mani Pulite, inventarono un banale trucco. Tutte le nostre indagini fanno in realtà parte di una unica indagine, dissero (anzi, se lo dissero tra di loro, figuriamoci se qualcuno osò fare domande). Il fenomeno criminale è unico, la Corruzione ed il Finanziamento Illecito della Politica. Dunque tutti i fatti sui quali indaghiamo, dal Pio Albergo Trivulzio alla tangente Enimont, sono capitoli di una unica indagine purificatrice. Dunque un unico numero di procedimento e, per conseguenza, un unico Gip, Italo Ghitti. Un autentico gioco delle tre carte, che nemmeno a Forcella. Se un qualsiasi Procuratore oggi si azzardasse a fare una roba del genere, finirebbe diritto per diritto davanti ad un giudice disciplinare (almeno) a renderne conto. Per capirci, è come se la Procura di Palermo sostenesse che tutte le indagini di Mafia, qualunque siano i fatti, le cosche e i protagonisti, debbano ritenersi facenti parte di un unico fascicolo, e dunque affidate agli stessi inquirenti ed al controllo giurisdizionale di un unico Gip. La stampa nostrana non fece un plissé, e nemmeno ora, a babbo morto. I Santi non si toccano e non si bestemmiano. I famosi “cani da guardia” della verità contro i poteri, girano il muso da un’altra parte, abbassano le orecchie e semmai abbaiano contro i pochi che dovessero azzardarsi a dire qualcosa, quando si tratta del potere giudiziario. Nessuno che provi ad alzare il ditino, e a fare la ineludibile domanda: perché? Già, perché, secondo voi? Sarebbe bastato fare quello che normalmente si ha il dovere di fare, e cioè aprire per ogni nuova indagine un fascicolo nuovo con un nuovo numero, ed ecco lì che il Gip cambia. Dunque, la risposta è semplicissima: la Procura di Milano fece l’impensabile: si scelse il “suo” Gip. Punto. Traetene voi da soli le conseguenze. Io mi limito a ricordare quale sia, o meglio quale dovrebbe essere, il ruolo ed il compito del Giudice delle Indagini Preliminari, per facilitarvi nel vostro giudizio su quello scandalo, oggi denunciato perfino da un coraggioso giudice milanese. Il Gip è colui che è chiamato ad esercitare il “controllo giurisdizionale” sulle indagini e sull’esercizio dell’azione penale. Perché, pensate un po’, nel nostro sistema processuale il Pubblico Ministero è certamente il dominus incontrastato delle indagini; ma appena ritiene di dover adottare misure che vanno ad impattare sui diritti delle persone indagate, non può far altro che “chiedere” al Gip di essere autorizzato a farlo. Può solo “chiedere” di intercettare, di sequestrare, di arrestare. Nei casi di urgenza può farlo di propria iniziativa, ma poi deve immediatamente informarne il Gip, che verificherà la legittimità dell’atto adottato con urgenza, e potrà convalidarlo o invece annullarlo. Il Pm chiede, ma è il Gip che adotta i provvedimenti più importanti nella fase delle indagini. L’analfabetismo diffuso fa dire che “Gratteri ha arrestato”, che “la Procura di Milano” ha disposto intercettazioni, che “la Procura di Palermo” ha sequestrato, ma non è così, perché quei provvedimenti sono del Gip. Ora voi comprendete bene quanto possa contare, per una Procura, avere un Gip, come dire, sulla propria lunghezza d’onda. Un Gip che non si metta a sindacare, ad approfondire, a questionare, e soprattutto a respingere le richieste. La partita della terzietà del Giudice, garante costituzionale dei diritti e del procedimento, si gioca innanzitutto e in modo quasi assorbente nella fase delle indagini. Il pool di Mani Pulite, a suggello della propria onnipotenza, si consentì il lusso di avere un solo Gip. Non voglio mancare di riguardo a nessuno, ma possiamo ragionevolmente dare per scontato che, come minimo, l’orientamento di quel Giudice non fosse sgradito all’Ufficio? Io penso proprio di sì. E più in generale: se si parla solo dei Pm quando si arresta, si intercetta, si sequestra, nonostante sia il Gip che ha arrestato, intercettato, sequestrato, non vi sorge il dubbio che in questo Paese il tema della terzietà del giudice, innanzitutto del giudice delle indagini preliminari, sia la vera, grande, decisiva, clamorosa emergenza della nostra giustizia penale?

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

"Io, travolto dal trucco del pool Mani pulite per arrestare più gente". Luca Fazzo il 13 Dicembre 2021 su Il Giornale. L'ex braccio destro di Mammì arrestato 30 anni fa: "Quel gip soddisfaceva i pm". «Ah, dunque è così che andò....». Sono passati quasi trent'anni dalla mattina in cui lo vennero ad arrestare su ordine del pool Mani Pulite, e a Davide Giacalone tocca oggi scoprire che dietro il suo mandato di cattura c'era una manovra di gravità sconcertante messa in atto negli uffici giudiziari milanesi, e rivelata solo ora da un testimone dell'epoca.

È sull'inchiesta che travolse Giacalone, allora giovane e brillante braccio destro del ministro repubblicano Oscar Mammì, che si consuma l'episodio raccontato nei giorni scorsi dal giudice milanese Guido Salvini con un articolo sul Dubbio: il fascicolo con le richieste di arresto che arriva sul tavolo di Salvini, ma che gli viene sottratto dal capo dell'ufficio del giudice preliminare Mario Blandini. E assegnato a Italo Ghitti, il gip che monopolizzava tutte le richieste di cattura del pool e le accoglieva tutte istantaneamente. Il trucco: un unico fascicolo con un numero unico, divenuto - scrive Salvini - «un registro che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse». Titolare, Italo Ghitti, «che evidentemente soddisfaceva le aspettative del pool». Ghitti quando seppe che l'inchiesta contro Giacalone era finita a Salvini fece fuoco e fiamme per farsela ridare. Appena la ottenne ordinò la cattura del 34enne politico.

Che effetto le fa scoprire che per arrestarla dovettero persino portare via il fascicolo a un giudice?

«Il sistema della Procura di Milano di scegliersi i giudici delle indagini preliminari, studiando anche le ore e i minuti migliori per inviare le richieste di cattura, era noto già ai tempi. Ma che si fosse arrivati al punto rivelato dall'articolo del giudice Salvini allora non ebbi alcuna contezza, né la ebbero i miei avvocati».

Perché era così importante che a gestire tutto fosse Ghitti? Secondo Salvini, col sistema del fascicolo unico il pool milanese poteva indagare anche su vicende lontane dalla sua competenza territoriale.

«Come nel mio caso: alla fine venne stabilito che la competenza era di Roma e non di Milano. Ma arrivarci non fu una passeggiata. A Milano dopo dieci giorni di carcere mi diedero i domiciliari, ma a quel punto intervenne la Procura di Roma che mi rispedì in prigione. In cella mi arrivavano a giorni alterni gli ordini di custodia dalle due città, sembrava una gara tra Procure a chi me ne mandava di più per rimarcare la propria competenza. Anche gli agenti di custodia erano impietositi».

Salvini dice che il collega Ghitti era «direzionato» a favore della Procura, per questo bisognava impedire che qualunque altro gip «interferisse» con le indagini su Tangentopoli.

«La storia di Mani Pulite la conosciamo tutti. Per quanto riguarda il mio caso personale, posso solo ricordare che le accuse per cui il dottor Ghitti ordinò il mio arresto ritenendole gravi precise e concordanti si rivelarono talmente infondate che alla fine venni assolto in udienza preliminare senza neanche venire rinviato a giudizio».

Beh, è finita bene.

«In Italia la giustizia di merito, quella che arriva all'esito dei processi, funziona abbastanza bene, al netto degli inevitabili errori giudiziari. Il dramma è quanto accade prima, durante le indagini, quando a garantire i diritti del cittadino sotto inchiesta dovrebbe essere il giudice delle indagini preliminari, una figura da barzelletta, costretto a decidere solo sulla base delle carte che gli vengono sottoposte dai pm, e che dovrebbe prendersi la briga di dire ai pm vi siete sbagliati. Quando mai? Al massimo assistiamo a qualche teatrino, invece del carcere lo mando ai domiciliari. Poi arriva la sentenza che dice che l'imputato è innocente. Ma che te ne fai dopo dieci anni?»

Con lei quanti anni sono serviti?

«Dodici».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Il “trucco” di Mani pulite tra gelida indifferenza e opposte “concordanze”. Luca Palamara nel suo “il Sistema”, Ilda Boccassini in “La stanza numero 30” e Nino Di Matteo ne “I nemici della giustizia”, descrivono un contesto deprimente della magistratura. Valter Vecellio su Il Dubbio il 17 dicembre 2021. Otto dicembre scorso: Guido Salvini, giudice per le Indagini Preliminari in forza a Milano, scrive per Il Dubbio un circostanziato articolo, con espliciti riferimenti, fatti, nomi e cognomi, e spiega cosa è accaduto nell’ufficio del Gip della sua città nella stagione di “Mani Pulite”. Per riprendere l’efficace sintesi giornalistica: “Il pool escogitò il semplice ma efficace trucco di un ‘registro’ con lo stesso numero per tutti i reati che era così di competenza di un solo Gip: Italo Ghitti”. Sempre Salvini racconta come un fascicolo, in questo modo, con questo “trucco” gli viene sottratto; stessa cosa accade ad altri Gip, il tutto con la fattiva copertura e tolleranza dei Capi dell’ufficio: “Non era il tempo di seguire la strada giusta, ma di adeguarsi al mainstream”. In guerra e in amore tutto è lecito, si dice. Ma appunto: in guerra e in amore; amministrare la giustizia, applicare le leggi, non rientra nelle pratiche belliche, e neppure in quelle amorose, checché ne possa pensare qualcuno. Ad ogni modo: reazioni? Sì, qualche isolata voce, presto silenziata. Per il resto, sostanziale fastidio, gelida indifferenza. Un ulteriore passo indietro. A metà novembre Nino Di Matteo, magistrato attualmente membro del Consiglio Superiore della Magistratura, rilascia un’intervista a La7. Confessa un timore: “che si siano formate anche al di fuori o trasversalmente alle correnti, delle cordate attorno a un procuratore o a un magistrato particolarmente autorevole, composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura che pretendono, come fanno le correnti, di condizionare l’attività del Consiglio superiore della magistratura e dell’intera magistratura… Con l’appartenenza alle cordate vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera e l’avversario diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare… La logica dell’appartenenza è molto simile alle logiche mafiose, è il metodo mafioso che ha inquinato i poteri, non solo la magistratura”. Questa situazione dove (e chi) l’ha evocata e descritta prima di Di Matteo? Si deve recuperare un libro di grande successo, “Il sistema”, lunga conversazione tra l’ex magistrato Luca Palamara e Alessandro Sallusti: “…Le spiego una cosa fondamentale per capire che cos’è successo in Italia negli ultimi vent’anni”, dice Palamara. “Un procuratore della Repubblica in gamba, se ha nel suo ufficio un paio di aggiunti e di sostituti svegli, un ufficiale di polizia giudiziaria che fa le indagini sul campo altrettanto bravo e ammanicato con i servizi segreti, e se questi signori hanno rapporti stretti con un paio di giornalisti di testate importanti – e soprattutto con il giudice che deve decidere i processi, frequentandone magari l’abitazione…Ecco se si crea una situazione del genere, quel gruppo e quella procura, mi creda, hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo interno. Soprattutto perché fanno parte di un ‘Sistema’ che lì li ha messi e che per questo li lascia fare, oltre ovviamente a difenderli”. Nella sostanza le affermazioni di Di Matteo e Palamara si possono sovrapporre, due “opposti” che coincidono. Ma Di Matteo dice anche altro, nel libro “I nemici della giustizia”, scritto con Saverio Lodato. Quando si arriva alle pagine 75 e 76 si può leggere: “…Una cordata sorta attorno a qualche magistrato, di solito un importante procuratore, che ha saputo acquistare nel tempo, e spendere, la sua autorevolezza e il suo prestigio per occupare spazi sempre più ampi di potere dentro e fuori la magistratura…” con lo scopo “di fidelizzare altri colleghi, alti esponenti delle forze dell’ordine, acquisendo un potere tale da riuscire a influenzare scelte e nomine all’interno della magistratura e persino delle forze di polizia. Cordate, non più correnti…”. Ora idealmente si può far scendere idealmente in campo un altro personaggio, l’ex magistrato Ilda Boccassini. Ha scritto “La stanza numero 30. Cronache di una vita”, di cui molto si è parlato e scritto, più che altro per il quarto capitolo: il racconto di una liason con Giovanni Falcone. Capitolo che fa perdere di vista il cuore dei problemi che questo libro pone. Perché in fin dei conti, cos’abbiano combinato sono affari di Boccassini e Falcone; si può al massimo eccepire che questa storia poteva restare nel cono d’ombra dove era relegato, conosciuta da pochi. Ma è la sostanza delle questioni che si è persa di vista. La sostanza è il racconto di anni e anni di storia della magistratura, dei magistrati, del loro operare: il loro letterale trescare per acquisire e difendere postazioni di potere e carriera; le spartizioni, i boicottaggi, i servilismi: dal libro di Boccassini insomma, emerge un quadro desolante e desolato della magistratura, e di uffici giudiziari particolarmente importanti: quelli di Milano, Roma, Palermo, Caltanissetta. Del lato meschino e vanesio di magistrati ed ex magistrati famosi; i metodi di spartizione per l’attribuzione dei vertici apicali della magistratura da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. Insomma: un contesto, una “scena” e tanti retroscena, deprimenti. Significative queste ‘concordanze’ di personaggi così diversi, perfino opposti. Tutto ciò aggravato dal fatto che tutto ciò sembra scivolare come acqua su pietra liscia. Si può infine segnalare un’ulteriore, non meno grave “indifferenza”, che evidentemente (mal)cela una diffusa ostilità: verso i sei referendum per una giustizia più giusta promossi da Partito Radicale e Lega. Hanno superato il primo ostacolo, il vaglio della Corte di Cassazione. Ora la parola spetta alla Corte Costituzionale; non potrà falcidiare l’intero pacchetto; potrà dichiarare che qualche quesito non può essere sottoposto a referendum popolare, ma bocciarli tutti e sei non è cosa. Dunque, se non saranno sciolte le Camere (evento non meno improbabile), a primavera ci si pronuncerà su importanti questioni di giustizia e di come la si vuole amministrare. Che cosa attendono i mezzi di comunicazione, e in particolare quello che dovrebbe essere il servizio pubblico radio-televisivo, ad allestire spazi di informazione, confronto e dibattito tra sostenitori e avversari delle referendarie, non si capisce (o al contrario: lo si comprende bene). ‘Conoscere per deliberare’ è uno dei precetti di Luigi Einaudi: diritto alla conoscenza presupposto senza il quale non è data una vera democrazia. Curioso, ma anche indicativo, che filosofi, giuristi, commentatori, dedichino tempo ed energie nella denuncia di rischi e pericoli più supposti che reali per la democrazia, in Italia, in Europa, nel mondo, a proposito di una Pandemia che sconvolge il pianeta; e non una briciola di attenzione sul fatto che una questione essenziale come la giustizia e il modo in cui si amministra è argomento tabù: è scattato un verboten a cui pochi volenterosi vogliono e sanno sottrarsi, rapidamente, implacabilmente, silenziati: ridotti come il protagonista del celebre dipinto del norvegese Edvard Munch.

«La forzatura sul gip Ghitti dimostra che Mani pulite fu un’operazione politica». Lo storico dirigente del Psi parla del trucco, rivelato sul Dubbio, dal giudice Salvini, relativamente all'inchiesta "Mani pulite", coordinata dal famoso pool di Milano. Errico Novi su Il Dubbio il 14 dicembre 2021. «È un artifizio tecnico, che però svela il senso politico di Mani pulite». Ugo Intini è stato direttore dell’Avanti, portavoce del Psi craxiano, dirigente combattivo in un partito travolto dalla “rivoluzione” del ’ 92. Riflette sull’espediente inventato dal Pool di Milano per consegnare sempre a un unico gip, Italo Ghitti, tutte le richieste di misure cautelari.

Un “trucco” rivelato, in un articolo sul Dubbio, dal giudice Guido Salvini: venne creato un «registro», utilizzato impropriamente come un «fascicolo» unitario per tutti i filoni d’inchiesta, e dotato di un «numero con cui iscriveva qualsiasi novità riguardasse tangenti», ha raccontato Salvini, oggi come allora in servizio all’ufficio gip di Milano. «Salvini contribuisce ad avvalorare una tesi ormai inconfutabile: Mani pulite fu un’operazione politica, ispirata», dice Intini, «all’idea che della politica si potesse fare a meno, e che perciò fosse necessario e opportuno radere al suolo i partiti della Prima Repubblica».

Nell’intervento sul Dubbio, Salvini non esita a notare come il «gip iniziale, quello dell’indagine sul Trivulzio, Italo Ghitti, evidentemente soddisfaceva le aspettative del Pool». Diversi altri quotidiani hanno ripreso in questi giorni l’intervento del magistrato milanese.

Ieri, per esempio, il Giornale lo ha ricollegato alla vicenda di Davide Giacalone, allora braccio destro di Oscar Mammì: Giacalone fu arrestato su richiesta del Pool, subito accolta da Ghitti, e poi prosciolto addirittura in udienza preliminare «Il sistema della Procura di Milano di scegliersi i giudici delle indagini preliminari», ha raccontato Giacalone al Giornale, «era noto già ai tempi. Ma che si fosse arrivati al punto rivelato dall’articolo del giudice Salvini allora non ebbi alcuna contezza, né la ebbero i miei avvocati».

C’era un sistema scientifico, Intini, ma nessun giornale si sforzò di scoprirlo. Ha dovuto parlarne un giudice coraggioso a trent’anni da Mani pulite.

Non mi meraviglio. Il silenzio sulle forzature tecniche compiute dal Pool si spiega con l’assoluto sostegno assicurato, a quei pm, dai giornali, ridotti a ufficio stampa della Procura. Rientra appieno nella logica da golpe strisciante in cui si inserì l’inchiesta del ’ 92.

Perché golpe strisciante?

Vede, se un ufficio inquirente arriva a forzare le regole organizzative interne alle Procure pur di consegnare sempre allo stesso gip, evidentemente in sintonia coi pm, le richieste cautelari, è chiaro che c’è una determinazione politica rispetto a quell’iniziativa giudiziaria. Una determinazione chiara nel perseguire non ipotesi di reato ma un preciso obiettivo: annientare i partiti della Prima Repubblica. Ed è un disegno, ritenuto giusto dai pm milanesi di allora, che si inserisce perfettamente nel disegno più generale di annichilimento della politica, emerso all’epoca non solo in Italia ma in tutto l’Occidente.

Dietro l’onda giudiziaria del ’ 92 ci fu la regìa di altri poteri?

Fukuyama, politologo americano, teorizzò che con la caduta del comunismo si fosse arrivati alla fine della storia, dunque all’esaurirsi delle funzioni proprie della politica. Se la politica è inservibile, restano solo i poteri economici, indisturbati. Ci si doveva sbarazzare dei partiti. Avvenne anche in altri Paesi, ma in nessuno si verificò, come da noi, una vicenda giudiziaria oggettivamente rivoluzionaria, in un quadro generale da golpe strisciante. La giustizia non funzionò in modo imparziale: fu condizionata da quell’obiettivo.

Ma a suo giudizio i pm del Pool di Milano puntavano consapevolmente a uno svuotamento della politica?

È più corretto dire che dopo i primi successi, dopo il clamore suscitato dai primi passi dell’inchiesta, i magistrati della Procura di Milano si sentirono spinti ad andare avanti lungo quella strada, a perseguire l’obiettivo dell’annichilimento. Mi riferisco al favore dell’opinione pubblica, ma anche dei grandi giornali. La grande stampa condivideva certo non a caso uno schema in cui i vecchi partiti avrebbero lasciato posto al dominio del mercato.

Quanto influì, su quella stagione, la crisi economica?

Moltissimo. Una cosa era chiara a tutti: gli equilibri precedenti, basati sul rapporto fra politica e sistema produttivo, non reggevano più. Gli stessi imprenditori si convinsero che della politica ci si potesse liberare. Ne ho fatto un libro, nel 2001: La privatizzazione della politica. Fu un ’ 68 rovesciato.

In che senso?

Il ’ 68 fu ispirato a solidarismo e comunitarismo. Nel ’ 92 si impose una rivoluzione dell’individualismo e del liberismo. Con una rottura, com’era avvenuto un quarto di secolo prima. Ma di segno del tutto diverso.

Senza il “trucco” del gip, chissà se Mani pulite sarebbe andata in quel modo.

C’erano forzature tecniche anche di altra natura, a cominciare dall’upgrading del finanziamento pubblico trasformato in corruzione, e della corruzione elevata a concussione.

Guido Salvini ha avuto il merito di chiarire come andarono le cose.

È un magistrato già noto per il coraggio, per la capacità di assumere posizioni controcorrente rispetto al resto della magistratura. Penso a quanto disse a proposito delle trame nere o dell’assassinio Tobagi. Ma fra i magistrati la maggioranza, a mio giudizio, condivide la critica all’esercizio autoreferenziale della funzione requirente. Peccato questa maggioranza sia ostaggio di un’agguerrita minoranza, tuttora dominante nell’Anm e, in generale, nell’ordine giudiziario.

Buccini presenta “Il tempo delle Mani Pulite”. Il procuratore Ielo: “Indagine? Tentativo di legge uguale per tutti, non si voleva la rivoluzione”. Alberto Sofia il 18 novembre 2021 su Il Fatto Quotidiano. Nella cornice della Sala Valdese a Roma, Goffredo Buccini, giornalista ed editorialista del Corriere della Sera, ha presentato con la collega Fiorenza Sarzanini e il procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo, il suo ultimo libro “Il tempo delle Mani pulite”, edito da Laterza. “Mani pulite non è stata soltanto un’inchiesta che ha rivoluzionato la politica in Italia, ma è stata soprattutto una stagione di grandi illusioni: l’illusione della fine della corruzione, quella secondo cui i magistrati erano i vendicatori della società civile contro una politica marcia, l’idea che un Paese potesse cambiare attraverso un processo. Ma ciò non è vero, i cambiamenti sono più lenti e questo volume racconta questa delusione e questa illusione, quella di un’intera generazione”, ha rivendicato Buccini. Il giornalista ha precisato di “non essere un pentito”: “Non credo sia stato un golpe giudiziario, anzi abbiamo assistito a un suicidio politico. Ma questa idea ha poi permeato una certa destra italiana, nella sua contestazione aperta alla magistratura. Ma allo stesso tempo non credo nemmeno al mito dell’inchiesta mutilata, secondo cui non fu permesso ai magistrati di continuare a indagare”. Oggi, continua Buccini, “paghiamo ancora le conseguenze dopo 30 anni, con una frattura tanto grande”. “Mani Pulite‘? Non voglio parlare di inchiesta mutilata, credo sia stata espressione di una contingenza, di un periodo storico, va contestualizzata. Forse poi mancavano le condizioni. Ma quando provavamo a fare processi con le regole che esistevano e dovevano valere per tutti, indipendentemente se fossero buone o sbagliate, queste non andavano più bene e venivano cambiate”, ha invece precisato il procuratore Paolo Ielo. E ancora: “Se abbiamo mai pensato di voler cambiare il mondo? Ma no, questa idea di un gruppo di persone che dietro a un tavolo decideva di fare la rivoluzione e di mettere questo o quello non c’era“, ha affermato nel corso della presentazione a Roma del volume. Lo stesso procuratore ha infine spiegato di non ritenere che la corruzione sia rimasta identica: “Il segno tangibile era l’ammontare delle tangenti: oggi abbiamo corruzioni che avvengono per poco o nulla, 5 o 10 mila euro”, ha aggiunto Ielo.

Buccini, invece, ha poi concluso come il nostro Paese abbia “la capacità di rialzarsi nei momenti più complessi, come fu quel momento nel ’92”. Per questo, ha aggiunto, la speranza è che si possa ancora “migliorare l’Italia”, ha concluso Ielo. 

Mani pulite, una rilettura istruttiva di Goffredo Buccini. Cesare Zapperi il 21 Novembre 2021 su socialbg.it. “Il tempo delle Mani pulite” è un libro che merita di essere letto. Perché il racconto del drammatico passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, attraverso l’inchiesta dei magistrati milanesi, affidato alla penna di Goffredo Buccini, inviato speciale del Corriere della Sera a quel tempo cronista di punta a palazzo di giustizia (suoi molti scoop), parla di loro (i politici e le toghe) ma anche di noi (cittadini), facili a passare dal giustizialismo al garantismo come foglie che cambiano colore al mutare delle stagioni.

Buccini ripercorre quasi giorno per giorno i due anni (1992-1994) che sconvolsero il Paese raccontando fatti e retroscena, rievocando atmosfere e umori, riproponendo ad uso di chi li visse ma soprattutto di chi è nato o cresciuto dopo fatti e misfatti di quella vicenda giudiziaria. Lo fa con un esercizio di profonda autocritica non comune e tantomeno scontato (prima di lui lo ha fatto con il suo “Novantatré. L’anno del terrore di Mani pulite” Mattia Feltri) che lo porta ad ammettere che nello scrivere di avvisi di garanzia, arresti e interrogatori, fu spinto anche dalla passione politica che in quegli anni giovanili gli faceva credere di poter cambiare il mondo.

Chi ha vissuto quella stagione, seppur da lontano, ricorda il clima rivoluzionario, la voglia di veder cadere nella polvere tanti potenti, la sete di giustizia. Gli eccessi c’erano, anche abbastanza evidenti come annota lo stesso Buccini, ma su tutto prevalevano la sostanza (il sistema, politico ed economico, era marcio) e il desiderio di pulizia e di onestà. Il libro racconta tutto, anche il desiderio di affermarsi di un cronista di razza (che oggi ammette di essersi ritrovato a comportarsi in modo tale da non riconoscersi) autore di interviste che sono entrate nello storia patria, oltre che del giornalismo. Ci descrive la parabola di magistrati prima osannati come eroi e diventati via via sempre più ingombranti fino ad assurgere, per alcuni, al ruolo contro natura di antagonisti politici.

E poi naturalmente ci sono loro, i politici. Scorrono sotto i nostri occhi tante storie: il suicidio di Sergio Moroni e la sua profetica lettera d’addio, il bombardamento di avvisi di garanzia al bergamasco Severino Citaristi, il coinvolgimento e la battaglia senza esclusione di colpi di Bettino Craxi, l’avviso a comparire a Silvio Berlusconi (il grande colpo giornalistico di Buccini con il collega Gianluca Di Feo). Noi (i cittadini) rimaniamo sullo sfondo, come spettatori che prima fanno un tifo forsennato per i magistrati e poi, non appena dagli squali si scende ai pesci piccoli (il commercialista, l’avvocato, l’impiegato) cominciano a diventare insofferenti fino a spingersi dalla parte opposta, secondo la legge del pendolo che da sempre regola la vita pubblica italiana. Guarda caso quello che stiamo vivendo proprio di questi tempi. “Il tempo delle Mani pulite” è quindi a suo modo una piccola storia dell’Italia e degli italiani. Leggerla aiuta a conoscere e a capire. Il passato ma anche, o soprattutto, il presente. 

Trent’anni dopo Mani Pulite è tempo che la guerra finisca. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 19 novembre 2021. A breve saranno tre decenni dall’arresto di Mario Chiesa, il boiardo socialista dalle cui confessioni promanò la slavina, poi diventata valanga processuale, che travolse la Prima Repubblica: e la questione giudiziaria continua a spaccare il Paese in due segmenti contrapposti. Alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, le piazze italiane erano infiammate da giovani persuasi che fosse ragionevole uccidere i propri coetanei a causa dell’avversa appartenenza politica. Erano passati tre decenni dalla fine della guerra di liberazione. Ma era come se fascismo e antifascismo (l’antifascismo militante, di matrice comunista) non avessero smesso nemmeno per un momento di combattersi. Non pochi genitori di quei ragazzi, del resto, divisi tra la paura del golpe nero e il timore dell’esproprio rosso, ne assecondavano l’aberrazione ottica e ideologica, finendo di fatto per regolare conti in sospeso per interposta persona. Si osserverà che trent’anni sono forse pochi per tramutare in storia i drammi quotidiani. Eppure, potrebbero essere sufficienti almeno a un ripensamento, a una prima analisi critica o, se non altro, a un raffreddamento degli animi. Così non fu, ci dicemmo, perché l’Italia d’allora era debole quanto a condivisione dei valori. 

Nonostante la successiva, lunga e faticosa ricerca di valori condivisi, così non pare essere neppure ora, con riguardo alla stagione più tumultuosa della nostra Repubblica, quella segnata dallo spartiacque di Mani pulite. Anche questa fase sembra sottomettersi alla ripetitività della guerra dei Trent’anni, del passato che non passa. A breve saranno tre decenni dall’arresto di Mario Chiesa, il boiardo socialista dalle cui confessioni promanò la slavina, poi diventata valanga processuale, che travolse la Prima Repubblica: e la questione giudiziaria continua a spaccare il Paese in due segmenti contrapposti per fede ma assai simili per scarsa o nulla propensione a riconoscere dignità all’avversario. 

Senza neppure il bisogno di scorrere l’emeroteca delle passate e infelici stagioni, basta uno sguardo alle cronache recenti per avere un’idea del tasso di avvelenamento del discorso pubblico: la battaglia mai sopita attorno al finanziamento della politica, ora incarnata dall’inchiesta sulla fondazione Open col suo strascico di ovvietà miste a rivelazioni più o meno riservate, o l’intemerata televisiva di un procuratore di primo piano contro talune scelte della ministra Guardasigilli sono soltanto le ultime stazioni della via crucis inflitta a giustizia e politica ove vengano incrociate in un chiacchiericcio astioso che disorienta il Paese. 

Due sono i miti fondanti, ma del tutto infondati, di questo nuovo trentennio tossico: ed entrambi hanno radici nell’inchiesta dei magistrati di Milano tra il 1992, l’anno del principio, e il 1994, quello dell’invito a comparire a Silvio Berlusconi e dell’addio di Antonio Di Pietro alla toga. 

Il primo è il mito del golpe giudiziario. Nato negli ambienti politici più duramente colpiti dall’inchiesta (segnatamente i socialisti meneghini) e da essi propalato durante gli anni successivi, riconduce il lavoro del pool dei magistrati a un’unica trama, magari eterodiretta, volta a distruggere la nostra democrazia parlamentare. La realtà è ben diversa. Non a un golpe giudiziario assistemmo, quanto piuttosto al dissennato suicidio di partiti che durante gli anni Ottanta avevano scambiato consenso elettorale con debito pubblico e appalti truccati con finanziamenti illeciti: fu il loro prestigio ridotto al rango di barzellette da bar che li consegnò, indifesi, ai magistrati. 

Il secondo mito è, per converso, quello della Mani pulite mutilata, dell’inchiesta interrotta bruscamente a causa del ricompattamento del sistema, travasato nella cosiddetta Seconda Repubblica. Questo mito («non ci hanno fatto finire il lavoro!») promana direttamente dai dipietristi ed è servito a giustificare l’inopinata uscita di scena del pubblico ministero più popolare d’Italia appena prima di dover interrogare Silvio Berlusconi. Anche in questo caso, la realtà è tutt’altra. Innanzitutto, perché, come ha ricordato Paolo Ielo (allora giovane sostituto del pool milanese e oggi procuratore aggiunto a Roma) Mani pulite non finì nel 1994 ma proseguì per anni con altri protagonisti. Certo, aveva perso consenso: ma ciò dipese dalla stanchezza popolare per l’assai discutibile uso della galera e dal timore nato in molti italiani che, scendendo l’indagine di livello, quella galera toccasse a loro stessi. 

Accade però che questi falsi miti abbiano figliato, nel frattempo. In una parte della destra, generando una aprioristica avversione contro la magistratura fino ad atteggiamenti corrivi con i reati dei colletti bianchi (se la giustizia è ingiusta, del resto, vale il «tana libera tutti»). E, sul fronte opposto, in una certa sinistra a lungo persuasa di poter prevalere sugli avversari per via giudiziaria, e soprattutto nel primo grillismo, che ha immaginato di «completare l’opera» in piazza, magari con un lacerto di intercettazione usato come ghigliottina sui social. La magistratura stessa ha finito per assumere i vizi della cattiva politica anziché perseguirli: a riprova del fatto che non c’è toga abbastanza elastica da coprire lo strappo tra moralità e moralismo. 

È tempo che la guerra dei Trent’anni finisca. Che i ragazzi di oggi, pur in buona misura ignari di chi fossero i protagonisti di Mani pulite, non subiscano di quella stagione i miasmi politici e il cinismo antistituzionale. La ricerca di valori condivisi è mera retorica se non si superano garantismo peloso e giustizialismo giacobino, se non si esce da uno schema binario (con noi o contro di noi) recuperando il senso delle posizioni dialoganti. È difficile immaginare scorciatoie. Tuttavia, un personaggio pubblico in grado di migliorare di molto il clima sarebbe ancora in campo. 

Per paradossale che appaia, si tratta proprio di Berlusconi: il quale, senza abiure né confessioni, certo, ma solo dismettendo con un gesto, una frase, un messaggio, i panni da perseguitato della giustizia nei quali si è blindato (anche) per ragioni difensive, potrebbe aprire una nuova stagione smontando i miti fasulli della precedente. Tutto contraddice quest’ipotesi fantapolitica: rancori cristallizzati, diffidenze reciproche, la divisione in due del Paese tra berlusconiani e antiberlusconiani. Tutto, tranne il senso di una missione perfino più appassionante del miraggio del Colle: aiutare gli italiani di domani a entrare nel futuro senza inutili fardelli. 

"Noi cronisti di Mani Pulite eravamo supereroi del nostro fumetto". Chiacchierata con Goffredo Buccini, autore de "Il tempo delle mani pulite" (Laterza). Sui pm: "L'autonomia va garantita ma col pool ci fu abuso industriale degli arresti". Su Craxi e Di Pietro: "Il 1992 ha illuso una generazione e prodotto il grillismo". Stefano Baldolini su huffingtonpost.it il 22/10/2021.  “Noi cronisti di Mani Pulite eravamo supereroi del nostro fumetto”. Non ha mezzi termini Goffredo Buccini, inviato speciale ed editorialista del Corriere della Sera, nel suo “Il tempo delle mani pulite” (Laterza), libro di ricostruzioni, di memoria e di forte autocritica. Testimone dei fatti del 1992-1994, dall’escalation “industriale” degli arresti all’avviso di garanzia all’“uomo nuovo” Berlusconi. Un biennio drammatico che ha lasciato eredità complesse e non ancora risolte. 

Domanda di prammatica: perché è nata Mani Pulite?

“Per una serie di concause, anche internazionali. Dopo la caduta del muro di Berlino gli italiani avevano ripreso a votare liberamente senza ‘doversi turare il naso’, per citare Montanelli. Ma soprattutto perché i soldi erano finiti. Questo è un punto dirimente. I soldi erano il centro dell’accordo fondamentale tra impresa e politica che prevedeva da una parte il finanziamento illecito e dall’altra l’accesso agevolato agli appalti. Era un intero sistema ammalato che a un certo punto si è spezzato, in un momento di grande debolezza della politica. E questo ha fatto sì che la magistratura fosse chiamata a esercitare un ruolo di supplenza che in una città viva ed eticamente reattiva come Milano è diventata l’inchiesta Mani Pulite.”

Quindi il sistema non si è ammalato con Mani Pulite?

“Certamente no. Lo era da un pezzo e produceva consenso politico. Non è un caso che negli anni ’80 abbiamo avuto l’impennata del debito pubblico. Il sistema comprava consenso pompando debito. Comprava il nostro consenso a nostre spese. Dalla fine degli anni ’70 è andato via via avvitandosi su se stesso.”

Mani Pulite inizia il 18 febbraio 1992 con l’arresto dell’ingegner Mario Chiesa. Ma in realtà il presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano non parla per cinque settimane. Poi arriva la parola chiave -“mariuolo” - pronunciata da Bettino Craxi. 

“La vulgata vuole che Chiesa si sia sentito schiaffeggiato da Craxi in pubblico. In realtà penso che l’interpretazione più corretta sia che in quel preciso momento Chiesa percepì il senso di debolezza del leader socialista. Dobbiamo confrontare questa situazione con l’arresto negli anni ’80 di Antonio Natali, presidente della Metropolitana milanese, snodo della circolazione delle tangenti. E soprattutto padre politico di Craxi, che lo andò a trovare in carcere da presidente del Consiglio. Poi lo fece senatore, e l’autorizzazione a procedere venne negata. Fu una manifestazione di forza del sistema straordinaria. Chiesa invece, che non è scemo, capisce che è stato lasciato solo, ha grandi problemi, anche personali, da risolvere e a quel punto comincia a parlare.”

E la slavina ha inizio. Nell’aprile successivo vengono arrestati otto imprenditori. Però a differenza di Chiesa che venne preso, citando Antonio Di Pietro, “con le mani nella marmellata”, i colletti bianchi milanesi non erano in ‘flagranza di reato’. È corretto dire che quello è stato il primo cambio di fase?

“Sì, ed è un cambio di fase clamoroso. L’idea di arrestare degli imprenditori, a Milano, non in flagranza di reato è un salto decisivo. Anche perché deriva sostanzialmente dalle confessioni di Chiesa e quindi apre un meccanismo esponenziale che nel giro di qualche settimana porterà alla grande serie di arresti veri e solo minacciati e alla grande fila di confessioni davanti alla porta di Di Pietro. Ognuno di quegli otto parla di altri otto. In una gigantesca catena di Sant’Antonio, e non è una facile battuta. Non era mai successo.” 

Ma perché si era creata la corsa a confessare?

“Bisogna essere onesti, la paura di essere arrestati è molto forte. E non stiamo parlando di persone della mala milanese, ma di borghesi abituati a una certa rispettabilità, che viene compromessa. Questa cosa peraltro si riverbererà nei suicidi degli indagati. Dopo di che, da un certo punto in poi c’è una sorta di condizionamento ambientale, di una grande bolla dentro cui tutti ci troviamo. Opinione pubblica, indagati, magistrati, giornalisti. È brutto dirlo, ma come in un rito catartico collettivo.

Poi un ruolo decisivo l’hanno giocato i cosiddetti avvocati “accompagnatori” degli indagati alla stanza 254 di Di Pietro, anticipando le istanze dello stesso pm. Lo racconta bene Gherardo Colombo che parla di fila di questi “penitenti” e del problema per il pool di Mani Pulite, siamo nell’estate ’92, di star dietro a questa messe di confessioni, ammissioni, chiamate di correo...”

Il pool si è già formato?

“Il pool nasce verso maggio-giugno per affiancare a Di Pietro, lui stesso non si è mai ritenuto un giurista raffinato, due magistrati di maggiore spessore dal punto di vista giuridico, strutturatissimi, di orientamento politico opposto, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Com’è noto, a coordinare il nucleo storico c’era il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, e l’esperto di reati finanziari, Francesco Greco.”

Un gruppo composito.

“Borrelli era una grande alchimista, grande conoscitore dei suoi pm e dell’animo umano. Bisogna tener conto però che all’inizio a parte Di Pietro nessuno ci credeva, a questa inchiesta. Ed è una delle ragioni per cui i giornalisti che la seguono sono le seconda file della giudiziaria e della cronaca, non le grandi firme. Non ci credeva nemmeno Borrelli che caricava Di Pietro di ‘processetti’. E una delle ragioni per cui lo stesso Di Pietro comincia ad avere relazioni con noi giornalisti è per avere un rapporto strumentale a suo favore.”

Addirittura.

“L’uomo è molto sveglio. Fa uscire piccoli brandelli di notizie, per spaventare questo o quell’indagato, ma soprattutto per mantenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica. E il suo obiettivo era tenere alta l’attenzione per tutto il tempo necessario per produrre effetti ulteriori. Fino alla grande svolta mediatica che arriva il primo maggio ’92 con il sindaco e l’ex sindaco di Milano, Tognoli e Pillitteri, indagati. Quando si capisce per la prima volta dove si stava andando a parare.”

“Solo chi confessa spezza il vincolo associativo: non può delinquere, quindi può uscire di galera”. Il metodo del ‘dottor sottile’ Davigo è efficace. 

“Intendiamoci su Davigo che nonostante si sia perso nelle sue reiterate iperboli per ‘épater le bourgeois’, da piccolo borghese lombardo che ama stupire, ha una fortissima cultura giuridica. Tuttavia, quel metodo era odioso e oggi provocherebbe reazioni molto forti. Ma non era un metodo illegale, com’è stato ampiamente riconosciuto, concorrendo nel manager o nel politico le note ragioni per cui puoi arrestarlo: il pericolo inquinamento prove, di reiterazione di reato e pericolo di fuga. Il problema semmai è l’abuso, è l’uso industriale. Ma questo diventa possibile proprio in virtù della debolezza della politica, del sistema, che non fu in grado di reagire in modo credibile e anzi si divise, e iniziò a scappare da tutte le parti. Anche con una certa miopia, e qui arrivo al discorso di Craxi del luglio del ’92. Alla chiamata di correità, a cui si reagisce o col silenzio o pensando di trarne vantaggio, senza capire che stava saltando tutto.” 

Per parlare di responsabilità, però neanche voi giornalisti che raccontavate Tangentopoli dagli albori avete colto che qualcosa non andava. Che c’erano delle storture, a partire dal metodo, dallì‘abuso ‘industriale’ degli arresti?

“Detto con una battuta, perché in parte su di noi aveva ragione Berlusconi.”

In che senso?

“Quando si è lamentato che i giornalisti sono tutti comunisti, ci è andato vicino. È indubbio che la mia generazione si è formata a sinistra. Il gruppo di ragazzini che seguivamo i fatti di Palazzo di Giustizia di Milano, tutti tra i 28 e i 32-33 anni, a parte rare eccezioni, era fortemente orientato a sinistra. Cresciuto in ambienti politici, universitari, liceali, di sinistra. Un grande brodo di coltura dove più o meno si pensava che Craxi fosse un manigoldo, Ligresti fosse un imprenditore della Piovra, che gli andreottiani fossero tutti marci. Così quando ti trovi a seguire un’inchiesta che ti racconta esattamente questo, tu pensi ‘hai visto, hai trovato la verità, non c’è altra verità da cercare’. Nel libro uso l’espressione: ‘Eravamo gli eroi del nostro stesso fumetto’.”

Sintesi notevole.

“Allora, io ho sempre pensato che uno che ha vent’anni e vuole fare il giornalista e non vuole cambiare il mondo, a cinquanta fa una brutta fine, perché è un mascalzone. A vent’anni devi avere dei sogni, delle utopie. Il problema è che quando ti sembra si stiano realizzando, devi essere pronto anche a guardare altrove. A non accontentarti di dire ‘è fatta’. Almeno questo è stato il mio sbaglio, la mia responsabilità. Poi ognuno si assuma le proprie.”

Quindi è stato un errore di visione politica?

“Direi di visione culturale. Eviterei di associare l’idea del Minculpop rosso al nostro pool. Che peraltro durò un anno e che nacque per le stessa esigenze del pool di Borrelli. Noi avevamo dieci arresti e venti avvisi di garanzia al giorno. Non aveva senso farsi concorrenza tra testate, anzi il tuo unico problema era verificare che fossero tutte vere, non polpette avvelenate, che pure giravano, perché erano in molti a voler inquinare l’inchiesta. Tant’è che il pool dei giornalisti è finito, si è spaccato, quando è entrato in ballo il Pds e la Fininvest, le grandi questioni divisive, e quando le notizie sono diventate di meno. Quando la spinta di Mani Pulite iniziò ad affievolirsi e il consenso generale scemare perché - come racconta Gherardo Colombo - dagli intoccabili si iniziava a scender per li rami, a sfiorare la gente comune.” 

Quanti eravate prima di dividervi?

“Una decina, e non abbiamo guardato in tutte le direzioni perché quella direzione corrispondeva a una nostra formazione culturale. Errore gravissimo. Sto dicendo che altrimenti avremmo scoperto una Spectre dietro Mani Pulite? No, perché non lo penso nemmeno oggi. Ma avremmo scoperto che gli eroi non sono tutti giovani e forti ma sono anche dei personaggi con una vita con dei compromessi. Avremmo potuto tingere di chiaroscuro il nostro quadro per permettere ai lettori di averne uno più vero. E in secondo luogo avremmo dovuto avere più attenzione ai diritti individuali. Dietro a ognuno di quegli indagati c’era una persona, e io, parlo per me ovviamente, questo non lo coglievo molto chiaramente.”

Un’autocritica forte.

“Assolutamente. Per dire, il primo indagato che ho visto come persona è stato Sergio Cusani. Di Sergio Moroni, ho scritto due righe quando è stato indagato e l’ho ritrovato a settembre quando si è suicidato. Non l’ho mai visto. Ma il punto era proprio quello. Quando tu scrivi della gente dovresti guardarla in faccia. Non era semplicissimo allora ma avremmo dovuto farlo. Quando ho guardato in faccia Cusani ho visto una persona estremamente più complessa, comprensibile e persino giustificabile, rispetto a quello che era stato tratteggiato semplicisticamente come ‘il Marchesino rosso’ dal chiacchiericcio della procura.” 

Se ho capito bene si è trattato di una fase molto disumanizzante.

“Non c’è dubbio e questa è una responsabilità che ci portiamo dietro. Certo, abbiamo attenuanti, bisognava starci per capire quanto il contesto fosse complicato per mantenere la barra dritta.”

Traspare un po’ di senso di colpa.

“Il senso di colpa è una categoria che non mi piace mettere dentro un dibattito pubblico. Eventualmente faccio i conti con me stesso. Sicuramente, dopo i primi suicidi avremmo dovuto lavorare diversamente. La lettera di Moroni - premesso che tutte le accuse a suo carico saranno confermate e i coimputati tutti condannati - ha una forza che viene colta dall’opinione pubblica, dai giornali, ma archiviata troppo in fretta. Avrebbe dovuto accompagnarci nel lavoro dei mesi successivi, invece fummo subito presi dalla rincorsa ‘alla prossima cosa’. Al vero bersaglio di quella stagione, il ‘toro’, Bettino Craxi. Il cui avviso di garanzia arrivò dopo tre mesi. Inoltre c’era una retorica odiosa, autoassolutoria e un po’ ipocrita, per cui la colpa dei suicidi era del sistema a cui apparteneva il suicida. Sicuramente abbiamo fatto, e ho fatto, errori importanti.”

Non per discolparti, e prendendo spunto dallo straordinario spaccato del giornalismo italiano di quegli anni che si trova nel libro, c’è da dire che le responsabilità non erano solo di chi come te stava in procura, o per strada, ma anche dei vostri superiori...

“Non c’è dubbio. Ma i giornalisti italiani, capiredattori, direttori... non erano scesi da Marte, ma appunto erano italiani e stavano in un Paese dove la selezione, le scelte erano fortemente condizionati. Si sono mescolati il senso di appartenenza, che poi diventava colpa, a senso di opportunismo. Non c’è bisogno di citare Flaiano per parlare degli italiani, della capacità di passare dalla parte dei vincenti.”

Come vincente fu l’irruzione di Berlusconi, nel momento più duro per il ‘toro’ ferito Craxi.

“Questo è il paradosso di tutta la storia. Berlusconi era un uomo con i colori della Prima Repubblica eppure viene percepito come nuovo. Gli stessi italiani che, nel giorno dei funerali per le vittime della bomba di via Palestro, inneggiano a Borrelli, Di Pietro e co., una sorta di corteo spontaneo e forcaiolo, sono gli stessi che neanche un anno dopo plebiscitano l’imprenditore più assistito dal sistema della Prima Repubblica. Questo è un popolo che cerca sempre una palingenesi ma non si guarda mai dentro. E non è un gran popolo.”

Non salvi né Craxi né Di Pietro. 

“Perché ciascuno dei due ha compiuto mosse che hanno condizionato gli italiani nel non credere ulteriormente nell’Italia. E non parlo delle vicende strettamente giudiziarie. Ma se un uomo di Stato a fronte di due condanne definitive comminate da sei collegi di magistrati se ne va all’estero, cosa sta dicendo agli italiani? Che non si può credere al Paese che pur si ama.

Prendiamo poi Di Pietro, che esce dalla magistratura in modo ambiguo e inspiegabile, e due anni dopo aver interrogato duramente Prodi come testimone diventa suo ministro. Per non parlare della candidatura al Mugello sostenuta dallo stesso Pds che la vulgata dice essere stato graziato dalle sue inchieste. Il combinato disposto delle due cose produce il messaggio che non si può credere alla magistratura. Se il moralizzatore passa alla politica che non è riuscito a moralizzare, non c’è nulla di vero. L’esito finale di queste due vicende personali è, molti anni, dopo il grillismo, l’onda selvaggia, la fine della credibilità delle istituzioni. Tu deludi e uccidi i sogni di un’intera generazione, i ragazzi degli anni ’90.” 

Siamo arrivati alla ‘rivoluzione interrotta’.

“Sì, anche se non penso affatto che quella fosse una rivoluzione. I Paesi non cambiano così. La scelta giusta, di medio e lungo periodo, l’ha fatta invece Gherardo Colombo, che ha lasciato la magistratura e ha iniziato a insegnare. Con l’idea che si debba ripartire non dai processi, ma dalla formazione di una classe dirigente, di una cittadinanza. La via giudiziaria non è risolutiva.” 

Concludendo, in occasione del trentennale di Mani Pulite, anche grazie al tuo libro, non c’è un rischio revisionismo? Senza parlare di criminalizzazione dei magistrati, che comunque ce la stanno mettendo tutta per perdere di consenso, non si corre il pericolo opposto, che non debba salvarsi proprio nulla del ’92? 

“Assolutamente. Di quel periodo va invece salvata la spinta di molta gente in perfetta buona fede. Va salvata in parte l’autonomia della magistratura, da rivedere ma non da cancellare completamente col rischio di uno scenario ungherese o polacco, di asservimento all’esecutivo. È stata una stagione di grande speranza, che non va buttata via. Però dopo trent’anni credo che se ne possa parlare diversamente, abbandonando i radicalismi, senza vedere l’altra parte necessariamente come un nemico. Basta con la storia della ‘rivoluzione’ contro i ‘manigoldi’. Troviamo una medietà e una compostezza che dobbiamo anche ai nostri figli. Ecco, io vorrei poter parlare con i ragazzi dell’età di mia figlia di quella storia, e del nostro mestiere. Perché quella è stata anche la storia del nostro mestiere. E di come questo si possa fare con più autonomia, con più coraggio, e forse con più attenzione.”

Mani Pulite? Ha fatto meno errori di quelli che vede Buccini. Tano Grasso su L'Espresso il 4 dicembre 2021. Goffredo Buccini, "Il tempo delle mani pulite. 1992-94", Laterza, euro 18. Avevo appena finito di scrivere la recensione del libro dell’inviato del Corriere della Sera Goffredo Buccini che racconta i due anni di “Mani pulite”, dall’arresto di Mario Chiesa alle dimissioni dalla magistratura di Antonio Di Pietro, quando sono stato costretto a rivederla dopo che era apparso sul Corriere un editoriale dello stesso Buccini con il titolo “Trent’anni dopo ‘Mani pulite’: è tempo che la guerra finisca” (20.11.21). Lo si interpreti come un lungo post scriptum o un capitolo-bis di quello conclusivo del libro (“Trent’anni dopo”), l’articolo affronta problemi con un’accentuazione che non si era percepita nelle 232 pagine del libro. 

Nell’articolo Buccini interviene con più nettezza rispetto alla conclusione del libro dove auspica «la riconciliazione e il riconoscimento reciproco» come condizione per superare il «moto pendolare inesausto tra un giustizialismo fazioso e un garantismo peloso» (p. 231). Il problema è, prima ancora, intendersi su questa “guerra dei Trent’anni”, sui suoi protagonisti e se e in che modo è stata combattuta. È innegabile l’esistenza di quelle due correnti in settori di opinione pubblica, ma la loro dimensione varia nel tempo, a  volte si estende a beneficio dell’una e si restringe in danno dall’altra e viceversa.

Probabilmente continueranno a permeare il dibattito pubblico: per fare un esempio, il populismo ha sempre attraversato un pezzo di storia politica, per molto tempo è stato marginale, qualche volta è stato al Governo. La soluzione non si trova tra giacobini e garantisti.  La palla è nelle mani di chi non ha condiviso quei due miti o ha iniziato ad allontanarsene, un’area trasversale che deve essere ulteriormente estesa e, soprattutto, deve trovare voce autorevole per propugnare una normalità fondata sulla difesa dell’indipendenza e dell’autonomia dei giudici. Prima ciò avviene, prima andranno incontro ad un destino residuale.

Quindi, quando si parla di “guerra” è indispensabile distinguere lo scontro tra correnti d’opinione dall’aggressione di una parte politica contro la magistratura. Si tratta di grandezze tra loro incommensurabili. Bene ha fatto Buccini in tutte le pagine del suo libro a raccontare una storia che non ha avuto nulla di golpe giudiziario. Esiste un problema tra magistratura e politica e di tutela di un equilibrio istituzionale? Bene, si discuta di questo; ma non di una guerra che una parte politica (Berlusconi e dintorni) ha sferrato all’indipendenza della magistratura, una guerra dichiarata unilateralmente.

Vero è che negli ultimi anni si sono sommati errori, eccessi, degenerazioni all’interno di settori della magistratura italiana, ma questo non giustifica il riferimento ad una guerra combattuta tra due parti contrapposte. Né tanto meno la questione si può risolvere con un beau geste di Berlusconi. Altro serve, altri devono agire. Infine, temo che la tesi di una guerra a cui porre termine possa diventare un’idea consolatoria, idonea ad offrire nuovi alibi, rimandando tutto al punto di partenza in un disperato e ripetitivo gioco dell’oca.

Buccini offre varie possibilità di lettura del libro (come sottotitolo potrebbe avere “Col senno di poi”, un’espressione usata dall’autore in più luoghi). Spiega Primo Levi: «I fatti storici acquistano il loro chiaroscuro e la loro prospettiva solo a qualche decennio dalla loro conclusione». Può essere svolta una rigorosa valutazione storica su fatti e persone di 30 anni fa senza per questo mettere in discussione il valore di quella esperienza? Decisivo è non perdere il senso della storia: il senno di poi non può significare guardare con gli occhi di oggi, ma con il rispetto di quel contesto e di quel momento. Ciò non esclude di interrogarci sulla possibilità, per diversi attori (politica, magistratura, informazione), di alternative credibili. Erano possibili altre scelte? A partire dalla politica.

In questi anni è prevalsa una vulgata secondo cui le indagini dei giudici di Milano hanno determinato la fine della prima Repubblica. Non è così: la Repubblica dei partiti è deceduta per suicidio. Mani pulite è stata semplicemente la goccia che ha fatto traboccare il vaso di un sistema già da tempo agonizzante, come ha dimostrato la totale assenza di lucidità politica dei partiti negli anni 1992-93, sia nell’interpretazione degli avvenimenti che nella loro gestione: era come vedere pugili suonati in attesa della spugna sul ring.

Questa disfunzione ha continuato a caratterizzare in buona parte la vita politica negli anni successivi come se una forza oscura impedisse alla Seconda repubblica di crescere ed affermarsi. Buccini offre due importanti sollecitazioni. In primo luogo, emerge l’assenza cronica del principio di responsabilità politica, l’incapacità di esercitare una autovalutazione sui comportamenti dei propri dirigenti indipendentemente dagli esiti dell’azione penale. Una abnormità che continua a permanere ancora oggi nella vita delle organizzazioni politiche costituendo un gravissimo vulnus alla loro autorevolezza.

Quando Borrelli alla vigilia di Natale del 1993 a pochi mesi dalle elezioni politiche invita «chi farà politica domani», «chi sa di avere scheletri nell’armadio, vergogne del passato, apra l’armadio e si tiri da parte» (p.1 39), di fatto, pone la necessità di ricondurre l’azione penale alla sua fisiologica funzione e, dall’altro, sollecita i partiti a riappropriarsi del principio di responsabilità.

Naturalmente le esortazioni non sortiscono alcun effetto e, così, la storia continua a girare a vuoto. Se si consegna ai pubblici ministeri la selezione della propria classe dirigente ogni procedimento penale è destinato a diventare terreno di scontro politico. È da qui che nasce la stagione del populismo giudiziario, l’attribuzione di una funzione diversa dalla giurisdizione ai magistrati in quanto tali, chiamati ad assumere il ruolo di interprete delle reali esigenze di giustizia del popolo e a cercarne il consenso. Tutto è regolato dalla proporzionalità inversa: meno credibile e certa è l’assunzione di responsabilità politica, maggiore sarà la forza della delega alla magistratura. Il principio della responsabilità politica è la principale premessa per il recupero dell’autonomia della politica e, quindi, della sua autorevolezza, con conseguente ridefinizione del ruolo della magistratura secondo la sua funzione originaria.

Nel commentare l’esibizione di un cappio alla Camera dei deputati nella seduta del 16 marzo 1993, scrive Buccini: «La rivoluzione giudiziaria non sembra andare esattamente nel senso di un allargamento dell’area democratica del Paese» (p. 92). Ecco la seconda sollecitazione del libro. Solo la politica contro altra politica può determinare cambiamenti duraturi e non effimeri. Si è assistito in quel biennio a una situazione paradossale: tanto l’opposizione di destra che l’opposizione di sinistra, anche se questa con esitazioni e non sempre con compattezza, si sono trovati a cavalcare l’onda delle indagini milanesi, nel frattempo estese ad altre regioni (quasi in ogni procura italiana emerge un “dipietro”). Con un’inesorabile nemesi storica.

Tre decenni di storia politica hanno dimostrato che l’unico esito politico possibile della “rivoluzione giudiziaria” è il populismo politico e gli unici beneficiari, non a caso, sono stati la Lega, in quella fase politica, e il Movimento 5 Stelle negli ultimi anni. La Lega non ha tenuto conto che quella rivoluzione giudiziaria, prima o poi, sarebbe scesa dai gradini più alti per raggiungere quei settori, le cosiddette partite Iva, la cui ricchezza si fonda su margini, più o meno ampi,  di illegalità, a partire dall’evasione fiscale.

Buccini fa parlare Gherardo Colombo: «All’inizio delle indagini, le prove coinvolgono persone molto in alto, con cui quasi nessuno si può identificare […] Via via che l’inchiesta prosegue, però, le prove ci portano a scoprire la corruzione di persone comuni […] La disponibilità si trasforma in chiusura e i canali di afflusso delle prove progressivamente si inaridiscono» (p. 155). Per la sinistra il discorso è diverso: la lotta politica per via giudiziaria, estranea alla sua tradizione, si ritorce come un boomerang con il successo di Berlusconi alle elezioni del 1994; per poi ritorcersi anche contro il tycoon che con le sue televisioni aveva esaltato quei due anni di indagini. Già in questa fase inizia ad avverarsi la profezia di Sergio Cusani: «Il Paese dopo Tangentopoli potrebbe essere assai peggio di quello che c’era prima» (p. 130).

Veniamo alla magistratura. Le indagini da subito rendono evidente che non si tratta solo di finanziamento illecito dei partiti, secondo la tesi craxiana. Le imprese «pagando quei soldi truccavano a loro vantaggio le gare d’appalto e facevano fuori la concorrenza in modo sleale» (p. 90). Rispetto ai politici e ai giornalisti l’ambito per scelte alternative da parte dei magistrati nell’esercizio dell’azione penale è particolarmente ristretto: da un lato questa è disciplinata da norme precise, dall’altro ogni atto è sottoposto alla verifica dei meccanismi di controllo interni sino alle sentenze delle varie corti.

Se sul merito delle indagini, pur di fronte agli inevitabili errori e a certe forzature, si può tenere un giudizio moderatamente critico, le cose cambiano quando ci si riferisce all’approvazione popolare, un discorso che, scrive Buccini, «ha un retrogusto inquietante» (p. 128). È quello che avviene con il decreto Conso e quello Biondi. Nel 1993 Borrelli legge un comunicato per denunciare «la paralisi delle indagini» e la fine «di qualunque forma di collaborazione» (p. 92); l’anno successivo sono i quattro pubblici ministeri del pool a presentarsi davanti alle telecamere per accusare con la voce di Di Pietro quel provvedimento che «non consente più di investigare efficacemente i delitti su cui abbiamo finora investigato» (p. 177).

Oggi, di fronte a interventi di questo tipo, si avrebbe una quasi corale reazione di rigetto, nel mondo politico e nell’informazione; ma oggi quanto accaduto con il decreto Biondi non potrebbe accadere, anche perché il prestigio di cui gode l’ordine giudiziario non è per nulla paragonabile a quello di quegli anni. E nel 1993 e nel 1994? Nel primo caso, a parte alcuni esponenti dell’ex pentapartito, pochi sono quelli che mettono in discussione l’intervento del pool; nel 1994, in una situazione completamente diversa per il successo elettorale di Berlusconi, sull’iniziativa del pool si divide la nuova maggioranza costringendo il Governo ad un passo indietro.

La parte più interessante e originale del libro è quella con il diretto coinvolgimento personale dell’autore quando esamina il ruolo dell’informazione. Ed è come assistere ad una seduta di autocoscienza (e, ovviamente, anche di autocritica).  Intanto si apprende che il “pool dei giornalisti  ragazzini” che seguono le vicende di Mario Chiesa sono divenuti organo di polizia giudiziaria: «Le prime fughe di notizie pilotate seguono insomma questa doppia strategia: spaventare il detenuto che continua a tacere e fomentare l’opinione pubblica o, almeno, cercare di tenerla desta» (p. 19).

A proposito della tragedia di Sergio Moroni, il deputato socialista indagato e suicida, Buccini descrive bene il clima e i sentimenti prevalenti in una parte del mondo dell’informazione: «Dovremmo fermarci? Smettere di sparare ogni nome sul giornale? Impossibile mi dico […] Forse dovremmo fermarci a pensare, dovrei, forse dovremmo staccare, stoppare la macchina, discutere qualche giorno […] Ma il giorno dopo l’inchiesta ricomincia, altri arresti, altri avvisi, altri blocchi da cinquanta o sessanta nomi, sta cambiando il mondo, forse lo stiamo cambiando anche noi, sotto a chi tocca» (p. 67).

E, ancora, altri interrogativi a proposito dell’avviso di garanzia a Craxi, “il Cinghialone”: «Dovremmo chiederci se sia normale che un’inchiesta abbia un bersaglio, peraltro marchiato con un nomignolo così feroce. O se sia opportuno che i cronisti che la seguono vi partecipino con tanta foga da considerare un successo l’atto di accusa contro un indagato» (p. 74).

Quando poi maldestramente viene messo in discussione Di Pietro, Buccini è ancora più netto con la sua professione: «Abbiamo perso qualcosa di essenziale della nostra funzione, guardando troppo spesso in una sola direzione e non consentendo a tanti lettori moderati e non militanti di formarsi un’opinione davvero indipendente» (p. 127).

Tutte riflessioni che meritano di essere seriamente valutate ancora oggi: il potere dei media è immenso, incide sull’onore e la dignità delle persone, è un grande potere («Se il titolo è grande la notizia diventa subito importante», spiega seccamente il signor Kane in “Quarto potere”) che richiede grande responsabilità nel praticarlo. E, soprattutto, deve essere indipendente dagli altri poteri se vuole esercitare bene il proprio, offrendo, quando occorre, anche una valutazione critica sugli atti giudiziari.

“Una notte di luglio a Milano”, sicuramente il capitolo più bello e più coinvolgente del libro (la strage del 27 luglio 1993 in via Palestro a Milano), aiuta a capire cosa fosse diventata l’Italia in quegli anni: «Lo sbandamento è generale», scrive Buccini. «Forse il luglio ’93 è il mese più buio della Prima Repubblica, forse siamo già nella cosiddetta Seconda, noi non ce ne siamo accorti ancora ma i criminali sì e ci hanno anticipato» (p. 111). Anni terribili quelli, da Capaci a via d’Amelio, a Firenze, Roma, Milano e ognuno di noi da quegli eventi è stato indelebilmente segnato.

Mani pulite è una pagina positiva scritta da una magistratura finalmente indipendente: viene abbattuto il tabù dell’impunità dei colletti bianchi; politici, imprenditori, professionisti, funzionari rispondono davanti alla legge. Indubbiamente vi sono stati errori e forzature, ma non tali da alterare il giudizio d’insieme (neanche su Di Pietro: l’analisi del personaggio delineata dall’autore non mi ha convinto).

Nel tempo, e c’è ne è stato tanto, a quegli errori si sarebbe dovuto porre rimedio. Anche se non ho condiviso alcune affermazioni di Buccini, mi trovo d’accordo quando afferma che bisogna «smettere di chiedere ai magistrati di supplire alle nostre carenze, invocandone l’intervento salvifico dove non siamo capaci di riformarci come corpo sociale e politico, per poi dolerci delle loro invasioni di campo» (p. 231).

E ritorniamo alla politica: da un lato ha continuato a vivere con soggezione e subalternità il rapporto con la magistratura (una parte importante della sinistra) e, da un altro lato, si è scatenata in brutali campagne di delegittimazione e di attacco frontale all’indipendenza dei giudici offrendo quelle nefaste leggi ad personam (Berlusconi e dintorni). Tuttavia, neanche la magistratura ha dimostrato la capacità di porre rimedio a quegli errori, sino alle degenerazioni a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Ma sarebbe una grave mistificazione della Storia far risalire il “sistema” emerso con il caso Palamara all’esperienza positiva di Mani pulite.

"Il Tempo delle Mani pulite". La storia la scrissero i magistrati segnando la morte della politica. Francesco Storace su Il Tempo il 12 dicembre 2021. Un libro che riavvolge il nastro sulla politica italiana. Come eravamo, potremmo dire leggendo tutte le pagina de “Il Tempo delle mani pulite”, scritte da Goffredo Buccini – penna brillante del Corriere della Sera – edito da Laterza. Buccini è uno dei protagonisti di una storia trentennale: fu sua la notizia – diventata storia – che nel ’94 informò gli italiani dalla prima del Corrierone dell’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi. Era appena diventato premier, presiedeva un’importante riunione internazionale contro il crimine. I magistrati di Milano non lo perdonarono.

Per quanto tempo sei stato orgoglioso di aver dato per primo notizia di quell’avviso di garanzia a Berlusconi?

“Orgoglio non è la parola giusta. Pensavo di star facendo il mio mestiere e ancora penso di averlo fatto. Allora ero un cronista e il lavoro di un cronista è trovare notizie: quella era una signora notizia e, una volta accertato che fosse vera, andava data, senza se e senza ma. Naturalmente si poteva e si può discutere (e molto si è discusso) sull’opportunità che la Procura mandasse un invito a comparire a Berlusconi nei giorni di un vertice mondiale sulla criminalità che proprio Berlusconi presiedeva quale premier italiano. La Procura ha sempre sostenuto che la scelta di tempo fosse obbligata dall’indagine. Io ho sempre pensato che la scelta di tempo fosse infelice.”  

E immaginavi che sarebbe accaduto il finimondo?

“Certo che sì. Ed ero anche molto preoccupato. Nel libro racconto anche di quelle ore, dell’ansia, della notte insonne prima che la notizia fosse confermata. Eravamo certi di ciò che pubblicavamo sul Corriere della Sera, ma in un caso così delicato la certezza non è mai abbastanza. Poi ho impiegato anni per togliermi di dosso lo stigma di quella notizia. Ci sono notizie che possono schiacciare un giovane giornalista: e io ero giovane”. 

Quanto ha influito il giornalismo di mani pulite nell’azione dei giudici?

“Certamente l’azione di sostegno che il giornalismo fece in quegli anni è stata molto importante nella creazione di una certa mitologia sull’indagine e sugli inquirenti. Ed è stata anche responsabile di omissioni. Nel libro spiego chiaramente che avremmo dovuto guardare di più e meglio la vicenda e i suoi protagonisti. Eravamo, noi cronisti, giovani e quasi tutti formati a sinistra da ragazzi. Dunque, con un’idea precisa e preconcetta di verità riguardo alla moralità di certi socialisti autonomisti “traditori” della causa, a quella di certi imprenditori che parevano la caricatura della Piovra. Se per strada incontri un’inchiesta che ti dimostra proprio quelle cose, ti convinci che la verità sia tutta lì e non ci sia bisogno di guardarla da altre angolazioni. Sbagliato. E te lo spiego con un esempio. Sergio Moroni, il deputato socialista che si uccise a settembre 1992 dopo un avviso di garanzia, era colpevole, sì, di finanziamento illecito (lui stesso lo ammetteva nella lettera d’addio): ma non era un ladro, non s’era mai messo in tasca un soldo; la verità è una ma ci sono molti modi per spiegarla. Mettere tutti nello stesso calderone è stato uno sbaglio”.     

La politica è cambiata o è rimasta la stessa?

“La politica è morta. Le culture politiche non si sono mai riprese da allora. Trent’anni dopo il sistema è ancora in grave fibrillazione e in piena transizione, non è chiaro verso dove. Va però detto che la politica aveva fatto harakiri. La storia del golpe giudiziario è una balla. Durante tutti gli anni Ottanta i partiti avevano comprato consenso in cambio di debito pubblico e finanziamenti illegali in cambio di appalti truccati. Quando la crisi economica fa scarseggiare i soldi, salta il patto con gli imprenditori. Mani pulite nasce così, altro che golpe”.

Craxi, Berlusconi: trent’anni dopo li rileggi con lo stesso giudizio di allora?

“Craxi è luci e ombre. Ha avuto grandi intuizioni e grandi colpe: l’errore principale è che sei uno statista (e lui lo era) non puoi restare in latitanza con due condanne definitive addosso, stai dicendo agli italiani che dell’Italia non ci si può fidare. Al netto della vicenda giudiziaria, Berlusconi è ancora oggi parte della questione. Trent’anni dopo il Paese continua a dividersi tra berlusconiani e antiberlusconiani. È ora di smetterla e lui dovrebbe fare un passo verso la pacificazione: è l’unico che può farlo oggi tra i protagonisti di allora”.   

Perché la sinistra fu salvata?

“Intanto il Pds milanese fu investito pesantemente dall’inchiesta. Quanto al livello nazionale, penso che abbia fatto molta differenza lo schermo delle cooperative: quelli erano comunisti, non parlavano al primo tintinnio di manette, Greganti lo dimostra. E comunque il Pds fu miope, perché nessuno si è salvato. Una simile frana ammazza tutta la politica, senza superstiti”. 

E la magistratura? Davvero siamo tutti colpevoli e se assolti l’abbiamo semplicemente fatta franca?

“Quella è una (infelice) iperbole di Davigo che molti citano in modo strumentale. Direi però che la magistratura ha seguito lo smottamento della politica. È diventata pura lotta per il potere, le sue correnti stanno disorientando l’opinione pubblica, creando sfiducia tra la gente. E questo è molto pericoloso in termini di tenuta sociale”.  

Vedere Piercamillo Davigo sotto indagine che effetto ti fa?

“Premetto che considero Davigo un servitore dello Stato. Perciò provo tristezza. Citerei Aznavour: il faut savoir, devi sapere quando alzarti dal tavolo con grazia. Lui non ci è riuscito a tempo debito e gli stanno mettendo in conto trent’anni, non merita una demonizzazione ad opera per lo più di carneadi. Eviterei di cercare un altro capro espiatorio nella storia”.

Ogni anno mille innocenti - lo dicono i processi con le sentenze - vengono assolti. Il tempo non sembra cambiare mai 

“Il tema è ancora tutto sul tavolo da trent’anni (anzi da prima, se pensi al caso Tortora), in attesa di una revisione complessiva. Però la politica è troppo debole per affrontarlo, ha paura della gente: quindi passa ancora da eccessi di giustizialismo feroce a forme di garantismo peloso, si invoca tolleranza zero ma solo contro chi non ci sta simpatico. Occorre equilibrio, una dote che nel panorama politico contemporaneo sembra quasi del tutto assente”.

Il cittadino comune che assiste allo spettacolo che rivoluzione deve ancora attendere?

“Il cittadino potrebbe imparare prima o poi a non delegare la rivoluzione a qualche mallevadore cui poi attribuire tutte le colpe dei fallimenti nell’arco di una stagione. Per ricondurre la magistratura nel suo alveo forse basterebbe smettere di invocarla quale supplente quando non riusciamo a riformarci per via politica per poi demonizzarla a causa delle sue invasioni di campo. Lo Stato siamo noi non è uno slogan, è un programma per un domani migliore”.

L'impossibile memoria condivisa su Mani Pulite. Fu l’ultimo Berlinguer che rese giustizialista il Pci: nacque così il partito delle procure. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 5 Dicembre 2021. Sulla vicenda di Mani Pulite il dibattito è sempre aperto e probabilmente non si chiuderà mai, malgrado gli appelli melensi ad una impossibile “memoria condivisa”: e poi “condivisa” fra chi? Fra chi ha fatto un autentico colpo di mano mediatico-giudiziario e chi lo ha subìto? Dopo un’autentica, anche se atipica guerra civile (gli avvisi di garanzia, gli arresti, i titoli dei giornali, i telegiornali, Samarcanda, gli editti in diretta del pool dei pm di Milano che sono stati il corrispettivo dei carri armati e dei paracadutisti per cui Curzio Malaparte potrebbe scrivere una nuova edizione del suo libro: Tecnica di un colpo di Stato) la memoria condivisa è impossibile, a meno che la storia non sia scritta solo dai vincitori. Ma su questo terreno invece i vinti si sono fatti sentire e continueranno a farlo. Gli ultimi significativi contributi sull’argomento sono costituiti da due saggi sul Foglio, uno di Luciano Violante (Casellario dei veleni che hanno intossicato la giustizia), l’altro di Paolo Cirino Pomicino (Le conversioni di Violante), da un libro assai vivace, con intenti giustificazionisti, di Goffredo Buccini (Il tempo delle Mani Pulite) e un altro di Pier Camillo Davigo, L’occasione mancata (ma la principale occasione mancata è costituita proprio dal libro di Davigo che invece di impegnarsi in una riflessione critica porta avanti, fra minacce e rinnovate condanne, una esaltazione di tutti gli atti del pool e dei suoi protagonisti ). I due saggi sul Foglio si pongono su piani totalmente diversi. Luciano Violante colloca il suo saggio in una dimensione che, per usare una espressione cara a Gramsci, è “fur ewig”, quasi che negli anni cruciali dal 1970 al 2000 egli sia stato uno studioso indipendente. Invece dagli anni ’70 agli anni ’90 Violante è stato uno dei fondatori del giustizialismo sostanziale, ha operato a monte del Parlamento nella costruzione di un rapporto profondo fra il Pci e alcune procure, e poi dalla presidenza della Commissione Antimafia ha contribuito ad elaborare testi assai importanti.

Invece Paolo Pomicino ha scritto il suo saggio con il cervello, con la memoria storica, e anche con la partecipazione di chi da un certo uso politico della giustizia è stato colpito in modo molto duro. Alla luce di tutto ciò Pomicino, nel suo saggio assai polemico, finisce con l’attribuire a Violante il ruolo di deus ex machina di tutto quello che è accaduto. Invece, a nostro avviso, se si vuole andare davvero al fondo della questione, bisogna fare i conti con la storia del Pci dal 1979 in poi. Se li facciamo vediamo che è “l’ultimo Berlinguer” ad essere alle origini di tutto, compresa l’involuzione giustizialista dal Pds. L’azione politica sviluppata dal gruppo dirigente che ha cambiato nome al Pci e ha fondato il Pds (Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino e, appunto, Violante) è in assoluta continuità con quel lascito berlingueriano. “L’ultimo Berlinguer” (descritto in modo magistrale in un saggio di Piero Craveri sulla rivista XXI secolo – marzo 2002) ha prodotto due guasti. In primo luogo ha accentuato, non ridotto, le divisioni verificatesi fra il Pci e il Psi dai tempi dell’invasione sovietica dell’Ungheria: certamente Togliatti era un sofisticato stalinista e anche dopo il XX Congresso lavorò per ricostruire su nuove basi il legame di ferro con l’Urss. Però Togliatti non fu mai un giustizialista (la sua scelta per l’amnistia ebbe un significato profondo) e dal 1944 al 1964 mantenne sempre ferma la scelta strategica fatta dall’Internazionale comunista nel VII Congresso (I fronti popolari, il rapporto preferenziale con i partiti socialisti, la linea gradualista in Europa) e quindi non regredì mai verso il settarismo del VI Congresso (1928) fondato appunto “sul socialfascismo”. In secondo luogo Berlinguer con la sua enfatizzazione della questione morale e con la sua damnatio degli “altri partiti” (quasi che il Pci fosse davvero “diverso” da essi sul terreno del finanziamento irregolare) ha rappresentato una delle fondamentali scuole di pensiero (quella di sinistra), che hanno ispirato la successiva affermazione della demonizzazione dei partiti e dell’antipolitica.

Le altre scuole su questo terreno sono state tutte di destra o di ispirazione confindustriale e poi sono state anche quelle che hanno drenato più consensi. Di fronte all’ascesa di Craxi alla presidenza del Consiglio Berlinguer scartò nettamente la proposta del segretario della Cgil Luciano Lama che era quella di dare una sponda politica e sindacale alla novità costituita dal fatto che per la prima volta un socialista diventava presidente del Consiglio. Anzi Berlinguer fece la scelta del tutto opposta, quella della contrapposizione frontale. Ciò derivava da un’analisi totalmente negativa su Craxi e sul gruppo dirigente socialista sviluppata nel ristretto laboratorio cattocomunista che assisteva Berlinguer nella definizione della politica interna (invece in politica estera egli aveva una autonomia assoluta e faceva tutto di testa sua). In una lettera del 18 luglio 1978 Antonio Tatò, uno dei due consiglieri di Berlinguer in politica interna, scriveva “Craxi è un avventuriero, anzi un avventurista, un abile maneggione e ricattatore, un nemico dell’unità operaia e sindacale, un nemico nostro e della Cgil, un bandito politico di alto livello”.

Di lettere su questa falsa riga ce ne stanno altre. Partendo da un’analisi siffatta in una riunione della direzione Berlinguer sostenne che il Psi puntava ad acquisire la direzione del paese con la presidenza del Consiglio addirittura “sulla base di uno spostamento a destra” dell’asse politico. Berlinguer ammonì “di non dimenticare il periodo del cosiddetto “socialfascismo” in cui le socialdemocrazie avevano aperto la strada alla reazione e al nazismo con le loro posizioni antipopolari e antioperaie (attorno agli anni ‘30) per cui si potevano controllare i toni della polemica ma sarebbe stato un errore non mettere in chiaro la pericolosità della posizione del Psi”. Per chi conosce il valore di certe espressioni “simboliche” del linguaggio comunista la frase usata da Berlinguer a proposito di Craxi sul “socialfascismo” aveva un significato profondo. Da qui una scelta politica di fondo: il nemico da battere era il Psi di Craxi. Per altro verso l’alternativa lanciata a Salerno era contro tutto e tutti. Gli unici alleati possibili erano la sinistra cattolica e quella democristiana. Arriviamo così al 1989.

Cossiga capì subito che il crollo del comunismo avrebbe avuto conseguenze non solo per il Pci ma anche per la Dc, per il Psi e per i partiti laici. Egli sostenne l’esigenza di una profonda autocritica da parte di entrambi gli schieramenti contrapposti che duranti gli anni della guerra fredda avevano messo in atto molte illegalità. Questo invito fu nettamente respinto prima dal Pci di Berlinguer poi dal Pds e anzi Cossiga fu addirittura criminalizzato. A quel punto i cosiddetti poteri forti (dalla Confindustria a Mediobanca alla Fiat alla Cir, ad altri grandi gruppi) ritirarono la loro delega alla Dc e al Psi e anzi manifestarono forti propensioni per l’antipolitica e ancor di più una netta repulsione per la “repubblica dei partiti” e per le imprese pubbliche. Di conseguenza il Pds fu di fronte ad una scelta di fondo.

I miglioristi proposero di rispondere a tutto ciò con la formazione di un grande partito socialdemocratico e riformista e comunque con l’unità fra il Psi e il Pds. Invece sulla base dell’analisi e della linea politica di Berlinguer la risposta di coloro che Folena appellò in un suo libro I ragazzi di Berlinguer fu di segno opposto e fu espressa in modo lucido da Massimo D’Alema: “Che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo cambiare nome. Volevamo entrare nell’Internazionale socialista, dunque non potevamo continuare a chiamarci comunisti. Craxi aveva un indubbio vantaggio su di noi, era il capo dei socialisti in un paese occidentale, quindi rappresentava la sinistra giusta per l’Italia, solo che aveva lo svantaggio di essere Craxi.

Mi spiego. I socialisti erano storicamente dalla parte giusta, ma si erano trasformati in un gruppo affarista avvinghiato al potere democristiano. Allora avevamo una sola scelta: diventare noi il partito socialista” (Fasanella-Martini: D’Alema). Qui è il punto cruciale. Quando in seguito alla presa di distanza dai partiti tradizionali da parte dei poteri forti decollò il cosiddetto circo mediatico-giudiziario alle origini il Pds non ne faceva parte, tant’è che tremò sapendo bene di essere inserito a suo modo nel sistema del finanziamento irregolare dei partiti. Questa fu la ragione per cui Occhetto si recò per la seconda volta alla Bolognina per chiedere scusa agli italiani.

A sua volta per una fase Borrelli accarezzò l’idea che a un certo punto “il presidente della Repubblica come supremo tutore” avrebbe “chiamato a raccolta gli uomini della legge e soltanto in quel caso noi potremmo rispondere. Non basterebbe certo una folla oceanica sotto i nostri balconi, ma un appello di questo genere del capo dello Stato”. Quando fu chiaro che ciò non sarebbe avvenuto il vice procuratore capo Gerardo D’Ambrosio, da sempre militante del Pci, ebbe buon gioco a convincere Borrelli e gli altri che il pool aveva bisogno di un partito di riferimento e che esso avrebbe potuto benissimo essere il Pds, visti gli ottimi rapporti che il Pci aveva avuto con alcune procure strategiche (Milano, Torino, Palermo). Ecco che così il Pds ebbe un rapporto speciale con il pool di Milano e attraverso di esso poté procedere alla occupazione dello spazio storicamente coperto dal PSI distruggendolo per via mediatico-giudiziaria. In una prima fase questo disegno non fu contrastato dalla Dd perché Antonio Gava si illuse che consegnando Craxi e il Psi “ad bestias” tutta la DC si sarebbe salvata.

Le cose non andarono così: quando la ghigliottina si mette in moto essa non si arresta facilmente: in quel caso essa fu interrotta solo per la sinistra democristiana. A proposito di tutto ciò valgono le osservazioni fatte da un personaggio al di sopra di ogni sospetto come Giovanni Pellegrino, del Pds, già presidente della Commissione Stragi: “l’innesto di alcuni magistrati come Luciano Violante nel gruppo dirigente aveva finito col cambiarne (del Pds, n.d.r.) la cultura. Comincia a nascere un “partito delle procure” e si forma una corrente di pensiero secondo cui i problemi politici si risolvono con i processi. Il gruppo dirigente del partito era convinto che cavalcando la protesta popolare e con una riforma elettorale maggioritaria un partito del 17%, quale era allora il Pds, avrebbe conquistato la maggioranza assoluta dei seggi […]. Occhetto e parte del gruppo dirigente pensavano di avere il monopolio della astuzia […]. La nostra astuzia era al servizio di un disegno fragile che alla fine ha prodotto Berlusconi. Berlusconi è nato perché a sinistra in tanti erano convinti che la magistratura poteva essere la leva per arrivare al governo” (in G. Fasanella, G. Pellegrino, La guerra civile, Bur). Questi a nostro avviso sono gli elementi fondamentali di una vicenda che ha segnato in modo profondo la storia del nostro paese.

Comunque fra i protagonisti di quella stagione Violante è l’unico che negli anni 2000 ha portato avanti una riflessione critica e sostanzialmente autocritica. A parte il suo lungo articolo sul Foglio Luciano Violante ha il merito di aver fatto una battuta fulminante per commentare la situazione in cui si trova attualmente la magistratura italiana: “la prima riforma della giustizia da fare è quella della divisione delle carriere fra pm e cronisti giudiziari”. Quella battuta ci porta direttamente al libro di Goffredo Buccini. Nel 1992 Buccini era un giovanissimo giornalista del Corriere della Sera. Egli ricostruisce dal lato dei cronisti giudiziari quella che non fu una rivoluzione, ma una confusa guerra civile. Le rivoluzioni sono cose serie e producono anche una nuova classe dirigente di livello, una nuova cultura, nuovi valori. Le cose invece con Mani Pulite non sono andate così: sul mucchio selvaggio dai giovani cronisti descritti da Buccini, sugli avvocati accompagnatori, sugli imprenditori e su alcuni politici presi dalla sindrome di Stoccolma, si innestò una operazione politica fondata sulla scelta di due pesi e di due misure, uno adottato a favore del Pci-Pds e della sinistra democristiana, l’altro per colpire Craxi, i segretari dei partiti laici e l’area di centro-destra della Dc.

Ciò è avvenuto, come abbiamo già visto, perché i poteri forti dopo il 1989 hanno ritenuto di interrompere il loro rapporto globale (compresi i finanziamenti) con i tradizionali partiti di governo (Dc, Psi, partiti laici) per cui hanno dato licenza di uccidere agli organi di stampa da loro condizionati anche andando incontro nell’immediato ad alcune difficoltà di immagine e anche a vicende giudiziarie risolte come fecero Romiti e De Benedetti con alcune confessioni-genuflessioni fatte al pool dei pm di Milano. Di conseguenza un nucleo ben assortito di pm della procura di Milano non ha avuto più alcun condizionamento e si è scatenato “sulla politica”. A quel punto però se la razionalità e specialmente l’equanimità avessero prevalso sarebbero stati ipotizzabili due grandi operazioni. Una ipotesi era quella della grande e reciproca confessione (visto che il Pci era finanziato in modo ancor più irregolare della Dc e del Psi) come sostennero in modo diverso da un lato Cossiga, dall’altro lato Craxi nel suo discorso in parlamento del luglio 1992. Ciò avrebbe dato luogo a nuove procedure, a nuove regole, a una vera amnistia (non quella del 1989 che servì solo a mettere a riparo il Pci da conseguenze penali per il finanziamento del Kgb) e a un nuovo sistema politico di stampo europeo.

L’altra ipotesi sul terreno della equanimità era invece quella di una totale rottura per una ipotetica palingenesi con i magistrati assunti al ruolo di “angeli sterminatori” nei confronti di tutti i peccatori, vale a dire i partiti senza eccezione alcuna e i grandi gruppi imprenditoriali privati e pubblici. Avvenne esattamente il contrario, Mani Pulite fu gestita in modo del tutto unilaterale con i due pesi e le due misure a cui ci siamo riferiti precedentemente. Il libro di Buccini costituisce una straordinaria conferma di questa unilateralità. Tutti i cronisti giudiziari erano di sinistra e nessuno di essi ha mai contestato la grande mistificazione su cui si è fondata Mani Pulite. I segretari della Dc, del Psi, dei partiti laici “non potevano non sapere” e invece, per non far nomi, Occhetto, D’Alema, Veltroni “potevano non sapere” anche quando Gardini si recava a via delle Botteghe Oscure per incontrare uno o due di loro portando con sé una valigetta con dentro un miliardo. Buccini rimane all’interno del paradigma su cui si è fondato Mani Pulite quando sottovaluta il discorso di Craxi alla Camera del 1992, liquidandolo con la battuta: “tutti colpevoli, quindi nessun colpevole”: la sostanza era proprio quella; il finanziamento irregolare riguardava tutti da tempo immemorabile e a loro volta magistrati e giornalisti sapevano tutto benissimo. Solo che, indubbiamente in seguito a un fatto storico come il 1989, ad un certo punto qualcuno (in primo luogo i poteri forti) decise che le regole del gioco all’improvviso cambiavano.

Parliamoci chiaro: con i metodi adottati dalla procura di Milano Togliatti, Secchia, Amendola, Longo, lo stesso Berlinguer per interposti amministratori del partito, De Gasperi, Fanfani, i dorotei, Marcora, De Mita e Donat-Cattin si sarebbero venuti a trovare in condizioni analoghe a quelle di Bettino Craxi, di Forlani, di Altissimo e di Giorgio La Malfa. Buccini descrive anche quali erano i rapporti reali dei cronisti con il nucleo leninista dei pm: “Davigo mi ha preso a ben volere – riservatissimo e un po’ misantropo mi lascia intravedere a volte uno spiraglio di amicizia […] passeggiandomi accanto fra le file di uffici semideserti a quell’ora mi dice che quando nasceranno le Commissioni di epurazione dei giornalisti io dovrei proprio farne parte perché sono un ragazzo perbene: lo guardo e naturalmente deve stare scherzando” (Buccini, Il tempo delle Mani Pulite, pag. 145). “È un pezzo che mi sto curando Borrelli, Alfonso, suo segretario, mi guarda con il compatimento di uno zio affettuoso […]. La scena è abbastanza umiliante, devo ammetterlo, ma nel mestiere la sostanza conta più del talento” (idem, pag. 166) e “Borrelli mi dice […] in un’ennesima intervista, i colleghi in sala stampa mi sfottono acidi definendomi la penna preferita del procuratore, ma starebbero volentieri al mio posto” (idem, pag. 186). Infine, ma questa è invece un’osservazione assai seria perché va al fondo della questione: “l’indagine si è avvalsa e nutrita dell’uso smisurato delle manette” (idem, pag. 178).

A ciò va aggiunto che ci fu un unico Gip, cioè Ghitti, del tutto allineato, che addirittura parlò della liquidazione di un intero “sistema”. Infine, quanto al libro di Davigo, c’è un punto fondamentale che per molti aspetti è sorprendente e disarmante perché tratta con argomenti puramente giuridici una decisiva questione politica: “le successive indagini fecero emergere l’esistenza di un sistema nazionale in cui le principali imprese che avevano rapporti prevalenti con la pubblica amministrazione pagavano imponenti somme di danaro ai segretari amministrativi dei partiti di maggioranza mentre le cooperative rosse pagavano il Pci (dal 1991 Pds). La questione è stata oggetto di polemiche infinite sull’assunto che il Pci-Pds non sarebbe stato perseguito con la stessa energia con cui sarebbero state svolte le indagini nei confronti degli altri partiti, per poi trarvene l’accusa di politicizzazione agli inquirenti”.

In queste poche righe Davigo liquida una questione fondamentale perché dietro questo pretesto (quello che i segretari del Pci-Pds ignoravano l’apporto delle cooperative rosse mentre a loro volta i pm hanno volutamente ignorato che ad esempio la percentuale fra il 20 e il 30% riservata alle cooperative in sede Italstat, dove tutti gli appalti erano manipolati, era il modo con cui al Pci in quanto tale erano indirizzate enormi tangenti) è stata realizzata la manipolazione che ha portato a un uso politico della giustizia molto mirato. Se poi a questo si aggiunge che quando è stato provato che Gardini si era recato in via delle Botteghe Oscure per vedere i massimi dirigenti del Pds portando con sé una valigetta con dentro un miliardo si è trovato il pretesto per evitare di inviare ad essi un avviso di garanzia e in sede di processo Enimont il presidente Tarantola addirittura ha rifiutato di accogliere la richiesta dell’avvocato Spazzali di sentire Occhetto e D’Alema come testimoni perché quello era un processo totalmente dedicato a sputtanare i segretari dei partiti di governo, ecco che la misura è colma e l’unilateralità della operazione Mani Pulite è assolutamente evidente.

Infine non bisogna mai dimenticare che per due volte il pool fece una sorta di “pronunciamiento” contro proposte di legge del governo. Addirittura una volta, dopo aver fatto saltare il decreto Biondi, a Cernobbio il pool presentò una propria proposta di legge per la sistemazione di tutta la vicenda. Infine, ben due esponenti del pool, cioè il vice procuratore D’Ambrosio e il protagonista dell’operazione di “sfondamento” cioè Antonio Di Pietro sono stati eletti per più legislature nelle liste del Pds. Dopodiché oggi il risultato finale di un colpo di mano senza rivoluzione è del tutto evidente: leaders effimeri, che durano lo spazio di un mattino, partiti liquidi e movimenti privi di spessore politico e culturale. La conseguenza è netta. Nel momento più drammatico del nostro paese dal 1945 il destino dell’Italia dipende da due persone: Sergio Mattarella e Mario Draghi. Fabrizio Cicchitto

Il vuoto identitario e la ricomposizione della sinistra. Cicchitto sbaglia, Enrico Berlinguer non era un giustizialista. Michele Prospero su Il Riformista il 9 Dicembre 2021. Nella sua riflessione (uscita sabato sul Riformista) Fabrizio Cicchitto si interroga sulle ragioni della conversione al giustizialismo da parte dei comunisti. Ne indica due. La prima conduce alle relazioni intessute da Violante con alcune grandi procure, viste come il motivo che spiegherebbe una certa benevolenza dei magistrati verso le pratiche illecite di reperimento di denaro compiute anche dai vertici di Botteghe Oscure. Più interessante, rispetto a questo tasto polemico nel quale si avverte ancora la ferita aperta per la incidenza delle manette nella uccisione del Psi, è l’altro che coglie l’impatto di alcuni mutamenti intercorsi nella cultura politica del Pci già ai tempi di Berlinguer.

Non c’è dubbio che una distanza si avverte tra il primo Berlinguer, regista di una clamorosa espansione elettorale del Pci, e il leader che nei primi anni ’80 deve gestire una ritirata strategica che non riguardava solo la sinistra italiana. Uno dei punti più elevati della cultura politica di Berlinguer si può rintracciare nell’importante comitato centrale del giugno 1974, nel corso del quale egli riservò alcune bacchettate a Terracini, Longo, Spriano (su questo snodo ha richiamato l’attenzione G. Crainz, Il paese mancato, Roma, 2003, p. 495). In discussione era la recente legge sul finanziamento pubblico dei partiti e Umberto Terracini pronunciò un intervento durissimo nel quale (era ancora fresca la strage di Brescia) chiedeva lo scioglimento per decreto del Msi, senza attendere alcuna pronuncia dei tribunali. Inoltre egli si scagliava contro i soldi statali alle organizzazioni politiche. «Non c’è giustificazione che valga a tacitare lo stupore esterrefatto popolare», disse, dinanzi a «un provvedimento in sé impopolare» come quello della destinazione dei fondi del contribuente ai movimenti politici (comprese le formazioni neofasciste).

Anche Paolo Spriano concesse qualcosa alle istanze anti-partito dell’epoca asserendo che «se è vero che il termine classe politica è un termine di confusione e di mistificazione» occorreva tuttavia delineare una partecipazione di massa che andasse ben oltre «le rappresentanze tradizionali di partiti». Di altro segno erano le parole di Napolitano che, come risposta alle degenerazioni della politica, anticipò il tema delle «modifiche istituzionali che possono essere necessarie per superare la crisi di funzionalità del regime democratico». La replica di Berlinguer stigmatizzò come «puramente demagogica» l’ostilità di Terracini al finanziamento pubblico dei partiti. Molto nitide furono le sue connessioni tra autonomia della politica dai poteri privati (anche grazie alla copertura finanziaria pubblica dei costi della politica) ed effettiva moralizzazione della vita democratica. «Al di là della cortina fumogena di tutte le ipocrite prediche moraleggianti sulla classe politica», Berlinguer invitava a valorizzare, anche con i riconoscimenti economici necessari, la funzione democratica e costituzionale dei partiti.

Tra queste drastiche censure alla demagogia antipolitica e le parole, quasi da precursore di Travaglio, riportate nell’intervista a Scalfari sette anni dopo c’è un abisso. Forse aveva ragione Ferrara ad avanzare qualche dubbio sulla fedeltà della trascrizione. Comunque non era giustizialista il senso ultimo della diversità berlingueriana. Si trattava di un retaggio terzinternazionalista, presente anche in Togliatti o in Amendola, che lo coniugava con il rigorismo etico della destra storica, e che coincideva con il mito del partito, con l’intransigenza morale della militanza rivoluzionaria (“una scelta di vita”). E, più che ai tribunali, l’ultimo Berlinguer guardava alla fabbrica. Con un solco scavato rispetto al realismo totus politicus togliattiano, scendeva sul piano del sociale ed evocava «un movimento di massa che spontaneamente esprime l’animo popolare e la coscienza di classe».

È solo con la caduta dell’identità comunista che la diversità assumerà i colori del nuovismo e del giustizialismo raccattati nel mercato delle idee come surrogati dell’ideologia archiviata. Occhetto fece la scalata alla leadership con un impianto neocomunista che alludeva «ai vari salti qualitativi e non alle semplici correzioni miglioriste». Caduto il Muro, il vuoto identitario venne riempito con una tattica movimentista che collocava la Quercia vicino alle toghe e ai gruppi referendari. Scartata la via della ricomposizione della sinistra storica italiana, il modo di sopravvivere fu trovato dal Pds (come ha testimoniato Piero Sansonetti in un libro di alcuni anni fa, La sinistra è di destra, Milano, 2013) nella sintonia totale con i grandi giornali padronali rapiti dinanzi al fascino del tintinnio delle manette.

Più che in trattamenti di favore ricevuti nelle inchieste o in un condizionamento dei risultati dell’azione penale, il giustizialismo del Pds si può misurare nel rigetto di ogni soluzione politica a Tangentopoli.

La sua ostilità ad ogni risposta di sistema alle consuetudini di illecito finanziamento dei partiti pare riconducibile alla subalternità culturale rispetto alle forme dell’antipolitica che nei primi anni ’90 risultarono egemoni nella fase fondativa della seconda Repubblica. Si tratta di una manifestazione di giustizialismo ancora più pesante di quello “darwiniano” che lamenta Cicchitto, perché esso ha una radice culturale e ha scavato un fossato mai più riempito dai post-partiti che vagano impotenti nel tempo storico del populismo. Michele Prospero

Il Pci di Berlinguer non era manettaro ma anti-craxiano. Michele Prospero su Il Riformista il 17 Dicembre 2021. La replica di Fabrizio Cicchitto contiene alcuni spunti di analisi che sarebbe un peccato non cogliere per cercare di definire meglio i punti di dissenso (su dettagli per così dire filologici) rispetto alla condivisione della censura definitiva del giustizialismo come malattia distruttiva che ha prodotto una devastazione trentennale della democrazia dalla quale ancora non si esce. La “diversità” è un punto forte della stagione berlingueriana e tracce se ne ricavano in certa misura anche in Togliatti. «Noi siamo un organismo politico; siamo però un organismo politico di tipo speciale», diceva. La diversità era in lui declinata con vocaboli vagamente religiosi (come vocazione, entusiasmo, causa, devozione, disciplina, serietà), utili per celebrare «quei nostri militanti che hanno dedicato alla lotta del nostro partito tutta la loro esistenza». Un concetto totalizzante del partito affiorava anche in Togliatti leader terzinternazionalista, che pure non disdegnava moderatismo, senso del compromesso, laicità. «Non basta essere buoni politici. Tutti dicono oggi che noi siamo i migliori politici, i politici puri, e così cercano di spiegare i nostri successi. Orbene, se siamo buoni politici, non lo so; so però che, se lo siamo, è perché abbiamo tenuto e teniamo fede in ogni istante a princìpi che trascendono la politica, perché siamo in ogni istante fedeli a quella vocazione che spinse e spinge milioni di uomini a vivere e lottare». La diversità come principio di trascendenza si coniugava in Togliatti con la pienezza dell’immanenza e cioè il realismo, l’aderenza ai tempi, il richiamo al principio istruttivo dei rapporti di forza. Anche in Amendola compariva il riferimento “alla nostra vecchia morale comunista, severa e rigorosa”. Lucio Magri ricordava in una pagina del suo libro che, in occasione del celebre convegno degli anni Sessanta sulle tendenze del capitalismo italiano, quando incrociava Amendola a Botteghe Oscure veniva rimbrottato per non essere un vero bolscevico. La maschera della identità serviva ad Amendola per coprire degli affondi verso la sinistra sindacale e politica (Pci e Psi, da Ingrao e Trentin a Lombardi). Nella III Conferenza dei comunisti di fabbrica (Genova 1965) egli scriveva: «La richiesta di case, scuole, ospedali parve troppo moderata, socialdemocratica, si disse già allora, di fronte a grandiosi progetti di transizione al socialismo, tanto moderata che ancora oggi, quindici anni dopo, case scuole ed ospedali, restano obiettivi non ancora raggiunti». Il problema non pare dunque la diversità in sé, ma le conseguenze che dalla copertura identitaria si traggono nella concreta condotta politica. In Amendola (in questo poggia la sua notevole differenza rispetto a Napolitano, che utilizza altri linguaggi, diverse metafore) l’identità serviva come scudo per lanciare svolte, discontinuità, anche eresie. Negli anni 80 la diversità divenne in Berlinguer una formula di chiusura e di regressione culturale dal politico al sociale che in quanto tale venne combattuta dentro il Pci, non solo dai miglioristi. L’esito della diversità non fu ancora il giustizialismo (il Pci sostenne nel referendum l’abolizione dell’ergastolo, cioè l’opposto di quanto vorrebbe un populismo manettaro alla Travaglio), ma una profonda frattura verso il Psi che venne sorretta da un impianto di tipo tardo-operaista (referendum sulla scala mobile) in polemica contro la “modernità” craxiana. Negli anni del secondo Berlinguer si ebbero mutamenti nelle analisi, altri paradigmi concettuali furono impiegati nella comprensione dei processi sociali scaturiti dal tempo della ristrutturazione tecnologica del capitalismo. E però il miope e suicida “duello a sinistra” non prevedeva l’affidamento alle procure del compito di risolvere con le manette la questione socialista. C’era nel Pci degli anni Ottanta un conservatorismo istituzionale e una enfasi operaista di cui “i ragazzi di Berlinguer” si sbarazzeranno con estrema disinvoltura sposando il nuovismo referendario, la militanza giustizialista con il popolo dei fax e dei telepredicatori, il mito delle privatizzazioni, il vangelo della precarietà. Cicchitto vede una continuità di tutto ciò con la cultura della diversità denunciata come matrice di un antisocialismo irriducibile. In Togliatti la diversità riempiva la dimensione mitica, aveva una collocazione metapolitica. In Berlinguer divenne invece una immediata strategia politica con le inevitabili ricadute in termini di isolazionismo ed estraneità valoriali rispetto al gioco politico. Con i limiti e gli schematismi delle letture moralistiche che sono diventate dominanti nella seconda stagione berlingueriana, le scelte tragiche successive (rifiuto di ogni salvataggio del sistema dei partiti in nome del repulisti giudiziario-referendario) non sono però imputabili al leader scomparso e ricadono solo sugli eredi che certo hanno camminato su un terreno di cultura politica reso friabile già negli anni Ottanta. Michele Prospero

Il dibattito. Su Berlinguer avevo ragione, la teoria del socialfascismo fu riesumata e applicata contro Craxi. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 12 Dicembre 2021. Fra il primo Berlinguer, quello che nel contempo teorizzò il compromesso storico e portò avanti la politica di unità nazionale (appoggio subalterno al governo Andreotti), e “l’ultimo Berlinguer” – quello dell’alternativa di Salerno, della questione morale e dell’intervista a Scalfari – c’è senza alcun dubbio una grande differenza. Mi sono limitato, testi alla mano, a rilevare che nell’ultimo Berlinguer c’è anche una riesumazione della teoria del socialfascismo applicata sul piano politico nei confronti di Craxi, che è la fondazione teorica e politica del successivo “giustizialismo” di coloro che non a caso Folena appellò, da nessuno contestato, come “i ragazzi di Berlinguer”.

Giustamente Michele Prospero parla di un retaggio terzinternazionalista, ma, a mio avviso, sbaglia a mettere nello stesso mazzo anche su quel piano Togliatti e Amendola da un lato e Berlinguer dall’altro. Come è noto fra Togliatti e Amendola esplose un duro dibattito in un famoso Comitato Centrale del Pci a proposito del XX e del XXII Congresso, tuttavia sempre il riferimento di entrambi al VII Congresso dell’Internazionale, con tutto quello che essa comportava (i fronti popolari, l’intesa prioritaria con i partiti socialisti, un certo gradualismo). Invece nella discussione su Craxi, anche nelle direzioni del Pci, a un certo punto il riferimento di Berlinguer che, come tutti i dirigenti comunisti, era molto rigoroso nell’uso di certe espressioni, il termine socialfascismo fu usato come consapevole riferimento al VI Congresso dell’Internazionale (quello appunto che segnò “la svolta” perché la situazione generale era prerivoluzionaria e che considerò i partiti socialdemocratici obiettivamente alleati del fascismo).

Fra la prima e la seconda fase ci fu anche un cambio di alleanze interne al Pci, come Michele Prospero e Piero Sansonetti sanno molto meglio di me: Berlinguer gestì la fase della politica di unità nazionale da un lato con la sua cerchia stretta (Luciano Barca, Fernando Di Giulio, Tonino Tatò, Ugo Pecchioli) e un’alleanza con la “destra comunista”, cioè con Gerardo Chiaromonte (che se non sbaglio era il suo secondo), con Giorgio Napolitano, con Paolo Bufalini e con Gianni Cervetti responsabile dell’amministrazione. Nella seconda fase le alleanza interne furono del tutto rovesciate, furono recuperati gli ingraiani, in primis Alfredo Reichlin, e oltre a Pecchioli svolse un ruolo assai importante Minucci. Ho fondato la mia lettura dell’ultimo Berlinguer sulla base di una serie di citazioni incontestabili. Francamente a proposito dell’intervista assai importante a Scalfari è molto debole il richiamo di Prospero a Giuliano Ferrara, che “avanzò qualche dubbio sulla fedeltà della trascrizione”: ma scherziamo?

Per chi conosce (ovviamente non io direttamente, ma c’è chi me ne ha parlato diffusamente, in primo luogo Luciano Barca del quale sono stato molto amico, come testimoniano anche le sue cronache) la pignoleria con cui Berlinguer e Tatò leggevano e rileggevano le interviste figurarsi se avrebbero concesso, fosse anche Eugenio Scalfari, una “forzatura” qualora essa non avesse espresso il pensiero reale del segretario del Pci. Siccome Michele Prospero cita Crainz, lo seguo utilizzando lo stesso storico nella rievocazione assai significativa di una discussione avvenuta a suo tempo nella direzione del Pci proprio a proposito del dibattito sull’accettazione del finanziamento pubblico, una discussione che mette in evidenza come in nessun momento su quel piano (quello del finanziamento irregolare, anzi, per usare la fraseologia adottata, del ricorso all’amministrazione straordinaria) Berlinguer avrebbe potuto parlare di un partito diverso dalle mani pulite.

“E’ uno squarcio illuminante il confronto che si svolge nella direzione del Pci nel 1974 quando è all’esame la legge del finanziamento pubblico dei partiti. La discussione prende avvio dalla esistenza di un fenomeno enorme di corruzione dei partiti di governo, ma affronta al tempo stesso con grande preoccupazione il pur periferico emergere di imbarazzanti compromissioni venute al nostro partito da certe pratiche. L’approvazione della legge è esplicitamente giustificata con la necessità di garantirsi una duplice autonomia […], autonomia internazionale, ma anche da condizionamenti di carattere interno […]. Non possiamo nasconderci fra noi il peso di condizionamenti subiti anche ai fini della nostra linea di sviluppo economica pur giusta per qualcosa di estremamente meschino (Napolitano). Nel dibattito non mancando ammissioni di rilievo molte entrate straordinarie dice il segretario regionale della Lombardia derivano da attività malsane. Nelle amministrazioni pubbliche prendiamo soldi per far passare certe cose. In questi passaggi qualcuno resta con le mani sporche e qualche elemento di degenerazione finisce per toccare anche il nostro partito (Elio Quercioli). È possibile cogliere in diversi interventi quasi un allarmato senso di impotenza di fronte al generale dilagare del fenomeno; la decisione di utilizzare la legge per porre fine ad ogni degenerazione del partito. Si deve sapere, dice Cossutta, che in alcune regioni ci sono entrate che non sono lecite legittimamente, moralmente, politicamente.

Questo sarà il modo per liberare il partito da certe mediazioni. Non chiudere gli occhi di fronte alla realtà, ma fare intendere agli altri che certe operazioni non le accetteremo più in alcun modo. Punto di riferimento deve essere l’interesse della collettività e faremo scandalo politico e una battaglia contro queste cose più di prima. È illuminante questa sofferta discussione del 1974. Rileva rovelli e al tempo stesso processi a cui il partito non è più interamente estraneo” (Guido Crainz, Il paese reale, pag. 32-32). Anche i miei riferimenti ai “ragazzi di Berlinguer” e al ruolo fra essi svolto da Luciano Violante (di cui ho colto le successive importanti e positive riflessioni) sono basati su fonti provenienti dal Pci-Pds, come quella offerta da Giovanni Pellegrino nel suo libro (con Fasanella) dall’emblematico titolo di La guerra civile. Concludo. Fra il “socialfascista” Craxi descritto da Tatò e accusato da Berlinguer in una riunione della direzione del Pci di lavorare addirittura per realizzare “una svolta a destra” attraverso la sua presidenza del Consiglio e quello successivamente attaccato come “ladro”, insieme ai miglioristi, da Occhetto e dagli altri “ragazzi” c’è di conseguenza un nesso assai stretto, quello che nella fisica lega la causa all’effetto. Fabrizio Cicchitto

Cicchitto: «Quel gip a disposizione dei pm era parte del sistema orchestrato dal pool». Intervista a Fabrizio Cicchitto dopo le rivelazioni di Guido Salvini: «Borrelli credeva che un nucleo di magistrati possa avere l'incarico dal Quirinale. L’idea tramonta ed è D’Ambrosio a spiegare al pool che serviva un punto di riferimento politico e tanto valeva guardare al Pds». Rocco Vazzana su Il Dubbio il 17 dicembre 2021.

«È incredibile che i grandi giornali italiani non abbiano ripreso una testimonianza così importante come quella che il giudice Salvini ha consegnato al Dubbio». Fabrizio Cicchitto – ex dirigente socialista, ex berlusconiano di ferro e oggi presidente di Riformismo e Libertà – non si capacita di come il racconto del giudice milanese sugli anni di Tangentopoli sia stato notato solo da Libero e dal Foglio. Salvini, allora come oggi in servizio all’ufficio gip di Milano, ha svelato infatti il “trucco” con cui il pool di Mani Pulite faceva in modo che qualsiasi richiesta di misura cautelare finisse sempre nelle mani dello stesso Gip: Italo Ghitti. «Era comodo per la procura avere un unico gip già sperimentato che per alcuni era già direzionato e non doversi confrontare con una varietà di posizioni di scelte che potevano incontrare all’interno dell’ufficio del gip», ha scritto Salvini su questo giornale.

«Così il pool escogitò un semplice ma efficace trucco, costruendo a partire dall’arresto di Mario Chiesa un fascicolo che in realtà non era tale, ma era un registro che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro, completamente diversi, unificati solo per essere gestite dal pol». Bastava dunque iscrivere qualsiasi reato con lo stesso numero (8655/92) e il goco era fatto. Una novità storica che oggi fa dire a Cicchitto: «È stata un’incredibile forzatura. Il pool aveva scelto un unico gip che poi, guarda caso, verrà promosso al Csm».

Cicchitto, perché ritiene la testimonianza di Salvini così importante?

Perché è quasi decisiva. Perché se unita ad altri elementi già emersi diventa evidente che le carcerazioni preventive facilissime venivano usate per le confessioni. La minaccia stessa del carcere veniva usata come ricatto per persuadere alcuni imprenditori a parlare in modo da colpire alcuni uomini politici, a partire da Bettino Craxi. Il racconto di Salvini inoltre rivela l’evidente unilateralità di tutta l’operazione: il sistema Tangentopoli riguardava tutto e tutti, ma Mani Pulite ha colpito in madiera discriminata, nel senso che non ha mai nemmeno sfiorato il nucleo dirigente ristretto del Pds.

Intende dire che c’era un progetto preciso di salvare il Pds?

È lo stesso Antonio Di Pietro a raccontarlo in qualche modo, quando parla un episodio cardine: la procura sapeva che Raul Gardini si era presentato con una valigetta contenente un miliardo di lire a Via delle Botteghe Oscure per incontrare Achille Occhetto e Massimo D’Alema. Ma non è mai saltata fuori la prova di questo fatto, nonostante Sergio Cusani e Carlo Sama siano poi stati condannati come corruttori.

Ma perché la procura avrebbe dovuto “coprire” solo una parte politica?

A un certo punto, in quella fase di tracollo politico, Francesco Saverio Borrelli crede che un nucleo di magistrati possa avere l’incarico dal Presidente della Repubblica. E quando questa idea tramonta è Gerardo D’Ambrosio a spiegare al pool che bisognava comunque avere un punto di riferimento politico e tanto valeva guardare al Pds col quale anche in passato, ai tempi del Pci, alcune procure avevano avuto rapporti profondi per la lotta al terrorismo e alle mafie.

Esistono altri elementi per sostenere una tesi del genere?

Esistono altri esempi: quando Giuliano Spazzali, avvocato di Cusani, chiese che venissero escussi come testimoni Occhetto e D’Alema in un processo specificatamente dedicato a mettere alla gogna i segretari di partito, il presidente Giuseppe Tarantola non lo consentì.

Quindi la magistratura, secondo questa analisi, avrebbe agito in maniera autonoma per distruggere il sistema dei partiti, salvo gli ex comunisti?

Secondo me alle origini di tutto quel terremoto non c’è la magistratura. Cossiga capì prima degli altri che nel momento in cui crollava il muro di Berlino le conseguenze avrebbero riguardato tutti, non solo il Pci. Anzi, sarebbero stati travolti anche tutti i partiti laici che godevano di una rendita di posizione data dal fatto che bisognava impedire che il Partito comunista più forte d’Occidente andasse il potere in Italia. Così quando lo spauracchio sovietico viene meno, un bel pezzo di mondo industriale ed editoriale, i poteri forti diremmo oggi, decidono di togliere la delega alla Dc e al Psi, proprietari atipici del sistema delle partecipazioni statali che doveva essere smantellato.

A colpi di avvisi di garanzia…

Il momento chiave arrivò quando Enrico Cuccia, tramite Salvatore Ligresti, inviò un messaggio a Craxi dicendo: «Cavalca la tigre, hai la personalità per intestarti un’operazione neogollista che mandi al diavolo il sistema partitocratico e prenditi come ministro dell’Economia Giorgio La Malfa». Craxi sottovalutò del tutto questo messaggio, convinto che il sistema dei partiti fosse più solido di quanto non fosse. La risposta di Cuccia fu: «Peccato, era la sua ultima occasione». A quel punto Craxi diventò il “cinghialone” e fu data “licenza di uccidere” a un pezzo del mondo editoriale e a un pezzo di magistratura.

Ma i finanziamenti illeciti esistevano davvero…

Che ci fosse un sistema irregolare di finanziamento ai partiti lo sapevano tutti in Italia, ma c’era un vincolo di sistema che teneva insieme tutto. Venendo meno quel vincolo, ovvero il comunismo, è venuto giù tutto, per cui la procura di Milano e il mondo dell’informazione hanno proceduto in quel modo. Pensi che ogni sera, alle 19, c’era una riunione tra i direttori di Repubblica, del Corriere e dell’Unità in cui venivano concertati anche i titoli sulla base delle soffiate dei pm. Questo meccanismo era infernale. Se capitavi in un gorgo di questo tipo e ti consegnavano un avviso di garanzia che veniva sparato su tutti i giornali e le televisioni la sentenza era praticamente già stata emessa.

Eppure il pool godeva di un immenso consenso popolare. Era tutto un abbaglio?

Quello che dice Salvini spiega come il circo mediatico-giudiziario rendesse impossibile la dialettica all’interno dello stesso mondo della magistratura: c’e un gip che approva qualsiasi richiesta della Procura, i tre o quattro grandi giornali che rilanciano, le tv, comprese quelle di Berlusconi, che fanno da gran cassa e il gioco è fatto. È facile trascinare la gente così. Ovviamente i partiti tradizionali erano usurati, ma non ci fu un’occasione per rinnovarli, ci fu un’occasione per distruggerli.

Tangentopoli è finita, il legame tra procure e informazione no. È l’eredità di quella stagione?

Quel sistema è rimasto assolutamente in piedi ma si è parcellizzato, come si è parcellizzato tutto, compresa la corruzione che non è più sistemica ma avviene per reti, con singole catene.

Mani Pulite fu una pagina cupa della giustizia italiana. I magistrati del pool di Mani Pulite celebrano il collega Francesco Greco, esaltando senza alcun rimpianto quella terribile stagione. Francesco Damato Il Dubbio l'11 novembre 2021. Delle cronache sulla festa celebrata in suo onore dai colleghi di Francesco Greco arrivato all’epilogo della carriera di magistrato come capo della Procura della Repubblica di Milano, al netto dei brindisi, della solita goliardia di Antonio Di Pietro corso dalla sua campagna molisana interrompendo la raccolta delle olive, e delle immancabili voci e allusioni sugli assenti, in questo caso dai nomi altisonanti di Pier Camillo Davigo e di Ilda Boccassini, ciò che mi ha colpito di più è l’occasione che non ha voluto lasciarsi scappare Gherardo Colombo per retrodatare l’epopea di cui un po’ tutti si consideravano i fortunati superstiti. Più che il 17 febbraio del 1992, quando l’allora presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa fu arrestato in flagranza di tangenti, diciamo così, cercando di buttare nello scarico del bagno una parte dei soldi che Di Pietro aveva contrassegnato come corpo del reato; più che questa scena non po’ tragica e un po’ anche comica di una tangente fra le tante che sporcavano non certo dal giorno prima la politica ambrosiana, al pari di tutta quella praticata nel resto del territorio italiano, e anche oltre; Gherardo Colombo ha voluto ricordare la circostanza tutta drammatica del suo approccio col tribunale di Milano. Gli era capitato, in particolare, di prendere praticamente servizio da magistrato il 29 gennaio 1979, quando il suo collega Emilio Alessandrini, di soli quattro anni meno giovane di lui, fu ucciso in auto da un commando di terroristi di “Prima Linea” mentre si dirigeva al tribunale. Ecco. Questa è la vera, epica storia della Procura di Milano che personalmente preferisco ricordare anch’io, riconoscendomi tutto e per intero nella parte dei magistrati, senza il cui sacrificio, senza la cui totalizzante fedeltà allo Stato temo che la democrazia non sarebbe sopravvissuta, Dell’altra epopea, invece, quella che prese il nome delle indagini “Mani pulite” contro il finanziamento illegale della politica e la corruzione spesso collegata, non sempre, come alcune sentenze avrebbero riconosciuto nella indifferenza generale, non mi sento per niente nostalgico, a dispetto dei tanti che invece la celebrano con puntualità: specie quelli che le debbono le loro fortune professionali di magistrati, politici e giornalisti. Sono passati gli anni e non ancora riesco a dimenticare, o a ricordare senza raccapriccio, le retate previste o preannunciate da quel cronista televisivo del Biscione, non della Rai, che parlava come un invasato mentre scorreva alle sue spalle il tram proveniente o diretto al tribunale. Né riesco a ricordare senza lo stesso raccapriccio le telecamere puntualmente appostate di notte davanti al portone da cui sarebbe uscito ammanettato il tangentaro vero o presunto di turno. Né riesco a togliermi dalla testa senza fastidio la faccia di quel magistrato ancora in servizio, ora chissà alla scalata di quale postazione giudiziaria, che dopo avere interrogato in carcere il povero, ormai ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari se andò in ferie così poco interessato, diciamo così, alla liberazione che ormai il suo imputato attendeva, da lasciarlo precipitare nella disperazione del suicidio. «Siamo stati sconfitti», si lasciò scappare pressappoco Di Pietro senza farsi minimamente tentare con quel plurale generoso, visto che a quel passaggio non aveva partecipato, ad un gesto riparatorio di dimissioni. Non riesco neppure a dimenticare lo sgomento del povero Giovanni Galloni, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, quando scoprì di avere fra i consiglieri, regolarmente eletto dai colleghi, un giudice di “Mani pulite” che, non potendo disporre l’arresto di un indagato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica a corto di competenza, indicava a matita sul foglio il diverso reato, con relativo articolo del codice, cui doversi richiamare per garantirsi l’assenso. Potrei continuare a lungo con questi ricordi non risparmiando nessuno, ma proprio nessuno dei tanti magistrati morti dicendo di avere fatto allora solo il loro dovere, inchiodati – senza avere peraltro tutti i torti in questo paradosso- alle leggi scritte e approvate dalla Camere come peggio non si potesse. Potrei continuare, dicevo, se non me ne avesse esonerato in qualche modo prima di morire Francesco Saverio Borrelli in persona, il capo carismatico di quella Procura. Che era cosi esaltato all’inizio della sua opera rigeneratrice da chiedere all’amico giurista Giovanni Maria Flick – come Il Dubbio ha appena riprodotto- se fosse proprio necessario celebrare i processi e scrivere le sentenze di condanna dopo tante confessioni spontanee di imputati. Ebbene, dopo una più lunga e proficua riflessione, ma soprattutto vedendo il mondo della politica e degli affari prodotto dall’epopea di “Mani pulite”, il povero Borrelli si chiese se fosse stato giusto davvero demolire tutto quello che era stato demolito della cosiddetta prima Repubblica, e se non fosse opportuno scusarsi con gli italiani per averli affidati in mani ancora peggiori. Le scuse, per quanto lo riguardavano, furono subito accordate in un libro autobiografico da Claudio Martelli, che peraltro era grato del riconoscimento ricevuto da Borrelli di essere stato se non il migliore, almeno fra i migliori ministri della Giustizia succedutisi fra la prima e la seconda Repubblica. Contro di lui, in effetti, diversamente da Giovanni Conso, da Alfredo Biondi, da Roberto Castelli, non apprezzato neppure come ingegnere acustico, Borrelli e i suoi emuli non si erano mai spesi in proteste e minacciosi annunci di dimissioni. 

Da ansa.it il 10 novembre 2021. Folla per la cerimonia di addio alla magistratura di Francesco Greco, il procuratore della Repubblica di Milano che sabato andrà in pensione. L'aula magna del palazzo di giustizia, che in genere viene usata per l'inaugurazione dell'anno giudiziario e per altre occasioni speciali, è gremita di persone, a partire dai vertici della magistratura e dell'avvocatura milanese e delle forze dell'ordine ma anche gli ex pm del pool di Mani pulite che hanno affiancato Greco durante Tangentopoli, e cioè Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo. Nell'aula è stato allestito un grande schermo su cui scorrono le foto più significative della carriera di Greco. "Le regole devono essere rispettate in primis dai magistrati", ha detto il procuratore di Milano Francesco Greco nel suo discorso commosso di saluto nell'aula magna, facendo anche riferimenti espliciti e impliciti alla bufera che si è abbattuta sulla Procura milanese e allo scontro col pm Paolo Storari, ovviamente non presente al commiato, come anche alcuni altri sostituti procuratori. "Non è la prima e non sarà l'ultima tempesta che l'Ufficio si troverà ad affrontare". "Al di là di tante chiacchiere e strumentalizzazioni - ha detto ancora Greco - lascio una procura organizzata ed efficace. Tra qualche giorno verrà presentato il bilancio sociale e i numeri lo dimostreranno". "Al di là dei dissapori, quando si saluta una persona, la si saluta perchè si è passata una vita insieme. Grazie per lo spirito di squadra che mi hai insegnato quando sono venuto qui a Milano. Vorrei tanto che ci fossimo tutti": sono le parole di Antonio Di Pietro, ex pm di Mani Pulite intervenuto a Milano alla cerimonia per il pensionamento di Francesco Greco. "Non si può dimenticare quello che abbiamo passato - ha aggiunto - Qui abbiamo fatto il nostro dovere e ne abbiamo anche pagato le conseguenze. Sono venuto qua a dirti grazie, quel grazie che non sono riuscito a dirti e ho avuto il coraggio di dirti allora", quando Di Pietro ha lasciato la magistratura. "Si può essere d'accordo o non d'accordo con le decisioni prese - ha concluso - ma quello che abbiamo fatto non era per sovvertire lo Stato ma per assicurare alla giustizia dei delinquenti". Nell'aula magna, è intervenuto anche Gherardo Colombo che ha ricordato che, a partire dal 1992, "abbiamo fatto tante cose e ce ne hanno fatte tante. Abbiamo condiviso momenti drammatici", ha affermato ricordando i suicidi di Raul Gardini e Gabriele Cagliari. "Abbiamo cercato di fare quello che ci diceva il codice con tante difficoltà e dolori". "Sono contento di essere qui a ricordare il passato - ha concluso - ma proiettati verso il futuro perché c'è una vita fuori, si può fare molto anche fuori", ha concluso Colombo che da 14 anni ha lasciato la toga.

La cerimonia di congedo. Greco ai saluti, l’Amara uscita di scena del Procuratore di Milano: “Magistrati in primis devono rispettare le regole”. Redazione su Il Riformista il 10 Novembre 2021. “Lascio una procura organizzata ed efficace i numeri e i risultati sono ben rappresentati al di là di tante chiacchiere e strumentalizzazioni”, ha detto Francesco Greco, procuratore capo di Milano, alla cerimonia di addio. Greco il 13 novembre compirà 70 anni e lascerà la magistratura. “Fra qualche giorno verrà presentato l’ultimo bilancio sociale che abbiamo stilato e i numeri e i risultati lo dimostrano”. Greco era diventato Procuratore nel 2016, da 43 anni nello stesso Palazzo di Giustizia. Arrivava da Roma (dove ha fatto da uditore in una breve parentesi) la sua città, anche se è nato a Napoli nel 1951. Cinque lunghi e complicati anni quelli a capo della Procura ambrosiana. Restano due procuratori aggiunti e diversi pm indagati dalla Procura di Brescia per la gestione dei casi più delicati nell’ultimo periodo, come la vicenda Eni Nigeria e il caso Amara. Successore da lunedì sarà Riccardo Targetti, ora procuratore aggiunto responsabile dei reati d’impresa, anche lui alla soglia dei 70 anni (andrà in pensione ad aprile). Nessun accenno al Processo Eni, al caso della presunta Loggia Ungheria, ai 56 su 64 pm che si sono opposti al trasferimento di urgenza del collega Paolo Storari. Non era aria oggi, non era il giorno. L’attenzione mediatica degli ultimi mesi aveva fatto urlare il Procuratore all’accerchiamento. In un’intervista a Il Corriere della Sera dal sapore del congedo, a inizio settembre, aveva sottolineato con enfasi “il tentativo di decapitare la Procura di Milano”, “un simbolo che deve essere abbattuto”. La giornalista Milena Gabanelli gli chiedeva se ci fosse un disegno più ampio dietro tutto ciò: “Veda lei. Se stiamo ai fatti la Procura di Milano rappresenta da decenni un’anomalia, per la capacità di svolgere un ruolo cruciale e sempre innovativo sia sul fronte della legalità politica ed economica nazionale e internazionale, che nei fenomeni criminali che accompagnano il costume sociale”. E quindi chiosava: “Sono certo che questa Procura non cambierà pelle … almeno me lo auguro”. Il Procuratore descriveva come “una coltellata alla schiena” il comportamento di Piercamillo Davigo nell’ambito del caso sulla Loggia Ungheria. Proprio Davigo era assente oggi alla cerimonia molto partecipata, come riporta Lapresse, con un’aula magna gremita per Greco. Assente anche Ilda Boccasssini. Presente invece Antonio Di Pietro. “Io sono venuto perché volevo ringraziare Francesco Greco e dirgli delle cose importanti che non avevo avuto modo di dirgli quando ho lasciato la magistratura”, ha detto Di Pietro mandando i suoi saluti proprio a Davigo. “Per me oggi era un momento così importante che ci sarebbero dovuti essere tutti” coloro che hanno fatto parte del pool di Mani Pulite, ha aggiunto Di Pietro, precisando però che per lui “c’erano tutti, o di persona o nel cuore”. L’introduzione nella cerimonia del pm Elio Ramondini sui “43 anni, 10 mesi, 9 giorni, 14 ore e 10 minuti, ossia tutti il tempo che hai consumato a fare il magistrato qua”, ovvero lui che “ci hai protetto all’inizio della pandemia, hai colto subito che era una cosa seria”. Presente anche Gherardo Colombo e l’ex procuratore di Torino Sergio Spadaro. “All’inizio non ci azzeccavo molto con questa procura – ha aggiunto ancora Di Pietro – e non ci azzeccavo molto nemmeno con Milano. Vorrei ringraziare Francesco Greco perché” all’interno del pool di Mani Pulite “mi ha insegnato a fare squadra” e “a stare bene con gli altri” e quindi “abbiamo fatto quello che abbiamo fatto perché volevamo fare bene il nostro lavoro, arrestare dei delinquenti al di là dei risvolti politici”. Colombo ha ricordato il giorno in cui con Greco appresero la notizia “del secondo suicidio in pochi giorni”, quello di Raul Gardini, dopo quello di Cagliari, e gli anni passati insieme, fatti anche “di tante sofferenze e tanti dolori. Sono contento di essere qui a ricordare il passato, ma proiettati verso il futuro perché c’è una vita fuori, si può fare molto anche fuori”. Greco, esperto di reati economico-finanziari, ha ricordato che quando ha preso le redini dell’ufficio da Edmondo Bruti Liberati, anche lui presente, “avevamo una giacenza di 130 mila processi, e noi l’abbiamo abbattuto a 80mila”. E che quindi “lascio una Procura che è in grado di affrontare le sfide nuove e complesse che derivano dal cambiamento del mondo e che proiettano il nostro lavoro in una dimensione sempre più globale, se è vero come è vero che la corruzione non ha confini. Io vedo sempre più un lavoro proiettato nel controllo del web” e nel “contrasto a cybercrime”. Nei suoi 5 anni da procuratore ha coordinato anche le indagini ‘Mensa dei Poveri’, quella sulla Lombardia Film Commission, l’inchiesta sullo sfruttamento dei rider e il caso di Dj Fabo. “Serve un profondo rispetto delle regole che devono essere rispettate in primis proprio dai magistrati – ha aggiunto ancora Greco – Non è la prima e non sarà l’ultima tempesta che questo ufficio dovrà affrontare”. Certo senza la loggia Ungheria, senza le dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara che hanno portato a un polverone e a un caso ancora tutto da decifrare e all’iscrizione nel registro degli indagati dello stesso Greco (per omissione d’atti d’ufficio, posizione comunque archiviata) l’addio sarebbe stato senz’altro più dolce.

Compie 70 anni e lascia la toga. Ritratto di Francesco Greco, il procuratore di Milano che va in pensione dopo 43 anni nello stesso Palazzo di Giustizia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Novembre 2021. Quarantatré anni nello stesso corridoio del quarto piano al Palazzo di giustizia di Milano, porta dopo porta, fino all’ultima in fondo, quella dell’ufficio più prestigioso, quando nel 2016 Francesco Greco è diventato procuratore capo. E oggi siamo all’epilogo, con il compimento di settant’anni fra tre giorni e la pensione. Una scadenza in genere non gradita, considerata come una mannaia sul collo da quei magistrati come Piercamillo Davigo affezionati alla professione e anche al ruolo di potere come il suo ultimo al Csm. Per Francesco Greco, che era arrivato giovane e scanzonato e rivoluzionario nel 1979 dopo l’uditorato a Roma, la sua città, potrebbe essere una liberazione. Da una storia che è stata un vero ottovolante: successi, vertigini di potere prima, angosce e pugnalate alle spalle dopo. Persino l’umiliazione di essere indagato dalla Procura di Brescia guidata da un suo ex sostituto. Che lo ha poi archiviato, un gesto amichevole e di pacificazione, pur se evidentemente dovuto. I sorrisi, le pacche sulle spalle, le ipocrisie si sprecheranno, all’aperitivo che gli è stato organizzato nel “suo” Palazzo che lo ha visto giovane incendiario e lo congeda anziano triste, forse. Sollevato per il distacco, magari. Certo, il fardello è pesante. E per fortuna che Francesco Greco non se ne va da indagato, le mani restano “pulite”. Del Csm, una volta lasciata la toga, può anche infischiarsi. Il bilancio del suo lavoro, che considera positivo senza falsa modestia, l’ha già consegnato in settembre ai lettori del Corriere nelle mani di Milena Gabanelli, un vero testamento politico. Con una pesante amputazione, però, la storia di Mani Pulite, accantonata con noncuranza e straniamento: non è la cosa più importante che ho fatto, ha stabilito. Se il dottor Greco fosse ancora quello degli anni settanta-ottanta, quello del “gruppo del mercoledi” che sognava di fare la rivoluzione anche attraverso le battaglie sul garantismo e contro la sinistra ufficiale, si potrebbe sperare in un ripensamento. È capitato ad altri suoi ex colleghi come Gherardo Colombo e in parte Tonino Di Pietro. Ma rimarrebbe comunque qualche ombra, come la ferocia con cui si è rivoltato al suo ex mentore Francesco Misiani, addirittura deferendolo al Csm. E poi la teorizzazione di un metodo, che verrà definito “ambrosiano”, quello del potersi tutto concedere. Non sono quisquilie, cavilli, formalismi. Violare costantemente la regola della competenza territoriale, nella presunzione di essere gli unici in grado di incastrare i potenti, non è solo arroganza, è violazione delle regole. Usare la custodia cautelare per strappare confessioni, soprattutto nei confronti di persone che alla vista o anche solo alla prospettiva del carcere avevano gravi crisi psicologiche, è stato violenza e sadismo. Giocare con gli indagati al gatto e il topo –come qualcuno ha fatto- e poi dire, come qualcuno ha detto, che i quarantun suicidi significavano solo che c’erano ancora uomini con il senso dell’onore. Tutto questo non si può cancellare come se la storia di questi quarant’anni fosse solo quella più recente in cui, oltre a tutto, si tende a giustificare più che rivedere, magari anche con gli occhi degli altri. Magari ricordando, quando si parla del processo Eni, che non c’è stato solo un gup che ha rinviato a giudizio, visto che poi c’è stato il dibattimento con tutti i problemi per cui i due pm d’aula sono indagati a Brescia per rifiuto di atti d’ufficio. E poi, visto che Francesco Greco, come sappiamo, in quella procura era presente anche ai tempi dell’inchiesta Enimont, potrebbe fare uno sforzo di memoria per ricordare che quella tra il colosso idrocarburi e la procura di Milano è storia maledetta e anche l’ossessione di qualcuno fin da allora. Potrebbe ricordare la maxitangente e spiegarci il perché di quell’arretramento di Di Pietro davanti al portone di Botteghe Oscure e dei suicidi di Cagliari e Gardini. Potrebbe aiutarci a capire l’ossessione nei confronti della creatura di Mattei, prima di precisare che la sentenza di assoluzione è solo quella di primo grado. Non si può continuare a dire che la Procura di Milano diretta da Francesco Greco è riuscita a portare a casa molto denaro facendo pagare le tasse ad alcune multinazionali e nello stesso tempo vantarsene sul piano internazionale sollecitando l’Ocse (la lettera dei quindici di cui abbiamo parlato ieri era la conseguenza dell’intervista di Greco al Corriere) a sanzionare l’Italia perché i poteri forti avrebbero preso di mira il suo ufficio. «Questa procura –aveva detto nella famosa intervista testamento politico- ha sempre rappresentato l’indipendenza e la libertà dei magistrati. È questo simbolo che deve essere abbattuto. Io non ho mai visto una campagna mediatica quotidiana così compatta e violenta come quella che è in corso in questi mesi, utilizzando la vicenda Storari e l’assoluzione in primo grado dell’Eni». Sorvoliamo sulla nemesi che colpisce anche chi fa uso di campagne mediatiche. Ma è difficile continuare a difendere un ufficio dove il capo non è riconosciuto come tale se non da quei pochi che sono stati promossi come aggiunti. Il piano triennale di riorganizzazione del procuratore Greco di due anni fa era stato bocciato, prima ancora che dal Csm, da tutti i sostituti, insofferenti, magari a torto, del giogo che il capo dell’ufficio aveva posto sul loro collo quando li aveva obbligati a consultare l’aggiunto di riferimento prima di assumere iniziative importanti. C’era stata una vera ribellione. Ma ancora niente rispetto al maremoto dei mesi scorsi, quando 59 su 64 si erano schierati, con una lettera inviata al Csm, con il pm Paolo Storari in seguito alle note vicende dei verbali passati a Davigo. Ma la cosa forse più grave, la manifestazione di una vera insofferenza nei confronti del capo era stata la presa di posizione di ventisette pm rispetto proprio all’investimento fatto da Francesco Greco sul pool per indagare sulla corruzione internazionale. Perché tutto sarebbe stato ricondotto, dicevano in sintesi i ventisette, all’ossessione dell’Eni. Con il sospetto che la creazione nel 2017 di questo dipartimento “Affari internazionali e reati economici transnazionali” affidata all’aggiunto Fabio De Pasquale, titolare dell’inchiesta sulla tangente da 1,1 miliardi e finita con l’assoluzione di tutti gli imputati, fosse legata soprattutto alla speranza di vincere quel processo e incastrare Eni proprio come negli anni novanta. Quanto è costato quel processo inutile e sbagliato? Forse anche questi conti vanno messi nel bilancio dei cinque anni in cui Greco ha guidato la procura di Milano. Insieme ai risultati positivi, che sono un po’ pochini, come la richiesta di assoluzione di Marco Cappato per il suicidio assistito di DJ Fabo o l’inchiesta sullo sfruttamento dei rider. Poi c’è l’inchiesta “Mensa dei poveri”, con ipotesi di corruzione politica locale, di cui sono però ancora in corso i processi. E se si considera che i dati su quelli per reati contro la pubblica amministrazione ci dicono che finisce con condanne definitive non più di un quarto, questa indagine, nel libro del bilancio tra i risultati positivi non può ancora essere inserita. Che voto dare a questi quarantatré anni, infine, procuratore Greco, nel giorno del suo saluto al Palazzo di giustizia? Per ora un “non classificato”. Perché mancano le sue risposte su quella terra di mezzo, tra quel ragazzo rivoluzionario che ci piaceva e quello di oggi che è un po’ carnefice ma anche un po’ vittima. Ma sulla terra di mezzo, quella in cui Milano fu definita Tangentopoli, città delle tangenti, e un gruppo di pm, di cui lei era il più giovane, osò definire come “pulite” le proprie mani (e sporche quelle di tutti gli altri), su quello non ha niente da dire?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” l'11 novembre 2021. Quando prendono la parola Gherardo Colombo, Armando Spataro, Antonio Di Pietro ed Edmondo Bruti Liberati per salutare l'ultimo della loro generazione ad andare in pensione, la sensazione è che con il collocamento a riposo di Francesco Greco si chiuda definitivamente non una pagina, ma un intero capitolo della storia giudiziaria italiana. Lo stesso che dalla fine degli Anni 60 ad oggi ha visto la Procura di Milano baluardo dell'indipendenza della magistratura tutta con indagini-simbolo coraggiose, come quelle su Piazza Fontana, P2, Tangentopoli, scalate bancarie, Toghe sporche e, in ultimo, sui giganti del web. In molte di queste inchieste, praticamente in tutte quelle sul mondo dell'economia, Greco è stato protagonista dalla parte dell'accusa, sin da quando per la prima volta, il 29 gennaio 1979, entrò, fresco di concorso, in un Palazzo di giustizia sconvolto dall'assassinio del magistrato Emilio Alessandrini poche ore prima. Come tutti i luoghi di lavoro, anche la Procura di Milano è stata attraversata nella sua storia da tensioni più o meno forti. L'ultima in ordine di tempo quella sulla vicenda della presunta loggia segreta Ungheria, che, con le inchieste disciplinari e penali che ne sono scaturite, ha lambito anche Greco, per il quale la Procura di Brescia ha chiesto l'archiviazione dall'accusa di aver ritardato l'iscrizione di personaggi ipoteticamente appartenenti alla stessa loggia. Una vicenda dolorosa che per Francesco Greco è arrivata al termine di una carriera lunga quasi 44 anni ed il cui retrogusto amaro si percepisce sullo sfondo della cerimonia di addio organizzata da alcuni suoi sostituti in un'aula magna che, affollata nonostante le limitazioni anti-Covid, deve però registrare l'assenza di altri due pensionati di spicco: Piercamillo Davigo, componente dello storico pool Mani pulite, coinvolto su fronte opposto nella vicenda Ungheria, e Ilda Boccassini. «Al di là di tante chiacchiere e strumentalizzazioni, lascio una Procura organizzata ed efficace in grado di affrontare le sfide nuove e complesse che derivano dal cambiamento del mondo», rivendica Greco guardando al minaccioso panorama del cybercrime mentre vengono proiettate le immagini più significative della sua carriera. «Abbiamo sempre fatto il nostro dovere», aggiunge, invitando i magistrati più giovani a non chiudersi «in una torre d'avorio», ma a seguire la vita del Paese consapevoli che «le doti di un servitore dello Stato devono essere la conoscenza, il coraggio e l'umiltà». Antonio Di Pietro vorrebbe che «al di là dei dissapori» i componenti del pool tornino a rivedersi da pensionati. «Non si può dimenticare quello che abbiamo passato facendo il nostro dovere, anche pagandone le conseguenze» in «un periodo di intensità disumana», afferma l'ex simbolo di Mani pulite prima di porgere a Greco, riferendosi a quando nel '94 lasciò bruscamente la magistratura in piena inchiesta, quel «grazie che non ho avuto il coraggio di dirti allora». A ricordare anche i «momenti drammatici», come i suicidi di Gabriele Cagliari e Raul Gardini, è Gherardo Colombo: «Abbiamo fatto tante cose e ce ne hanno fatte tante» quando «cercavamo di fare ciò che ci diceva il codice con tante difficoltà e tanto dolore». Per Armando Spataro, che ha concluso la carriera guidando la Procura di Torino, l'ufficio di Milano, dove ha lavorato decenni, è «una casa e anche una famiglia». Greco «ha dato corpo alla continuità del suo spirito».

Greco dice addio ma alla sua festa Davigo non c’è. «Abbiamo fatto quello che abbiamo fatto con coscienza, non per scopi politici, non per rompere l’ordinamento dello Stato, ma per assicurare alla giustizia dei delinquenti», è il saluto di Antonio Di Pietro alla cerimonia per il congedo del procuratore di Milano. Assenti Davigo e Boccassini. Il Dubbio l'11 novembre 2021. «All’inizio non ci azzeccavo molto con questa procura e non ci azzeccavo molto nemmeno con Milano. Sono venuto qui a dire grazie a Francesco perché nel frastuono di quei giorni, di quei momenti, non l’ho fatto, non ne ho avuto il coraggio. Grazie per quello spirito di squadra che è riuscito a darmi». Sono le parole di un collega di sempre, Antonio Di Pietro, ad accompagnare Francesco Greco al passo d’addio. Il procuratore di Milano andrà in pensione il 23 novembre, a 70 anni compiuti, lasciando dietro di sé le macerie di un ufficio che ora, a trent’anni da Mani pulite, rischia di finire a processo. Arrivato con una procura spezzata dalla contesa tra il predecessore, Edmondo Bruti Liberati, e il suo vice, Alfredo Robledo, Greco è il penultimo ancora in toga del pool di cui resta solo il più giovane del gruppo, Paolo Ielo, procuratore aggiunto a Roma. A investirlo il giorno della presentazione fu Francesco Saverio Borrelli, la guida dai magistrati di Tangentopoli: «Sono certo – disse – che sarà capace di pilotare la navicella puntando sulla coesione e l’armonia dell’ufficio». Di certo non avrebbe potuto immaginare che Greco avrebbe chiuso i suoi cinque anni a Milano nel mezzo di una guerra intestina. Una «tempesta» – quella seguita alla vicenda dei verbali di Amara e al caso Eni – che la procura è però in grado di superare «come tante altre», assicura Greco nell’aula gremita del tribunale dove oggi si è tenuta la cerimonia d’addio. «La mia speranza era che oggi ci fossimo tutti noi» magistrati del pool, dice Di Pietro puntando il faro su due assenze ingombranti: Piercamillo Davigo e Ilda Boccassini. «Abbiamo fatto quello che abbiamo fatto con coscienza, non per scopi politici, non per rompere l’ordinamento dello Stato, ma per assicurare alla giustizia dei delinquenti», chiosa l’ex pm. A ricordare quella «dolorosa» stagione è anche Gherardo Colombo, l’ex magistrato del pool che non manca all’appello e per l’occasione rimette piede nel Tribunale di Milano a distanza di 16 anni. Da parte sua, Greco molla il timone con la convinzione di lasciare una procura «ben organizzata ed effice». Al di là, sottolinea, «di tante chiacchiere e strumentalizzazioni». «Fra qualche giorno – spiega – verrà presentato l’ultimo bilancio sociale che abbiamo stilato e i numeri e i risultati lo dimostrano». Quindi il saluto commosso: «È difficile fare un bilancio di una storia durata quasi mezzo secolo e iniziata il 29 gennaio 1979 – racconta – il giorno in cui è stato ucciso Emilio Alessandrini, un magistrato che non mai conosciuto ma uno dei simbolo che mi hanno convinto a entrare in magistratura». «La storia degli uffici giudiziari di Milano – conclude Greco – ha accompagnato la storia di questo paese» dagli Anni di piombo alla connessione globale, «elencare la storia di questi anni è come un grande libro che attraversa le grandi questioni di questo Paese. Abbiamo sempre fatto il nostro dovere, si sono dette tante cose, ma da quel 29 gennaio a oggi sempre qui dentro sono stato. Non abbiamo fatto sacrifici, abbiamo compiuto il nostro dovere con responsabilità».

L'amaro brindisi del procuratore Greco. Lascia l'ultimo pm del pool di Tangentopoli. Luca Fazzo l'11 Novembre 2021 su Il Giornale. Il "capo" di Milano in pensione da indagato per il caso dei verbali di Amara. «Quarantatre anni, nove mesi, dieci giorni, nove ore e dieci minuti»: Elio Ramondini, che era insieme a Paolo Ielo uno dei ragazzi di bottega del pool Mani Pulite e oggi ha i capelli bianchi, calcola così il tempo trascorso da quando Francesco Greco ha indossato per la prima volta la toga di magistrato, nella grande aula del Palazzo di giustizia di Milano dove ieri si celebra l'addio di Greco, che domenica va in pensione.

Era l'ultimo ancora in pista di quella testuggine romana che era il pool, tutti diversi, ma inattaccabili sotto lo scudo compatto. Da lunedì, nel palazzaccio milanese di quella stagione gloriosa e terribile non resta neppure un protagonista. Greco se ne va dopo cinque anni alla guida della Procura: per celebrare la sua investitura, nel 2016, venne in tribunale Francesco Saverio Borrelli, che non nascose la commozione per l'approdo al posto che era stato suo, di uno dei «pulcini» del pool.

Della squadra che diede l'attacco a Tangentopoli, Greco - che veniva dall'indagine sui fondi neri Eni - era la mente economica, sponda ideale per l'irruenza di Di Pietro, le sottigliezze di Davigo, le analisi di Gherardo Colombo. Ieri ci sono sia Di Pietro che Colombo. Non c'è Davigo, e Di Pietro, nel suo intervento, non manca di notarlo: «Vorrei tanto che ci fossimo qui tutti, quelli di quei giorni. Perché abbiamo fatto un pezzo di vita insieme, e abbiamo fatto il nostro dovere con coscienza per assicurare alla giustizia dei delinquenti».

Ma Davigo non c'è, non può esserci, perché l'addio di Greco arriva nel pieno della tempesta che ha investito la Procura, e di cui Davigo - facendosi consegnare dei verbali segreti dal pm ribelle Paolo Storari - è stato uno dei motori. È finita che ora sono tutti sotto inchiesta, e a Greco toccherà andare in pensione da indagato perché il suo proscioglimento, già chiesto dalla Procura di Brescia, non è ancora arrivato. E l'ombra lunga di quella brutta storia si allunga inevitabilmente anche sulla cerimonia di ieri, si traduce negli sguardi per capire chi c'è e chi manca. C'è lo stato maggiore, ci sono (quasi tutti) i vice. Ma scarseggiano la base, i peones della Procura che nello scontro interno si sono schierati con Storari e contro il capo.

Greco, quando tocca a lui parlare, all'enorme pasticcio accenna appena: «Non è la prima né l'ultima tempesta che la Procura di Milano dovrà affrontare», dice. E non fa cenno al tema della sua successione, della gara ancora incerta che potrebbe per la prima volta portare alla guida della Procura ambrosiana un magistrato cresciuto lontano da questo palazzo, dalle sue tradizioni, dai suoi cerchi di amicizie e di ideologie. Di tutto questo Greco non parla. Ma nei giorni scorsi, chiacchierando con un vecchio amico, aveva mostrato tutte le sue preoccupazioni: «Chi oggi - aveva detto - invoca per questa Procura un papa straniero temo che in realtà abbia in mente solo la normalizzazione della Procura di Milano, ridurla a occuparsi di inchieste da cronaca locale». Perché, piaccia o non piaccia, questa è la Procura che negli ultimi trent'anni ha battuto per prima nuove strade, ha cercato orizzonti nuovi nei nuovi crimini dell'economia digitale, dello sfruttamento postindustriale, della corruzione internazionale.

Già, la corruzione internazionale: già fiore all'occhiello e ora croce della Procura milanese, con il naufragio delle inchieste contro Eni per le tangenti in Africa. Tutti assolti. «Ma al popolo nigeriano - diceva Greco l'altro giorno - in cambio di quei giacimenti enormi devo ancora capire cosa sia stato dato».

(Oltre a Davigo, ieri mancava anche Ilda Boccassini: ma dopo quello che ha scritto nel suo libro forse è stato meglio così).

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

 Il solito vizio di Davigo: "Berlusconi? Colpevole che l'ha fatta franca". Luca Fazzo il 12 Novembre 2021 su Il Giornale. L'ex pm di Milano riscrive le sentenze Sme e Mondadori: "Graziato da toghe benevole". Lui non c'era. Quando si trattò di andare all'attacco, sferrando quello che doveva essere il colpo finale a Silvio Berlusconi, Piercamillo Davigo si tirò da parte. A raccontarlo è la collega che dei processi negli anni Novanta per il «caso Ariosto» fu la protagonista indiscussa, Ilda Boccassini: che nel suo libro uscito da poco, La stanza numero 30, scrive: «Il peso delle indagini gravava su di me e Gherardo Colombo. Davigo era contrario, disse che se lo costringevano ad andare in aula avrebbe intentato causa civile per astenersi». Ora anche Davigo ha scritto un libro, L'occasione mancata. Dove di quella battaglia combattuta da altri si riappropria, rivendicandola come se l'inchiesta e il processo li avesse fatti lui. La battaglia, come è noto, finì per il pool con una sconfitta sonora, con Berlusconi assolto con formula piena sia nel processo Sme che in quello per il Lodo Mondadori, scaturiti entrambi dalle dichiarazioni di Stefania Ariosto, la «teste Omega» dei rapporti tra i legali del Cavaliere e alcuni giudici romani. Ma nel suo libro Davigo liquida quelle assoluzioni come una dimostrazione di «grande benevolenza» da parte dei giudici che in udienza preliminare, in appello e in Cassazione si occuparono delle accuse a Berlusconi e ritennero che non ci fossero le prove di un suo coinvolgimento negli episodi contestati: per i quali secondo Davigo c'erano invece «fatti inoppugnabili», «ampiamente riscontrati e integrati da prove documentali». Berlusconi per Davigo non è un innocente ma un colpevole «che l'ha fatta franca»: categoria cui, come è noto, per il «Dottor Sottile» appartengono quasi per intero gli imputati che (magari dopo anni, magari dopo essersi fatta la galera) vedono riconosciuta la propria estraneità. Le assoluzioni sono di solito degli errori giudiziari. E l'assoluzione, tutte le assoluzioni del leader di Forza Italia sono errori anche loro: il caso Sme, la Mondadori, e prima ancora quella per le tangenti alla Guardia di finanza, l'accusa che portò al famoso avviso di garanzia del novembre 1994 durante il summit di Napoli. Secondo Davigo la Cassazione per assolvere Berlusconi si sarebbe rimangiata la sua stessa «giurisprudenza consolidata» sui criteri di valutazione delle prove: quisquilie giuridiche, insomma. Peccato che l'assoluzione di Berlusconi nel 2001 sia tranchant, e parli dell'assenza di «prove dirette né orali né documentali»; e che nel 2009 la Cassazione assolse anche due collaboratori di Berlusconi, Marinella Brambilla e Nicolò Querci, e anche in quella sede la ricostruzione degli stessi fatti su cui ora si basa in buona parte il libro di Davigo venne liquidata come «una serie di congetture del tutto opinabili, rimaste prive di alcun riscontro». Tutto ciò non conta. Se l'occasione di far fuori Berlusconi per via giudiziaria fu, come dice il titolo del libro di Davigo, L'occasione mancata la colpa secondo l'ex pm milanese non fu dell'innocenza dell'imputato o della mancanza di prove: ma dei giudici che pur «alla luce delle prove raccolte» e «a fronte delle condotte volte a impedire o rallentare i processi» e «della straordinaria gravità dei fatti» dimostrarono «grande benevolenza». Comunque per Davigo non è detta l'ultima parola: «su questo si pronunceranno gli storici quando le passioni saranno spente». Nell'attesa che gli storici dicano la loro, resta una curiosità: se le cose andarono come dice la Boccassini, perché Davigo di occuparsi del processo a Berlusconi non voleva neanche sentire parlare?

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Il libro "L'occasione mancata" dedicato al Cav. Le assoluzioni di Berlusconi? Per Davigo sono colpa dei giudici. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Novembre 2021. Non ha fatto neppure in tempo a fare una scappata al Palazzo di giustizia, pur abitando a due passi, per partecipare al commiato del suo “caro amico” Francesco Greco. Piercamillo Davigo era troppo impegnato con un altro “caro amico”, Silvio Berlusconi, cui ha dedicato il lancio in anteprima del suo libro, L’occasione mancata, edito dal Fatto e pubblicato sul Fatto. Quando si dice la fedeltà. Bisogna dire che l’ex “dottor Sottile”, piercavillo o pieranguillo che sia, non delude mai per originalità. La sua tesi è che Silvio Berlusconi non solo non è stato mai perseguitato dalla magistratura, ma addirittura è stato privilegiato e protetto. Da chi? Niente di meno che dai giudici. Cioè da coloro che emettono le sentenze, quelli che dividono i colpevoli dagli innocenti, insomma. Per Davigo quel che conta è il parere del pubblico ministero, l’ipotesi da cui partono le indagini. Questa è l’unica verità, mica il risultato di quel che succede nei tribunali al termine dei processi. Le sentenze, insomma. Va riconosciuto all’ex pm milanese ora pensionato, di non usare nei confronti del leader di Forza Italia la solita tiritera delle “leggi ad personam” (su cui nessuno spiega mai se fossero norme giuste o sbagliate per il “signor chiunque”, l’unico nominato dal codice penale) piuttosto che delle prescrizioni. No, lui cita, in un caso anche con dovizia di particolari, tre famose inchieste che si sono concluse con l’assoluzione di Berlusconi. Tre esempi che gli servono per concludere che «l’atteggiamento dei giudici, all’esito dei vari gradi di giudizio… non può che essere definito di grande benevolenza». Speriamo non intenda alludere a qualche forma di corruzione nei confronti dei suoi ex colleghi del settore giudicante. Sembra invece piuttosto l’eco di quei film e filmetti che suonavano più o meno così: la polizia arresta e la magistratura scarcera. Inni alla custodia cautelare. E si può supporre che in quei casi uno come Davigo starebbe dalla parte dei carcerieri. È un finto arreso, gli va dato atto di mostrarsi sempre indomito, anche quando aveva fatto una figura meschinella nel non volersi scollare dal ruolo di consigliere del Csm. Anche quando, come ieri nello scritto sull’organo di famiglia delle toghe requirenti, cita malamente l’ “habent sua sidera lites” (ogni controversia segue il suo fato), di Piero Calamandrei, come se davvero pensasse che la giustizia è una sorta di gioco da non prendere troppo sul serio. Ma Calamandrei nel suo Elogio dei giudici scritto da un avvocato del 1935, mette proprio in guardia, con parole di grande incoraggiamento, i giovani legali dall’arrendersi alla sorte dell’amministrazione della giustizia: «Ma tu, o giovine avvocato, non affezionarti a questo motto di rassegnazione imbelle, snervante come un narcotico… mettiti fervidamente al lavoro colla sicurezza che chi ha fede nella giustizia riesce in ogni caso, anche a dispetto degli astrologi, a fare cambiare il corso delle stelle». La causa può perderla l’avvocato difensore, ma anche il rappresentante dell’accusa. Ed è questo che Piercamillo Davigo non accetta. Non solo perché vorrebbe sempre vincere, ma perché pare per lui inconcepibile che dei giudici abbiano osato ribellarsi all’ipotesi accusatoria. Possiamo azzardare anche che l’orgoglio ferito frigga ancor di più se gli sconfitti sono un pm elogiato per la sua competenza e insieme la procura di quelli bravi, i Migliori, quelli di Milano? Aggiungiamo maliziosamente che se quello che ha vinto i processi si chiama Silvio Berlusconi, sono chili quelli del sale sparso sulle ferite. Il processo che rode di più è quello delle tangenti alla guardia di finanza. Davigo ne descrive minuziosamente i passaggi, e più si legge più si capisce (anche per chi non è avvocato né magistrato) quanto inconsistenti fossero quelle “prove” a carico dell’allora presidente del Consiglio, come rilevato dalla Cassazione che lo assolse “per non aver commesso il fatto”. Stiamo parlando dell’inizio della persecuzione giudiziaria – parola che a Davigo non piace, ma a molti sì, si rassegni- con il famoso invito a comparire mentre Berlusconi presiedeva un incontro internazionale sulla criminalità a Napoli e lo scoop del Correre della sera che ne diede notizia. C’è poco da scherzare e da invocare il fato e le stelle, caro dottor Davigo. Non c’era alcuna prova che Berlusconi avesse commesso un reato, e quel fatto, scoop del Corriere compreso, ebbe un rilievo notevole nella caduta del primo governo guidato dal leader di Forza Italia. Conseguenza politica di indagini infondate. Si rammarica ancora l’ex pm di Mani Pulite, delle assoluzioni nei processi Mondadori e Mills. Cita minuziosamente i nomi delle persone condannate e poi butta lì il suo “Berlusconi assolto”. E poi ancora nell’inchiesta “Sme-Ariosto”, in cui, secondo l’accusa, avrebbero dovuto bastare le testimonianze della ex fidanzata di Vittorio Dotti e di un’altra persona per far condannare Berlusconi. Ma, dice con sincerità Davigo, «La cosa che più mi ha sorpreso nelle vicende riguardanti Silvio Berlusconi e i suoi coimputati è stata la continua lamentela di una persecuzione giudiziaria». Lei come si sentirebbe, cittadino Davigo, se dopo centinaia di perquisizioni e processi sopra processi avesse già portato a casa una sessantina di assoluzioni (a fronte di una discutibile sola condanna)? Penserebbe di esser un colpevole che l’ha fatta franca grazie alla benevolenza dei giudici?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La procura dei veleni. Greco lascia la toga, e Storari se la gode: è sua l’inchiesta sul reddito di cittadinanza. Frank Cimini su Il Riformista il 12 Novembre 2021. Francesco Greco nel giorno in cui ha dato l’addio alla mitica procura di Milano per andare in pensione ha finito per prendere in giro tutti, e a cominciare da se stesso. «Lascio una procura organizzata e efficace» in effetti è l’ultima cosa che poteva dire. Greco non può non sapere di lasciare un ufficio allo sbando dopo che 59 sostituti lo avevano mandato letteralmente a quel paese firmando un documento che con l’occasione della solidarietà a Paolo Storari era soprattutto un esplicito disaccordo per il modo in cui negli ultimi cinque anni è stata gestita la procura. E paradossalmente come se dovesse per forza piovere sul bagnato il giorno dopo le parole del procuratore nell’aula magna del triplice resistere di Borrelli campeggia sui siti dei giornaloni l’inchiesta coordinata proprio da Storari. In sintesi una banda di italiani e di romeni con una facilità impressionante accedevano al reddito di cittadinanza, truffando una ventina di milioni di euro e con la prospettiva di arrivare irrisoriamente a sessanta se non fosse intervenuta la guardia di finanza di Cremona. Ennesima dimostrazione che la legge sul reddito di cittadinanza era stata fatta senza prevedere anticorpi e controlli. Però Storari si gode il trionfo dopo aver evitato per il rotto della cuffia, il capo dell’ufficio stava sulle balle a quasi tutti i pm, il trasferimento in altra sede per aver consegnato a Piercamillo Davigo i verbali dell’avvocato Piero Amara. E qui stiamo a parlare della goccia che ha fatto traboccare il vaso. Si illude non poco chi dice che il procuratore Greco non può essere giudicato solo per gli ultimi mesi del suo mandato e per il processo Eni dove l’ufficio dell’accusa aveva cercato di vincere puntando sulle dichiarazioni di Amara e Armanna cavalli più che azzoppati. I processi si possono anche perdere, è fisiologico, ma nel caso specifico c’era il veleno di aver mandato le carte a Brescia con l’obiettivo di indurre il presidente del collegio Marco Tremolada a astenersi perché Amara sosteneva che sarebbe stato “avvicinabile” da due avvocati della difesa, Nerio Diodà e l’ex ministro Paola Severino. Manovra sporca. Greco comunque continua a godere di buona stampa. Viene incensato per aver recuperato un sacco di soldi a favore dell’orario dai colossi del web, ma senza spiegare che il magistrato si era sostituito all’Agenzia delle entrate trattando al suo posto. E ottenendo il versamento di somme largamente inferiori a quelle che sarebbero arrivate alla fine di un processo. Perché il compito dei procuratori resta quello di portare le persone davanti ai giudici non quello di recuperare denari per lo Stato. Il Corriere della Sera ribadisce che la procura di Milano è stata un baluardo dell’indipendenza della magistratura, facendo riferimento soprattutto a Mani pulite. I padroni del Corriere allora sotto schiaffo del pool per altre loro attività appoggiarono l’inchiesta ottenendo in cambio di farla franca, tanto per usare un concetto caro a Davigo. Che nell’aula magna a sentire l’autoincensamento di Greco non c’era. I due se le sono date di santa ragione sui giornali e a verbale davanti ai pm di Brescia. Si sono minacciati a vicenda di querela. Greco ha detto che Davigo prendeva i verbali di Amara dalle mani di Storari perché voglioso di vendicarsi dell’ex alleato al Csm Ardita. Davigo ha ribadito le accuse a Greco di non aver proceduto con le iscrizioni tra gli indagati delle persone chiamate in causa da Amara. Probabilmente hanno ragione entrambi. Ma non sono i risvolti penali della vicenda gli aspetti più interessanti. Finisce un’epoca mentre a grandi passi si avvicina il trentesimo compleanno di Mani pulite. Nell’aula magna Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo hanno affermato che allora si limitarono a fare il loro dovere, “pagandone le conseguenze” “e quante ce ne hanno fatte”. Fu una una guerra tra le classi dirigenti del paese. La magistratura saltava al collo di una politica indebolita per riscuotere il credito acquisito ai tempi della madre di tutte le emergenze. Quando Greco giovanissimo sostituto faceva parte di una pattuglia minoritaria ma combattiva che dall’interno di Md si opponeva alle leggi e alla pratica dell’emergenza mentre il suo ufficio ignorava l’allarme dei giovani del collettivo autonomo della Barona che sostenevano di aver subito torture in questura. Poi l’emergenza diventava infinita oltre che prassi normale di governo. E Francesco Greco uomo di potere. Con un fine carriera “un po’ così” diciamo eufemisticamente. Frank Cimini

L'orologio (guasto) dei pm. Luca Fazzo il 19 Ottobre 2021 su Il Giornale. Se è una coincidenza, bisogna dire che è una coincidenza dannatamente ostinata. Se è una coincidenza, bisogna dire che è una coincidenza dannatamente ostinata. Perché quando le inchieste giudiziarie fanno irruzione negli scenari della politica svanisce per incanto la regola che da sempre regge invece le indagini sul mondo dell'economia: dove se un arresto eccellente può compromettere il valore di un titolo azionario l'arresto si esegue dopo le 17.30, quando la Borsa chiude, in modo da evitare sconquassi (e magari l'arricchimento di chi sa tutto prima). Invece le indagini sulla politica si aprono e si chiudono, esplodono e si sgonfiano a ridosso o nel pieno delle scadenze politiche, modificandone il corso naturale. Peccato - e qui sta la diabolica coincidenza - che il timing degli annunci sembri seguire un doppio binario: se il blitz colpisce una certa parte politica (e non c'è neanche bisogno di specificare quale) si può stare certi che verrà realizzato nel pieno della campagna elettorale o di un vertice internazionale. Se invece a rimetterci è l'immagine della parte opposta, o comunque di uno schieramento caro al partito dei pm, si avrà la delicatezza di eseguire il passaggio ad urne ormai chiuse o quasi chiuse, in modo da non compromettere con ingerenze indebite la serenità del voto. L'elenco degli esempi sarebbe così lungo da apparire persino noioso. Fermandosi ai tempi più recenti, basterebbe citare solo i casi di Luca Morisi, l'animatore della «Bestia» leghista, e del deputato di Fdi Carlo Fidanza: il primo sotto inchiesta da mesi e mesi, e catapultato in prima pagina nel pieno della campagna elettorale; il secondo al centro addirittura da anni di una inchiesta giornalistica, che esplode anch'essa a ridosso del voto. E vabbè che i giornalisti fanno il loro mestiere e scrivono quando e come gli pare: ma poi arriva un pm che a ballottaggi incombenti incrimina Fidanza e soci. Non sempre, come è noto, l'azione penale è stata esercitata con la medesima tempestività. Ora arrivano i casi paralleli di Domenico Arcuri, ex commissario straordinario al Covid, e della Baggina, il Pio Albergo Trivulzio al centro di una inchiesta che lo dipingeva come un mattatoio per anziani. L'inchiesta sulla Baggina aveva tirato in ballo - non giudiziariamente ma mediaticamente - i vertici della Regione, incolpati di avere inviato nel vecchio ospizio centinaia di appestati. Non era vero niente, e che l'indagine sulla Baggina fosse destinata a chiudersi con un nulla di fatto era noto da tempo nei corridoi della Procura milanese: l'annuncio ufficiale arriva però solo dopo il secondo turno delle amministrative. L'opposto accade per Arcuri, star del governo grillino: incriminato, ma solo a urne chiuse. Coincidenze, eh.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

La guerra delle "inchieste. " Giacomo Susca il 22 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nel Paese in cui sembra non esserci nulla di più soggettivo della verità dei fatti, passando dalle evidenze scientifiche della lotta al Covid fino ai conti in sospeso con l'eredità del Dopoguerra. Nel Paese in cui sembra non esserci nulla di più soggettivo della verità dei fatti, passando dalle evidenze scientifiche della lotta al Covid fino ai conti in sospeso con l'eredità del Dopoguerra, sussiste un'anomalia che tormenta la vita quotidiana delle istituzioni. Politica e magistratura sperimentano gradi di separazione che vanno ben oltre il principio cardine che regge i poteri di uno Stato repubblicano. Il conflitto non occupa soltanto la vetrina dei quotidiani, ma permea nel profondo i rapporti di forza impedendo un confronto sereno e proficuo tra le parti. Basta leggere le cronache di queste settimane: il «sistema» della giustizia viene additato come l'esatto contrario di imparziale, operando spesso secondo logiche partigiane e seguendo un timing che suscita perplessità, se non autentico sospetto. Dall'altro lato della barricata, i custodi della volontà popolare espressa con il voto sono accusati di volersi sottrarre a qualunque giudizio materiale e morale. Una dimostrazione «plastica» di tale dissidio avviene quando si sente invocare l'urgenza di una «commissione parlamentare d'inchiesta», ormai per le questioni più disparate. Solo nell'ultima settimana ne sono state richieste tre, da forze politiche di diversa estrazione: sulla gestione dell'emergenza pandemica durante il governo Conte II e sullo scandalo mascherine dannose; sull'amministrazione di Alitalia; sullo smaltimento dei rifiuti inquinanti in Toscana. Nella XVII legislatura, quella terminata nel 2018, i disegni di legge per richiedere la costituzione di una commissione d'inchiesta sono stati più di 130. Sui siti internet di Senato e Camera sono riportate le attività delle cinque commissioni bicamerali, più altre sei monocamerali, a oggi istituite. Al di là della legittimità delle singole iniziative, peraltro sancita dall'articolo 82 della Costituzione, colpisce come il Parlamento tenga a difendere uno spazio di conoscenza e di vigilanza «con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria». Nell'Italia delle mille inchieste, delle cause in arretrato, della presunzione di colpevolezza fino a prova contraria e dei fascicoli aperti a tempo indeterminato, il braccio di ferro tra politica e magistratura non accenna ad attenuarsi. La ricerca della verità, a volte persino «alternativa» a quella ufficiale, continua a viaggiare su un doppio binario. Risultato: il Parlamento si occupa di giustizia e le toghe invadono la politica. E se in una guerra la prima vittima è proprio la verità, in questa guerra tra poteri a soccombere è la fiducia dei cittadini in chi li rappresenta, nelle aule del Palazzo come dei tribunali. Anche per questo, le urne deserte sono un segnale che nessuno può permettersi di ignorare. Giacomo Susca

Formidabile la riforma Vassalli. Poi arrivò tangentopoli…Il 24 ottobre 1989 entrò in vigore il nuovo codice e accese una speranza: che il rito di stampo autoritario fosse definitivamente andato in archivio. Beniamino Migliucci (past president UCPI) su Il Dubbio l'1 novembre 2021. Nel 1989, con l’entrata in vigore del codice di procedura penale ispirato a un modello tendenzialmente accusatorio, si sperava che la cultura che aveva generato e sostenuto il rito inquisitorio di stampo autoritario fosse definitivamente abbandonata. Le nuove regole processuali erano, infatti, frutto di una stagione in cui ideali liberali e democratici in materia di giustizia avevano trovato fecondo terreno nella società, nella cultura, nell’accademia e nella politica. Si riteneva superato e dannoso per l’accertamento della verità processuale un sistema che affidava al P.M. o, nella migliore delle ipotesi, al Giudice Istruttore il monopolio della prova che, poi, transitava a dibattimento sostanzialmente immodificabile, senza che la difesa potesse effettivamente incidere su di un prodotto preconfezionato. Il nuovo modello alterava tutto questo: le indagini svolte dal P.M. dovevano essere limitate nel tempo e funzionali alla mera raccolta di elementi – e non prove – per verificare la sostenibilità dell’accusa in un eventuale dibattimento, dove le parti, nel contraddittorio, avrebbero effettivamente partecipato alla formazione della prova. Il contraddittorio, dunque, veniva eletto, a ragione, come il metodo scientifico più affidabile per evitare errori e rendere giustizia. Il sistema portava ad una evidente perdita di potere complessivo della Magistratura che, tra l’altro, non apprezzava intrusioni della difesa nella formazione della prova. Sia chiaro: il codice del 1989 non corrisponde ad un modello accusatorio puro, tanto che, ad esempio, vi sono norme come l’art. 506 che, attribuendo al Giudice la possibilità di indicare alle parti ulteriori temi di prova e porre domande ai testimoni, sottrae alle parti l’esclusiva dell’iniziativa e dell’esame e del controesame, o come l’art. 507 che consente al Giudice di integrare i mezzi di prova delle parti. Nonostante il nuovo codice conservasse tracce inquisitorie era risultato, da subito, indigesto a gran parte della magistratura che aveva iniziato ad avversarlo, evidenziando rischi catastrofici, quanto inesistenti, circa la impossibilità di celebrare alcuni processi, in particolare quelli di criminalità organizzata, pericolo, poi, smentito dai fatti. La totale e continua ostilità della Magistratura, oltre che nella perdita di potere, trovava e trova fondamento anche nella circostanza che, l’adesione ad un modello processuale accusatorio, dovrebbe portare, come inevitabile conseguenza, strutturali riforme ordinamentali, coerenti al nuovo sistema. A sottolineare l’esigenza di un radicale cambiamento, erano stati anche alcuni autorevoli, quanto isolati Magistrati, come Giovanni Falcone che, in un congegno organizzato nel 1988 dalla Camera Penale Veneziana, dal Titolo “Un nuovo codice per una nuova giustizia” rilevò la necessità di confrontarsi con alcuni temi ormai ineludibili come quello della terzietà del Giudice e della obbligatorietà dell’azione penale: «Altri interventi, però, sono necessari sul piano legislativo e di ciò le forze politiche e sociali cominciano ad acquisire piena consapevolezza. Un primo passo è stato mosso con la riforma dell’ordinamento giudiziario nei punti direttamente collegati all’introduzione del nuovo codice, ma altri e più incisivi interventi, prima o poi, occorrerà effettuare e le stesse necessità della prassi le renderanno indispensabili. In primo luogo, bisognerà valutare se e in quali limiti istituti come l’obbligatorietà dell’azione penale, l’unicità delle carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti e la stessa appartenenza del P.M. all’ordine giudiziario siano compatibili con un nuovo sistema. Mi rendo conto di accennare a tempi di grave portata e sui cui ancora l’analisi è appena agli inizi, ma trattasi di questioni aperte che non verranno risolte semplicemente esorcizzandole o, peggio, muovendo da posizioni preconcette o corporative». La minaccia di sgradite quanto ineludibili riforme ordinamentali è risultata intollerabile per una parte consistente della Magistratura che ha, in ogni modo, manifestato il proprio dissenso rispetto al nuovo codice di rito. La politica, all’epoca, pur sempre attratta dall’idea di essere succube della Magistratura, non era stata ancora toccata dal ciclone di mani pulite e sembrò opporre una certa resistenza alla opposizione della Magistratura, resistenza che venne a cessare, per l’appunto, con la crisi della prima repubblica, travolta dagli scandali e dai processi. L’inizio del periodo di mani pulite coincise anche con le sanguinose e dolorose stragi criminali mafiose del 1992 che offrirono spunto per la controriforma e per le note sentenze demolitrici della Corte Costituzionale, con la contestuale introduzione di norme che consacravano il cd. doppio binario per alcuni reati, regole che poi hanno trovato applicazione per ogni tipo di processo. La politica, solo nel 1999 e grazie soprattutto all’UCPI, modificò l’art. 111 della Costituzione, introducendo i principi del giusto processo, finalmente aderendo alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo che già prevedeva all’art. 6 il diritto ad un processo equo. Da allora, sul codice di rito, interventi altalenanti quanto disomogenei, frutto, non di una visione organica di una politica giudiziaria, ma di contingenze, paure e convenienze elettorali, senza che l’art. 111 della Costituzione abbia trovato piena applicazione. Anzi: negli ultimi anni si è registrato un attacco senza precedenti a principi e valori costituzionali quali presunzione di innocenza, diritto di difesa, funzione risocializzante della pena. Il periodo più buio sembra alle spalle. La scellerata, quanto scriteriata riforma Bonafede della prescrizione è stata superata, così come neutralizzate altre norme che avrebbero mortificato non solo il codice di rito, ma anche principi costituzionali. Certo quella che ha preso il nome dell’attuale Ministra della Giustizia, dovuta anche alla inderogabile necessità di presentare in Europa un pacchetto di investimenti e riforme, poteva essere migliore, ma è stata determinata dal compromesso politico tra forze ideologicamente contrapposte, il che, in materia di giustizia, difficilmente produce risultati totalmente soddisfacenti. Quello che si deve evitare è: lo svilimento del contraddittorio dibattimentale; difendere il principio di oralità che è regola del processo penale; evitare che il processo diventi una punizione per chi ritiene di affrontarlo.

Il sistema accusatorio, o quel che resta di esso, deve essere difeso, ed anzi occorre rilanciare, sostenendo con forza i principi costituzionali del giusto processo, ribadendo, come l’UCPI sta facendo, l’ineludibilità della riforma della separazione delle carriere, perché un processo penale governato dalla cultura inquisitoria, il cui scopo improprio sia quello di combattere fenomeni criminali e di creare consenso attorno all’attività di questo o quel Magistrato e di governare, in questo modo, i mutamenti sociali determina, tra l’altro, inevitabilmente, uno squilibrio tra i poteri dello Stato. 

"Non è così": Bianca Berlinguer difende il Pci. Francesca Galici il 3 Novembre 2021 su Il Giornale. Vivace discussione tra Bianca Berlinguer e Maurizio Belpietro sui finanziamenti al Pci da Mosca durante gli anni Ottanta e i primi Novanta. Animi caldi a Cartabianca durante una discussione in cui la conduttrice ha analizzato le ipotesi sul tavolo per l'elezione del prossimo presidente della Repubblica ma anche la posizione di Matteo Renzi, stipendiato dallo Stato in quanto senatore ma consulente in Arabia Saudita, dove si trovava anche il giorno in cui si votava la tagliola al ddl Zan. Con lei in studio a riflettere su quei temi anche Luca Telese, Carlo Calenda e Maurizio Belpietro. Il più duro sul leader di Italia viva è stato l'ex candidato sindaco di Roma, che in tanti danno vicino a Renzi, circostanza fortemente smentita dallo stesso Calenda. Ma lo scontro si è acceso tra il direttore de La verità e Bianca Berlinguer, quando Belpietro ha ricordato un'inchiesta degli anni Novanta sui finanziamenti al Partito comunista da parte della Russia. Tutto nasce dalle parole di Carlo Calenda: "Io penso che come leader politico non puoi far convivere l'attività d'affari, certamente non lo puoi fare quando questa attività è fatta con Stati stranieri. Non c'è un presidente nella storia politica mondiale che, in carica, non può prendere i soldi da uno Stato". Il leader di Azione ha precisato che una legge in tal senso non c'è perché mai nessuno ha agito in quel modo. Ma a Carlo Calenda ha voluto replicare Maurizio Belpietro: "Qualcuno si dimentica la storia di questo Paese. Abbiamo avuto un partito che ha ricevuto i finanziamenti per 40 anni da uno Stato straniero, per altro nemico perché noi appartenevamo al blocco Atlantico e c'era un Paese che stava dall'altra parte. Fra l'altro in questi giorni mi è capitato tra le mani un numero di 30 anni fa di Panorama con un editoriale di Enzo Biagi, che raccontava esattamente i finanziamenti che arrivavano da Mosca. È problema che aveva il Partito comunista". A quel punto Bianca Berlinguer ha ricordato la legge sul finanziamento ai partiti, che ha di fatto ufficialmente interrotto i flussi da Mosca. Ma Maurizio Belpietro ha fatto una precisazione: "Quando cadde il muro (di Berlino, ndr) si scoprì che, fino all'ultimo giorno, il Partito comunista aveva ricevuto i finanziamenti da Mosca". Un'affermazione che ha fatto andare su tutte le furie la conduttrice, figlia di Enrico Berlinguer, che quando cadde il muro di Berlino era già morto. "Non è così Maurizio, questo te lo devo contestare. Si scoprì che era una parte precisa del Partito comunista che faceva capo ad Armando Cossutta. Non era il Partito comunista, anche se mio padre era già morto da molti anni", ha detto Bianca Berlinguer evidentemente innervosita davanti alle parole di Belpietro, che ha ribadito il concetto espresso poco prima, nonostante la conduttrice non abbia gradito. 

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

L’ex Msi Patarino in un libro autobiografico invita all’autocritica: su Craxi e Mani pulite sbagliammo. Riccardo Arbusti domenica 31 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Si può ragionare di politica e suggerire idee per l’attualità anche attraverso la rilettura dell’esperienza degli scorsi decenni. È quello che fa Carmine Patarino, parlamentare di lungo corso nelle file della destra, deputato alla Camera per sei legislature dal 1991 al 2013 (con la sola parentesi da non eletto tra il 1996 e il 2001), rievocando la sua personale storia politica. Pugliese di Castellaneta, tessera della Giovane Italia a quindici anni, poi attività nel Msi, in An, nel Pdl e in Fli. 

Patarino in un libro autobiografico racconta perché ha scelto la destra

Oggi si dichiara vicino alla proposta di Giorgia Meloni e di fratelli d’Italia. In un bel libro autobiografico scritto in prima persona – Fatti veri mai successi… e realmente accaduti (StampaSud, pp. 175, euro 12,00, con tavole grafiche di Egidio Patarino) – dopo aver sottolineato i punti fermi del suo stare a destra (europeismo, politica sociale, rispetto dell’emigrazione e proposte sull’immigrazione che mai debbono scadere a xenofobia, aspirazione alla pacificazione nazionale) e ricordato i suoi maestri, da Pino Rauti, leader della sua giovinezza, a Romualdi e Almirante, sino a Pinuccio Tatarella, spiega che allora come oggi ci sono dei punti fermi per chi intraprende l’impegno politico. “Vocazione, passione, entusiasmo, questi sono gli elementi che fanno da carburante per accendere il motore e partire per l’avventura politica…”. Aggiungendo che per poi essere un buon politico occorrono, primo di tutto: dedizione costante, impegno totale e, soprattutto, rispetto per le idee degli altri.

Basta con i politici motivati solo dall’idea di fare carriera

Da un po’ di tempo a questa parte, confessa più avanti Patarino, tra quelli che decidono di “scendere in campo” solo pochi sembrano spinti dalla passione disinteressata. Buona parte, invece, sembra motivata dalla possibilità di fare carriera o trovare una sistemazione. E da questo punto di vista l’ex parlamentare invita Giorgia Meloni a stare in guardia, facendo estrema attenzione in un momento espansivo per il partito di verificare che gli ingressi e le adesioni non arrivino da “ambulanti della politica” a caccia di nuove sistemazioni: “Ci furono certuni, approdati in An – spiega – proprio quando era al suo massimo splendore che avevano progetti legittimamente ambiziosi ma una fretta assolutamente ingiustificata. E, pur essendo molto modesti di idee e di consensi, pretendevano di ottenere tutto e subito…”.

L’autocritica di Patarino: su Craxi e Mani pulite abbiamo sbagliato

A un certo punto, l’analisi di Patarino riesce a farsi autocritica. È quando, tratteggiando coloro che nella politica italiana del secondo dopoguerra hanno operato per la pacificazione nazionale – dall’accoppiata Almirante-Berlinguer, sino a Craxi, Cossiga, e all’apertura di Violante da presidente della Camera – riesce a dire: “In quella vicenda noi del Msi non ci comportammo come avremmo dovuto”. L’ex parlamentare si riferisce alla vicenda di Craxi e all’inchiesta Mani Pulite. Bettino Craxi era infatti stato, come presidente del Consiglio e segretario del Psi, il primo a rompere le regole non scritte del cosiddetto “arco costituzionale”.

Fu Craxi da avviare lo “sdoganamento”

Aveva avviato la pratica del riconoscimento – quello che poi sarà chiamato “sdoganamento” – di due milioni di italiani che votavano Msi. Aveva infatti instaurato un dialogo politico e istituzionale con la destra, “seminando il panico nei palazzi del potere” targati Dc e Pci: “Cosa sarebbe accaduto dopo lo sdoganamento del Msi, una volta che fossero caduti i veti? Quali effetti avrebbe prodotto la sua immissione nell’ambito delle trattative e degli accordi, a partire da quelli per la formazione dei governi e per la scelta del capo dello Stato?”.

Per ostacolare le riforme fecero fuori il Cinghialone

Ad avviso (postumo) di Patarino il discrimine politico non sarebbe più stato tra fascismo e antifascismo, e neanche tra comunismo e anticomunismo, ma tra proposte alternative di fronte all’unità nazionale: “ma per evitare che ciò accadesse – scrive – misero in moto una potentissima macchina per far fuori il Cinghialone, non solo sul piano politico”.

Il Msi sbagliò a seguire il clima giustizialista

Vale la pena leggersi per intero l’autocritica di un ex missino capace di farla: “Devo, purtroppo, ammettere che in quella vicenda noi del Msi non ci comportammo come avremmo dovuto. Forse perché travolti dal clima giustizialista che stava interessando l’intera penisola; forse perché contagiati, come la stragrande maggioranza degli italiani, dal tifo per Mani Pulite e per Di Pietro; forse perché l’anima garantista di gran parte di noi non ebbe la forza di farsi sentire…”. Fatto sta, conclude, “che commettemmo un imperdonabile errore”. Un modo come un altro che può suggerire, anche, il fatto che quella scelta giustizialista conducesse la destra a fare il gioco di forze avversarie ai suoi progetti di conciliazione nazionale.

Craxi sfidò la sinistra sul finanziamento illecito ai partiti

“Che stessimo sbagliando – ribatte Patarino – avremmo dovuto scoprirlo dopo aver ascoltato l’intervento di Craxi tenuto alla Camera il 29 aprile del 1994, un evento di portata storica”. Craxi infatti, da abile e grande combattente, rileva Patarino, ebbe il coraggio, indirizzando continuamente lo sguardo verso i banchi della sinistra con l’evidente e plateale intenzione di sfidarli, di denunciare la lunga storia del finanziamento illecito ai partiti. “Che stessimo sbagliando la scelta di campo – si legge ancora nel libro – avremmo dovuto ancor più facilmente intuire dal fatto che Craxi, più che rivolgersi alla magistratura per difendersi dalle accuse contestategli, mise in evidenza il tentativo di alcuni partiti di processarlo senza alcuna prova, senza alcuna ragione, ma solo per incastrarlo e fargli pagare il conto per tutti”.

Il Msi doveva mettere sul banco degli accusati Pci e Dc

Il Msi, è ora il suo pensiero, avrebbe dovuto partecipare al dibattito, che metteva sul banco degli accusati il Pci e la Dc, e quindi intervenire per chiedere al Parlamento di dare seguito alla denuncia di Craxi attraverso una commissione d’inchiesta parlamentare. Non si sarebbe partecipato alla fine prematura del leader socialista e del suo progetto di Grande Riforma. “Dimostrando la fondatezza delle accuse di Craxi – conclude Patarino – quell’insopportabile sistema sarebbe crollato, l’Italia avrebbe finalmente voltato pagine e al nostro partito sarebbe stato riconosciuto il merito di aver contribuito all’accertamento della verità. Purtroppo non lo facemmo. Sbagliammo”.

Un’analisi coraggiosa e libera

Un’analisi coraggiosa e libera, quella dell’ex parlamentare. Che ancora oggi spinge a un interrogativo: quanto della politica successiva al 1993 è il risultato di quell’errore storico di prospettiva? E se, invece, potesse nascere proprio da quella decisione un cammino diverso e consapevole per la risoluzione della questione nazionale e per una destra a vocazione maggioritaria?

La commemorazione di Tangentopoli non sarà un pranzo di gala. Mancano ancora 4 mesi all'ora X - i trent’anni esatti dall’arresto del “mariuolo” Mario Chiesa - ma una cosa è già chiara: la commemorazione di Tangentopoli rischia di trasformarsi in una nuova guerra. Davide Varì su Il Dubbio il 22 ottobre 2021. Ieri sera, in un teatro romano a pochi passi dal Parlamento, è iniziata ufficialmente la lunga commemorazione pubblica di Tangentopoli. In realtà siamo leggermente in anticipo: la data ufficiale del trentennale è quella del 17 febbraio 2022, giorno in cui ricorreranno i trent’anni esatti dall’arresto di Mario Chiesa, “il mariuolo”, come lo definì Bettino Craxi, divenuto icona e simbolo dell’inizio di Tangentopoli. Possiamo dire subito una cosa: non sarà una commemorazione come le altre, non sarà un pranzo di gala; sarà invece uno scontro duro, un confronto serrato tra chi pensa che Tangentopoli fu l’inizio del rinascimento italiano e chi invece è convinto che si sia trattato di un golpe messo in atto da un pezzo di magistratura col sostegno di qualche servizio straniero. Ma torniamo a quella sala del teatro Umberto di Roma. Sul palco, a parlare di quella stagione e a commentare il bellissimo libro di Giuseppe Gargani – “In nome dei pubblici ministeri” – , c’era anche Gherardo Colombo. Colombo, come tutti sanno, è stato uno degli attori principali di quella stagione, uno dei pm del pool che insieme a Di Pietro e Davigo, e sotto la guida raffinatissima di Borrelli, ha cambiato i connotati della politica italiana. Gherardo Colombo, a dire il vero, è sempre stato considerato la colomba – nomen omen – di quel gruppo di magistrati molto determinati e convinti che la loro fosse una missione che andava ben al di là della giustizia: molti di loro pensavano di dover cambiare la coscienza stessa del paese, il “precario” senso di legalità degli italiani. Per questo devono aver pensato che qualche piccola forzatura del diritto tutto sommato fosse accettabile, giustificata dall’obiettivo imponente che si erano prefissi. E così l’uso della galera preventiva, degli avvisi di garanzia branditi come condanne e dati in pasto ai giornali prima ancora che il diretto interessato ne fosse informato, erano “effetti collaterali inevitabili”. Ma Colombo, che pure è un raffinato giurista e un uomo devoto al dialogo, non ha ceduto di un millimetro, non ha mai riconosciuto neanche il minimo deragliamento da parte della magistratura italiana. Anzi, ha rivendicato con fermezza, a tratti con durezza, l’assoluta correttezza e trasparenza del lavoro svolto dal pool milanese. Eppure fu un suo collega a dire «noi non li mettiamo in carcere per farli parlare, ma li liberiamo se parlano…». Insomma, il dottor Colombo ha parlato a lungo di pacificazione ma non ha mai messo in discussione l’operato della procura di Milano. La pacificazione è un’intenzione seria ma è anche un processo lungo e doloroso: ognuno deve avere la forza e il coraggio di guardare ai propri errori, ai propri eccessi, senza ipocrisie e liberandosi di qualsiasi tentazione corporativa. E quegli arroccamenti sembrano più le premesse di una nuova guerra. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno…

Milano 1992, sogni e illusioni di una generazione tradita. Venanzio Postiglione su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2021. Goffredo Buccini era un giovane cronista quando scoppiò Mani Pulite. Ora ricostruisce quella stagione in un libro in uscita per Laterza.

Il momento. Un pezzo di storia italiana. Un processo che diventa show e una catarsi che rimane sospesa: perché si entra con la bandiera del bene e si esce con quella del dubbio. La fila per entrare, l’aula strapiena, la diretta televisiva, Di Pietro interroga Craxi in nome di (quasi) tutto il popolo italiano, Bettino allunga i tempi con le pause, la rivoluzione sta uccidendo i vecchi partiti e le macerie porteranno un bel sole o ancora ombre, nessuno può dirlo.

«Il tempo delle mani pulite» di Goffredo Buccini (Editori Laterza, pagine 248, euro 18)

Quel 17 dicembre 1993 la Milano da bere sembra lontana un secolo e appare (appare) come la peste nera, il processo Cusani è la rappresentazione della politica alla sbarra, la capitolazione di Forlani con la bava alla bocca ha seppellito la Dc e forse anche la pietà cristiana. Ma arriva Craxi e lo spartito salta in aria. Di Pietro appare timido, prudente, quasi impaurito, un mistero che resta un mistero, mentre il leader socialista ripete che tutti sapevano, la politica ha un costo, si doveva competere con i democristiani e i comunisti. Forse quel giorno Tonino si immaginò politico e Bettino si vide già esule, noi capimmo che Tangentopoli aveva raggiunto la vetta e imboccava la discesa. È anche un saggio, certo, con il merito della ricerca e il culto dei fatti. Ma è soprattutto il romanzo di una stagione e di una generazione, la biografia di un Paese che ha chiesto la ghigliottina quando colpiva i politici e i manager e poi l’ha rinnegata quando inseguiva le persone comuni. Goffredo Buccini ha scritto Il tempo delle mani pulite (Editori Laterza) perché ha vissuto quell’epoca e poteva raccontarla in modo diretto e appassionato. Perché sono passati già trent’anni e ci fa un certo effetto. Ma anche perché lo doveva a se stesso. Il cronista oggi editorialista del nostro «Corriere della Sera» non è un pentito, non banalizziamo: però ogni passaggio chiave diventa un punto interrogativo e a volte anche un’autocritica. Con l’espressione di pagina 34, «il senso della misura è tra le prime vittime di questa ubriacatura collettiva», che diventa la linea storica e psicologica del saggio-romanzo. I giornalisti ragazzini furono i testimoni ma spesso pure i combattenti di un’epopea: come buona parte del Paese, peraltro. Il tempo delle mani pulite è anche l’età dell’illusione. Una cronaca che intanto è diventata storia. Trent’anni sono tanti, lo stesso tempo che corre dal 1945 al 1975, quando i genitori raccontavano la fine della guerra a noi bambini e sembrava un altro mondo. Nel libro i personaggi sono vivi come a teatro, la scrittura è nitida, sempre piacevole, senza diventare semplicistica, e l’affresco funziona perché è un pezzo di noi tutti. Buccini era in prima fila, anzi tra la prima fila e il palco, ogni tanto nei camerini: il pool dei cronisti a Palazzo di giustizia, le interviste esclusive e dirompenti a Borrelli, la caccia ai latitanti a Santo Domingo, lo scoop dell’avviso di garanzia a Berlusconi con il collega Gianluca Di Feo in una delle notti più difficili e tormentate di via Solferino. «Il telefono squilla presto e troppo», scrive Buccini. È la mattina del 18 febbraio ’92, la sera prima hanno arrestato Mario Chiesa, atto d’inizio. A chiamare è Ettore Botti, capo della cronaca di Milano del «Corriere», talent scout per natura e cultura: fiducia nelle regole e nel giornalismo senza ideologie e pregiudizi, scetticismo sul mito della città splendente, difesa a oltranza della propria squadra di veterani e ragazzi che lavorano assieme. Botti manda Buccini a Palazzo di giustizia e gli cambia la vita: la caduta di Chiesa è l’avvio della voragine, la prima Repubblica finiva e non sappiamo più dire se siamo nella seconda o nella terza, ci siamo persi da qualche parte. Carcere, carcere, carcere. Ogni giorno. «Ecco la dottrina Davigo, l’arresto e la confessione come passaggi necessari a spezzare il vincolo tra tangentisti». Il ’92 italiano è il pool di Mani Pulite, con Borrelli alla guida e Di Pietro che spacca tutto, è la maglietta Tangentopoli con i luoghi delle mazzette, è il cordone di gente comune attorno al Palazzo, è l’avvicinamento delle inchieste a Bettino Craxi, è la fila in Procura di «un popolo di confidenti e flagellanti», è la giustizia sostanziale (tutti i ladri in galera) che forza le procedure e le consuetudini. I pm non sono magistrati ma «i vendicatori per anni di soprusi, di corruzione, di inefficienza». E qui Buccini ci va dritto: «Noi giornalisti sicuramente sposiamo la militanza. E noi ragazzi del pool di cronisti ne siamo l’avanguardia, certi, certissimi, di aver ragione». Non solo. «Siamo eroi del nostro stesso fumetto: se la nostra verità è vera, perché mai cercarne un’altra?». C’era da cambiare l’Italia, come dicono i reduci di Mediterraneo, il film di Salvatores. Il socialista Sergio Moroni, indagato, si uccide. La lettera che lascia è una frustata: «Non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da pogrom nei confronti della classe politica». Craxi dice che «hanno creato un clima infame», Gerardo D’Ambrosio replica che «il clima infame l’hanno creato loro, noi ci limitiamo a perseguire i reati». E i giovani socialisti contro-replicano: «Si è caricata l’inchiesta milanese di un improprio valore morale, attribuendole un ruolo di vendetta popolare». Una guerra civile di parole. Ma si sarebbero suicidati anche Gabriele Cagliari in una cella di San Vittore, Raul Gardini a casa sua, e altri ancora. Il decreto Conso nasce e tramonta subito per l’opposizione del pool. La piazza ribolle, su Craxi piovono le monetine, il leghista Leoni Orsenigo tira fuori il cappio in Parlamento. «La rivoluzione giudiziaria non sembra andare esattamente nel senso di un allargamento dell’area democratica del Paese…». Un labirinto. Il Paese è corrotto (vero), i pm indagano (giusto), ma la nuova epoca comincia a fare spavento. Al di là delle inchieste e delle intenzioni, l’età della pancia nasce in quei giorni, non si è ancora conclusa. Il giorno dei funerali dopo la strage di via Palestro, a Milano, ecco Borrelli, Colombo e Di Pietro che percorrono la Galleria a piedi. La gente li chiama, li segue, li abbraccia, un tripudio di entusiasmo e di rabbia: «La forca, la forca, Di Pietro mettili alla forca!». Borrelli è il più lucido: «Non è giusto che sia così… ma non è colpa nostra». La critica alle manette facili evapora nell’ovazione di una folla che non chiede garanzie ma invoca il patibolo. Sergio Cusani, prima del processo-evento («un’autobiografia nazionale»), si confida con l’autore del libro: «Il Paese dopo Tangentopoli potrebbe essere assai peggio di quello che c’era prima». Il dibattimento consacra il personaggio Di Pietro e chiude cinquant’anni di storia politica italiana, con i suoi partiti, le sue liturgie, il suo sistema proporzionale, il suo stesso linguaggio educato e fumoso. Tocca al «nuovo miracolo italiano», alla nuova protesta del pool (contro il ministro Alfredo Biondi), all’avviso di garanzia a Berlusconi, all’addio di Tonino Di Pietro. Gli aneddoti e i retroscena sono tanti, le battute di Paolo Mieli, allora direttore, sono imperdibili: ma non avrebbe senso bruciare i contenuti del libro. Mani pulite rivoluzione vera o scoperta dell’acqua calda? Svolta sacrosanta o mutilata? Magistrati santi o vendicatori? Il punto, scrive Buccini, è che «tanti ragazzi negli anni Novanta hanno sognato (sbagliando, certo) una palingenesi nazionale». La stiamo ancora aspettando. Trent’anni dopo non ci sono più Borrelli e D’Ambrosio. Di Pietro passa tanto tempo a Montenero di Bisaccia, partenza e ritorno. Greco e Davigo hanno rotto in modo clamoroso: metafora per una stagione e forse una categoria. Colombo gira l’Italia e incontra i ragazzi per parlare di legalità, «perché sa da un pezzo che la risposta non può essere giudiziaria». La mattina dopo le manette a Chiesa, il secolo scorso, Ettore Botti chiamò anche chi sta finendo quest’articolo: «Corri al Trivulzio e racconta come hanno preso l’arresto». La voce roca, decisa, profonda, poche parole. Un comandante temuto e amato: allo stesso tempo. Nell’etimologia di nostalgia c’è la parola dolore.

Il paese dei mascariati o degli impuniti? Linkiesta e il Fatto a sportellate sulla giustizia su Micromega. Micromega su L’Inkiesta il 15 Ottobre 2021. Christian Rocca e Gianni Barbacetto, invitati da Paolo Flores d’Arcais, dibattono sul cortocircuito magistratura-politica-informazione sul numero della rivista in libreria. Nel numero 5.2021 di Micromega, in edicola dal 16 settembre, i due giornalisti si confrontano su uno dei temi più importanti e ostici del dibattito pubblico italiano, l’interdipendenza tra politica, giustizia e informazione.

Christian Rocca: Qualche anno fa Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca e Giancarlo Aneri fondarono il premio “È giornalismo”. Io penso che sia il caso di istituire anche il premio “Non è giornalismo” per descrivere quello che è successo nel mondo dell’informazione sicuramente dal 1993, ma forse anche dai tempi di Enzo Tortora, a oggi. Ai tempi di Tortora ci furono giornalisti che brindarono alla condanna nei confronti di un uomo che non era soltanto innocente, ma estraneo ai fatti. Quello che è successo in questi quarant’anni è il sostanziale asservimento delle redazioni alle procure, e per questo servirebbe un premio, che negli ultimi anni avrebbero dovuto vincere a turno – come Messi e Ronaldo si alternano a vincere il Pallone d’Oro – Marco Travaglio con il Fatto Quotidiano e Maurizio Belpietro con La Verità, anche se ovviamente gli anni cominciano a pesare e a farsi sentire per tutti. Travaglio, che è l’alfiere di questo modo di fare giornalismo, ormai si occupa di politica, preferisce fare il pr di Giuseppe Conte, e incalzano quelli che io chiamo i “manettari minori”, come Emiliano Fittipaldi e il Domani. Senza dimenticare i grandi giornali, i grandi player dell’informazione che fanno ancora dei colpi da maestro, anche se devo dire che per fortuna da quando è arrivato Maurizio Molinari a dirigere Repubblica, il quotidiano fondato da Scalfari è meno casella “inbox” di certi pm e di certe procure. Giornalismo è dare, analizzare, commentare notizie, non fare i portalettere o addirittura gli ufficiali giudiziari delle procure, anticipando all’indagato l’avviso di garanzia o chiedendogli un commento sui brogliacci o sulle intercettazioni: questo rientra forse nelle mansioni di uditore giudiziario o di secondino, certamente non in quelle previste dal contratto collettivo di lavoro giornalistico. Il giornalista non lavora nel settore della mascariamento per conto terzi, come usano dire certi mafiosi o pentiti di mafia. Ovviamente siamo tutti liberi di fare giornali che parteggiano per una parte politica o culturale o sociale. Sappiamo che ci sono giornali che fanno lobby, giornali di proprietà confindustriali, giornali vicini al sindacato o vicini, se non di proprietà, di avvocati, e quindi accetto anche che ci siano giornali vicini alle procure, sebbene le procure siano un potere dello Stato, un potere che può togliere la libertà ai cittadini o capace appunto di mascariarlo, tra l’altro senza alcuna conseguenza in caso di errore anche grossolano. Non è una cosa che accetti con grande entusiasmo, ma facciamo passare anche questa anomalia italiana di avere giornali pro manette sempre per tutti, che al posto del santo del giorno segnalano l’indagato del giorno e che sostengono che quello dell’arresto sia il momento magico della giustizia, come si legge nel famoso libro-intervista di Travaglio al magistrato Maddalena1.utto ciò a me ricorda un po’ i giornali dei Guardiani della rivoluzione khomeinista più che Montanelli e vorrei capire che cosa c’entri questo con l’informazione e il giornalismo.

Gianni Barbacetto: Io e Christian Rocca viviamo evidentemente in due mondi diversi, perché il mondo di cui lui ha appena parlato io non lo conosco, non so proprio dove stia. Il Paese in cui vivo io è un Paese con un altissimo tasso di illegalità nell’economia, nella politica, in tutti i settori della vita collettiva e in cui vedo un asservimento di gran parte della stampa ai poteri economico e politico, che silenziano le notizie sgradite. Cos’è giornalismo? Giornalismo è informare sui fatti e fare il controllo sui poteri, essenzialmente quello economico e quello politico. Insomma la solita, se volete banale, definizione di giornalismo come cane da guardia dei poteri. Naturalmente il giornalista ha un dovere di assoluta riservatezza nei confronti delle vite dei privati cittadini, ma nei confronti di coloro che vivono in pubblico la loro avventura politica, economica, di spettacolo, di sport eccetera, i giornalisti hanno invece il dovere di fare le pulci in maniera precisa, tenace, assoluta, costante e senza dimenticare il passato.

In Italia tutto questo lo fanno pochissimi giornali, tra cui il Fatto Quotidiano e MicroMega. Perché gli altri non lo fanno? Beh diciamolo: perché o sono di proprietà di qualche potere economico o hanno rapporti col potere politico, per cui il giornalismo in Italia è una sorta di sottosistema della politica e non sono rari i casi di politici che diventano giornalisti e giornalisti che diventano politici. C’è insomma una sudditanza economica, politica e culturale ai poteri, addirittura una sorta di voluttà di servilismo che pervade gran parte dei giornalisti italiani e che fa fare loro esattamente il contrario di quello che è il mestiere del giornalista: servire i poteri invece di controllarli.

In Italia ci sono stati pochissimi momenti “magici”, in cui questo gioco è saltato e i giornalisti hanno fatto quasi tutti il loro mestiere. Uno è il biennio di Mani Pulite, 1992-1993, un altro è l’estate dei furbetti del quartierino in cui i giornalisti hanno raccontato in presa diretta e in modo preciso l’inchiesta sulle scalate bancarie. Certo, il giornalismo italiano il servilismo ce l’ha nel sangue, per cui negli anni di Mani Pulite, molti giornalisti, abituati a leccare i potenti, si sono messi a leccare i magistrati, penso in particolare all’atteggiamento di alcuni giornalisti nei confronti di Di Pietro, incensato anche per i congiuntivi sbagliati. In ogni caso, non mi vengono in mente altri momenti in cui gran parte del corpo giornalistico italiano abbia fatto bene il suo mestiere. Quello che invece è costante è l’uso strumentale e politico dell’informazione, per cui ci sono giornali che difendono a spada tratta il loro padrone, direttore, editore e tutti i loro amici, scagliandosi contro l’uso delle inchieste giudiziarie; ma poi attaccano, usando anche le indagini giudiziarie, gli avversari del proprio padrone o direttore o editore. “Giustizialisti” selettivi.

Rocca: Hai ragione, viviamo in due mondi diversi…

Barbacetto: Indubbiamente. È che io leggo i giornali e i giornali mostrano che il mondo è come l’ho descritto io, non come lo racconti tu. Tu racconti un mondo di mascariati, io vedo un mondo di prescritti e di politici che la fanno franca. Mascariare significa infangare in maniera ingiustificata persone che sono pure come gigli. Io non ho mai mascariato nessuno, né lo ha fatto il mio giornale che invece ha raccontato, in maniera molto spesso solitaria, le malefatte di politici e imprenditori, che poi il giorno dopo tutto il resto della stampa italiana si affrettava a difendere. Altro che mascariare! C’è un difetto di memoria non un eccesso di mascariamento nel nostro Paese! Quanto alle manette: io non ho nessun gusto per le manette e sarei felice se non esistessero le prigioni. Però fintanto che le prigioni esistono e ci vanno i poveri cristi, pretendo che ci vadano anche i potenti. Io voglio soltanto l’uguaglianza tra i poveri cristi e i potenti. Si chiama uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Vogliamo chiudere le prigioni? Benissimo, ma chiudiamole per tutti.

Rocca: Tu dici che basta leggere i giornali per dimostrare che hai ragione tu, ma proprio se leggi i giornali dal 1992 a oggi si vede che quello che tu hai chiamato il “momento magico” non è mai finito! Sui giornali si parla solo ed esclusivamente di indagini, la politica è fatta solo sulle indagini, i governi cadono o si costruiscono solo sulla base delle inchieste giudiziarie! Si è arrivati persino al punto che un movimento nato esattamente da questa idea di “dagli al corrotto” ha preso il 30% ed è arrivato al potere. È un dato di fatto oggettivo. Così come è un fatto oggettivo che, stando ai dati forniti dall’allora guardasigilli Bonafede, dal 1992 al 2017 sono state circa 26 mila le persone risarcite dallo Stato per ingiusta detenzione. Ossia lo Stato ha riconosciuto che era assolutamente infondato mettere quelle persone in galera. Questo significa che in questo Paese mille persone all’anno, tre persone al giorno, una persona ogni 8 ore va in galera ingiustamente2. Questo stando ai risarcimenti realmente corrisposti, perché se invece prendiamo in considerazione le richieste di risarcimento secondo le cifre fornite da alcune associazioni come Antigone o Nessuno tocchi Caino, il dato sale a circa 3mila persone l’anno. Altro che Paese di impuniti, questo è un Paese dove la gente va in galera senza motivo! E tra questi ci sono anche tanti poveri cristi, non solo i politici. Siamo arrivati alla follia per cui Antonio Polito sul Corriere della Sera3 propone di togliere la prescrizione solo per i politici! Per me giornalismo non è “sgominare una giunta” come scrisse in un famoso titolo dell’Indipendente Vittorio Feltri o far arrestare un sottosegretario o dimettere un amministratore delegato. Giornalismo è dare notizie. Ora non c’è dubbio che il fatto che un pm indaghi su una persona che ha delle responsabilità pubbliche è una notizia. Tra l’altro si chiama appunto notizia di reato quando viene iscritta nel registro. Quello che io contesto è il fatto che spesso la “notizia” sui giornali arrivi persino prima che all’indagato. Prendiamo il famoso caso Watergate, che ha portato poi alle dimissioni di Nixon e che è sempre portato come esempio di grande giornalismo. Bene, in quel caso i dettagli dell’inchiesta uscirono sui giornali dopo che si erano svolte le audizioni pubbliche. Non ci furono magistrati che passarono le informazioni ai giornalisti prima, e la stessa cosa è accaduta più recentemente con il rapporto Mueller sul Russiagate. Da noi invece i magistrati passano non solo le notizie di reato, ma anche informazioni che non sono notizie di reato, penso per esempio alle intercettazioni che non hanno rilevanza per le indagini e che dovrebbero andare distrutte. Da qui il mascariamento di cui parlavo prima. Che dei pm aprano una indagine su Renzi4 è una notizia? Certo che lo è! Il problema è da un lato la fuga di notizie prima che lo stesso indagato riceva l’avviso di garanzia e dall’altro lo stillicidio di piccole notizie date quotidianamente, un aggiornamento costante su dettagli spesso irrilevanti e che però si prendono la scena del dibattito pubblico politico e culturale. È accaduto con Renzi, con Berlusconi, con D’Alema ma non accade solo con i politici, basti pensare alla vicenda Mottarone. Che sia chiaro: chi viola il segreto è il magistrato non il giornalista. Il giornalista, se la notizia è verificata, fa il suo dovere pubblicandola. Ma mi domando: che razza di giornalismo è quello che si riduce a copiare da un file passato dal titolare di un’inchiesta? Non è certo grande giornalismo investigativo. Il giornalismo investigativo è esattamente il contrario: è quello dei giornalisti che indagano per proprio conto, svelano dei fatti su cui eventualmente dopo la magistratura aprirà delle inchieste.

Ma questo in Italia non accade mai. Ricordo che nel 2006 l’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato denunciò in Parlamento l’abitudine di certi procuratori di passare a dei giornalisti fidati username e password dei sistemi informativi degli uffici giudiziari, in modo da facilitare il lavoro di copia-incolla dei verbali5. Ciascuno di noi può ricordare mille episodi di giornalisti che entrano in redazione con i cd-rom dati dalle procure…

Barbacetto: Sì, come no? Ma magari!

Rocca: Ma dai, su, lo sappiamo tutti che è così, con le riunioni dei capiredattori e dei direttori dei grandi giornali che ai tempi di Mani Pulite decidevano su quale indagato puntare quel giorno e quale rinviare al giorno successivo. Questo non è giornalismo, è barbarie. È una barbarie aver trasformato l’avviso di garanzia – che è un istituto introdotto dalla riforma del Codice penale del 1988 a garanzia, appunto, della persona su cui la procura sta indagando – in un indizio, se non addirittura in una sentenza di colpevolezza. Come disse una volta padre Ennio Pintacuda, ideologo della Rete e profeta di Orlando: «Il sospetto è l’anticamera della verità». Su una cosa, però, hai ragione Gianni. È verissimo che la gran parte dei giornali italiani è garantista con gli amici e giustizialista con i nemici e riconosco che invece il giornale per il quale lavori tu, il Fatto, è giustizialista sempre e con tutti. Oddio, forse un tantinello meno con i 5 Stelle, ma tutto sommato possiamo dire che è giustizialista a 360 gradi.

Barbacetto: Continuiamo a vivere non in due mondi, ma in due universi paralleli separati da galassie e distanze siderali. Per quanto riguarda il rapporto con le procure: magari uno andasse in procura e avesse il dischetto pronto! Nella stragrande maggioranza dei casi in realtà le notizie arrivano dagli avvocati. Quando ci sono molti avvocati coinvolti che hanno anche interessi confliggenti, la strada maestra del giornalista è andare dall’avvocato che si sa avere un certo interesse a diffondere alcuni materiali giudiziari: quella diventa la tua fonte. Almeno, io lavoro così. Magari avessi aiuti dai magistrati! Forse bisognerebbe cominciare a fare degli esempi concreti perché altrimenti…

Rocca: Benissimo, i primi due esempi che mi vengono in mente sono l’avviso di garanzia recapitato a Berlusconi via Corriere della sera durante il vertice Onu nel 1994…

Barbacetto: … che è una fake news.

Rocca: Su questa storia c’è la ricostruzione che ha fatto qualche anno dopo Alessandro Sallusti, allora caporedattore del Corriere, quindi tanto fake news non è6.

Barbacetto: E invece sì, perché le cose sono andate così: l’invito a comparire (perché di questo si trattava, non di un avviso di garanzia) fu regolarmente consegnato a Berlusconi a Roma il giorno prima che ne scrivesse il Corriere. Berlusconi era partito per Napoli, venne informato e chiese che il documento gli venisse letto al telefono.

L’ufficiale dei carabinieri aprì la busta e cominciò a leggere i capi d’imputazione, ma venne interrotto dopo il secondo dei tre capi. Il giorno dopo, il Corriere scrisse solo dei due capi d’imputazione letti a Berlusconi. Questo mi ha sempre fatto pensare che la fonte della notizia fosse da cercarsi negli ambienti vicini a Berlusconi, non certo nella procura. Di vere violazioni del segreto io ne ricordo in realtà solo un paio. Una fu la divulgazione al Tg di una rete Fininvest dei nomi di cinque manager dell’azienda, tra cui Marcello Dell’Utri, di cui era stato chiesto l’arresto per falso in bilancio nel marzo 1994. Dopo quella divulgazione, saltarono gli arresti. Quindi fu una rivelazione a favore dell’indagato…

Rocca: (ride).

Barbacetto: Tu ridi ma le cose stanno così. L’altro esempio che ricordo è la pubblicazione sul Giornale di Berlusconi di una intercettazione trafugata e portata a Berlusconi come “regalo di Natale”: la telefonata di Piero Fassino che chiede «Abbiamo una banca?». Non era un reato, ma fu usato in campagna elettorale da Berlusconi per vincere le elezioni. Di altri casi clamorosi di rivelazione di segreto non ne ricordo. Mentre una volta che la notizia è stata consegnata all’indagato si può e si deve raccontare. Riferire degli avvisi di garanzia non è barbarie, è informazione.

Rocca: Io non ho mai detto questo, anzi ho esplicitamente detto che ovviamente se un politico è indagato è una notizia che va riferita. Quando ho parlato di barbarie mi riferivo alla pessima pratica di raccontare di indagini in corso prima che l’indagato riceva l’avviso di garanzia, cosa che tu dici che non accade mentre è una prassi molto diffusa e il tuo giornale stesso si vanta di riferire queste cose prima degli altri.

Barbacetto: Il mio giornale si vanta di raccontare le malefatte dei politici prima degli altri, non gli avvisi di garanzia. Perché sai, a volte accade che i giornalisti raccontino delle storie che poi danno luogo a indagini.

Rocca: Beh, questo sarebbe vero giornalismo investigativo, ma in giro per la verità non ne vedo molti di esempi… Un altro caso molto recente della barbarie di cui parlavo è la notizia delle indagini su Renzi per la vicenda che coinvolge Presta data dal Domani prima che Renzi ricevesse l’avviso di garanzia. Ho citato un caso antico e uno recentissimo, ma potrei citarne decine e decine. Uno degli indagati del caso Eni, poi naturalmente assolto, mi ha riferito per esempio che era stato informato di essere indagato da un giornalista proprio del tuo giornale, che lo ha chiamato mentre si trovava negli Stati Uniti. Dai su, non possiamo negare la realtà a meno che non vogliamo vivere nel mondo di Trump dove le bugie vengono definite “verità alternative”. Chiunque apra i giornali si accorge che non si parla d’altro se non di inchieste.

Barbacetto: I giornali che leggo io sono evidentemente diversi da quelli che leggi tu. Io vedo giornali in cui la cronaca giudiziaria negli ultimi anni è diventata residuale…

Rocca: Certo, perché è diventata cronaca politica!

Barbacetto: … come quasi residuali sono i cronisti giudiziari. Ricordo che ai tempi di Mani Pulite c’erano decine e decine di giornalisti fissi al Palazzo di Giustizia di Milano. Oggi ce ne sono due o tre che girano spaesati in assenza di notizie. Un limite…

Rocca: È ovvio che non ci sono più giornalisti giudiziari di stanza fissi al Palazzo di Giustizia quando basta un WhatsApp per avere i brogliacci…

Barbacetto: … un limite che vedo nelle cronache giudiziarie è che forse spieghiamo in maniera poco chiara le questioni giudiziarie che a volte sono complicatissime e talvolta anche contraddittorie. Ma io non vedo brogliacci sui giornali… Quello che osservo negli ultimi anni è una sottovalutazione della cronaca giudiziaria. Vedo notizie su inchieste importanti date a pagina 23 del Corriere della Sera e alle quali solo il Fatto Quotidiano e talvolta, quando gli conviene, il giornale di Belpietro mettono in prima pagina. Molti parlano di “gogna mediatica”, che è un’espressione che eliminerei dal dibattito pubblico. Gogna mediatica significa mascariare per l’appunto un innocente o dare addosso a uno che non ha fatto nulla. Non mi sono mai piaciute le esibizioni delle manette o del cappio (come fece la Lega in Parlamento), né le esagerazioni di Vittorio Feltri ai tempi di Mani Pulite. Ma raccontare i fatti non è gogna mediatica, è informazione. Tu sostieni che bisogna raccontare le cose solo dopo che sono state definite nel processo perché altrimenti, se si raccontano all’inizio, c’è il rischio di mascariare le persone di cui parli. Io sostengo invece che il controllo dei poteri dev’essere fatto in diretta. Se c’è un’indagine in corso, per raccontare i fatti non posso certo aspettare la sentenza di Cassazione, che arriverà magari tra dieci anni! Perché nel frattempo quel politico che era, poniamo, consigliere comunale è diventato magari senatore o addirittura presidente della Repubblica!

Rocca: E che mi dici invece di tutti i sindaci che vengono fatti dimettere e di governi che cadono per poi scoprire che le persone coinvolte nell’indagine erano innocenti? In dubbio pro reo si diceva un tempo, ma evidentemente per te non è così.

Barbacetto: Finisco il mio ragionamento e ci torno. Io abolirei l’uso della parola “giustizialismo”, che non significa niente. Ma se proprio la vogliamo usare, mi verrebbe da dire che i veri giustizialisti in Italia sono quelli che si definiscono garantisti perché sono ossessionati dalle sentenze e dalle carte giudiziarie: bisogna aspettare le sentenze, dicono!

Rocca: (ride).

Barbacetto: Mentre io sono per un uso non giudiziario delle carte giudiziarie. Io faccio il giornalista e non il magistrato e utilizzo le carte giudiziarie come fonte di notizie. A me non importa la qualificazione di reato, a me importa raccontare i fatti.

Rocca: Ma quelli che si trovano negli atti di indagine non sono “i fatti”, questo è il punto! Sono una ricostruzione parziale dei fatti, che poi andrà confrontata in sede dibattimentale con la ricostruzione della difesa, per giungere a una ricostruzione stabilita dal giudice. E anche quella che troviamo in sentenza non è necessariamente la verità storica, ma solo quella giudiziaria.

Barbacetto: Qui siamo alla barzelletta. Cioè, secondo te i fatti sono la mediazione tra accusa e difesa. Ma i fatti sono fatti, avvengono prima!

Rocca: Mediazione? Non ho mai parlato di “mediazione”! Ho parlato della necessità di seguire il dibattimento, in cui la difesa magari porta prove contrarie che “smentiscono” i fatti per come erano stati ricostruiti dall’accusa e quindi per farsi un’idea dei fatti bisogna sentire le varie versioni. Prendiamo il caso Eni, su cui avete raccontato un sacco di balle. In quel caso il pm ha tenuto nascosta una prova che avrebbe fatto cadere l’inchiesta.

Barbacetto: Questo non è vero.

Rocca: Come non è vero? Sono stati assolti tutti gli imputati!

Barbacetto: È curioso che, dopo aver sostenuto che i fatti sono fatti soltanto quando tutti hanno detto la loro, poi invece prendi per buona la tesi di uno degli attori in campo che dice che il pm ha nascosto prove che sarebbero state in favore della difesa. Se andassi a vedere che cosa risponde il pm, capiresti che quelle che sono state raccontate come prove a discarico in realtà non lo erano. Si tratta sostanzialmente di un video in cui uno degli indagati dice che sta per andare in procura a collaborare con la giustizia. Cosa proverebbe questa cosa? È prova di un complotto? No, è solo prova di uno che dice, di fatto, «racconto tutto e gli faccio il culo a quelli lì». Poi bisognerà andare a vedere se le cose che racconta sono vere o false. Ma in sé quel video non è una prova a difesa, tant’è vero era già nelle mani delle difese di Eni che però, curiosamente, non l’avevano prodotto fino a quel momento perché evidentemente non lo ritenevano utile.

Rocca: No, perché faceva parte di un altro processo. Io non so se il pm Fabio De Pasquale ha commesso un qualche reato di occultamento o sia stato un errore, questo lo stabiliranno i magistrati che indagano…

Barbacetto: Certo, sei garantista con tutti tranne che con De Pasquale.

Rocca: Ma non ho detto che lo ha commesso! Ho detto che non lo so e che sarà la magistratura di Brescia a stabilirlo. So però che grazie anche a quella prova che non è stata presentata gli imputati sono stati assolti.

Barbacetto: Ma che cosa c’entra un video in cui un testimone dice “andrò in Procura a fargli il culo” con una tangente eventualmente pagata in Nigeria?

Rocca: C’è scritto nella sentenza.

Barbacetto: Certo, ed è una delle tante incongruenze scritte in sentenza.

Rocca: Ah, ecco, le sentenze ti piacciono solo quando sono di condanna.

Barbacetto: Ma, ripeto, quel video non era segreto, Eni ce l’aveva già…

Rocca: Era stato depositato altrove, da qui l’indagine sul pm…

Barbacetto: … dopodiché in sentenza salta fuori un giudice che evidentemente non ha studiato bene…

Rocca: Certo, mica come quelli del Fatto che hanno studiato.

Barbacetto: … se lo ha ritenuto certamente una prova a difesa. Comunque l’assoluzione è su tutt’altro e cioè sul fatto che Eni ha pagato un miliardo e duecento milioni di dollari allo Stato nigeriano e non un centesimo è andato allo Stato nigeriano perché questi soldi sono stati distribuiti a politici nigeriani e faccendieri. Cinquecento milioni in contanti sono finiti ai cambiavalute nigeriani e già questo è un indizio: perché devo portare cinquecento milioni di dollari in contanti in Nigeria? Questo è un fatto, poi i giudici hanno deciso che i manager Eni sono innocenti. Bene, vedremo l’appello, però intanto si sappia che Eni ha buttato un miliardo e duecento milioni di dollari.

Rocca: No, se vogliamo raccontare i fatti, sono state le indagini che hanno fatto bruciare un miliardo e duecento milioni di euro al contribuente italiano, perché per effetto di quelle indagini l’affare su cui si era stato fatto l’investimento è saltato.

Barbacetto: Facciamo un altro esempio e prendiamo la vicenda del sindaco Uggetti, che nel 2016 venne arrestato perché accusato di aver truccato una gara d’appalto. Allora tutti i giornali, giustamente, riportarono la notizia.

Rocca: Vedo che mi dai ragione, e cioè che tutti i giornali sono pieni di queste notizie, ti ringrazio.

Barbacetto: Dicevo, tutti i giornali giustamente raccontarono in diretta i fatti e cioè che quel sindaco aveva truccato una gara d’appalto per la gestione della piscina comunale di Lodi mettendosi d’accordo con l’azienda che doveva vincerla. Dopo di che questo fatto è stato considerato reato dal Tribunale di primo grado che ha condannato Uggetti, mentre non è stato considerato reato dalla Corte d’Appello, che lo ha assolto. Ma a me questo non interessa, io continuo a raccontare i fatti, e cioè che Uggetti ha truccato una gara d’appalto mettendosi d’accordo con l’azienda che doveva vincerla. Che questo fatto sia reato o no è affare dei giudici.

Rocca: Ma se dici “truccato” è reato!

Barbacetto: Ma io lo dico perché lo dice lui stesso, quando nell’immediatezza dell’arresto ha chiesto scusa ai cittadini, dicendo «scusate, ho fatto casino, sono pasticcione».

Rocca: Lui non dice questo, lo sai benissimo. Ha dichiarato decine di volte che la vostra ricostruzione è falsa.

Barbacetto: Noi ci siamo basati sulle sue parole e sui documenti giudiziari.

Rocca: Che leggete però parzialmente, perché se li leggeste tutti integralmente dovreste ammettere che la vostra ricostruzione è una balla. A questo serve il processo, a inserire i singoli fatti in un contesto e dare loro la giusta interpretazione. E comunque non puoi continuare a usare la parola “truccare” perché se fosse stato così la Corte d’Appello non avrebbe potuto dire che non è reato…

Barbacetto: Vedremo che cosa dirà la Cassazione…

Rocca: Ah ecco, visto che è stato assolto attendi la Cassazione!

Barbacetto: Guarda, io non voglio vedere Uggetti né qualunque altro politico in galera, non me ne importa nulla. A me importa che il politico che è stato scoperto a compiere delle azioni contro gli interessi dei cittadini e contro la legalità si faccia da parte.

Rocca: Ma in questo caso la Corte d’Appello ha stabilito che Uggetti non ha fatto niente contro gli interessi dei cittadini e la legalità, questo è il punto! Se quello che ha fatto Uggetti – che riguarda, ricordiamolo, un appalto di 5 mila euro – fosse stato contro l’interesse dei cittadini e la legalità sarebbe stato condannato.

Barbacetto: Ripeto, a me non importa l’esito giudiziario. Importa riferire i fatti ai cittadini, i quali poi saranno liberi di rivotarlo o no. Peraltro questa idea che sono i giudici a decidere chi va in galera e chi no è distorta. Sono le leggi fatte dai politici che stabiliscono i reati per cui si va in carcere. I magistrati semplicemente eseguono, come un jukebox. Per concludere su Uggetti, i fatti sono quelli: il sindaco che telefona al titolare dell’azienda che deve vincere la gara per mettersi d’accordo su come fare il bando di gara. Questo si chiama “truccare un appalto” e io racconto che quel sindaco ha fatto questa cosa.

Rocca: Una cosa che non è reato…

Barbacetto: Ma non mi importa se è reato!

Rocca: Ma come non ti importa!

Barbacetto: Io racconto ai cittadini un fatto, ossia che Uggetti ha truccato l’appalto.

Rocca: E racconti una balla! Raccontate soltanto balle! Uggetti è stato democraticamente eletto e per le balle che avete raccontato voi è stato costretto a dimettersi. Avete modificato il corso della democrazia, siete degli eversivi!

Barbacetto: Eversivo è chi infanga le istituzioni con i suoi comportamenti. Uggetti si è dimesso senza che nessuno lo costringesse.

Rocca: Attenzione, io non dico che i magistrati fossero in cattiva fede e ci fosse chissà quale “disegno”, anche se mandare in galera uno per una faccenda che in ogni caso riguardava un appalto di 5mila euro è certamente una forma di giustizialismo. In ogni caso non sto dicendo che i magistrati avessero delle intenzioni eversive. Hanno fatto un’indagine, che si è poi rivelata sbagliata, ok. Il punto è che per effetto di quella indagine, del modo in cui i giornali l’hanno raccontata e in cui molti politici poi l’hanno cavalcata, quel sindaco eletto legittimamente dai cittadini e poi risultato innocente, è stato disarcionato. Questa è eversione! Questo è utilizzare le inchieste giudiziarie per cambiare il corso del voto democratico di un Paese civile.

Barbacetto: Prendo atto che tu non pensi che i magistrati fossero parte di un complotto contro Uggetti, però ti assicuro che questa idea che i magistrati si mettono d’accordo con i giornalisti per far morire la Prima Repubblica, o per far cadere un governo, o per far cadere una giunta comunale o regionale, o per far dimettere un sindaco eccetera l’ho sentita mille volte.

Io non vedo Spectre, non vedo complotti, vedo un sacco di reati o comunque un sacco di comportamenti scorretti, la maggior parte dei quali resta impunita e invisibile perché la stampa italiana è asservita. Poi, per fortuna!, quella piccola parte che viene raccontata talvolta ha degli effetti, anche se oggi sempre meno. Una volta chi riceveva un avviso di garanzia si dimetteva, oggi è una medaglia.

Rocca: E ti sembra normale dimettersi per un avviso di garanzia?

Barbacetto: Sì, mi sembra normale. Naturalmente dipende dal reato, se si tratta di un reato d’opinione o comunque di un reato che non ha danneggiato la collettività, no.

Rocca: Quindi la Costituzione che dice che sei innocente fino a sentenza definitiva per te è un dettaglio.

Barbacetto: Non è un dettaglio, però la Costituzione dice anche che chi ricopre cariche pubbliche lo deve fare “con dignità e onore” e se tu da parlamentare o da ministro o da sindaco hai preso dei soldi, quindi hai commesso un reato di finanziamento illecito o di corruzione…

Rocca: Ma cosa c’entra! Io sto parlando dell’avviso di garanzia, che è a tua garanzia e che ancora non dice se sei corrotto o no! Certo che se è stato stabilito, in un processo, che un politico è corrotto farebbe bene a dimettersi. Io sto parlando dell’avviso di garanzia! E sinceramente non capisco come si possa non vedere che il dibattito pubblico è stato talmente attaccato da questo tumore giustizialista partito dalla commistione tra procure e giornalismo. Oggi sulle prime pagine di tutti i giornali ci sono quattro argomenti di carattere giudiziario: c’è la riforma della giustizia (con il ripristino della prescrizione cancellata dal giurista Dj Fofò7. Io sono di Alcamo e so che fino a qualche anno fa metteva musica nelle discoteche del trapanese.

Poi è diventato ministro della Giustizia e ha cancellato la prescrizione), poi c’è l’avviso di garanzia a Renzi, poi la visita di Draghi e Cartabia al carcere di Santa Maria Capua Vetere e infine la bufala di quella che il tuo giornale ha chiamato la “trattativa Stato-Bonucci” sui festeggiamenti per la vittoria degli Europei.

Barbacetto: Evidentemente Christian Rocca non ha un’idea precisa di che cosa sia la cronaca giudiziaria, che riguarda esclusivamente le inchieste di magistrati. Degli esempi che ha fatto solo uno è di cronaca giudiziaria, quello dell’avviso di garanzia a Renzi. Tutto il resto ha a che fare con la grande questione al centro del dibattito politico italiano da Mani Pulite a oggi, che è l’ossessione della politica nei confronti del controllo di legalità. È dal 1992 che la politica continua a cercare in mille modi – con leggi ad personam e pseudoriforme – di indebolire la capacità di controllo da parte del potere giudiziario. Mentre il nostro resta il Paese con quattro criminalità organizzate, una delle quali si chiama ’ndrangheta ed è la più potente del mondo. E con un altissimo livello di illegalità negli ambienti politici ed economici. Almeno ai tempi della Prima Repubblica c’era un sistema ordinato, le imprese facevano riferimento ai cassieri centrali dei partiti, c’era una qualche parvenza di ordine nell’organizzazione della corruzione. Oggi siamo al far west. Ognuno si crea un suo sistema, uno va a fare le conferenze in Medio Oriente…

Rocca: Questo cosa c’entra con la corruzione?

Barbacetto: C’entra col finanziamento illecito ai partiti. Stavo parlando di corruzione e finanziamento illecito ai partiti.

Rocca: Scusa ma un deputato che fa l’avocato ed emette una parcella è finanziamento illecito ai partiti? Un leader politico che scrive un libro e prende gli anticipi dalla casa editrice è finanziamento illecito ai partiti?

Barbacetto: Beh, se un leader politico per una prestazione che vale dieci riceve mille…

Rocca: Ma chi decide che quella prestazione vale dieci?

Barbacetto: Questo naturalmente si vedrà di volta in volta. Io sto facendo un ragionamento in astratto.

Rocca: Peccato che in astratto il ragionamento andrebbe rovesciato: cioè, in astratto non è finanziamento illecito ai partiti, poi si vede di caso in caso se e dove c’è finanziamento illecito. Attenzione: io non sono “innocentista”, sono garantista. Sono due cose diverse. Se uno è colto in flagranza di reato è ovvio che sia colpevole, non è che siccome sono garantista non riconosco che è stato commesso un reato. Ma se parliamo di reati ricostruiti attraverso indagini bisogna avere la pazienza di sentire tutte le parti, l’accusa e la difesa, per farsi un’idea precisa. Non aderire alla tesi dell’accusa e del resto chi se ne frega. Poi, tra l’altro, la nostra cultura si basa, o almeno dovrebbe, sul principio “Nessuno tocchi Caino”, nessuno tocchi il colpevole, cioè va ben oltre il nessuno tocchi Abele, l’innocente! Abbiamo delle regole che vanno rispettate anche nei confronti dei colpevoli, se vogliamo vivere in un contesto civile.

Barbacetto: Io penso che dobbiamo fare una netta distinzione fra piano giudiziario e piano politico. Sul piano giudiziario io sono ipergarantista, aspetto non tre ma anche sette gradi di giudizio (com’è successo per alcuni casi giudiziari). Dopodiché c’è il piano politico e della convivenza civile, in cui io non posso e non devo aspettare neanche il primo grado! Basta l’avviso di garanzia, basta una notizia di reato, basta un’inchiesta giornalistica. Naturalmente tutti possiamo sbagliare, ma di fronte a comportamenti lesivi del bene pubblico io giornalista, dopo averli verificati, non solo ho il diritto ma ho il dovere di raccontare i fatti. Senza tirare le conclusioni, quelle le lascio ai giudici (sul piano giudiziario) e ai cittadini (su quello politico). Questa cosa apparentemente così semplice, in Italia semplice non è perché nel nostro Paese è in corso da alcuni decenni un grande movimento di messa in salvo della politica e quindi di attacco al potere giudiziario. Siccome siamo in un Paese ad alto tasso di criminalità politica, mafiosa e imprenditoriale (ricordiamoci anche del Ponte Morandi), abbiamo proprio bisogno di indebolire la magistratura! E il giornalismo fa parte di questo gioco perché in gran parte è asservito al potere. Sotto l’etichetta del garantismo in realtà difende la politica dal controllo di legalità. Vedremo adesso con tutti i soldi che arrivano con il Pnrr quanta corruzione, quante infiltrazioni mafiose, quanti sprechi ci saranno. Il nostro sistema giudiziario è da decenni sotto attacco perché i politici, gli imprenditori, i potenti devono essere preservati dal controllo di legalità. (a cura di Cinzia Sciuto)

1 Marcello Maddalena, Meno grazia più giustizia. Conversazione con Marco Travaglio, Donzelli, 1997. A p. 27 si legge: «Quello immediatamente successivo all’arresto è un momento magico».

2 Cfr. Mattia Feltri, “Otto ore”, La Stampa, 10 dicembre 2019

3 Antonio Polito, “La giustizia (malata) da curare”, Corriere della Sera, 14 luglio 2021

4 Il dialogo è stato registrato il 15 luglio e in quei giorni sui giornali usciva la notizia di due indagini riguardanti Matteo Renzi, una per finanziamento illecito ai partiti in relazione ai 700mila euro versati dall’imprenditore Lucio Presta a Renzi per il documentario su Firenze e l’altra relativa a una sua partecipazione a un convegno ad Abu Dhabi, n.d.r.

5 Cfr. Gianluca Luzi, “Amato attacca i giornalisti: ‘Esterrefatto sulle intercettazioni’”, la Repubblica, 12 luglio 2006

6 Cfr. Francesco Costa, “Berlusconi e l’invito a comparire del 1994”, Il Post, 20 ottobre 2010

7 L’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, n.d.r.

Stefano Zurlo per "il Giornale" il 13 ottobre 2021.

Le procure sono uscite dai binari. Non tutte, per carità, ma alcuni pm si sono schierati da una parte o dall'altra. «C'è stata una forte politicizzazione delle procure», spiega Sabino Cassese, giudice emerito della Consulta, uno dei più noti giuristi italiani. E l'abolizione dell'autorizzazione a procedere è stata usata per sviluppare quella forma di gogna chiamata naming e shaming, insomma per svergognare big e peones del Palazzo. 

Professor Cassese, come valuta la svolta del '93?

«L'articolo 68 della Costituzione, nella sua versione originaria, prevedeva l'autorizzazione della Camera di appartenenza per sottoporre a procedimento penale i parlamentari. Quindi, prevedeva un'autorizzazione a procedere. Fu modificato nel 1993 prevedendo l'autorizzazione solo per perquisizione, arresto e intercettazione, salvo l'esecuzione di sentenze irrevocabili di condanna, che non richiede autorizzazione.La modifica ebbe diverse motivazioni. Il fatto che in pratica il rifiuto di autorizzazione fosse diventato un evento abituale; che l'autorizzazione impedisse fin dall'origine qualsiasi indagine, facendo disperdere la memoria e i documenti, cioè le prove dell'eventuale fatto criminoso; che l'improcedibilità divenisse impunità. Poi, dopo la riforma, la situazione è ulteriormente cambiata, specialmente per l'uso che le procure hanno fatto dei procedimenti penali, che hanno dato luogo a quella che viene chiamata correntemente la gogna e più precisamente si può chiamare una procedura di naming and shaming, connessa ad una forte politicizzazione delle procure. Questo dimostra che, se il Parlamento aveva fatto un cattivo uso delle autorizzazioni a procedere, le procure hanno fatto un cattivo uso dei procedimenti penali, una volta aperta la strada dalla modifica dell'articolo 68. Tutto ciò consiglia un'attenta revisione della riforma, fatta considerando accuratamente gli esempi stranieri».

Si è perso l'equilibrio sull'articolo 68?

«Come ho cercato di spiegare nella prefazione al volume di Giuseppe Benedetto sul tema, L'eutanasia della democrazia, edito da Rubbettino, gli ordinamenti moderni di carattere democratico sono fondati sull'equilibrio e il contrasto tra i poteri. L'immunità parlamentare va valutata nel contesto dei sistemi democratico - parlamentari, nei quali vige un regime di competizione e di controllo reciproco, perché anche questa competizione fa parte della democrazia. Ma la competizione richiede che i poteri operino ad armi pari, non esondino, rispettino le regole del gioco». 

Si è indebolita e messa alla gogna la politica? La magistratura è uscita dai binari?

«Non credo che si possa dire che l'intera magistratura sia uscita dai binari. Si tratta piuttosto delle procure o, meglio, di alcune procure. Un indicatore evidente è costituito dalla presenza di ex procuratori nel mondo della politica. Questo è un indizio molto importante perché prova che non vi è piena indipendenza. Un potere definito dalla Costituzione indipendente dovrebbe essere separato dal potere esecutivo, mentre vi sono magistrati in tutte le posizioni chiave del ministero della giustizia. E dovrebbe essere separato anche dalla politica e dal potere legislativo, mentre vi sono magistrati chiaramente schierati con l'una o con l'altra parte». 

Si possono fare riforme sull'onda di emozioni e fenomeni sociali come tangentopoli? Oggi dovremmo riformare la riforma e tornare al vecchio articolo 68?

«È evidente che è sconsigliabile fare riforme sull'onda di emozioni. Anche se l'iter della riforma del 1993 fu molto tormentato e molte voci si levarono in Parlamento contro di essa, senza dubbio fu il contesto di quegli anni che portò alla riforma. Oggi sarebbe un errore sia ritornare alla formula originaria del 1948, sia non fare nulla. La premessa di qualunque passo dovrebbe consistere nella attenta valutazione della situazione di fatto, considerando come ha funzionato la norma in vigore dal 1948 fino al 1993 e quella in vigore dal 1993 fino ad oggi. Solo un attento esame sia delle procedure di autorizzazione, sia delle mancate autorizzazioni, e un'analisi precisa del contesto dei rapporti della politica con la giustizia, possono consentire una soluzione meditata e non affrettata».

Il Paese delle forche. Così Mani Pulite ha rovinato i rapporti di potere nello Stato. Giuseppe Benedetto su L'Inkiesta il 13 ottobre 2021. Sull’onda dell’inchiesta che fece crollare la Prima Repubblica venne abolita l’autorizzazione a procedere, rendendo più esposta la classe politica italiana alle attività della magistratura. Un fenomeno analizzato da Giuseppe Benedetto nel suo ultimo libro edito da Rubbettino. L’Italia, dopo l’abolizione dell’autorizzazione a procedere, è sotto il profilo delle guarentigie parlamentari un ordinamento simile a quelli dell’Inghilterra e degli USA, in quanto vi è un’immunità sostanziale, ma è fortemente carente quella processuale. La struttura della magistratura italiana è esattamente all’opposto rispetto alla tradizione anglosassone. I suoi membri sono selezionati per concorso pubblico secondo criteri tecnico-burocratici. Non godono di alcuna legittimazione dal basso. La differenza è ancor più evidente con riferimento al Pubblico Ministero. Lì vige il principio di discrezionalità dell’azione penale, qui quello dell’obbligatorietà. Da loro gli uffici requirenti sono soggetti al potere esecutivo o nominati dal corpo elettorale, da noi sono burocrati irresponsabili e privi di qualsivoglia forma di controllo del governo. Nel mondo anglosassone il modello accusatorio ha imposto la separazione delle carriere, quale insopprimibile corollario del diritto di difesa; in Italia i capi delle procure e Gip prendono il caffè insieme (se però il secondo non concede le misure cautelari richieste, allora l’amicizia si interrompe). Nel nostro ordinamento il Pubblico Ministero non risponde della propria attività, è sottratto alla vigilanza degli altri poteri dello Stato e per tanti versi perfino a quella del suo superiore gerarchico; è in grado di influenzare la giurisdizione e titolare del potere di sottoporre liberamente a indagine ogni membro del Parlamento. Non avviene in nessun Paese democratico al mondo. Se poi passiamo ai Paesi di Civil Law, come precedentemente visto, è presente un’autorizzazione a procedere al momento della notitia criminis o a conclusione delle indagini preliminari, sospensione automatica del procedimento o su richiesta del parlamentare indagato. Poco importa, ogni Paese della tradizione romanistica presenta forme di autorizzazione a procedere. Solo da noi manca. Se questi sono i principi, non può esistere alcun equilibrio tra potere legislativo e giudiziario. Il primo è destinato a soccombere, perché privo di adeguate tutele e di poteri di vigilanza. Il punto a cui siamo giunti è il frutto di una delega in bianco a favore della magistratura. L’assunto è che in Italia sia più opportuna una democrazia giudiziaria piuttosto che parlamentare, dal momento che la classe politica si è rivelata non all’altezza dei compiti attribuiti. Invece di provocare distorsioni nel sistema costituzionale, non sarebbe più opportuno selezionare politici di maggior qualità e più alta preparazione? Per di più, siamo così sicuri che l’ordine giudiziario sia un corpo di “eletti”, come qualche magistrato sostiene? La realtà dimostra altro, perché ogni Istituzione è espressione dei cittadini e ne riflette pregi e difetti. In questo Paese si deve smettere di legiferare in modo schizofrenico, pensando che gli italiani siano farabutti e incapaci di formulare giudizi di valore. In caso contrario, si persisterà nell’effettuare riforme aberranti come quella dell’art. 68. Da un lato, il Pubblico Ministero è tout court scisso da ogni forma di raccordo con l’esecutivo (anomalo anche per l’Europa continentale) e, dall’altro lato, l’estensione delle prerogative parlamentari è quella propria della tradizione di Common Law, in cui però il legame della magistratura con gli organi politici è fortissimo. Un perfetto exemplum di cosa significhi alterare gli equilibri tra poteri dello Stato. Non vi è alcuna speranza per il futuro se non si riporterà la magistratura negli spazi che le competono, attraverso un controllo su di essa delle altre Istituzioni democratiche. Coloro che gridano alla deriva politicante appena si accenna al tema della separazione delle carriere guardino alle esperienze straniere.

da “L’eutanasia della democrazia. Il colpo di mani pulite”, di Giuseppe Benedetto, Rubbettino editore, 2021, pagine 110, euro 14

"Scardinare l'immunità ha rotto l'equilibrio tra magistrati e politici". Stefano Zurlo il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Lo storico: "Le toghe si sono spinte troppo in là. Bisogna tornare alla formulazione originaria". La politica sul banco degli imputati. Forse è esagerato parlare di peccato originale, ma fra le cause di questa situazione c'è senz'altro l'abolizione dell'autorizzazione a procedere, nel '93. Giovanni Orsina, storico, direttore della Luiss School of government, non ha dubbi: «Un potere, la magistratura, è entrato nel territorio dell'altro con la benedizione temeraria del parlamento che aveva ridotto ad un moncone l'articolo 68 della Costituzione».

Professore, non c'erano stati troppi abusi e troppi no alle richieste della magistratura?

«Non c'è dubbio, ma scardinando l'immunità, riducendola al divieto di arresto e intercettazione, si è rotto un equilibrio che era stato pensato dai nostri padri costituenti dopo la fine della Guerra».

Ma perché un parlamentare dovrebbe essere tutelato con questo scudo?

«Perché il rappresentante del popolo non è una persona qualunque».

Ma così non si creano privilegi?

«Al contrario, si tutela una persona che ha ricevuto i voti di altri cittadini. È inutile nascondersi dietro formule e concetti astratti: se si apre un'inchiesta su un parlamentare questa diventa immediatamente un fatto politico. Serve quindi un meccanismo che protegga in maniera equilibrata la politica dalla magistratura. E sottolineo tre volte in maniera equilibrata: non può certo essere uno scudo assoluto. L'articolo 68 nella sua formulazione originaria mi pare garantisse quell'equilibrio. Dal '93 invece la magistratura entra ed esce a suo piacimento dal territorio della politica».

Per fare pulizia - dicono loro - davanti a ruberie e commistioni con la criminalità organizzata.

«Ma siamo sicuri che sia sempre così?».

Lei che idea si è fatto?

«Non io. La realtà ci dice che talvolta vengono aperte inchieste che poi, a distanza di anni e anni, finiscono in nulla. Ma il deputato di turno è finito sui giornali, magari ha ricevuto un avviso di garanzia e non è più stato ricandidato. E poi ci sono le intercettazioni, naturalmente indirette, perché un parlamentare non può essere ascoltato, ma spesso leggiamo presunte frasi compromettenti pronunciate da questo o quel potente. Il fatto politico, insomma, si produce a partire da premesse giudiziarie esili se non inesistenti».

Insomma, secondo lei la magistratura si è spinta troppo in là?

«Sì, e di parecchio. Così i poteri non sono più bilanciati».

Lei cosa propone?

«Tornare alla formulazione originaria e rafforzare quello scudo oggi così sottile».

Ma l'opinione pubblica capirebbe?

«Intanto le riforme non possono essere dettate da un'ondata emotiva, come è stato per Tangentopoli. E poi io credo che, proprio perché l'opinione pubblica vigila, il parlamento non chiuderebbe subito la porta ad occhi chiusi se la magistratura dovesse bussare. Ci sarebbe semmai prudenza, non credo l'arroganza, se vogliamo chiamarla così, di un passato ormai lontano».

Professor Orsina, è un po' troppo ottimista?

«No, sono realista. La riforma del '93 ha provocato un danno, un vulnus, al Paese e alle istituzioni. Sarebbe bene tornare al '48 e a quell'equilibrio disegnato allora. Ma, naturalmente, credo che la riforma di quella riforma non si farà. Magari qualcuno griderà che così si difendono i ladri e la loro impunità. E ci si fermerà».

Invece?

«Invece questo strumento è immaginato per bilanciare la nostra democrazia. Più in generale c'è un vizio, o meglio una debolezza nel nostro sistema che temo non sarà facile sconfiggere».

Quale?

«La magistratura si è allargata perché la politica è deperita e ha lasciato tanto terreno scoperto. Il problema insomma non riguarda soltanto le regole. Basti pensare a quel che è successo con Salvini: lì il parlamento doveva votare se lasciare spazio alla magistratura oppure tenere la questione sul terreno politico e ha deciso di mandarlo a processo. La soluzione più facile, ma pure più autolesionistica per la politica nel suo complesso». Stefano Zurlo

La fine delle speranze. Dal caso Montesi a quello Morisi: dopo oltre mezzo secolo sesso e droga tornano nella polemica politica. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Ottobre 2021. Ieri e l’altro ieri ho letto i giornali, sul caso Lucano e sul caso Morisi (poi, domani, li leggerò anche sul caso Fidanza) e mi sono fatto quest’idea: se chiedo a tutti i garantisti italiani di farmi un colpo di telefono, ci potremmo mettere d’accordo per organizzare una cena a casa mia. Io preparo un primo e compro la mozzarella, chiedo a Luigi Manconi di portare un secondo preso in rosticceria, a Peppino Di Lello di prendere qualche bottiglia di Donnafugata, e magari ad Alemanno se viene con un gelato. Al mio editore invece chiederò una cofana di friarielli. Ho una terrazza. Piccola piccola, ma penso che ci entriamo. Prima, forse, devo spiegare bene cosa intendo per garantista, se no finisce che arrivano un sacco di imbucati. In Italia, se levi l’onesto Travaglio, tutti dicono di essere garantisti. Poi però si scopre che non è esattamente così. Allora vi spiego: per garantista intendo quella persona che si rifiuta di linciare un indiziato, o un imputato, e magari persino un condannato, a prescindere dalle posizioni politiche. Ripeto: a prescindere dalle posizioni politiche. Per garantista intendo una persona che non esalta i magistrati che condannano i suoi nemici, o quelli che ritiene suoi nemici, e poi sputa fuoco sui magistrati che se la prendono con uno della sua parte politica. Che non si indigna per un reato il lunedì e il giovedì nega che quello sia un reato. Per capirci: per garantista intendo chi non ha messo alla gogna Morisi, chi si è pronunciato contro l’autorizzazione a procedere per Salvini (reato anti immigrati) e chi si è indignato per la condanna mostruosa inflitta a Mimmo Lucano (reato pro immigrati). Addirittura mi spingo a chiedere un qualche dissenso sulla richiesta di cattura e di estradizione da Parigi di ex esponenti della lotta armata che dovrebbero scontare varie pene per delitti commessi, forse, 30 anni fa, alcuni dei quali sono solo reati associativi. Per garantista intendo chi è stato sempre dalla parte di Falcone, e non dei nemici di Falcone, cioè di quelli che dopo la sua morte hanno tentato di processarlo per interposta persona, mettendo alla sbarra il suo braccio destro, cioè Mori. Intendo per garantista chi si è indignato perché i giudici di sorveglianza hanno messo in prigione, privandolo della semilibertà, il terrorista fascista Mario Tuti, che ha già scontato quasi mezzo secolo di carcere, e chi chiede la liberazione definitiva di Mario Moretti, capo delle Br, che è detenuto da 40 anni esatti (catturato nel 1981). Il garantista, per me, difende i diritti di Dell’Utri, condannato ingiustamente, ingiustamente messo alla gogna, e giustamente assolto a Palermo. I diritti (e l’innocenza) di Dell’Utri, e quelli dei rom, e quelli dei ragazzini che fanno il piccolo spaccio. Soprattutto, quando dico garantisti, intendo quelli che quando sentono che un giudice ha ordinato la perizia psichiatrica per Berlusconi, allo scopo di vessarlo e umiliarlo, nel corso del novantesimo processo intentato contro di lui (dei quali 89 andati buca, e uno solo, per evasione fiscale della sua azienda, concluso con una condanna, peraltro ingiusta), saltano su e dicono: giudici, ora basta. Per garantisti, infine, intendo quelli che considerano che lo strapotere della magistratura nella società italiana sia un vulnus gravissimo allo Stato di diritto, e che la magistratura vada disarmata e costretta a tornare ad operare dentro dei parametri di civiltà di democrazia e di diritto. Io penso che sia garantista chi rientra in tutti i parametri di questo breve elenco. Non solo in alcuni. Forse, dopo aver letto questa premessa all’invito a cena, avrete anche capito perché la mia idea di ospitare tutti i garantisti sul mio terrazzino, non è un’idea balzana: nel mio piccolo terrazzo, magari in piedi, c’entrano tutti. Penso che ci sarà modo anche di sederci intorno al tavolo. Naturalmente inviterò anche Berlusconi, a questa cena, anche se temo che la cosa, di per sé, possa costituire reato. Però gli raccomanderò di non portare niente. Meglio: niente né nessuno. Sono stato sempre pessimista sull’esistenza in Italia di una robusta minoranza di garantisti. ma negli ultimi giorni ho raggiunto la certezza che questa minoranza robusta non esiste. I garantisti nel nostro paese sono poche decine. Non sono una corrente di idee, sono un drappello quasi clandestino. La furia selvaggia con cui la sinistra e il gruppo reazionario dei 5 stelle si son gettati su Luca Morisi, colpevole di assolutamente niente tranne che di delitti contro la morale bigotta, e la rabbia con la quale il giorno dopo la destra (compresi i travaglini, appena un po’ più sobriamente) si è scagliata contro Mimmo Lucano, mi ha fatto perdere tutte le speranze. E soprattutto ho capito che non esiste nessuna possibilità di riformare la giustizia, in Italia. Perché? Per la semplice ragione che esiste un nucleo forte di magistrati (non la totalità ma, credo, la maggioranza) che si fa forte della fragilità e dell’ondeggiamento della politica e dell’opinione pubblica.

Il problema non è l’ideologia forcaiola – quella di Travaglio, o di Davigo o di Di Battista o di qualche altro – che ha pieno diritto ad esistere e che probabilmente, nella sua purezza, è ampiamente minoritaria. Il problema è proprio il cosiddetto garantismo a dondolo. Sentire ieri le dichiarazioni, e leggere gli articoli, dei presunti garantisti di destra, avvelenati contro Lucano e schierati a petto nudo a difendere un processo evidentemente e squisitamente politico, come non se ne vedevano da quarant’anni – dal caso Dolci, o dal caso Sifar o dal caso Braibanti: chissà se qualcuno se li ricorda – e vederli fare scudo con i loro corpi contro chi provava a criticare i magistrati della Locride, è stato uno di quei fenomeni che davvero mi ha gettato nella disperazione e fatto capire che non ho speranze. Così come oggi mi lascia basito la polemica contro Fratelli d’Italia: ladri, ladri… Possibile che intellettuali, giornalisti, politici – figli o nipoti dei grandi: di De Gasperi, e Moro, e Ingrao, e Amendola e Nenni, e Montanelli, Scalfari, Fortebraccio, Pintor – riescano a costruire una idea solo dentro la categoria del ladro sì, ladro no? neanche un centimetro più in alto riescono ad andare? Questa vi sembra politica? A me sembra un gioco di società per aspiranti guardie. Che poi, certo, se tocchi uno della loro parte politica scattano a difesa del diritto. Ma male, perché non lo conoscono, non lo capiscono, neanche riescono a vederlo.

Il caso Lucano è clamoroso perché è il processo più “puramente” politico dalla caduta del fascismo. Forse lo supererà il processo a Salvini, costruito su tesi opposte. Il caso Morisi invece assomiglia tremendamente al caso Montesi, 1953. Allora accusarono un ragazzo innocente di avere partecipato a un festino, e dissero che durante questo festino era morta una ragazza, una certa Wilma Montesi. Lo fecero per la semplice ragione che questo ragazzo era il figlio di Attilio Piccioni, cioè dell’erede di De Gasperi. La campagna contro il povero Piero Piccioni la condussero i giornali del Pci, ma il vero committente era la sinistra Dc. Che spianò Piccioni e conquistò il partito. Da allora i partiti fecero un patto: mai più sesso e droga nella polemica politica. Ha retto mezzo secolo, ora il patto è sciolto e si torna alla guerra per bande.

P.S. Naturalmente è invitata a cena anche la nostra piccola redazione. In particolare Tiziana, che potrebbe portare da Milano una pentolata di risotto giallo. Con l’ossobuco.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Non piace più il magistrato che fa politica. Gabriele Barberis il 6 Ottobre 2021 su Il Giornale. Si possono inseguire i sogni e le suggestioni, ma non i malumori dell'opinione pubblica quando imboccano una direzione precisa. Si possono inseguire i sogni e le suggestioni, ma non i malumori dell'opinione pubblica quando imboccano una direzione precisa. Nel complesso rapporto tra politica e giustizia che avvelena il Paese dagli anni '90, è percepibile un vento di cambiamento. Uno scarto di idee, un nuovo rapporto di forze tra un immaginario partito delle procure e un analogo schieramento improntato al garantismo. I fenomeni politico-sociali possono essere anticipati dai sondaggi, ma sono sempre i passaggi formali a sancire i nuovi corsi. E alcuni risultati scaturiti al primo turno delle amministrative confermano sensazioni già colte dagli elettori. Le difficoltà incontrate dai candidati civici a tutti i livelli risultano moltiplicate quando l'aspirante politico è un magistrato o un altro soggetto proveniente dalla carriera giudiziaria. Tempi difficili anche per loro. Palamara, Maresca, de Magistris: tre nomi, tre flop. L'ex grande pentito che ha denunciato «il Sistema» è stato bocciato dagli elettori di Roma Primavalle con un 6% che l'ha tenuto lontano dalla Camera. Non è andata meglio a Catello Maresca, pm anticamorra in aspettativa, che a Napoli ha raccolto solo il 21,90% come candidato sindaco. Si tratta di un magistrato di indubbia caratura, ma la sua discesa in campo è stata fonte di discussione nel centrodestra dove significative componenti hanno contestato la scelta di arruolare un sostituto procuratore mentre si tenta di riformare la giustizia in Parlamento e con i referendum promossi da Lega e Radicali. Addirittura, il coordinatore cittadino azzurro preferì passare al fronte avversario. Anche l'ex pm d'assalto Luigi de Magistris, diventato politico dopo la lunga esperienza di sindaco a Napoli, non ha neppure raggiunto il 17% alle Regionali della Calabria. Si obietterà che Maresca partiva sfavorito mentre Palamara e de Magistris si sono presentati in liste minoritarie o civiche. Tutto vero. Come è vero che la toga è ora considerata come una parte problematica del Paese e non più la soluzione miracolosa per moralizzare la vita pubblica. Specialmente la sinistra, dai lontani tempi di Di Pietro al Mugello, ha svuotato procure e tribunali per catturare voti giustizialisti, giustificati con la perenne emergenza corruzione annidata solo tra gli avversari politici. Gli italiani, anche dopo la fallimentare inchiesta Stato-mafia, si stanno risvegliando dalla lunga notte giudiziaria fatta di manette facili e processi conclusi con assoluzioni. Per tutti diventa più facile firmare il referendum sulla giustizia con un clic digitale (oltre 500mila adesioni) che rimpiangere i tempi bui degli Ingroia.

Gabriele Barberis. Caporedattore Politica, Il Giornale

Era l’inverno del ’92, e tutto ebbe inizio con una mazzetta a un “Mariuolo”…La lunga marcia del giustizialismo ha una precisa data di battesimo: 17 febbraio 1992, giorno in cui Mario Chiesa fu pizzicato da Tonino Di Pietro. Paolo Delgado su Il Dubbio il 4 ottobre 2021. La memoria, ricostruita col senno di poi, rischia di fare brutti scherzi. Quando il 17 febbraio 1992 Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, fu arrestato a Milano da un pm anomalo, un ex poliziotto venuto dal basso, colorito e pittoresco, tal Antonio Di Pietro, i giornali attribuirono alla notizia moderata attenzione. Non era un titolo d’apertura. Una grana per il Psi di Craxi certamente sì. Ma nulla di più. Nessuno avrebbe scommesso su uno scandalo di prima grandezza, figurarsi su una slavina tale da travolgere l’intero sistema. Lo scontro tra poteri dello Stato, tra politica e magistratura, durava già da anni, con picchi di tensione anche molto alti. Ma il Paese assisteva senza prendere parte con tifo davvero acceso. Il discredito della classe politica dilagava, questo sì, ma senza che la sfiducia diffusa si fosse tradotta in delega alla magistratura. L’Italia era già un Paese solcato da una profondissima vena antipolitica ma non ancora giustizialista. Però ci voleva poco perché il discredito della politica si traducesse in affidamento totale al potere togato e in sete di galera. Sarebbe bastata una pioggia sostenuta: arrivò il diluvio. Tangentopoli, coniugata con l’emozione sincera e unanime provocata dalle stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio, trasformò in pochi mesi i magistrati in eroi popolari, cavalieri senza macchia. Quello che era stato, e in larghissima misura ancora era, scontro tra poteri dello Stato divenne per quasi tutti l’epopea del bene contro il male. La politica si arrese e forse non poteva fare altro. Ci sono due episodi precisi che segnano quella disfatta. Il 5 marzo 1993 il ministro della Giustizia Giovanni Conso, uno dei più insigni giuristi italiani, varò un decreto che depenalizzava, con valenza retroattiva, il reato di finanziamento illecito ai partiti. I magistrati di Mani pulite e soprattutto l’intero coro dei grandi media insorsero. Per la prima volta nella storia il capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, rifiutò di firmare un decreto, facendolo decadere. Meno di due mesi dopo, il 29 aprile, la Camera negò, probabilmente in seguito a una manovra leghista coperta dal voto segreto, l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi, segretario del Psi assurto a simbolo stesso della corruzione. La sera dopo una folla inferocita contestò il leader socialista di fronte alla sua residenza romana, l’Hotel Raphael, a colpi di sputi e monetine. I due episodi delineano il quadro esauriente in modo esauriente: una furia popolare che s’identificava senza esitazioni con la magistratura, uno schieramento dei media quasi unanime e militante a sostegno dei togati, una debolezza della politica strutturale e irrimediabile, un potere dello Stato, la magistratura, in grado di presentarsi come ultimo baluardo, unico a godere di credibilità e fiducia. La parabola del giustizialismo, destinata a durare decenni, cominciò allora. I mesi seguenti furono una mattanza: la classe politica fu falcidiata tutta. Non mancarono suicidi eccellentissimi, come quelli di Gabriele Cagliari, ex presidente Eni, e Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi-Montedison, il 20 e il 23 luglio. Ma già nel 1994 la situazione appariva molto diversa. Abbattuta la prima Repubblica, con Berlusconi trionfante in nome non della continuità ma al contrario della rottura col passato in nome della “rivoluzione liberale”, sembrò per qualche mese che fossero in campo due poteri di pari forza. Berlusconi, uomo alieno da tentazioni belliche, provò subito a risolvere a modo suo: assorbendo le toghe nel nuovo sistema di potere. Offrì a Di Pietro e D’Ambrosio, due magistrati di punta di Mani Pulite, posti da ministri. Rifiutarono e fu subito chiaro che lo showdown era solo questione di tempo. Anche in questo caso due date bastano a restituire l’intera vicenda. Il 13 luglio 1993 il ministro della Giustizia del governo Berlusconi varò un decreto che limitava fortemente l’uso della custodia cautelare, strumento principe delle inchieste sulla corruzione ma effettivamente più abusato che usato. I magistrati di Mani pulite contrattaccarono, chiesero in diretta tv il trasferimento. I partiti che sostenevano il governo, Lega e An, si schierarono contro il dl, che fu ritirato. Poi il 21 novembre, arrivò l’invito a comparire per Berlusconi, anticipato dal Corriere della Sera prima che il diretto interessato fosse messo al corrente. Il governo cadde meno di due mesi dopo. Per registrare tutte le battaglie e le scaramucce, gli agguati e gli scontri frontali dei decenni successivi ci vorrebbe un’enciclopedia. Nel mirino delle inchieste finirono a valanghe, incluso l’emblema stesso di Mani pulite, Antonio Di Pietro. Un paio di governi furono travolti. Il solo tentativo serio di riformare la Costituzione, la bicamerale presieduta da Massimo D’Alema fallì per il pollice verso del potere togato, che si oppose all’allargamento della riforma anche al dettato sulla giustizia. Nel nuovo secolo quella spinta popolare e populista che vedeva nei magistrati i suoi campioni e nel carcere la panacea, trovò, come era forse inevitabile una rappresentanza politica, il M5S e arrivò, come era invece forse evitabile, a vincere le elezioni del 2018. E’ possibile che quell’apparente trionfo sia destinato a passare alla storia come l’avvio del tramonto. Il fallimento del M5S e la sua progressiva “normalizzazione”, gli scandali che hanno demolito, con il caso Palamara, la credibilità della magistratura, l’avvio di riforme in controtendenza rispetto alla temperie giustizialista, infine alcune sentenze clamorose, come quella sulla trattativa segnano forse la fine di una fase durata una trentina d’anni. Non è escluso che la secca dichiarazione del vero leader dei 5S, Di Maio, sull’esito del processo che ha smantellato l’intera visione della storia italiana del Movimento, quello sulla trattativa, “Le sentenze si rispettano”, sia la campana a morto per la lunga festa del giustizialismo italiano.

Tiziana Parenti: «I miei ex colleghi di Mani pulite puntavano alla presa del potere». «Nel 1993 all’interno della magistratura, inclusa la Procura di Milano, ci si era convinti che l’ordine giudiziario dovesse assumersi una responsabilità anche politica. Poi l’avvento di Berlusconi sparigliò tutto, le toghe ripiegarono verso una sclerotizzazione burocratica. Ma nelle loro previsioni c’era ben altra prospettiva». Errico Novi su Il Dubbio il 14 settembre 2021.

«Erano convinti di doversi assumere la responsabilità del potere».

Di dover cambiare l’Italia attraverso le indagini?

«No, anche di assumersi direttamente la responsabilità del potere politico».

Tiziana Parenti, da tempo ormai avvocato del Foro di Genova e dunque lontana non solo dalla toga di pm ma anche dallo scranno parlamentare, è una figura atipica nella storia a di Mani pulite. Corpo estraneo rispetto al resto del Pool, presto convintasi a lasciare la Procura milanese e la magistratura e a schierarsi in politica con Forza Italia, ha già raccontato altre volte delle iperboli che, a suo giudizio, hanno pesato sul percorso degli ex colleghi. Stavolta lo fa a poche ore dal nuovo scontro fra Piercamillo Davigo e Francesco Greco.

Non finisce nel migliore dei modi, avvocato Parenti, l’epopea di Mani pulite e della mitica Procura di Milano anni Novanta.

Distinguiamo però le due cose. Francesco Greco non ha fatto parte del Pool all’epoca di Tangentopoli, Davigo sì. Ma è vero che le nuove tensioni mostrano quanto sia pericoloso per la magistratura eccedere nel protagonismo. Finisce male perché a un certo punto alcuni magistrati, inclusi i miei ex colleghi di Milano, hanno smesso di intendere la loro funzione in termini di esclusiva ricerca della giustizia rispetto al caso concreto.

In che senso?

Hanno ritenuto di doversi assumere una responsabilità più grande, di doversi fare carico di un progetto di cambiamento del Paese in cui appunto sarebbero stati protagonisti.

Be’, in effetti con Mani pulite sono diventati fatalmente protagonisti: hanno disarcionato la politica.

Sì ma, non saprei dire se per un inappropriato senso di responsabilità, in quella parte della magistratura, Procura di Milano inclusa, si era radicata la convinzione che alcuni esponenti del mondo togato potessero anche impegnarsi direttamente in politica, pur senza cercare collocazione in uno dei pochi partiti sopravvissuti. E certo il clima di Mani pulite, nel 93, ha esasperato questa convinzione.

Nel Pool di Milano non si escludeva un impegno politico diretto di qualche componente?

Io non partecipavo ad alcune delle riunioni più delicate, innanzitutto a quelle in cui si discuteva dei filoni investigativi dei quali non avevo diretta competenza, quelli sui partiti di governo. Io ero la sola a lavorare sul Pds. Ma posso dire, ad esempio, che c’era nei componenti storici del Pool la consapevolezza di un quadro politico successivo alle inchieste in cui la sinistra politica sarebbe rimasta sola o quasi.

Non eravate mica tutti di sinistra?

Assolutamente no, ma non era una questione ideologica. Certamente le idee politiche personali di ciascuno, nella Procura di Milano, erano assai diverse. Però, in un’ottica in cui la magistratura avrebbe avuto un proprio peso politico, il Pds, la sinistra, rappresentavano certamente l’interlocutore ritenuto, dalle toghe, più adeguato al realizzarsi dell’obiettivo.

Le sue sono affermazioni impegnative.

Ma come sa non è la prima volta che ne parlo. Il progetto di una magistratura più influente sul quadro democratico generale inizia, se è per questo, una trentina d’anni prima di Mani pulite. Con la lotta al terrorismo, le leggi speciali, alcune garanzie ottenute dall’ordine giudiziario, non esclusi i 45 giorni di ferie e l’incremento della retribuzione. Mani pulite è semplicemente il momento in cui la magistratura comprende che il principale ostacolo al compiersi di quel progetto generale, vale a dire i partiti della prima Repubblica, era stato eliminato, e che dunque il campo era più libero.

Siamo partiti da quel clima, ci troviamo con uno scontro molto duro fra Greco e Davigo: come si spiega?

Non si può fare a meno di recuperare la storia. Primo, Silvio Berlusconi era un altro interlocutore che la Procura di Milano riteneva prezioso, durante la fase originaria dell’inchiesta. Con le sue tv, ricorderete i report di Andrea Pamparana, diede grande risonanza al lavoro del Pool, e al pari del Pds era considerato, seppur per motivi diversi, una controparte appunto utile.

Cosa si diceva di Berlusconi a Palazzo di giustizia?

A me parve di capire che non vi fosse alcuna intenzione di coinvolgerlo nelle indagini.

E poi che è successo?

Che Berlusconi ha sparigliato il tavolo: inventa Forza Italia, vince le elezioni e occupa il centro della scena, il vertice della politica.

Cos’altro avrebbe dovuto fare?

Io mi candidai con Forza Italia. Gli dissi: “Presidente, temo che una sua nomina a presidente del Consiglio possa provocare ricadute sfavorevoli sul piano giudiziario”. Mi rispose: “Ho vinto le elezioni, perché non dovrei diventare capo del governo?”. Come dargli torto. Ma la mia fu una facile previsione.

Berlusconi quindi potrebbe essere, lei dice, la variabile che ha alterato la prospettiva immaginata dalla magistratura.

Lo fu. Berlusconi è l’antitesi di un processo storico. La sintesi successiva ha visto la magistratura trasformarsi da forza di potere, con prospettive anche propriamente politiche, a potere solo burocratico, che è stato comunque forte ma ha finito per sclerotizzare la giustizia. I riti del potere giudiziario, la difesa delle prerogative, sono la prima vera causa delle lentezze.

Lei operò ha lasciato anche la politica, nel 2001: perché?

Fu insopportabile la delusione per la Bicamerale. Ci avevo lavorato. Credevo nella possibilità di poter inserire, fra le riforme condivise, anche quella della giustizia. Berlusconi, bombardato dalle indagini, decise di lasciare il tavolo. Compresi le sue motivazioni, ma per me fu un colpo troppo pesante.

Ha letto però l’intervento di Berlusconi a proposito di giustizia uscito domenica sul “Giornale”? Le è piaciuto?

Molto, parla di princìpi per i quali avrei voluto battermi, dalla separazione delle carriere all’inappellabilità delle sentenze di assoluzione e, soprattutto, ai limiti nell’adozione delle misure cautelari.

Ma se il Cav le chiedesse di tornare in politica per dedicarsi di nuovo alla giustizia?

Mi farebbe piacere impegnarmi di nuovo, credo nei princìpi costituzionali, nella loro affermazione. Mi impegnerei volentieri, se si tratta di battersi per la giustizia sono sempre pronta ad accettare la chiamata.

Senta, ma in fondo può essere anche comprensibile che il caos generato da Mani pulite inducesse in alcuni magistrati la convinzione di dover assumere su di sé il peso di un potere devastato?

Può darsi che la devastazione politica prodotta da quell’inchiesta abbia in effetti suscitato in una parte della magistratura la convinzione che, spianato il deserto, occuparsi del potere diventava doveroso, necessario. Non lo so, ripeto: a certe riunioni io non partecipavo, ero esclusa. Ma l’aria che si respirava nella magistratura italiana, nel 1993, era quella. D’altronde, un conto è cercare la verità su un fatto specifico, altro è assumere iniziative che rovesciano il Paese come un calzino.

Era esagerato?

Direi di sì, e probabilmente la durezza di quell’indagine fu incoraggiata anche da potenze straniere, che non avevano più bisogno della classe dirigente grazie alla quale, per l’intero dopoguerra, l’Italia era rimasta un’avanguardia contro l’avanzare del comunismo.

Lei è stata nel Pool di Mani pulite, seppur per un tempo limitato. È una testimone diretta.

Appunto. Pochi meglio di me possono parlare di quel periodo. Di cosa circolasse nella magistratura. C’era un’idea di potere da assumere, in modo anche diretto. Poi Berlusconi si è frapposto e quell’idea è svanita. Ma a quale prezzo, almeno per Berlusconi, lo abbiamo visto.

A cosa si riferisce?

Berlusconi è stato al centro di una vicenda giudiziaria che ha assunto anche tratti persecutori. Ripeto: prima del 1994 non c’era un magistrato che avesse detto “Silvio Berlusconi finirà sotto indagine”. Poi Forza Italia vinse le elezioni e nulla fu più come prima.

Filippo Facci: «Dopo Mani pulite, partiti e giusto processo non si sono più ripresi». Il giornalista Facci al Dubbio: «A parte la vicenda di Di Pietro, i magistrati di Milano dimostrarono di avere un potere superiore a quello del Parlamento». Errico Novi su Il Dubbio il 16 settembre 2021. «È cambiato tutto. Nulla è più come prima. A cominciare dal Codice Vassalli- Pisapia dell’ 89: non è mai più stato com’era prima di Mani pulite. E la politica non si è mai ripresa, da allora. Anzi non c’è. Non esiste. Ci sono i curatori fallimentari, i tecnici, figure estranee ai partiti che fanno le riforme altrimenti impossibili». Con Filippo Facci si potrebbe trascorrere un pomeriggio intero, anzi più di uno, a parlare del ’ 93, e a spiegare l’eredità mortifera lasciata da Mani pulite. E ci vorrebbero molte pagine d’intervista, perché da giovane cronista giudiziario dell’Avanti!, Facci, oggi commentatore di Libero fu tra i pochissimi giornalisti italiani a non accettare il “verbo” del Pool, e a cercare di raccontarlo diversamente. A breve pubblicherà un libro, per celebrare in anticipo i trent’anni dall’inchiesta spartiacque della democrazia italiana.

Tiziana Parenti ci ha raccontato che nel ’ 93 i pm di Milano non escludevano un impegno diretto della magistratura in politica.

Distinguiamo: Di Pietro si è impegnato eccome, lo sappiamo. Agli altri è bastato condizionare persino le scelte legislative, con una forza superiore al Parlamento, ma senza lasciare la toga. Fanno fede due casi clamorosi: la pronuncia sul decreto Conso e l’altolà televisivo al decreto Biondi.

Era il consenso popolare a incoraggiare certe forzature?

Secondo Di Pietro c’era il rischio che “l’acqua non arrivasse più al mulino”, cioè che le confessioni si interrompessero e che non si potesse andare avanti. E tutto era possibile in virtù dell’insofferenza verso le forze del pentapartito che si radica nell’opinione pubblica dopo l’ 89, si manifesta con le elezioni del ’ 92, favorisce la particolare durezza di Mani pulite con il Psi prima e con la Dc poi. Lo stesso Borrelli confessò che il Pool sceglieva determinati obiettivi secondo le possibilità del momento. Altro che obbligatorietà dell’azione penale. E poi certo, il consenso esaltante spinse anche a osare di più, agli editti televisivi, e a fare giurisprudenza.

A cosa ti riferisci?

Mani pulite ha innescato un effetto a catena capace di rovesciare il Codice Vassalli- Pisapia nel suo contrario. C’è un prima e un dopo. Al Pool di Milano, per Mario Chiesa, servirono flagranza di reato, banconote segnate, un registratore, le confessioni di Luca Magni, si provò a usare senza successo persino una telecamera. Ma fino ad allora era quasi sempre così non solo per quei pm. Pochi mesi dopo, per procedere a un arresto, divenne sufficiente che qualcuno vomitasse mezzo nome e che quel nome finisse opportunamente sui giornali. A quel punto andavi di manette, nessuno protestava e per i gip era tutto a posto.

Mani pulite è stata lo spartiacque, per gli eccessi sulla custodia cautelare?

Lo è stata rispetto a una serie di stravolgimenti ad ampio raggio del Codice dell’ 89, avvalorati in seguito da varie Corti d’appello fino alla Consulta. Se il perno del processo accusatorio consiste nel dibattimento davanti al giudice terzo che si svolge nella parità tra le parti, secondo il principio dell’oralità nella formazione della prova, con Mani pulite arriviamo al punto che i verbali estorti in galera diventano prove, e se poi in Aula il teste non conferma tutto, finisce indagato per calunnia. A trent’anni da quell’inchiesta non siamo ancora fermi a quel punto ma i segni lasciati dal 1993 si vedono ancora.

Politica e magistratura sono tuttora due incompiute per via di quel trauma?

È un discorso che richiederebbe molte ore. Possiamo partire da alcune certezze. Dopo l’ 89 tutto il mondo è cambiato, ovunque la tecnocrazia si è intrecciata al populismo, ma in nessun altro posto il cambiamento è venuto da una rivoluzione giudiziaria. Avvenne perché con la fine della guerra fredda cambiò anche la considerazione che gli Stati Uniti e in generale le forze occidentali avevano del nostro Paese. Cossiga lo previde con largo anticipo in un paio di interviste rilasciate in Inghilterra e Francia, in Italia gli diedero del matto. Ma nonostante i presupposti che ho ricordato, Mani pulite non fu conseguenza di un complotto. All’arresto di Mario Chiesa, i pm di Milano mai avrebbero immaginato cosa sarebbe avvenuto. Pensavano di chiudere tutto per direttissima. Poi Borrelli ammise che per la loro indagine la svolta venne dal risultato elettorale dell’aprile ’ 92. Cambiarono gli equilibri, la magistratura fiutò l’insofferenza e processò un intero sistema. Il gip Italo Ghitti ammise: il nostro obiettivo non era giudicare singole persone ma abbattere un sistema.

Al punto che tra i pm maturò l’idea di dover fare politica in prima persona?

Non ne ebbero bisogno, al di là di quanto avvenne in seguito con Di Pietro. Fare politica vuol dire occupare uno spazio lasciato da altri, dalla politica appunto. Assumere un potere che travalica quello del Parlamento, come avvenne con i decreti Conso e Biondi. Borrelli stesso ammise che in quei casi si verificò uno sconfinamento.

Obbligatorietà dell’azione penale: nel ’ 92 è caduto anche quel principio?

Indagarono sul Pds, certo. Dopo Tiziana Parenti, lo fece Paolo Ielo. Ma farlo nel 1993, dopo aver prima puntato Craxi e il Psi, fu una scelta dirimente, e discrezionale. Non basta, per spiegarla, la maggiore difficoltà nel ricostruire i finanziamenti illeciti del Pci. Certamente quel metodo discrezionale ha cambiato l’orientamento della magistratura requirente. L’imprinting è rimasto, l’obbligatorietà è una barzelletta.

Berlusconi ha ereditato un po’ dell’antipolitica di Mani pulite?

Anche con una certa arroganza, se vuoi, io credo di essere tra i massimi esperti della storia di quegli anni, non foss’altro per l’immenso archivio che tuttora ne conservo, e posso dire che Berlusconi è un punto chiave dell’antipolitica italiana. Aveva compreso subito quanto fosse cambiato il vento: nel ’ 92 sconsigliò a Craxi di tentare la scalata alla presidenza del Consiglio, e gli disse di puntare casomai al Colle. Poi nelle convention di Publitalia cominciò a fare discorsi diversi dal solito, a dire che se ci fossero stati al governo pochi imprenditori come lui, avrebbero cambiato il Paese.

Oggi basta un guardasigilli di grande levatura come Marta Cartabia a dire che la politica ha riguadagnato il primato della democrazia in Italia?

Vuoi riformare la giustizia? Devi sapere che con la magistratura non c’è possibilità di mediazione. Nessuno collabora alla sottrazione del potere che detiene. Perché dovrebbero farlo i magistrati? La politica, da allora, dal 1992, non solo non è mai più tornata davvero autorevole: semplicemente non c’è. Gli unici che funzionano sono appunto i tecnici, i curatori fallimentari, che per definizione non mediano: semplicemente tagliano i rami secchi. Se pensiamo di cambiare la magistratura e il suo rapporto con la politica, non c’è altra strada che a farlo sia chi con la politica non c’entra nulla.

Giustizia, Andrea Pamparana: "Il sistema è marcio", l'ombra del ricatto della magistratura alla politica. Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 20 settembre 2021. «Alla fine di tutto questo non cambierà nulla». I verbali sulla loggia Ungheria, e prim'ancora i contenuti del libro "Il Sistema", in cui il direttore di Libero Alessandro Sallusti dialoga con Luca Palamara sulle degenerazioni della magistratura, stimolano una lunga chiacchierata con Andrea Pamparana. Giornalista di rango, che annovera nel curriculum la vicedirezione del Tg5, rubriche e libri in quantità. Ma, soprattutto visse e raccontò l'inchiesta di Mani Pulite.

Cosa insegna la cronaca dei verbali sulla presunta Loggia Ungheria?

«È tutto un deja-vu. Un "già visto". Quando leggo di questa cosa, o dei meccanismi ben illustrati nel libro Sallusti-Palamara, mi viene da dire: ci meravigliamo? Ci stupiamo che vengano passati dei verbali a dei giornalisti? La risposta è no. Ma sono cose che in realtà dovrebbero farci paura, il sistema è marcio».

Perché è marcio?

«Per due elementi. Il primo è quello che venne individuato da Giovanni Falcone con il termine "pentitismo". In Italia, purtroppo, non si ha il modello del "collaboratore di giustizia" all'americana, che se non racconta le cose vere non ha alcuna protezione e subisce delle conseguenze. Da noi il primo "pentito" che dice qualcosa contro l'avversario politico di turno diventa "la verità". E tutto finisce sui giornali».

Quindi il caso Amara è pentitismo?

«Nello specifico non lo so, ma vedo che l'uscita dei verbali ripercorre quel meccanismo. Quanto sento dire che un magistrato molto importante andato in pensione, che faceva parte del Csm e io personalmente ho sempre stimato, parlo di Davigo ovviamente, si meraviglia che il verbale sia uscito tramite la sua segretaria, vorrei ricordare come uscì la notizia del famoso invito a comparire a Silvio Berlusconi a Napoli, durante un vertice internazionale».

1994. Come uscì?

«Per un giro interno tra giornalisti...».

E Procura?

«Certo! Ma secondo voi davvero possiamo credere che un Procuratore è così ingenuo da consegnare lui al giornalista, magari amico, il verbale? Gli strumenti per fare arrivare i documenti a chi di dovere sono infiniti. E' il perverso gioco dell'informazione che si è "appecoronata" al potere della magistratura».

Il secondo elemento, invece?

«La mancanza di quel che l'avvocato Giuseppe Frigo, illustre, poi diventato componente della Consulta, definì "un atto di civiltà", ossia la separazione delle carriere».

In che modo questa potrebbe interrompere il coagulo mediatico-giudiziario?

«Perché avresti due comparti precisi, tra magistratura giudicante e magistratura inquirente, e perfetta simmetria tra accusa e difesa, con il giudice a vigilare al di sopra delle parti. Attualmente, questo non avviene, e anche nell'eventualità in cui il pm dovesse chiedere l'assoluzione per l'imputato, quest' ultimo nel frattempo è già stato sputtanato a livello mediatico».

La separazione delle carriere è uno degli elementi dei referendum di Lega e Radicali. Questo, assieme a quanto uscito sulla Loggia Ungheria e le rivelazioni di Palamara, portano ad un'accresciuta sensibilità collettiva sul tema. Ci sarà la spinta per una complessiva riforma?

«No».

Perché?

«Quanti referendum abbiamo fatto che poi non sono stati applicati? Accadrà anche questa volta. Alla fine ci sarà qualche piccola modifica della normativa che renderà vano quel referendum».

Eppure dovrebbe essere anche interesse della politica recuperare il suo primato.

«Certo, sempre però che la politica non sia al servizio o sotto ricatto della magistratura. Ricordo che c'è più volte stata occasione per farla, la riforma. I governi Berlusconi avevano un forte mandato popolare».

Neanche allo strapotere delle correnti si metterà mano?

«Può darsi che su quel lato uno scossone ci sia, ma dipenderà dal nuovo presidente della Repubblica. Cossiga, che tutti davano per folle, mandò i carabinieri al Csm, ma sono passati più di trentacinque anni!».

Nel '92 la Procura di Milano era il santuario del moralismo. Oggi abbiamo due protagonisti di allora, Greco e Davigo, l'uno contro l'altro. Che lezione se ne trae?

«Mi ricorda certi duelli del lunedì mattina sul calcio tra due immensi avvocati, Peppino Prisco, interista, e Vittorio Chiusano, che è stato presidente della Juve. Delle boutade».

Tutta scena?

«A parte il fatto che il pool era meno unito di quanto si possa pensare, direi di sì. Per carità, è una cosa anche rilevante, ma finirà in nulla. Tanto, dopo Greco e Davigo, arriverà qualcun altro che sarà incensato dagli aedi del Fatto Quotidiano e continuerà a fare quel che molti magistrati hanno sempre fatto: politica».

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” il 3 ottobre 2021. I grandi giornali in questi giorni, sulla vicenda di Luca Morisi, il guru della comunicazione social della Lega, hanno raccontato tutto e il contrario di tutto. Notizie frammentarie e imprecise, spesso contraddittorie e, successivamente, contraddette. L'importante era tenere alta l'attenzione sulla notizia, reggere tutta la settimana sino alle elezioni. L'unica cosa che i quotidiani si sono ben guardati dal mostrare sono i volti dei due escort. Sono stati protetti come pentiti di mafia. In fondo loro servivano come «dichiaranti» e non andavano esibiti sui media. Magari la garanzia della riservatezza è servita a fargli rilasciare interviste «esclusive» con il ciclostile. Decine di inviati sono andati in trasferta a caccia di festini gay con droga, avendo un'unica cautela: mostrare solo uno dei tre partecipanti all'orgia, Morisi, il domatore della tanto vituperata Bestia. Gli altri due, i professionisti, no, loro dovevano essere tutelati. In questa storia, invece, i due giovanotti non sono delle vittime. Uno dei due è indagato al pari di Morisi per cessione di sostanze stupefacenti. La coppia di prostituti potrebbe persino aver messo in atto un'estorsione ai danni del consulente milanese. Di certo i due hanno chiamato i carabinieri denunciando un fantomatico «furto» e durante le trattative telefoniche e anche a casa di Morisi avrebbero fatto salire non di poco il prezzo della prestazione. Avevano capito che il cliente era benestante e che aveva qualcosa da perdere a livello di reputazione? La risposta dovranno darla la Procura di Verona e i carabinieri che indagano sul caso. Ma vediamo chi siano questi due escort professionisti. «Alexander», nome d'arte, è il più grande della coppia. È nato nel febbraio del 1996. Il vero nome è David Solomon Dimitru, è nato in Romania, ma vive a Milano. Ha due vite parallele che non si incontrano mai. In una è un innamorato papà, con tanto di foto Whatsapp con bebè (sul petto ha tatuato la frase «Family is forever»), nell'altra è uno spregiudicato gigolò. Ma approfondiamo la seconda esistenza, quella da mister Edward Hyde. Su Internet il giovanotto si vende così: «Alexander, giovane ragazzo italo-spagnolo disponibile per farti passare momenti indimenticabili. Pronto per esaudire tutti i tuoi sogni, anche quelli più piccanti... 21 anni, 20 cm, attivo. Ospito e mi sposto!» ci fa sapere sul sito di incontri Grinderboy (dove il suo annuncio risulta, però, scaduto). In un'altra inserzione spiega di essere «versatile» e di avere «un bel culo». Dichiara di essere alto 183 cm e di pesare 70 chilogrammi, si definisce «muscoloso» e «modello». Propone massaggi, striptease e molto altro. Parla italiano e spagnolo fluentemente. Per 24 ore a casa del cliente vuole 2.500 euro, per mezz' ora a casa sua, zona piazzale Cuoco, a Milano, bastano 100 euro. Il suo profilo si trova su Internet a partire dal 2016. All'epoca si descriveva più basso (1,80 kg), con «fisico normale, né atletico né grasso» (77 chili) e anche i centimetri che contano in questi annunci erano meno (18). Spiegava anche di essere «educato, amichevole, maschile e soprattutto DISCRETO», scritto così, maiuscolo. Chissà se Morisi è dello stesso parere. Ventiquattr' ore insieme con lui costavano «solo» 1.000 euro (60 minuti 50 euro), prezzo poi salito a 1.500 e infine a 2.500. Un lustro fa offriva questi extra: «Accompagnatore serale per cene ed eventi di vario genere, finto fidanzato». Tal Giuseppe è rimasto entusiasta: «Alexander un bellissimo ragazzo da togliere il fiato. Sono stato con lui a una cena a Milano. Oltre a essere bello è molto intelligente, educato, elegante, perfetto per una compagnia a 5 stelle. Ottima presenza per fare una bella figura». Altro giudizio infervorato: «Ho incontrato Alex a Roma. È veramente bello. Mi ha presentato il suo amico Nicolas. Stupendo. Abbiamo fatto una cosa a tre ed è stata una esperienza fantastica». I commenti online lasciano intendere che spesso Alexander offra le sue prestazioni insieme con Nicolas/Nicola. Su un sito si propongono in questo modo: «Due bellissimi giovani bisex maschili, top, foto 100 per cento reali, a Roma. Nicolas, 19 anni, Alexander, 21 anni. Ospitiamo a San Giovanni oppure ci spostiamo, disponibilità assoluta, divertimento garantito [] contattateci x un incontro di vero piacere, siamo seri simpatici e onesti. Si richiede max serietà e decisione, disponibili tutta la notte. Chiama ora...». I due vendono le loro grazie, sempre nella Capitale, anche in zona San Lorenzo. Dove Nicolas risulta residente, in via dei Volsci. In realtà si chiama Petre Rupa, ha 20 anni compiuti da poco ed è nato in Romania, a Calarasi. A Verona è indagato per l'articolo 73, comma quinto del testo unico sugli stupefacenti, cioè per il cosiddetto piccolo spaccio. Per lo stesso reato è sotto inchiesta anche Morisi. Infatti non è ancora chiaro chi abbia ceduto all'altro la cocaina, ma soprattutto la fiala di Ghb, la cosiddetta droga dello stupro trovata nello zaino di Petre, considerata un po' un ferro del mestiere per i prostituti. Le investigazioni in corso serviranno a stabilire se la posizione di Morisi vada o meno archiviata. Anche Nicolas, sui siti di incontri, ha il suo bell'annuncio: «Sono un bel ragazzo bisex di 19 anni con un bel giocattolo di 25 centimetri. Caliente attivo per incontri raffinati». Non avevamo dubbi. L'escort precisa anche di essere «solo per persone serie e riservate». Salvo poi chiamare i carabinieri e farsi intervistare dai giornali, come nel caso di Morisi. «Un ragazzo stupendo. Lo ho incontrato a Roma. È più bello dal vivo che in foto e ha una ottima tariffa, mi ha trattato benissimo» lo ha recensito un anonimo. Anche se su Internet i prezzi ufficiali non sono proprio economici: 150 euro per mezz' ora e 400 per due ore. In queste ore Nicolas è irraggiungibile e ai cronisti ha fatto sapere di essere stato «malissimo» dopo la notte con Morisi e di essere ripartito per la Romania per «cure mediche». Alexander è invece di nuovo in piena attività a Milano. Ieri ci siamo finti clienti e lui ha iniziato immediatamente la contrattazione. Al telefono è gentile, ma di poche parole. Parla bene l'italiano e puntualizza subito di non trovarsi a Roma, ma di poter raggiungere la capitale in tre ore. Il nodo sono le spese di viaggio. Ha premura di incassarle in tempo quasi reale. «Ti mando i miei dati su Whatsapp. Ho una Poste pay». È libero subito: «Il tempo di fare una doccia e raggiungere la stazione. Parto da Milano» dice. È disponibile anche di domenica. «Quante ore vuoi stare con me?» chiede. Per un paio d'ore sono 400 euro. Ma prima di scendere nei dettagli è necessario il pagamento dell'acconto per la trasferta: «Ti mando i dati su Whatsapp». E chiude. Poco dopo arriva il messaggio: «Io sarei pronto per partire». Scatta la trattativa per la notte. L'offerta è 700 euro. Lui risponde: «Prendo 1.000 a casa mia». Poi continua a scrivere: «Caro, se mi dai 1.000 vengo. Ti mando i dati, fai la ricarica e parto». Manda sia il numero della carta ricaricabile, sia il codice fiscale. Sembra poter soddisfare qualsiasi esigenza. Hai un amico? «Appena arrivo a Roma ti mostro qualcuno e se ti piace lo chiamo». Inutile, però, chiedergli un'anteprima: «Non posso mandare foto così. Te li faccio vedere appena sono lì. Sono bei ragazzi. Molto belli, che lo fanno solo con me ogni tanto. Ne ho un paio davvero carini, appena arrivo te li faccio vedere e tu scegli». Aumenta il costo? «Magari 200 in più, dato che ci sono io». Rispetto ai 1.200 euro (biglietti del treno esclusi) chiesti a noi con Morisi la tariffa è salita a 4.000 (di cui 2.500 pagati con bonifico prima dell'incontro). A che cosa è dovuto il sovrapprezzo? Alla droga? A un tentativo di estorsione? Di certo quest' ultima ipotesi aleggia su tutta la storia. Poi, facciamo la domanda clou sulla droga: «Per divertirci un po' devo procurarmi io qualcosa o ci pensi tu?». La risposta è secca: «Ho contatti a Roma... poi vediamo insieme». «Così viaggi tranquillo», gli scriviamo. Lui risponde con un «sì». Ma ha premura per la ricarica. E torna sul tema: «Ok, hai i dati, vai a fare ricarica, poi fammi sapere. Stasera sarebbe perfetto. Sono ancora in tempo per partire... arrivo stasera e mangiamo insieme. Poi ci divertiamo. Vai a fare la ricarica che parto, senza perdere troppo tempo». Inutile cercare di spostare la conversazione su altri temi. Torna alla ricarica. L'unica ulteriore risposta è sul Covid: «Sono vaccinato». Alla fine ci sveliamo, ma lui rifiuta l'intervista e ci blocca.

Pioggia di veleni e tranelli sui candidati moderati. Fabrizio Boschi il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. Sono scene già viste e riviste, eppure, chissà perché ci stupiscono ancora. Sono scene già viste e riviste, eppure, chissà perché ci stupiscono ancora. È almeno un ventennio, dalle inchieste fuffa su Berlusconi in avanti, che la sinistra, in prossimità delle elezioni, siano esse Politiche, Europee o Amministrative, cerca di tendere trappole al proprio avversario di turno con l'aiuto dei loro giudici compiacenti o dei giornalisti amici. E queste elezioni non hanno fatto eccezione. Anche stavolta, la melma riversata contro il centrodestra, Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia è stata notevole, attraverso imboscate giudiziarie e agguati mediatici. Magistrati e giornalisti negli ultimi mesi hanno frugato nella spazzatura in cerca del colpo grosso per azzoppare i partiti del centrodestra. Questa volta però il bottino è stato magro e c'è stato più fumo che arrosto. Dalla gogna per Morisi al video sul meloniano Fidanza, è il solito metodo di Pd e grillini per sgambettare gli avversari. Nel dicembre scorso la corsa a sindaco di Paolo Damilano, candidato del centrodestra a Torino, è iniziata con un trittico di atti vandalici contro le sue proprietà. Un raid nei suoi vigneti di Barolo dove gestisce la cantina di famiglia e uno nei due storici locali torinesi che ha rilevato, il pastificio Defilippis e il bar Zucca. Una scia di veleni intorno alla sua scelta di correre come sindaco. E qualche sera fa è stata vandalizzata pure la sede di «Torino Bellissima», la lista che lo sostiene, con scritte del tipo «capitalista di merda» e «no Tav, no delocalizzazioni, no green pass», con il simbolo della falce e martello. A giugno la candidatura di Enrico Michetti come sindaco del centrodestra a Roma era partita da poco meno di 12 ore e per l'avvocato erano già iniziati i problemi. Anzi per meglio dire era già partita la macchina del fango della sinistra. Puntuali come un orologio arrivarono le indiscrezioni della procura, anticipate dal sito di Repubblica, su indagini che riguardavano il candidato scelto dalla Meloni. Aleggiarono indiscrezioni di una doppia inchiesta di Anac e Corte dei Conti su un pacchetto di affidamenti ottenuto dalla Gazzetta Amministrativa srl del candidato sindaco tra il 2008 e il 2014, quando alla Regione c'era Renata Polverini. Curioso però che questo assalto giudiziario sia arrivato subito dopo l'annuncio della coalizione del centrodestra. In luglio scoppia il caso «pistola» per il candidato sindaco del centrodestra a Milano Luca Bernardo, voluto da Salvini, accusato di girare armato non solo per la città ma anche sul luogo di lavoro, l'ospedale Fatebenefratelli-Sacco, dove ricopre il ruolo di direttore del dipartimento di pediatria. «Scandalo» sollevato dal medico e consigliere regionale di +Europa Michele Usuelli. Bernardo disse di aver ottenuto anni prima un porto d'armi per difesa personale dopo aver subito minacce. Ma niente, la macchina del fango non si è riguardata nemmeno di questo. Quindici giorni fa a Napoli, Catello Maresca, candidato sindaco per il centrodestra, perde quattro liste in suo sostegno perché, a detta dell'ufficio elettorale del Comune, non sarebbero state consegnate in tempo e con la documentazione richiesta. Da lì un susseguirsi di denunce, ricorsi, sentenze che hanno portato il Consiglio di Stato ad escludere definitivamente quelle liste. Nomi di peso e un serbatoio di voti che avrebbe potuto fare la differenza. Il resto è storia di questi giorni. Prima il piatto con contorno di droga e sesso dell'ex braccio destro di Salvini, Luca Morisi, che col passare delle ore appare sempre più come una panzana costruita a tavolino per trasformare un discutibile fatto privato in uno scandalo politico. Infine, la polpetta avvelenata confezionata dal sito Fanpage, via Corrado Formigli su La7, contro Carlo Fidanza, plenipotenziario di Fratelli d'Italia a Milano. Per tre anni un «giornalista» con microfono nascosto si è finto sostenitore di quel partito istigando Fidanza a commettere illeciti finanziari, senza neppure riuscirci. Delle sue 100 ore di video rimangono solo 10 minuti, con frasi irrilevanti ed un mirabolante saluto romano. Fabrizio Boschi

Michele Serra per “la Repubblica” il 3 ottobre 2021. Il grande scalpore sollevato dall'inchiesta di Fanpage sulla destra milanese non ha ragione d'essere. È risaputo che gli italiani di estrema destra, non essendo poche migliaia, ma qualche milione (storicamente intorno al 10-15 per cento dell'elettorato) da qualche parte devono pure stare: e dove se non nel partito della Meloni, che ha ancora la fiamma di Almirante nel simbolo? La concorrenza del Salvini, più ducesco della Meloni, anche più screanzato, dunque molto attraente per i nostalgici, ha retto per qualche anno; ora i Fratelli d'Italia sembrano riprendersi ciò che loro spetta, diciamo così, per natura. A partire dalla stessa Meloni, lo stupore perbenista nel riconoscere nello stesso selfie un nostalgico di Hitler e chi si candida al governo del Paese con il centrodestra, è davvero ipocrita. Per dirla in una sola frase, per niente retorica, la destra italiana non ha mai fatto i conti con il fascismo. È una frase che vuol dire esattamente quello che dice. È un rendiconto oggettivo, non una polemica politica. È nella storia della Repubblica e in specie di quella che viene chiamata, impropriamente, Seconda Repubblica: da Berlusconi in poi, i saluti romani e i candidati neri sono parte organica del cosiddetto centrodestra. I minimi serbatoi di CasaPound e Forza Nuova non possono contenere, del vasto neofascismo italiano, che insignificanti scorie: e comunque, in molte città, anche queste scorie sono nel centrodestra. Che l'apologia del fascismo sia contro la legge, dispiace dirlo ma ormai è un formalismo inapplicabile: l'Italia pullula di memorabilia del Ventennio e di saluti romani. Più utile sarebbe che la destra italiana finalmente dicesse: è vero, abbiamo un problema. Ma preferisce fingere indignazione quando qualcuno mostra quello che tutti sanno.

Francesco Grignetti per “La Stampa” il 3 ottobre 2021. Non chiamatelo «destrologo», perché non è corretto e nemmeno serio. Chiamatelo scrittore senza troppe etichette. Ma Pietrangelo Buttafuoco, in trepida attesa per il prossimo romanzo, ("Sono cose che passano", La Nave di Teseo) è anche un osservatore intelligente di quel che accade nel mondo e in «quel» mondo che in gioventù è stato suo. Perciò merita alzare il telefono e chiedergli a brutto muso: che pensa di quel che sta accadendo a destra? Lui sospira e rilancia: «Se mi chiedete di Fanpage, nemmeno rispondo perché ne è evidente l'assoluta malafede e la strumentalità».

In che senso?

«Nel senso che se prendi una macchietta della politica, uno del circo della Zanzara, e ci costruisci attorno un film, è evidente la strumentalità. Ma di questo non parlo, perché non mi interessa.

Parliamo allora di Luca Morisi, abbattuto dai fantasmi social che lui stesso ha evocato? Non le sembra il più drammatico esempio di contrappasso?

«Più che un contrappasso per lui, direi per i suoi nemici. In fondo Morisi è stato coerente con il dettato del tempo corrente, tutto sesso, droga e rock & roll. E invece di sentirsi dire dai suoi nemici - caspita, è dei nostri! - questi hanno mugugnato peggio del peggior Braghettone. Il pavlovismo ha preso il sopravvento». 

Ma non è un problema politico, scusi, l'incapacità di fare i conti con la propria storia, nel caso di chi tresca con certi attrezzi nostalgici del passato peggiore? O con la propria cultura, quando si demonizzano comportamenti che poi sono anche suoi?

«Se è per questo, il problema è anche più grave. Io dico che ormai non abbiamo la possibilità di ridiscutere in un senso molto più ampio. È un problema che va oltre il Novecento e oltre i confini italiani. Siamo entrati in una fase in cui il rischio di inquisizione e di totalitarismo culturale è più forte perfino di quanto fosse nel Dopoguerra. Nel senso che non abbiamo più la libertà e l'agio di attraversare i mondi, di raggiungere orizzonti ulteriori. Siamo costretti in un unico linguaggio che impone il pensiero unico. E soprattutto non c'è la possibilità di confrontarsi con il passato. Ben oltre il Novecento, non c'è più la possibilità di confrontarsi persino con il passato arcaico. Quello più remoto. Questa è la vera questione». 

Par di capire che, secondo lei, siamo oltre le costrizioni del politicamente corretto.

«Certo. Quando nei musei si pongono il problema se esporre le opere d'arte del Rinascimento perché temono di offendere le sensibilità altrui, di quelli che magari nella loro storia non hanno avuto la possibilità di creare capolavori, si capisce che siamo entrati in un ambito preoccupante. C'è una idea di civiltà e di libertà dell'umanità che viene messa in discussione. Grazie a dio, però, ci salveranno i cattivi. Nel momento in cui l'Occidente rinuncerà ai suoi musei, l'Hermitage di Mosca non si farà problemi come non se ne faranno in Cina. A me sembra di essere all'avvento del cristianesimo quando furono bruciate le biblioteche con la sapienza del passato e fu uccisa Ipazia. Se non ci fossero stati i cattivi dell'epoca, ovvero i saggi arabi d'Andalusia o i maestri persiani, oggi non avremmo più Platone o Aristotele. È quello che sta accadendo oggi, quando vogliono cancellare Shakespeare, il Rinascimento, o Heidegger». 

Io chiedevo più banalmente perché la destra non riesca a fare i conti con la propria storia una volta per tutte. O meglio: se non si debba accettare che i conti vanno fatti di continuo.

«Attenzione, tra quello che mi chiede lei, e quello che dico io, c'è di mezzo un groviglio inestricabile di non detto, di autocensura, di timori, per cui non ne usciamo più. Siamo costretti tutti alla "dissimulazione gentile" per potercene venire fuori. Però voglio ricordare un aneddoto, ormai stratificato nella storia della destra: il compianto Pinuccio Tatarella, una volta che gli si presentò un tale con certa paccottiglia nostalgica, la prese e la gettò d'impulso fuori dalla finestra. Non aveva intenzione di perdere tempo». 

È comprensibile che Giorgia Meloni, di ben altra generazione, e con ben altre ambizioni, voglia gettarsi tutta la paccottiglia alle spalle. Ma perché non lo fa, allora?

«Ma davvero vogliamo parlare del Novecento? Allora io faccio solo un nome: Renzo De Felice. Dal punto di vista storico, la discussione si è chiusa con un lavoro storiografico importante. Non lo possiamo più interpellare? Leggiamo i suoi libri».

Il regime del pensiero unico. Marco Gervasoni il 10 Ottobre 2021 su Il Giornale. Lo diciamo da docenti universitari di storia contemporanea: basta con tutta questa litania sul fascismo, sull'Italia che non avrebbe fatto i conti con il regime, sugli eredi del Duce a cui sarebbe chissà perché preclusa una candidatura: in una parola, su questo continuo guardare indietro. Tipico di un paese anagraficamente anziano, con élite vecchie anche mentalmente e in cui i giovani sono considerati delle fastidiose anomalie. Che poi non è neanche storia, questo continuo cianciare di fascismo, ma è uso politico della storia, cioè propaganda, clava mediatica usata contro il centrodestra dal mainstream, che è quasi totalmente di sinistra. Inoltre pur con tutto il parlare di fascismo, nell'ultimo ventennio gli studi storici sul regime non hanno marcato nessuna evoluzione: più si strumentalizza il fascismo, meno lo si conosce. Come non se ne può più della protervia di chi si erge a rilasciare patenti di antifascismo, ora soprattutto nei confronti di Giorgia Meloni e di Fratelli d'Italia. Abbiamo già scritto giorni fa qui che possiamo dirci antifascisti in quanto anticomunisti: come Luigi Sturzo, Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Mario Scelba e tanti altri. Ma l'intervista che Giorgia Meloni ha rilasciato ieri al Corriere della sera dovrebbe chiudere la questione. La presidente di Fratelli d'Italia ripete (sottolineiamo, ripete) la condanna del regime fascista già espresso tante volte, e pure sullo stesso giornale nel 2006. Ha ripetuto che dentro Fratelli d'Italia non vi sono né antisemiti né neofascisti: e non basta qualche personaggio folcloristico ripreso dai video. Folclore per folclore, andiamo a vedere nelle sezioni del Pd in Toscana o in Emilia Romagna. Laddove esistono vie e busti dedicato a Lenin, e nessuno ha nulla da fiatare. Così come nessuna ha rimproverato Zingaretti perché in un suo libro del 2019 ha elogiato il regime sovietico: quello dei gulag, della censura, degli stermini. E vogliamo parlare di dirigenti come Pier Luigi Bersani, abbastanza maturi da aver fatto parte del Pci, per decenni finanziato dai regimi rossi, che peraltro puntavano i loro missili su di noi? Se c'è qualcuno che dovrebbe invocare l'oblio della storia, dovrebbero essere i post comunisti. Per parafrasare il grande storico Marc Bloch sulla Rivoluzione francese, è il tempo di dire agli intellettuali «Fascisti, antifascisti noi vi chiediamo grazia: per pietà, diteci, semplicemente, cosa fu il fascismo». E ai politici di sinistra chiediamo di entrare finalmente nel XXI secolo. Marco Gervasoni

Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per ilfoglio.it l'11 ottobre 2021. "Enrico lascia stare: Roma è cosa loro. Fanno di tutto per attaccarti. Lascia stare". Dai microfoni di Radio Radio, l'emittente romano che ha lanciato Enrico Michetti, questa mattina è partito l'appello alla resa. A lanciarlo Ilario Di Giovambattista, patron di Radio Radio e da sempre sponsor del candidato di centrodestra. Durante la trasmissione Accarezzami l'anima, uno spazio mattutino che prima era occupato da Michetti, Di Giovambattista si è rivolto a Michetti. Gli ha consigliato di gettare subito la spugna. Perché tutto complotta contro il tribuno.

Da radioradio.it l'11 ottobre 2021. Che l’Italia sia uno dei Paesi occidentali con il sistema mediatico più orientato verso gli organi politici è fattuale, risaputo e anche teorizzato a livello accademico. Mai, però, si sarebbe potuto immaginare un incollamento tale da giustificare un vero e proprio accanimento nei confronti di un candidato avverso a gran parte della stampa nostrana. È quello che vede travolto in queste ore il professor Enrico Michetti, passato dall’essere proveniente dalla “destra, destra, destra, forse neofascista” (Gruber, Otto e Mezzo, La7) ad aver pronunciato “frasi antisemite” in un articolo risalente al febbraio 2020 (Andrea Carugati, Il Manifesto), fino all’essere “pilotato da Radio Radio, l’emittente dei No Vax” (Lorenzo D’Albergo, la Repubblica). In verità già prima della sua discesa in campo, alle prime voci di candidatura, l’esperto amministrativista era stato oggetto della propaganda di quotidiani, tv, radio. “La Corte dei Conti indaga sulla Fondazione di Michetti, il professore che Meloni vorrebbe candidato sindaco di Roma”, titolava il Fatto Quotidiano nella fasi calde della scelta da parte del centrodestra. E come non dimenticare la farsa instaurata sul saluto romano più igienico, che “in una delle sue trasmissioni a Radio Radio il possibile candidato di Fratelli d’Italia a sindaco di Roma ha rivalutato in tempo di Covid” (Marina de Ghantuz Cubbe, la Repubblica/Roma). Così il “tribuno della Radio” (altra definizione che voleva essere dispregiativa) è stato bersagliato negli ultimi mesi. Sul costante attacco che verosimilmente si consumerà fino al ballottaggio del 17 e 18 ottobre è intervenuto in diretta il direttore Ilario Di Giovambattista a “Accarezzami l’Anima”. Ecco le sue parole. “Io sono molto preoccupato perché in questa campagna elettorale io ho avuto la conferma di quello che già pensavo: in Italia c’è una stampa della quale mi vergogno. Io vorrei raccontarvi quello che è successo ieri, credo che ormai le cose siano abbastanza chiare. Guardate il titolo di Repubblica di oggi: "l’uomo nero contro le città". Io sono molto preoccupato perché Roma deve essere cosa loro. Roma è cosa loro, nessuno può azzardarsi da persone perbene a entrare in un agone politico. Siamo a una settimana dal voto e per fortuna non hanno trovato nei confronti di Michetti che negli ultimi 30 anni ha aiutato soprattutto i sindaci di sinistra. Vi giuro: io ho paura. Ho paura perché se i cittadini si informano attraverso la stampa, attraverso i mainstream, purtroppo siamo un Paese truffato. È una stampa truffatrice, una stampa della quale mi vergogno. Non c’è niente di deontologico nella stampa italiana, si salvano in pochi, ma veramente in pochi. Sono tutti sotto un padrone, soprattutto politico. Non vedo l’ora che finisca questa settimana, perché tanto ho capito come la stanno mandando. Ho capito come la stanno indirizzando. Anche la manifestazione di Piazza del Popolo: erano tutti fascisti vero? Se decine di migliaia di persone sono tutte fasciste allora si dovrebbero interrogare i nostri capi. Sanno bene che non è così. Sanno bene a un certo punto è successo qualcosa, forse li hanno chiamati loro. Non ci possiamo permettere di parlare di niente, di niente, zero. Io ho capito come vogliono mandarle le elezioni, fossi il professor Michetti mi ritiro. Io sto invitando ufficialmente il professor Michetti a farli vincere così. Enrico ritirati, non sono degni di te. Dammi retta, è cosa loro, ti distruggono. Io sono spaventato. E chiedo veramente a Enrico Michetti: Enrico ritirati, falli vincere. Roma è cosa loro, se non vincono questa volta vanno fuori di testa. Se la sono già venduta, già spartita. È inutile. È tutto apparecchiato. È tutto fatto. Però di mezzo ci sono i cittadini. L’unica speranza sono i cittadini, ma se i cittadini si informano attraverso questa stampa corrotta è la fine. Ecco perché in Italia tante cose non vanno, perché hanno creato un sistema. Il sistema politico-giornalistico è una delle cose più marce, più schifose del nostro Paese. Non voglio avere proprio niente a che fare con questa feccia”.

Vittorio Sgarbi, "a Giorgia Meloni lo avevo detto": complotto prima del ballottaggio? Una inquietante teoria. Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. "L’ho già detto a Giorgia Meloni all’indomani del primo turno: vedrai, faranno qualsiasi cosa per etichettare Enrico Michetti come neofascista. E i fatti mi hanno dato ragione. Tutto è partito da quella che io chiamo la “congiura di Fanpage”. Si è usato un infiltrato clandestino alla ricerca di un reato che non c’è. E gli effetti si sono visti. La verità è che siamo di fronte a una profonda violazione delle regole democratiche da parte dell’informazione e di certa politica. Come non pensare alla Gruber che ha definito Michetti come un neofascista davanti a Calenda che ha cercato addirittura di correggerla?”. Così Vittorio Sgarbi parla del prossimo ballottaggio di Roma e delle conseguenze politiche nate dopo il voto delle amministrative del 3 e 4 ottobre. "Nello spostare il tiro sul fantasma del fascismo che non c’è, evitando di parlare delle migliaia di persone che hanno manifestato liberamente per un sacrosanto diritto di libertà. C’erano sì Fiore e Castellino, ma è anche vero che non si manganellano le persone civili, non si fa sanguinare chi ha idee diverse", spiega Sgarbi puntando il dito sull'informazione. "La gente non capirà che il pericolo fascista non esiste. Per quanto riguarda Michetti, tutti gli elettori che lo hanno votato al primo turno, devono tornare a votare, questo è il mio invito. Devono capire che la pressione mediatica che stiamo subendo sta facendo diventare santo il governo e fascista la gente che scende in piazza", chiarisce in una intervista al Giornale. Sulla manifestazione di Landini per la democrazia e per il lavoro, contro i fascismi, annunciata a Roma il 16 ottobre, raccomta che "farà un’interrogazione parlamentare perché non è accettabile che si faccia politica col sindacato nel giorno di silenzio elettorale. Landini non è un corpo apolitico, ma attraverso il sindacato fa politica e non può farla il giorno del silenzio elettorale, condizionando le urne. La facciano piuttosto il 18, il 19, non il 16. È un’azione chiaramente contro la Meloni". Infine un consiglio al candidato sindaco di Roma Enrico Michetti. "Da soli né io né lui abbiamo la possibilità di potere fare un comizio in piazza dicendo che non è vero che siamo fascisti. Ma ormai Gruber, Fanpage e Landini, i tre finti democratici, hanno imposto un taglio eversivo alla comunicazione. Spero ora che vadano a votare quelli che vengono chiamati fascisti senza esserlo e che siano più numerosi di quelli che vengono chiamati al voto contro i fascisti inesistenti. Ripeto, il rischio fascista non c’è. C’è un rischio eversivo da parte dell’informazione", conclude Sgarbi. 

Quarta Repubblica, il sospetto di Sallusti sugli scontri a Roma: "Qualcuno ha lasciato che accadesse". Libero Quotidiano il 12 ottobre 2021. I sospetti su quanto accaduto nella giornata di sabato 9 ottobre a Roma sono tanti. In particolare ci si interroga come tutto ciò sia stato possibile. A chiederselo anche Alessandro Sallusti, ospite di Quarta Repubblica su Rete 4. "La cosa è talmente strana che o il Paese è in mano ad un branco di incapaci o qualcuno dentro lo Stato ha lasciato che accadesse. È evidente che questo fa gioco alla sinistra". In piazza, con il pretesto di protestare contro il Green pass anche Roberto Fiore e Giuliano Castellino, leader di Forza Nuova. I due sono stati arrestati, ma com'è possibile che potessero manifestare indisturbati? Una domanda che si è posto lo stesso Matteo Salvini, da giorni con Giorgia Meloni attaccato su tutti i fronti. "Ho fatto il ministro dell'Interno e qualunque cosa accadesse era colpa mia – ha detto Salvini sui suoi canali social – Ora, mi domando: se questo estremista di destra era tranquillamente in piazza del Popolo, con il microfono in mano e davanti a migliaia di persone, chi lo ha permesso? Chi non lo ha impedito? L'attuale ministro dell'Interno ha fatto tutto quello che poteva, ha fatto tutto quello che doveva?". Il leader della Lega punta il dito contro Luciana Lamorgese, ministro dell'Interno: "Non prevedere le necessarie misure di sicurezza e non prevenire gli incidenti, anche gravi, significa che è la persona sbagliata, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato". Non solo, perché a indignare maggiormente il direttore di Libero è anche l'uscita di Beppe Provenzano. Il vicesegretario del Partito democratico ha detto che Fratelli d'Italia "è fuori dall'area democratica e repubblicana". Parole fortissime che hanno scatenato la polemica: "Quello che è più inquietante è che il vice segretario del Pd ha buttato lì che forse si dovrebbe chiudere Fratelli d'Italia". E infine: "Stasera hai dimostrato che chi di dovere doveva sapere cosa succedeva e non ha fatto nulla". 

Dentro il Matrix di Giorgia Meloni. Mauro Munafò su L'Espresso l'11 ottobre 2021. Le prese di distanza dalle manifestazioni romane, con molti distinguo, non hanno trovato alcuno spazio sui social solitamente così aggiornati della leader di Fratelli d’Italia. Per un motivo molto chiaro. La leader di Fratelli d’Italia ha fatto finta di condannare le violenze fasciste della manifestazione no Green pass a Roma tirando fuori dal cilindro la frase: «È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco. Nel senso che non so quale fosse la matrice di questa manifestazione, sarà fascista, non sarà fascista, non è questo il punto. Il punto è che è violenza, è squadrismo e questa roba va combattuta sempre». L’ironia sulla matrice che Meloni non conosce, in effetti difficile da rilevare tra saluti romani e canti contro i sindacati “boia”, rischia di oscurare un altro interessante fenomeno. Ovvero come dentro la bolla meloniana e i suoi canali ufficiali sia stata del tutto nascosta questa storia e questa presa di distanza. Ennesima dimostrazione dell’ambiguità utilizzata da Meloni per non perdere il consenso delle frange estreme della destra nazionale. Ma andiamo nel dettaglio. Sui canali ufficiali di Giorgia Meloni, al momento in cui scriviamo e a due giorni dagli eventi di cui parliamo, non è comparso nessun messaggio o video dedicato a condannare le manifestazioni romani. Nelle ultime 48 ore i social media manager di Meloni hanno però trovato il modo di parlare di partite Iva, mazzette in Sicilia, della destra presentabile, di Brumotti e della partecipazione della leader di Fratelli d’Italia all’evento di Vox in Spagna. Non si tratta quindi di una dimenticanza ma di una scelta precisa per non scontentare i fan. E allora quella “condanna” che è servita a fare i titoli sui giornali, da dove arriva? È la risposta alle domande fatte dai giornalisti domenica mattina e di cui non c’è traccia sui canali social di Meloni, di solito sempre pronti a immortalare ogni uscita della politica. Di più, l’unico segno “ufficiale” di queste frasi arriva da una pagina interna del sito di Giorgia Meloni: con un breve comunicato che non è stato neppure messo sulla sua homepage. E che comunque, in un momento in cui la comunicazione politica passa interamente dai social, non avrebbe visto nessuno. Ripescando un vecchio adagio della professione giornalistica: se vuoi nascondere una notizia non devi censurarla ma pubblicarla in piccolo in qualche pagina secondaria. Più che di matrice quindi, qua siamo di fronte a un vero e proprio “Matrix” di Giorgia Meloni. La sua realtà parallela.

Mirella Serri per "la Stampa" l'11 ottobre 2021. L'attacco dell'altroieri da parte di sedicenti no Green Pass alla sede centrale della Cgil voleva colpire un ganglio vitale dello Stato democratico, la rappresentanza sindacale dei lavoratori. Ricorda molto le aggressioni delle squadracce fasciste contro le Camere del lavoro, le Case del popolo e le leghe durante il "biennio nero" 1921-22. Però secondo la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, si tratta «sicuramente di violenza e squadrismo, ma la matrice non la conosco»: un modo furbetto per evitare di dire che siamo di fronte a un rigurgito di fascismo. Da qualche tempo questa politica dello struzzo è sempre più ricorrente fra gli esponenti della destra. La verifichiamo sia in circostanze gravissime, come l'attacco al cuore dello Stato dei giorni scorsi, che in episodi apparentemente minori ma rivelatori della presenza di un nocciolo duro di neofascismo nelle pieghe delle due principali formazioni della destra. Cosa testimonia, ad esempio, il boom di voti ricevuti nella Capitale da Rachele Mussolini junior, candidata alle comunali per il partito della Meloni? Il fatto che la giovane Mussolini, con un cognome così evocativo, abbia fatto il pieno di preferenze non si deve prendere sottogamba. Come ha scritto ieri il direttore de "la Stampa", l'onda nera che ha invaso le piazze italiane affonda le sue radici nell'"album di famiglia". E la nipote di Rachele Guidi, moglie di Mussolini, agli occhi dei suoi elettori ha rappresentato proprio questo nero album. Da una parte c'è il cognome del Duce, che i più fanatici militanti di destra rivalutano per tutto il suo operato, incluse le leggi razziali. Ma dall'altra c'è anche il nome di nonna Rachele che piace ai meno estremisti fra gli estremisti perché è ricco di storia fascista. Molti italiani, non solo i romani, associano la consorte del capo del fascismo all'immagine di una casalinga fedele e icona della memoria del dittatore, a una donna lontana dall'agone politico, timida e discreta. Ma questo ritratto le corrisponde? Oppure è una mistificazione dei cultori del passato che non passa, così come, ad esempio, le recenti esternazioni su quell'Arnaldo Mussolini presentato come il fratello mite e buono del Duce. Alla domanda su cosa pensasse del fascismo, Rachele junior ha glissato: «È una storia troppo lunga». Ma di fronte anche a quello che è accaduto sabato, la storia non è troppo lunga e va al più presto riportata alla luce. Quando il leghista Claudio Durigon propose di intitolare il parco comunale di Latina ad Arnaldo Mussolini, si fece finta di dimenticare chi fosse veramente costui. Non solo un fascista tra i tanti: aveva intascato le maxi-tangenti pagate dalla Sinclair Oil per assicurarsi il monopolio delle ricerche petrolifere in tutta Italia. Giacomo Matteotti, per coincidenza, venne assassinato mentre era in procinto di denunciare la corruzione del fratello del Duce. La stessa volontaria dimenticanza del passato si ripete con la storia di nonna Rachele: anche lei, proprio come Arnaldo, fu molto attiva negli affari di famiglia e del regime di cui con passione sostenne anche tutte le violenze. Rachele senior fu anche cinica e feroce nei confronti degli antifascisti e perfino dei fascisti: prima della seduta del Gran Consiglio che destituì il Duce, gli suggerì di incarcerare tutti i gerarchi che ne facevano parte. Caldeggiò inoltre la condanna a morte di Galeazzo Ciano per il "tradimento". La vita di Rachele, incluso il periodo della Rsi, è stata parte integrante della più cruenta storia del fascismo e rientra in quell'album di famiglia che le componenti nostalgiche di Fratelli d'Italia e della Lega fingono di ignorare dando il loro voto a Rachele Mussolini junior, un nome e un cognome che sono una garanzia per i nostalgici del Ventennio.

Otto e Mezzo, "matrice cercasi": Gruber a senso unico sin dal titolo, plotone schierato contro Giorgia Meloni. Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. “Matrice neofascista cercasi”, è il titolo scelto da Lilli Gruber per la puntata di Otto e Mezzo di lunedì 11 ottobre. Un chiaro riferimento alle prime dichiarazioni di Giorgia Meloni dopo la notizia delle violenze fasciste e squadriste verificatesi a Roma, tra l’assalto ai blindati della polizia e soprattutto alla sede della Cgil. La Gruber ha scelto un parterre di ospiti tutt’altro che casuale per affrontare l’argomento, a partire da Tomaso Montanari - che con la leader di Fratelli d’Italia ha delle “storie tese” passate - e da Paolo Mieli. “Non c’è neanche un dubbio sulla matrice - ha dichiarato il giornalista del Corriere della Sera - erano lì presenti i leader di Forza Nuova a guidare l’assalto. Casomai si dovrebbero distinguere le cose, non riduciamo tutta la questione dei no-green pass ai neofascisti. È accaduta una cosa deprecabile, non c’è alcun dubbio che la matrice sia quella”. Inoltre Mieli si è detto stupito dalla difficoltà che fanno Lega e Fratelli d’Italia a prendere le distanze e a condannare fermamente le violenze fasciste: “Possibile che non ce ne sia uno che dica basta, bisogna fare una guerra senza quartiere e sbatterli fuori? A me non interessa nulla, lo dico per loro: cosa devono aspettare? Un assalto ad una sede della Lega?”.

Da huffingtonpost.it l'11 ottobre 2021. Solleva un polverone la dichiarazione del vicesegretario del Pd, Giuseppe Provenzano, contro Fratelli d’Italia e la sua leader Giorgia Meloni. “Ieri Meloni aveva un’occasione: tagliare i ponti con il mondo vicino al neofascismo, anche in FdI. Ma non l’ha fatto. Il luogo scelto (il palco neofranchista di Vox) e le parole usate sulla matrice perpetuano l’ambiguità che la pone fuori dall’arco democratico e repubblicano” ha detto l’ex ministro del Sud. “In questo modo Fdi si sta sottraendo all’unità delle forze democratiche e repubblicane contro i neofascisti che attaccano lo Stato. Un evidente passo indietro rispetto a Fiuggi”. Parole a cui replica Giorgia Meloni su Facebook: “Il vicesegretario del partito ’democratico’ vorrebbe sciogliere il primo partito italiano (oltre che l’unica opposizione al governo). Un partito a cui fanno riferimento milioni di cittadini italiani che confidano e credono nelle nostre idee e proposte. Spero che Letta prenda subito le distanze da queste gravissime affermazioni che rivelano la vera intenzione della sinistra: fare fuori Fratelli d’Italia” afferma la leader di FdI. “O forse i toni da regime totalitario usati dal suo vice rappresentano la linea del Pd? Aspettiamo risposte”. Diversi gli esponenti di Fratelli d’Italia che si scagliano contro Provenzano. “Il presidente del Consiglio Draghi e tutti i partiti che appoggiano il suo governo condannino immediatamente le parole di chi sembra essere più vicino alle censure imposte dalle dittature di sinistra che non alle posizioni di libertà cui si ispira Fratelli d’Italia” dichiara il capogruppo alla Camera, Francesco Lollobrigida. E Giuseppe Provenzano chiarisce: “Una batteria di attacchi nei miei confronti da Fdi. Chiariamo. Nessuno si sogna di dire che Fdi è fuori dall’arco parlamentare o che vada sciolta. Ma con l’ambiguità nel condannare matrice fascista si sottrae all’unità necessaria forze dem. Sostengano di sciogliere Forza Nuova”.

Dagospia il 13 ottobre 2021. Da “La Zanzara - Radio24”. Vittorio Feltri esordisce così come consigliere comunale a Milano.  A La Zanzara dice: “Non mi sono votato, mi hanno dato due lenzuolate e non ho un capito un cavolo di quello che c’era scritto. Penso di aver votato Sala. Il nome Feltri non l’ho scritto”. “In Consiglio comunale andrò qualche giorno, poi me ne vado. Negli ultimi quarant’anni non ho mai visto un consiglio comunale”. “Gay Pride? Dovrebbe chiamarsi Froci Pride, però facciano quello che vogliono, a me di quello che fanno i froci non interessa nulla”. “Gay è parola inglese, omosessuale è un termine medico, preferisco chiamarli froci o culattoni”. “Il fascismo? E’ morto nel ‘45, non è un pericolo, non ho mai conosciuto un fascista in vita mia”. “Il fascismo? L’unica cosa buona che ha fatto è farsi uccidere. E’ riuscito a fare una guerra assurda, per soggiacere agli ordini di Hitler. Ma fu una piccola cosa rispetto al comunismo, che ha fatto molti più morti e molti più danni. Mussolini era alla guida di una nazione di poveracci, mentre il comunismo uccise molte più persone”. “I novax? Sono degli imbecilli, dei cretini. Rischiano di ammalarsi e morire, non hanno capito un cazzo”.

FABIO MARTINI per la Stampa il 13 ottobre 2021. Gianfranco Fini da quattro anni si è chiuso nel silenzio. Non un intervento pubblico e non un’intervista, ma il protagonista della più importante svolta nella storia della destra italiana non ha smesso di pensare politicamente, di consigliare, di parlare con gli amici di un tempo. E anche se ripete a tutti che lui si limita ad «osservare» e per questo non si esprimerà pubblicamente su Giorgia Meloni, però Fini ha confidato a più d’uno i suoi pensieri su quel che si muove in queste ore a destra: «Come la penso? La penso esattamente come la pensavo ai tempi della svolta di Fiuggi a proposito del fascismo e dell’antifascismo come momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che erano stati conculcati». E Fini non dimentica l’asprezza degli scontri che lo divisero dagli oltranzisti e dai nostalgici, nello storico congresso di scioglimento dell’ Msi a Fiuggi nel 1995 e anche dopo: «Non a caso ero considerato in quegli ambienti il traditore per antonomasia!». In effetti la rottura della destra missina e post-missina non solo con i terroristi neri ma anche con i picchiatori e i movimenti violenti, 25-30 anni fa, è stata così radicale e memorabile da indurre Fini, nelle sue chiacchierate di questi giorni con gli amici di un tempo, a ragionare sul possibile scioglimento di Forza Nuova. Ieri scherzava sulla «fake news» che attribuiva proprio a lui la sottoscrizione di una mozione Change.org che chiede un intervento risolutivo contro l’organizzazione neo-fascista, ma l’ex leader di Alleanza nazionale confida che condividerebbe un eventuale provvedimento di questo tipo. Da ex presidente della Camera, Fini si sente di obiettare su alcuni strumenti per raggiungere l’obiettivo: «Trovo paradossale che sia il Parlamento in quanto tale ad assumere l’iniziativa con una mozione che peraltro non ho letto. In realtà il Parlamento può al massimo chiedere al governo di sciogliere quelle formazioni». Naturalmente Fini conosce la diatriba che divide giuristi e costituzionalisti sulla potestà repressiva, se la competenza spetti all’esecutivo o alla magistratura dopo apposita sentenza, ma sul punto l’ex capo di Alleanza nazionale non sembra aver dubbi: «In realtà i governo può intervenire subito, ope legis, anche senza un’iniziativa parlamentare. È già accaduto nel passato, sia pure in circostanze diverse, nei confronti di Ordine Nuovo e di Avanguardia nazionale». Ma c’è una storia, soffocata nel ricordo, che parla più di ogni altra circa i riflessi politici prodotti dalla rottura che Fini portò a termine col mondo che si muoveva anni fa alla destra dell’Msi-An. Ne parla lui stesso in questi giorni: «Nel gennaio del 1995, al congresso di Fiuggi, io fui agevolato da Rauti e Pisanò che si portarono dietro tutti coloro che avevano avversato la nascita di An e la sua carta d’intenti». Ma nei mesi successivi si consumò qualcosa di più grande di una banale scissione. E si produsse un evento elettorale, da allora rimosso da tutti, a destra e a sinistra. Dopo la svolta “anti-fascista” di Fiuggi e la nascita di An, Pino Rauti che per decenni era stato il principale ideologo del movimentismo di estrema destra, e Giorgio Pisanò, repubblichino mai pentito, ri-rifondarono la Fiamma missina e nella primavera del 1996 proprio i “neo-fascisti” furono decisivi in 49 collegi marginali per fare perdere il centro-destra. Disse Rauti: «Se Prodi ha vinto, lo deve a noi…». E in effetti, per quanto a sinistra possa apparire non subito comprensibile, la reticenza di Giorgia Meloni a prendere le distanze dai picchiatori di Forza Nuova in quanto neo-fascisti, in qualche modo è fuori linea anche rispetto a Giorgio Almirante. Il repubblichino capo storico della destra post-fascista italiana, tra 1978 e 1979 si incontrò in modo segretissimo col segretario del Pci Enrico Berlinguer e sinché i due furono vivi non se ne seppe nulla ma - come racconta Federico Gennaccari, editore e storico della destra missina - «i due leader pur così diversi colsero il rischio di una deriva terroristica di aree giovanili da loro oramai lontane ma che in qualche modo appartenevano ai rispettivi album di famiglia. E si scambiarono informazioni e pareri sulla pericolosa deriva in corso».

Giorgia Meloni, la menzogna di Giulia Cortese: "Eccola a casa, dietro di lei la foto di Mussolini". Ma è tutto falso. Libero Quotidiano il 13 ottobre 2021. La macchina del fango per minare la tornate elettorale non si ferma qui. La giornalista Giulia Cortese ha deciso di sferrare l'ultimo attacco a Giorgia Meloni. Peccato però che si tratti una notizia falsa. La Cortese ha infatti pubblicato un frame di un video in cui alle spalle della leader di Fratelli d'Italia, collegata da casa, appare una foto di Benito Mussolini. A corredo il commento: "Dietro c'è la sua matrice preferita". Il riferimento è alle parole pronunciate dalla Meloni dopo l'assalto alla sede della Cgil da parte di alcuni estremisti. Premettendo di condannare tutti gli atti di violenza, la leader ha ammesso di non sapere di che "matrice" fossero. Da qui il livore della sinistra. Ma la Meloni non ci sta e sotto alla foto diffusa dalla giornalista ha replicato: "Reputo che questa foto falsificata, pubblicata da una giornalista iscritta all’ordine, sia di una gravità unica. Ho già dato mandato al mio avvocato per procedere legalmente contro questa ignobile mistificazione. A questo è arrivato certo giornalismo di sinistra?!". Una risposta che ha scatenato la diretta interessata, già impegnata a cancellare il post: "Ho rimosso la foto, anche se non è molto lontana dalla realtà. Comunque cara Giorgia Meloni, la gogna mediatica che hai creato sulla tua pagina Facebook contro di me ti qualifica per quello che sei: una donnetta", ha scritto la giornalista. Ma se la Meloni non ha risposto all'ultimo attacco, ecco che ci ha pensato per lei Giovanni Donzelli, deputato di Fratelli d'Italia: "Invece di chiedere scusa continua a insultare?".

Incontri, guerriglia, devastazione: così i neofascisti si sono presi le piazze no vax per fare pressioni su Fratelli d’Italia. I carabinieri del Ros hanno segnalato decine di eventi gestiti e amplificati da Forza Nuova e CasaPound. E il medico no green pass Pasquale Bacco racconta come Salvini e soprattutto la Meloni e il suo partito li abbiano sostenuti: «Erano i politici a procurarci le risorse per le nostre iniziative». Antonio Fraschilla e Carlo Tecce su L'Espresso il 15 ottobre 2021. C’è un anno e mezzo di rapporti pericolosi fra movimenti cittadini contro il vaccino e il certificato verde, teppisti fascisti in cerca di ribalta, partiti assetati di voti, per spiegarsi le vergogne di sabato nove ottobre e cercare di capire quel che potrebbe accadere. L’assalto alla sede del sindacato Cgil, la capitale d’Italia in ostaggio degli estremisti di Forza nuova ma anche gli scenari futuri, vista la galassia composita che agita il movimento contro il green pass. Con immagini che rischiano di ripetersi nei prossimi grandi appuntamenti pubblici nella Capitale e non solo che vedono il loro culmine nel G20 in programma a fine mese. Ci sono somiglianze col passato, secondo gli inquirenti che ripescano la stagione dei cattivi maestri e di chi giocava con le piazze: perché oggi come ieri chi manifesta è trascinato dalle rivendicazioni più disparate. E spetta alla politica, alla Lega di Matteo Salvini e a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, evitare che il passato si ripeta. L’estrema destra di oggi è già pronta a prendersela questa piazza, a partire proprio da Forza nuova che da almeno un anno e mezzo lavora per animare la protesta e acciuffare il potere. 

LA STRATEGIA NERA

Quello che è accaduto a Roma non è la conseguenza del caso, ma l’arrivo di un percorso che Roberto Fiore e Giuliano Castellino, che hanno preso le redini di Forza nuova da Roma in giù dopo la frattura interna con le sedi del Nord e dei cosiddetti “scissionisti” guidate da Giustino D’Uva e dalla Rete dei patrioti, hanno pianificato da tempo. Cavalcare il risentimento scatenato dalla pandemia. Infiltrarsi nei gruppi sui social che veicolano il malcontento non più intercettato dalla Lega e soltanto in parte da Fdi. I carabinieri del Ros da oltre un anno seguono le azioni di Forza nuova, soprattutto, ma anche di CasaPound che pesca nello stesso bacino pur avendo forti contrasti con il movimento di Fiore e Castellino. E hanno registrato un aumento costante della tensione dall’aprile dello scorso anno fino ai fatti di Roma. Andati via gli scissionisti della Rete dei patrioti, che non hanno condiviso le scelte dei leader storici di Forza nuova di ritornare movimentisti abbandonando la possibilità di presentarsi al voto, Fiore ha cominciato a fomentare la protesta. All’inizio con scarsi risultati: la prima manifestazione legata al Covid-19, quella dei No Mask il 20 aprile 2020, registra una ridotta partecipazione, anche se in molte piazze da Roma a Napoli e Palermo i Ros segnalano una forte presenza di uomini di Forza nuova e in parte di CasaPound. Fiore e i suoi si insinuano allora nelle chat con più iscritti che crescono su Telegram dall’estate del 2020 in poi. Non a caso in ottobre i carabinieri, con le loro antenne puntate sui movimenti di estrema destra, analizzano altre azioni: il 24 ottobre a piazza del Popolo una prima manifestazione contro le mascherine e le imposizioni del governo sul Covid-19, dove si salda un nuovo asse tra Forza nuova con settori degli ultras della Lazio e della Roma, gli scontri poi ci saranno a viale Flaminio; il 25 ottobre a una protesta contro le mascherine che vede tra i partecipanti sempre i movimenti di estrema destra e una bottiglia incendiaria viene lanciata contro i carabinieri; il 27 ottobre nel quartiere Prati ci sono tafferugli tra polizia ed esponenti di Forza nuova e CasaPound; il 28 ottobre la stessa scena si ripete a Ostia dove però, precisano i Ros, si segnalano anche insulti e minacce tra Forza nuova e CasaPound come due squadre che giocano nello stesso campo ma da avversari. Il 31 ottobre altra manifestazione, quella delle «mascherine tricolore», e anche qui forte presenza di esponenti dei due movimenti di estrema destra. Fiore per recuperare risorse dopo l’uscita degli scissionisti crea una sigla, Area, dove confluiscono una serie di gruppetti di destra extra parlamentare: Gruppo San Giovanni casa dei patrioti, Comunità Evita Peron, Comunità Avanguardia, Comitato di solidarietà nazionale, Comunità militante Castelli Romani, solo per citarne alcuni. Poi entra in gioco il secondo pilastro della strategia della tensione: manipolare le chat di Telegram. Tra quelle che i carabinieri indicano come manipolate anche da esponenti di destra ci sono Guerrieri per la libertà (40mila iscritti), No green pass adesso basta (18mila), Generazione popolare fuoco che avanza (4mila). Dopo la fiammata dell’ottobre del 2020 la tensione viene contenuta, fino al maggio del 2021 quando si riaccendono le proteste dei commercianti sotto la sigla «io apro». Fiore e Castellino provano anche qui a incunearsi, cercando lo scontro con le forze dell’ordine, come nella manifestazione organizzata dai commercianti tra la Bocca della Verità e piazza Venezia. Ma non ci riescono e Castellino rimprovera i promotori della manifestazione perché non hanno avallato gli incidenti con la polizia. I due leader di Forza Nuova non demordono e, passata l’estate, eccoli a settembre ritornare in azione. Il primo settembre chiamano tutti alla protesta davanti alle stazioni ferroviarie e alle sedi delle Regioni, ma la partecipazione è bassissima. I Ros si appuntano numerosi atti dimostrativi contro vaccini e green pass: il 6 settembre Forza nuova partecipa alla manifestazione lanciata su Telegram dai «no Green pass» e da piazza del Popolo provano a rompere il blocco e dirigersi in piena notte verso piazza Montecitorio. La tensione aumenta. Il 14 settembre va a fuoco un gazebo di una farmacia a Trastevere dove si facevano tamponi, il 16 settembre un altro gazebo viene distrutto in via Taranto, zona San Giovanni. Il 18 settembre in piazza Santi Apostoli si trovano a guidare le proteste non solo esponenti di Forza nuova, ma anche gli scissionisti di Rete dei patrioti guidati da D’Uva e i militanti di CasaPound, con Castellino che critica le altre due fazioni perché a suo dire istituzionalizzate, avendo chiesto perfino l’autorizzazione alla Questura per questa manifestazione. Il 25 settembre Castellino partecipa invece alle proteste contro il Green pass di piazza San Giovanni. Ogni sabato nelle vie del centro di Roma, registrano i Ros, Forza nuova organizza piccoli cortei. CasaPound non lascia le piazze a Forza nuova, ma preferisce camuffarsi. Il movimento guidato da Luca Marsella punta ancora alla via istituzionale, cioè quella elettorale, tant’è che alcuni esponenti di CasaPound vengono candidati a Roma nelle liste a sostegno di Enrico Michetti e soprattutto con la Lega, partito che con la guida di Matteo Salvini ha sempre dialogato intensamente con questa area della destra estrema: nel XIII municipio si candida Simone Montagna, militante di CasaPound, come nell’XI municipio nelle liste della Lega compare Alessandro Calvo, altro attivista del movimento. La strategia di Forza nuova, che ha sempre avuto invece un dialogo forte con Fratelli d’Italia, è adesso più aggressiva. Impadronirsi delle piazze per avere una merce di scambio con i partiti di destra. Anzi, con il partito di destra: Fratelli d’Italia. 

LA MATRICE

Arriviamo al 9 ottobre. Il dottore in attesa di sospensione Pasquale Mario Bacco, salernitano di origine, una candidatura alla Camera con CasaPound e autore del libro “Strage di Stato” assieme all’ex sottosegretario all’Interno nel governo Prodi I eletto con la lista Dini, e ormai ex magistrato, Angelo Giorgianni, con la prefazione del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, non c’era in piazza del Popolo. Bacco avvertiva una strana sensazione. Le premesse per una guerriglia. Perché mai, in un anno e mezzo di messaggi, telefonate e incontri, quelli di Forza nuova si erano così esposti. Il capo Roberto Fiore e il suo vice Giuliano Castellino gli avevano offerto un ruolo al vertice di Forza nuova. Un volto spendibile, un medico, per raccogliere più consenso tra i no vax. Bacco ci ha meditato su fra un convegno, un comizio e un intervento con i negazionisti della pandemia come la deputata ex grillina Sara Cunial. Aveva conosciuto Matteo Salvini alla Camera e poi Giorgia Meloni. E aveva ricevuto un insistente corteggiamento, che lo lusingava, e certo come si fa a esserne immuni, non c’è un vaccino per la vanità, alle carezze politiche del deputato e coordinatore pugliese di Fdi Marcello Gemmato: candidature, programmi, successo. C’era la fatica. Due eventi al giorno, il palco di qua, il treno di là, una volta ospite dei salviniani, un’altra dei meloniani: «I partiti di destra ci hanno cresciuto, ci hanno fornito il supporto necessario per avere le autorizzazioni e sobbarcarci le spese. Fdi più di ogni altro». Se lo contendevano il dottor Bacco che contestava la pandemia e i provvedimenti del governo e poi col magistrato Giorgianni fondava l’Organizzazione mondiale per la vita. L’internazionale dei complottisti ben ramificata in Sudamerica e poi sparpagliata fra Oman, Cipro, Malta, Germania, Francia, Spagna e l’Europa mitteleuropea: «Fdi ci aveva proposto di andare al Parlamento europeo a parlare di vaccini», sussurra con il tono di chi sa che rischia di esagerare. Salvini e Meloni erano incuriositi dalla capacità di aggregazione, dalla massa creatasi dal nulla.

Finché col tempo l'interesse è «scemato», l’avvento di Mario Draghi ha normalizzato la Lega e ammorbidito le sembianze di Fratelli d’Italia, la campagna elettorale volgeva alla fine, i no mascherine e no vaccini forse erano diventati più dannosi che utili, e sono subentrati quelli di Forza nuova. Bacco non si è stupito. Sin dal primo momento erano in strada fra la gente un po’ incazzata e un po’ negazionista, lì accanto ai salviniani e ai meloniani senza poterli facilmente distinguere. Però Bacco ha notato per piazza del Popolo un attivismo eccessivo di Castellino che comunica quello che Fiore fa intendere. Avevano preparato il pulpito tricolore, studiato il percorso e spedito gli inviti sui gruppi: «Se Fiore si è fatto riprendere a volto scoperto c’è un motivo. Ho contezza di contatti fra esponenti di Forza nuova e Fratelli d’Italia». Giorgianni si è scambiato il microfono con Castellino, Bacco ha assistito da lontano alla «presa» della Cgil: «È uno schifo. Noi non c’entriamo nulla con la violenza. Siamo diventati dei pagliacci». «Ragazzi mai vista una cosa del genere. Ci hanno messo sotto con i blindati. Corpi a corpi di mezz’ora. Entrati dentro. Siamo ancora sotto assedio!», ha scritto Castellino con un selfie a suggellare l’impresa inviato a tutta la sua rubrica. La prova di forza di Fiore e sodali serviva a mettere pressione, a dimostrare agli amici di Fdi che quel «popolo», migliaia di elettori orfani di rappresentanza, è ormai roba di Fn e che se lo rivogliono, devono riprenderselo e rispolverare gli antichi compromessi. La timida reazione di Giorgia Meloni, che ha impiegato tre giorni per dissociarsi e condannare senza perifrasi, testimonia le profonde ambiguità di Fratelli d’Italia e le sue inquietanti contiguità con quel giro. Che l’inquisito e sorvegliato Castellino fosse il gestore della manifestazione, come illustrato dai fatti, lo sapeva chiunque e a chiunque, pure agli agenti della Digos, aveva annunciato la volontà di condurre il corteo non autorizzato verso la sede della Cgil (non potendo avvicinarsi a Palazzo Chigi). Queste certezze producono due annotazioni: la prima che i responsabili dell’ordine pubblico hanno sottovalutato gravemente la vicenda, la seconda che bloccati Castellino e soci si smantella la parte più violenta. E ciò rassicura gli apparati di sicurezza alla vigilia di altre manifestazioni di protesta per il green pass e dall’arrivo a Roma dei grandi della Terra per il G20. Nel governo, però, c’è il timore che il G20 possa attrarre i no mascherine e no vaccini stranieri, produrre un effetto emulazione, trasformare il vertice nel santuario mondiale dei negazionisti. Forza nuova è molto romana, ma Fiore ha aderenze nei gruppi di ispirazione fascista d’Europa. La prevenzione con l’intelligence è determinante. Il comportamento dei partiti di destra è fondamentale. In quello spazio elettorale e ideologico diversamente presidiato si tiene da anni un duello fra CasaPound e Forza nuova che riflette il duello fra Salvini e Meloni. Dalla pandemia i duelli si svolgono nell’ampio e oscuro terreno dei negazionisti. O i partiti rimuovono ogni pulsione fascistoide o ne verranno travolti.

"Vi dico io la verità sul fascismo... Cosa penso di Landini". Marta Moriconi il 16 Ottobre 2021 su Il Giornale. Guerriglia, scontri, l’assalto alla sede della Cgil. E la singolare manifestazione di oggi con Landini in pieno silenzio elettorale. Parla Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista. Guerriglia, scontri, l’assalto alla sede della Cgil. E la singolare manifestazione di oggi, sabato 16 ottobre, con Landini in pieno silenzio elettorale. IlGiornale.it ne parla con Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista.

Lei è stato il primo a parlare di strategia della tensione, concetto ripetuto in Aula dalla Meloni dopo le risposte disarmanti del ministro Lamorgese. Perché?

“Quando ci sono delle violenze di questo genere, che sono da condannare con forza perché molto gravi, cerco sempre anche di interpretare e comprendere i fatti. Poi, in seconda battuta, mi domando a chi giovi un assalto squadristico oggi. Iniziamo da come sia potuto accadere che un gruppo ampio di persone si sia staccato da una manifestazione a piazza del Popolo e abbia proceduto per chilometri a piedi e per tre quarti d’ora minimo, alla presenza delle Forze dell’Ordine in campo. Mi domando come è possibile che non siano stati fermati prima dagli agenti in tenuta antisommossa. Ed è ridicola, appunto, la difesa del ministro dell’Interno Lamorgese che ha spiegato di non averli bloccati perché altrimenti avrebbero fatto ancora peggio. Ma cosa vuol dire? Mi pare fossero anche disarmati, non avevano chiavi inglesi, bombe molotov o altri strumenti lesivi. Ma che gli facevamo prendere il Parlamento?”.

A chi giova tutta questa faccenda?

“Provo a fare un elenco. Rafforza il governo, ma soprattutto dà fiato a un sindacato concertativo che era moribondo. Poi, dà corpo ai sindacati di base che lunedì facevano una manifestazione contro il governo, contro quei lavoratori licenziati col green pass. E non ultimo dà una stretta a tutte le manifestazioni. Noi stessi che il 30 ottobre avremmo dovuto avere una manifestazione nel centro di Roma, siamo stati spostati in piazza San Giovanni”.

Però se è vero che tutte le manifestazioni subiranno dei restringimenti, come è successo alla sua, non pare che questo accadrà a quella antifascista di sabato di Landini e dei sindacati uniti però…

“E’ una sinistra questa, responsabile di non aver difeso i lavoratori. Mentre la destra fa sempre il suo lavoro, la sinistra non l’ha più fatto. Io oggi non scenderò con loro. Non mi riconosco e sono rimasto colpito dall’immagine di Draghi che ha messo la mano sulla spalla a Landini da un gradino più in alto. I presidenti degli Stati Uniti mettono sempre la mano sulla spalla dei Capi di Stato che incontrano, è un segno di comando. E se permetti questo vuol dire che ti senti dominato, protetto da tipi del genere. Basta andare a vedere la foto di Obama e Raul Castro e come il secondo gli levi in maniera rapida la mano che si avvicinava”.

Oggi il fascismo cos’è?

“Mi rifaccio alle parole di Gian Carlo Pajetta: noi abbiamo chiuso i conti col fascismo il 25 aprile 1945. Oggi l’antifascismo è essere anticapitalisti. Tutto il resto sono due cretini, che vanno condannati, che fanno il saluto romano”.

Ma quanto guadagnerà il Pd da questa faccenda? Pensiamo al ballottaggio di Roma per esempio...

“Gualtieri è l’altra faccia della stessa medaglia. E il suo partito è il più conseguente a questo meccanismo. E’ logico che il Pd gode e godrà di questa situazione. Questa vicenda ha un indubbio peso a favore loro. La domanda è sempre la stessa: a chi giova? Facile la risposta”. Marta Moriconi

 Massimo Cacciari contro la sinistra: "Allarme-fascismo? Realistico come un'astronave in un buco nero". Libero Quotidiano il 15 ottobre 2021. "Il pericolo "fascista" è realistico come l’entrata di un’astronave in un buco nero": Massimo Cacciari smonta l'allarmismo che si è diffuso dopo la protesta No-Green pass a Roma, poi degenerata con l'assalto alla sede della Cgil e con scontri violenti tra polizia e manifestanti. Per il filosofo, è sbagliato paragonare i due momenti storici: "Le condizioni storiche, sociali, culturali di quel caratteristico fenomeno totalitario non hanno alcun remoto riscontro nella realtà attuale di nessun Paese". Basti pensare che un secolo fa, scrive Cacciari su La Stampa, il fascismo trovò l’appoggio di settori decisivi dell’industria, della finanza e di importanti apparati dello Stato. Cosa che adesso non avviene. Secondo il filosofo, "i movimenti  che si richiamano a quella tragedia sono farse, per quanto dolorose, che nulla politicamente potranno mai contare". Cacciari ha spiegato anche che "decenni di stati d'emergenza" certo non favoriscono un regime democratico. Allo stesso tempo però ha scritto: "Più difficile è tener salda quell’idea di democrazia, più diventa necessario. E, per carità, tranquilli: nessun fascismo sarà comunque nei nostri destini". Il pericolo che tutti rischiano di correre oggi è un altro, stando all'analisi fornita dal filosofo. "Il pericolo che cresce quotidianamente è tutto un altro: che la persona scompaia fagocitata dalle paure, dalle avarizie, dalle invidie, dai risentimenti dell’individuo, in cerca affannosamente di chi lo rassicuri, lo protegga, lo consoli", ha sottolineato Cacciari". Ed è qui che entra in gioco la politica: "Se le forze e le culture politiche si divideranno nella rappresentanza di queste pulsioni, 'specializzandosi' ciascuna nel rassicurare intorno a questo o quell’altro 'pericolo', affidandosi a mezzi anch’essi sempre più di emergenza, invece di individuarne e affrontarne le cause strutturali, dove finiremo nessuno lo sa o può dirlo". In ogni caso, non si finirebbe comunque in un regime fascista: "Certo sarà un regime che assolutamente nulla ha a che fare con i mantra democratici che continuiamo a ripetere, pietoso velo del naufragio che ha subito fino a oggi ogni tentativo di riforma del nostro sistema istituzionale e del rapporto tra le sue funzioni e i suoi poteri".

La sinistra prova il blitz: vogliono abolire la Meloni. Laura Cesaretti il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'aiutino a Giorgia Meloni, messa in serio imbarazzo dalle prodezze neofasciste di Roma, arriva da dove meno te lo aspetti. Addirittura dal Nazareno. L'aiutino a Giorgia Meloni, messa in serio imbarazzo dalle prodezze neofasciste di Roma, arriva da dove meno te lo aspetti. Addirittura dal Nazareno: è infatti il vicesegretario del Pd Peppe Provenzano che, proprio mentre i Fratelli d'Italia si dibattevano faticosamente tra la condanna per le violenze di Roma e la solidarietà ai novax/nopass antigovernativi, inciampa in un clamoroso incidente politico via Twitter. Offrendo così generosamente ai meloniani l'ambito ruolo di vittime della sinistra neo-stalinista. Provenzano, che nel Pd rappresenta la sinistra dura e pura, se la prende con Meloni che da Madrid (dove è corsa ad arringare in uno spagnolo maccheronico la platea dei nostalgici franchisti di Vox) ha dichiarato di non conoscere la matrice di Forza Nuova, e accusa: «Il luogo scelto e le parole usate sulla matrice perpetuano l'ambiguità che la pone fuori dall'arco democratico e repubblicano». Bum: sul vice di Enrico Letta che mette FdI fuori dal consesso democratico si scatena la tempesta. E siccome nel frattempo il Pd sta raccogliendo le firme su una mozione che chiede lo scioglimento di Forza Nuova, il gruppetto fascista che ha assaltato Cgil e ospedali spaccando bottiglie in testa agli infermieri, quelli di Fdi fanno la sintesi: Provenzano vuole sciogliere anche noi. «Spero che Letta prenda subito le distanze da queste gravissime affermazioni che rivelano la vera intenzione della sinistra: fare fuori Fratelli d'Italia», tuona Meloni. «O forse i toni da regime totalitario usati dal suo vice rappresentano la linea del Pd? Aspettiamo risposte». Meloni si affretta ad assicurare che lei condanna «ogni violenza di gruppi fascisti». E che il suo partito «non ha rapporti con Fn», e invita il Pd a manifestazioni e azioni comuni contro ogni violenza». Le fa subito eco il capogruppo meloniano Francesco Lollobrigida: «Non è certo il vice segretario del Pd che può concedere patenti di ingresso nel perimetro repubblicano. I suoi toni somigliano più a quelli dei regimi comunisti, in cui affonda le sue radici il Pd, che non a quelli del civile e rispettoso confronto parlamentare». Seguono a ruota tutti i parlamentari di Fdi, chi chiedendo le dimissioni di Provenzano, chi ingiungendo a Letta e persino a Mario Draghi e Sergio Mattarella di pronunciarsi, chi chiamando il vicesegretario Pd «stalinista». Con Meloni si schiera Matteo Salvini: «Il vice-segretario del Pd taccia ed eviti di dire idiozie, non è certo lui che può dare patenti di democrazia a nessuno. Fascismo e comunismo per fortuna sono stati sconfitti dalla Storia, e non ritorneranno». I dem devono correre ai ripari: a Provenzano viene chiesto di mettere una pezza al pasticcio combinato, con un ulteriore tweet che però non riesce col buco. L'ex ministro del Mezzogiorno («E meno male che adesso c'è la Carfagna», lo punge Matteo Renzi) assicura: «Nessuno si sogna di dire che FdI è fuori dall'arco parlamentare (in effetti aveva detto fuori dall'arco democratico e repubblicano, ndr) o che vada sciolto, ma con l'ambiguità nel condannare la matrice fascista si sottrae all'unità necessaria delle forze democratiche». Letta ribadisce il «gravissimo errore» della Meloni nel non condannare lo «squadrismo» dei no vax e la invita a sottoscrivere la mozione contro l'organizzazione neofascista, mentre dal nazareno si accusa la leader Fdi di «falsificare la realtà rifugiandosi nel vittimismo: il Pd non ha chiesto di sciogliere il suo partito ma Fn». Laura Cesaretti 

Giorgia Meloni contro Beppe Provenzano: "Vuole sciogliere FdI per legge? Ecco che roba è la sinistra". Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. L'assalto alla Cgil e le manifestazioni estremiste a Roma di sabato? Tutta colpa di Giorgia Meloni. Questo il pensiero di Beppe Provenzano. L'ex ministro del Partito democratico si scaglia contro Fratelli d'Italia in un post su Twitter intriso di livore: "Ieri Meloni aveva un'occasione: tagliare i ponti con il mondo vicino al neofascismo, anche in Fdi. Ma non l'ha fatto. Il luogo scelto (il palco neofranchista di Vox) e le parole usate sulla matrice perpetuano l'ambiguità che la pone fuori dall'arco democratico e repubblicano". Peccato però che la Meloni abbia denunciato "la violenza e lo squadrismo" andato in scena, ricordando che "questa roba va combattuta sempre" per poi precisare di non conoscere la matrice. E in effetti non è l'unica. Alla protesta partecipavano più di diecimila persone, molte addirittura scampate ai controlli. Dura condanna anche da parte del capogruppo alla Camera di FdI, Francesco Lollobrigida: "Il governo può sciogliere le organizzazioni eversive. Draghi prenda provvedimenti". Da qui la replica della Meloni alla provocazione del dem: "Il vicesegretario del partito 'democratico' vorrebbe sciogliere il primo partito italiano (oltre che l’unica opposizione al governo). Un partito a cui fanno riferimento milioni di cittadini italiani che confidano e credono nelle nostre idee e proposte". Messaggio indirizzato a Enrico Letta: "Prenda subito le distanze da queste gravissime affermazioni che rivelano la vera intenzione della sinistra: fare fuori Fratelli d’Italia. O forse i toni da regime totalitario usati dal suo vice rappresentano la linea del Pd? Aspettiamo risposte". Solo in parte Provenzano ha raddrizzato il tiro chiarendo quanto scritto: "Significa semplicemente che in questo modo Fdi si sta sottraendo all'unità delle forze democratiche e repubblicane contro i neofascisti che attaccano lo Stato. Un evidente passo indietro rispetto a Fiuggi. Tutto qui". Ma la proposta rimane ugualmente grave".

"Nemmeno il Pci si sognò di metter fuori legge il Msi". Fabrizio Boschi il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'intervista al direttore del Riformista Piero Sansonetti. Secondo l'ex ministro per il Sud nel governo Conte II, Giuseppe Provenzano, oggi vicesegretario del Pd, Giorgia Meloni sarebbe «fuori dall'arco democratico e repubblicano». Sentiamo cosa ne pensa l'antifascista direttore del Riformista, Piero Sansonetti. 

Direttore, cosa gli è preso a Provenzano?

«Credo abbia avuto un colpo di caldo fuori stagione. Non si capisce di che parli».

Come se la spiega?

«Deve aver sentito parlare dei partiti facenti parti dell'arco costituzionale. Ma senza studiare la storia: oggi i partiti che hanno partecipato alla Costituzione non ci sono più. Perciò sono tutti fuori. Forse solo il Psi di Nencini si può definire partito costituzionale. Gli altri son nati dopo».

È preoccupante?

«Fa pensare a manovre autoritarie».

Addirittura.

«Dire che la Meloni è fuori dall'arco democratico è una manovra autoritaria che riduce la democrazia in regime. Ricordo a questo ragazzo che nella storia italiana i partiti sono stati cancellati solo da quei fascisti che lui tanto odia. Ci provò Scelba ma senza riuscirci. E ora lui cosa vorrebbe fare? Riprendere questa bella tradizione?».

Lo conosce?

«No, cosa è ministro?»

No, non più, ora è vice segretario del Pd.

«E Letta non ha detto niente? Questo sì che è preoccupante. Figuriamoci che una cosa del genere non l'hanno mai pensata nemmeno i comunisti. Il terribile e feroce Pci non ha mai chiesto di mettere fuori legge l'Msi che certamente era molto più legato al fascismo di Fdi. Persino Potere operaio, che Provenzano nemmeno saprà cos'è, era contrario. Solo Lotta continua lo gridava. Ed eravamo negli anni Settanta, quando Provenzano nemmeno era nato, in un clima ben diverso dal nostro».

Allora a cosa attribuisce le sue parole?

«Al decadimento della nostra classe politica che denota una totale assenza di preparazione che poi è la caratteristica di questo Parlamento, dal M5s in poi. Tutto è inquinato da un personale politico con capacità di ragionare ridotte e con una cultura politica assente. Si salvano solo poche decine di persone».

E di chi vuole cancellare Forza Nuova cosa ne pensa?

«Un'altra idiozia. Se ogni volta che ci sono incidenti mettiamo fuori legge coloro che partecipano alle manifestazioni allora metteremo fuori legge tutti. E i militanti di sinistra sono quelli che farebbero fuori per primi. Non ha nessun senso a meno che non si voglia creare un regime. Io sono anche contrario ai reati di apologia, figuriamoci».

Cioè?

«Sono reati di opinione e nessun pensiero per me andrebbe punito, punire i pensieri è ignobile. Penso ci sia qualcosa di fascista nel proibire i pensieri. Tutte le azioni repressive sono fasciste».

E della Meloni a Vox cosa ne pensa?

«Lei può andare dove gli pare. Il problema è che questi vogliono fare i partigiani perché non riescono a fare nient'altro e confondono la politica con la raccolta di figurine Panini».

Da repubblica.it l'11 ottobre 2021. "Vogliamo fare una cosa seria? Tutto il Parlamento si unisca per approvare un documento contro ogni genere di violenza e per sciogliere tutte le realtà che portano avanti la violenza, non è che la violenza dei centri sociali lo è meno". Replica così Matteo Salvini al segretario del Pd, Enrico Letta, dopo che i dem hanno presentato alla Camera questa mattina una mozione per chiedere lo scioglimento di Forza Nuova e di tutti gli altri movimenti dichiaratamente fascisti. Una richiesta nata dopo gli scontri di sabato scorso a Roma durante la manifestazione non autorizzata dei No Green pass a cui hanno preso parte molti esponenti di FN e durante la quale la sede nazionale della Cgil è stata devastata. Intanto, su richiesta della Procura di Roma la Polizia Postale ha notificato un provvedimento di sequestro del sito internet del movimento di estrema destra Forza Nuova. L'attività rientra nell'indagine avviata dai pm della Capitale  e relativa anche agli scontri avvenuti sabato nel centro della Capitale e che ha portato all'arresto di 12 persone. Il reato per cui si è proceduto è quello di istigazione a delinquere aggravato dall'utilizzo di strumenti informatici o telematici. 

Mattarella: "Molto turbati, non preoccupati"

E proprio rispetto a quanto accaduto durante la manifestazione nella Capitale, il Capo dello Stato Sergio Mattarella a Berlino rispondendo a una domanda del presidente Frank-Walter Steinmeier ha sottolineato che "il turbamento è stato forte, la preoccupazione no. Si è trattato infatti di fenomeni limitati che hanno suscitato una fortissima reazione dell'opinione pubblica".

Il no di Forza Italia

Ma il leader della Lega non è l'unico a non appoggiare la mozione del Pd. Oltre al no di Fratelli d'Italia, oggi arriva anche quello di Forza Italia. E fonti della Lega fanno sapere che il centrodestra "condanna le violenze senza se e senza ma ed è pronto a votare una mozione per chiedere interventi contro tutte le realtà eversive, non solo quelle evidenziate dalla sinistra". Questo, riferiscono dal Carroccio, è quanto sarebbe emerso "da alcuni colloqui telefonici tra Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni". Mentre l'azzurro Elio Vito si dichiara disponibile a firmare la mozione del Pd, il resto del partito di Silvio Berlusconi si dice contrario. "I fatti di sabato scorso, le aggressioni alle forze dell'ordine, l'assalto alla Cgil, sono stati condannati da tutte le forze politiche. Non ci possono essere ambiguità contro la violenza e contro chi usa una manifestazione di piazza per secondi fini", chiariscono in una nota i capigruppo di Forza Italia alla Camera e al Senato, Roberto Occhiuto e Anna Maria Bernini. "Ma non esistono totalitarismi buoni e totalitarismi cattivi - proseguono - e per questo motivo non è possibile per i nostri gruppi firmare o sostenere la mozione presentata dal Pd". Per, da FI si dicono aperti ad altre soluzioni. "Proprio per superare le divisioni - dicono - proponiamo di lavorare ad una mozione unitaria contro tutti i totalitarismi, nessuno escluso".

Conte: "M5S in prima fila contro Forza Nuova"

Dai grillini arriva invece il sostegno alla proposta dei dem. "Il Movimento 5 Stelle aderisce e rilancia le iniziative volte allo scioglimento di Forza Nuova e delle altre sigle della galassia eversiva neofascista", assicura il leader Giuseppe Conte. "Saremo in prima fila per tutte le iniziative parlamentari che muoveranno in tal senso - aggiunge - Siamo però consapevoli che non basterà questo, così come sappiamo che ignorare le proteste di piazza - quelle legittime e pacifiche - non aiuta a lavorare al bene del Paese". Per questo, Conte in un post su Facebook invita ad "ascoltare la rabbia di chi guarda al futuro con angoscia e preoccupazione".

La mozione di LeU

Come il Pd, anche Liberi e Uguali ha scelto di presentare, ma al Senato, un analoga mozione per chiedere lo scioglimento di Forza Nuova.  " Dopo gli assalti squadristi di sabato e la delirante rivendicazione di FN che promette di proseguire su quella strada non si può più essere tolleranti.  Bisogna agire, far rispettare la Costituzione e le leggi, sciogliere i gruppi fascisti", sottolinea la capogruppo di LeU al Senato, Loredana De Petris. Che poi dice: "Anche FdI, se fosse onesta e coerente, dovrebbe votare a favore della mozione. Invece Giorgia Meloni prosegue con la tattica dell'ambiguità, senza mai nominare i fascisti perché sa che da quelle aree le arrivano voti, ma fingendo di voler invece combattere la violenza per non inimicarsi altre fasce del suo elettorato".

Claudio Del Frate per corriere.it l'11 ottobre 2021. La mozione presentata in Parlamento che chiede lo scioglimento di Forza Nuova (che di conseguenza diventerebbe una organizzazione fuorilegge) può essere attivata grazie alla legge Scelba del 20 giugno 1952. Quest’ultima dava attuazione pratica alla dodicesima disposizione transitoria e finale della Costituzione che vieta in Italia la ricostituzione del partito fascista (il testo recita: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all’articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista».) La legge Scelba, in questo senso, è stata applicata poche volte in Italia; per sciogliere un movimento ritenuto epigono del fascismo è necessario un decreto del ministero dell’Interno, oppure una sentenza della magistratura. E proprio la magistratura, in serata, ha rotto gli indugi: la polizia postale, su ordine del tribunale di Roma, ha sequestrato e oscurato il sito di Forza Nuova. Il reato per cui si procede è istigazione a delinquere. Tornando alla possibilità di sciogliere Forza Nuova il primo articolo della legge stabilisce che «si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista». I fatti accaduti sabato a Roma sembrano rientrare in pieno dentro questo perimetro. Di più: senza il bisogno di attendere gli assalti alla Cgil, a Palazzo Chigi, al Policlinico Umberto I, Forza Nuova non ha mai fatto mistero della sua inclinazione per i metodi violenti. La valutazione, comunque, e il relativo decreto di messa al bando della formazione di Roberto Fiore e Giuliano Castellino toccherà al Viminale. In Italia sono pochissimi i precedenti di applicazione della legge Scelba in relazione al tentativo di resuscitare il partito fascista; l’ostacolo giuridico è sempre quello che divide la legittima manifestazione del libero pensiero in politica dall’azione eversiva. Nel novembre del 1973 i dirigenti di Ordine Nuovo, fuoriusciti dal Msi, vengono condannati per ricostituzione del partito nazionale fascista e l’organizzazione viene sciolta per decreto. Nel giugno del 1976 stessa sorte tocca ad Avanguardia Nazionale. Non incorrerà invece nelle sanzioni della legge la formazione di Giorgio Pisanò «Fascismo e libertà», che potrà anche presentarsi alle elezioni ostentando sul simbolo un fascio littorio. La ricomparsa di una estrema destra eversiva è un problema che non riguarda solo l’Italia; in Germania nel gennaio 2020 è stato messo fuorilegge il gruppo neonazista Combat 18, di dichiarate simpatie hitleriane; Berlino ha varato una serie di leggi che inaspriscono ogni richiamo al nazismo (compreso l’uso del saluto romano in pubblico) dopo l’uccisione da parte di terroristi di estrema destra del politico della Cdu Walter Lübcke. In Grecia la formazione di estrema destra Alba Dorata è stata dichiarata fuorilegge da una sentenza della Corte d’appello di Atene che ha condannato i suoi leader a pesanti pene. Alba Dorata era arrivata a sfiorare il 10% dei consensi alle elezioni politiche. Stesso copione in Francia, dove il governo ha dichiarato illegale il gruppo di estrema destra Generation Identitaire nel marzo del 2021 per i suoi messaggi fortemente razzisti.  

Da liberoquotidiano.it il 13 ottobre 2021. Sciogliere Forza Nuova? Si può, in punta di diritto. Parola di Piercamillo Davigo, che ospite di Giovanni Floris a DiMartedì su La7 ascolta imperturbabile il "curriculum" dei due leader del movimento di estrema destra, Giuliano Castellino e Roberto Fiore, coinvolti nelle violenze di piazza dei No Green pass sabato scorso a Roma concluse con l'occupazione della sede della Cgil. "Castellino, capo romano di FN, è stato condannato a 5 anni e 6 mesi in primo grado per aggressione a due giornalisti - ricorda Floris -, a 4 anni in primo grado per aggressione e resistenza a poliziotti e rinviato a giudizio per truffa da un milione di euro al Sistema sanitario nazionale. Fiore invece, fondatore, è stato condannato negli anni 80 per associazione sovversiva e banda armata, latitante a Londra è tornato in Italia una volta prescritti quei reati". "Questo implica qualcosa per le sorti di queste persone", chiede Floris. "La recidiva vale solo per condanne passate in giudicato. In piazza sabato non c'è stata premeditazione ma organizzazione di reato in corso". Secondo molti commentatori Castellino, già oggetto di Daspo, poteva essere fermato: "Il Viminale però non è onnisciente, non ha la sfera di cristallo ed è anche molto difficile programmare l'ordine pubblico perché c'è il rischio di creare incidenti anche più gravi", spiega l'ex pm di Mani Pulite ed ex membro del Csm, difendendo Luciana Lamorgese. Sul reato di apologia di fascismo, sottolinea ancora Davigo, bisogna distinguere perché "la ricostituzione del Partito fascista (proibita dalla Costituzione, ndr) è nei fatti cosa abbastanza complicata". Diverso il discorso su Forza Nuova. "Lo scioglimento è possibile con una legge o un decreto del presidente della Repubblica su proposta del Consiglio dei ministri".

Lo scioglimento dei partiti e la legge. La legge Scelba va usata solo per tentati golpe. Beniamino Caravita su Il Riformista il 13 Ottobre 2021. I partiti politici, nell’ordinamento italiano, sono tutelati a livello costituzionale, genericamente attraverso l’articolo 18, che tutela la libertà di associazione, più specificamente ai sensi dell’art. 49, che riguarda la libertà dei cittadini di associarsi in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Una disposizione costituzionale, collocata fra quelle finali e transitorie, prevede il divieto di ricostituzione del partito fascista, in evidente collegamento storico, istituzionale, finalistico con la genesi della Costituzione italiana, con il valore della Resistenza, con il giudizio che – anche attraverso il referendum del 1946– il popolo italiano diede del ventennio fascista. In attuazione della disposizione costituzionale fu approvata nel 1952 una apposita legge, la cosiddetta “Legge Scelba” dal nome dell’allora ministro degli Interni, che prevede, se ricorrono determinati presupposti, lo scioglimento di un partito qualora si sia di fronte alla ricostituzione del partito fascista. Titolare del potere di scioglimento è il ministro degli Interni, sentito il Consiglio dei ministri, sulla base di una sentenza di cui non è richiesto passaggio in giudicato ovvero, nel caso ricorrano gli estremi dell’art. 77 Cost., vale a dire un caso straordinario di necessità e urgenza, il Governo, con un evidente spostamento del livello di responsabilità politica. Sotto il profilo materiale, l’art. 1 della legge Scelba prevede che «si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista». Da un punto di vista rigorosamente giuridico, nessun dubbio può essere nutrito sul fatto che si tratta di disposizioni di stretta interpretazione, incidendo su fondamentali diritti di libertà. Ne derivano tre ordini di conseguenze. In primo luogo, quale che sia il giudizio politico, la disposizione non può essere applicata per colpire movimenti di ispirazione egualmente totalitaria e autoritaria, caratterizzati dalla denigrazione delle istituzioni democratiche e da prassi violente, ma di ispirazione e matrice diverse da quella fascista. In secondo luogo, deve essere accertata in maniera rigorosa l’esistenza di quei presupposti materiali (qui soccorrono le tre decisioni giudiziarie già intervenute: il caso di Ordine Nuovo, sciolto nel 1973, quello di Avanguardia Nazionale, sciolta nel 1976, e quello più recente del Fronte nazionale, sciolto nel 2000). Se si provvede direttamente con decreto legge, deve sussistere il caso straordinario di necessità e urgenza, accertato secondo i criteri più severi, non secondo le blande valutazioni a cui finora ci ha abituato in materia la Corte costituzionale e che hanno permesso la sostanziale emarginazione della produzione legislativa parlamentare. Occorre cioè che il governo, il presidente della Repubblica, in sede di emanazione, e poi comunque il Parlamento in sede di conversione del decreto legge, si assumano la responsabilità politica e giuridica di affermare che il pericolo costituito da Forza Nuova non è, almeno hic et nunc, affrontabile con gli ordinari strumenti preventivi e repressivi che l’ordinamento mette a disposizione. Fermo rimanendo che i presupposti materiali possono esistere (e allora viene da chiedersi perché nessuno abbia agito prima in tal senso), e impregiudicata rimanendo la risposta sull’opportunità politica di una simile iniziativa governativa, la questione giuridica che va posta è: siamo veramente sull’orlo di una situazione che, per giustificare un intervento extra ordinem, dovrebbe apparire paragonabile ad una sorta di colpo di stato o di guerra civile? Beniamino Caravita

Francesco Bechis per formiche.net il 13 ottobre 2021. Non chiamatela eversione. Luca Ricolfi non ci sta: sciogliere Forza Nuova e le altre organizzazioni estremiste che fomentano il malcontento di piazza contro il green pass e i vaccini è un precedente pericoloso, dice a Formiche.net il sociologo, professore ordinario di Analisi dei dati all’Università di Torino.  

Ricolfi, se non è eversione cos’è?

Parlare di eversione è una forzatura. La violenza di piazza è un fenomeno endemico in Italia e non ha targa politica. Destra, sinistra, anarchici, centri sociali, Casapound. E i no-Tav in Val di Susa, dove li mettiamo?  

Sulle chat di chi ha organizzato il caos a Roma si parlava di assalto al Parlamento. Questo non è eversivo?

Prendiamo la legge. Un atto è eversivo se determina un rischio concreto per le istituzioni democratiche. Non vedo questo rischio oggi. Ma le faccio un esempio dall’estero.

Prego.

In Germania esiste un partito neonazista, l’Npd. Ha perfino ottenuto un milione di voti, ora ne ha cento, duecentomila. Il Bundestag ha chiesto di scioglierlo, la Corte Costituzionale ha risposto di no, perché non pone un pericolo per l’ordine democratico. Se poi in Italia vogliamo proibire qualsiasi manifestazione di violenza con lo scioglimento, benissimo. Purché si dica apertamente.

L’assalto al Congresso americano di gennaio non è un monito anche per l’Italia?

Certo, ma il paragone regge poco. In quel caso si sarebbe dovuto sciogliere il Partito repubblicano, perché i manifestanti, piaccia o meno, erano sostenitori di Trump. Un esito evidentemente paradossale.

Però il problema rimane. Il vicesegretario del Pd Provenzano in un tweet ha detto che Fratelli d’Italia rischia di finire fuori dall’“arco democratico e repubblicano”. È un’esagerazione?

È preoccupante, molto. Giorgia Meloni ha dato una lettura di questo tweet: vogliono sciogliere Fdi, come a suo tempo volevano sciogliere l’Msi. Io ci vedo un passaggio ancora più pericoloso. 

Sarebbe?

Qui non si propone di sciogliere un partito, ma di escluderlo dalla dialettica democratica. Un boicottaggio in piena regola da qualsiasi posizione di potere. C’è una lottizzazione del potere fra i partiti e si decide di lasciare fuori l’unica opposizione esistente. 

Si chiama conventio ad excludendum. Per vent’anni l’hanno fatto con i comunisti e nessuno si è scandalizzato…

Attenzione. I comunisti erano esclusi dal governo centrale, non dal “sottogoverno”. Per decenni hanno concordato riforme, riempito posti di potere, seggi in Rai. Insomma, hanno partecipato senza problemi al banchetto del potere economico italiano.

Va bene, ma qui stiamo aggirando un punto. La destra italiana fatica a fare i conti con il suo passato? Da Lega e Fdi ci potrebbe essere una parola in più su queste frange?

Sì, siamo tutti d’accordo. Ma farei una distinzione. Salvini non ha problemi a fare i conti con la propria storia, la Lega di Bossi era antifascista. Quando nel 1994 fu proposto l’accordo con Berlusconi, tanti tentennavano perché rifiutavano di allearsi al Sud con Alleanza nazionale. Il problema, semmai, è che alcune frange estremiste, come Casapound, vedono nella Lega uno sbocco.

Come se ne esce?

Semplice. Salvini e Meloni devono dire ad alta voce: “Noi i vostri voti non li vogliamo”. Possibilmente prima, non dopo, che queste persone mettano a ferro e fuoco Roma. Potrebbero evitarsi un’analisi del sangue da parte della sinistra, che ha una certa allergia a fare i conti con il passato. 

A che si riferisce?

Qualcuno chiede alla sinistra di fare i conti? No. E sa perché? Perché in Italia nessuno chiede ai post-comunisti di rinnegare il comunismo. I fascisti sono considerati per i loro comportamenti, i comunisti per le loro intenzioni. Ha mai sentito chiedere a Marco Rizzo di condannare i crimini dell’Urss o della Cina? 

Quella piazza a Roma gridava no-pass e anche no-vax. Sul Fatto Quotidiano Marco Travaglio scrive che il governo non può usare il green-pass per sopprimere l’articolo 1 della Costituzione, il diritto al lavoro. Lei che idea si è fatto?

Premessa: sono vaccinato, favorevole al vaccino e ritengo il green pass uno strumento utile. E sì, a questo giro sono d’accordo con Travaglio. Non si può arrivare al punto di togliere il lavoro a chi non vuole vaccinarsi. 

C’è chi risponde: quindi chi si vaccina sta dalla parte del torto?

Non è questione di torto o ragione ma di garanzie costituzionali. C’è una via d’uscita: i tamponi gratuiti. In altri Paesi lo hanno fatto.

Che ricadono sui contribuenti italiani, tutti.

Giusto così. C’è una ragione perché questo vaccino deve cadere sulle spalle dello Stato. A differenza di altri vaccini nel passato, è stato sperimentato per soli dieci mesi, sia pure su miliardi di persone. 

Quindi?

Quindi un trattamento sanitario del genere non si può imporre. Se fossimo sicuri, non dovremmo firmare un nulla osta ammettendo che non conosciamo gli effetti di lungo periodo. C’è il calcolo del rischio statistico, e da statistico sono il primo a farvi affidamento. Ma chi ha paura non può essere tagliato fuori dalla vita sociale.

"Sciogliere Fn, minaccia fascista". Ma Mattarella smentisce i dem: solo casi isolati. Fabrizio De Feo il 12/10/2021 su Il Giornale. Con il ballottaggio alle porte la temperatura dello scontro politico si mantiene alta. Il desiderio di polarizzare e riaccendere antiche contrapposizioni è palpabile. La frontiera del confronto diventa lo scioglimento di Forza Nuova e delle formazioni dell'estrema destra, con il Pd che presenta una mozione in tal senso. Emergenza democratica alle porte, insomma. Il tutto nel giorno in cui a Milano scattano le contestazioni contro la Cgil da parte dei Cobas e si scopre che decine di manifestanti fermati sabato sono riconducibili al mondo degli anarchici. Una realtà, insomma, più complessa di come è stata raccontata. E che Sergio Mattarella analizza senza incorrere in allarmismi fuori misura: «Il turbamento è stato forte, la preoccupazione no. Si è trattato infatti di fenomeni limitati che hanno suscitato una fortissima reazione dell'opinione pubblica». Ma la sinistra tira dritto e la mozione per sciogliere Forza Nuova e «tutti i movimenti politici di chiara ispirazione neofascista» arriva in Parlamento. I parlamentari di M5s, Iv e Leu sottoscrivono in blocco. E il segretario dem Enrico Letta chiama tutti i partiti all'unità e lancia un appello perché lo scioglimento di Forza Nuova «sia vissuto come un gesto unitario e non di parte. Dopo i gravi fatti di sabato tutti si riconoscano in una decisione che rende attuale e viva la Costituzione», azzarda. Sullo sfondo si muove anche l'inchiesta romana. La polizia postale sequestra e oscura il sito internet di Forza nuova. Il reato ipotizzato è quello di istigazione a delinquere aggravato dall'utilizzo di strumenti informatici. Si muovono anche i leader di centrodestra. «Berlusconi ha avuto un colloquio telefonico con Meloni e Salvini» fa sapere una nota. «Al centro della conversazione la condanna per le violenze perpetrate a Roma come a Milano, di ogni colore, a danno del sindacato e delle forze dell'ordine e la necessità di una posizione - unitaria - del centrodestra in vista dei prossimi appuntamenti parlamentari e dei ballottaggi». E Salvini non ha problemi nel far sapere che «se ci sono movimenti che portano avanti le loro idee con la violenza, vanno chiusi a chiave. Come a Roma ne hanno arrestati di cosiddetta destra, a Milano di cosiddetta sinistra. Per me pari sono». Sulla mozione, invece, il centrodestra invita a evitare «strumentalizzazioni politiche» e fa sapere di non poterla votare. Forza Italia con Roberto Occhiuto e Anna Maria Bernini sottolinea che «non esistono totalitarismi buoni e cattivi, e per questo non è possibile sostenere la mozione del Pd. Ma proprio per dare un forte segnale di unità tutti i gruppi lavorino a una mozione contro tutti i totalitarismi». Giovanni Donzelli di Fdi, intervenendo a «Domani è un altro giorno», non si tira certo indietro rispetto alla matrice fascista. «Certo, chiunque attenti alla democrazia è contro di noi. Questi odiano più noi del Pd...». Donzelli poi fa notare il pericolo di far votare lo scioglimento di una forza politica. «In un sistema democratico esistono equilibri istituzionali importantissimi. Pensare di far votare il Parlamento è una deriva autoritaria gravissima. Lo scioglimento spetta normalmente alla magistratura e in casi di emergenza al governo».

Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" l'11 ottobre 2021. È un mondo parcellizzato, quello dell'estremismo nero italiano. Tanti piccoli reucci e nessun vero re. Una condizione che porta turbolenza all'interno della galassia neofascista. L'obiettivo dei vari movimenti è riuscire ad acquisire la leadership. Ma questa condizione, nel frattempo, crea grande instabilità. Quindi conflitto e violenza. Ecco, allora, che serve mostrare i muscoli nelle manifestazioni per imporsi definitivamente sugli altri gruppi. E allora quale migliore vetrina se non le proteste contro il vaccino e il green pass. Ma tutto questo, però, non è sufficiente. In un mondo globalizzato non basta solo conquistare il neofascismo in Italia. Bisogna intessere alleanze con l'estremismo di destra europeo. L'internazionale nera. Ma se nel nostro Paese Forza Nuova fa vedere il volto aggressivo, al contrario, in Europa cerca partnership, appoggi e forse anche soldi, come emerge da una recente inchiesta dei carabinieri del Ros. «C'è una competizione nell'estrema destra tra Forza Nuova e Casapound per affermarsi come movimento egemone della galassia neofascista. Negli ultimi anni Cp aveva preso nettamente il sopravvento. Allora Fn, per riconquistare il terreno perso, ha iniziato a compiere una serie di atti violenti. L'assalto di ieri alla Cgil rappresenta il punto massimo di questa strategia. Un'azione su cui imprimere un inconfondibile marchio fascista per riprendere quota all'interno di quel mondo». A fotografare con lucidità l'attuale situazione è Francesco Caporale, magistrato esperto e scrupoloso, oggi in pensione, che ha ricoperto dal 2016 fino all'estate del 2021 la carica di procuratore aggiunto dell'antiterrorismo a Roma. «Questa escalation di violenza in capo ai forzanovisti - sottolinea Caporale - dura ormai da tre anni, il mio ufficio la stava monitorando». Occorre, però, capire in quale contesto si muovano gli uomini e le donne di Roberto Fiore, il segretario di Fn e Giuliano Castellino, il leader romano. «Quest' ultimo - spiega un investigatore al Messaggero - è diventato il frontman del partito perché Fiore ha troppi problemi con la giustizia, rischierebbe parecchio. Castellino, oggi, rischia meno. Non vengono contestati reati particolarmente pesanti. La cabina di regia è però sempre in mano a Fiore». Dalle carte dell'inchiesta dei carabinieri del Ros emerge la rete internazionale di contatti del movimento. Fiore viaggia per l'Europa, arriva fino al Medio Oriente, in Siria. A novembre del 2014 vuole organizzare una conferenza a Damasco in piena guerra civile. Un incontro con «le comunità mediorientali che sto riorganizzando come Aliance for Peace and Freedom», dice il segretario di Forza Nuova a un militante di Fn in una conversazione intercettata dai militari dell'Arma. Poi, a gennaio del 2015, Fiore vola in Grecia per far sentire la sua vicinanza al leader di Alba Dorata Nikolaos Michaloliakos, rinchiuso in carcere perché accusato di appartenere a un'organizzazione criminale. Un incontro talmente positivo che un forzanovista (intercettato dai Ros) sostiene che ora i vertici del partito di estrema destra greco «vogliono bene a Forza Nuova». Assieme a Fiore ad Atene, a trovare Michaloliakos, annotano gli investigatori, sarebbe andato anche un altro pezzo da novanta del neofascismo europeo. L'eurodeputato Udo Voigt eletto con il partito Nazionaldemocratico di Germania, nel 2012 condannato per sedizione a 10 mesi per aver lodato in un comizio le Waffen-SS. Ma non sono solo i forzanovisti a viaggiare in giro per l'Europa. Anche altri camerati vengono a Roma per suggellare alleanze. È il caso dei neofascisti polacchi arrivati nella Capitale a settembre del 2014 per far visita ai forzanovisti. L'incontro, si legge nelle carte della procura, avviene nell'allora sede romana del partito in via Amulio. Anche la questione russa e i nuovi equilibri europei suscitano l'attenzione del gruppo di estrema destra. Un militante di Fn, in una conversazione discute dei «rapporti crescenti del leader di Fn Fiore con altri politici russi». Ma «Salvini ci ha fregato i contatti con la Russia», si rammaricano gli uomini di Fiore al cellulare, »era il cavallo nostro». La necessità di intessere rapporti «di tipo economico/commerciale - sottolineano gli inquirenti - in particolare per la produzione di vino», risultava vitale per i nuovi scenari creatisi in Crimea. Il conflitto ucraino veniva inquadrato «meramente in chiave utilitaristica» con l'unico obiettivo di sfruttare la precaria situazione governativa e incunearsi nei centri di potere per ricavarne benefici economici. Sempre nel 2014 con un esponente di Fn, parlando dell'imminente viaggio in Crimea insieme a Fiore per un incontro col ministro dell'Agricoltura dice che andrà «per fare una cosa coi russi, per cercare di prendere la cittadinanza del nuovo governo della Crimea: il governatore è un amico di amici».

Tagadà, Roberto Castelli contro la sinistra: "Si indignano per Roma. Ma nemmeno una parola sul brigatista eletto". Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. "Insopportabile quello che sta accadendo in questi giorni perché è venuto alla luce il doppiopesismo della sinistra": l'ex senatore della Lega Nord, Roberto Castelli, ha commentato così le violenze e l'assalto alla sede nazionale della Cgil da parte dei no green pass sabato scorso. A tal proposito, ospite di Tiziana Panella a Tagadà su La7, ha ricordato un episodio ben preciso: "Voglio ricordare questo: alla Camera un po' di anni fa venne eletto con i voti della sinistra un brigatista. Ora tutti quelli che si stracciano le vesti - giustamente, perché non si devastano le sedi delle organizzazioni, siano essi partiti o altro - non mi pare che si stracciarono le vesti in quel caso, quando venne eletto un ex brigatista". Per Castelli, quindi, non bisogna fare due pesi e due misure. Quello dell'ex brigatista, inoltre, pare non sia stato nemmeno l'unico caso in cui è venuta fuori questa disparità di giudizio: "Io ricordo mille manifestazioni in cui sono stati devastati i centri urbani dalla sinistra, ricordo gli attacchi alle sedi della Lega per cui la sinistra non ha mai mosso un dito". Ecco perché poi alla fine del suo intervento, l'ex senatore leghista ha fatto un appello accorato a tutte le parti: "Per favore cerchiamo di condannare tutti i fascismi, tutti i totalitarismi e tutti gli squadrismi, non solo quelli che fanno comodo soprattutto a cinque giorni dalle elezioni". 

Da Hitler all’assalto alla Cgil: cos’hanno in testa? Chi sono i nuovi fascisti: vecchi, irrazionali e depressi. Franco "Bifo" Berardi su Il Riformista il 14 Ottobre 2021. Per gentile concessione delle Edizioni Tlon e dell’autore, anticipiamo qui di seguito ampi stralci della postfazione a “Come si cura il nazi”, saggio di Franco «Bifo» Berardi, ormai diventato un classico, che torna in libreria in versione aggiornata per la stessa casa editrice

Quando scrissi questo libretto, nel 1992, stavano emergendo due processi sulla scena del mondo: il primo era la proliferazione della rete digitale destinata nel medio periodo a mutare nel profondo l’economia e le forme di vita. Il secondo era la ricomparsa di una belva che per mancanza di concetti migliori definivamo fascista, e si era ripresentata nel continente europeo, in un Paese un tempo chiamato Iugoslavia, e si delineava all’orizzonte delle subculture anche in Gran Bretagna e perfino in Italia, che col fascismo credevamo avesse chiuso i conti per sempre. In apparenza i due fenomeni erano eterogenei, del tutto indipendenti. Ma non lo erano affatto a uno sguardo più attento, e a me interessava proprio l’interdipendenza che lavorava nel profondo della cultura, della psicologia sociale, della psicopatia di massa. A questa relazione fra i due processi allora emergenti è dedicato in gran parte questo libretto. Oggi che entrambe le tendenze si sono pienamente sviluppate, la loro interdipendenza appare più visibile. Nelle sue varie forme, spesso contraddittorie, l’ondata neo-reazionaria ha preso uno spazio centrale con il fiorire dei movimenti razzisti, nazionalisti, suprematisti che hanno avuto il loro punto più alto nella vittoria di Trump alle elezioni del 2016, ma non sono certo finiti con la sconfitta dell’uomo arancione nel 2020. Ma le manifestazioni di questa ondata neo-reazionaria sono talmente diverse, sorprendenti e assurde che spesso rischiamo di confondere le diverse figure del dramma, e di usare parole vecchie per parlare di fenomeni nuovi. Il movimento trumpista, ad esempio, ha dato vita a enunciazioni talmente assurde e a manifestazioni talmente demenziali che spesso si può supporre di trovarsi di fronte a messe in scena rituali, a grottesche rappresentazioni di consapevole disprezzo per la ragione. Ma proprio questa enigmatica sfida alla ragione è uno dei caratteri salienti di un movimento che esprime la progressiva (e forse irreversibile) discesa nella demenza di larga parte della società. Riconoscere il carattere demente e grottesco delle enunciazioni e delle azioni del movimento neo-reazionario non significa affatto sottovalutarne la pericolosità. Al contrario, dobbiamo capire che la demenza non è affatto un fenomeno marginale e provvisorio, ma è probabilmente un carattere destinato a espandersi poiché l’umanità sperimenta l’impotenza della Ragione di fronte agli effetti devastanti della Ragione medesima. La potenza della ragione umana ha generato mostri spaventosi come la bomba atomica, e quindi ci sentiamo umiliati dai prodotti della nostra stessa potenza, a tal punto che l’abbandono della ragione sembra essere la sola via d’uscita. Ai tempi in cui scrivevo questo libretto mi chiedevo come curare il nazi. Dunque consideravo il riemergere della belva come un effetto psicopatologico, e non ho alcuna ragione di ripensarci. I trumpisti col berrettino rosso e le corna da bisonte sono essenzialmente degli idioti, come lo sono i leghisti con lo spadone indignati per l’invasione dei marocchini, come lo sono i popolani inglesi che riaffermano l’orgoglio imperiale britannico barcollando di ritorno dal pub. Ma non possiamo considerare irrilevante la moltiplicazione del numero di idioti, perché anche le folle che marciavano nelle notti tedesche del 1933 erano folle di idioti. Forse piuttosto che di idioti dovremmo parlare di sonnambuli, come nella scena iniziale e in quella finale del film di Ingmar Bergman L’uovo del serpente: una folla di persone normalissime in bianco e nero cammina per strada, ma il loro incedere si fa sempre più barcollante e automatico, come se la folla metropolitana perdesse coscienza del suo esistere medesimo, trasformata in una folla di zombie. Il serpente è il capitalismo, e il suo uovo si schiude per generare la violenza di folle che hanno perduto il senso della propria esistenza, che non sono più capaci di percepire la collettività solidale né la singolarità della persona, e quindi si trasformano in indifferenziato “popolo”, in nazione, corpo collettivo solo capace di riconoscersi in un’origine, in una identità, in un’appartenenza, che per lo più è solo immaginaria, mitologica. Dunque non mi allontano dall’intuizione che ebbi nel 1992, ma adesso è tempo di mettere in chiaro alcune questioni terminologiche e concettuali che trent’anni fa erano difficili da focalizzare. Dobbiamo davvero definire “nazisti” o “fascisti” gli attori inconsapevoli della tragica farsa che si sta svolgendo in larga parte del mondo? La farsa del nazionalismo che ritorna, del razzismo che si incarognisce, la farsa delle retoriche militaresche e patriottarde? E inoltre: cosa è stato davvero il nazismo nella sua versione storica, e che rapporto c’è stato in passato tra nazismo e fascismo, e in che misura quel rapporto si ripresenta oggi? La sconfitta militare tedesca nel 1918 e l’impoverimento sociale conseguente generarono un sentimento di impotenza che nella Germania del primo dopoguerra prese la forma dell’odio contro coloro che erano considerati traditori della nazione (ebrei, comunisti) e che l’avevano consegnata all’umiliazione di Versailles. Dall’umiliazione collettiva emerse un Führer capace di riaffermare il destino del popolo tedesco: sottomettere il continente ed eliminare la malattia razziale e ideologica dal corpo sano della nazione. Similmente in Italia la convinzione di essere stati privati di una vittoria conquistata sui campi di battaglia alimentò l’ascesa di Mussolini. Non importa che la vittoria italiana fosse una menzogna assoluta, perché l’Italia era entrata in guerra con un tradimento delle alleanze preesistenti, e aveva accumulato una disfatta dopo l’altra. Come non importa che il mito tedesco della pugnalata alle spalle fosse una menzogna per nascondere il fallimento della vecchia classe militare prussiana. Non conta niente la storia, quando le folle si eccitano per la mitologia. Ma allora il problema è: in quale orizzonte si delinea la mitologia? Quale soggettività sociale esprime la mitologia? La soggettività sociale che esprime la mitologia del nazionalismo aggressivo nel XX secolo è quella di una popolazione prevalentemente giovane, e di nazioni emergenti nella scena dell’imperialismo occidentale. Germania, Italia, e, non dimentichiamolo, il Giappone, avevano questo in comune: erano nazioni giovani che ambivano ad affermare la propria potenza con la conquista militare e l’espansione imperialistica, come la Francia, e la Gran Bretagna avevano fatto nei secoli precedenti. Le folle che seguirono il duce italiano e il Führer tedesco, per parte loro, erano composte da giovani reduci, disoccupati, aspiranti conquistatori che credevano in un futuro garantito dall’esuberanza fisica e mentale di un popolo giovane. La follia del fascismo novecentesco era una follia euforica, esuberante. L’identitarismo aggressivo del XXI secolo, al contrario, è espressione di un mondo declinante, di popolazioni senescenti. Perciò nel movimento neoreazionario del XXI secolo emerge l’espressione di una demenza senile, di una depressione psichica senza speranze eroiche, ma piuttosto sordida, rancorosa, ossessionata dall’impotenza politica e dall’impotenza sessuale. La tesi del mio libretto di trent’anni fa appare dunque in qualche misura confermata: all’origine delle varie forme di identitarismo aggressivo ci sta la sofferenza. Ma i caratteri della sofferenza psichica non sono gli stessi oggi rispetto al Novecento. Questi caratteri sono mutati perché l’Occidente è entrato nel suo declino irreversibile, e perché l’esaurimento si disegna come prospettiva generale del pianeta: esaurimento delle risorse, esaurimento delle possibilità di espansione economica, esaurimento dell’energia psichica. Questa è solo la prima parte della storia. Poi c’è la seconda, che nel mio libretto d’antan manca completamente e che ora emerge invece con brutale chiarezza. Di che sto parlando? Sto parlando del fatto che l’esperienza che abbiamo fatto nei primi decenni del XXI secolo ci obbliga a rivedere la periodizzazione del secolo passato. Siamo stati abituati a pensare che nel Novecento si sia svolta una battaglia gigantesca nella quale si distinguono tre attori principali: il comunismo, il fascismo e la democrazia. Questa visione della storia novecentesca è legittima, se ci poniamo dal punto di vista degli anni Sessanta, del trentennio glorioso in cui borghesia e classe operaia realizzarono un’alleanza progressiva. Ma da quando, nel 1973, un colpo di Stato nazista venne ordito contro il presidente cileno Salvador Allende con la collaborazione attiva del segretario di Stato degli Stati Uniti, e con la consulenza scientifica degli economisti della scuola di Chicago, da quando quel colpo di Stato spianò la strada all’affermazione dapprima locale, poi occidentale, poi globale dell’assolutismo capitalistico, autoproclamatosi democrazia liberale, le cose hanno cominciato a presentarsi sotto un’altra luce. Nella nuova luce a me pare di vedere che gli attori non sono mai stati tre, ma sempre due: il dominio assoluto del capitale (in forme democratico-liberali o in forme nazional-suprematiste) è il primo attore, il secondo è l’autonomia egualitaria della società, il movimento del lavoro contro lo sfruttamento. Certo, è vero che il nazismo e la democrazia liberale si scontrarono tra loro nella più cruenta delle guerre, ed è vero che dalla seconda guerra mondiale in poi la democrazia liberale ha dovuto incorporare forme economiche e culturali del socialismo. Certo, i trent’anni dell’alleanza socialdemocratica tra capitale progressivo e movimento sindacale e politico dei lavoratori sono stati una parentesi lunga di contenimento degli istinti animali del capitalismo. Ma non era che una parentesi, appunto, e non appena il capitale ha intravisto il pericolo di un diffondersi del potere operaio, e dell’autonomia sociale egualitaria, il suo istinto si è manifestato nella sola maniera in cui si poteva manifestare: ristabilendo il patto di acciaio con il nazismo. Il contrasto fra democrazia liberale e sovranismo aggressivo, che sembra fortissimo negli anni della presidenza Trump, non è in effetti che una messa in scena piuttosto labile. Certamente gli elettori di Trump o di Salvini si sentono umiliati dalla violenza economica del capitale assolutistico finanziario. Ma non vi è alcuna strategia di fuoriuscita dal capitalismo nel sovranismo delle destre, e infatti coloro che abusivamente si definiscono come “populisti” una volta al governo perseguono politiche di totale dipendenza dal capitale finanziario, di riduzione delle tasse per i ricchi, di piena mano libera sulla forza lavoro. Credo che non si sia mai tentata un’analisi spregiudicata di ciò che accomuna profondamente nazismo e neoliberismo, parola edulcorata ed equivoca con cui si intende l’assolutismo del capitale. Il cosiddetto “neoliberismo” infatti afferma che la dinamica economica è autonoma dalla regola giuridica, perché la legge della selezione naturale non può essere contenuta da nessuna volontà politica. Naturalmente in questa pretesa arrogante c’è un nucleo di verità scientifica che la sinistra ha generalmente sottovalutato, e prende nome di darwinismo sociale. Ma proprio in questo nucleo di verità scientifica, riducibile alla formula “nell’evoluzione naturale prevale il più forte, o meglio il più adatto all’ambiente”, si trova la ragione di un’alleanza obiettiva tra neoliberismo e pulsione nazista mai definitivamente cancellata. Come negare la verità dell’assunto evoluzionista, che in fondo è un puro e semplice truismo, una verità auto-evidente? L’ovvia constatazione che il più forte vince, viene tradotto in una strategia politica per effetto di un paralogismo, di una dimenticanza, o di una menzogna. Si omette semplicemente il fatto che la civiltà umana si fonda proprio nello spazio aperto dal salto dalla natura alla sfera della cultura. E si omette il fatto che Darwin non ha mai preteso di estendere il suo modello esplicativo alla società umana. E infatti la civiltà umana si trova in estremo pericolo nel momento attuale, dopo quaranta anni di dominio neoliberale, di devastazione sistematica dell’ambiente planetario, di impoverimento sociale e decadimento delle infrastrutture della vita pubblica. In questa situazione di estremo pericolo per la civiltà umana stessa, nel momento in cui la dimensione della libertà politica scompare nelle maglie sempre più strette dell’automatismo tecnico e dell’assolutismo capitalistico, ecco emergere di nuovo la soggettività rabbiosa, un tempo euforica e oggi depressa, un tempo isterica e oggi demente che solo a prezzo di una imprecisione (perdonabile) possiamo chiamare “fascismo”. Si rimodula quindi anche la relazione tra fascismo e nazismo. Già nel XX secolo il nazismo fu la manifestazione organizzata di una volontà di potenza suprematista, l’espressione di una cultura che si considerava superiore per ragioni storiche, etniche, ma anche per ragioni culturali, e tecniche. Il nazismo, come il cosiddetto “neoliberismo”, sono espressione dell’arroganza dei vincitori. Il fascismo novecentesco aveva un carattere diverso, perché era espressione, talora petulante talora rabbiosa, di una cultura considerata inferiore (gli italiani e i mediterranei in generale occupavano una posizione intermedia tra la razza eletta e i popoli decisamente inferiori, nell’immaginario razzista del Terzo Reich). La potenza tecnica ed economica del Paese di Mussolini non era paragonabile alla potenza dei Paesi “demoplutocratici”, e neppure della Germania di Krupp e di Thyssen. Allo stesso modo nel movimento neoreazionario del XXI secolo si deve distinguere il nazismo dei vincitori, che si incarna particolarmente nella cultura del ceto tecno-finanziario, dal Fascismo dei perdenti. Razzismo e xenofobia si manifestano in maniere diverse nella cultura dei vincenti nazi-liberisti e in quella dei perdenti sovranisti e fascistoidi. Per questi ultimi è volontà di esclusione, di respingimento se non di sterminio, mentre nuove ondate di migrazione sono continuamente suscitate dalle guerre, dalla miseria, dai disastri ambientali provocati dal colonialismo passato e presente. I vincenti nazi-liberali vedono di buon occhio le migrazioni, purché i migranti non pretendano di istallarsi nei quartieri alti, e accettino le condizioni di lavoro che vengono loro imposte dai tolleranti liberal à la Benetton. Per i fascistoidi identitari delle periferie i migranti sono un fattore di concorrenza sul lavoro e un pericolo quotidiano. La classe dirigente democratico-liberale predica la tolleranza ma costruisce alloggi per migranti nelle periferie povere, non certo ai Parioli o in via Montenapoleone. Per questo il razzismo attecchisce tra i miserabili delle periferie, mentre ai quartieri alti si tratta con cortesia la serva filippina. Il razzismo non è un cattivo sentimento dei maleducati rasati a zero che si ritrovano negli stadi a gridare slogan dementi, ma qualcosa di molto più profondo e di molto più organico: esso si radica nella storia di secoli di colonizzazione, sottomissione schiavistica, estrazione delle risorse dei Paesi colonizzati. E quella storia non è affatto conclusa. Non è possibile emanciparsi dal razzismo fin quando non si riconosce che la miseria dei Paesi del Sud è il prodotto dello sfruttamento bianco, e che questa miseria continuerà a provocare miseria, disperazione, emigrazione fin quando non saranno state rimosse le conseguenze del colonialismo e dell’estrattivismo. Ma rimuovere quelle conseguenze non sarà possibile fin quando l’assolutismo del capitale continuerà a essere la forma generale dell’economia del mondo. Forse dunque non sarà possibile mai. Trent’anni fa mi chiedevo come sia possibile curare il nazi. Ora mi sembra di dover dire che è stato il nazi a curare noi, per guarirci dell’infezione che ci rendeva umani. Al punto che se un tempo pensavamo che non avremmo accettato di convivere con il fascismo, ora siamo tentati di chiederci se il fascismo vorrà convivere con noi. Franco "Bifo" Berardi

Nessuna di queste decisioni è mai servita ad arginare il neofascismo. Scioglimento di Forza Nuova, i precedenti: da Ordine Nuovo a Avanguardia Nazionale e Fronte Nazionale. David Romoli su Il Riformista il 14 Ottobre 2021. La settimana prossima le Camere discuteranno e voteranno le mozioni che chiedono al governo di sciogliere Forza Nuova, il gruppo neofascista più attivo e soprattutto più vistoso nelle manifestazioni No Vax e No Green Pass, indicato come artefice dell’assalto alla sede della Cgil. Alla Camera c’è una sola mozione, presentata dal Pd e sottoscritta da tutti. Al Senato, dove il Pd ha presentato la sua mozione in anticipo rendendo così impossibile concordare il testo con gli altri affini ce ne sono quattro, sostanzialmente identiche nel dispositivo, anche se quella di LeU, firmata anche da Liliana Segre, estende la richiesta di scioglimento ad altre due organizzazioni, Casapound e Lealtà Azione. Alcuni dei firmatari delle mozioni avrebbero preferito tempi più rapidi. Il governo ha preferito rallentare, alla ricerca di una via d’uscita dal dilemma in cui lo porrebbe l’approvazione. Lo scioglimento di formazioni neofasciste, ai sensi della legge Scelba del 1952 che, dando attuazione alla disposizione costituzionale transitoria, punisce la ricostituzione del Partito fascista, è stato già disposto tre volte nella storia repubblicana: contro Ordine nuovo nel 1973, contro Avanguardia nazionale nel 1976 e contro il Fronte nazionale nel 2000. In tutti i casi, però, i governi si erano mossi dopo una sentenza della magistratura che, sia pure solo in primo grado, aveva emesso condanne per violazione della legge Scelba e, nel caso del Fronte nazionale, della legge Mancino del 1993, che ha reso fattispecie di reato anche la propaganda razzista. Stavolta invece si chiede al governo di procedere per decreto anche in assenza di una sentenza. La legge Scelba lo consente, ma solo in casi di straordinaria necessità e urgenza. Draghi esita, comprensibilmente, a considerare eccezionalmente urgente lo scioglimento di una formazione minore, ancorché rumorosa, di estrema destra. In realtà l’allora ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani, uno degli “uomini forti” della Dc, più volte ministro della Difesa, rivendicò nel 1974 il merito di aver deciso lo scioglimento di Ordine nuovo, un anno prima, prescindendo dalla magistratura: «Fu un atto politico: perché i giudici discutevano se la sentenza del Tribunale, non essendo definitiva, fosse sufficiente presupposto dell’atto governativo». La sentenza contro il Movimento politico Ordine nuovo era stata emessa il 21 novembre 1973. Era la prima volta che la legge Scelba veniva applicata a un’intera organizzazione. Fu una sentenza molto pesante: 30 condanne, 10 assoluzioni, 2 posizioni stralciate tra cui quella di Sandro Saccucci, che fu condannato più tardi. Il leader di On, Clemente Graziani, fu condannato a 5 anni e mezzo e si rese latitante, come tutti gli altri leader condannati. Due giorni dopo il ministro Taviani, sentito il consiglio dei ministri, firmò l’ordine di scioglimento. Aldo Moro non partecipò alla riunione, in segno di protesta contro la decisione che, a suo parere, somigliava più ai provvedimenti della giustizia fascista che di quella antifascista.

Il Movimento politico Ordine nuovo era nato nel dicembre 1969, dopo lo scioglimento del Centro studi Ordine nuovo fondato 13 anni prima da Pino Rauti. Dopo l’ascesa di Almirante alla segreteria del Msi Rauti era rientrato nel partito con molti altri dirigenti e militanti. Graziani aveva dato vita al Movimento politico. La divisione era però più profonda. Rauti, in nome dell’anticomunismo, aveva aderito alla politica atlantista mettendo da parte l’antiamericanismo delle origini e, come avrebbe lui stesso ammesso decenni più tardi, si era schierato a favore di un eventuale colpo di Stato militare. Graziani e il Movimento ritenevano che un colpo di Stato sarebbe stato “controrivoluzionario”. Per questo Ordine nuovo non aderì al tentativo di golpe organizzato nel dicembre 1970 da Junio Valerio Borghese. L’inchiesta su On era iniziata nel gennaio 1971, condotta dal magistrato Vittorio Occorsio. Al processo gli imputati, difesi da uno dei principali avvocati della destra italiana, Nicola Madia, si rifiutarono di rispondere, consegnando invece una memoria difensiva: “Processo alle idee”. Non era un titolo eccessivo. L’atto di accusa si basava sulla somiglianza tra citazioni dell’età del fascismo o spezzoni di discorsi di Mussolini e documenti e volantini di On. Le violenze materiali contestate, nel clima dell’epoca, erano insignificanti. Un pestaggio, una manifestazione di fronte a una sezione del Pci, una sassaiola contro la sede nazionale della Dc in piazza del Gesù, a Roma. Un secondo processo si svolse a partire dal 1974 a Roma. Lo scioglimento, nonostante Graziani sperasse di poter proseguire l’attività di On in clandestinità, mise fine alla lunga parabola del principale gruppo della destra radicale in Italia. Alcuni dei militanti scelsero la via delle armi e tra questi Pierluigi Concutelli, che nel 1976 uccise il pm che aveva guidato all’accusa nei processi contro On, Vittorio Occorsio. Di certo l’esplosione e la frammentazione di un gruppo che, nonostante l’aura di sinistra leggenda, aveva in realtà responsabilità penali molto minori di quanto non ci si immagini oggi, impresse una spinta drastica verso la militarizzazione della destra radicale negli anni ‘70.

Nel 1976 fu il turno di Avanguardia nazionale, il secondo gruppo per importanza della destra extraparlamentare. Era il prodotto di una scissione di On. I giovani che non si accontentavano del ruolo di Centro studi e volevano passare all’azione fondarono nel 1959 Avanguardia nazionale giovanile. Sciolta nel ‘66, l’organizzazione si formò di nuovo nel 1970, guidata da Adriano Tilgher. Molto più coinvolta di On nelle battaglie di strada, presente in forza a Reggio Calabria nei mesi della più lunga rivolta urbana della storia recente, colonna del partito del golpe e la vera truppa del tentato colpo di Stato Borghese, probabilmente legata all’Ufficio affari riservati del Viminale, An era nel ‘76 ridotta all’osso. Pochi dirigenti, pochissimi militanti. La condanna per violazione della legge Scelba arrivò nel giugno 1976. Il fondatore, Delle Chiaie, era da anni all’estero, prima in Spagna, poi nel Cile di Pinochet. Furono condannati a pene minori di quelle chieste dall’accusa 30 imputati su 64 indagati. Un giorno prima del decreto di scioglimento, Tilgher anticipò la decisione del governo sciogliendo lui il gruppo.

Passarono 24 anni prima che venisse sciolto un terzo gruppo con poche decine di militanti, il Fronte nazionale ispirato da Franco Freda (che nonostante la mitologia non aveva mai fatto parte di On). In questo caso la condanna e il successivo decreto di scioglimento furono dovuti a violazione della legge Mancino. Nessuna di queste decisioni è mai servita ad arginare il neofascismo. I decreti degli anni ‘70, al contrario, ebbero un ruolo notevole nel determinare a fine decennio l’esplosione del terrorismo nero, in particolare dei Nar. Non perché tra questi gruppi e quelli della generazione precedente ci fossero nessi diretti ma perché il clima che si era creato era ormai quello della contrapposizione estrema e poi armata con lo Stato. David Romoli

 "Questo è un plotone contro la Meloni". Crosetto lascia lo studio di Formigli. Marco Leardi il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'imprenditore ha lasciato la trasmissione di La7 in aperta polemica. "Quando tutti sparano su persone che non possono difendersi, non è giornalismo né democrazia", ha detto prima di abbandonare la diretta 

"Questo è un plotone di esecuzione nei confronti di Giorgia Meloni e del centrodestra". Così, ieri sera Guido Crosetto ha deciso di abbandonare lo studio di Piazzapulita, dove da più di un'ora si stava discutendo della controversa inchiesta di Fanpage su Fratelli d’Italia e Lega. Nello studio di La7, i toni del confronto e dei servizi trasmessi erano palesemente monocordi, ostili ai suddetti partiti e ai loro leader. Dunque – arrivato il momento di prendere la parola – l’imprenditore ed ex sottosegretario alla Difesa ha preferito andarsene in aperta polemica con l'impostazione del talk show. "Io ascolto da un’ora la trasmissione. Man mano che la sentivo andare avanti mi chiedevo: 'Che cosa ci faccio qua? '. Perché io ho una grandissima stima nei confronti del giornalismo, ancora più della politica con la p maiuscola e della democrazia. E penso che la democrazia si fondi sul confronto, non sui plotoni d’esecuzione. Quando vedo dei plotoni d’esecuzione dico che sarebbe giusto che si difendessero le persone che poi vengono uccise", ha dichiarato Crosetto, unico ospite in studio a prendere le difese di Giorgia Meloni e del centrodestra. Davanti a lui, la sardina Mattia Santori (ora tra le fila del Pd) e il vicesegretario dem Giuseppe Provenzano, che nei giorni scorsi aveva addirittura definito la leader di Fratelli d’Italia "fuori dall’arco democratico". Poco prima, in apertura di trasmissione, aveva preso la parola pure Romano Prodi. Incalzato dal conduttore Corrado Formigli, che lo invitava a spiegare meglio la propria contestazione, Crosetto ha aggiunto: "Il plotone d’esecuzione è quello che è stato sinora la trasmissione, nei confronti di Giorgia Meloni e dell’intero centrodestra (…) Io sono inadatto nel recitare il ruolo di foglia di fico e faccio l’unica cosa che può fare una persona che si sente inadatta. La saluto, mi scuso e me e vado". A quel punto, l’imprenditore si è alzato dal tavolo della discussione e si è incamminato verso l'uscita dello studio. Trattenuto con fastidio dal padrone di casa, che gli rinfacciava di aver voluto fare una "uscita di scena teatrale", Crosetto ha tenuto il punto. E ha ribadito: "Quando tutti sparano su persone che non possono difendersi, non è giornalismo né democrazia, secondo me". Poco più tardi, mentre in diretta su La7 proseguiva la discussione, l’ex sottosegretario alla Difesa è tornato a motivare il suo gesto con un tweet. "Non dividetevi, come al solito, tra squadre di tifosi per commentare il mio gesto. Non ha nulla di politico. È altro. Riguarda il modo di fare le cose. Anche di contrapporsi. Mi è costato molto farlo e ho deciso 5 minuti prima di alzarmi. Mi scuso con Piazzapulita", ha scritto.

Marco Leardi. Classe 1989. Vivo a Crema dove sono nato. Ho una Laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d'impresa, sono giornalista. Da oltre 10 anni racconto la tv dietro le quinte, ma seguo anche la politica e la cronaca. Amo il mare e Capri, la mia isola del cuore. Detesto invece il politicamente corretto. Cattolico praticante, incorreggibile interista. 

PiazzaPulita, Guido Crosetto abbandona lo studio: "Plotone d'esecuzione contro Meloni, me ne vado". Libero Quotidiano il 15 ottobre 2021. Guido Crosetto inaspettatamente abbandona lo studio di PiazzaPulita durante la diretta del programma su La7 del 14 ottobre per protesta: "Cosa ci faccio qui? Non è giornalismo. Ho sbagliato io a venire qui da libero cittadino e libero pensatore. Secondo me la trasmissione è stata un plotone d'esecuzione nei confronti di Giorgia Meloni e del centrodestra. Non voglio fare la foglia di fico.". Quindi, rivolto a Corrado Formigli: "La saluto, mi scuso e me ne vado". Il fondatore di Fratelli d'Italia, che ha detto addio alla politica tre anni fa e oggi fa l'imprenditore, si è irritato per la puntata dedicata in parte ancora all'inchiesta di Fanpage sulle vicende legate alla campagna elettorale delle comunali di Milano e alla condotta di esponenti del centrodestra, compreso l'europarlamentare di Fdi Carlo Fidanza. "Sono inadatto e me ne vado". "Mi sembra una scena teatrale, mi dispiace, non mi pare sia accaduto nulla di grave. Abbiamo invitato Giorgia Meloni fino all'ultimo momento. Non rincorro gli ospiti", ribatte Formigli. Quindi interviene Alessandro Sallusti: "Si sta facendo passare Fratelli d'Italia come un partito di corrotti. Un marziano, se avesse visto la trasmissione, avrebbe pensato che Fratelli d'Italia è un covo di briganti e di corrotti. Il problema è far passare il primo partito di questo paese come una banda di disperati", chiosa il direttore di Libero. Crosetto torna poi sulla questione con un post pubblicato sul suo profilo Twitter: "Non dividetevi, come al solito, tra squadre di tifosi per commentare il mio gesto. Non ha nulla di politico. È altro. Riguarda il modo di fare le cose. Anche di contrapporsi. Mi è costato molto farlo e ho deciso 5 minuti prima di alzarmi. Mi scuso con Piazzapulita".

"Ho lasciato gli studi di Piazza Pulita: plotone di esecuzione contro la Meloni". Fabrizio De Feo il 16 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il j'accuse del cofondatore di Fdi: "Stavano costruendo un teorema in tv". «Credo che la democrazia si fondi sul confronto e non sui plotoni di esecuzione. Qui ho visto un plotone di esecuzione nei confronti di Giorgia Meloni e del centrodestra. Ho lasciato la politica perché mi sentivo al di sopra di questo modo becero di farla. Mi sento inadatto a fare la foglia di fico. Per questo faccio l'unica cosa che può fare una persona quando si sente inadatta: la saluto, mi scuso e me ne vado». Con questo j'accuse Guido Crosetto, fondatore di Fdi giovedì ha abbandonato gli studi di Piazza Pulit a La7.

Come è maturata la sua decisione?

«Ho ascoltato per mezz'ora il monologo di Corrado Formigli e del direttore Cancellato sulla risposta data da Giorgia Meloni all'inchiesta di Fanpage. A quel punto è stata data la parola a Lilli Gruber che indossava le vesti di arbitro del bene e del male, per arrivare poi alle conclusioni di Prodi. Nel mirino c'era un unico obiettivo: Giorgia Meloni, tirata in ballo per fatti in cui evidentemente non c'entra nulla. Mentre aspettavo non potevo fare a meno di pensare che mi trovavo di fronte a una impostazione inaccettabile per chiunque, per Conte, Letta o Renzi. La trasmissione non stava facendo informazione corretta ed imparziale ma stava semplicemente costruendo un teorema».

Quale sarebbe stata l'impostazione giusta?

«Io credo che il conduttore debba fare l'arbitro tra due interlocutori, non diventare parte in causa».

Non sarebbe stato più giusto controbattere a quelle tesi?

«Dopo un'ora, in 3 minuti? Non ho nulla contro Corrado Formigli, sono stato suo ospite e certo non perdo il rispetto per lui. Ma ritengo si possa portare civiltà anche in un dibattito politico. Giorgia Meloni fino a pochi mesi fa veniva descritta come la faccia buona del sovranismo, ora visti i sondaggi è diventata una Mussolini in gonnella o un Hitler in sedicesimo. Con queste iperboli la si espone al rischio che qualche pazzo possa sceglierla come obiettivo, lei che, in un Paese in cui hanno scorte e tutele anche quelli che si spediscono da soli un proiettile, non ha mai voluto la scorta».

Lei fa politica da molti anni, sa bene che l'evocazione del fascismo è uno spartito consueto da circa 28 anni.

«Ho visto anch'io il titolo di un giornale del 1993 su Berlusconi fascista. Sì, la riesumazione del pericolo nero è un classico pre-elettorale, ma francamente applicarlo a una donna di 44 anni che da anni ha un atteggiamento molto fermo verso qualunque forma di nostalgismo è un po' deprimente. Conosciamo bene queste artiglierie sperimentate per distruggere, ma non è detto che sia scontato abituarcisi e fare finta che sia tutto normale. Gli avversari di Giorgia Meloni dovrebbero cercare di combatterla sui contenuti, non cercando di delegittimare lei».

C'è un elemento di autocritica che si sente di fare rispetto alle prese di posizione di Fratelli d'Italia di queste settimane?

«I movimenti di destra esistono così come i loro tentativi di usare Fdi come veicolo. L'attenzione è alta, a volte si può fare meglio, a volte peggio, ma pensare che i leader di partito possano avere responsabilità per episodi o atteggiamenti che avvengono in periferia è lunare. Qualche giorno fa è stato eletto un consigliere circoscrizionale della lista Manfredi a Napoli che sul suo profilo Facebook ha riferimenti al Ventennio. Nessuno, giustamente, ne ha chiesto conto a Manfredi o a Letta. Se fosse stato di Fdi avrebbero avuto lo stesso atteggiamento con la Meloni? Questa comunicazione è il modo per tenere ferma la democrazia. La sinistra preferisce vincere spaventando il proprio elettorato piuttosto che confrontarsi sulle idee». Fabrizio De Feo

Che vergogna il bullismo televisivo. Davide Bartoccini il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nell'epoca in cui viviamo, il bullismo si combatte a scuola ma si insegna in televisione. E nessuno, professore, politico o giornalista, darebbe la vita - come Voltaire - per permettere a chi che sia di contraddirlo. Non so quando sia iniziato né perché. Non so come gli editori lo consentano, né perché i conduttori televisivi, nella maggior parte dei casi giornalisti fin troppo navigati sempre appellatisi alla democrazia e alle più buone maniere, lo esercitino senza pudore; ma finiamo sempre più spesso con l'assistere a imbarazzanti siparietti che sfociano nel "bullismo televisivo" che scandisce quest'epoca. E francamente è vergognoso. Fa bene dunque un Guido Crosetto, che giovedì si è riconfermato un sobrissimo gentiluomo, ad abbandonare un talk televisivo dove il copione scritto dagli autori poteva e doveva avere un solo epilogo: mettere nell'angolo l'unico contraddittorio presente in studio, sapendo che l'altrettanto gentiluomo, sempre sobrio e rispettoso nei toni, Alessandro Sallusti, non si sarebbe messo a fare la fronda dell'ultimo dei mohicani. Destrorso chi scrive? Ma per favore. Difensore di Giorgia Meloni, detrattore dei giornalisti che in "tre anni di barbe finte", come hanno scritto sul Riformista, hanno "svelato" le malefatte del Barone Nero? Ma per carità. Non è una questione di "vittimismo da camerati", come scherzano sui social. È una questione di coerenza e onestà intellettuale: non si possono continuamente camuffare da talk televisivi delle trasmissione disegnate per "moralizzare" metodicamente la propria audiance. Alle lunghe i non maoisti sono costretti a cambiare canale. Le altre emittenti, per bilanciare le forze, a costruire gli stessi siparietti al contrario, e chiunque abbia conservato un po' di buon gusto, a spegnere il televisore e ad aprire un libro. Questo j'accuse potrà apparire banale, anche fuori tempo, perché è da anni che si consumano queste pantomime. Ma la pandemia che ci ha costretti a guardare più televisione del necessario, e tutto il dibattito tra vaccinisti coatti e no-vax da protesi di complotto, sembrerebbe aver alzato il livello di spocchia di un'ampia schiera di conduttori e ospiti che in virtù delle loro competenza - chi gliele nega per carità - vogliono apparire senza essere contraddetti come dei narratori onniscienti e non come quello che dovrebbero in vero essere: moderatori e interlocutori accreditati. Chi viene chiamato in una trasmissione, in presenza o in collegamento esterno, dovrebbe essere in primis ascoltato, e poi rispettato, anche dovesse abbandonarsi al delirio. Senza dover ripetere l'immancabile "Non mi interrompa perché io non l'ho interrotta" che ormai occupa metà nel minutaggio delle trasmissioni. E senza che il conduttore s'innalzi a paladino della lotta alle fake news: se ti colleghi con un terrapiattista, quello a domanda risponderà che la "terra è piatta". Risibile? Non obietto. Ma neppure si può deriderlo in diretta. Altrimenti è un evidente caso di bullismo. E noi siamo tutti contrari al bullismo no? Facciamo corsi per estirpare il problema nelle scuole e poi lo consentiamo in televisione tra gli adulti con lauree, cattedre e ministeri? Eh no. Così non va. Oggi per esempio, giornata di fuoco per l'opinionismo data l'entrata in vigore nel Green pass per i lavoratori di tutti i settori, ho sentito un ospite del quale non ricordo il nome, che derideva a microfono aperto un camionista che aveva detto di chiamarsi Sirio, e che non si è vaccinato per scelta. Gli diceva ghignando: "Sirio, ma che vivi su una stella?" E poi rincarava con una doppia dose di classismo: "Si vede che sei uno scienziato". Gli altri del "plotone d'esecuzione opinionistico", come siamo ormai abituati a vedere, scuotevano la testa ad intervalli regolari scambiandosi battute ed encomi. Ecco, se non è bullismo questo. Chissà dov'è finito quello spirito voltariano del "Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa continuare a dirlo". Forse nei vecchi palinsesti. Nelle vecchie trasmissioni. Nell'epoca del tubocatodico e dei telecomandi Mivar dello zapping fantozziano. Tempi più civilizzati.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nomina

Giorgia Meloni, fango di Repubblica: "Gli effetti del sabato fascista", ai limiti della legge. Libero Quotidiano il 14 ottobre 2021. Secondo Repubblica il “sabato fascista” della scorsa settimana a Roma starebbe frenando l’ascesa di Giorgia Meloni. Tesi però che viene mezzo smentita da Repubblica stessa, dato che riporta il sondaggio Swg realizzato per il TgLa7 di lunedì, dal quale è emersa ben altra realtà: ovvero che Fratelli d’Italia - nonostante l’inchiesta di FanPage e i più recenti fatti romani - è ancora il primo partito nazionale al 21 per cento, con un punto di vantaggio sulla Lega e sul Pd. “Qualsiasi cosa faccia - avrebbe ironizzato la Meloni con la sua cerchia - qualsiasi cosa io tocchi diventa fascismo. Sono una specie di Re Mida mussoliniano”. Una battuta per sdrammatizzare un momento pesante a livello personale e di partito, con gli attacchi che piovono costanti da tutte le direzioni, in particolare da sinistra. Quando ha visto il sondaggio Swg, la leader di Fdi sarebbe rimasta piacevolmente sorpresa e avrebbe confidato ai suoi che “con la campagna di delegittimazione che ci hanno fatto mi aspettavo un tracollo. Evidentemente la gente non è così stupida come pensa la sinistra”. “Prima Berlusconi, poi Salvini e infine Meloni… curiosamente diventa sempre impresentabile chi è in testa”, sarebbe stato il senso del discorso della leader di Fdi. Ora però arrivano i ballottaggi, e soprattutto quello di Roma è molto importante per la Meloni: per questo ha attaccato in aula la ministra Lamorgese, avvertendo una “strategia della tensione” per condurre alla sconfitta il suo candidato, Enrico Michetti. In ogni caso Giorgia sarebbe convinta di non essere davanti a un bivio: una volta passata la tempesta, e anche in caso di sconfitta a Roma, sarà ancora artefice del suo destino politico.

Alessia Morani, vergogna senza precedenti: "Una molotov alla Cgil e la Meloni..." Libero Quotidiano il 14 ottobre 2021. Alessia Morani tocca il fondo. La deputata del Partito democratico con un tweet affianca il nome di Giorgia Meloni a una notizia di cronaca. "Queste immagini arrivano da Jesi. Pare abbiano piazzato una molotov alla sede della Cgil. Aspettiamo di capire cosa è accaduto ma credo che i distinguo di questi giorni e le accuse della Meloni al Viminale siano molto gravi. Il clima è preoccupante e serve responsabilità". Un cinguettio che manda la leader di Fratelli d'Italia su tutte le furie. Ed ecco la replica: "Cosa ne pensa Letta di questo modo indegno di fare propaganda da parte del suo partito?". Semplice: il leader dem non ha ancora proferito parola, mentre la Morani rincara invece la dose: "Ribadisco: le accuse della Meloni nei confronti del Viminale sono gravissime. Mi auguro che prima o poi comprenda la responsabilità che ha nei confronti del Paese".  Insomma, una vera e propria guerra contro la leader di FdI. Giusto qualche giorno fa Beppe Provenzano, altro esponente del Pd, aveva detto che la Meloni è fuori dall'area democratica. Una frase che ha fatto pensare a FdI a un chiaro suggerimento di sciogliere il partito. "Il che - aveva commentato la Meloni - a norma di legge significa che anche noi, primo partito italiano, andremmo sciolti. Magari con il voto a maggioranza di Pd e 5Stelle in parlamento, capito? Il primo partito italiano va sciolto perché lo ha deciso il Pd, questo è il gioco".

Giovanni Orsina smaschera la sinistra: "No green pass? Ma quale fascismo, il vero obiettivo è il Quirinale". Libero Quotidiano il 15 ottobre 2021. "Devastare la sede della Cgil a Roma è stato un atto di teppismo che va punito con la massima durezza": Giovanni Orsina, professore e storico della Luiss-Guido Carli, ha commentato così la protesta di sabato scorso nella Capitale. Secondo lui, è sbagliato mettere sullo stesso piano la manifestazione di una settimana fa e il fascismo del secolo scorso: "I livelli di violenza attuali non sono in alcun modo comparabili con quelli del primo dopoguerra". Orsina, intervistato da Italia Oggi, ha poi definito "ridicolo" qualsiasi paragone di questo tipo. "Enfatizzare il pericolo fascista è una strategia storica della sinistra italiana, utilizzata dal Partito comunista per rilegittimarsi ed egemonizzare lo schieramento progressista e poi, dopo il 1989, necessaria a ricompattare un centro sinistra diviso e rissoso": questa l'analisi fatta dallo storico. Secondo lui, comunque, tutto questo avrà effetti modesti sul ballottaggio dei prossimi giorni. Gli effetti potranno vedersi più avanti, quando arriverà il momento di eleggere il futuro capo dello Stato dopo Sergio Mattarella: "Dietro c'è una partita più grossa. Mettere in mora Salvini e Meloni sulla base dell'antifascismo è un modo per indebolirli, magari isolarli, nella partita del Quirinale". Sull'imposizione del Green pass da parte del governo in molti settori della vita quotidiana, quello del lavoro in primis, Orsina ha detto di comprendere la misura ma solo fino a un certo punto: "Continuo a chiedermi se, visti i livelli di vaccinazione spontanea raggiunti in Italia, fosse davvero necessario rendere il pass obbligatorio. Ossia sottoporre a un'ulteriore fonte di irritazione uno spirito pubblico piuttosto precario".

Manifestazione dei sindacati a San Giovanni: selfie, Bella ciao e operai in tuta tra Letta e Di Maio. «Su questo palco c’era Berlinguer».  Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 16 ottobre 2021. Nella piazza blindata, striscioni e bandiere arcobaleno: prove generali di un «Ulivo Bis». Lo sguardo scorre sulla folla. Massiccia, forte ma non nervosa, e però consapevole, ostinata, questo sì. Nel cielo limpido centinaia di palloncini (rossi, verdi e azzurri, come i colori dei tre sindacati) galleggiano allegramente su una scena piena di striscioni e bandiere arcobaleno, pugni chiusi e Bella Ciao, Resistenza, i metalmeccanici sono venuti con la tuta, i disoccupati con i loro cartelli, le mamme con i bambini, i giovani accanto agli anziani che raccontano di quando lassù c’era Enrico Berlinguer, molta tenerezza, molta luce. Piazza San Giovanni: un pomeriggio di antifascismo martellante, vivo, attuale; in dissolvenza, da qualche parte nella mente e nel cuore di tutti, le immagini delle squadracce nere, del canagliume che, sette giorni fa, esattamente a quest’ora, assaltò la sede della Cgil, indifesa. Nel dubbio, nonostante il Viminale stavolta abbia organizzato le cose per bene, agenti e carabinieri in quantità, e i blindati, e gli elicotteri che volano bassi, è tornato a schierarsi anche il leggendario servizio d’ordine della Fiom.

Transenne. Sottopalco. Capire chi c’è. 

Ecco Enrico Letta. Il segretario del Pd arriva a piedi e cerca subito Maurizio Landini. Fotografi e cameraman, eccitati, in semicerchio: tra i due un abbraccio lungo, sinceramente affettuoso; poi si aggiunge Pier Luigi Bersani, dicendo una cosa nell’orecchio di Landini. («Anche negli anni Settanta, in una stagione ben più dura di questa, era il sindacato che toglieva tutti dall’imbarazzo delle bandiere. E infatti, in alcune manifestazioni, c’era sempre una certa destra liberale, costituzionale — riflette Bersani — Mi chiedo allora dove sia quella attuale. Lo sanno o no che questa è una Repubblica fondata sull’antifascismo?»).

Arrivano pizzette calde e pasticcini nel gazebo della Cisl. I compagni della Cgil, più sobri, vanno di pizza con la mortadella. Arrivano anche i sindaci di Palermo e di Firenze, Leoluca Orlando e Dario Nardella. Vigili urbani in alta uniforme con i gonfaloni della Campania, dell’Emilia-Romagna, della Puglia («Michele Emiliano non è potuto venire, ma è qui con il cuore», dice un tipo in ghingheri come un generale napoleonico). Gira voce che laggiù ci sia Massimo D’Alema. Molto intervistata Susanna Camusso. Sergio Cofferati, noto anche come «il Cinese» (che parlò davanti a un milione di lavoratori): «Osservo la risposta democratica che mi aspettavo».

Sugli appunti, dopo mezz’ora, c’è scritto: Pd al completo, visti i ministri Franceschini e Orlando, cercare di parlare con Orlando, Franceschini tanto non ti dirà niente, molto a suo agio — in quest’atmosfera operaista/militante — il vice-segretario Provenzano, Nicola Zingaretti è con l’assessore alla Sanità della Regione Lazio Alessio D’Amato (ricordare che è merito suo se, da queste parti, ad un certo punto, ci siamo vaccinati tutti con ordine e rapidità), non dimenticarsi di citare Valeria Fedeli, sottolineare la lucidità e la rara sobrietà politica di Walter Verini che, essendo tesoriere del partito, potrebbe anche tirarsela. 

Nessuno degna Carlo Calenda, grande assente, di mezza parola. Calenda s’è sfilato dicendo che in questa piazza unitaria non si fa solo antifascismo, ma politica. Ruvido: però, forse, un po’ ci ha preso. 

Prove di Ulivo bis, di Unione bis? Fate voi. Ci sono pezzi di Italia Viva (Nobili, Migliore, Bellanova: chissà cos’ha in testa Renzi), ci sono il verde Angelo Bonelli e Roberto Speranza, seguito da tutta la complessa truppa sinistrorsa. Da Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra Italiana, a Stefano Fassina. Nichi Vendola semplifica il dubbio: «Come si traduce, politicamente, la potenza di questa piazza?».

Vendola va via incrociando Roberto Gualtieri, che per diventare sindaco di Roma deve giocarsela al ballottaggio con Enrico Michetti (il quale si conferma un personaggione: ignorando il divieto assoluto di Meloni e Salvini, aveva espresso il desiderio di venire. «Scusate: ma quale occasione migliore per dimostrare che sono davvero antifascista?»; l’hanno incenerito con due sguardi). Gualtieri invece è venuto ma resta muto, rispetta le regole, mette su una smorfia fissa, tra rammarico e ironia. Fotografo: «A Gualtié, te lo dico: pare che te fa male un dente…».

Poi, all’improvviso, sotto la Basilica, compare un corteo di auto blu. Al centro, un grosso suv blindato. Vetri neri. Guardie del corpo. 

Stupore. Curiosità. Chi sarà? 

Una della Uil: «È Draghi!». Cameraman: «Ma no! Draghi ha solo due macchine di scorta. Questo sembra Biden». «Escluso — fa un delegato Cisl — Biden mica è a Roma». 

Lo sportello del suv, dopo lunghi minuti, finalmente si apre. E compare la testa di Luigi Di Maio. 

«E meno male che nun te piaceveno le auto blu!», gli grida una signora con i capelli ricci aggrappata alle transenne. Di Maio la ignora e incede nel mischione dei fotografi, nel groviglio di microfoni e telecamere (intanto, dall’ultima auto, è sceso Alfonso Bonafede, ignorato da tutti). 

Un tipo forzuto dello staff soffia a Di Maio: guarda che c’è pure Conte. I due si osservano da lontano. Gelo? Gelo. Segue foto di gruppo con Paola Taverna (solito meraviglioso fotografo: «Aho’, e mica v’hanno condannato a morte!»). 

Enrico Letta capisce che l’aria s’è fatta appiccicosa, si fa aprire le transenne e va a mischiarsi con la folla (dove trova le due capogruppo di Camera e Senato, Serracchiani e Malpezzi). Grida di evviva, selfie, pacche sulle spalle, accoglienza notevole. 

Intanto Landini sta per cominciare il suo intervento. Tra gli alberi, tirano su uno striscione: «Noi con i fascisti abbiamo finito di parlare il 25 aprile del 1945».

Rinaldo Frignani per corriere.it il 16 ottobre 2021. «C’è da progettare un futuro che applichi i principi fondamentali della nostra Costituzione». Così sabato mattina il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, nel corso del corteo per le strade dell’Esquilino che ha portato i manifestanti dell’iniziativa di solidarietà alla Cgil al sit-in nazionale dei sindacati in piazza San Giovanni a Roma. «Libertà, diritti, pluralismo, libera informazione e lavoro», le richieste della piazza sulla quale sventolano le bandiere dei tre sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil tra palloncini rossi, verdi e blu. Il lungo applauso alla richiesta di «sciogliere le forze neofasciste». «Siamo in piazza per ribadire la forza della democrazia nel nostro Paese, la voglia di cambiare e la forza della Costituzione. Silenzio elettorale? Credo che i fascisti che hanno assaltato la Cgil non si sono posti li problema se erano in campagna elettorale o meno - aggiunge Landini -. Questa è una manifestazione per la democrazia nel nostro Paese quindi di tutti e non di parte. Tutto il mondo ha capito quello che è successo, che non bisogna abbassare la guardia. Ringrazio Lamorgese per il lavoro compiuto e le forze di polizia per quello che hanno fatto». Tanti i temi abbracciati da Landini, non ultimo, il caso Regeni: «Vogliamo la verità». «Mai più fascismi» lo slogan scelto per chiedere lo scioglimento delle organizzazioni neofasciste. L’appuntamento con Cgil, Cisl e Uil a partire dalle 14 in piazza San Giovanni, ma con un prologo: un corteo partito da piazzale dell’Esquilino alle 12.30. Flussi da tutta Italia a bordo di 800 pullman, 10 treni speciali e qualche volo dalle isole. La stima finale secondo gli stessi sindacati è di 200 mila persone in piazza, mentre per la Questura i partecipanti sono circa 50 mila. Di sicuro c’è che ci sono tantissimi pensionati, con bandiere e palloncini delle sigle delle tre categorie Spi Cgil, Fnp Cisl e Uilp: sotto il palco, le «pantere grigie» sono il gruppo più nutrito. All’indomani dell’obbligo di presentazione del Green Pass sul luogo di lavoro, e alla vigilia del secondo turno delle elezioni amministrative nella Capitale e in altre grandi città,i sindacati richiamano l’attenzione sull’attacco «squadrista» alla sede della Cgil ritenuto una sfida a tutto il sindacato confederale, al mondo del lavoro e alla democrazia: mercoledì 20 ottobre è attesa l’apertura della discussione in Senato sulle mozioni proposte da Pd, Leu, M5s e Italia viva per lo scioglimento di Forza Nuova e dei gruppi neofascisti. «Una grande festa democratica senza colore politico» per Giuseppe Conte, presidente del M5s. «Una grande risposta di popolo per sottolineare i valori costituzionali» il commento a distanza di Luigi Di Maio, ministro degli Esteri ed esponente del M5s. «In questa piazza c’è la nuova Resistenza — afferma il segretario generale della Uil Bombardieri —. La Resistenza è quella che ha combattuto il fascismo; vogliamo riaffermare i valori della democrazia, della partecipazione e il rifiuto della violenza». Per il segretario della Confederazione europea dei sindacati, Luca Visentini, l’impegno è «per ottenere la sospensione dei brevetti a livello internazionale e per l’aumento della capacità tecnologica e di produzione dei vaccini in Europa e nel mondo». E ancora: «Ai fascisti del nuovo millennio diciamo che non passeranno. Noi li fermeremo». Intento condiviso anche da Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl: «L’Italia riparte con il lavoro», con «le riforme e gli investimenti concertati. Un campo largo di responsabilità che produca risultati concreti e prosciughi gli stagni in cui si abbeverano le `bestie´ degli estremismi». E Sbarra affonda la stoccata sui vaccini: «Cosa si aspetta a renderli obbligatori? Grave che il governo e il Parlamento non l’abbiamo ancora fatto per mera convenienza politica. È grave che per non affrontare queste contraddizioni si siano scaricati i conflitti sul mondo del lavoro». Nella folla anche il candidato sindaco di Roma del centrosinistra, Roberto Gualtieri, rispettoso del silenzio elettorale. Sotto il palco anche il ministro della Salute, Roberto Speranza e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. E Massimo D’Alema: «La violenza fascista non è una forma qualsiasi di violenza, ma è una violenza di impronta totalitaria messa al bando dalla Costituzione e che nasce dal rifiuto del totalitarismo fascista». Il segretario del Pd, Enrico Letta, abbraccia il segretario della Cgil, Maurizio Landini. Per lui in regalo una maglietta con la scritta «La matrice dell’Europa è antifascista», realizzata dall’associazione EuropaNow. «Studenti antifascisti - lavoro, reddito, istruzione e diritti contro ogni fascismo» la scritta sullo striscione di Rete della Conoscenza, Unione degli Studenti e Link. «Da tutta Italia siamo arrivati a Roma per una manifestazione urgente e necessaria: sciogliere le organizzazioni neofasciste e chiuderne le sedi è oggi una priorità» dicono gli studenti. Tra la folla, diverse magliette blu con scritto: «Vaccinato dal 25 aprile 1945». Tante e diverse le bandiere, tra cui quelle dell’Anpi e di Legambiente. «L’antifascismo è il vaccino per una forte e robusta costituzione», si legge su un cartello di un manifestante firmato «Cgil Bari». Presenti anche le realtà arcobaleno, insieme al movimento Disability Pride. Presidiato il centro storico di Roma durante tutta la manifestazione. Sorvegliati dalle forze dell’ordine, non solo i palazzi istituzionali, ma anche alcuni obiettivi ritenuti sensibili come cantieri edili che si trovano nell’area, palazzi occupati e sedi dei sindacati. Sotto la lente, inoltre, la sede di CasaPound.

“Bella Ciao” e pugni chiusi: a piazza San Giovanni la passerella di sinistra beffa il silenzio elettorale. Eleonora Guerra sabato 16 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Pugni chiusi, Avanti popolo, bandiere rosse e l’immancabile Bella Ciao, che ha chiuso il comizio. Pardon, la manifestazione. A piazza San Giovanni oggi ha fatto sfoggio di sé tutto l’armamentario tipico della sinistra più a sinistra, ma a sentire gli organizzatori in piazza c’era «l’Italia». Si badi bene, però, non un’Italia qualsiasi, ma «l’Italia migliore» come non ha mancato di rivendicare la capogruppo di Leu al Senato, Loredana De Petris. Insomma, tutto come da copione, compreso l’immancabile vizio della sinistra di mettersi su un piedistallo, che in questo caso aveva la forma di un palco. Il palco antifascista. Gli organizzatori hanno parlato prima di 100mila, poi di 200mila partecipanti. La Questura ha nettamente ridimensionato il dato a 60mila. Si tratta comunque di un numero di tutto rispetto, ma abbastanza per sostenere, come ha fatto il leader della Cgil, Maurizio Landini, che «tutta Italia vuole cambiare questo Paese»? Il leader Cgil non si è limitato a dire che «tutta Italia vuole chiudere con la violenza», ma anche che «vogliamo essere protagonisti del cambiamento economico. Tutto il governo assuma questa sfida e apra una fase di cambiamento sociale del Paese». Insomma, va bene l’antifascismo, va bene il ripudio della violenza, va bene la solidarietà, ma perché farsi sfuggire l’occasione di mettere in chiaro che qua si rivendicano anche i temi prettamente legati all’agenda politica? D’altra parte che si trattasse di un’occasione politica imperdibile era evidente fin dalle premesse, ovvero dalla scelta di fissare la manifestazione in pieno silenzio elettorale. Lo svolgimento è stato all’altezza delle aspettative. A piazza San Giovanni hanno fatto passerella tutti i big della sinistra, affiancati dagli aspiranti sindaci, un Roberto Gualtieri molto fotografato in testa. Per il Pd c’erano, tra gli altri, Enrico Letta, Andrea Orlando e Dario Franceschini. Per Articolo 1, Roberto Speranza, Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. Per la sinistra Nicola Fratoianni e Nichi Vendola. Per Italia Viva Teresa Bellanova. Per il M5S Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. «È una bella festa senza colore politico nel nome della democrazia», ha sostenuto Conte. Sipario e sigla di chiusura, sulle note di Bella ciao.

Fascismo e quota 100. Da anni la Fiom scrive il programma con cui la destra poi vince le elezioni. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 16 Ottobre 2021. La Fiom ha pubblicato una piattaforma politica in cui è vaga su tutto tranne nell’anticipare le pensioni e condannare la globalizzazione. Non stupisce. Lega e Fratelli d’Italia usano le stesse parole gridate dalla sinistra sociale: lotta alle multinazionali, alle banche e alla (qualunque cosa significhi) finanza. Per la manifestazione “Mai più fascismi”, convocata per oggi a Roma da CGIL, CISL e UIL, come risposta all’invasione squadristica della sede del maggiore sindacato italiano, la FIOM ha predisposto una piattaforma (come si dice in sindacalese), che partendo dalla condanna «di ogni forma di fascismo e di violenza» e dalla richiesta «dello scioglimento immediato di tutte le organizzazioni di matrice neo-fascista e neo-nazista», arriva a chiedere di «ridurre l’età pensionabile, introducendo elementi di flessibilità in uscita (41 anni di contribuzione o 62 anni di età anagrafica)», passando per tutto il repertorio di evocazioni (precariato, progressività fiscale, sanità pubblica…), che descrivono l’immaginario ideologico e sentimentale di sindacati da anni in crisi di ruolo e di identità. Però su tutto, fuorché sulle pensioni, si rimane nel vago. Insomma, lo scioglimento di Forza Nuova e la sostituzione di quota 100 con quota 41 sono le sole due precise richieste antifasciste dei metalmeccanici della CGIL. Manca nella piattaforma della FIOM il riferimento testuale al liberismo, che da quelle parti non si ha troppi scrupoli a rubricare come una versione economica evoluta del produttivismo fascista. È comunque decisamente chiaro che nel mirino c’è quell’idea di società che, nelle analisi del mondo sindacale e della CGIL in particolare, è considerata la matrice dei rigurgiti reazionari dell’Occidente, sia nel senso del modello di riferimento (il capitalismo globalizzato come universalizzazione del “sistema Pinochet”), sia nel senso della causa della frustrazione e del disagio sociale, destinato a capitolare nell’illusione fascista. Purtroppo, la discussione sul fascismo in Italia è condannata a confrontarsi con gli obblighi e i divieti, di un antifascismo da guerra fredda anni ‘50 o da autunno caldo anni ‘60. L’idea conformistica del fascismo come regime dei padroni e dei fascisti come mazzieri del Capitale impedisce di vederne la seduzione sempre ricorrente, soprattutto in forme più subdole, pervasive, strutturalmente interclassistiche e potenzialmente maggioritarie della violenza di piazza di infime minoranze, che hanno più parentele con la criminalità organizzata e con le curve ultrà che con il fascismo del Ventennio, inteso come regime, come sistema di consenso e come vera e propria ideologia nazionale. Nessuno (o pochi e quasi tutti silenti) nel mondo sindacale sembra rendersi conto che non tanto nelle organizzazioni dichiaratamente neo-fasciste, come Forza Nuova, ma in quelle della destra ultra-fascista, a partire dai primi due partiti italiani, Lega e FdI, l’aggregazione del consenso è fatta sulle stesse parole d’ordine sterilmente gridate dalla sinistra sociale negli ultimi decenni: guerra alla globalizzazione, lotta alle multinazionali, alle banche e alla (qualunque cosa significhi) finanza, protezionismo e pensionismo, antagonismo nazionalista sulle regole di bilancio e di mercato imposte dai trattati Ue. Possibile che nessuno abbia visto che proprio su quota 100 Salvini ha resuscitato e nazionalizzato il territorialismo leghista e che il «fermiamo il mondo, vogliamo scendere», biascicato dal sindacato italiano confederale (anche qui con pochissime eccezioni), è, questo sì, il canone retorico di quella destra nazionalista, che, in senso proprio, cioè storico e ideologico, è più fascista delle bande di picchiatori sottoproletarizzati e ampiamente manovrabili di Forza Nuova? Tanti auguri, allora, a chi pensa di combattere il fascismo contemporaneo con la legge Scelba e con un nazionalismo economico leftist.

La Cgil dei furbetti: pensioni antifasciste e spot di piazza per il ballottaggio coi leader giallorossi. Lodovica Bulian e Tiziana Paolocci il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. I sindacati in corteo a Roma: 50 mila persone. Landini: "Grande festa senza colore politico" ma con lui sfila tutto il centrosinistra. E dicono no a Quota 100. Salvini: "Campagna elettorale inseguendo i fascisti che non ci sono". Dall'antifascismo alle pensioni. Tutto nella stessa piazza, alla vigilia del voto dei ballottaggi, sotto lo slogan «Mai più contro i fascismi». Il motivo per cui Carlo Calenda, leader di Azione, aveva deciso di annullare la sua presenza ieri a San Giovanni («Doveva essere una manifestazione in difesa della democrazia, è diventata una questione di lotta politica, fatta tra l'altro il giorno prima delle elezioni durante il silenzio elettorale»), si è plasticamente manifestato sul palco nelle parole del segretario generale Maurizio Landini. «C'è da progettare un futuro che applichi i principi fondamentali della nostra Costituzione. Silenzio elettorale? Credo che i fascisti che hanno assaltato la Cgil non si sono posti il problema se erano in campagna elettorale o meno. Questa è una manifestazione per la democrazia nel nostro Paese quindi di tutti e non di parte. Tutto il mondo ha capito quello che è successo, che non bisogna abbassare la guardia». Tra i cori antifascisti Landini rilancia i temi della piattaforma sindacale, invoca il superamento di Quota cento, misura bandiera della Lega, e incalza il governo: «Bisogna rinnovare i contratti salariali pubblici e privati, ma anche varare una riforma del fisco, delle pensioni e degli ammortizzatori sociali. La riforma del fisco deve avere un effetto chiaro: la lotta all'evasione fiscale deve aumentare il netto in busta paga e delle pensioni». Con lui in piazza molti esponenti del centrosinistra e del governo, dal segretario del Pd, Enrico Letta, al leader del M5s Giuseppe Conte con il ministro Luigi Di Maio e il ministro dem Andrea Orlando. «È una grande festa democratica senza colore politico», dice il leader dei cinque stelle. Ma dal palco c'è spazio anche per un comizio dei sindacati contro le delocalizzazioni delle imprese, contro i condoni che sono «uno schiaffo» a tutti quelli che pagano le tasse, per poi passare agli incidenti sul lavoro e alla neonata Ita: per i sindacati è «inaccettabile» che non applichi il contratto nazionale. Una lista programmatica indirizzata all'esecutivo Draghi. Eppure Landini rivendica: «Non è una piazza di parte. È una manifestazione che difende la democrazia di tutti». Una risposta indirizzata al leader della Lega Matteo Salvini che accusava la manifestazione di violare il silenzio elettorale alla vigilia dei ballottaggi: «A Roma la sinistra fa campagna elettorale inseguendo fascisti che, per fortuna, non ci sono più». In piazza a rispondere al richiamo di Cgil, Cisl e Uil dopo l'assalto di sabato scorso alla sede del sindacato da parte di Forza Nuova, hanno risposto 50mila persone secondo la questura, 200mila invece secondo gli organizzatori. Nessuno scontro, né si verificano le temute infiltrazioni di estremisti. Una festa colorata, con canti, striscioni e un cielo di palloncini, lontana dalle premesse dei giorni precedenti, che già vedevano piazza San Giovanni trasformata in campo di battaglia nella Capitale. Questa volta era invece blindata dal dispositivo di sicurezza messo in campo dal Viminale per scongiurare le violenze di sabato scorso. Un corteo partito da piazzale dell'Esquilino alle 12.30, con un esercito di lavoratori, molti addetti del settore scuola giunti da ogni parte d'Italia a bordo di 800 pullman, 10 treni speciali e qualche volo dalle isole ha raggiunto piazza San Giovanni alle 14. Tantissimi i pensionati, che sollevavano cartelloni con scritto «l'antifascismo è il vaccino per una forte e robusta costituzione» e «Zero morti sul lavoro». Non sono mancati anche questa volta i nostalgici con le magliette rosse con la faccia di Che Guevara. E mentre i segretari parlavano dal palco, nella folla tutti a discutere dell'appuntamento di mercoledì prossimo quando si aprirà in Senato la discussione sulle mozioni proposte da Pd, Leu, M5s e Italia viva per lo scioglimento di Forza Nuova e dei gruppi neofascisti. «L'Italia riparte solo con il lavoro le riforme e gli investimenti concertati - dice Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl, che chiede il vaccino obbligatorio per tutti -. Un campo largo di responsabilità che produca risultati concreti e prosciughi gli stagni in cui si abbeverano le bestie degli estremismi». Lodovica Bulian e Tiziana Paolocci

Vittorio Sgarbi contro il corteo Cgil: "Ridicola passerella. C'era anche Di Maio, che passa la vita a schivare il lavoro". Libero Quotidiano il 16 ottobre 2021. "Triste che la CGIL si sia prestata a squallida strumentalizzazione alla vigila del ballottaggio di Roma. Ridicola passerella politica che con il lavoro non ha nulla a che fare. C’era anche Luigi Di Maio, uno che ha passato la sua vita a schivarlo, il lavoro". Questo il tweet di Vittorio Sgarbi a proposito della manifestazione indetta dalla Cgil dopo l'assalto alla sede del sindacato da parte di alcuni appartenenti a Forza Nuova. Per Sgarbi è inaccettabile che una manifestazione si svolga alla vigilia del voto politico sul sindaco di Roma, concetto ribadito più volte negli ultimi giorni. Si strumentalizza, secondo il critico d'arte, per dare contro a Fratelli d’Italia in vista del ballottaggio tra Enrico Michetti e Roberto Gualtieri. E non perde, ovviamente e sempre Sgarbi, l'occasione per attaccare uno dei suo0i bersagli preferiti: il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, presente alla manifestazione indetta dalla Cgil. Vittorio Sgarbi è candidato nella Lista Civica Michetti come assessore alla Cultura e questo sarà il suo ruolo in caso di vittoria del centrodestra al ballottaggio. Ma alla vigilia del voto ha voluto dire il suo punto di vista sulla questione. Una questione per lui politica e ha deciso di attaccare la Cgil. Le polemiche certo non mancheranno.

Corteo Cgil, Matteo Salvini all'attacco: "Mentre in Europa scorre il sangue del terrorismo, inseguono fascisti inesistenti". Libero Quotidiano il 16 ottobre 2021. La manifestazione antifascista organizzata dalla Cgil a Roma non ha alcun senso secondo Matteo Salvini, che su Twitter ha commentato: "Mentre in Europa scorre il sangue per mano del terrorismo islamico, unico reale pericolo di questi tempi, a Roma la sinistra fa campagna elettorale (nel giorno del silenzio) inseguendo fascisti che, per fortuna, non ci sono più". Il riferimento è ai due episodi che sono successi nei giorni scorsi in Europa. Il primo in Norvegia, dove un uomo armato di arco e frecce ha ucciso 5 persone, pare dopo essersi convertito all'Islam. Il secondo episodio invece riguarda l'uccisione di un deputato nel Regno Unito, un omicidio probabilmente legato all’estremismo islamico. La manifestazione di questo pomeriggio a Roma, comunque, è stata organizzata in risposta all'assalto di una settimana fa alla sede della Cgil, nel bel mezzo di una protesta contro il Green pass. Continuando a commentare sui social, il leader della Lega ha citato Leonardo Sciascia: "Il più bell'esemplare di fascista in cui ci si possa imbattere oggi…è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dare del fascista a chi fascista non è". Già prima dell'inizio della manifestazione, comunque, il segretario del Carroccio aveva aveva fatto sapere che la Lega non avrebbe presenziato oggi, così come Fratelli d'Italia. Salvini ha motivato la sua assenza spiegando di non voler violare il silenzio elettorale, in vista dei ballottaggi di domani e dopodomani.

La "Reductio ad Hitlerum": l'abitudine ridicola di "fascistizzare" l'interlocutore per ogni cosa. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 16 ottobre 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

“Reductio ad Hitlerum”: con questa curiosa ed efficace espressione latina viene definita l’abitudine ridicola di nazificare o fascistizzare qualsiasi interlocutore non allineato alle proprie idee. Ciò che colpisce è come la sinistra, nella sua spirale di declino cognitivo ormai senza ritorno, non riesca a esercitare ormai più alcun controllo su questo piede di porco dialettico che, pure, usato cum grano salis, a volte ha dimostrato la sua efficacia. Uno esprime un parere contrario, magari appena venato di un approccio al reale meno zuccherosamente emotivo, un filo più pragmatico, un poco più orientato verso un equilibrato sistema diritti/doveri, diventa automaticamente un membro del Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, ruolo d'onore, camicia bruna, stivali e pugnaletto al fianco. Di converso, a destra, non ci sono cascati. Quando Berlusconi indulgeva un po’ troppo nel definire i piddini come “comunisti”, da sinistra lo spernacchiavano: “Eh, sì, noi comunisti mangiamo i bambini”. E infatti, poi, la battuta è caduta in disuso e nessuno ha seguito il Cavaliere per questa china pericolosa. Invece, dall’altra parte, la fascio-psicosi si dimostra sempre viva, tanto da aver fatto creare numerosi “meme” che circolano sui social. Quello più noto raffigura Sigmund Freud con la scritta: “Riguardo a questi “fascisti”, li vede spesso? Sono nella stanza qui con noi, adesso?”. Ma ancor più surreale è che, con l’abuso della Reductio, i sinistri stanno facendo del Nazifascismo … un’”icona del libero pensiero”. Uno dei tanti paradossi del Mondo alla Rovescia in cui siamo immersi. Non si rendono conto, infatti, che loro stessi, negli ultimi anni, hanno sposato il più cupo e tetragono pensiero unico: ormai schiacciati su un politically correct vittoriano, sono divenuti le Sturmtruppen della Ue, i secondini di un conformismo piccolo-medio borghese asfissiante. Al motto di "FEDEZ HA SEMPRE RAGIONE", qui censurano, là bloccano, lì confinano o mettono fuori legge, riscrivono il linguaggio, questo si dice, questo no: ci manca solo l’olio di ricino.  E poi “nazificano” chiunque osi protestare. Ovvio che, per un banale meccanismo psicologico, avvenga il ribaltamento di cui sopra. E così, il tale si compra il vino con Hitler sull’etichetta e lo porta alle grigliate, con matte risate; un altro, si mette il bustino del Duce in ufficio e l’edicolante smercia a pacchi i calendari col Crapùn. Anche le grandi aziende sfruttano la “boccata d’ossigeno” inconscia che offre – oggi - la premiata ditta nero-bruna. Persino giornaloni come il Corriere ci danno dentro con le collane di libri dedicate ai due dittatori perché, si sa, se metti Hitler o Mussolini in copertina vendi 10 volte di più. Il cinema, non ne parliamo: lo scorso anno, nelle sale, otto film a tema olocaustico per la Settimana della Memoria. Dagli e dagli, nell’inconscio collettivo i ruoli si invertono, ma a sinistra non ci arrivano. Il senso della misura non fa parte del loro Rna, oggi meno che mai. E’ il “Murgia effect”. Ricordate quando la nostra critica letteraria preferita elaborò il test su “Quanto sei fascista”? Ovunque gente che si disperava per aver raggiunto un punteggio troppo basso, dopo aver risposto a quiz tipo: “Credi che l’immigrazione sia un tantino fuori controllo?”. La sensazione è che gli elettori siano completamente immunizzati alla Reductio, un po’ come avviene per i soliti provvedimenti giudiziari a 16 ore dal voto. Gli unici a subirla ancora un poco sono i politici meloniani. Tranquillizzatevi, la soluzione è a portata di mano: risata pronta e una bella lingua del Negus Menelicche. 

Corteo Cgil, Giorgia Meloni all'attacco: "Manifestazione contro i fascismi, ma c'è la bandiera dell'Urss". Libero Quotidiano il 17 ottobre 2021. Per Maurizio Landini era "la piazza di tutti". Per Massimo D'Alema, che l'ha buttata direttamente in polemica politica, gli assenti "hanno perso una bella occasione". Si sta parlando del corteo di ieri, sabato 16 ottobre, a Roma, la manifestazione di solidarietà alla Cgil e "contro ogni fascismo" organizzata dopo gli scontri del weekend precedente e dopo l'assalto alla sede del sindacato. Eppure, quella piazza, "di tutti", non è affatto sembrata. E non solo per chi sfilava, ossia tutti tranne le forze di centrodestra, Forza Italia compresa. Ma anche per "come" si sfilava: la colonna sonora, incessante e invariabile, era Bella Ciao. E ancora una volta, non è tutto. Già, perché una plastica dimostrazione relativa al fatto che quella piazza non fosse di tutti arriva direttamente da Giorgia Meloni, che sui suoi profili social rilancia quanto segue. Una foto di una bandiera dell'Urss, rossa e con falce e martello, che dominava nella piazza. Insomma, il simbolo di uno dei regimi più violenti, totalitari e omicidi che la storia dell'uomo conosca. Alla faccia della manifestazione "apartitica" e della piazza di tutti. A corredo della foto rilanciata su Instagram, la Meloni ha scritto: "Nella manifestazione contro tutti i fascismi e gli estremismi sventola la bandiera dell'Unione Sovietica, ovvero uno dei regimi più sanguinari della storia dell'umanità. Alè". Niente da aggiungere.

Giorgia, lezione di antifascismo sulla Shoah. Fabrizio De Feo il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. La leader Fdi: "L'antisemitismo è un abominio". Ma evita la passerella. È una presa di posizione forte, non equivocabile e non manipolabile, quella che Giorgia Meloni prende in occasione della ricorrenza del rastrellamento nel Ghetto Ebraico di Roma. Un messaggio inviato per ribadire, se mai ce ne fosse bisogno, la distanza di Fratelli d'Italia dall'antisemitismo e l'amicizia verso la Comunità ebraica. «Il rastrellamento del ghetto di Roma a opera della furia nazifascista è una profonda ferita per ogni italiano. Un abominio che si è abbattuto sulla Comunità Ebraica più antica d'Europa e che per questo ha toccato le nostre stesse radici» scrive la leader di FdI in un messaggio. Giorgia Meloni avrebbe voluto fare anche di più. Qualche giorno fa, infatti, durante la conferenza stampa al Jerusalem prayer Breakfast a Roma prima si era detta «contenta di partecipare» a questo evento «come romana e cattolica, qui risiede la più antica comunità ebraica dell'occidente». E ricordando la «terribile deportazione dei 1259 ebrei del ghetto a opera della follia nazi-fascista», aveva annunciato che sarebbe stata presente alla deposizione della corona di fiori in ricordo delle vittime del rastrellamento nazifascista del 16 ottobre 1943 del Ghetto di Roma, «rappresentando la vicinanza e l'amicizia di Fratelli d'Italia e dei Conservatori europei di ECR alla comunità ebraica romana e italiana in questa terribile ricorrenza di dolore per l'intera comunità nazionale». Insieme a Giorgia Meloni avrebbero dovuto partecipare il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, il capogruppo a Montecitorio Francesco Lollobrigida e Giovanbattista Fazzolari. Una telefonata tra Giorgia Meloni e Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica Romana ha poi fatto scattare un rinvio. «La visita è stata rinviata per questioni di opportunità nell'imminenza del voto, non ci sono altri temi, sarà riprogrammata», la spiegazione di Dureghello. A determinare il rinvio una doppia vigilia: quella del ballottaggio a Roma, ma anche il rinnovo del Consiglio dell'Unione delle Comunità Ebraiche in programma oggi, con liste e candidati in lizza per i 20 seggi di spettanza della Comunità di Roma. Di fronte allo stop la leader di Fratelli d'Italia aveva commentato: «Il rastrellamento del ghetto di Roma a opera della furia nazifascista è una profonda ferita per ogni italiano. Un abominio che si è abbattuto sulla Comunità Ebraica più antica d'Europa e che per questo ha toccato le nostre stesse radici. Il virus dell'antisemitismo non è stato ancora debellato e ribadiamo il nostro impegno per combatterlo senza reticenze e in ogni forma, vecchia e nuova, nella quale si manifesta». I rapporti di FdI con la Comunità Ebraica romana in realtà sono ottimi, così come sono ottimi quelli con l'ambasciata di Israele, alla luce delle posizioni fortemente filo-israeliane del partito. La vicinanza di Giorgia Meloni, d'altra parte, è di antica data. Parecchi anni fa, in veste di ministro della Gioventù visitò il Museo Yad Vashem a Gerusalemme e scrisse: «C'è sempre un'alternativa all'odio, alla sopraffazione, alla violenza e alla guerra. Nostro dovere, ovunque e per sempre, è costruire». Fabrizio De Feo

"Antisemitismo? L'ho subìto da sinistra". Alberto Giannoni il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il portavoce della sinagoga di Milano: "Inutile sciogliere le sigle come Fn". Milano. Davide Romano, lei è portavoce della sinagoga Beth Shlomo ed è stato assessore alla Cultura della Comunità di Milano, cosa pensa di questo «allarme fascismo» che torna a essere agitato dopo l'assalto di estrema destra alla Cgil di Roma?

«Penso che in questo momento la situazione sociale sia problematica. Che sfoci in violenza è grave, la violenza va fermata in modo rapido ed efficiente, che sia di destra o di sinistra è meno rilevante.

Il suo mondo è molto attento a questa minaccia. Sta dicendo che non è rilevante ciò che sono quei gruppi ma ciò che fanno.

«Dico che non mi interessa la battaglia simbolica. Mi interessa che le persone violente vengano fermate, isolate, eventualmente punite per quel che fanno. Poi certo, io provo odio per fascisti e nazisti, per quel che hanno fatto ai miei nonni e bisnonni, ma se penso a mente fredda dico: facciamo ciò che è utile, non per istinto o partito preso. Se li chiudo cosa succede?».

Cosa succede secondo lei?

«Magari andiamo a letto tranquilli se sciolgono una sigla, ma se cambia nome o i militanti si aggregano ad altre siamo punto e a capo. Forse la priorità è un canale preferenziale e veloce per perseguire i fatti di violenza politica».

Meglio far emergere le realtà estremiste?

«Le forze dell'ordine, dicono che è meglio sapere chi si ha di fonte. Se finiscono in clandestinità non sai dove sono, dov'è la sede. Anni fa non c'erano social, oggi esistono canali irraggiungibili. Mi interessano risultati concreti e non si ottengono facendo scomparire le sigle».

La rassicura di più una realtà polverizzata?

«Sono ben contento che l'estrema destra sia divisa in mille gruppi. Invece potrebbe esserci un'eterogenesi dei fini, magari i militanti di Forza Nuova vanno su altre formazioni rafforzandole. Parafrasando Andreotti, meglio avere venti gruppi dello 0,1% che uno del 2».

Parlarne tanto è utile?

«La sinistra è forte su questo tema e insiste pensando che sia sentito da tutti in Italia. Non so, è stato molto usato».

Una destra integrata nelle istituzioni è un bene? Fdi?

«A Fini, all'epoca della svolta l'intero ebraismo strinse la mano. Ma non voglio parlare di politica. Posso dire che il Pdl di Berlusconi era una cosa, Fdi un'altra. Dentro Fdi ci sono personalità democratiche e amiche di Israele e delle comunità, ma anche frange più inquietanti. Meloni dovrebbe accelerare le pulizie, è interesse suo e del Paese. Di Salvini, tutto si può dire tranne che non sia amico di Israele».

Comunque, l'antisemitismo non è solo di destra.

«Se devo essere sincero, io nella mia vita sono stato aggredito sempre dai centri sociali, gente di sinistra o estrema sinistra. Parlo di Milano. Alla fine degli anni Ottanta da qualche fascista, poi tutti gli attacchi, al Gay pride con la bandiera israeliana o al 25 aprile con la Brigata ebraica, sono arrivati da sinistra».

Un sondaggio, due anni fa, ha rilevato che l'antisemitismo alberga più nell'elettorato di sinistra e «grillino».

«Non mi sorprende. Nelle istituzioni no, ma sui social, dietro certi svarioni su Israele tipici di una certa sinistra ci sono stereotipi sulla Shoah. Mi dispiace ma è così». Alberto Giannoni

Gli insulti alla Segre? Sputati dal No Vax di sinistra. Francesco Curridori il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. Gian Marco Capitani, esponente del movimento novax "Primum non nocere", ha attaccato duramente la senatrice Liliana Segre. Un feroce antisemita, dire? E, invece, no... È un anti-fa. “La Segre dovrebbe sparire”. La senatrice a vita, superstite della Shoah, è stata vittima degli insulti che un novax gli ha rivolto dal palco di una manifestazione contro il green-pass. Immediatamente è arrivata la condanna unanime dal mondo della politica per le offese che il novax Gian Marco Capitani, le ha rivolto. L'esponente del movimento "Primum non nocere" ha definito Liliana Segre "una donna che ricopre un seggio che non dovrebbe avere perché porta vergogna alla sua storia, che dovrebbe sparire da dove è", salvo poi pentirsi e fare mea culpa. Ma chi è Capitani? La sinistra si è lanciata nelle solite accuse di fascismo, ma il novax in questione è un 'kompagno' a tutti gli effetti. Il movimento “Primum non nocere”, infatti, sui social si descrive come un gruppo “formato esclusivamente per segnalare gli effetti collaterali dei farmaci e delle terapie comunemente usati, all'interno del quadro scientifico” eppure, come fa notare il quotidiano Libero, è un gruppo dichiaratamente antifascista e di sinistra. Tra gli slogan"El pueblo unido jamás será vencido", mentre Capitani, lo scorso 25 aprile si trovava in piazza ad arringare la folla contro il governatore Stefano Bonaccini con argomentazioni dichiaratamente novax. Capitani, infatti, è un analista programmatore che proviene dalla “rossa Bologna” dove si è laureato in Ingegneria delle Telecomunicazioni all'Alma Mater. Ieri, in una lettera aperta, affidata all'Ansa, si è scusato con la Segre precisando: "Non sono un razzista non ho mai negato la Shoah e di certo non sono antisemita”. E ha aggiunto: “Ho provato ad interloquire con Lei nella certezza di poter trovare ascolto e mi son ritrovato giudicato per una singola parola. Nell'ultimo anno e mezzo non si contano le frasi violente e le istigazioni alla violenza espresse nei confronti di chi ha una diversa opinione sulla campagna di vaccinazione di massa in corso. A reti unificate, 24 ore su 24, si è scatenata un'autentica campagna d'odio che, temo, abbia fatto molto male al Paese" . Capitani si dice dispiaciuto di non essersi espresso “in modo più appropriato", ma ha ribadito che “la sua opinione è semplicemente legata al ruolo di presidenza della commissione per il contrasto dell'intolleranza da Lei ricoperto. In quel ruolo ritengo che Lei abbia il dovere di esprimersi contro ogni violenza, anche se è rivolta a chi non la pensa come Lei". 

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia

L'altra faccia della protesta: sindacalisti e centri sociali, ecco i No Pass di sinistra in concorrenza coi fascisti. Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 18 ottobre 2021. La discussione attorno al lasciapassare verde accende gli animi e finisce per dividere una realtà già per propria natura assai incline alla frantumazione. Per dirla con le parole di Luciano Muhlbauer, una vita nei movimenti a partire dalla Pantera, questa storia del Green Pass "produce spaccature trasversali e una polarizzazione inutile, anche nel nostro mondo". Cioè a sinistra, in quella più radicale: dai sindacati di base fino ai centri sociali. La discussione attorno al lasciapassare accende gli animi e finisce per dividere una realtà già per propria natura assai incline alla frantumazione.

Volevano assaltare la Cgil a Milano: 40 anarchici denunciati. Letta ammetterà la matrice comunista? Lucio Meo domenica 17 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Green pass e violenza, gli anarchici sono in prima fila e nessuno lo dice. A Milano volevano assaltare la Cgil E’ di due persone arrestate e otto denunciate per interruzione di servizio pubblico, violenza privata, istigazione a disobbedire alle leggi e per manifestazione non preavvisata il bilancio dell’attività della polizia di Milano, che ieri ha bloccato in più occasioni il corteo dei 10mila no Green pass iniziato alle 17.30 e finito dopo più di cinque ore in piazzale Loreto. Si tratta di anarchici, provenienti dai centri sociali. La matrice “comunista” e di sinistra è evidente, senza alcuna responsabilità del Pd, ovviamente. Ma se è stati chiesto a Fratelli d’Italia e alla Meloni di condannare, con un esplicito riferimento alla violenza fascista, gli assalti alla Cgil dell’altro sabato, Enrico Letta e gli altri leader del centrosinistra faranno altrettanto con le violenze di Milano. La manifestazione, senza preavviso, ha attraversato il centro della città tentando, senza riuscirci, di avvicinarsi alla stazione, alla Regione Lombardia, alla sede del Corriere della Sera e alla Cgil. Degli oltre 100 manifestanti identificati, la polizia sta valutando la posizione di circa 40 persone aderenti all’area anarchica milanese e varesina per il deferimento all’autorità giudiziaria. Dell’inchiesta su quanto accaduto durante il corteo No Green pass si occupa il capo del Pool antiterrorismo della Procura di Milano, Alberto Nobili, il quale ha elogiato le Forze dell’ordine per la loro capacità, come accade da settimane, di “gestire il disordine”, ovvero di riuscire a contenere cortei variegati e senza una guida precisa.  Il pm milanese ha più volte sottolineato come in questi cortei vi sia il rischio di infiltrazioni di estremisti di destra e anarchici e ieri, in alcune circostanze, sono stati questi ultimi a cercare di prenderne la testa, inutilmente. “Con decisione, ma allo stesso tempo senza arrivare a scontri aperti, le Forze dell’ordine sono riuscite a tenere sotto controllo migliaia di persone”, ha spiegato il magistrato.

I partiti litigano sulla piazza della Cgil. Ancora tensione nel giorno del voto. Il centrodestra sulla manifestazione: violato il silenzio elettorale. Il centrosinistra replica: occasione per tutti, sbagliato disertarla. Paola Di Caro su Il Corriere della Sera il 17 ottobre 2021. La certezza è che, comunque vada il voto, se ne tornerà a parlare. Perché la manifestazione dei sindacati di San Giovanni ha spaccato il mondo politico: da una parte il centrosinistra, che ha trovato doveroso partecipare e incalza gli avversari: «Nessuno doveva sottrarsi — spiega la capogruppo alla Camera del Pd, Debora Serracchiani — era un momento di unità»; dall’altra l’intero centrodestra che ha disertato un appuntamento «strumentale» e «in violazione del silenzio elettorale». Facile immaginare che da oggi il centrodestra, soprattutto per Roma, chiamerà in causa la manifestazione come fattore distorsivo, sia in caso di sconfitta sia di vittoria. Ha già attaccato ieri Giorgia Meloni: «Nella manifestazione contro tutti i fascismi e gli estremismi sventola la bandiera dell’Unione Sovietica, ovvero uno dei regimi più sanguinari della storia dell’umanità. Ale’», il commento su Facebook a una foto di San Giovanni. E poi, al seggio, ha aggiunto che «votare è importantissimo», i politici «sono lo specchio della società che rappresentano: ce n’è di buoni e di cattivi, bisogna saper scegliere» ma sulla manifestazione è stata definitiva: «Mica sono come il Pd che viola il silenzio elettorale». «C’è un regime totalitario (ancora al potere in certi Paesi) che ha lasciato dietro sé morte e povertà. È lo stesso che tra pugni chiusi e bandiere rosse veniva omaggiato in piazza ieri. Per chi non volesse rinunciare alla memoria, si chiama comunismo?», ha aggiunto per FdI Daniela Santanché.Se il candidato Enrico Michetti ha scelto un polemico no comment («Noi rispettiamo la legge sempre»), e Salvini ieri non è intervenuto dopo aver censurato duramente il giorno prima la manifestazione, è Licia Ronzulli a dar voce all’irritazione di Forza Italia: «Abbiamo scelto di non andare in piazza a Roma con chi nel corso di una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti, si vuole arrogare il diritto di dividere l’Italia tra buoni e cattivi, tolleranti e intolleranti, fingendo che gli estremismi siano solo di una parte». E dunque a una «inopportuna passerella abbiamo preferito essere sui territori, tra i nostri elettori e tra i cittadini». «Purtroppo —chiosa Fabrizio Cicchitto — la manifestazione dei sindacati si è tradotta in una sostanziale rottura del giorno del silenzio elettorale e in una manifestazione politica a favore del centrosinistra». Accuse respinte da sinistra. Enrico Letta, su Twitter, pubblica una sua foto al seggio e si limita a un «Buon voto a tutti. Viva la democrazia». Ma è la capogruppo Pd Serracchiani a replicare: «È stata la piazza dei lavoratori, della democrazia, dei valori costituzionali. Una piazza di tutti gli italiani, così come chiesto e voluto dai sindacati, per dare una risposta popolare e democratica all’assalto fascista alla Cgil. Una risposta di unità a cui nessuno avrebbe dovuto sottrarsi», è la contro accusa. Condivisa da Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana: «C’era un popolo pieno di dignità. Antifascista. Perché antifascista è il cuore dell’Italia».

Alla faccia della par condicio: la Cgil ha stracciato le regole. Analisti concordi: "Manifestazione per influenzare il voto". Cardini: "In piazza c'era un'oligarchia". Domenico Di Sanzo su Il Giornale il 18/10/2021. La materia è scivolosa. E se molti costituzionalisti sono convinti che la manifestazione di sabato organizzata dai sindacati non abbia violato - almeno formalmente - la legge sul silenzio elettorale, la politica e l'opinione pubblica sono divise sull'opportunità di convocare un grande evento in cui non sono mancate le coloriture identitarie nel giorno precedente l'apertura dei seggi per i ballottaggi in alcune delle principali città italiane. Compresa Roma, la sfida regina di questo turno. Teatro, a Piazza San Giovanni della sfilata della triplice sindacale e del centrosinistra al gran completo. Dal segretario del Pd Enrico Letta al presidente del M5s Giuseppe Conte. La chiamata a raccolta nel segno dell'antifascismo ha finito per provocare divisioni. Con il centrodestra che ha parlato di «manifestazione di parte» e ha stigmatizzato la violazione del silenzio elettorale e delle leggi sulla par condicio, particolarmente severe prima delle elezioni. Basti pensare alle polemiche, al primo turno, sulla mancata messa in onda da parte della Rai del film Hammamet su Bettino Craxi, ufficialmente per un cambiamento del palinsesto, secondo il figlio del leader socialista Bobo, invece lo sbianchettamento sarebbe stato dovuto alla sua candidatura al consiglio comunale di Roma a sostegno di Gualtieri. Surreale la discussione sulla trasmissione di Rai1 È sempre mezzogiorno condotta da Antonella Clerici. Nella puntata del cooking show del 4 ottobre è stato fatto ascoltare uno spezzone di una canzone di Pippo Franco e si sono registrati risentimenti perché il comico era candidato a Roma con il centrodestra. Per Lorenzo Pregliasco, analista politico e fondatore di You Trend, tutto parte dagli eventi violenti di sabato 9 ottobre, con l'assalto alla Cgil della frangia violenta dei No Pass guidata dai neofascisti di Forza Nuova. «Secondo me - dice al Giornale - sono gli eventi di due sabati fa ad aver avuto come conseguenza potenziale un compattamento del centrosinistra in vista dei ballottaggi, con effetti che potrebbero essere più favorevoli al centrosinistra che al centrodestra». E sulla manifestazione di sabato sottolinea: «In piazza c'erano molti politici di centrosinistra e nel manifesto della Cgil erano presenti temi dell'agenda politica del sindacato come ad esempio l'età pensionabile», riflette. Alessandro Campi, politologo e direttore dell'Istituto di Politica, va oltre e ci spiega che «un sindacato come la Cgil invece di ergersi a paladino dell'antifascismo e custode della democrazia dovrebbe interrogarsi sullo sfilacciamento del suo rapporto con i lavoratori». Molti settori del lavoro «non si sentono rappresentati dai sindacati e con le trasformazioni in atto rischiano di diventare disoccupati anche gli stessi sindacalisti oltre ai lavoratori che dovrebbero rappresentare». Franco Cardini, storico e medievalista, non ha dubbi. Con il Giornale parla di «una manifestazione di potere da parte di un'oligarchia». «È ovvio che la manifestazione della Cgil a poche ore dall'apertura delle urne serva anche a raccogliere dei voti per il ballottaggio - continua lo studioso - soprattutto in questi tempi in cui il colpo d'occhio di una piazza piena può influenzare le elezioni, sta di fatto che sabato lì c'era più che altro il paese legale, completamente scollato dal paese reale».

Fotografie dal passato: i soliti comunisti in piazza. Andrea Indini il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. Alla manifestazione della Cgil i soliti gesti nostalgici: da Bella ciao al pugno chiuso. E i volti in piazza ricordano una sinistra ancorata al passato comunista. Come se il tempo non fosse mai trascorso. Di colpo ieri pomeriggio, mentre Maurizio Landini arringava i 60mila in piazza, è stato come essere catapultati nel passato. Eccola lì la sinistra, radunata sotto il vessillo dell'intramontabile brand dell'antifascismo. Eccola lì, in piazza San Giovanni ("La stessa di Enrico Berlinguer...", fanno presente in molti), a infrangere il silenzio elettorale (loro possono) e tirare la volata a Roberto Gualtieri nella corsa al Campidoglio. I volti sono sempre gli stessi, forse un po' più stanchi, ma comunque i medesimi che calcavano quella stessa piazza e quegli stessi slogan decenni fa. Le foto sbiadite di ieri ci riportano, tutto d'un botto, indietro nel tempo: esattamente come durante i corti del primo maggio e del 25 aprile, rivive uno stanco rito nostalgico che non troverebbe più spazio nell'Italia di oggi se non servisse a dare ossigeno a una parte politica fiaccata dal Partito democratico di Enrico Letta e compagni. L'impatto è una marea rossa. Rosso Cgil, rosso comunista. Ma qua e là, a guardar bene, oltre alle bandiere del sindacato, spuntano anche i drappi russi, non della Russia di Vladimir Putin ma della sanguinaria Unione sovietica, quella dei gulag e delle purghe. Sfondo rosso con la falce e il martello incasellati nell'angolo in alto a destra. Nessuno tra i "democratici" presenti in piazza sembra notare la macabra ironia. Giorgia Meloni sì. "Nella manifestazione contro tutti i fascismi - annota - sventolava la bandiera di uno dei regimi più sanguinari della storia dell'umanità". Forse Landini non l'ha vista, esattamente come non ha visto tutto quello che di stonato c'è stato alla manifestazione indetta dopo l'assalto dei no pass alla sede della Cgil a Roma. "Questa piazza rappresenta tutta l'Italia che vuole cambiare questo Paese e chiudere la storia con la violenza politica", tuona il segretario del sindacato che, in quanto a slogan, sembra rimasto ai tempi in cui incitava allo sciopero le tute blu della Fiom. Quello che Landini sembra non vedere è il vero volto della piazza. Ieri, al suo fianco, non c'era certo "l'Italia che vuole cambiare", ma chi è drammaticamente rimasto ancorato a un passato che non ha saputo evolversi. La rappresentazione plastica di questa nostalgia sta nei gesti e nei volti che spuntano tra i palloncini colorati della Triplice e le bandiere dell'Anpi. A guardarli, mentre si stringono in onore dei fotografi, tornano in mente i tempi dell'Ulivo di Romano Prodi. Ci sono un po' tutti. Immortalato mentre abbraccia Susanna Camusso, troviamo Pier Luigi Bersani. E poi, poco più in là, c'è Massimo D'Alema. I due, il premier mancato e l'ex premier, entrambi rottamati dall'ondata renziana che travolse il Pd, tornano a sentirsi a casa e a spendere buone parole per Gualtieri. "L'Italia siamo noi", recita un cartellone sbandierato con forza da un manifestante. "Bisogna bandire la violenza da qualsiasi iniziativa politica", fa eco un altro ex Cgil, il "Cinese" Sergio Cofferati. Accanto ai big del presente (vedi Letta, Zingaretti e Franceschini) e del passato, sfilano a proprio agio gli outsider che hanno risposto alla chiamata alle armi di Landini. C'è la truppa pentastellata: Giuseppe Conte, teorico del fallimentare matrimonio tra Pd e Movimento 5 Stelle, i ministri Luigi Di Maio e Alfonso Bonafede e la vice presidente del Senato Paola Taverna. "È una grande festa democratica senza colore politico", dice l'avvocato del popolo che in questi giorni, proprio a causa delle nozze coi dem, deve tenere a bada i mal di pancia della base grillina. Le dichiarazioni, tutte di maniera, sembrano fatte con lo stampino. "Oggi non c'è alcuna bandiera, è pretestuoso definirla una piazza elettorale", si accoda pure la sardina Mattia Santori che una decina di giorni fa, in piena campagna elettorale per il Comune di Bologna, aveva sugellato il patto con la sinistra dei salotti andando a pranzo a casa Prodi. Ieri pomeriggio la manifestazione si è conclusa sulle note di Bella ciao. Qua e là molti pugni chiusi puntati verso il cielo terso di Roma. Non avrebbe potuto essere altrimenti. Tutto come sempre. La solita sinistra ancorata al passato e ai suoi fantasmi. 

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leaders 

"È pericolosa la nostalgia degli anni Settanta. Ora stiamo tutti all'erta se no ci scappa il morto". Luigi Mascheroni il 18 Ottobre 2021 su Il Giornale. Quanti sabati e domenica di fila sono, ormai, che la gente va in piazza? Giornate di cortei, manifestazioni, scontri con la polizia, assalti a sedi politiche, città bloccate, feriti... Qualcuno ha evocato gli anni Settanta. Quanti sabati e domenica di fila sono, ormai, che la gente va in piazza? Giornate di cortei, manifestazioni, scontri con la polizia, assalti a sedi politiche, città bloccate, feriti... Qualcuno ha evocato gli anni Settanta, uno dei momenti più tragici della storia recente del Paese. C'è chi magari ne ha nostalgia, altri giustamente paura. Come Pierluigi Battista, scrittore, giornalista e attento osservatore della realtà politica, che nel suo nuovo romanzo «La casa di Roma» (La nave di Teseo) - presentato qui al Salone del Libro di Torino con un grande successo di pubblico è come se ci mettesse in guardia su alcune insidiose analogie. Nel romanzo - storia di una famiglia romana che lungo tre generazioni attraversa il Novecento, dal fascismo a oggi - un intero capitolo è dedicato a due cugini, schierati politicamente su fronti contrapposti, i quali precipitano dentro l'uragano ideologico di disordini e scontri di piazza che esploderà nell'omicidio di Mikis Mantakas, lo studente e militante del Fronte universitario d'azione nazionale, il Fuan, abbattuto da due proiettili davanti alla sezione del Msi di via Ottaviano a Roma era il 28 febbraio 1975 - nel corso degli scontri di strada nei giorni del processo agli imputati accusati del rogo di Primavalle.

Pierluigi Battista: «La casa di Roma» racconta di quello che potrebbe succedere ancora.

«Speriamo di no. Ma sento in giro una insidiosa nostalgia di quei terribili anni 70, una stagione infernale di antifascismo militante, di attacchi a sedi di partiti, di demonizzazione dell'avversario politico che diventa il nemico da annientare, o da escludere dal dibattito pubblico. Dimenticandosi che quegli anni, che qualcuno oggi rimpiange, furono il decennio che ha battuto ogni record degli omicidi politici, e non solo sul piano delle stragi e del terrorismo, nero o rosso che fosse, ma sul piano della vita quotidiana: aggressioni, spranghe, agguati, macchine incendiate, cariche della polizia, morti in strada. Un perenne scontro tra fascismo e antifascismo di bassa intensità ma sanguinoso. Attenzione a evocare spettri... Stiamo parlando di un momento tragico della nostra storia, scherzare è pericoloso».

Può scapparci il morto.

«Certo. Io non voglio fare facili similitudini. Dico solo: stiamo attenti. Negli anni 70 mettere fuori legge piccoli movimenti politici come Avanguardia nazionale o Ordine Nuovo non fu per niente utile. Non ricadiamo nello stesso errore. Prendere un'idea malata e cacciarla dentro il recinto infetto dell'illegalità sarà foriero di ulteriori violenze. Se Giuliano Castellino e Roberto Fiore commettono un crimine, come l'assalto alla sede della Cgil, devono essere arrestati e rispondere di quell'atto. Ma sciogliere il loro movimento porterebbe pericolosamente indietro l'orologio della Storia. E metto in chiaro le cose: io non ho alcuna simpatia per Forza Nuova, anzi mi hanno portato a processo per averli definiti cialtroni. Ma un conto è perseguire un reato, un altro voler cancellare una forza politica, piccola o grande che sia».

L'impressione è che si voglia demonizzare Forza Nuova per colpire meglio Fratelli d'Italia e Giorgia Meloni, che hanno grandi consensi, collegando strumentalmente le due cose.

«E riecco gli anni Settanta. Lo ripeto: attenzione, attenzione, attenzione. In quella stagione gli estremisti di sinistra gridavano: Msi fuorilegge, a morte la Dc che lo protegge. Volevano mettere fuori gioco l'Msi imbrattando di fascismo anche la Democrazia cristiana, che era il loro vero avversario. Anzi: il nemico, cioè il Male assoluto. Tutto ritorna».

È ritornata anche un'espressione che volevamo dimenticare: «strategia della tensione».

«Sì, ma usata malamente, come se dietro gli scontri di piazza e le proteste ci fosse una regia occulta, un qualcuno che ha deciso nell'ombra come manovrare a suo piacimento il Paese. Quell'espressione è la radice di tutti i complottismi, è l'idea paranoica degli anni 70 che ci fosse un filo segreto che collega tutto e tutti, da piazza Fontana alle Br, in un unico disegno eversivo pensato da oscuri burattinai. Un'idea completamente sbagliata allora come è sbagliata oggi. E allora come oggi non c'era e non c'è una strategia, ma una forte tensione sì: una paura e un'inquietudine diffuse. Io non sono preoccupato di una possibile regia, che non c'è, ma del clima di violenza che si diffonde, e del ritorno di quel fantasma creato negli anni 70 che si chiama neofascismo: è da allora che il nemico da azzerare lo si chiama fascista. Così non si fa altro che radicalizzare lo scontro. Ma poi: proprio quella sinistra che vuole essere inclusiva con tutti chiede di cancellare qualcuno? L'avversario non va cacciato in un ghetto, ma costituzionalizzato».

Quello della costituzionalizzazione degli estremismi è un discorso vecchio, e irrisolto

«Infatti. E comunque, sia chiaro: ciò vale per la sinistra come per la destra. È altrettanto sbagliato voler chiudere i centri sociali, come a volte chiedono Salvini e Meloni. Compito della politica è ricomprendere le ali estreme, non di buttarle in galera. Non si deve chiudere niente! Che democrazia è quella che accetta di vedere sparire i centri sociali o anarchici o neofascisti? E poi è irresponsabile: il rischio è che esploda una guerra civile».

Qualcuno dice che è irresponsabile anche come si è gestita la protesta contro il green pass. Chi c'è dentro o dietro questo movimento?

«Dietro direi nessuno. Dentro c'è un po' tutto: per me è un calderone in cui ribollono - pericolosamente tante cose: neofascisti, anarco-insurrezionalisti, estremismi di destra come di sinistra. Solo che la sinistra, con il solito doppiopesismo che la contraddistingue, tende a ingigantire i primi e dimenticare i secondi. Preferisce l'unidirezionalità: più semplice e più utile. E poi dentro il movimento che dice no al green pass ci sono anche rabbie e paure che vanno a toccare nodi delicatissimi del diritto al lavoro. Attenzione: quando si dice che un'azienda che ha meno di 15 lavoratori può sostituire chi non ha il green pass, si sta dicendo che può licenziare. Io sono graniticamente a favore del green pass, ma non sottovaluto la forte fiammata di tensione sociale cui stiamo assistendo e in cui convergono risentimenti, rancori, crisi economica, posti di lavoro perduti, dolore e lo sciacallaggio dei politici che in tutto questo ci nuotano come pesci...».

Quale sarà l'effetto di tutte queste giornate di manifestazioni e scontri?

«Non lo so. Ma mi ha molto colpito una cosa nelle rivolte delle scorse settimane: che accanto ai gruppi diciamo militarizzati che cercavano lo scontro con la polizia ci fossero anche persone non inquadrate in precisi movimenti politici, ma che non indietreggiavano quando i poliziotti caricavano, e dicevano: Uccideteci tutti!. Ho paura di quello che cova sotto la cenere. E dico di stare all'erta».

In quel capitolo del suo romanzo La casa di Roma racconta proprio questo: come si iniziò con i cortei, poi si arrivò agli scontri, poi le spranghe, poi alle molotov e le pistolettate

«Infatti. E in tutto questo il terrorismo non c'entra. Qui non stiamo parlando di Br ma del movimento del 77, cioè di qualcosa che alimentò una violenza endemica diffusa che mise in ginocchio il Paese. E rischiare tutto questo - lo dico alla Sinistra - per uno strumentale gioco politico e mettere in difficoltà un partito, sto parlando di Fratelli d'Italia, che comunque ha un importante consenso popolare, è una cosa da pazzi. E pericolosa».

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi

L'antifascismo corrotto dalla sinistra. Fiamma Nirenstein il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'antifascismo è una battaglia sacrosanta, le leggi che ci conservano la democrazia contro i cosiddetti «rigurgiti» (che strana espressione) sono la cassaforte che ne proteggono l'universalità. L'antifascismo, però, deve appunto essere propagato e protetto in nome della democrazia, tutta. Invece non funziona così quando l'antifascismo diventa «militante». In quest'ottica, il nemico è stato storicamente di destra. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, la sinistra ha avuto buon gioco a lavare i suoi crimini e i suoi errori tingendo solo di «nero» le acque della violazione dei diritti umani. La battaglia antifascista e l'esaltazione dell'epopea partigiana si sono sviluppate lasciando che al sogno della libertà si sovrapponesse quello di una società socialista o comunista. L'antifascismo ha così perso la sua universalità, ed è stato un peccato. Una parte della Resistenza, quella cattolica di Dossetti, Gorrieri, Tina Anselmi e dei preti fuggiti in montagna, è stata cancellata dalla figura del partigiano rosso. Inoltre, per la narrazione antifascista la vittoria russa sui tedeschi è stata mitizzata nonostante il comunismo mostrasse sin dal principio molte somiglianze con il totalitarismo di destra: ipernazionalismo, militarismo, glorificazione e uso della violenza, feticizzazione della giovinezza, della mascolinità, del culto del leader, della massa obbediente, gerarchica e militarizzata, e anche razzismo e odio antisemita. Il doppio standard è da sempre una caratteristica dell'antifascismo militante. La Brigata Ebraica, che in un miracolo di eroismo, in piena Shoah, portò dei giovani «palestinesi» ebrei a combattere sul nostro suolo contro i nazifascisti, è stata sconfessata e vilipesa nelle manifestazioni Anpi perché Israele non è gradita a sinistra. Non erano antifascisti? E non era invece nazi-fascista il muftì Haj Amin Al Husseini che con Hitler progettava lo sterminio degli ebrei? Quanti sono stati tacciati di fascismo solo perché non di sinistra? Il lavoro di bonifica dell'unità nazionale intorno alla Resistenza è stato valoroso, ma il termine antifascista deve prescindere dall'appartenenza politica, perché la genesi della Repubblica Italiana deve diventare finalmente patrimonio comune. Ma quanto è duro mandare giù questo rospo quando le radici culturali affondano nel terreno comune, acquisito, politicamente stratificato, del socialismo. La cosa vale per l'Europa intera, ambigua e ammiccante: dici democrazia, ma alludi a un'utopia socialista, almeno sospirata. Molte delle difficoltà della Ue, infatti, risiedono nel sogno palingenetico post bellico, quando l'antifascismo caricò a bordo il sogno socialista invece di fare i conti con la soggettività dei Paesi europei. Perché anche «nazione» può non essere una parolaccia, se non ha mire oppressive ed espansive. Occorre deporre sul serio le ideologie del Novecento per restare antifascisti veri. Cioè, amanti della democrazia. Fiamma Nirenstein

Anche l'Anpi soffia sul fuoco: "FdI ha cultura fascista". Giuseppe De Lorenzo il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. I partigiani si schierano con Provenzano per mettere fuori Meloni dall'arco democratico: "Giusto il paragone con Msi fuori dall'arco costituzionale". In fondo c’era da aspettarselo. La sparata di Peppe Provenzano su Fdi e l’”arco democratico e repubblicano” non poteva che trovare l’appoggio dell’Anpi. Scontato. Non poteva essere altrimenti: la fantomatica lotta al fascismo, oggi che il fascismo rimane solo negli incubi di certi ossessionati, si traduce nella guerra a Fratelli d’Italia, colpevole di conservare nel cuore del proprio simbolo la fiamma ardente del Movimento Sociale Italiano. E l'Anpi su questo è sempre in prima fila. “Provenzano si è riferito a un presupposto politico degli anni ’70 - ha detto Gianfranco Pagliarulo, presidente dell’Associazione dei partigiani all'agenzia AdnKronos- quando si parlava dell’arco costituzionale riferendosi a tutti i partiti ad eccezione del Movimento Sociale Italiano”. Una “metafora” corretta perché “la cultura fascista è talmente incistata in Fratelli d'Italia che il simbolo è lo stesso dell'Msi, la fiamma tricolore, segno di una scelta consapevole di continuità politica”. Per carità, per Pagliarulo i contesti sono diversi (deo gratias), ma il discorso non cambia. Se il Msi era da tagliare fuori, lo è oggi anche FdI. E Fiuggi? E An? E il partito di destra che ha governato il Paese segnando un decennio? Cosa facciamo: li buttiamo nel water e tiriamo lo sciacquone antifascista, per far tornare la lotta destra-sinistra all’età degli anni di Piombo? Evidentemente sì. Sono però almeno tre gli errori commessi dall’Anpi. Primo. Nel passato con “arco costituzionale” ci si riferiva ai quei partiti che avevano eletto deputati alla Costituente e che dunque avevano partecipato alla scrittura della Carta. Il Msi, per ovvi motivi, venne escluso da questo consesso, anche se neppure il Pci si sognò mai di chiudere il partito di Almirante. Tutto questo, comunque, con FdI non c'entra un bel nulla: anche il Pd, che alla scrittura della Costituzione non ha partecipato, sarebbe tecnicamente “fuori dall’arco costituzionale”. Chiaro? Secondo strafalcione: Provenzano ha utilizzato termini differenti e ben più gravi. Il piddino ha infatti posto FdI fuori dall’arco “democratico e repubblicano”, che è molto peggio. Intanto perché non ha motivazioni storiche. E poi perché “democratico” e “repubblicano” FdI lo è sicuramente, checché ne dica Provenzano. Primo: partecipa alle elezioni legittimamente, come richiede “democrazia”. Secondo: non ha mire monarchiche né tantomeno dittatoriali. È così difficile da accettare? Il terzo errore dell’Anpi è quello di imputare a FdI l’eredità del Msi prima e di An poi. Senza dubbio vi è continuità ideale. E quindi? La paura che il Movimento Sociale tentasse di instaurare una nuova dittatura fascista poteva esistere nei primi anni della neonata Repubblica, non oggi. Chiediamo forse ai romani di dichiararsi anti-papisti per paura che torni lo Stato Pontificio? O ai francesi di firmare un documento anti-napoleonico? Suvvia. Rivendicare la fiamma che arde nel proprio simbolo significa collegarsi idealmente ad un comune sentire. Non significa essere “fascisti” o avere una “cultura fascista”. Significa riconoscersi in una comunità, in una cultura politica che è cresciuta nel Msi, è maturata in An ed è diventata oggi Fratelli d’Italia. Si può essere di destra, senza per questo diventare automaticamente delle squadracce nere fasciste. In fondo l’ultimo segretario del Msi fu Massimo Fini, che è stato terza carica dello Stato. Nessuno oggi potrebbe dire che An, che pure nel simbolo faceva ardere la stessa fiamma, sia stata una minaccia per la democrazia o la repubblica. O no? Anche perché, se applicassimo lo stesso metro, dovremmo dire che “la cultura” dell’Anpi è “incistata” dalle violenze del triangolo della morte emiliano. O che si pone in continuità con le stragi partigiane. È così? Ovviamente no. Allo stesso modo, Bersani può tranquillamente dire nel 2021 che il comunismo significhi ancora per lui “uguaglianza come uguale dignità”. Qualcuno gli fa mai notare che il “comunismo” significa Gulag, Stalin, Praga, Budapest e le foibe di Tito? No. Perché una cosa è la storia, un’altra le idee. Che crescono, si modificano, evolvono. Senza necessarie abiure totali. Meloni, peraltro, ha già condannato tutto il condannabile sul fascismo. Senza ambiguità.

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad  

"La scuola progressista genera disuguaglianza. Sanzioni ai docenti che attestano il falso". Gabriele Barberis il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. "Ecco il vero danno scolastico". Il saggio del sociologo e della scrittrice Paola Mastrocola. Torna in campo il sociologo Luca Ricolfi, mente lucida e voce critica dell'area liberal-progressista. Con la moglie Paola Mastrocola (scrittrice, premio Campiello 2004 ed ex docente) ha appena scritto il libro «Il danno scolastico» che denuncia le gravi responsabilità della sinistra sullo scadimento dell'istruzione pubblica.

Professor Ricolfi, un saggio sulla scuola progressista come macchina della disuguaglianza. Scusi la provocazione, ma dove sarebbe la novità?

«Forse non è una novità per lei, ma forse non sa che la stragrande maggioranza dei miei colleghi sociologi non ha mai riconosciuto né analizzato l'impatto della qualità dell'istruzione sulla diseguaglianza. In questo libro noi dimostriamo, credo per la prima volta, che più la scuola abbassa il livello, più si allarga il divario fra le chance di promozione sociale dei ceti bassi e quelle dei ceti alti: la scuola senza qualità è un regalo ai ricchi. E la dispersione scolastica, su cui da decenni ci si straccia le vesti, è anche un effetto non voluto dell'abbassamento».

I danni dell'«istruzione democratica» sono il fardello finale del Sessantotto o ci sono responsabilità più recenti da parte di una sinistra ideologica?

«Sì, ci sono responsabilità posteriori al '68, ma ce ne sono anche di anteriori, prima fra tutte la istituzione della scuola media unica (1962), con la progressiva eliminazione del latino e il costante annacquamento dei programmi. Per non parlare dei danni del donmilanismo (Lettera a una professoressa è del 1967), un'ideologia che avrebbe avuto un senso negli anni '50, ma che alla fine dei '60, quando si diffuse, era divenuta del largamente inattuale e profondamente anti-popolare».

E le responsabilità successive al Sessantotto?

«Sono innumerevoli, a tutti i livelli. A partire dalla liberalizzazione degli accessi (1969), passando per la soppressione della figura del maestro unico alle elementari (1990), fino alle grandi riforme della fine degli anni '90 nella scuola e nell'università, con la trasformazione delle scuole in pseudo-aziende e delle università in esamifici: il capolavoro del ministro Berlinguer».

Lei elenca casi concreti di totale ignoranza o scarsa capacità di comprensione da parte di studenti universitari preparati male. Prevede una classe dirigente nazionale fatta da figure incompetenti e inadeguate?

«Più che prevederla, la osservo. L'abbassamento è iniziato quasi 60 anni fa, e quindi ha avuto tutto il tempo di produrre un ricambio completo di classe dirigente. Direi che lo spartiacque è negli anni '70: chi è nato dopo non ha più usufruito di un'istruzione decente, semplicemente perché la maggior parte di coloro che avrebbero potuto impartirgliela era uscito di scena, e la maggior parte dei nuovi docenti avevano un livello di preparazione decisamente meno soddisfacente. Naturalmente non mancano le eccezioni (pessimi docenti di ieri, ottimi docenti di oggi), ma il trend è quello che è: chiaro e inesorabile».

Vogliamo parlare anche di docenti non all'altezza, se non imbarazzanti in certi casi? Anche loro sono passati attraverso le maglie larghe dell'egualitarismo?

«Il problema non è solo l'egualitarismo, o meglio l'egualitarismo malinteso che ha dominato la scena per mezzo secolo. Il punto cruciale, quello che rende i problemi dell'istruzione maledettamente complicati (e probabilmente irrisolvibili), è che la maggior parte delle famiglie e degli studenti hanno oggi altre priorità, e nuove scale di valori: la priorità numero 1 è il consumo, e la sciatteria non è considerata un difetto. Bastano queste due circostanze, che ogni docente trova bell'e fatte davanti a sé, a ostacolare enormemente il lavoro di chi prova a insegnare qualcosa».

Le riforme Moratti e Gelmini, varate durante i governi di centrodestra, hanno tentato di correggere storture ideologiche del passato. Come ne giudica gli effetti ad anni di distanza?

«Direi che, se ci hanno provato, hanno fallito completamente. Ma a mio parere non ci hanno provato granché, probabilmente perché condividevano un punto centrale delle mode degli anni '90: l'idea che la scuola vada pensata come un'azienda, di cui va valutata l'efficienza, e i cui azionisti di maggioranza sono le famiglie. Su questo punto cruciale vedo poche differenze fra destra e sinistra».

Se lei fosse il ministro dell'Istruzione quale provvedimento adotterebbe d'urgenza?

«Come sociologo, penso che dovremmo avere il coraggio di ammettere che ci sono problemi sociali non risolvibili. O meglio, ormai non più risolvibili perché si è lasciato passare troppo tempo. Quindi non ho proposte, tutt'al più provocazioni per far capire qual è il problema.

Una provocazione?

«Beh, un'idea ce l'avrei. Così come si parla di responsabilità civile dei giudici, si dovrebbe introdurre il principio di responsabilità certificativa (si può dire così?) del docente: se attesti che un allievo possiede certe conoscenze e competenze, ma lui ne risulta evidentemente sprovvisto, tu docente ne rispondi, come un perito che è responsabile della perizia che firma. Basterebbe questo a frenare lo scandalo più grave della scuola e dell'università, ossia il rilascio di certificati che attestano il falso».

Doppia domanda come analista politico. Dove sfocerà la tensione politica sul green pass? Se Draghi diventerà presidente della Repubblica, si immagina un'Italia che torna alle urne tra pochi mesi al culmine di un clima di odio?

«Alla fine credo che il governo dovrà concedere qualcosa a chi non vuole né vaccinarsi, né accollarsi, per poter lavorare, 100-150 euro al mese di spesa per i tamponi. Quanto a Draghi presidente della Repubblica, la conseguente andata alle urne a primavera mi pare difficilmente evitabile. Però mi chiedo: siamo sicuri che votare nel 2022 sarebbe un male peggiore che andare alle urne nel 2023? In fondo prima o poi al voto dovremo andare. E sarebbe anche ora, visto che è da 13 anni che non riusciamo più a scegliere i nostri governanti».

Chiudiamo con la giustizia. Le continue invasioni di campo della magistratura condizionano la politica. Anche per lei sarebbe positivo il pieno ritorno dell'immunità costituzionale per i parlamentari per frenare lo strapotere delle procure?

«Anche in questo caso, come in quello della scuola, bisognerebbe prendere atto che una soluzione soddisfacente non esiste, e che siamo costretti a scegliere fra due mali. Nel 1993 il male maggiore era, o sembrava, il vizietto del Parlamento di negare in automatico l'autorizzazione a procedere. Dopo quasi trent'anni, il male maggiore è, o sembra, il protagonismo dei Pm, che ora si accanisce anche nei confronti dei sindaci. Di qui, per noi liberali e garantisti, il paradosso: la magistratura è caduta così in basso che siamo tentati di invocare l'immunità per un ceto politico che sappiamo essere il peggiore di sempre».

Gabriele Barberis Caporedattore Politica, Il Giornale

Orlando Sacchelli per ilgiornale.it il 14 ottobre 2021. Milano, 25 aprile 2016. Al campo X del cimitero Maggiore si ritrovano alcune centinaia di persone per commemorare i caduti della Repubblica sociale italiana. Lo fanno ogni anno. A un certo punto, alla chiamata del "presente", fanno il saluto romano. Alcuni vengono identificati e indagati, sulla base di quanto prevede la Legge Mancino, per apologia del fascismo. Ora, a distanza di cinque anni, la Cassazione scrive la parola fine e annulla la condanna dei quattro imputati, tra cui il presidente dell'associazione Lealtà Azione, Stefano Del Miglio. Nel processo di primo grado gli imputati furono tutti assolti, con la riqualificazione del fatto in articolo 5 della legge Scelba. Ma la procura si oppose e ricorse in appello, con la V sezione penale che riqualificò il fatto riportando l'articolo 2 della legge Mancino: gli imputati furono condannati a due mesi e 10 giorni di carcere. La sentenza fu impugnata e si è arrivati davanti ai giudici della Cassazione. All'udienza del 12 ottobre, discussa davanti alla I sezione penale, il procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso proposto dalla difesa e la conferma della sentenza di appello. La suprema corte però ha riconosciuto le ragioni esposte dalla difesa, annullando senza rinvio la sentenza di appello perché "il fatto non sussiste". "Siamo soddisfatti del risultato ottenuto all'udienza del 12 ottobre - commenta all'Adnkronos l'avvocato Antonio Radaelli -. Attendiamo il deposito delle motivazioni per capire l'iter logico della Suprema Corte di Cassazione. Resta il punto che compiere il saluto romano in ambito commemorativo, proprio come è accaduto in questo caso, non è reato".

La sinistra non è di sinistra. Pietrangelo Buttafuoco su Il Quotidiano del Sud il 12 Ottobre 2021. «Se sindacati, partiti (di sinistra?), pseudo-intellettuali e giornaloni si fossero scagliati contro l’abolizione dell’articolo 18, lo sblocco dei licenziamenti, le delocalizzazioni, i salari da fame e la trasformazione della FIAT in una multinazionale di diritto olandese controllata dai francesi come oggi si stanno scagliando contro il ‘presunto’ ritorno del fascismo, beh, l’Italia sarebbe un paese migliore». Così parla Alessandro Di Battista – sempre diretto – e il suo ragionamento non fa una grinza, non fa una grinza, non fa una grinza. A riprova che la sinistra non è di sinistra (è solo radical, e moralista).

La galassia comunista che incita a "insorgere". Ma nessuno s'indigna. Dai Carc ai leninisti, tutti contro il green pass. Ieri incendiata l'immagine di Draghi.  Paolo Bracalini il 12/10/2021 su Il Giornale. Sul fronte dei disordini sociali e dei cortei violenti la sinistra estrema non ha nulla da invidiare a Forza Nuova e affini, anzi. Nelle manifestazioni no green pass erano infatti presenti anche i centri sociali, anche se il protagonismo del gruppetto di Fn ha dirottato l'attenzione e fatto passare l'idea che il mondo no vax e no green pass sia animato solo della destra estrema. Non è così, anzi in generale tra i movimenti che vedono nel «banchiere» Mario Draghi uno strumento delle élite finanziarie per chissà realizzare in Italia chissà quale piano occulto (il «grande reset» è l'ultima fantasticheria di questi ambienti), la sinistra radicale è presente in forze. Giusto ieri un gruppo di studenti antagonisti durante il corteo dei sindacati di base a Torino ha dato fuoco a una gigantografia del premier Draghi, mentre a Milano cori e insulti contro la Cgil e Landini «servi dei padroni». La matrice ideologica è opposta (là il neofascismo, qui il marxismo-leninismo) ma con esiti identici e spesso anche slogan identici (entrambi parlano di «lavoratori» e «popolo» oppressi dai «poteri forti»). Le organizzazioni che si richiamano esplicitamente alla lotta di classe leninista e alla resistenza contro il «governo capitalista italiano» sono svariate. Il «Partito Marxista-Leninista Italiano» con sede a Firenze, ad esempio, sostiene che «il governo del banchiere massone Draghi, al servizio del regime capitalista neofascista, deve ritirare immediatamente il decreto sul green pass perché le lavoratrici e i lavoratori che sono contrari non possono e non devono essere sospesi dal lavoro e privati del salario». Il partito, che pubblica un settimanale dal titolo Il Bolscevico (foto di Mao), a settembre ha organizzato una commemorazione per il 45 anni dalla scomparsa di Mao, per riflettere sugli insegnamenti sulla «lotta di classe per il socialismo». Nei suoi manifesti Draghi viene rappresentato come un drago con i simboli di Bce, euro e massoneria, mentre gli ebrei di Israele sono «criminali nazisti sionisti» che vanno fermati con la resistenza palestinese fino alla vittoria» (foto di un palestinese a volto coperto che lancia una pietra con una fionda). Poi ci sono il «Partito dei Carc» (Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo), sede a Milano, il cui obiettivo è «insorgere», che significa - spiegano - costruire un fronte per cacciare Draghi e imporre un governo che sia espressione delle masse popolari organizzate». Anche i Carc sono no-pass, la loro tesi è che i fascisti sono stati infiltrati dal governo per screditare il movimento popolare contro il green pass, «imposto da Draghi e da Confindustria». I Carc negli anni scorsi sono stati protagonisti di scontri e vicende giudiziarie, insieme al «Nuovo Partito Comunista Italiano», che invita i compagni rivoluzionari a «violare la legalità borghese», cioè a commettere reati, sull'esempio di Mimmo Lucano. Con toni un po' meno minacciosi, anche altre due organizzazioni di estrema sinistra, «Rete Comunista» e «Partito di Alternativa Comunista» a lottare contro il governo Draghi e i suoi mandanti, e contro il green pass, uno strumento creato «per tutelare gli interessi economici della borghesia». Idee e posizioni, come si vede, speculari a quelle di Forza Nuova. E spesso, come per i centri sociali e i movimenti antagonisti, altrettanto violente.

Gli apprendisti stregoni. Tutti uniti contro i fascisti, ma parliamo anche di un altro paio di cosette tra noi. Francesco Cundari su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. In troppi hanno attizzato il fuoco, rilanciando e legittimando posizioni completamente infondate, notizie semplicemente false e teorie politiche deliranti. Una volta spento l’incendio, bisognerà discuterne molto seriamente. L’assalto di sabato alla sede della Cgil, invasa e devastata da fascisti e no vax provenienti dal corteo contro il green pass, e il tentativo di fare lo stesso con il Parlamento, sventato in extremis dalle forze dell’ordine, rappresentano quanto di più vicino all’attacco del 6 gennaio al Congresso americano sia capitato in Italia, almeno finora. Dietro il paradossale connubio di movimenti di estrema destra e parole d’ordine anarco-libertarie s’intravede un sommovimento profondo che non tocca soltanto il nostro Paese. Dietro i neofascisti che gridano slogan contro la dittatura (sanitaria, s’intende), dietro gli squadristi che hanno devastato la sede della Cgil – e che in piazza gridavano «Libertà! Libertà!» – non è difficile vedere lo stesso magma che in Francia alimenta le proteste di piazza in cui Emmanuel Macron viene paragonato a Hitler e le misure anti-Covid al nazismo, raccogliendo il consueto impasto di estrema destra, gilet gialli e ultrasinistra populista (Jean-Luc Mélenchon, il massimo esponente di quella che potremmo definire la linea giallorossa d’Oltralpe, si è schierato contro il green pass con parole analoghe a quelle usate qui da Giorgio Agamben e Massimo Cacciari). Per non parlare degli Stati Uniti, dove la presa di Donald Trump sul Partito repubblicano è ancora fortissima, i no vax numerosissimi e aggressivi, e la situazione assai più pericolosa di quanto possa sembrare a prima vista. Il rischio di un cortocircuito tra crisi sanitaria e crisi sociale è alto ovunque, e l’Italia non fa eccezione, come denuncia proprio l’inatteso richiamo delle manifestazioni di sabato e la violenza che da quelle dimostrazioni si è sprigionata. Si tratta di episodi gravi, in se stessi e per quello che promettono per il futuro, in vista del 15 ottobre, data in cui entrerà in vigore l’obbligo del green pass sui luoghi di lavoro. È dunque altamente auspicabile una presa di coscienza generale del pericolo, anzitutto da parte delle forze politiche, ma anche dei mezzi di comunicazione e di tutti coloro che hanno una qualche influenza sul dibattito pubblico. C’è bisogno della più larga unità e della massima fermezza, ed è giusto subordinare a questa priorità ogni altra esigenza. Compresa quella di chiarire un paio di cose, che prima o poi andranno chiarite comunque, ai tanti che finora hanno giocato sul filo dell’ambiguità, per non dire di peggio, rilanciando e legittimando posizioni completamente infondate, notizie semplicemente false e teorie politiche deliranti, offrendo ai propalatori di una simile spazzatura tribune autorevoli e spazi assolutamente ingiustificati. In troppi hanno contribuito irresponsabilmente ad attizzare il fuoco, e bisognerà discuterne a fondo, perché una simile tendenza mette in luce una fragilità strutturale della democrazia italiana, o perlomeno del nostro dibattito pubblico. Adesso, però, occorre pensare a spegnere l’incendio, che fortunatamente, nonostante tutto, appare ancora relativamente circoscritto. Delle sue origini parleremo poi. Ma presto o tardi ne dovremo parlare. Eccome se ne dovremo parlare.

"Una protesta pacifica infiltrata da utili idioti. Le teste rasate usate: si scredita il dissenso". Luigi Mascheroni l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il filosofo del "pensare altrimenti": "Dire No al pass non è né di destra né di sinistra, il movimento è a-politico. Ora si limiteranno le manifestazioni". Diego Fusaro, filosofo del «pensare altrimenti», né di destra né di sinistra, lo ha scritto in modo chiaro nel suo nuovo libro, Golpe globale. Capitalismo terapeutico e grande reset (Piemme): l'emergenza è diventata un metodo di governo, che sfrutta la paura del contagio per ristrutturare società, economia e politica mentre è la sua tesi - diritti e libertà fondamentali vengono sospesi.

Diego Fusaro, cosa è successo ieri a Roma?

«È successo che sono scesi in pazza moltissimi italiani in forma pacifica e democratica: uomini, donne, famiglie, anziani e lavoratori che vogliono dire no all'infame tessera verde chiamarla green pass è già legittimarla e poi, puntualmente, è arrivato un gruppo di scalmanati con la testa rasata che ha usato una violenza oscena e inqualificabile che, a sua volta, ha giustificato una violenza di ritorno da parte del potere. E così sono stati etichettati come violenti tutti quelli che hanno manifestato, quando invece così non è».

Perché dice puntualmente?

«Perché accade sempre così: movimenti di protesta pacifici e democratici vengono infiltrati da gruppi di utili idioti che il potere usa di volta in volta per creare una tensione per citare la celebre strategia - che non ha nulla a che vedere con i pacifici manifestanti che in maniera democratica si oppongono a un provvedimento che reputano illegittimo».

Quindi ieri un movimento moderato di piazza è stato inficiato da un una minoranza di teste calde.

«Una modalità prefetta per screditare il dissenso».

È possibile che gli opposti estremismi, a destra e sinistra, si saldino nella protesta contro il green pass?

«Non ho elementi per dirlo. Ciò almeno non avviene nelle piazze Non finora. Quello che so invece è che dire No al green pass non è né di destra né di sinistra né di centro. È una protesta che non ha matrici ideologiche e davvero trasversale - tanto è vero che ci sono anche pezzi dell'estrema destra e dell'estrema sinistra invece favorevoli al green pass - che tiene dentro tutte le anime della politica, da quella socialista a quella liberale Al di là delle teste rasate che vanno in piazza e dei filosofi di sinistra che stanno nei talk show o sui social, è un movimento a-ideologico che riguarda gente comune che non accetta l'esproprio dei diritti costituzionali. Che poi qualcuno voglia capitalizzare politicamente il dissenso, questo va da sé».

Ci sono delle colpe in quello che è successo ieri? Qualcuno ha soffiato sul fuoco?

«No, non credo. Chi doveva vigilare ha fatto quello che doveva fare. La gente che era in piazza era gente tranquilla, fino a che è arrivato qualcuno che mi è sembrato organizzato - col compito di rovinare la protesta pacifica. Le colpe non sono né delle forze ordine né dei manifestanti, ma di qualcun altro».

Cosa succederà ora?

«Temo che adesso ci sarà un inasprimento nel modo di trattare chi si oppone alla famigerata infame tessera verde. Si limiteranno spazi e modi di aggregazione e raggruppamento, si generalizzerà dicendo che tutti sono facinoroso e violenti E così chi ha organizzato devastazioni e assalti di ieri avrà raggiunto lo scopo. Screditare chi va in piazza e criminalizzare la protesta in quanto tale. Io resto fermamente convinto che occorra opporsi, in maniera pacifica e democratica, alla tessera verde della discriminazione e del controllo totalitario delle esistenze».

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021). 

Gli sfascisti. Francesco Maria Del Vigo l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Più che fascisti chiamiamoli sfascisti, i delinquenti che hanno devastato Roma. Perché sabato in piazza non c'era solo qualche vecchio arnese dell'estrema destra. Più che fascisti chiamiamoli sfascisti, i delinquenti che hanno devastato Roma. Perché sabato in piazza non c'era solo qualche vecchio arnese dell'estrema destra. Capiamo che la sinistra, a corto di idee, abbia la necessità elettorale di trovare un nemico a tutti i costi, se possibile il «nemico assoluto», cioè quel fascismo morto e sepolto più di settant'anni fa. Tra pochi giorni si tornerà alle urne e, crollato l'impianto accusatorio del caso Morisi e finita l'eco delle inchieste giornalistiche su Fidanza e Fdi, c'era bisogno di resuscitare il cadavere delle camicie nere per colpire anche tutta la destra, che con testoni del Duce, fez e labari non ha nulla a che spartire. L'assist lo offrono gli imbecilli squadristi che hanno assaltato le camionette della polizia, devastato la sede della Cgil e assediato il cuore della Capitale in nome di non si sa quale libertà. Probabilmente quella di essere criminali. Un attacco al cuore dello Stato e delle istituzioni che deve essere punito con il massimo rigore, non solo con i sacrosanti arresti del giorno dopo, ma possibilmente con un'opera di intelligence e prevenzione. Però sabato nelle piazze, oltre a Forza Nuova, c'erano le frange più violente degli ultras, la galassia dei vari «No» a tutto - ovviamente a partire dai vaccini e dal green pass - e c'erano anche gli anarchici. Perché i delinquenti tra loro si attraggono, sono la manovalanza della violenza a ogni costo, quelli che appena c'è un'occasione scendono in strada per spaccare tutto. A Milano, su cinquanta fermati, la metà proveniva dalla galassia dei centri sociali. Anche se è brutto dirlo e qualcuno fa finta di non saperlo. Perché la sinistra chic ama flirtare con le ali più estreme e quando la «meglio gioventù» si trastulla devastando i centri urbani, c'è sempre un clima di tolleranza, riecheggia lo stomachevole ritornello di «compagni che sbagliano». Come se la violenza rossa fosse un po' meno violenta. Ecco, la fermezza bipartisan con la quale sono stati condannati gli scontri di Roma ci piacerebbe vederla sempre, di fronte a ogni atto di violenza. Noi, da queste colonne, abbiamo sempre chiesto il massimo della severità per chi devasta le città: che sia di destra o di sinistra. E continueremo a farlo.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

Mario Ajello per "il Messaggero" l'11 ottobre 2021.  

Guido Crosetto, qual è il significato di queste piazze e di queste violenze?

«Da una parte c'è il legittimo diritto di ognuno di noi a protestare o comunque a manifestare il proprio pensiero. Questo le Costituzioni democratiche lo concedono anche a un solo cittadino su 60 milioni. Quando i cittadini che protestano sono decine di migliaia, e nel caso di non possessori di Green pass parliamo di milioni di persone, uno Stato il problema deve porselo e affrontarlo con serietà ed equilibrio».

Sta dicendo che non si deve semplificare e considerare tutti violenti?

«Per fortuna, non sono tutti violenti. I violenti sono quelli che utilizzano ogni manifestazione legittima di protesta, per auto-promuoversi, distruggendo le città e smontando con le loro violenze qualunque ragione, anche sbagliata, delle manifestazioni». 

Sta naturalmente parlando di Forza Nuova?

«Ma certo. Non è la prima volta che questi nazi-fascisti (di cui non capisco come possano essere liberi i capi, visto che hanno la proibizione di uscire di casa) approfittano per prendersi visibilità mediatica e politica. E non mi stupirei che guadagnassero pure. Mi sono sempre chiesto come facciano a sostenersi queste organizzazioni estremiste. E come mai le loro violenze molto spesso hanno come risultato solo quello di annullare il messaggio di alcune manifestazioni».

Sta dicendo che c'è qualcuno che li paga?

«Non lo so, ma non mi stupirebbe». 

Quelli che legittimamente protestano finiscono per essere strumentalizzati dai peggiori?

«Purtroppo, sì. Vengono strumentalizzati e purtroppo tacitati. Tra quei 10mila in piazza penso ci siano persone di destra, di sinistra, di centro, apartitici, apolitici, astensionisti. C'è di tutto». 

Un mondo di non rappresentati che si sente vittima dei violenti?

«E' un mondo che non trova interlocuzioni con le istituzioni. Quando una democrazia perde la capacità di discutere e di confrontarsi con un pezzo del Paese, fa un passo indietro e lascia spazio a quelli che, come Forza Nuova, vogliono minare e distruggere la democrazia». 

I 5 stelle, quando erano forti, dicevano: noi siamo l'argine alla rabbia sociale. Senza di noi sarà solo violenza. Non c'è il rischio che sia così?

«Il tema è che l'argine alla rabbia sociale deve essere lo Stato, devono essere le Istituzioni. E' lo Stato che deve avere meccanismi di dialogo, di convincimento, di approccio con chiunque, anzi quelli di cui non capisce le ragioni. Chi pensa che si possano cavalcare movimenti di protesta, solo per incalanarli in un voto a un partito e in violenza, gioca contro lo Stato e contro ognuno di noi. I partiti non devono assecondare le proteste ma devono ascoltarle e proporre soluzioni alle tematiche sollevate. E semmai aiutare lo Stato a riprendere un dialogo interrotto. Mi è sempre sembrata superficiale l'auto-descrizione di M5S come argine. Basti vedere dove è finito l'argine».

Salvini e Meloni però vengono accusati di fomentare sotto sotto queste piazze. 

«Questo è un altro modo per alimentare, per motivi politici, fratture tra partiti che diventano ferite nel corpo dello Stato. I partiti hanno il dovere di rappresentare nelle istituzioni tutte le istanze sociali, se queste hanno una legittimità, tutte. Questa consapevolezza, pare mancare. Fratelli d'Italia e Lega non sono mai stati partiti No Vax. Hanno però posto questioni, sollevato dubbi su alcune scelte politiche riguardanti la lotta alla pandemia. Ad esempio sul Green pass non hanno attaccato lo strumento, ma l'estensione di questo strumento ad alcuni ambiti, come il lavoro, che portano a conseguenze molto dure. Ricordo inoltre che le questioni sul Green pass che questi partiti pongono al governo provocano spaccature anche al loro stesso interno. Lega ed Fdi hanno loro stesse un fortissimo dibattito interno, molto duro, tra chi sostiene scelte rigoriste vicine alle posizioni del governo e chi invece cita le posizioni anti Green pass di pensatori di sinistra come Cacciari, Agamben e Barbero». 

Guai a minimizzare però gli attacchi squadristi?

«Mai. Vanno condannati con durezza. Dopo queste orrende vicende, anche chi guardava a quella piazza con rispetto, anche se non la condivideva, oggi non ne può neanche parlare. Io mi preoccupo se qualcuno, che ha sempre rispettato le idee di tutti, comincia ad avere paura di esprimere le proprie. A me ad esempio capita sui social. Per non aver assecondato una lettura sulla Meloni in tivvù, subisco attacchi come se fossi un fascista. Ed invece sono da sempre un cattolico liberal democratico, da tempo fuori dalla politica».

Lei è Giorgia. Non è fascista, la Meloni, ma nemmeno antifascista. Così le prende da tutti ed è colpa sua. Mario Lavia su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. La leader di FdI, frastornata da accuse di cui si sente vittima, condanna una generica zuppa di “ismi” ma non serve: in Italia esiste un problema specifico, storico, concreto. Fini lo sanò in An e ora rampolla di nuovo tra gli eredi del Msi. Proviamo a fare lo sforzo di entrare nella testa di Giorgia Meloni, nella psicologia di una giovane donna che improvvisamente rischia di passare dalle stelle alle stalle per qualcosa che non riesce ad afferrare, a capire, e che vive queste ore con un certo sgomento oscurato solo dal suo arrogante sbuffare. Fascismo? Quale fascismo? Che c’entro io, che non ero nemmeno nata eccetera eccetera?

Lei probabilmente si sente come un pesce finito nella rete di un complotto che non può che essere stato ordito, nell’ordine: dai poteri forti; dalla sinistra; dai giornali; dalla tecnocrazia europea. Tutto un armamentario tecnicamente reazionario: torna l’Europa cattiva, hanno ragione polacchi e ungheresi. Lei è la vittima. «Sono Giorgia», ricordate? Sembra tanto tempo fa, stava prevalendo nei sondaggi, vendeva tante copie del suo libretto, giusto? Ed eccoli là, da Fanpage a Ursula von der Leyen me la stanno facendo pagare: dopo Matteo Salvini (che starà godendo) adesso tocca a me – si dirà nel suo flusso di coscienza – certo i gravi fatti di Roma vanno condannati, senza dubbio, quella non è gente “nostra”, i Fiore e i Castellino anzi ci odiano, dunque che volete da noi? E poi si fa presto a dire fascisti, ma io non so quale fosse «la matrice» degli squadristi che hanno assaltato la Cgil, ho preso le distanze, che altro volete da me… Già chissà a chi gli può venire in mente di sfondare il portone della Cgil, un bel rebus, Giorgia, ma perché ieri non sei andata da Landini invece che dai franchisti di Vox? Appare chiaro che Meloni non ha capito la situazione. Vede la strumentalizzazione anche laddove c’è persino una indiretta sollecitazione a venir fuori una volta per tutte dalla melma della Storia. Non è capace di intendere che i conti con il passato bisogna farli non solo per mondarsi di certe sozzure ma che la chiarezza è un’opportunità per disegnare per sé e la propria parte un nuovo inizio. Non ha la forza d’animo né la passione intellettuale per cogliere che la politica è anche dolore, fatica, dialettica. Altrimenti non farebbe di tutto per impedire che il passato diventi il fantasma che la innervosisce tanto. E inciampa di continuo: non lo sapeva che Enrico Michetti scriveva frasi antisemite? Scriveva il filosofo marxista György Lukács: «I burocrati settari obiettano: non si deve rivangare il passato, ma soltanto rappresentare il presente; il passato è passato, già del tutto superato, scomparso dall’oggi». Ce l’aveva con i sovietici del post-destalinizzazione, ma la frase ben si attaglia alla destra italiana di oggi: «Non ero nata», che c’entro col fascismo? È una risposta burocratica, se non sciocca, che ignora che la Storia è un rapporto tra il passato e il presente. Che il passato va elaborato, come il vissuto personale, e non rimosso come fa lei, perché altrimenti i nodi prima o poi vengono al pettine. Ecco perché la sua intervista al Corriere della Sera è intrinsecamente debolissima, perché non fa conto di quel rapporto, non prende in considerazione che certi germi di ieri – un po’ come la variante Delta – si rinnovellano, forse non spariscono mai. Ecco, dovrebbero essere questi germi l’oggetto del discorso della leader dei Fratelli d’Italia più che l’aggiunta, che pare fatta tanto per farla, del fascismo tra le cose brutte. FdI tolga la fiamma missina dal simbolo, o compia comunque un atto forte di rottura. Perché non lo fa? Perché in certi quartieri di Roma, in alcuni posti del Sud, in diverse zone disagiate del Paese, non si rinuncia al voto nostalgico, maschio, tosto. Meglio non strappare quei fili. Peccato, perché così non diventerà mai grande, Giorgia Meloni, che non ce la proprio a impersonare una destra moderna. È un discorso che lei non sente perché Giorgia pensa che i brutti “sogni neri” siano finiti. Infatti ancora ieri, sulle squadracce romane, è tornata con quella sua vaghezza infastidita: «È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco, sarà fascista, non sarà fascista, non è questo il punto». E così ci risiamo. Fascismo, nazismo, comunismo, totalitarismo: stessa zuppa. Non comprendendo, al di là delle evidenti lacune storiche, che in Italia esiste un problema specifico, storico, concreto, che si chiama fascismo. Gianfranco Fini, alla fine, aveva compreso che questo era il punto e che non si poteva più girare intorno. «Anche io ero in An», dice Giorgia. Vero, ma lei a Gerusalemme a dire che il fascismo è il male assoluto non ci è mai andata. Né si ricorda una qualche sua elaborazione a sostegno della svolta finiana, probabilmente vissuta come mossa tattica, marketing politico, nulla più, tanto è vero che lei non seguì la vicenda di Futuro e libertà ma restò con Silvio Berlusconi in attesa di rifare prima o poi un Msi 2.0. Non capendo che «la storia non ha nascondigli», soprattutto la propria storia. Giorgia Meloni, se andasse al governo, farebbe molti pasticci ma certo non abolirebbe le libertà democratiche. Non è questo il punto. Il punto è che lei è estranea all’antifascismo – probabilmente considera la Resistenza una roba dei comunisti per nulla edificante – e dunque al valore fondante della Costituzione. È questo che le impedisce da stare al di qua della barricata contro i neofascisti per i quali prova soprattutto un’enorme animosità perché le rendono impervia la strada verso il governo, e solo questo. Non è fascista, Giorgia, e nemmeno antifascista. Nel mezzo, le prende da entrambi i fronti, ed è solo colpa sua. 

Il cortocircuito delle idiozie. L’appropriazione culturale del neofascismo sull’umana scemenza no vax.

Guia Soncini su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. C’è una parte della popolazione che non capisce un cazzo di niente. Neppure l’istruzione obbligatoria ha risolto questo problema, figuriamoci se lo risolve l’uso delle stigmatizzazioni sciatte (“fascisti!”) che usiamo per fare delle analisi sociologiche che rientrino in una storia su Instagram. La didascalia della foto in apertura della prima pagina di Repubblica, ieri, diceva: «Il momento in cui NoVax e neofascisti irrompono nella sede nazionale della Cgil». Di spalle, si vedono un po’ di bomber neri (il 1985 non è mai finito), pochi passamontagna, alcune teste rasate, un paio di bandiere tricolore. Nella parte bassa della foto, in primo piano, si vedono soprattutto tre cellulari. Tre persone – due uomini e una donna, perdonate la binarietà – che, mentre noi indichiamo il fascismo, pensano alla storia da postare su Instagram. Nell’ipotesi improbabile in cui una dittatura d’ottant’anni fa costituisse un pericolo imminente nelle democrazie occidentali del Ventunesimo secolo, il presente avrebbe già trovato l’antidoto: scriversi «antifa» nelle bio sui social. Non mi meraviglierei se tra quelli che hanno devastato alcune strade di Roma sabato ci fossero alcuni di coloro che sui social si definiscono «antifa»: per loro la dittatura è fargli il vaccino gratis, mica fare i teppisti (e in effetti i teppisti, in dittatura, finiscono in galera, mica nelle storie di Instagram). “Fascismo” è una parola confortevole. È comoda per mettere una distanza – loro sono fascisti, noi no – e per evitare di pensare. Per evitare di fare un’analisi del presente invece d’impigrirsi a liquidare qualunque teppista come nostalgico d’un’ideologia che neppure ha vissuto, durante la quale neppure era nato. Un’ideologia che, per inciso, l’avrebbe preso a coppini (eufemismo) se a una regola imposta dallo Stato, fosse stata una mascherina o un lasciapassare, avesse risposto con dei capricci da cinquenne. Sì, lo so che hanno assaltato la Cgil, facendo subito commentare ai social di sinistra: «E perché non Confindustria?». Forse perché sta due ore di strada più a Sud, in quell’ingorgo cinghialesco che è il traffico romano? È solo un’ipotesi, per carità. E lo so che, tra gli assalitori d’un’istituzione di sinistra, c’erano dei capetti neofascisti: ma non sarà che sono semplicemente andati ad appropriarsi d’una scemenza (malcontento, bisognerebbe dire: “scemenza” è troppo diretto) che esisteva a prescindere da loro? Quella del neofascismo nei confronti dell’umana scemenza non sarà appropriazione culturale? Dice eh, ma erano violenti, la violenza è fascista. Mah, mi sembra che gli esseri umani fossero violenti da un bel po’ prima che venisse immaginato il fascismo e abbiano continuato a esserlo quando il fascismo è finito (sì, lo so che secondo voi non è mai finito perché non siete disposti a rinunciare a una categoria così comoda per stigmatizzare chiunque non la pensi come voi: fascisti, radical chic, populisti – una volta svuotate di senso, le categorie sono comode come vecchi cashmere slabbrati). Forse “lassismo” è uno slogan più adatto. Sono quasi due anni che facciamo – parlo a nome della maggioranza – tutte le cose richieste dalla logica, dal buonsenso, dallo Stato. Ci mettiamo la mascherina, stiamo a casa, compriamo l’amuchina, ci vacciniamo, urliamo dentro le mascherine all’ufficio postale e dalla manicure perché tra distanziamento e plexiglas e mascherine è come esser diventati tutti sordomuti (che è una frase abilista, ma ora non cambiamo settore di scemenza sennò ci perdiamo). Sono quasi due anni che quotidianamente c’è qualche notizia di gente che – con continuità caratteriale, come prima parcheggiava in seconda fila «solo due minuti» – concede a sé stessa deroghe. Falsifica certificazioni verdi, si affolla ad aperitivi, tiene la mascherina abbassata perché si sente soffocare: scegliete voi la cialtronata del giorno. A quel punto la cittadinanza si divide in minoranza isterica che urla «si metta quella cazzo di mascherina» (sì, ogni tanto anch’io: bisogna pur sfogarsi); e maggioranza lassista che sospira «eh, ma la gente è stanca». Ma stanca di cosa? I manuali di autoaiuto non dicono che per acquisire una nuova abitudine ci vogliono tre settimane? Non dovrebbe ormai essere un automatismo, mettersi quella cazzo di mascherina su quel cazzo di naso? Non hai preso l’abitudine, se quest’anno e mezzo l’hai passato a rimuginare che la mascherina è una vessazione, il vaccino è un sopruso, la dittatura sanitaria no pasará. Non al fascismo, hai aderito, ma all’assai più contemporanea dittatura del vittimismo, che usa l’eccezione – sia essa costituita da un infinitesimale numero d’intersessuali o di allergici al vaccino – per spacciare per vessazione qualunque ovvietà, da «i mammiferi appartengono a uno dei due generi sessuali» a «se c’è una malattia mortale e un vaccino che la previene, ci si vaccina»; e a quel punto, se vessazione è, la ribellione violenta è non solo consentita ma plaudita. L’altro giorno il governatore del Veneto, Zaia, ha detto che l’obbligo della certificazione verde sarà un casino perché solo in Veneto ci sono 590mila non vaccinati in età lavorativa, e non si riesce a fare a tutti loro il tampone ogni due giorni. Ricopio dall’intervista di Concetto Vecchio: «Non si tratta di contestare il Green Pass, bensì di guardare in faccia la realtà: gran parte di questi 590mila probabilmente non si vaccineranno mai». Zaia non lo dice, perché i politici non possono permettersi il lusso di dire che l’elettorato è scemo, ma la questione quella è. C’è un’ampia parte dell’umanità che non capisce un cazzo di niente, è un problema che non s’è risolto con l’istruzione obbligatoria, figuriamoci se si risolve con stigmatizzazioni sciatte quali “fascismo”. E invece siamo qui, a chiederci se Cacciari abbia preso le distanze dalla manifestazione degenerata, Giorgia Meloni dalle leggi razziali, Muhammad Ali dagli attentati alle Torri Gemelle. Siamo come quelli che stavano sulla prima pagina di Repubblica ieri: alla ricerca di analisi sociologiche che rientrino in quindici secondi di storia Instagram.

Sinistra e Cgil si mobilitano. "Ora Forza Nuova va sciolta". Pasquale Napolitano l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il sindacato lancia un corteo antifascista per sabato prossimo. Pd e M5s: è un partito contro la Costituzione. In piazza sabato 16 ottobre e scioglimento di Forza Nuova: sono due richieste che partono dall'assemblea generale della Cgil convocata ieri in risposta all'assalto avvenuto contro la sede di Roma del sindacato dai manifestanti del corteo no green pass. Al presidio in Corso Italia a Roma fanno tappa tutti i leader dei partiti: Nicola Zingaretti ed Enrico Letta (Pd), Giuseppe Conte (M5S), Teresa Bellanova ed Ettore Rosato (Italia Viva), Francesco Lollobrigida (Fdi), i candidati sindaco di Roma Roberto Gualtieri ed Enrico Michetti, l'ex presidente della Camera Laura Boldrini. Tra bandiere rosse e cori antifascisti, centinaia di dimostranti manifestano intonando «Bella Ciao». Il clima è quello dei grandi raduni. Ad aprire la manifestazione, l'intervento del segretario generale della Cgil Maurizio Landini: «Ci attaccano perché siamo sulla strada giusta ma noi non ci fermeremo. Da domani all'apertura, alla ripresa del lavoro, in ogni città in ogni condominio dobbiamo riprenderci la parola senza paura. Tutte le formazioni che si rifanno al fascismo vanno sciolte, e questo è il momento di dirlo con chiarezza. Sabato 16 abbiamo deciso, insieme a Cisl e Uil, che è giunto il momento di organizzare una manifestazione nazionale antifascista e democratica: il titolo sarà Mai più fascismi». L'appuntamento è per sabato 16 ottobre: tutti in piazza alla vigilia del voto per i ballottaggi. Il leader della Cgil chiede uno scatto in più: «È molto importante che le forze politiche oggi qui ci siano, la difesa della democrazia e della Costituzione è centrale. Mi auguro che tutti siano coerenti con la loro presenza qui davanti». L'ex presidente del Consiglio Conte annuncia l'adesione del M5s alla manifestazione di sabato e chiama in ballo i partiti di destra: «Auspico che anche Salvini e Meloni partecipino». Poi si unisce alla richiesta di scioglimento per Forza Nuova: «Non possiamo accettare che nel nostro paese ci siano aggressioni di questo tipo. Quindi su Forza Nuova è una valutazione che affidiamo alla magistratura ma anche io ritengo che ci siano le condizioni per lo scioglimento. È evidente che ci sia una volontà deliberata di condurre attacchi squadristi e questo non lo possiamo accettare». Letta fa tappa nel pomeriggio al presidio e avverte: «Esiste un fermento e cova un malessere fortissimo. Credo che bisogna alzare la guardia, ed essere netti sulla questione dello scioglimento Forza Nuova. Le immagini sono chiare, non ci sono molti dubbi. Presenteremo una mozione, poi sono altri i meccanismi che portano allo scioglimento. Ma la Costituzione è chiarissima, non ci sono dubbi che Forza Nuova debba essere sciolta». La presidente del Pd Valentina Cuppi, sindaca di Marzabotto, il paese dell'Appennino bolognese colpito dal grande eccidio nazifascista alla fine della Seconda Guerra Mondiale, lancia su Change.org una petizione per sciogliere organizzazioni e partiti neofascisti. «I fatti di Roma sono solamente l'ultima goccia. È ora i dire basta alla violenza squadrista e fascista. Un basta definitivo. È ora, come già richiesto dall'Anpi nell'appello Mai più fascismi, di sciogliere Forza Nuova, CasaPound, Lealtà Azione, Fiamma Tricolore e tutti i partiti e movimenti che si rifanno alle idee e alle pratiche del fascismo» - rilancia Cuppi. Per Fratelli d'Italia arrivano Francesco Lollobrigida ed Enrico Michetti. «Sono andato a Corso Italia perchè noi condanniamo ogni forma di violenza politica, specie quando colpisce i lavoratori e le loro rappresentanze» spiega il capogruppo Fdi alla Camera dei deputati. Pasquale Napolitano

Forza Nuova? Perché con la destra non c'entra niente: anzi, ne è nemica. Andrea Morigi su Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. Sono vent' anni o giù di lì che Forza Nuova si presenta alle elezioni andando sì a pescare consensi negli ambienti di destra, ma in alternativa alla destra. Sono gli avversari e i concorrenti di Fratelli d'Italia, come lo sono stati di Alleanza Nazionale e lo furono del Msi. Non contigui e nemmeno ramificazioni dello stesso albero. Soltanto che, ai tempi di Giorgio Almirante, non accadeva mai di assistere a superamenti a destra. Al massimo vi fu la sfortunata scissione a sinistra, cioè centrista, di Democrazia Nazionale. Qui però, destra sembra ormai un termine improprio. "Le destre", come le chiamano i nostalgici della Resistenza, semplicemente non esistono. Semmai quella che si è radunata sabato in piazza del Popolo a Roma è un'organizzazione antisistema, "oltre la destra e la sinistra", che non accetta etichette sebbene affondi le sue radici politico-culturali nella cosiddetta "autonomia nera", da sempre estranea al "partito", giudicato borghese e compromissorio. Sono realtà nemiche l'una dell'altra, con obiettivi politici diversi e un atteggiamento opposto nei confronti delle istituzioni democratiche. Mancano loro infatti un terreno e un nemico comune, paragonabili a quelli che condivide la sinistra quando va in piazza il 25 aprile per festeggiare la Liberazione. A meno che s' intenda l'opposizione al gender, al ddl Zan e all'aborto come un tema unificante, ma a quel punto occorrerebbe includere nel fronte reazionario anche il Sommo Pontefice. Le frange neofasciste tuttavia si pongono fuori dalla Chiesa, in opposizione al Concilio Vaticano II. Forza Nuova, comunque, non gradisce nemmeno la definizione di "fascista" e forse non sarà soltanto per ottenere lauti risarcimenti se i loro dirigenti hanno querelato - vincendo in giudizio - gli organi d'informazione che hanno osato definirli tali. La genealogia è un'altra. È l'area che, almeno a partire dalla pubblicazione nel 1969 del manualetto La disintegrazione del sistema di Franco Giorgio Freda, teorizza l'unificazione fra movimenti rivoluzionari, dopo essersi alimentata dell'antiamericanismo dei reduci della Repubblica Sociale Italiana e perfino dell'opposizione alla Nato del primo Msi. Da quelle parti e a quell'epoca, i cosiddetti nazimaoisti ammirano Ernesto Che Guevara e i vietcong, perché sono nemici giurati degli Stati Uniti tanto quanto i "camerati" che hanno combattuto contro le truppe alleate durante la Seconda Guerra mondiale. Qualche riferimento nazionalbolscevico o al fascismo immenso e rosso, in fondo, conferisce anche un'atmosfera romantica all'ideale totalitario del patto Molotov-Ribbentrop. Il trasbordo ideologico si può dire pienamente compiuto nel 1979, quando vede la luce il numero zero del periodico Terza Posizione, che saluta il trionfo della rivoluzione khomeinista in Iran. "Né Usa né Urss!", slogan da Paesi non allineati, cessa così di inneggiare all'Europa Nazione e acquista da quel momento una sinistra e cupa deriva verso il fondamentalismo islamico. Forza Nuova, in realtà, subisce già dalle sue origini l'influenza di un tradizionalismo cattolico che vede nelle gesta dei combattenti maroniti un esempio di testimonianza cristiana, salvo poi trovare negli anni un punto di contatto anche con Hezbollah, il partito sciita libanese. Anche questi ultimi, del resto, salutano col braccio teso. Come i militanti che si ritrovano a Predappio alla tomba di Benito Mussolini, senza trascurarne il passato socialista.

"Quali prove vogliono ancora contro il fascismo". Meloni, gioco sporco a sinistra: fin dove si spingono, persecuzione? Alberto Busacca su Libero Quotidiano il 10 ottobre 2021. Le avevano chiesto di dire parole chiare sul fascismo. E ieri, sul Corriere della Sera, Giorgia Meloni le ha dette. «Nel dna di Fratelli d'Italia», ha spiegato, «non ci sono nostalgie fasciste, razziste, antisemite. Non c'è posto per nulla di tutto questo. Nel nostro dna c'è il rifiuto per ogni regime, passato, presente e futuro». E ancora, se non fosse stata abbastanza netta: «I nostalgici del fascismo non ci servono: sono solo utili idioti della sinistra, che li usa per mobilitare il proprio elettorato». Insomma, piacciano o meno le sue dichiarazioni, non si può dire che Giorgia sia stata vaga o non abbia voluto affrontare la questione. Quindi? Archiviamo le polemiche di queste settimane sul pericolo fascista e torniamo ad occuparci di quello che succede nel ventunesimo secolo? Ovviamente no. Perché la sinistra non è soddisfatta. E chiede ulteriori prove...

UN CRIMINE

«Anche oggi», attacca Andrea De Maria, deputato del Partito democratico e già sindaco di Marzabotto, «Giorgia Meloni fa finta di non capire: nella sua intervista non c'è alcuna condanna del fascismo né l'intenzione di chiudere con quel mondo che ancora si ispira agli orrori del Ventennio. C'è invece la presunzione di mettere sullo stesso piano fascismo e comunismo. Come se non conoscesse la storia del nostro Paese e il ruolo dei comunisti italiani per la conquista della libertà e la costruzione della democrazia. Per una che vorrebbe guidare il Paese non solo è ormai tardi ma è ancora davvero troppo poco». Anche i Cinque Stelle, poi si sentono in diritto di chiedere alla Meloni ulteriori prove di democraticità. «Sul fascismo», sostiene Mario Perantoni, deputato M5S e presidente della commissione Giustizia della Camera, «ha detto parole definitive un uomo che lo aveva subito, Sandro Pertini. Spiegò che il fascismo non è un'opinione ma un crimine. In commissione Giustizia abbiamo avviato l'iter della proposta di legge contro l'uso di simboli e immagini che possano propagandare le idee nazifasciste: è un testo di iniziativa popolare sostenuto dal sindaco di Sant' Anna di Stazzema Maurizio Verona al quale personalmente tengo molto e che credo debba essere condiviso da ogni forza democratica». E poi: «La leader di Fdi, impegnata in questi giorni a prendere le distanze da personaggi e vicende raccontate nel video di Fanpage, è disposta, in concreto, a sostenere questa proposta?».

LA COSTITUZIONE

E non poteva mancare la solita Anpi. «La Meloni afferma che l'Anpi chiede lo scioglimento di Fratelli d'Italia», dice l'associazione dei partigiani. «È falso. L'Anpi chiede lo scioglimento di Lealtà Azione, Forza Nuova, CasaPound. Dato che lei, folgorata sulla via di Damasco, anzi di Fanpage, nega qualsiasi nostalgia del Ventennio e si erge a baluardo democratico, perché non propone lo scioglimento delle organizzazioni neofasciste come previsto dalla Costituzione?». Insomma, la fondatrice di Fdi, oltre prendere le distanze dal fascismo, dovrebbe anche esaltare il ruolo storico del Partito comunista, sottoscrivere una legge contro la propaganda fascista e pure chiedere lo scioglimento dei gruppi di estrema destra. Ed è probabile che non basterebbe ancora...

Meloni: “Noi fascisti? Nel dna di Fdi c’è il rifiuto per ogni regime”. In un'intervista al Corriere della Sera, Giorgia Meloni rifiuta l'accostamento con le ideologie "fasciste, razziste e antisemite". E su Lavarini dice...Il Dubbio il 9 ottobre 2021. Nel dna di Fratelli d’Italia “non ci sono nostalgie fasciste, razziste, antisemite“, c’è “il rifiuto per ogni regime, passato, presente e futuro. E non c’è niente nella mia vita, come nella storia della destra che rappresento, di cui mi debba vergognare o per cui debba chiedere scusa. Tantomeno a chi i conti con il proprio passato, a differenza di noi, non li ha mai fatti e non ha la dignità per darmi lezioni”. Lo dice in un’intervista al Corriere della Sera Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia. «Il “pericolo nero”, guarda caso, arriva sempre in prossimità di una campagna elettorale…» aggiunge, parlando dell’inchiesta di Fanpage, sottolineando però che la più arrabbiata per quelle immagini è lei, che ha “allontanato soggetti ambigui, chiesto ai miei dirigenti la massima severità su ogni rappresentazione folkloristica e imbecille, anche con circolari ad hoc”. Perché “i nostalgici del fascismo non ci servono: sono solo utili idioti della sinistra, che li usa per mobilitare il proprio elettorato”. Immaginare «che Fratelli d’Italia possa essere influenzato o peggio manovrato da gruppi di estrema destra è ridicolo e falso”. Meloni ricorda che certi nostalgici il partito li ha sempre cacciati, “a partire da Jonghi Lavarini, ora “lo faremo ancora di più”. La colpa di Fidanza “è aver frequentato una persona come Jonghi Lavarini che con noi non ha niente a che fare per ragioni di campagna elettorale. Un errore molto grave, infatti adesso è sospeso. Poi vedremo cosa verrà fuori da un’inchiesta a tratti surreale”. Fdi è il primo partito in Italia “perché non guardiamo indietro ma avanti, ai problemi veri degli italiani, le tasse, la casa, il lavoro, la povertà”. Nella battaglia politica, la leader di Fratelli d’Italia difende anche scelte come quella della candidatura di Rachele Mussolini: “È una persona preparatissima, competente, consigliera uscente che è stata rieletta perché ha fatto bene e non la discrimino per il nome che porta”.

Guerriglia. La fatwa in Tv contro la consigliera di FdI. Per il "ducetto" Formigli, Rachele Mussolini è apologia del fascismo solo per il cognome…Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Ottobre 2021. Sono rimasto di pietra, l’altra sera, quando ho sentito Corrado Formigli, su La 7, annientare Rachele Mussolini – in contumacia – e contestarle, in sostanza, il diritto di presentarsi alle elezioni con quel cognome. Ha fatto bene Guido Crosetto (che ha idee politiche, spesso, molto lontane dalle mie) a indignarsi e ad alzare la voce. Formigli ha reagito all’intervento di Crosetto togliendogli la parola con l’aria… (posso dirlo?) con l’aria del ducetto che il potere ce l’ha e non lo cede a nessuno. Io non conosco neppure alla lontana Rachele Mussolini. So che è una signora che fa politica da molti anni, che è di destra, che si presenta alle elezioni e le vince. E mi hanno abituato a pensare che chi vince le elezioni è bravo, e che se gli elettori lo votano lui è democraticamente legittimato. Non ha bisogno del timbro di Formigli e neppure del timbro del mio amico Bersani. Dove me le hanno insegnate queste cose? Nel Pci. Circa 50 anni fa me le spiegò Luigi Petroselli, che era il capo della federazione romana del partito e del quale l’altro giorno abbiamo celebrato i quarant’anni dalla morte, che avvenne a Botteghe Oscure, mentre scendeva dal palchetto dopo aver pronunciato – nella solenne seduta del Comitato centrale – un intervento critico verso il segretario. Che era Berlinguer. Rachele Mussolini è accusata di tre cose. La prima è di portare il nome che porta. La seconda è di non avere abiurato. La terza è di avere detto che lei non festeggia il 25 aprile. Accusare una persona per il nome che porta, dal mio punto di vista di vecchio antifascista, è una manifestazione di fascismo. Tra qualche riga provo a spiegare cosa intendo per antifascismo. Chiedere a una persona di abiurare, chiedere a chiunque qualunque tipo di abiura, per me è ripetizione delle idee e dei metodi della Santa Inquisizione. È una richiesta oscena, che getta discredito e vergogna su chi la avanza. Sul 25 aprile ci sono due cose da dire. La prima è che Rachele Mussolini ha dichiarato in questi giorni di avere sbagliato a postare (due anni fa) quella foto nella quale mostrava un cartello con su scritto che il 25 aprile lei festeggia solo San Marco. Ma a me questo non interessa. Per me chiunque è legittimato a festeggiare o no le feste di Stato. Legittimato e libero. Non so se la capite questa parola: li-be-ro. Io da ragazzo non festeggiavo il 4 novembre, festa della vittoria dell’Italia nella prima guerra mondiale. Non perché io fossi, o sia, anti italiano o filoaustriaco, ma perché sono – e sono libero di esserlo – antimilitarista. E vi dico le verità: se il 25 aprile fosse una festa per ricordare la fucilazione di mio nonno, il papà di mio padre (in realtà Mussolini fu fucilato il 28 aprile e poi appeso per i piedi a Milano, in piazzale Loreto, il giorno dopo, e però è il 25 aprile il giorno nel quale si celebra e si festeggia la sua morte) io in nessun caso la festeggerei, a prescindere dalle mie idee politiche. Democrazia, liberalità, modernità, onestà – butto giù a caso un po’ di parole perché non è che io abbia capito bene quali siano i nuovi valori della politica di oggi – chiedono ai nipoti di sputare sul corpo dei propri genitori o nonni prima di essere ammessi in società? Beh, ma allora perché ce l’avevate con Pol Pot? Io tutti gli anni festeggio il 25 aprile. Lo festeggio, e penso che sia una grande festa, proprio perché so che è legittimo non festeggiarlo. Se fosse una festa obbligatoria, per me, non sarebbe più il 25 aprile. Sarebbe un rito sciocco. Infine Formigli ha detto che aveva invitato Giorgia Meloni per chiederle se era pronta a ripetere la frase attribuita a Gianfranco Fini una quindicina di anni fa, e cioè “il fascismo è il male assoluto”. Io penso che non ci sia niente di male a credere che il fascismo sia il male assoluto – forse sarebbe meglio dire che l’olocausto, del quale il fascismo fu complice, è stato il male assoluto – ma a me non sembra normale che un conduttore televisivo pensi di poter convocare nello studio televisivo il capo di un partito (forse, addirittura, del primo partito) per umiliarlo e costringerlo a piegarsi ai suoi diktat. A questo punto è ridotta la politica? È l’ancella di conduttori televisivi rudi e sceriffi? Delle nuove guardie? Ommammamia. Questi atteggiamenti, e anche il fatto che non facciano indignare nessuno, a me fanno paura. Sì, mi fanno paura perché il vero rischio fascismo, per me, è esattamente questo. Tutti sanno che il pericolo non è né Borghese, né questo nuovo personaggio che mi pare si chiami Jonghi Lavarini. Non è Casapound, né Forza Nuova, né l’incombere della tradizione del vecchio regime. I rischi sono tre: antisemitismo, razzismo e autoritarismo. Quando penso a un antifascismo serio e moderno penso esattamente a questo. A un ordine di idee e di lotte contro l’antisemitismo, il razzismo e l’autoritarismo. Dove sono queste tre malattie? In vastissime zone del populismo italiano. L’antisemitismo, purtroppo, è diffuso, sotterraneo e terribile. Vive e prospera a destra e anche a sinistra. Anche il razzismo (che comunque non va confuso con la xenofobia, che è anche questa una malattia della politica moderna, ma diversa dal razzismo) è diffuso a destra e a sinistra, soprattutto a destra. L’autoritarismo, che spesso si confonde e si salda col giustizialismo, è forte in tutto lo schieramento politico, e, misurato a spanne, è più diffuso a sinistra e dilaga tra i 5 Stelle dove è quasi l’ideologia dominante. Bene, se le cose stanno così, lo dico francamente, antifascismo vuol dire opporsi al formiglismo. Che è un costume diffusissimo nel giornalismo italiano. Prepotente, maschilista, narciso e sopraffattore.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Rachele Mussolini e Gualtieri, due eredi sono, ma è il comunismo furbo che tiene famiglia a Roma. Anche Carlo Calenda, eroico portabandiera del libero mercato, il testimone della più intraprendente battaglia della modernità in una sfida in solitaria, adesso è già inghiottito dai comunisti. Pietrangelo Buttafuoco su Il Quotidiano del Sud l'8 ottobre 2021. Il fascismo di certo non c’è più ma il comunismo furbo del comparaggio di potere quello sì, altroché. Rachele Mussolini che prende tutti i voti a Roma – con buona pace del Corriere della Sera che se ne scandalizza – non sposta un bicchiere ma Gualtieri che arriva al Campidoglio, di una torta a doppio strato guarnita di Giubileo in arrivo e l’Expo da fare, sa che farsene, altroché. Rachele può solo essere una nipote ma un Gualtieri cresciuto alla scuola di partito del Pci è un erede, e tutta quella furbizia della doppiezza ce l’ha nel suo corredo, altroché. Il comunismo da temere non è certo quello genuino di Marco Rizzo ma quello furbo che comanda, quello dei magistrati compiacenti, sempre loro, ed è quello dei giornalisti di regime – sempre loro – nonché quello degli affaristi sempre pronti a farsi gli affari loro. Nella cupola loro, col comunismo furbo che sa sempre dove stare. Per stare al meglio a tavola. E figurarsi cosa non stanno facendo per riconquistare Roma. Tiene famiglia il comunismo furbo del comparaggio e sa dove andare a prendersi il dovuto tributo. Il vero sondaggio è la sostanza di un calcolo facile. Con tutti i dipendenti Rai che vivono a Roma, e coi loro parenti, con tutti quelli che lavorano nei ministeri, col parastato, con tutto il gregge di Santa Romana Chiesa, sempre grata al potere – e con tutti quelli che devono far carriera – altroché se non è solida la democrazia compiuta del comunismo implicito di tutto questo potere esplicito. Una massa fabbricata in anni di egemonia stagna nell’automatismo. Con l’accorta assenza del popolo – presente solo nell’astensione sempre più forte – e nel riflesso condizionato poi, dei cosiddetti veri liberali, storicamente incapaci di alloggiare fuori dall’ombra rassicurante del comunismo fatto sistema. Certo, non lo chiamano comunismo il loro comunismo, i comunisti. Dicono sia progressismo, perfino riformismo, magari liberal-socialismo e di certo è la cuccia calda della sinistra, la botola in cui – e lo sanno benissimo – prima o poi andranno a rinchiudersi tutti, ma proprio tutti, senza eccezione alcuna. Come Carlo Calenda, eroico portabandiera del libero mercato, il testimone della più intraprendente battaglia della modernità in una sfida in solitaria, adesso già inghiottito dai comunisti in marcia verso il municipio, a confermare – nell’illusione di averli presi, i suoi nemici – il dettato di Vladimir Il’i Ul’janov: “Ci venderanno la corda con cui li impiccheremo”. Inghiottito, altroché. Preso al laccio.

Francesco Borgonovo per La Verità il 9 ottobre 2021. Prendiamo atto, con appena un filo di sconforto, che in Italia non si deve rendere conto dei clamorosi errori commessi all'inizio della pandemia, i quali hanno causato migliaia di morti. Non si deve rendere conto nemmeno delle discriminazioni e degli atteggiamenti autoritari assunti negli ultimi mesi ai danni di chi sta esercitando un diritto costituzionale. No: si deve rendere conto soltanto del legame (al solito pretestuoso) con il fascismo. Ora, che la macchina politico-mediatica del progressismo militante cerchi regolarmente di occultare le colpe della propria area - seppellendole sotto montagne di scemenze sulle «lobby nere» - non stupisce. Stupisce molto di più, e un po' dispiace, che la destra ci caschi ogni volta. Che accetti non solo di stare al gioco, ma che appaia spesso terrorizzata e corra a piegare il capo ai nuovi inquisitori. A questo proposito, vale la pena di soffermarsi un momento su quanto accaduto giovedì sera nello studio di Corrado Formigli. A un certo punto, Alessandro Sallusti ha posto una questione interessante: perché non si chiede mai a un Pier Luigi Bersani di dichiarare che il comunismo è stato il male assoluto? Formigli ha risposto ridacchiando, come se si trattasse di una proposta irricevibile. Poi è intervenuto Antonio Padellaro che ha dichiarato quanto segue: «Bersani viene dal Partito comunista italiano. Pretendere che definisca il comunismo - che era nella sigla del suo partito - il male assoluto mi sembra un po' troppo». Ecco, in questo scambio c'è tutta l'ipocrisia che da decenni corrode la nostra nazione. Il Partito comunista italiano ha avuto legami d'acciaio con il Partito comunista sovietico che incarcerava gli oppositori e spediva la gente nei gulag. Il Pci è stato finanziato dal mostro russo. Ma chi ha fatto parte del Pci non deve giustificarsi di nulla, anzi il solo pensiero che ciò avvenga suscita risatine. Eppure i comunisti esistono ancora, non si fanno problemi ad alzare il pugno chiuso (lo ha fatto una volta persino il sindaco di Milano, Beppe Sala). Vanno orgogliosi della loro storia perché - anche giustamente - non accettano che sia ridotta alla complicità con la macchina di morte sovietica. Quando si è trattato di approvare, in sede europea, l'equiparazione - per altro molto discutibile - tra nazifascismo e comunismo, la sinistra italiana (quella istituzionale, non i centri sociali) ha vivamente protestato. E allora perché la destra continua imperterrita a giustificarsi? «Che non si commettano viltà verso le proprie azioni», scriveva Nietzsche. «Che non le si pianti poi in asso!». Ebbene, perché insistere con l'autoflagellazione? Ci sono almeno due dati di fatto da tenere presenti. Il primo è che la sinistra non ha alcun titolo per giudicare gli avversari. Da sempre detiene il primato dell'ipocrisia, non esita a compiere le peggiori azioni e mai se ne scusa. Pretende che gli altri facciano esami del sangue e non è nemmeno stata in grado di riconoscere le colpe più recenti. Avete mai sentito qualcuno dire, ad esempio: «Sì, forse se a Bibbiano portavano via i bambini alle loro famiglie qualche motivazione ideologica c'era, e aveva a che fare con la nostra ideologia?». Certo che no. Del resto, i comunisti e i post comunisti ci hanno messo anni a riconoscere che i terroristi facevano parte del loro album di famiglia e ancora adesso lo ricordano a malincuore. Pensate realmente che possano, un giorno, mostrare un po' di rispetto per gli avversari? Se le condizioni sono queste, davvero si vuole continuare a rendere conto a giornalisti che s' ingozzavano di involtini primavera alla faccia delle responsabilità cinesi sull'esplosione della pandemia? Prima si dissocino dai ravioli, poi vedremo se ragionare con costoro. Veniamo al secondo dato di fatto. Forse è ora di comprendere che non ci sarà mai abiura sufficiente. La destra, compresa quella cosiddetta estrema, riflette criticamente sul fascismo (anzi, sui fascismi) da decenni. Nel 1961 lo scrittore francese Maurice Bardèche - che si definiva fascista - condannava implacabilmente le mostruosità naziste e pure il cesarismo mussoliniano in un libro intitolato Che cosa è il fascismo? (Settimo sigillo). Risale al 1985 il saggio in cui Alain De Benoist rispose una volta per tutte ai critici (di destra) della democrazia: «Non resta che una legittimità plausibile: la legittimità democratica, cioè la sovranità del popolo». Nel 2021, però, gli indici sono ancora puntati, le cattedre ancora abbondano di maestrini. Se poi vogliamo riferirci alla destra «istituzionale», giova ricordare ciò che avvenne a Gianfranco Fini. Pronunciò le famose parole sul male assoluto, a Fiuggi ruppe con la tradizione missina, si avvicinò ad Israele Eppure, pensate un po', continuarono a dargli del fascista, a insultarlo e ad attaccarlo per anni. Almeno fino a quando non si schierò contro Silvio Berlusconi: allora, per un po', a sinistra lo coprirono di elogi, salvo poi abbandonarlo senza pietà al suo destino. Altro esempio? Ieri, all'Aria che tira, alcuni illustri ospiti continuavano a ripetermi che la Costituzione italiana è fondata sull'antifascismo (cosa falsa), ma ovviamente si sono ben guardati dal condannare l'aggiramento della Costituzione medesima che porta il nome di green pass. Poi hanno cominciato a dire che «il 25 aprile dovrebbe essere la festa di tutti». Beh, ricordate i fischi e gli attacchi subiti da Silvio Berlusconi e Letizia Moratti quando si presentarono alle manifestazioni di piazza? Ricordate i costanti attacchi alla Brigata ebraica? Se pure Giorgia Meloni andasse in piazza il 25 aprile a sventolare la bandiera dell'Anpi, la insulterebbero senza pietà. Sapete che significa? Che non ne avranno mai abbastanza. Che i progressisti continueranno sempre e comunque a pretendere «scuse» e «prese di distanza» dalla destra, perché l'accusa di fascismo è l'unica arma che hanno in mano, sgangherati come sono. Figurarsi: accusano di nazismo gli israeliani nazionalisti, i critici dell'immigrazione di sinistra, le femministe che si oppongono all'ideologia gender Non esiste e non esisterà mai un perimento entro il quale la destra italiana verrà ufficialmente riconosciuta come «presentabile». Non accadrebbe nemmeno se la destra diventasse all'improvviso di sinistra: la riterrebbero, comunque, moralmente inferiore. Quindi, cari amici, basta con le scuse, le prese di distanza, le giustificazioni e gli arretramenti. È ora di capire che il meccanismo è truccato, è ora di togliere dal piedistallo i mangiainvoltini, i prelati della Cattedrale politicamente corretta, gli ipocriti di mestiere che hanno fatto dell'intolleranza una professione. Se qualcuno commette dei reati, è giusto che paghi in conformità alla legge. Ma, appunto, si deve rendere conto dei reati, non delle idee, almeno in democrazia. Soprattutto, si rende conto di fronte ai tribunali, non ai tribuni. Costoro pretendono che la destra si scusi di esistere. Ma ciò che vogliono davvero è che la destra smetta di esistere. Per lo meno, non aiutiamoli.

A destra ferve il dibattito per appurare quale sia la matrice di tutte le stronzate che fanno. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 13 ottobre 2021. Rampelli si autosmentisce, La Russa denuncia una strategia della tensione e Meloni rivendica in spagnolo il suo essere italiana. Ma se in piazza i neonazi protestano contro la dittatura e invocano una nuova Norimberga, forse la causa non è così chiara nemmeno a loro. Scoccata l’ora delle decisioni irrevocabili, poco dopo pranzo, Fabio Rampelli ha annunciato ieri la scelta di votare la mozione che chiede lo scioglimento di Forza Nuova – ma no, che avete capito? Mica quella del centrosinistra. A chi ha l’ingrato compito di raccontare o commentare la politica italiana, ormai, conviene partire dalle precisazioni. Ecco dunque la precisazione di Rampelli, vicepresidente della Camera e dirigente di primo piano di Fratelli d’Italia: «Il voto favorevole di Fratelli d’Italia cui mi riferivo in un’intervista radiofonica è sulla mozione unitaria proposta dal centrodestra che, partendo dall’assalto alla sede della Cgil, chiede la condanna di ogni forma di totalitarismo e auspica lo scioglimento di tutte le formazioni eversive che utilizzano la violenza come strumento di lotta politica. Quindi non riguarda Forza Nuova, ma tutti i soggetti che utilizzano i suoi stessi metodi». Avendo riportato, preventivamente, il testo integrale della precisazione, mi permetto di sottolineare quello che mi pare il passaggio-chiave: «Non riguarda Forza Nuova». Ricapitolando, siccome sabato scorso esponenti di Forza Nuova hanno guidato un assalto alla sede della Cgil, devastandone gli uffici, per poi tentare di attaccare anche Palazzo Chigi e il Parlamento, il centrodestra ha ritenuto giusto presentare una mozione che condanna «ogni forma di totalitarismo» e auspica «lo scioglimento di tutte le formazioni eversive che utilizzano la violenza come strumento di lotta politica». Ma perché – si chiederanno a questo punto i miei piccoli lettori – c’erano forse altri partiti, movimenti, associazioni culturali o circoli ricreativi, a parte Forza Nuova, a dare l’assalto alla Cgil? No, nessun altro. Fermamente intenzionato a spezzare le reni alla logica, sempre ieri, Rampelli dichiara inoltre all’Huffington post: «Per coincidenza astrale, questi fatti accadono solo sotto elezioni. Ne deduco che Forza Nuova ha un’alleanza di ferro con il Partito democratico». Coincidenza astrale o congiunzione casuale che sia, l’affermazione sembra riecheggiare la teoria di Ignazio La Russa, altro autorevolissimo esponente di Fratelli d’Italia, riportata due giorni fa dal Corriere della sera, circa la reale motivazione per cui, fino alla settimana scorsa, né l’attuale esecutivo né i precedenti si sarebbero preoccupati di sciogliere partiti e movimenti neofascisti: «Delle due l’una: non avevano le motivazioni per scioglierli o hanno preferito tenerli lì, magari come strumenti utili per la strategia della tensione?».

L’ipotesi che nessuno lo abbia fatto prima semplicemente perché fino alla settimana scorsa nessuno aveva assaltato la sede della Cgil, evidentemente, non ha sfiorato né La Russa né Rampelli nemmeno per un attimo. Eppure, considerando da dove erano partiti, l’intero dibattito potrebbe sembrare persino un passo avanti. La prima dichiarazione a caldo di Giorgia Meloni, che di Fratelli d’Italia è la leader, cominciava infatti con le parole: «È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco». E pensare che sarebbe bastato cercare la parola «squadrismo» su un buon dizionario. D’altronde, nel momento in cui faceva queste dichiarazioni, Meloni si trovava nel contesto non troppo adatto di una manifestazione di Vox, il partito neofranchista spagnolo, impegnata a ripetere dal palco, in perfetto castigliano, perché si sente orgogliosamente italiana. Riciclando per l’occasione la traduzione letterale del suo cavallo di battaglia: «Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy italiana, soy cristiana…». In pratica, una via di mezzo tra un comizio di Giorgio Almirante e un balletto su Tik Tok. Nonché la conferma del fatto che, se mai un giorno lontano rivivremo la tragedia di una dittatura fascista, al posto dei cinegiornali Luce ci sarà Striscia la notizia. E questa sarà la sigla. Del resto, stiamo parlando del partito che ha candidato a sindaco di Roma un signore, Enrico Michetti, che l’anno scorso, non settant’anni fa, a proposito dell’Olocausto, scriveva: «Mi chiedo perché la stessa pietà e la stessa considerazione non viene rivolta ai morti ammazzati nelle foibe, nei campi profughi, negli eccidi di massa che ancora insanguinano il pianeta. Forse perché non possedevano banche e non appartenevano a lobby capaci di decidere i destini del pianeta». Una frase talmente vergognosa che ha spinto Guido Crosetto, fondatore di Fratelli d’Italia, a twittare subito (pur senza alcun diretto riferimento a Michetti, beninteso): «Il ricordo della Shoah non può e non deve essere patrimonio degli ebrei ma di tutti ed ognuno. Perché la Shoah è l’emblema del male, il male ontologico, come direbbe Heidegger, l’essenza categoriale del male. Ed il male si combatte tutti uniti, senza dubbi, senza divisioni». Forse però un dubbio sarebbe stato meglio farselo venire, considerato che Martin Heidegger, oltre che un grande filosofo, era un nazista convinto. Ma queste ormai sono sottigliezze cui non fa più caso nessuno. Alla manifestazione dei no green pass, non so se l’avete notato, esponenti di un partito neofascista hanno sfilato per protestare contro la «dittatura sanitaria» e gridando «libertà! libertà!», prima di assaltare la sede della Cgil e dopo che il magistrato Angelo Giorgianni, dal palco, aveva invocato contro il governo nientemeno che un nuovo «processo di Norimberga». E quelli, con le loro belle svastiche tatuate sul braccio, ad applaudire a più non posso. Forse allora aveva ragione la mujer italiana, madre y cristiana di cui sopra: la matrice non è poi così chiara. Nemmeno agli autori. D’altra parte, parafrasando Altan, a chi di noi non capita di domandarsi, almeno ogni tanto, quale sia la matrice di tutte le stronzate che fa? 

Dagospia il 12 ottobre 2021. Da radioradio.it. L’autunno caldo sembra essere arrivato, ma a una certa corrente politico-mediatica non fa di certo piacere. Cittadini, lavoratori, persone di ogni fascia sociale scendono in piazza contro imposizioni e restrizioni del Governo Draghi, Green Pass in primis. Le proteste che vanno avanti da questa estate fanno sempre più rumore, anche se il grido di rabbia del popolo resta inascoltato a causa di un ristretto gruppo di estremisti infiltrati tra i manifestanti. Quello di sabato scorso partito da Piazza del Popolo a Roma è stato solo l’ultimo atto di una rivolta di migliaia di persone diventata presto una rappresaglia di altra natura. Il risultato, ancora una volta, è stato riaccendere l’allarme eterno di un ritorno del fascismo. Tra chi ritiene sbagliato ridurre a ciò la portata delle recenti sommosse c’è anche il giornalista Massimo Fini, che ne ha parlato ai microfoni di Francesco Vergovich a Un Giorno Speciale. Queste le sue parole. 

 “Questa è una democrazia malata”

“Ogni idea in democrazia ha diritto di esistere a meno che non si faccia valere con la violenza. Sarebbe riduttivo pensare che non ci sia un malcontento e una diffidenza nei confronti della democrazia. Lo dice il 48% di astensione. Non posso pensare che siano tutti degli eversivi. I partiti dovrebbero ragionare sul dato dell’astensione e sulla diffidenza di molti sul sistema democratico-partitocratico. Questo sistema è malato, una partitocrazia. Si sbaglierebbe se si dicesse che è solo un fenomeno fascista, ma è qualcosa di più diffuso. Molti cittadini non si sentono più rappresentanti. Sono contrario allo scioglimento di Forza Nuova, ogni idea deve poter esistere purché non si faccia valere con la violenza. Quelli che hanno assaltato la CGIL o la Polizia devono andare in prigione. La stampa racconta malissimo. Il dato più impressionante era l’astensione, hanno perso tutti“. 

“È stato creato un clima di terrore”

“Per quanto riguarda l’epidemia hanno fatto un terrorismo costante e continuo. Se ogni giorni ti parlano dell’epidemia e dei morti, hai una reazione di rigetto. È stato creato un clima di terrore. La stampa ha assecondato il peggiore allarmismo. Sull’Afghanistan hanno detto solo balle per esempio. C’è una miopia della classe politica e della stampa che spesso è a servizio della prima invece di svolgere una funzione di critica. L’uso sistematico del termine fascismo è controproducente. Se tu ogni giorno ne parli ha un effetto contrapposto, sono strumentalizzazioni“.

“Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo”

“Puoi fare una legge per l’obbligo del vaccino, ma non puoi non proibire formalmente la scelta opposta e poi renderlo obbligatorio, questo irrita moltissimo. Dovevano avere il coraggio di dire che il vaccino era obbligatorio per legge. Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo, a ciò che è fatto in modo subdolo. Il farlo in forma obliqua lo rende iniquo“.

Altro che minaccia fascista: ecco cosa interessa davvero agli italiani. Francesca Galici il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'ultima rilevazione social ha evidenziato il solco tra i Palazzi e il popolo, preoccupato per il suo futuro in vista dell'introduzione del Green pass per i lavoratori. Il weekend di scontri nelle principali città italiana ha inevitabilmente influenzato il dibattito settimanale. La politica e i cittadini si sono confrontati su diversi temi legati a quanto è accaduto a Roma e a Milano e Socialcom ha restituito una fotografia fedele del sentimento del Paese attraverso il flusso delle discussioni social che, ormai, può essere considerato uno specchio affidabile del cosiddetto Paese reale. Le rilevazioni Socialcom hanno messo in evidenza come ci sia ormai una grande distanza tra i temi affrontati dal Paese reale e quelli che, invece, vengono spinti da una certa politica, che continua a muoversi sull'onda della propaganda ideologica, cieca davanti ai veri problemi degli italiani che riguardano soprattutto il lavoro. Al centro del dibattito nazionalpopolare c'è soprattutto il Green pass e ogni altro argomento, anche gli scontri, sono a questo correlato. Tra il 1 e l'11 ottobre, in Italia, "sono state oltre 1,53 milioni le conversazioni in rete sul tema, che hanno prodotto 7,26 milioni di interazioni". Numeri importanti che hanno raggiunto il picco il 10 ottobre, giorno successivo all'assalto alla Cgil e agli scontri, con 872mila pubblicazioni. È vero che le immagini di Roma in stato di guerriglia urbana hanno colpito l'opinione pubblica ma sono state le preoccupazioni per la possibile perdita del posto di lavoro e la conseguente sospensione del salario a catalizzare maggiormente l'attenzione. Il Paese reale è più interessato a capire come farà a mantenere le proprie famiglie piuttosto che a una ipotetica minaccia fascista, argomento che da sinistra viene sostenuto fin dai momenti immediatamente successivi allo scontro. Ma la percezione dei cittadini in questo momento è un'altra ed è alienata dalla preoccupazione per il proprio futuro lavorativo. Non c'è connessione tra le due posizioni e lo certifica anche il report Socialcom: "I termini legati al mondo del lavoro sono utilizzati con più frequenza rispetto al termine 'fascista'. Segno che gli italiani percepiscono con maggior preoccupazione il pericolo della perdita dell’impiego, o del salario, piuttosto che una minaccia estremista". Nella classifica dei termini correlati al macro argomento "Green pass", nei primi tre posti per numero di interazioni si trovano, in quest'ordine: "vaccinare", "15 ottobre", "vaccino". Seguiti da "entrare", "Italia", "vivere", "lavorare". Il termine "fascista" è scivolato al 14esimo posto.

E proprio questa distanza è alla base di un'altra importante rilevazione effettuata da Socialcom. Tutti i politici hanno subìto un contraccolpo nel sentiment ma, come si legge nel report, "a sorprendere più di tutti è il crollo del sentimento positivo nei confronti di Maurizio Landini, leader della Cgil". In particolare, in sole 48 ore il sentimento negativo verso Landini è passato dal 50% dell’8 ottobre al 91,21% del 10 ottobre. E questo nonostante l'assalto alla sede romana del sindacato di cui Landini è segretario. Socialcom fornisce un'ipotesi per giustificare questo calo, correlato a quello di Enrico Letta: "È presumibile ipotizzare che gli utenti abbiano giudicato affrettate le conclusioni dei due relative alla matrice degli atti di violenza".

Francesca Galici

Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

No pass, disoccupati, complottisti, centri sociali: le (molte) anime della protesta. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 14 ottobre 2021. Non solo estremisti di destra o sinistra: c’è anche chi è in povertà, chi teme il futuro, precari, rider e pensionati. Il sociologo Domenico De Masi: ci sono cinque milioni di poveri assoluti e sette di poveri relativi, una insicurezza che tracima. Come i sanfedisti d’un tempo lontano, anche i ribelli del green pass possono pensare che lassù qualcuno li ami. Carlo Maria Viganò, dopo aver tuonato in videomessaggio contro «la tirannide globale» ed essersi spinto, crocefisso al collo, a sostenere che «i camion di Bergamo contenevano poche bare» e che ai medici d’ospedale era stato «vietato di somministrare cure» anti Covid, ha benedetto i diecimila di piazza del Popolo invitandoli a recitare il Padre Nostro prima della pugna. La predica complottista del controverso monsignore ostile a Bergoglio è stata poi oscurata dall’assalto di Castellino, Fiore e dei camerati di Forza nuova contro la sede della Cgil. E tuttavia sarebbe miope derubricare a folclore antilluminista da un lato o a rigurgito neofascista dall’altro il magma ribollente che da sabato scorso a sabato prossimo ha unito e unirà, in decine di sit-in e marce, sindacati di base e antagonisti, disoccupati e camalli, camionisti, mamme spaventate e pensionati indigenti, rider e insegnanti, contro il lavoro povero, l’esclusione dalla ripresa, la precarietà, le scorie di un anno e mezzo di reclusione collettiva: un mix di rivendicazioni per un nuovo autunno caldo al quale l’obbligo di passaporto sanitario sembra fare da collante e casus belli. Siano centomila come i manifestanti delle quaranta piazze di sabato scorso o il milione in sciopero lunedì secondo le sigle di base o, ancora, siano quelli che già domani si sono dati nuovi appuntamenti di battaglia, i disagiati di questa stagione ribollente si muovono veloci e si autoconvocano sui social (quarantuno le chat e i canali Telegram censiti a settembre dagli analisti di «Baia.Tech», con circa duecentomila partecipanti). Fatte salve le buone ragioni per sciogliere un’organizzazione che pare ricadere in pieno nelle previsioni della legge Scelba, le manifestazioni successive, da Milano a Trieste, da Torino a Napoli e in mezza Italia, dicono molto altro. «Al netto della violenza, la tensione sociale e le preoccupazioni per lavoro e condizioni di vita sono oggettive», ammette Valeria Fedeli, senatrice pd dalla lunga militanza sindacale: «È un passaggio anche drammatico, con scadenze come lo stop al blocco dei licenziamenti a fine mese e la necessità di riformare gli ammortizzatori sociali. La responsabilità delle organizzazioni confederali è aumentata, le associazioni minoritarie cercano di sfruttare la situazione a loro vantaggio». Le ricorda il clima del ’77? «Con una differenza, però: stavolta abbiamo risorse di sostegno che dobbiamo fare arrivare, effettivamente, alla gente. Politica e sindacato devono controllare che avvenga».

Un carico di rancore

La sfilata di Milano sotto la Camera del Lavoro, con Cobas, Usb, neocomunisti e centri sociali che hanno strillato «i fascisti siete voi!» ai militanti della Cgil, in cordone a difesa della loro sede, ha impressionato per il carico di rancore in giornate (dopo il sabato egemonizzato da Forza nuova a Roma) che avrebbero dovuto portare solidarietà nella sinistra: pia illusione. Ai microfoni di Radio Radio (l’emittente romana cara al candidato del centrodestra capitolino Enrico Michetti), il segretario comunista Marco Rizzo (stalinista mai davvero pentito), dopo aver bastonato il Pd come «geneticamente mutato» e il green pass quale «misura discriminatoria», s’è avventurato a intravedere una «nuova strategia della tensione» (teoria peraltro rilanciata ieri alla Camera da Giorgia Meloni) che avrebbe «permesso» l’aggressione alla Cgil di Roma: «La polizia aveva tutti gli strumenti per fermare quel gruppo di persone. O hanno lasciato fare o qualcosa di peggio. Dopo quell’episodio si rafforza il governo e vengono criminalizzati i movimenti di opposizione. Si stringe sulle manifestazioni e i cortei d’autunno. Questo governo vuole la divisione del popolo perché così non si vedono 60 milioni di cartelle esattoriali che arriveranno, non si vedono le nuove norme sulla Green economy con un aumento delle bollette dell’energia». Se radicalismi di destra e sinistra s’incrociano nel complottismo, teorie di sapore antico si mescolano e si moltiplicano, oggi, tramite i moderni strumenti del mondo globale. Su Telegram i legali del Movimento Libera Scelta indottrinano chi, fra i tre milioni e passa di lavoratori sprovvisti di green pass, voglia tenere duro e chiamano allo sciopero generale per domani: «Non presentatevi al lavoro e impugnate la sanzione, il governo non ha dimostrato la persistenza dell’epidemia, si viola l’articolo 13 della Costituzione». L’avvocata Linda Corrias, citando Gandhi, invita anche «alla preghiera e al digiuno, che necessitano di dedizione e pertanto di astensione dal lavoro per essere in pienezza di grazia: questo l’informazione di regime non ve lo dirà mai».

Veri dolori e assurde paranoie

E mentre rimbalzano di post in post locandine sulle manifestazioni di domani (a Messina in piazza Antonello ore 10, a Roma in Santi Apostoli con la pasionaria Sara Cunial), Hard Lock si chiede se «qualcosa di concreto si organizzerà anche a Napoli» (dove sbucano gli immancabili neoborbonici), Michele impreca perché «le ore passano e tra poco resterò senza lavoro, Paese gestito da parassiti velenosi», si minacciano blocchi a porti, trasporti e rifornimenti, Gianluca è convinto che «ricattano i giovani con la discoteca e li spingono a vaccinarsi», e Angelo scolpisce il suo aforisma: «Non ci sono più i giovani d’una volta!». È questo insondabile minestrone di pubblico e privato, veri dolori e assurde paranoie a complicare le analisi. Perché se è ovvio che vadano presi molto sul serio gli 800 (su 950) portuali triestini i quali (cantilenando «Draghi in miniera/Bonomi in fonderia/questa la cura per l’economia») minacciano di fermare lo scalo, o i loro compagni di Genova che già hanno fermato Voltri non tanto per il green pass quanto per il contratto integrativo, una vertigine coglie chi si imbatta nella teoria del «transumanesimo» di cui Draghi sarebbe apostolo («fautore del benessere di tutti gli esseri senzienti, siano questi umani, intelligenze artificiali, animali o eventuali extraterrestri...») o nelle «rivelazioni» sulla soluzione fisiologica inoculata a Speranza in luogo del vaccino e sulla letalità dei vaccini medesimi (un caso su due su un campione di... dieci) propugnata da una dottoressa altoatesina assai contrita. Per una testa balenga di «Io Apro» finito in copertina per essersi filmato durante l’incursione nella Cgil, «si sfonda! si sfonda!», ci sono tanti gestori di bistrot, bar e ristoranti piegati da diciotto mesi di provvedimenti ballerini. Per un violento, cento violentati.

Autobiografia della nazione. Fascisti, imbecilli e il medesimo disegno populista di Meloni, Salvini e Grillo. Christian Rocca su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. La battaglia contro la violenza politica è urgente e necessaria. Va bene fermare i responsabili, ma non si possono trascurare le evidenti pulsioni antidemocratiche dentro le istituzioni. Resta un mistero perché i leader delle tre forze parlamentari meno repubblicane non se ne rendano conto. Sono complici o solo incapaci? I fascisti e gli imbecilli ci sono, ci sono sempre stati, adorano farsi notare, anche se raramente sono stati così visibili e rumorosi come nell’era dell’ingegnerizzazione algoritmica della stupidità di massa. I fascisti e gli imbecilli si fanno sentire sia in remoto sia in presenza, all’assalto della Cgil, nei cortei no mask, no vax, no greenpass e contro la casta, ma anche in televisione e in tre delle quattro forze politiche maggiori del paese. In termini di adesione ai principi fascisti e dell’imbecillità, non c’è alcuna differenza tra le piazze grilline e quelle dei forconi, tra i seguaci del generale Pappalardo e i neo, ex, post camerati della Meloni, tra i baluba di Pontida e i patrioti del Barone nero, tra i vaffanculo di Casaleggio e i gilet gialli di Di Maio, tra i seguaci di Orbán e quelli di Vox, tra i mozzorecchi di Bonafede e i giustizialisti quotidiani, tra i talk show complici dell’incenerimento del dibattito pubblico e gli intellettuali e i politici illusi di poter romanizzare i barbari. Si tratta del medesimo disegno populista a insaputa degli stessi protagonisti, alimentato dagli agenti internazionali del caos, facilitato dal declino americano e semplificato da una classe dirigente politica mediocre e senza scrupoli.

Negli anni Ottanta, Marco Pannella ha aperto i microfoni di Radio Radicale a chiunque avesse voglia di dire qualcosa e il risultato è stato Radio Parolaccia, una versione impresentabile dello Speaker’s corner di Hyde Park. Alla radio non sentimmo soltanto dei logorroici fuori di testa parlare di qualsiasi cosa, ma anche i portatori patologici di rabbia e risentimento, di spinte autoritarie e di nostalgie del Ventennio. Con la rivoluzione giudiziaria del 1993 e con l’idea che il sospetto fosse l’anticamera della verità, quella rabbia e quel risentimento sono diventati opinione corrente e siamo entrati nella fase embrionale dell’attuale stagione populista e antipolitica. In questi ultimi dieci anni di populismo ne abbiamo viste di ogni tipo, come neanche in un film dell’orrore, con personaggi improbabili assurti a statisti e con neo, ex e post fascisti risuscitati ma non come ai tempi in cui Berlusconi li aveva «sdoganati» dopo averli ripuliti facendogli rinnegare il fascismo, abbandonare i simboli nostalgici e omaggiare la cultura e la tradizione politica e religiosa ebraica. Adesso non c’è più bisogno di trucco e parrucco, la destra ha perso quella sottilissima patina liberale e conservatrice, libertaria in alcuni casi, ed è tornata nazionalista, reazionaria e autoritaria. La fiamma tricolore ha ripreso a scaldare i cuori e le spranghe dei militanti, lo sputtanamento è diventata la regola principale della politica e altre dottrine manganellatrici digitali si sono aggiunte a metodi più oliati e tradizionali. Giusto chiedere adesso lo scioglimento di Forza Nuova e di Casa Pound per il  tentativo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, anche se non c’era bisogno di aspettare l’inizio di ottobre del 2021 per accorgersene. Ma non si possono considerare diversi o legittimi quei partiti presenti in Parlamento che invocano Mussolini, che si radunano con i saluti romani, che ammiccano alla marcia su Roma, che millantano di essere pronti ad aprire il Parlamento come una scatoletta del tonno, che diffondono fake news dei Savi di Trump e di Putin, che schierano la navi militari per impedire di salvare i naufraghi in mare, che si fanno dettare gli interessi nazionali da regimi autoritari non alleati, che invocano soluzioni liberticide, che pensano di lucrare politicamente sull’emergenza sanitaria, che parteggiano per il disfacimento delle istituzioni europee, che professano il superamento della democrazia rappresentativa. La battaglia contro i vecchi e i nuovi fascismi è urgente e necessaria. È una battaglia globale e non solo italiana, la vittoria di Joe Biden è stata una condizione necessaria ma non sufficiente e non basta scrivere «antifa» nella bio di Twitter per depotenziare le spinte fasciste.

Sciogliere tutte le organizzazioni antidemocratiche di vecchio e nuovo conio è auspicabile ma non è possibile, va bene cominciare con quelle più violente, ma sarebbe sufficiente intanto non legittimare chi democratico non è ed evitare che i gruppi neo fascisti si possano infiltrare nelle proteste contro i green pass per manipolare i fessi e amplificare le proprie adunate. Resta un grande mistero perché Giorgia Meloni continui ad ammiccare ai nostalgici del Duce e a omaggiare i nemici strategici dell’Italia e dell’Europa, così come perché i grillini non prendano le distanze dai no Vax e dagli antisemiti che hanno portato in Parlamento e perché Matteo Salvini non colga l’occasione di Draghi al governo per trasformare il centrodestra in una coalizione europea, presentabile, votabile. 

Una spiegazione è che si trovino a loro agio a riscrivere in eterno l’autobiografia fascista della nazione, un’altra è che siano semplicemente delle schiappe.  

Antonio Rapisarda per “Libero Quotidiano” il 12 ottobre 2021. «È impossibile che Beppe, nato a Milena, abbia fatto un errore così enorme...».

E invece Peppe Provenzano, vice di Letta, lo ha detto eccome: vuole Giorgia Meloni fuori dall'arco repubblicano...

 «Uno come lui, formato alla scuola del Pci siciliano, un allievo di Emanuele Macaluso - il comunista che fece in Sicilia il governo col Msi - non può conoscere l'odio politico. Due sono le cose: o lo ha rovinato Roma o non è stato lui ad aver scritto tale follia. Ma il suo fake...».

Pietrangelo Buttafuoco, quando si parla dei suoi compatrioti di Sicilia, adotta la moratoria della polemica. Li affonda, quando il caso lo richiede, con l'ironia. La stessa cosa capita quando la fiction della politica lo costringe ad intervenire su un tema che reputa lunare come il procurato allarme chiamato "onda nera".

Prima l'inchiesta sulla fantomatica "lobby sovranista". Poi la tirata di giacchetta dopo l'assalto alla sede della Cgil, ad opera di facinorosi che nulla hanno a che fare con FdI. E mancano ancora cinque giorni al ballottaggio...

«Strategia della tensione, per tutta questa settimana saremo negli anni '70... Detto ciò, se al posto di Giorgia Meloni ci fosse Gianfranco Rotondi al 20%, in contrapposizione alla sinistra, Fanpage e Formigli avrebbero di certo approntato un reportage con un infiltrato mettendo insieme la lobby dei pedofili della Chiesa, le tangenti della neo-Dc, la Mafia e le organizzazioni clandestine inneggianti a Sbardella o a Salvo Lima...».

Si è capito che il "metodo Fanpage" non ti piace...

«No, anzi, mi piace. Peccato sprecarlo per così poco. Sarebbe stato utile un infiltrato sulla rotta della Via della Seta alle calcagna di Romano Prodi a Pechino: un bel Watergate. Così invece fa ridere: troppo olio per un cavolo...».

Che poi fa sorridere che con tutti questi presunti "neri" in azione sia sempre la sinistra ad occupare i ' posti di governo senza vincere un'elezione.

«Premessa. È perfettamente inutile vincere le elezioni se non sei nelle condizioni di poter comandare. Dal dopoguerra a oggi c'è un unico sistema di potere: che è quello guelfo. In assenza di ghibellini, i guelfi hanno preso tutte le parti in commedia: ereditando un sistema di potere che è figlio dei due fondamentali partiti, il Pci e la Dc, con un'unica metodologia, che è quella gesuitica. Ora non c'è dubbio che per fare carriera una signorina di buona famiglia debba avere la tessera del Pd: questa gli consente di avere carriere in tutti gli ambiti a prescindere da qualunque sia il risultato elettorale».

Diciamo poi che questa cospirazione sembra una copia venuta male de "Vogliamo i colonnelli" di Monicelli...

«Non Monicelli, Renzo Arbore piuttosto. Il Barone Nero su cui Formigli mobilita l'allarme nero altro non è che la prosecuzione di Catenacci in altro canale radio».

Catenacci?

«Era il personaggio interpretato da Giorgio Bracardi in Alto Gradimento, la trasmissione di Renzo Arbore. Il Barone Nero di oggi, invece, prende notorietà grazie ai microfoni de La Zanzara di Cruciani. Soltanto la malafede e la raffinata furbizia può costruire un capitolo del giornalismo su personaggi simili. Altrimenti l'ultimo Nobel lo avrebbero già dato a loro». 

Il punto è che il pueblo unido nelle redazioni sembra essersi messo in testa un obiettivo: spegnere la Fiamma. Fare del 20% di FdI una caricatura.

«Il metodo è sempre quello: o ridicolizzi o criminalizzi. Accadde col Psi di Bettino Craxi. E il berlusconismo naturalmente: c'erano le donne che venivano considerate alla stregua di puttane; il partito di plastica; "il banana" e "al Tappone". Sono cose che abbiamo già visto. È Karl Mark ad avere dato un indirizzo e un metodo: calunniate, calunniate, calunniate, qualcosa resterà. Ma poi soprattutto è una capacità di distrazione rispetto ai fatti veri».

 Si aggrappano a un saluto romano, fatto come sfottò...

«Ti confesso che chi mi ha insegnato come si fa perfettamente è Eugenio Scalfari. Ora, con questa logica da cancel culture che succede, che lo tolgono dalla gerenza del suo giornale e invece che Fondatore di Repubblica diventa Fondatore dell'Impero? C'è anche molto provincialismo in queste cose. È un'applicazione psicotica della cancel culture».

Come si risponde a questa campagna nevrotica?

«Avendo una struttura d'industria editoriale davvero autorevole, professionale e incisiva. Quelli parlano di saluti romani? E tu parlagli invece dello scandalo delle mascherine di Arcuri - cosa loro - e dei traffici in seno alla magistratura, sempre cosa loro, delle lottizzazioni in Rai, cosissima loro...».

Dimenticavo. Non si contano le esortazioni a Giorgia Meloni da parte dei soliti noti: devi fare come Fini. Ossia, per dirla con la critica di Tarchi, rinnegare senza elaborare...

«Ha ragione Tarchi ma questa formulazione retorica - devi fare, devi fare - è l'estremo collante della malafede italiana. Finirà quando Meloni non diventerà più "pericolosa" per il sistema di potere. L'argomento disarmante è quello che ha usato lei stessa: Rachele Mussolini che prende i voti è pericolosa. Alessandra Mussolini, la sorella, che invece è a favore del ddl Zan è meravigliosa. Nel frattempo ti buttano nel '900 con l'aiuto dell'arbitro: perché sanno che quando tu subirai fallo - grazie agli utili idioti sempre presenti - l'arbitro chiuderà un occhio sì, ma per l'altro». 

Questa caccia alle streghe durerà fino alle Politiche. Cosa deve fare la destra per scansare la trappola?

«Misurarsi con la realtà. Come dice sempre Giancarlo Giorgetti "quando sei all'opposizione devi approfittarne per studiare e per farti trovare pronto". L'unica cosa da fare è quella di avere una prospettiva... uscire fuori dalla pesca delle occasioni». 

FdI al 20% non sembra frutto del caso.

«È il 20% di Giorgia Meloni, non di FdI. La vera scommessa è costruire un progetto politico, non un partito». 

La sinistra, invece, continuerà a sperare politicamente - come scrivesti più di dieci anni fa - di cavasela con un "fascista"...

«Tutti quelli che fanno professione d'antifascismo in assenza di fascismo, oggi - compresi tanti degli attuali vertici di potere - hanno l'aria e la faccia di quelli che, ieri, in presenza di fascismo, se ne sarebbero stati in orbace, fascistissimi. E già li vedi: gli scrittori sinceramente democratici reclutati nei Littoriali, gli attori dell'impegno al seguito di Vittorio Mussolini, il Corriere della Sera in camicia nera e con Otto e Mezzo - ogni sera - a segnare l'ora del destino»!

I vigilanti dell’antifascismo sono come gli stalker. E la loro vittima è Giorgia Meloni. Annalisa Terranova mercoledì 6 Ottobre 2021 su Il Secolo d’Italia. Gli animi sono sovreccitati. Un po’ troppo. La sinistra crede che la destra sia già liquidata. I talk show si stanno attrezzando per la caccia al nostalgico. Ora hanno trovato un consigliere circoscrizionale di FdI a Torino che in un messaggio privato ringrazia i “camerati” che lo hanno sostenuto in campagna elettorale. Sono cose gravi, cose che allarmano, cose che devono mobilitare le coscienze. Poi ci sono quelli della redazione di Fanpage che pensano di meritare il Pulitzer. E quelli che sui social vanno facendo loro complimenti da una settimana. Sono veri ghostbusters, acchiappafantasmi, dovrebbero fare un film su questi eroi del bene. In questo impazzimento generale, occhio, possono rimproverarti di tutto. Tipo: hai votato Rachele Mussolini. Che brutto segnale. Il Paese si preoccupa, il Paese non lo meritava. Dice: ma scusate era in lista, era candidabile, era tutto ok, non è mica un reato darle la preferenza. E no caro elettore: prima di votarla dovevi dire che eri antifascista. Che so al presidente del seggio, oppure scriverlo sulla scheda, una notarella a margine: scusate, voto Rachele Mussolini ma sono antifascista eh, tranquilli. Dice: ma prima di lei è stata votata e rivotata Alessandra Mussolini. Non fa niente. Alessandra ora è una “pentita”. C’è del fascismo strisciante, signori. Occorre denunciarlo. La Meloni non lo denuncia, vergogna.  Ma chi lo dice? Lo dice un certo Andrea Scanzi. Ma anche Enrico Letta, quello che crede di avere l’Italia in pugno ed è diventato più querulo di un cardellino. E allora bisogna fare molta attenzione, perché i vigilanti dell’antifascismo sono sempre in agguato, proprio come gli stalker che non mollano la vittima un secondo. Ogni segnale, anche il più innocente, rientra nel pacchetto “fascista perfetto”. Pure se ti vesti di nero. Il look è importante. Il nero evoca lo squadrismo, non sia mai. Tutto è ormai sotto il loro controllo. Sono pervasivi, sono maestri del lessico. Meloni dice che non c’è posto per i nazisti nel suo partito? Mica basta eh. Deve dire non c’è posto per i fa-sci-sti. Se dice che è contro ogni regime totalitario vuol dire che si rifugia in un artificio dialettico. Dice: ma nella Costituzione non c’è l’obbligo di dichiararsi antifascisti. Ma stiamo scherzando? I vigilanti antifascisti non ti consentono questa osservazione. Bisogna perpetuare gli schemi del 1945 perché altrimenti la sinistra che fine fa? A che serve? Chi se la fila più? Va bene, allora condanniamo il fascismo e finalmente storicizziamo il periodo. Non l’ha già fatto Alleanza nazionale a Fiuggi? Ma siamo matti? Non si può fare. Il fascismo è eterno. Lo dice Umberto Eco. E poi certi riti di purificazione vanno ripetuti nel tempo. Tutte le “religioni” lo impongono, e quella antifascista non fa eccezione.

Dice: ma allora siete ossessionati dal fascismo. E no, non si è mai abbastanza adoratori della religione dell’antifascismo. Mica lo si fa per fanatismo, ma per essere buoni cittadini. E chi non vuole aderire a questa religione? Lasciamo stare, per loro “a Piazzale Loreto c’è sempre posto”. Dice: ma fior di storici hanno confutato la tesi crociana del fascismo come “malattia morale” degli italiani. Storici? E chi sono? Noi si guarda ai topic trend, ai troll di Putin. E’ così che la Bestia ti azzanna…Ma non si potrebbe guardare avanti? Lasciarsi alle spalle il passato? Consegnare gli odi della guerra civile alla storia? No, mica si può. E perché? Eppure lo disse un comunista, uno che si chiamava Luciano Violante. Siamo impazziti? E Saviano poi cosa scrive sui social? E Jonghi Lavarini, lo vuoi lasciare lì a ricostituire il partito fascista senza battere ciglio? I vigilanti antifascisti non ti mollano un secondo. Ti spiano i messaggi su whatsapp, già è tanto che non pretendano di guardarti in biblioteca. Ascoltano come parli, che sport fai, cosa ordini dal menu, osservano i like che hai messo sui social, e magari te ne è scappato uno a un post della cugina di tuo cognato che dava ragione a Salvini. E magari sei passato una volta nella vita vicino a Predappio. O ti sei fatto un selfie al Foro Italico (ex Foro Mussolini). E allora non c’è scampo. Il fascismo è un’infezione che ritorna come un herpes e i guardiani lo devono segnalare al primo sintomo. Guai a distrarsi. Lo fanno per tutti noi. Per renderci più democratici, per renderci migliori. Loro sono i detentori del tampone ideologico che scova il contagio. Non c’è obiezione che tenga. Lo stalking politico ti insegue ovunque. Siamo tutti sotto sorveglianza.

Solo i regimi sciolgono i partiti. Sciogliere Forza Nuova è un’idea cretina, tentazione autoritaria e illiberale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Ottobre 2021. La legge Scelba è del 1952. Prevede il reato di apologia di fascismo. Probabilmente era stata immaginata per poi permettere un secondo passo e la messa fuorilegge del Msi, partito neofascista fondato nel 1947 da Giorgio Almirante e Arturo Michelini. Pochi mesi dopo la legge Scelba nacque l’idea della nuova legge elettorale – che la sinistra ribattezzò “legge truffa” – la quale doveva servire a consegnare il 65 per cento dei seggi parlamentari ai partiti che – dichiarandosi alleati – avessero ottenuto più del 50 per cento dei voti alle elezioni. La Dc disponeva nel 1952 del 48 per cento dei voti e il successo della legge truffa era quasi assicurato, e avrebbe ridotto in modo evidentissimo la forza parlamentare delle opposizioni. In particolare del Psi e del Pci. Che si opposero fieramente, insieme al Msi. La legge fu approvata, dopo una feroce battaglia parlamentare, dopo l’ostruzionismo e lotte persino fisiche tra Dc e sinistre. Ma alle successive elezioni il blocco centrista prese solo il 49,9 per cento dei voti, il premio di maggioranza non scattò, De Gasperi fu travolto, la legge cancellata. E nessuno più pensò l’idea balzana di sciogliere il Msi. Poi, negli anni settanta, la questione tornò a porsi. Lotta Continua, nei cortei, gridava lo slogan “Emme esse i / fuorilegge/ a morte la Diccì / che lo protegge”. Però il Pci si oppose sempre a questa linea. Il Pci – dico – quello ancora legato stretto stretto a tutte le sue tradizioni e litanie comuniste. Però il Pci era un partito politico. Faceva politica. Era guidato da dirigenti colti, preparati, esperti. Nel Pci si capiva quali conseguenze devastanti poteva avere lo scioglimento del Msi. Specialmente per le opposizioni, che sarebbero finite tutte sotto tiro e minacciate. Ma anche – in generale – per la tenuta della democrazia. Il Pci ci teneva molto alla saldezza della democrazia, perché era l’acqua nella quale nuotava. Del resto si sapeva benissimo che la stessa legge Scelba, varata per colpire il Msi, apriva la prospettiva di iniziative legislative contro il Pci, se non anche contro il Psi. Mario Scelba, ministro dell’Interno, era l’espressione della parte più reazionaria della Democrazia cristiana. Ho scritto queste cose perché mi pare che l’idea di sciogliere Forza Nuova sia una assoluta idiozia. È chiaro che non è possibile nessun paragone tra Forza Nuova e il Msi anni 50. Forza Nuova è un gruppetto, il Msi era un partito strutturato e popolare. Ed era anche – nessuno credo che lo possa negare – un partito abbastanza nettamente fascista. Il problema sta nella natura del provvedimento, a prescindere dal bersaglio. Sciogliere un partito, un gruppo, un’organizzazione, per motivi ideologici è una stupidaggine gigantesca, che porta all’immagine della democrazia una ferita molto più grande della modestia del gesto. E che apre varchi pericolosissimi. Se oggi si scioglie Forza Nuova niente esclude che tra qualche mese o tra qualche anno qualcuno chieda lo scioglimento di organizzazioni di sinistra. Anche più forti e radicate di Forza Nuova. Riducendo sempre di più i margini del possibile dissenso politico. Oltretutto alle richieste di scioglimento di Forza Nuova – che sembrano un po’ ripetizioni quasi automatiche di slogan e atteggiamenti di 30 anni fa – si accompagna la folle idea del vicesegretario del Pd di mettere il partito di Giorgia Meloni (che forse oggi, secondo i sondaggi, è il più grande partito italiano) fuori dall’arco democratico e repubblicano. Siamo al diapason della tentazione autoritaria e illiberale. Io mi auguro che Letta intervenga in fretta. Può restare vicesegretario del Partito democratico una persona che chiede di prendere a frustate la nostra democrazia?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il solito vizietto della sinistra: l'allarme fascismo scatta alla vigilia di ogni elezione. Francesco Giubilei il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. ​A volte ritornano. O, per meglio dire, ci sono parole d'ordine e una retorica che non è mai scomparsa ma semmai sopita in attesa di essere utilizzata alla miglior occasione che, guarda caso, coincide con l'avvicinarsi di importanti scadenze elettorali. A volte ritornano. O, per meglio dire, ci sono parole d'ordine e una retorica che non è mai scomparsa ma semmai sopita in attesa di essere utilizzata alla miglior occasione che, guarda caso, coincide con l'avvicinarsi di importanti scadenze elettorali. Siano elezioni politiche, regionali o amministrative, le accuse della sinistra al centrodestra di essere fascista o di strizzare l'occhio al fascismo, tornano in auge e le elezioni di questi giorni non sono da meno. Poco importa se la coalizione di centrodestra non abbia nulla a che fare e abbia preso le distanze in modo netto dall'attacco alla Cgil e da Forza Nuova, la retorica della destra fascista è dura a morire ed è funzionale agli scopi politici della sinistra. D'altro canto, come sottolinea la trasmissione Quarta Repubblica, le tempistiche degli ultimi giorni sono quantomeno sospette: a poche ore dal voto è uscita l'inchiesta di Fanpage, la settimana successiva è stata mandata in onda la seconda puntata fino ai fatti di Roma in cui c'è stata un'evidente falla nella sicurezza. Il pericolo fascista evocato da più parti torna con cadenza ciclica nonostante i leader del centrodestra si siano espressi con chiarezza contro ogni forma di estremismo e violenza. Basta scorrere le cronache degli ultimi trent'anni per rendersi conto di come lo spauracchio fascista sia utilizzato dalla sinistra con finalità politiche ed elettorali. Vale la pena rileggere la prima pagina de l'Unità del 12 settembre 2003 che titola a carattere cubitali «Berlusconi come Mussolini». Sin dalla sua discesa in campo, Berlusconi si è dovuto difendere dalle accuse di fascismo nonostante la sua estrazione liberale, in particolare per l'alleanza con An. Così, mentre Gustavo Zagrebelsky nel 1994 affermava «c'è il rischio di un nuovo regime», Berlusconi rispondeva «Fascismo? L'ho già condannato, i pericoli sono altri». Una condanna non sufficiente visto che nel 2009 il vicedirettore de l'Unità firmava un editoriale dal titolo emblematico: «Il fascista di Arcore». Nonostante la svolta di Fiuggi e la lezione di Pinuccio Tatarella di allargare la destra fondando Alleanza Nazionale, Giorgio Bocca, intervistato su l'Unità, bollava il nuovo partito come composto da «veri fascisti». A poco sono servite le parole di Gianfranco Fini nel 2003 sul «fascismo male assoluto» che fecero tanto discutere e, se oggi Fini è riabilitato dalla sinistra per attaccare gli attuali leader del centrodestra, al tempo le accuse ad An di essere un partito neofascista erano quotidiane. Più o meno lo stesso che accade a Fdi nonostante Giorgia Meloni, già nel 2016, alla domanda di Lucia Annunziata «lei è fascista?», avesse risposto: «Io sono di destra. Sono nata nel 1977, quindi mai stata fascista». Non è andata meglio alla Lega e, se le dichiarazioni contro Salvini si sprecano, già nel 2005, l'allora parlamentare socialista Ugo Intini, intervistato su l'Unità, affermava: «gli estremismi di Pontida sono di tutto il Polo» aggiungendo «il fascismo leghista è sottovalutato». Gli attacchi peggiori a Salvini avvengono proprio nelle settimane precedenti le elezioni come nel caso delle europee del 2019 quando Furio Colombo dichiarava: «Salvini fascista, ma nega come facevano i mafiosi», stessa accusa rivolta dal fotografo Oliviero Toscani, mentre a inizio 2019 lo storico Luciano Canfora a l'Espresso sosteneva «Matteo Salvini alimenta la mentalità fascista». Ma c'è chi, come lo scrittore Claudio Gatti, si è spinto oltre intitolando un suo libro I demoni di Salvini. I postnazisti e la Lega. Un modus operandi utilizzato anche in occasione delle elezioni del 2018 e testimoniato da un articolo di Annalisa Camilli del 5 febbraio 2018 su Internazionale intitolato «Da Fermo a Macerata, la vera emergenza è il fascismo». Come se non bastassero i media nostrani, anche il New York Times, a poche settimane dalle politiche, denunciava il rischio di «antieuropeismo e ritorno al fascismo». Ripercorrendo questi episodi, viene da chiedersi se non esista un altro problema nel nostro paese: una sinistra incapace di accettare un confronto democratico con il centrodestra senza dover in ogni occasione attualizzare un clima da guerra civile polarizzando il dibattito e accusando di fascismo anche chi non ha nulla a che fare con violenti ed estremisti e, pur riconoscendosi nei valori democratici, non si definisce di sinistra.

FRANCESCO GIUBILEI, editore di Historica e Giubilei Regnani, professore all’Università Giustino Fortunato di Benevento e Presidente della Fondazione Tatarella. Collabora con “Il Giornale” e ha pubblicato otto libri (tradotti negli Stati Uniti, in Serbia e in Ungheria), l’ultimo Conservare la natura. Perché l’ambiente è un tema caro alla destra e ai conservatori. Nel 2017 ha fondato l’associazione Nazione Futura, membro del comitato scientifico di alcune fondazioni, fa parte degli Aspen Junior Fellows. È stato inserito da “Forbes” tra i 100 giovani under 30 più i 

Smascherata l'ipocrisia della sinistra: "Quando Fn li faceva vincere..." Francesco Boezi il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Storace ricorda quando, con Forza Nuova sulla scheda, il centrodestra perse voti. E sulla fiamma nel simbolo rammenta la parabola di Fini. É un Francesco Storace in vena di ricordi quello che ha commentato le recenti vicende riguardanti Forza Nuova e la relativa mozione di scioglimento dell'organizzazione estremista avanzata da parte del Partito Democratico. Storace ha infatti elencato una serie di circostanze in cui, la presenza del partito di Roberto Fiore sulle schede elettorali, ha a parer suo penalizzato la destra parlamentare, contribuendo ad una dispersione di voti che è servita al centrosinistra per trionfare in determinati appuntamenti elettivi. La prima riflessione del vicedirettore de Il Tempo, però, è dedicata all'accomunare la destra in generale:"La gravità del comportamento politico della sinistra - ha fatto presente l'ex presidente della Regione Lazio - è voler assimilare chi ha fatto violenze a una comunità che le violenze le subisce. Mentre parliamo, in questi mesi si sono accumulate azioni criminali contro FdI, Lega e addirittura il sindacato Ugl, senza che nessuno abbia condannato o si sia sognato di sciogliere le organizzazioni di sinistra". Insomma, la destra che siede in Parlamento sarebbe la prima vittima delle violenze. E l'associazione con Forza Nuova sarebbe unicamente strumentale. Poi l'ex Alleanza Nazionale, che è stato sentito in merito dall'Agi, presenta un excursus sui rapporti tra la destra di governo ed i microcosmi posizionati sul lato dell'estremismo ideologico: "È evidente - ha continuato l'ex leader laziale - che c’è la strumentalità. Chi conosce la destra sa che c’è sempre stato fin dai tempi del Msi uno spartiacque tra i partiti e le formazioni extraparlamentari. Ci sono state occasioni di contatto - ha ammesso - ma mai sulla pratica della violenza, e comunque si è trattato di occasioni contingenti. Si vuol far partire una sorta di abiura per un’operazione politica di parte". Quindi Forza Nuova e Fratelli d'Italia, ad esempio, sono due universi ben distanti, pure per via del pregresso. A questo punto, arriva il passaggio sulle sconfitte subite, secondo Storace, pure per via di Forza Nuova: "Fiore e Casapound - ha ricordato alla fonte sopracitata - li ho avuti contro alle Regionali, quando correvo contro Zingaretti ma all’epoca la sinistra non insorgeva perchè toglievano i voti a me. Nel 2005 stessa storia, con la Mussolini, che fece vincere Marrazzo". Due episodi precisi in cui il centrodestra non è riuscito ad affermarsi pure a causa dei voti andati a finire tra le sacche di Forza Nuova e dintorni. Sulla mozione di scioglimento, peraltro, l'ex vertice di An segnala la mancata unità persino tra gli esponenti della sinistra, citando Stefano Fassina: "Ho letto le sue affermazioni e ha ragione: se la mozione sullo scioglimento di Forza Nuova venisse votata solo dalla sinistra, vorrebbe dire che solo quella parte è depositaria di valori come la democrazia". E ancora: "Tutto appare quindi strumentale, in campagna elettorale. Addirittura è stata indetta una manifestazione sindacale durante il silenzio elettorale. Che ci andrebbero a fare Salvini e la Meloni, a prendersi i fischi?". Dunque la manifestazione antifascista annunciata sarebbe, in buona sostanza, una trappola. C'è, infine, chi ha attaccato Giorgia Meloni per via della presenza della fiamma nel simbolo del partito che presiede. Ebbene, Storace ha ancora pescato dalla memoria, rammentando a tutti come la vicenda non sia proprio una novità, per usare un eufemismo: "Ebbene - ha detto riferendosi a Gianfranco Fini - lui è andato al governo nel 1994 come ultimo segretario del Msi, è stato vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri e presidente della Camera, e nessuno gli ha mai rinfacciato la Fiamma tricolore. Addirittura Mirko Tremaglia - ha chiosato Storace - ex-combattente della Rsi, è stato ministro. Punire violenza d’accordo, ma che c’entra con l’abiura".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali e

Quei fantasmi del Novecento. Vittorio Macioce il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Rare tracce di Novecento. Non basta un nome per essere democratici. Il Pd chiede alla Meloni la patente di antifascismo, ma con una manciata di parole avvelena la politica italiana. Rare tracce di Novecento. Non basta un nome per essere democratici. Il Pd chiede alla Meloni la patente di antifascismo, ma con una manciata di parole avvelena la politica italiana: evoca l'ostracismo contro l'avversario parlamentare. Non lo riconosce e lo indica come nemico. A tracciare la linea è Giuseppe Provenzano, ex ministro del governo Conte e soprattutto vice segretario del Partito democratico. Dice Provenzano: «L'ambiguità della Meloni la pone inevitabilmente fuori dall'arco democratico e repubblicano». È un foglio di via. Alla base di questo discorso ci sono gli squadristi di Forza Nuova, un movimento che si definisce fascista e da tempo sguazza nel caos e nella paura. Sono perfetti per il ruolo e si godono il quarto d'ora di celebrità. Non si preoccupano più di tanto di essere messi fuori legge. È quello che in fondo aspettano da tempo. È la loro reale legittimazione. È il segno che la democrazia li teme, li porta al centro del discorso, dentro la storia. Non sono mai stati così centrali. L'assalto alla sede dalla Cgil, violento e vergognoso, sembra una citazione del «biennio rosso», vecchia un secolo. È il teatro delle camicie nere. L'obiettivo è spargere pezzi di Novecento per sentirsi protagonisti. È prendere i fantasmi, le questioni irrisolte, e incarnarli nelle nostre paure, vomitando vecchie parole d'ordine e nuovi razzismi. E sono furbi, perché ottengono le contromosse sperate. Al Novecento si risponde con il Novecento e ci si impantana nel passato, riesumandolo, scommettendo sull'eterna roulette del rosso e del nero. Come disarmare Forza Nuova? La strada più diretta è punirli per quello che fanno: la violenza è un reato. Non sottovalutarli, ma neppure farli diventare i protagonisti di una campagna elettorale. Non giocare questa partita per conquistare Roma. Non sciogliere Forza Nuova solo per colpire la Meloni. Il rischio è fare danni, perché delegittimi l'opposizione e disconosci più o meno il 18 per cento degli elettori. Non è un bene per nessuno. Se la Meloni è fascista allora tutto torna in discussione. È fascista un ex ministro. È fascista un partito che sta in Parlamento e partecipa alla vita democratica. È fascista il presidente dei conservatori europei e sono fascisti i suoi alleati. È fascista chi la vota. Davvero il Pd è pronto a sottoscrivere tutto questo? Non c'è democrazia se un solo partito concede patenti di legittimità a tutti gli altri. E questo perfino Enrico Letta e Giuseppe Provenzano, forse, lo sanno. Il buon senso è quello di Mattarella: «Il turbamento è forte, la preoccupazione no. Si è trattato di fenomeni limitati». Vittorio Macioce

L'aria che tira, Guido Crosetto gela Fiano: "Per fortuna che sono un ex democristiano, altrimenti..." Libero Quotidiano il 12 ottobre 2021. Ora tocca a Giorgia Meloni. Ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira, Guido Crosetto, fondatore di Fratelli d'Italia, riflette sulla "strategia" contro FdI messa in atto anche da esponenti ufficiali del Pd come Beppe Provenzano. "Un classico di ogni campagna elettorale - spiega Crosetto -. Ma è un tema che deve porsi innanzitutto la Meloni: deve togliere queste frecce dalle mani dei suoi avversari, che alla fine non la fanno parlare delle sue proposte e la costringono a difendersi". Dietro l'onda di indignazione "a comando" che si sta riversando sulla Meloni per effetto dell'inchiesta Lobby nera di Fanpage e Piazzapulita prima e delle violenze di piazza dei No Green pass di sabato scorso a Roma (e frettolosamente spedite nel "campo" della Meloni, secondo Crosetto però c'è una buona dose di strumentalizzazione politica. E a Emanuele Fiano, big democratico anche lui in collegamento con La7, forse fischieranno le orecchie. "Parlate di Fratelli d'Italia come un partito nato ieri da quello Nazista - sottolinea Crosetto in collegamento -. Il percorso di Giorgia Meloni è passato attraverso la svolta di Fiuggi, non ha mai avuto legami col fascismo. Ricordo che La Russa è stato ministro della Difesa e non ha invaso Libia ed Etiopia, che anche la Meloni è stata ministra...". Qualora non bastasse questo elenco, arriva l'ironia amara di Crosetto: quelli di Fratelli d'Italia "sono gli avversari principali di Forza Nuova o degli elementi estremistici di destra. Fossi in loro mi sentirei offeso di questa necessità di chiedere patenti di democrazia a persone che sono sempre state democratiche. Io ho la fortuna di essere stato democristiano, altrimenti pelato così chissà cosa mi direbbero...". Qualcuno ride di fronte a questa battuta, ma la situazione è decisamente deprimente.

Ecco chi sono i veri violenti: estremisti rossi e anarchici. Lo dice lo studio Ue. Chiara Giannini il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. I dati del rapporto sul terrorismo: nel 2020 mai attacchi da destra. L'Italia è il Paese più colpito dagli assalti degli ultrà di sinistra. I partiti di sinistra chiedono di sciogliere Forza Nuova e tutte le realtà legate al neofascismo, ma la realtà è che la maggior parte degli attacchi terroristici non di matrice jihadista avvenuti negli ultimi anni in Europa e in Italia sono stati messi in atto da gruppi di estrema sinistra o anarco-insurrezionalisti. La conferma arriva dalla pubblicazione del report annuale Te-Sat (Terrorism situation and trend report 2021) che riporta come nel corso del 2020 gli attacchi di tipo terroristico avvenuti in Europa sono stati 422. Di questi 314 sono attribuibili a jihadisti e 48 a gruppi di estrema sinistra. In Italia lo scorso anno non si è avuto alcun episodio terroristico legato all'estrema destra, mentre 23 sono stati i casi di attacchi da parte dei gruppi anarco-insurrezionalisti o similari. Basti ricordare i cortei violenti di Torino, l'attacco ai cantieri Tav e molti altri episodi che quando si tratta di attaccare tutto ciò che è di destra magicamente scompaiono dai ricordi degli esponenti di sinistra. Nel rapporto 2021 dell'osservatorio ReAct sul radicalismo e il contrasto al terrorismo si specifica che «gli attacchi terroristici perpetrati da gruppi di estrema sinistra e anarco-insurrezionalisti nel 2018 in Europa - 19 eventi, di cui 13 in Italia - si situano al secondo posto dopo quelli di matrice jihadista - 24 azioni con 13 morti. Nel complesso si impone l'inconsistenza degli attacchi attribuiti a gruppi di estrema destra, storicamente marginali nelle statistiche del terrorismo in Europa: un solo evento nel 2018, a fronte dei 5 del 2017». Si chiarisce anche che l'Italia «nella graduatoria europea, è il Paese più colpito da attacchi di estrema sinistra: il 70% di tutti gli attacchi in Europa». Claudio Bertolotti, direttore di Start InSight e dell'Osservatorio ReaCt, specifica: «La pandemia da Covid-19 ha avuto effetti rilevanti sulla società, andando ad alimentare e a fomentare forme di disagio sociale latente che sono presto esplose. Un fenomeno sommerso che si diffonde e consolida con le chat di Telegram, di Signal o con la diffusione di video e notizie false attraverso altri social. E sono proprio le notizie false, spesso associate a fittizi studi scientifici o informatori anonimi, che alimentano il fenomeno di un sempre più pericoloso e diffuso fenomeno cospirazionista». Peraltro sempre più ampio e tutt'altro che imprevedibile. «Questo - dice ancora - accomuna per le strategie operative e le metodologie comunicative sia gli ambienti di estrema destra che quelli di estrema sinistra, come dimostrano i numerosi episodi di violenza, anche in Italia, nelle manifestazioni del 9 ottobre che richiamano alla memoria gli episodi di violenza insurrezionale alimentata dall'ideologia di QAnon dello scorso 6 gennaio a Washington e alle immagini evocative che sono giunte da Capitol Hill». Bertolotti chiarisce che «l'estremismo violento di destra si sta evolvendo in un fenomeno transnazionale, mentre sviluppa una preoccupante relazione simbiotica e una stretta interdipendenza con l'estremismo di matrice islamista e si pone in un rapporto di competizione collaborativa, condividendone alcune ragioni di fondo (in particolare l'opposizione all'imposizione da parte dello Stato di regole e presidi sanitari, recepiti come minaccia alla libertà), con la violenza della sinistra estrema e dei movimenti anarco-insurrezionalisti. Un'evoluzione che avviene attraverso il comune terreno dell'ideologia No vax e, ora, No green pass».

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia non ne esci più. Ho fatto reportage sulle missioni in Iraq, Libano, Kosovo, il confine libico-tunisino ai tempi della Primavera araba e della morte di Gheddafi e sull’addestramento degli astronauti a Star City (Russia). Sono scampata all’agguato di scafisti a Ben Guerdane, di ritorno da Zarzis, tre le poche a documentare la partenza dil barconi. Ho scritto due libri: “Come la sabbia di Herat” e l’intervista al leader della Lega, dal titolo “Io sono Matteo Salvini”, entrambi per Altaforte. Sono convinta che nella vita contino solo due cose: la verità e la libertà. Vivo per raccontare il mondo, ma è sempre bello, poi, tornare a casa e prendere in mano un giornale e rileggere il tuo articolo. 

Altro che galassia fascista. Le chat No Vax inneggiano alle Br. Francesca Galici il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Gli scontri di Roma e Milano sono stati solo "un'anteprima": i no pass alzano il tiro e minacciano azioni sempre più violente in vista del 15 ottobre. I no pass non si arrendono e dopo gli scontri di Roma lo dicono chiaro e tondo nelle ormai celebri chat su Telegram: "Sabato 9 ottobre è stata solo un'anteprima". Annunciano un crescendo di tensioni nelle città italiane per arrivare al 15 ottobre quando, dicono, "sarà guerrà". Il Viminale si sta organizzando per scongiurare altre piazze calde come quelle di Roma e di Milano dello scorso weekend, si stanno predisponendo controlli serrati e strette sulle manifestazioni ma dall'altra parte non sembrano intenzionati ad arrendersi, alzi, considerano le azioni del governo come una sfida nei loro confronti. "Che guerra sia, per come si stanno muovendo le cose", dicono spavaldi facendosi forza gli uni con gli altri. Al momento, nei gruppi Telegram e su Facebook si stanno organizzando per scendere in piazza dal 15 ottobre, giorno in cui il Green pass diventerà obbligatorio per tutti i lavoratori. Vogliono manifestare a oltranza e il 19 ottobre pare sia in programma un "girotondo" a Montecitorio. Sono tanti quelli che spingono per la protesta pacifica ma quelli che, invece, vogliono arrivare allo scontro frontale non sono certo pochi. "Gli devi tirare le bombe a questi per capire come si lotta", si legge scorrendo nei loro discorsi, spesso deliranti, che inneggiano alle "bombe a mano per i poliziotti antisommossa". I due grandi cortei di sabato 9 si sono svolti a Milano e a Roma. In entrambe le città i manifestanti e le forze dell'ordine sono arrivati allo scontro ma è nella Capitale che la lotta si è fatta più dura. "La prossima volta non ci troverete a mani nude", minacciano i no pass violenti, come se a Roma non siano state lanciate bombe carta nei pressi di Montecitorio. E sono proprio i palazzi di piazza Colonna l'obiettivo di parte dei manifestanti, che nelle loro intenzioni vorrebbero occupare palazzo Chigi e il parlamento per spingere i politici al passo indietro. "Prendete i Palazzi", "Draghi, ti veniamo a prendere sotto casa", si legge ancora. Ma gli obiettivi sono molto più ampi, perché l'auspicio di qualcuno è che "brucino in piazza tutti quei criminali". Ma la strategia sembra più complessa di quello che non appare limitandosi a leggere questi discorsi, perché scorrendo nelle chat si intuisce che i fronti sui quali vogliono combattere sono molteplici e non si fanno scrupoli nel portare in piazza i più deboli da utilizzare come scudi umani davanti alle forze dell'ordine. "Ma se mettiamo anziani e bambini davanti alle manifestazioni, che faranno?", si domanda qualcuno. Il popolo dei "pronti a tutto", come si definiscono in alcuni scambi di vedute, ha principalmente tre obiettivi: la politica, la stampa e le forze dell'ordine. I giornalisti vengono definiti "servi del potere", "schiavi della dittatura" ed ecco che arrivano anche le proposte di "sfasciare" le redazioni perché "dicono una marea di cazzate", oppure di "occupare le emittenti tv". Ai manifestanti di Milano è stato chiesto di andare a Mediaset e alla Rai e i giornalisti, come si è visto sabato 9 ottobre, hanno rischiato in più di un'occasione di essere aggrediti dai manifestanti mentre documentavano gli scontri. E così, tra chi incita alla violenza al grido di "speriamo di bruciarli tutti", ci sono anche i nostalgici, non solo quelli neri, che rimpiangono gli anni di piombo: "Purtroppo non ci sono più le Br". E ci sono anche gli irriducibili dei primi Duemila: "Sono qui, no Global 100%, insieme a molti altri. Combattevo allora per diritti di altri che sono nati in altri Paesi, oggi combatto per il mio, dove i diritti sono stati corrotti e negoziati per Big pharma. Ora come oggi mi oppongo allo strapotere delle multinazionali. Di black block non voglio sentir parlare". Nelle chat le minacce non sono più troppo velate e nemmeno la consapevolezza che i gruppi siano strettamente attenzionati dalle forze dell'ordine che, nello svolgimento del loro lavoro, controllano le frange più eversive funziona come deterrente. "Guardarli in faccia e poi aspettarli sotto casa... Vedi come gli passa", è la promessa fatta ai poliziotti, ai politici e ai giornalisti.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio. 

Landini vittima di se stesso: suoi gli slogan più feroci contro il green pass. Laura Cesaretti il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. È stato il leader Cgil ad aizzare il popolo No Vax: "Non si può pagare per lavorare". E anche il ministro Orlando l'ha bacchettato: "Ambiguo". La nemesi, a volte: «Non si può pagare per lavorare», era lo slogan più ripetuto per eccitare le caotiche piazze novax che manifestavano contro il Green Pass obbligatorio. Compresa la piazza di Roma, quella che ha prodotto l'assalto teppistico dei manifestanti, guidati da neofascisti noti alle cronache giudiziarie della Capitale, alla sede della Cgil. Peccato che l'inventore del fortunato slogan fosse proprio il padrone di casa, Maurizio Landini, che per settimane lo ha ripetuto in ogni microfono a sua disposizione, guidando una bellicosa resistenza alla decisione del governo Draghi di introdurre l'obbligo di vaccino o tampone per accedere ai luoghi di lavoro e di socialità. «Il lavoro è un diritto - era il suo ragionamento - non può esistere che si debba pagare per poter entrare in fabbrica o in ufficio». Una questione di principio, per Landini, che (siamo a metà settembre) sfidava Draghi: «Il governo non ha saputo prendere la decisione dell'obbligo vaccinale per le sue divisioni interne, abbia il coraggio di dirlo. Hanno fatto tutto senza consultarci, come sempre, e ora pretendono che a pagare siano i lavoratori». La soluzione proposta dal leader sindacale era la stessa escogitata ora da Beppe Grillo: tamponi gratis (ossia a spese dei «padroni» e dei contribuenti vaccinati) per i novax: «Il costo non può essere a carico del lavoratore: siano le aziende, con l'aiuto dello Stato, a sostenere le spese per garantire a tutti il diritto di lavorare». Rivendicazioni simili a quelle arrivate dai tumulti no-green pass, in sostanza. È una classica vicenda da apprendisti stregoni, che prima invocano e animano la sarabanda, e poi ne rimangono vittime. Prova ne sia il fatto che non sono stati solo gli squadristi di Forza Nuova a prendersela col capo della Cgil, ma anche il fronte uguale e contrario della «protesta rossa»: dai Cobas a Rifondazione comunista, passando per centri sociali e studenti di sinistra, che hanno bersagliato Landini e la Cgil, che ha contestato prima ma non impedito poi l'introduzione del pass, a suon di «venduti» e «servi dei padroni». Che la posizione iniziale di Landini sia stata ambigua lo ha riconosciuto anche il ministro del Lavoro Andrea Orlando: «Si è illuso, secondo me sbagliando, che l'obbligo vaccinale gli risparmiasse la gestione dei conflitti sui luoghi di lavoro: credo sia stata una scelta errata». E non è un caso che, dopo l'assalto novax alla Cgil, Landini abbia un po' pattinato sui fatti, negando l'evidenza: «L'attacco squadrista non c'entra nulla con il Green Pass», ha sostenuto. «È stato un assalto contro il mondo del lavoro e il sindacato». E subito ha convocato una manifestazione pro-Cgil (da tenere, certo del tutto casualmente, alla vigilia dei ballottaggi) con parole d'ordine sufficientemente vaghe da non entrare minimamente nel merito delle agitazioni degenerate in vandalismo: «Per il lavoro e la democrazia». Vaste programme, avrebbe detto il generale De Gaulle. Ma non un fiato contro i novax del no-green pass. Laura Cesaretti 

I disordini, i terribili giorni del Quirinale e le Porte dell'Inferno. Piccole Note l'11 ottobre 2021. “Né con lo Stato né con i No Vax è un lusso che nessuno può concedersi”. Così Michele Serra sulla Repubblica (vedi Dagospia) a commento delle recenti violenze di piazza. L’azione degli estremisti di destra, che è riuscita a dirottare una manifestazione contro il Green pass su lidi violenti e contro la sede della Cgil, si è così realizzata con successo, avendo conseguito il risultato di criminalizzare la resistenza a un’iniziativa politica discutibile e che si vuole indiscutibile. Ciò non perché lo scriva il povero Serra, ma perché egli dà voce alla narrativa che va consolidandosi e che porta in tale direzione. Gli estremi, al solito, fanno il gioco del potere, anzi ne sono utilizzati, una pratica che l’Italia conosce dai tempi della strategia della tensione. Ma allora occorreva cercare i manovratori dei fili – i Burattinai, come da titolo di un interessante libro di Philip Willan, cronista inglese e quindi più libero di altri – oltre i nostri confini, come ad esempio la scuola parigina di lingue Hyperion, frequentata da Mario Moretti e Corrado Simioni, alti funzionari della macchina del Terrore. Oggi le scuole dove si intrecciano tali indebiti rapporti sembrano essere più prossime, dato che quelle che un tempo erano infiltrazioni negli apparati dello Stato e nella politica hanno ormai rotto gli argini e dilagato. Peraltro, la funzionalità al potere di tali frange estreme la denota l’obiettivo delle violenze: la sede della Cgil, che nulla ha a che vedere con l’introduzione del green pass. Si restringono così i già esigui spazi di resistenza al provvedimento, diventato, agli occhi di tanti, un simbolo di un’asserita deriva autoritaria, nonostante forse tale deriva si concretizzi in altro e ben più stringente (anche se un pass per lavorare, in una Repubblica democratica fondata sul lavoro, così il primo articolo della Costituzione, lascia ovviamente perplessi). In realtà, reputare che il green pass sia un mezzo di controllo dei cittadini, almeno al momento e in tali forme, appare tema controverso, per il fatto che, ad esempio, tale controllo si verifica da tempo e in modo ben più capillare attraverso la rete e l’intelligenza artificiale che la scandaglia a strascico a uso e consumo del potere reale.

Certo, il pass è un simbolo, ma la guerra ai simboli rischia di diventare anch’essa simbolica, cioè distaccata dal reale e, come tale, si presta alle strumentalizzazioni del caso. Il potere, quello reale, vive di simboli, e nella dialettica simbolica si rafforza. Servirebbe un singulto di realismo, ma sembra ormai troppo tardi, dato che l’Italia è stata consegnata, e si è consegnata, a certo potere transnazionale, con la politica inerme o funzionale a esso (ma meglio gli inermi, ovviamente). Da questo punto di vista, le elezioni amministrative sembrano aver confermato tale deriva: non per nulla, all’indomani di queste, Dagospia, l’ultimo media italiano e come tale organo ufficiale del potere reale (con labili spazi alternativi), dichiarava con enfasi: “Ha vinto Draghi”. E ciò non tanto per la vittoria del cosiddetto centro-sinistra (che di sinistra non ha più nulla) nelle città più importanti, un risultato che dopo i disordini di sabato sembra doversi confermare nel secondo turno romano – dove tale vittoria era più che probabile, ma non certa -, quanto per la stretta che il potere ha operato in questa occasione, come confermato dai disordini in oggetto. Da questo punto di vista, per tornare nel campo dei simboli, come il crollo del ponte Morandi ha salutato, con saluto nefasto, l’intemerata sfida al potere reale posta, nonostante le tante ambiguità, dal cosiddetto governo giallo-verde, le fiamme che hanno divorato il ponte di ferro di Roma sembrano inaugurare una nuova stagione italica. Una stagione che vede aprirsi i terribili giorni del Quirinale, come ebbe a definirli l’ex presidente Francesco Cossiga al momento di dimettersi prima della scadenza naturale del suo mandato. Giorni che, in maniera simbolica, si aprono con una mostra realizzata presso le Scuderie del Quirinale, dedicata all’Inferno, con i visitatori che verranno accolti al loro ingresso, come recita la guida, dall’opera di Rodin “Le porte dell’Inferno“. In realtà, si tratta di una celebrazione in onore di Dante, nella quale le artistiche evocazioni infernali vanno a concludersi col noto finale della sua Commedia divina, cioè con “e quindi uscimmo a riveder le stelle”. Conclusione di una commedia, appunto, che, come tale, ha il lieto fine ascritto nella sua essenza. Nel caso italico, che più che commedia appare tragedia, tale conclusione resta tutta da vedere.

Alessandro Sallusti, tra le spranghe di Forza Nuova e le parole del Pd non vedo grande differenza. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 12 ottobre 2021. È vero, la democrazia è in pericolo. Ma non perché quattro pregiudicati di estrema destra hanno trascinato qualche decina di idioti a sfasciare una sede della Cgil, tanto è vero che sono stati arrestati e denunciati. No, la democrazia è più in pericolo perché ieri il vicesegretario del Pd ed ex ministro per il Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano, ha buttato lì l'idea di chiudere per legge Fratelli d'Italia, unico partito democratico di opposizione di questo Paese, oltre che di governo in quasi tutte le più importanti regioni italiane senza che ciò provochi alcun turbamento democratico. Tra le spranghe di Fiore, leader di Forza Nuova a capo dell'assalto alla Cgil, e le parole di Provenzano non vedo una grande differenza: l'avversario va distrutto materialmente con la forza dei bastoni o con quella della legge. C'è però una differenza non da poco: quelli di Forza Nuova vivono ai margini della società e oggi sono in galera, Provenzano e quelli come lui siedono in Parlamento. Ricordate il teorema secondo il quale "Berlusconi non è legittimato a governare" espresso più volte dalla sinistra (anche giudiziaria) nonostante gli oltre dieci milioni di voti raccolti ad ogni elezione? Ecco, ci risiamo. In Italia o sei di sinistra - e allora i conti con la storia e con le tue frange estreme puoi non doverli fare - oppure sei fuori dall'arco costituzionale a prescindere. Altro che fascismo, questa è la peggiore forma di totalitarismo perché non dichiarata, subdola. Ci fu un momento nella storia recente d'Italia - primi anni Settanta - in cui il Pci e i sindacati furono, loro sì, se non collaterali almeno omertosi e quindi protettivi nei confronti del nascente terrorismo rosso, che stava attecchendo nelle fabbriche e nei quartieri popolari come ha raccontato uno che c'era, Giuliano Ferrara. Ma nessuno si permise di chiedere la messa al bando del Pci e il terrorismo fu sconfitto anche dall'argine che quel partito poi innalzò contro la violenza. Ecco, Fratelli d'Italia è l'argine più sicuro e democratico che abbiamo contro rigurgiti fascisti e chi lo nega è in evidente malafede. Se non fosse ridicola, se dovessimo prenderla sul serio, la proposta di Provenzano metterebbe di fatto il Pd fuori dall'arco costituzionale.

Giampiero Mughini per Dagospia il 12 ottobre 2021. Caro Dago, il mio amico e conterraneo Francesco Merlo, che non è soltanto uno dei più valorosi giornalisti della sua generazione ma anche uno dei più colti (Il che non guasta persino nell’attività giornalistica), mi fa via mail alcune obiezioni alla mia riluttanza a usare il termine “fascismo” a proposito di quelle oscene macchiette che hanno sfondato le finestre per poi devastare gli arredi della sede nazionale della Cgil. A me che sul “Foglio” avevo scritto che Benito Mussolini e Giuseppe Bottai si stanno rivoltando nella tomba a sentire chiamare “fascisti” le suddette macchiette. Francesco replica che nel fascismo non c’erano soltanto tipi come Bottai ma anche come il famigerato Alessandro Carosi, strenuo combattente nella Prima guerra mondiale, uno che da squadrista e uomo di fiducia del capo della federazione fascista pisana si autoproclamava autore a colpi di una rivoltella Mauser di 11 omicidi e 20 ferimenti. Se è per questo era un fascista cento per cento anche Amerigo Dumini (accento sulla “u”), quello che a capo di altri quattro squadristi agguantò per una strada di Roma il deputato socialista Giacomo Matteotti per poi martoriarlo e ucciderlo nella stessa auto con cui lo avevano rapito. Ebbene, nell’usare noi il termine “fascista” a cento anni dalla marcia su Roma è su personaggi alla maniera di Carosi e di Dumini che dobbiamo fare perno - e dunque stabilire eguaglianze tra ieri e oggi - o valutare il fascismo italiano (forse sarebbe più esatto dire “il mussolinismo”) nel quadro dello spaventoso collasso delle democrazie occidentali nel primo dopoguerra, e tanto più alla luce della minaccia che su quelle democrazie proveniva dal riuscitissimo colpo di mano bolscevico nella San Pietroburgo dell’ottobre 1917? A cento anni di distanza dobbiamo valutare il fascismo (e la sua riuscita e la sua durata) come un fenomeno storico-politico o come un fenomeno meramente criminale? A cento anni di distanza, ripeto. E’ assurdo dire che il fascismo storico è morto e sepolto il 25 aprile 1945, e che da quel giorno tutti coloro che levano la mano destra nel saluto fascista rientrano in una tutt’altra narrazione civile e culturale? E’ assurdo, caro Francesco, dire che a usare il termine “fascismo” oggi come un randello con cui bastonare i più volgari tra quelli che ci stanno antipatici non spieghi nulla di ciò che è proprio alle democrazie complesse dell’Europa del terzo millennio? A me sembra evidente che non è assurdo affatto, anzi è salutare a voler fronteggiare i pericoli odierni che incombono sulla nostra democrazia. Dirò di più. E’ totale la mia riluttanza a usare termini generalissimi nati nei contesti i più drammatici del Novecento. Fosse per me non userei mai e poi mai il termine “Resistenza”, e bensì il termine “guerra civile”, un termine che fino a vent’anni fa era off-limits fra le persone politicamente dabbene e che invece spiega cento volte meglio che cosa accadde lungo tutto lo stivale in quei due anni stramaledetti. Certo che nel fascismo c’era anche Carosi. Epperò nella Resistenza c’erano anche quei partigiani che al limitare di Bologna - non ricordo più se alla fine del 1945 o all’inizio del 1946 - intercettarono un diciassettenne in bicicletta e gli chiesero chi fosse. Era il figlio di Giorgio Pini, un giornalista fascista (e persona immacolata) che era in quel momento in carcere e al quale suo figlio aveva appena fatto visita. Il cadavere di quel diciassettenne non è mai più stato ritrovato. Per essere un episodio meramente criminale, fa adeguatamente il paio con l’atroce itinerario umano e politico di Carosi. Non per questo noi useremo il termine “Resistenza” a partire da questo episodio. Semplicemente, almeno per quanto mi riguarda, lo useremo il meno possibile. Tutto qui. Un abbraccio, Francesco

Leggere Pasolini contro il fascismo "antifascista". Nicola Porro il 12 Maggio 2019 su Il Giornale. «I giovani fascisti di oggi non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli». Quando Italo Calvino scrive queste parole sul Messaggero del 18 giugno 1974, Pier Paolo Pasolini s'infuria e risponde con una lettera aperta su Paese Sera: «Augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male». «Pasolini non c'è più. Però - ha rassicurato Michela Murgia, in un servizio andato in onda su Quarta Repubblica - ci siamo noi». Cioè, loro: i nuovi intellettuali della sinistra impegnata. Che, come Calvino, non hanno nessuna voglia di incontrare un fascista. Nemmeno per sbaglio, tra gli stand del Salone del Libro. Pasolini, invece, con i fascisti parlava. La sua ultima poesia, Saluto e augurio, inizia così: «voglio parlare a un fascista,/ prima che io, o lui, siamo troppo lontani». Contro l'atteggiamento di Calvino e degli altri antifascisti militati, Pasolini scrive: «Ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti». È il famoso fascismo degli antifascisti. Così lo definisce Pasolini negli Scritti corsari. Mentre nelle Lettere luterane, testo più nascosto, e per questo lo suggeriamo, Pasolini si spinge ancora più in là: fa a pezzi i giovani della nuova sinistra, tutti con il certificato dell'antifascismo doc. Perché, scrive, «essi aggiungono, dentro lo schema del conformismo assimilato - come ai tempi delle orde - dall'ordine sociale paterno, una nuova dose di conformismo: quello della rivolta e dell'opposizione».

Nicola Porro è vicedirettore de il Giornale e si occupa in particolare di economia e finanza. In passato ha lavorato per Il Foglio e ha condotto il programma radiofonico "Prima Pagina" su Rai Radio Tre. Attualmente, oltre a scrivere per il Giornale, gestisce il blog "Zuppa di Porro" su

La lezione di Pasolini a Fiano: “Antifascismo, arma di distrazione di massa”. Redazione martedì 12 Dicembre 2017 su Il Secolo D’Italia. “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda”. Un’arma di distrazione di massa, scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1973 in una lettera ad Alberto Moravia, con la quale, se oggi fosse vivo, sarebbe stato additato di collateralismo con Mussolini e la destra estrema e magari sarebbe sto sbattuto in prima pagina con un editoriale su Repubblica. Pasolini, oggi, non piacerebbe Fiano, l’artefice della legge contro la nostalgia del fascismo, ma neanche a Laura Boldrini, paladina della sinistra partigiana che getta benzina sul fuoco per alimentare una vecchia contrapposizione ormai inattuale. E che per Pasolini lo era già negli anni Settanta, altro che onda nera. Ecco cosa scriveva nei suoi “Scritti corsari”. “Non c’è più dunque differenza apprezzabile, al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando, tra un qualsiasi cittadino italiano fascista -e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili…». E i fascisti dell’epoca? “Si tratta di una definizione puramente nominalistica e che porta fuori strada. È inutile e retorico fingere di attribuire responsabilità a questi giovani e al loro fascismo ,-nominale e artificiale. La cultura a cui essi appartengono è la stessa dell’enorme maggioranza dei loro coetanei». Oggi, ovviamente, la distrazione di massa impone di cavalcare l’allarme fascista, unico collante di una sinistra che forse stava iniziano a morire fin dai tempi di Pasolini…

“MI CHIEDO, CARO ALBERTO, SE QUESTO ANTIFASCISMO RABBIOSO…” – DALLA SECONDA LETTERA DI PASOLINI A MORAVIA (?) “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso…” – dalla seconda lettera di Pasolini a Moravia (?)  Shadow Ranger 3 Aprile 2019 su Bufale.net. La lettera del caro Alberto è uno degli apocrifi più famigerati della storia Italiana, seguito solo dall’apocrifo di Pertini cavernicolo armato di mazze e pietre. Ricostruzione di uno dei memes originali dell'”apocrifo di Pasolini del “Caro Alberto”. 

L’apocrifo del Caro Alberto, per intero, recita così: Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda. E sostanzialmente non è mai comparso in alcuna produzione letteraria prima di un post (ora rimosso e non più accessibile) di un blog del 2016, archiviato e censito dalla fondazione Elia Spallanzani. Il linguaggio è un evidente centone Pasoliniano nel quale l’imitazione del linguaggio dello scrittore è quasi perfetta, un falso creato a tavolino da un autore zelante ma non troppo. In primo luogo, la locuzione arma di distrazione, che nelle versioni più arcaiche del testo viene addirittura esplicitata nella forma estesa “arma di distrazione di massa” non è apparsa nell’orizzonte letterario e linguistico italiano prima del 1997. Come ricorda Internazionale, tale frase fu resa popolare dapprima da un film di quegli anni, e poi, sei anni dopo, da una trasmissione satirica di Sabina Guzzanti (chiamata appunto RaiOT – Armi di distrazione di massa). E sarebbe ben strano per Pasolini, morto nel 1975, arricchire il suo linguaggio con costrutti e metafore introdotti dopo la sua morte. Neppure possiamo credere all’immagine di un Pasolini “teledipendente” che si abbassa a svilire il suo ricercato linguaggio coi tormentoni del piccolo schermo come l’ultimo dei vidioti, i teledipendenti drogati dal piccolo schermo descritti dalla fantascienza del fumetto americano Machine Man. In secondo luogo, come anticipato non esistono iterazioni della frase precedenti al post del 2016 che ha dato origine a questa singolare buriana. Non esistono nell’epistolario di Pasolini, né alla data indicata e neppure altrove. Non esistono in alcun altro luogo testuale possibile, o malamente attribuito da ulteriori iterazioni della bufala.

La querelle epistolare tra Moravia, Pasolini e Calvino infatti non era ancora partita. L’avrebbe inaugurata un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 10 giugno 1974, intitolato “Gli italiani non sono più quelli”, poi incluso negli Scritti corsari con il titolo “Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia”. Il che ci porta a dover ricercare le origini del Caro Alberto dapprima in un periodo letterario in cui semplicemente Pasolini si occupava di tutt’altro, per poi cercare, anche volendo posdatarla, una sua traccia negli Scritti Corsari nel quale… appunto non ve ne è traccia. Siamo quindi al confine tra l’inversione dell’onere della prova ed il sempiterno analfabetismo funzionale del la notizia è su Internet, e quindi non vi è ragione di dubitarne, quel triste fenomeno in cui domani potrei dichiarare convinto che Albert Einstein è il noto autore della frase “Due mucche fanno muu, ma una fa mu-mu!” e limitarmi, dichiarando di essere convinto che Albert Einstein abbia proferito una simile frase, a rispondere a chiunque mi dica di aver analizzato l’opera omnia del noto scienziato alla ricerca della stessa con: E chi ti dice che magari non l’ha scritta ma l’ha solo pensata, o l’ha detta a suo cugino una volta che erano chiusi in una stanza senza testimoni e poi il cugino è morto professorone?!?! E non solo: come tutte le bufale, la bufala del Caro Alberto si è evoluta nel tempo. La misteriosa ed ineffabile “epistola al caro Alberto Moravia” si trasfigura infatti in un intervento televisivo alla RAI del 1973 (del quale, altrettanto curiosamente, non si trova traccia in alcuna delle ricche Teche RAI) o un “dialogo”se non, ancora più grottescamente, in una lettera o intervento televisivo dove il “Caro Alberto” non è più Moravia, ma diventa l’amato attore comico, regista, sceneggiatore, compositore e doppiatore Alberto Sordi. Se questi non fosse spirato nel 2003 (tredici anni prima della presumibile creazione della bufala) avrebbe col suo sorriso buono ed il suo senso dell’umorismo trovato assai divertente diventare il centro di una storia sfuggita di mano e finita nel novero degli apocrifi rilanciati dalla stampa e dalla politica nazionale. Da una lettura del corpus Pasoliniano inoltre non si evince mai, in una singola riga, una critica contro un presunto “antifascismo”, bensì una teoria per cui Il Pasolini degli ultimi anni sostiene, tornando più volte sul tema, che il vecchio fascismo, coi suoi codici, le sue retoriche, il suo rapporto tra capo e massa, è stato superato da un “fascismo” peggiore, quello del neocapitalismo, della “società dei consumi”. I fascisti non scompaiono né diventano innocui, ma sono integrati nel nuovo sistema, omologati e funzionali alla sua logica. Del tutto antitetica rispetto al meme costruito scimmiottandone il linguaggio. Rimandiamo a questa analisi pubblicata su Internazionale per chi volesse approfondire il tema: l’oggetto di questa pagina si ferma ad appurare l’esistenza di una bufala.

L’antifascismo più dannoso del fascismo, l’eterna lezione di Pasolini all’Italia. Gian Luca Campagna e Redazione il 13 Febbraio 2018 su nazionefutura.it. Se parli ti tacciano di (estrema) destra o di (estrema) sinistra, anche se poi dentro si è anarcoindividualiberisti (e talvolta anarcoindividuaibertini). Se non parli ti indicano come un qualunquista menefreghista lontano dalla res publica. Allora, cito. Non in giudizio, per carità, che una volta m’è bastato per il senso del grottesco che alberga nelle aule giudiziarie. Mi ripeto, allora cito. E citiamo. PPP. Cioè PierPaolo Pasolini, che resta il più grande intellettuale italiano del Novecento, visionario e anticipatore. Mi limito a due sue citazioni, che faccio mie. La prima, caro PierPaolo (tanto questa confidenza me l’avrebbe concessa, abbiamo un poker di passioni comuni: il mare-lago-dune di Sabaudia, il calcio come sacra rappresentazione della vita, la narrativa e il senso di obiettività fotografando la realtà anticipando il futuro) affonda il parallelo col brutale pestaggio di un carabiniere a Piacenza durante un corteo pacifico. Ecco, appunto, fotografiamo il reale, con l’obiettivo di PPP. Eccola la prima citazione. “II PCI ai giovani! È triste. La polemica contro il PCI andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, figli. E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati… Adesso i giornalisti di tutto il mondo vi leccano il culo. Io no, amici. Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano”. Beh, il blob coraggioso che sfilava per la lama d’asfalto di Piacenza in un corteo pacifico (!) in nome del razzismo e dell’antifascismo poi ha preso a sberle e calci un (uno!) carabiniere, che era lì per scortarli, per salvaguardarli, per proteggerli, che ha giurato sulla Costituzione che difenderà sempre questo Paese dal Fascismo. Bella prova di coerenza da parte di chi inneggiava alla pax. E poi, ancora, la seconda citazione di PPP. Uno dei maggiori pensatori del secolo scorso e della storia italiana scriveva a Moravia: “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda”. È il 1973. E siamo nel brutto mezzo degli anni di piombo. Ah, vorrei continuare con la parte finale dell’ode al poliziotto da parte di PPP, tornando alla prima citazione: “Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo di figli di papà, avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici”. Ecco, appunto, che fine ha fatto il mantra peace and love che scandiva le vostre giornate? I più grandi nemici degli italiani sono gli italiani, appartenenti a un Paese evidentemente fermo a quarant’anni fa (secondo PPP) e a oltre settant’anni fa (secondo me, perché non abbiamo fatto i conti con la Storia) e che fatica a immaginare che possa esserci un domani, altrimenti spiegatemi – perché ancora non l’ho capito – che a Macerata sfila il corteo antirazzista e antifascista contro un povero demente (tal Traini) mentre ci si è dimenticato che tre (ora sono diventati quattro) spacciatori in carriera (neri rossi verdi o gialli o bianchi non ha importanza) hanno squartato una povera ragazza. Gian Luca Campagna

(Nessuna) Pietà per la nazione che crede alle bufale su #Pasolini. Pubblicato il 06.07.2018 da Wu Ming su wumingfoundation.com. Una poesia di Lawrence Ferlinghetti, per giunta scritta trentadue anni dopo la morte di Pasolini, prima viene attribuita a quest’ultimo, poi viene usata come pezza d’appoggio per sostenere che era… cosa? Nazionalista? «Sovranista»? Non l’hanno nemmeno letta: plausibilmente, qualcuno ha visto la parola «nazione» e si è eccitato all’istante.  Wu Ming 1 (con la collaborazione di Yàdad de Guerre e Nicoletta Bourbaki)

INDICE

1. Pietà per la nazione?

2. Ancora il tormentone del «Caro Alberto»

3. Chi ha fabbricato il meme del «Caro Alberto»

4. Due parole in più su questo “network”

5. Scritti corsari fa ormai più danni delle cavallette

6. Ma sempre Pasolini? Come mai?

Lo psichiatra di destra e personaggio televisivo Alessandro Meluzzi è solo uno dei tanti diffusori del meme che vedete qui sopra. È composto da una delle più celebri foto di Pier Paolo Pasolini e da una traduzione italiana di Pity The Nation, componimento di Lawrence Ferlinghetti, 99 anni, poeta e scrittore, libraio ed editore, esponente di spicco e mentore della Beat Generation, pilastro della letteratura e della controcultura americana del XX secolo. Un libertario che si è sempre espresso contro ogni nazionalismo, bigottismo, razzismo e ha scritto: «I am waiting for the final withering away of all governments» [Attendo la scomparsa definitiva di ogni governo]. Nel meme, la poesia è però firmata «P. P. P.». Meluzzi, poi, l’introduce con una balzana domanda retorica: «Anche Pasolini era fascista?» Il senso sembra essere: voi che chiamate “fascista” chi ama la propria nazione, beccatevi questa poesia di Pasolini contro chi non la ama! Vale a dire: se hanno letto la poesia (cosa di cui dubito), l’hanno capita esattamente al contrario. Diamole un’occhiata.

Pietà per la nazione?

Ferlinghetti scrisse Pity The Nation nel 2007, ultimo anno dell’amministrazione Bush Jr. Un’epoca segnata a fondo dalla «War on Terror», dal liberticida Patriot Act, da imperialismo e militarismo imbellettati con la retorica sull’«esportare la democrazia», dalle torture nel carcere di Abu Ghraib, dalle detenzioni illegali nella base di Guantanamo (che peraltro proseguono). La poesia rimane attualissima. Al titolo si accompagna una specificazione tra parentesi: «(After Kahlil Gibran)», che potremmo rendere con «Alla maniera di Kahlil Gibran». La poesia, infatti, è anche un omaggio al grande poeta libanese-americano morto nel 1931. È costruita su un’anafora, figura retorica che consiste nel cominciare ogni frase con la stessa parola o sequenza di parole. L’anafora «Pity the nation» — che sarebbe più corretto tradurre con «compatite la nazione» o «commiserate la nazione» — si trova nel libro postumo di Gibran Il giardino del profeta (1933), nel quale il profeta Almustafa, «l’eletto e l’amato», pronuncia un sermone di questo tenore:

«Compatite la nazione il cui uomo di stato è un furbo, il cui filosofo è un giocoliere e la cui arte è l’arte del raffazzonare e dello scimmiottare». [Se volessimo fare il giochino ozioso delle allegorie a chiave retroattive, tradurremmo: compatite la nazione dove al governo c’è Salvini, dove l’intellettuale organico è Fusaro e dove si fabbricano memi con false citazioni.]

Ecco il testo completo, in inglese, della poesia di Ferlinghetti, con mia traduzione di ogni strofa.

«PITY THE NATION»

(After Khalil Gibran)

Pity the nation whose people are sheep And whose shepherds mislead them

(Compatite la nazione il cui popolo è un gregge che i suoi pastori mal conducono)

Pity the nation whose leaders are liars Whose sages are silenced And whose bigots haunt the airwaves

(Compatite la nazione i cui capi sono bugiardi e i cui saggi sono messi a tacere e i cui bigotti infestano le frequenze radio e tv)

Pity the nation that raises not its voice Except to praise conquerers And acclaim the bully as hero And aims to rule the world By force and by torture

(Compatite la nazione che non alza la voce se non per lodare i conquistatori e acclamare il bullo come eroe e punta a dominare il mondo con la forza e con la tortura)

Pity the nation that knows No other language but its own And no other culture but its own

(Compatite la nazione che non conosce altra lingua che la propria e altra cultura che la propria)

Pity the nation whose breath is money And sleeps the sleep of the too well fed

(Compatite la nazione il cui fiato è denaro e dorme il sonno del troppo ben pasciuto)

Pity the nation oh pity the people who allow their rights to erode and their freedoms to be washed away My country, tears of thee Sweet land of liberty!

(Compatite la nazione, oh, compatite la gente che lascia erodere i propri diritti e spazzare via le proprie libertà. Mio paese, lacrime per te dolce terra di libertà!)

Gli ultimi due versi sono ironici, parodiano la canzone patriottica My Country, ‘Tis Of Thee [Paese mio, parlo di te], scritta da Samuel Francis Smith nel 1831 e rimasta per un secolo inno nazionale ufficioso degli USA, finché nel 1931 non fu imposto per legge Star Spangled Banner. In questo finale Ferlinghetti si autocita, perché il verso «My country, tears of thee» lo aveva già usato nella sua raccolta più famosa, A Coney Island Of The Mind (1958), per la precisione nella poesia Junkman’s Obbligato.

Dovrebbe risultare evidente a chiunque che Pity The Nation non esprime alcun «amore per la nazione», né veicola alcunché di «sovranista» o che altro. Ferlinghetti, del resto, ha definito il nazionalismo «la superstizione idiota che può far saltare in aria il mondo», e in una celebre intervista rilasciata a Robert Dana ha detto: «I nazionalismi devono scomparire. Sono i postumi barbarici di tempi antichi.» Perché usare questa poesia per inventarsi un Pasolini nazionalista? Pasolini una poesia dedicata alla sua nazione la scrisse, si intitola proprio Alla mia nazione, ed è difficilmente appropriabile dai “sovranisti”: negli ultimi versi si augura che l’Italia, paese di «milioni di piccoli borghesi come milioni di porci», sprofondi in mare e «liberi il mondo». Eccola musicata dal gruppo metal bolognese Malnàtt: Ma l’uso di memi pseudo-pasoliniani come pezze d’appoggio per discorsi di destra, nazionalisti, a volte razzisti e tout court fascisti, non si limita a questo caso.

Ancora il tormentone del «Caro Alberto»

Nei giorni scorsi qualcuno ha provato a rimettere in circolazione il meme del «Caro Alberto», del quale ci siamo occupati un mese fa. Si tratta di una frase che Pasolini non ha mai scritto né pronunciato, inventata di sana pianta nel gennaio 2017, circolante con la dicitura «Lettera di Pasolini a Moravia, 1973». 

La bufala anti-antifascista del «Caro Alberto», riproposta dalla pagina FB Fronte dei Popoli il 4 luglio 2018. Su questa pagina e sul milieu di cui fa parte, si veda sotto.

Nel mio articolo su Internazionale facevo notare che:

la frase non si trova in nessun punto dell’opera omnia di Pasolini;

nel 1973 la polemica pasoliniana sul «nuovo fascismo della società dei consumi» non era ancora cominciata;

l’espressione «arma di distrazione» non era in uso nell’Italia degli anni Settanta;

soprattutto, ricostruendo il contesto, dimostravo che Pasolini non avrebbe mai potuto scrivere una frase così, perché se è vero che individuava il «nuovo fascismo» nel consumismo, è altrettanto vero che non sottovalutò mai la violenza dei neofascisti. Come avrebbe potuto, lui che diverse volte l’aveva subita? Pasolini, in quegli anni, non solo non condannò mai le manifestazioni antifasciste, ma chiamò più volte i fascisti «assassini» e li additò come esecutori materiali di stragi e attentati. Nel marzo 1974, in un intervento poi incluso negli Scritti corsari, Pasolini chiamò a un «impegno totale» per il quale indicava «ragioni oggettive», tra le quali la necessità di difendersi dai «vecchi assassini fascisti che cercano la tensione non più lanciando le loro bombe, ma mobilitando le piazze in disordini in parte giustificati dal malcontento estremo». Dopo aver letto il mio pezzo, il blogger Yàdad de Guerre, in un commento pubblicato su Giap il 24 giugno scorso, ha ricostruito la genesi del meme, dimostrando che è nato in ambienti a cavallo tra neofascismo e rossobrunismo. Ripropongo qui la sua ricostruzione.

Chi ha fabbricato il meme del «Caro Alberto» di Yàdad de Guerre. Quando la farlocca citazione sull’antifascismo «rabbioso» attribuita a Pasolini cominciò a girare cercai di spiegarmela. Eppure, nonostante le varie spiegazioni che cercavo di darmi, una cosa non tornava mai, insieme alle parole «arma di distrazione»: l’uso dell’aggettivo «rabbioso». Avrebbe mai potuto Pasolini usare l’aggettivo «rabbioso» in quel modo, così sbrigativo e approssimativo? Non solo e non tanto per il film del 1963 intitolato La rabbia, ma anche per il documentario televisivo del 1966 realizzato da Jean-André Fieschi e intitolato Pasolini l’enragé, ossia Pasolini l’arrabbiato. In uno dei momenti del film, Pasolini parla apertamente del concetto di rabbia, associandola alla rivolta, alla rivoluzione, alla Resistenza, al marxismo. Dice chiaramente: «In fondo la Resistenza è stata una sorta di grande rabbia organizzata, organizzata e impiantata soprattutto sull’ideologia marxista». Questa sua definizione di «rabbia», cioè di motore primario per una rivoluzione condivisa (innanzitutto contro il fascismo e la borghesia, evidentemente), serve a Pasolini per spiegare la mancanza di “arrabbiati” nell’Italia degli anni Sessanta. Per il Pasolini intervistato da Fieschi, i giovani (borghesi) del tempo trovavano conforto in uno schema di critica già pronto ma invecchiato – invecchiato «come tutti gli schemi» – quello della Resistenza e della cultura marxista italiana. Uno schema che non funzionava più perché il tempo l’aveva reso borghese. Quindi, per Pasolini, l’arrabbiato (principalmente giovane) «sent[iva] immediatamente il dovere di non essere arrabbiato, ma rivoluzionario». Questo non vuol dire che Pasolini rinnegasse la rivoluzione, chiaramente. Voleva piuttosto indicare come il senso dell’essere rivoluzionario fosse stato svuotato, privato della rabbia come motore. Il “rivoluzionario” è qui associato a una forma di morale borghese, già sussunta dalla borghesia, tanto da permettere a certi «comunisti rivoluzionari italiani» di essere nient’altro che piccolo-borghesi «in doppio petto» schiacciati dai «dogmi» dell’ideologia marxista. Fin qui la lettura dell’antifascismo «rabbioso» potrebbe ancora trovare un suo senso, se non fosse che – come ricorda il titolo stesso del documentario – Pasolini rivendica la rabbia, la sua rabbia «non catalogabile», e precisa che l’arrabbiato ideale, il «meraviglioso arrabbiato della tradizione storica», è Socrate. Pasolini, a me pare, cerca cioè una strada per attualizzare e rinnovare la rabbia, renderla collettiva, cercando strumenti che portino alla rivolta e alla rivoluzione contro la borghesia. Questo non può voler dire disconoscere le forme di fascismo o la Resistenza. «Rabbioso» e «arrabbiato» hanno due significati differenti, ovviamente, ma proprio in questa differenza si è fondata la mia diffidenza nei confronti di quella citazione. Avrebbe mai potuto Pasolini usare la parola «rabbioso» nel 1973, lui che sul concetto di rabbia ci aveva costruito un discorso nella metà degli anni ’60? Avrebbe mai potuto disconoscere la «rabbia! con tanto sdegno, medicalizzandola mi verrebbe da dire, sminuendola a una sorta di malattia animalesca e momentanea? Avrebbe potuto associare un antifascismo «rabbioso» alla classe dominante, se la rabbia è uno strumento (emotivo e politico) di azione che non fa gli interessi della borghesia? Avrebbe potuto Pasolini associare la rabbia, anche solo in una sua versione deformata, alla classe dominante che – si ricava dal suo ragionamento – mai potrebbe essere arrabbiata (e forse neanche «rabbiosa»)? Mi sono quindi concentrato sulle parole «antifascismo rabbioso» e le ho cercate ovunque nei testi di Pasolini che possiedo, nelle interviste e nei documentari. Non sono mai venute alla luce. Ho usato Google, ristretto i campi di ricerca. Quando è spuntata la prima volta quella citazione e quell’uso delle parole «antifascismo rabbioso» da parte di Pasolini? Prima del 29 gennaio 2017, non spunta nulla, da nessuna parte. In quel giorno, su Facebook si sono moltiplicati i post con la citazione: «Mi chiedo, caro Alberto…» accompagnata da foto di Pasolini e Moravia o di Pasolini e basta. Il più vecchio risultato che avevo ottenuto non è più online, ma era di un tale che lavora per il sito fascista Oltre la Linea (ho ancora l’URL, se mai qualcun* volesse controllare da sé). La citazione, però, non era riferita a una fantomatica lettera del 1973 a Moravia, bensì recitava: «Pier Paolo Pasolini ad Alberto Moravia, “Incontro con…”, Rubrica Rai 1973, Trasmesso da Rai Storia». Cito qui, a mo’ d’esempio, l’uso che si modifica col tempo da parte di una stessa pagina Facebook, cioè La Via Culturale, «network» fondato da Alessandro Catto. Il 31 gennaio 2017, La Via Culturale pubblica la citazione con gli stessi riferimenti che ho dato prima. L’11 luglio 2017, in un attacco di rimozione mnemonica, la stessa pagina Facebook pubblica la stessa citazione con riferimenti più generici da un punto di vista temporale ma più precisi rispetto al momento: «Pier Paolo Pasolini in una discussione con Alberto Moravia». Non sappiamo più quando, ma sappiamo che c’era una discussione tra Pasolini e Moravia. Ancor meglio fa la pagina Facebook Il RossoBruno che, addirittura, scrive che la citazione deriverebbe da «Pierpaolo [sic] Pasolini ad Alberto Moravia, Incontro con Ezra Pound, Rubrica Rai 1973, Trasmesso da Rai Storia».

Che cosa c’entri Ezra Pound non è chiaro;

che cosa ci facesse Alberto Moravia tra Ezra Pound e Pier Paolo Pasolini e perché si parlasse di antifascismo italiano è un non-sense;

come Ezra Pound potesse nel 1973 essere vivo, quand’è morto nel 1972, resta un miracolo divino;

perché un’intervista di Pasolini a Pound del 1967 sia celebre e discussa ancora oggi e una rubrica RAI con Pound, Pasolini e presumibilmente Moravia del 1973 non la conosca nessuno è un mistero.

Comunque sia, il 29 gennaio 2017 su RaiStoria, in tempi coincidenti con le prime apparizioni della citazione, andava in onda Italiani con Paolo Mieli. Forse la puntata dedicata ad Alberto Moravia, «Appunti di viaggio», in cui effettivamente si parla dello scontro intellettuale tra Moravia e Pasolini ma, ovviamente, mai si citano quelle esatte parole. Né, a scanso di equivoci, se ne trova traccia nell’episodio dedicato a Pasolini stesso, «Il santo infame», recuperabile tranquillamente sul web. Dicembre 2017: dopo l’invenzione e “tornitura” della falsa frase di Pasolini, Antonio Marras la riprende sul Secolo d’Italia, ex-organo ufficiale del MSI, oggi sito crivellato di pubblicità. Sarà, invece, Antonio Marras per Il Secolo d’Italia a trasformare la citazione in uno stralcio di lettera, il 12 dicembre 2017, quando — già da qualche mese — aveva cominciato a strabordare fuori da Facebook per via del disegno di legge contro la propaganda fascista, il cosiddetto DDL Fiano. Da quel momento in particolare, la citazione ha cominciato a viaggiare da sé perché, tanto, chi va a controllare le lettere di Pasolini, anche quelle non raccolte e pubblicate da Nico Naldini? (Disclaimer: non esiste alcuna lettera scritta da Pasolini a Moravia che contenga quelle parole.) Una cosa è certa, in tutto questo: non solo nessun@ ha compiuto mai alcun lavoro di ricerca per portare alla luce la citazione (che su internet non si trova se non in forme ridicole), ma soprattutto nessun@ si è preso la briga di insegnare a Matteo Salvini che cos’è, davvero, la rabbia.

Due parole in più su questo «network»

Abbiamo visto che il meme del «Caro Alberto», prima di essere ripreso dal Secolo d’Italia, è circolato per mesi e ha preso la sua forma odierna in un certo arcipelago di blog e pagine Facebook. Descriviamolo brevemente. Oltre La Linea, Giano Bifronte e Azione culturale sono sigle riconducibili allo stesso progetto rossobruno. Il simbolo è Giano che guarda sia a destra sia a sinistra. Un altro simbolo ricorrente è la bandiera dell’Eurasia, progetto geopolitico caro ai rossobruni e teorizzato principalmente dal guru russo Aleksandr Dugin. Animatore di Oltre La Linea (che è solo un altro nome di Giano Bifronte) è almeno fino al maggio 2017 tale Luigi Ciancio, che oggi su Facebook si firma «Luigi Cianciox». 

Alessandro Catto

Azione Culturale — come dichiarano loro stessi  —  è stata formata da Giano Bifronte e La Via Culturale (già La Via Culturale al Socialismo), blog “sovranista” gestito da Alessandro Catto sul sito de Il Giornale.

A quanto sembra, la “mente” è Catto. Tanto per capirci, Catto, per conto di Azione Culturale, ha intervistato Simone Di Stefano di Casapound per cercare una sinergia tra “comunismo” e fascismo. Ecco uno stralcio dell’intervista: 

Simone Di Stefano

Lei è aperto ad un dialogo con formazioni coerentemente comuniste che si rifanno alle esperienze di governo del socialismo reale, per come abbiamo imparato a conoscerle nel ‘900? Se sì, su quali temi? 

«Come detto precedentemente la base del dialogo deve essere il riconoscimento della nazione Italia, l’esistenza dei suoi confini e del suo popolo. I temi possono essere la critica al liberismo, la lotta alla globalizzazione e tanti altri. Resta un fatto: siamo incompatibili con l’idea di abolizione della proprietà privata e della esclusiva proprietà pubblica dei mezzi di produzione. Il fine ultimo della nostra rivoluzione è la potenza della nazione Italia e di conseguenza la piena giustizia sociale […]» 

Stelio Fergola

Oltre a Ciancio e Catto, in relazione a tutto questo va menzionato Stelio Fergola, direttore responsabile e co-fondatore di Azione Culturale, Oltre la Linea, ecc. Fergola è autore del libro L’inganno antirazzista, che ha pubblicato con Passaggio al bosco, casa editrice la cui impronta ideologica è chiarissima.

In questo milieu telematico troviamo anche Fronte dei Popoli, pagina Facebook attualmente gestita dal bolognese Dario Giovetti. Nel dicembre 2016 Fronte dei Popoli annunciava soddisfatto e ammiccante «la nuova stagione di Azione Culturale».

Fronte dei Popoli condivide spesso contenuti delle pagine di Ciancio e Catto, come del resto fa Ufficio Sinistri, pagina FB gestita dal sanremese Roberto Vallepiano, autore di un libro dallo stesso titolo. Vallepiano condivide e commenta favorevolmente contenuti di Ciancio, Catto e Giovetti, che a loro volta condividono e commentano favorevolmente le prese di posizione di Vallepiano.

Il campionario ha poco di sorprendente: contro l’immigrazione, il complotto di Soros, chiudere i porti alle ONG, la sinistra “buonista”, la nazione ecc. Il tutto ornato di specchietti rossi, per le allodole che volano nei dintorni.

Attualmente, la vecchia pagina Facebook di Azione Culturale rimanda a Il Mondo Nuovo.

Da quest’arcipelago di siti e pagine FB, come dimostrato nei dettagli da Nicoletta Bourbaki, è partita anche la diffusione di una falsa frase di Samora Machel contro i migranti.

In costante interazione con tutte queste pagine è il sito rossobruno L’Antidiplomatico.

Si incazzino pure, descrivano il paragrafo che avete appena letto come una «lista di proscrizione». È la reazione standard ogni volta che qualcuno, fuori e contro una certa omertà «tra compagni», ha l’onestà di fare nomi e cognomi.

I rossobruni non sono miei compagni, perché, molto semplicemente, non sono compagni.

Scritti corsari fa ormai più danni delle cavallette

Il meme del «Caro Alberto» è stato riproposto il 4 luglio — insieme ad altre citazioni pasoliniane formalmente corrette ma decontestualizzate — da Fronte dei Popoli, evidentemente non contento della figuraccia appena rimediata con la frase falsa di Samora Machel.

Quando gli è stato fatto notare — a un certo punto anche da Nicoletta Bourbaki  — che pure quella frase era un fake, per giunta “debunkato” settimane prima, Giovetti ha arrampicato specchi unti, ha più volte citato come “fonte” il — per la precisione: dato la colpa al  —  Secolo d’Italia, infine si è “incantato”, come un vinile graffiato, a ripetere «anche Wu Ming 1 ha detto che la frase era verosimile!». Una balla presto ripetuta a pappagallo da altri commentatori. 

Due esempi tra i molti rinvenibili sulla pagina Facebook «Fronte dei Popoli».

Ovviamente, costoro si sono ben guardati dal riportare il passaggio del mio articolo in cui la parola «verosimile» compariva. Ebbene, lo faccio io, con tanto di sottolineature for dummies. 

Clicca per leggere l’articolo completo Pasolini e il neofascismo come merce.

Vorrei però soffermarmi sulla cosa più interessante scritta dall’amministratore di Fronte dei Popoli: secondo lui Pasolini

«in “Scritti corsari”, come del resto nell’editoriale per il “Corriere della Sera” “il fascismo degli antifascisti” esprimere [sic] concetti che risultano assolutamente compatibili con quelli della citazione di cui stiamo parlando».

Abbiamo già spiegato che non è così: gli Scritti corsari contengono molte condanne della violenza neofascista, e i neofascisti vi sono chiamati più volte «sicari», «assassini» e quant’altro. Basterebbe leggere l’intero libro, anziché ravanare nel web in cerca di virgolettati. Addirittura, nell’intervento intitolato «Fascista», incluso nella sezione «Documenti e allegati», Pasolini dice che la violenza dei neofascisti suoi contemporanei è peggiore di quella del vecchio regime mussoliniano: «Vent’anni di fascismo credo che non abbiano mai fatto le vittime che ha fatto il fascismo di questi ultimi anni. Cose orribili come le stragi di Milano, di Brescia, di Bologna [quella del treno Italicus, N.d.R.] non erano mai avvenute in vent’anni. C’è stato il delitto Matteotti certo, ci sono state altre vittime da tutte due le parti, ma la prepotenza, la violenza, la cattiveria, la disumanità, la glaciale freddezza dei delitti compiuti dal 12 dicembre del 1969 in poi non s’era mai vista in Italia.» Pasolini sbagliava: il fascismo “storico” di stragi ne aveva fatte eccome, non solo all’estero ma anche in Italia, e anche prima della RSI. Basti dire che era andato al potere sull’onda del terrorismo squadrista, che aveva ucciso mezzo migliaio di persone e ne aveva ferite migliaia.

Il punto, tuttavia, non è questo: il punto è che negli Scritti corsari Pasolini non sminuisce mai la violenza dei neofascisti, anzi, delle due la accentua.

Il commento di Fronte dei Popoli contiene altri sfondoni:

quello uscito sul Corriere il 16 luglio 1974 non era un «editoriale»;

sul giornale l’articolo si intitolava «Apriamo un dibattito sul caso Pannella»;

nel testo l’espressione «fascismo degli antifascisti» non compariva mai;

l’oggetto della critica non erano affatto gli antifascisti tout court bensì i sedicenti «antifascisti» che stavano al governo e sedevano in parlamento, colpevoli di non accogliere alcune richieste di Marco Pannella che digiunava da settanta giorni.

Se non si fosse fermato alla parola «verosimile» e avesse letto il mio pezzo per intero, Giovetti queste cose le saprebbe: sono spiegate in un apposito paragrafo, intitolato proprio «L’equivoco sul “fascismo degli antifascisti”». Problemi ed equivoci, ad ogni modo, sono a monte, e conviene esporli con la massima chiarezza. Il primo riguarda specificamente Pasolini, o meglio: la sua ricezione nell’Italia di oggi. Scritti corsari è una raccolta di articoli di giornale e interventi estemporanei risalenti a quasi mezzo secolo fa. Il libro è pieno zeppo di riferimenti alla cronaca e alla situazione politica di quei giorni, di allusioni oggi indecifrabili ai più, di nomi e cognomi oggi ricordati da pochissime persone. Il senso di molti interventi può essere ricostruito solo con la loro, spesso faticosa, ricontestualizzazione. Non solo del libro manca un’edizione critica, ma è stato eternato, pietrificato dalla morte e dalla santificazione post mortem di Pasolini, ergo continua a essere ristampato e a tornare in libreria completamente fuori contesto e come una sorta di «libro sacro». Posizioni transitorie, che di certo l’autore avrebbe approfondito o superato, sono diventate comandamenti incisi su pietra. Formulazioni ambigue sono diventate corpi contundenti da usare nelle tenzoni di oggi. Se aggiungiamo che su alcuni fenomeni allora in corso Pasolini sbagliò clamorosamente il giudizio, non penso di esagerare se dico che Scritti corsari, suo malgrado, si è trasformato in qualcosa di molto simile a uno sciocchezzaio. L’altro problema è la generale ignoranza su cosa sia una fonte. 

– E dove starebbe ‘sta frase di Pasolini?

– Cosa credi, di cogliermi in castagna? Sta sul Secolo d’Italia!

Ieri, su Twitter, Benedetta Pierfederici ha citato una frase di Marc Bloch: Marc Bloch (1886 – 1944) «In tutti i casi in cui non si tratti dei liberi giochi della fantasia, un’affermazione non ha il diritto di presentarsi se non a condizione di poter essere verificata; per uno storico, se usa un documento, indicarne il più brevemente possibile la collocazione, cioè il modo di ritrovarlo, non equivale ad altro che a sottomettersi ad una regola universale di probità. Avvelenata dai dogmi e dai miti, la nostra opinione, anche la meno nemica dei “lumi”, ha perduto persino il gusto del controllo. Il giorno in cui noi, avendo prima avuto cura di non disgustarla con una vana pedanteria, saremo riusciti a persuaderla a misurare il valore di una conoscenza dalla sua premura di offrirsi in anticipo alla confutazione, le forze della ragione riporteranno una delle loro più significative vittorie.» (Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino 1998, pp. 68-69)

Benedetta aggiungeva: «Cosa significa “poter essere verificata”? Significa che chi presenta, ad esempio, una citazione deve rintracciarne e poi dirne l’origine (la fonte, appunto). Chi legge la citazione deve poter rifare la strada a ritroso e, se necessario, confutarla. Se chiedo conto di una citazione “Pasolini a Moravia”, la fonte non è un articolo online o un blog o un tweet. La fonte è il documento che contiene la citazione. È faticoso trovare le fonti e presentarle? Il più delle volte, in effetti, lo è. Risalire la corrente, evitare le rapide, non perdersi negli affluenti… Ma non ci sono altri modi per procedere nella conoscenza.» Dovrebbe essere l’ABC, ma non lo è, per tanti motivi. Per questo Nicoletta Bourbaki ha scritto il suo “manuale” su come riconoscere le bufale, intitolato Questo chi lo dice? E perché?

Ma sempre Pasolini? Come mai?

Pasolini, lo abbiamo visto, non è l’unico intellettuale di sinistra morto e impossibilitato a difendersi il cui pensiero viene decontestualizzato, distorto, falsificato. Ma è di gran lunga il più utilizzato. Perché? Ripropongo qui, per discuterne insieme, uno spunto di riflessione risalente a qualche mese fa, quando il lavoro di debunking del Pasolini «anti-antifascista» era ancora agli inizi. «Prima o poi andrà ricostruita la genealogia di quest’utilizzo di Pasolini come auctoritas per ogni stagione e occasione. Un processo di lungo corso che, banalizzandone l’opera e la figura, lo ha trasformato in fashion icon per ipse dixit pronti da indossare. Di sicuro c’entra la sua “santificazione” dopo il martirio, ma non basta a spiegare tutto. C’entra anche la contraddittoria complessità del suo percorso, unita all’oltraggiosità di molte sue prese di posizione. E c’entra il suo modo di esprimersi, il suo “senso della frase” […] Il contesto discorsivo costruito da Pasolini è un campo di tensioni, un vasto reticolo di corde tese all’estremo, a collegare vari temi, concetti, momenti. Corde sempre sul punto di spezzarsi. Seguendole con lo sguardo si trovano vere e proprie “rime narrative” e tematiche, ed è ciò che più affascina nell’installazione. Ma c’è anche un aspetto spaventoso: si capisce che per snaturare un’affermazione di Pasolini basta davvero pochissimo. Il modo più facile di snaturarla è dire, su qualunque argomento: “Pasolini la pensava così, punto”.» Questo punto, che rende perentorie affermazioni spesso insensate, toccherà ogni volta farlo saltare, finché, un giorno, non smetteranno di usare Pasolini, e si concentreranno su qualcun altro. Noi dobbiamo restare vigili.

Nel suo The Mexican Night Ferlinghetti si fa una domanda che vale la pena riproporre: «From which way will the fascists come this time, baby?»

“Il fascismo secondo Pasolini (1942-1975)”, di Alessandro Viola il 13 maggio 2021 su centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it. Tra i libri dedicati a Pier Paolo Pasolini usciti nel corso del 2020 non si può non ricordare l’interessante volume di Alessandro Viola intitolato Il fascismo secondo Pasolini (1942-1975), pubblicato a maggio dalla casa editrice Mimesis. «Il fascismo secondo Pasolini (1942-1975)», di Alessandro Viola (Mimesis, 2020). La riflessione pasoliniana sul fascismo è complessa, peculiare, controversa. Complice la natura letteraria del suo linguaggio, Pasolini è diventato in tempi recenti un’autorità ambigua, contesa e rivendicata, a colpi di citazioni, dalle parti politiche più varie. Questo lavoro si propone di affrontare tale ambiguità, comprendendola. Che cosa pensava Pasolini del fascismo, vecchio e nuovo? E che cosa pensava dell’antifascismo e degli antifascisti del suo tempo? Il saggio cerca di rispondere a questi interrogativi calandoli all’interno del pensiero e della poetica dell’autore, a partire dai primi contributi giornalistici degli anni Quaranta, fino a culminare con gli interventi critici e polemici degli anni Settanta. Ne viene fuori una genealogia a tutto tondo della riflessione pasoliniana, che contempla tanto la natura intimamente letteraria quanto l’ispirazione politica della sua prospettiva. Il volume che è dedicato “A Guido Pasolini, caduto durante la Resistenza; e al nostro Guido, che ancora resiste” si apre con, in exergo, un brano della “celebre” lettera che Pasolini avrebbe scritto ad Alberto Moravia nel 1973: “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda”. Questo presunto brano pasoliniano, che è stato usato perfino da Matteo Salvini in un suo comizio del 24 febbraio 2018 in piazza Duomo a Milano, sempre più frequentemente viene citato dalla destra in modo strumentale per minimizzare la portata della violenza squadristica e razzista di questi ultimi tempi. In realtà l’autore di questo lavoro svela, dopo aver setacciato i tanti scritti pasoliniani ed in particolare l’epistolario pubblicato da Einaudi nel 1988 per la cura di Nico Naldini, l’inesistenza di tale lettera a Moravia. Affermazione che trova ulteriore conferma in un articolo apparso su “L’Internazionale” dal titolo Pasolini, Salvini e il neofascismo come merce, dove il collettivo Wu Ming 1 è in grado di dimostrare, dopo un’attenta analisi linguistica, che si tratta di una citazione assolutamente falsa. Alessandro Viola nel suo approfondito studio cerca anche di mettere in guardia il lettore dal rischio che anche chi cerca di dimostrare l’antifascismo intransigente di Pasolini finisce per trascurare il rigore nell’analisi dei suoi testi. Per questo motivo l’autore ha scelto di analizzare i testi e il suo autore calandoli all’interno della cornice storica corrispondente, tentando in questo modo di far emergere la visione che Pasolini ha del fascismo il più possibile in stretta aderenza con i testi considerati. Il volume si suddivide in due ampi capitoli: nel primo, intitolato “Le due strade che sole potevano portarmi all’antifascismo (1942-1948)”, si cerca di dare una panoramica della formazione culturale di Pasolini, e della sua prima opposizione al fascismo. Nel secondo capitolo, “Il fascismo secondo Pasolini”, si entra nel cuore dell’analisi pasoliniana introducendo anche il nuovo punto di vista che assimila il nuovo fascismo alla mutazione antropologica in atto causata dal consumismo e dalla nuova cultura edonistica imperante. L’autore in conclusione pone l’attenzione sui versi bilingui della poesia Saluto e Augurio contenuta nella raccolta La nuova gioventù (1975) dove si rivolge ad un giovane ragazzo fascista come già aveva fatto nel testo teatrale Bestia da stile (1974). – Alessandro Viola è dottorando di ricerca all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. Si occupa di Storia culturale e di Letteratura italiana moderna e contemporanea. 

Ma Pasolini non stava con i poliziotti. Il 1° marzo ’68 gli scontri di Valle Giulia che gli ispirarono la famosa (e fraintesa) poesia contro gli studenti borghesi. Giovanni De Luna l'1 Marzo 2018 modificato il 16 Giugno 2019 su La Stampa. Si è aperto una sorta di supermarket Pasolini. Ognuno prende dai suoi lavori quello che gli serve: brandelli di frasi, spezzoni di poesie, piegando le argomentazioni pasoliniane alle proprie strumentalizzazioni, distorcendone il senso, in un’operazione che somiglia molto al modo in cui oggi si confezionano le fake news. Ma fu così anche 50 anni fa, quando ancora non c’era la Rete con le sue bufale. Fu subito dopo gli scontri di Valle Giulia, infatti, che Pasolini pubblicò, sull’Espresso del 16 giugno, la sua poesia Il Pci ai giovani. L’emozione suscitata dalle botte che erano volate il 1° marzo 1968 tra la polizia e gli studenti che avevano occupato la facoltà di Architettura era stata molto forte: dai moti antifascisti del luglio ’60 in poi, mai le forze dell’ordine erano state contrastate con tanta efficacia proprio sul piano della violenza fisica. Mentre lo stesso movimento studentesco si mostrava come sbigottito dalla radicalità degli scontri e dalla sua stessa capacità di reazione, Pasolini sentì il bisogno di prendere posizione rispetto a una situazione politica che presentava aspetti largamente inediti. Lo fece a modo suo, con una poesia che oggi come allora appare tutta immediatezza e spontaneità. Una poesia lunga che, nel discorso pubblico, fu precipitosamente etichettata come una invettiva contro gli studenti e una difesa dei poliziotti. L’invettiva c’era, esplicita fragorosa: «siete paurosi, incerti, disperati […] ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri». E c’era anche la scelta a favore degli agenti: «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti». Ma se non ci si ferma a questi versi e si legge il seguito della poesia…I versi che Pasolini dedica ai poliziotti sono esattamente questi: «E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio, fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico in cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha eguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare)». Vestiti come pagliacci, umiliati dalla perdita della qualità di uomini: no, Pasolini non «sta con i poliziotti», e non poteva essere altrimenti, viste le persecuzioni a cui era continuamente sottoposto. In quel momento, Pasolini sta con il Pci e sta con gli operai. E quella poesia è una sollecitazione per gli studenti a lasciarsi alle spalle la loro appartenenza borghese e andare verso il Pci e verso gli operai. Quando questo succederà, l’anno dopo, nel 1969, quello dell’autunno caldo, Pasolini accetterà di fare un film sulla strage del 12 dicembre, quella di piazza Fontana, insieme con i giovani di Lotta Continua. Ma questo nessuno lo ricorda. Così come vengono ignorate le sue argomentazioni su fascismo e antifascismo, tanto da permettere a Salvini, in un comizio, di «usare» il poeta friulano per svelare «l’impostura» dell’antifascismo, tenuto in vita dalle sinistre per far dimenticare «i veri problemi del paese». Il ragionamento pasoliniano del 1974, quello da cui nascono le citazioni di Salvini, scaturiva dalla constatazione del successo ottenuto da due «rivoluzioni»: quella delle infrastrutture e quella del sistema di informazione. Le distanze tra centro e periferia si erano notevolmente ridotte grazie alle nuove reti viarie e alla motorizzazione; ma era stata soprattutto la televisione a determinare in modo costrittivo e violento una forzata omologazione nazionale, provocando un tramestìo che aveva colpito in alto come in basso, ridefinendo contemporaneamente gli assetti del potere e quelli dei suoi antagonisti. Il nuovo Potere, nonostante le parvenze di tolleranza, di edonismo perfettamente autosufficiente, di modernità, nascondeva un volto feroce e repressivo e appariva, «se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia, una forma totale di fascismo al cui confronto il vecchio fascismo, quello mussoliniano, è un paleofascismo». «Nessun centralismo fascista», aggiungeva Pasolini, «è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole […]. Ora, invece, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati - l’abiura è compiuta -, si può dunque affermare che la tolleranza della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere è la peggiore delle repressioni della storia umana». Per Pasolini c’era un nemico esplicito anche in questo caso: ed era il mercato, con la sua logica implacabile di «religione dei consumi»; esattamente quella che ha permesso alla Lega di avanzare con successo la sua proposta agli italiani di sentirsi tutti «figli dello stesso benessere», portando a termine la parabola «dalla solidarietà all’egoismo» che Pasolini aveva intravisto e aveva cercato inutilmente di contrastare.

Pier Paolo Pasolini. Lo ricordiamo con questo articolo per l'interpretazione autentica, scritto per il Corriere della Sera il 24 giugno 1974, che fa parte dei famosi scritti corsari. Pier Paolo Pasolini Il Potere senza volto, in Il Corriere della Sera (1974) in Scritti corsari, Garzanti, Milano (1975). «Che cos’è la cultura di una nazione? Correntemente si crede, anche da parte di persone colte, che essa sia la cultura degli scienziati, dei politici, dei professori, dei letterati, dei cineasti ecc.: cioè che essa sia la cultura dell’intelligencija. Invece non è così. E non è neanche la cultura della classe dominante, che, appunto, attraverso la lotta di classe, cerca di imporla almeno formalmente. Non è infine neanche la cultura della classe dominata, cioè la cultura popolare degli operai e dei contadini. La cultura di una nazione è l’insieme di tutte queste culture di classe: è la media di esse. E sarebbe dunque astratta se non fosse riconoscibile – o, per dir meglio, visibile – nel vissuto e nell’esistenziale, e se non avesse di conseguenza una dimensione pratica. Per molti secoli, in Italia, queste culture sono stato distinguibili anche se storicamente unificate. Oggi – quasi di colpo, in una specie di Avvento – distinzione e unificazione storica hanno ceduto il posto a una omologazione che realizza quasi miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere. A cosa è dovuta tale omologazione? Evidentemente a un nuovo Potere. Scrivo “Potere” con la P maiuscola – cosa che Maurizio Ferrara accusa di irrazionalismo, su «l’Unità» (12-6-1974) – solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è. Non lo riconosco più né nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nelle Forze Armate. Non lo riconosco più neanche nella grande industria, perché essa non è più costituita da un certo numero limitato di grandi industriali: a me, almeno, essa appare piuttosto come un tutto (industrializzazione totale), e, per di più, come tutto non italiano (transnazionale). Conosco, anche perché le vedo e le vivo, alcune caratteristiche di questo nuovo Potere ancora senza volto: per esempio il suo rifiuto del vecchio sanfedismo e del vecchio clericalismo, la sua decisione di abbandonare la Chiesa, la sua determinazione (coronata da successo) di trasformare contadini e sottoproletari in piccoli borghesi, e soprattutto la sua smania, per così dire cosmica, di attuare fino in fondo lo “Sviluppo”: produrre e consumare. L’identikit di questo volto ancora bianco del nuovo Potere attribuisce vagamente ad esso dei tratti “moderati”, dovuti alla tolleranza e a una ideologia edonistica perfettamente autosufficiente; ma anche dei tratti feroci e sostanzialmente repressivi: la tolleranza è infatti falsa, perché in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore; e quanto all’edonismo, esso nasconde evidentemente una decisione a preordinare tutto con una spietatezza che la storia non ha mai conosciuto. Dunque questo nuovo Potere non ancora rappresentato da nessuno e dovuto a una «mutazione» della classe dominante, è in realtà – se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia – una forma “totale” di fascismo. Ma questo Potere ha anche “omologato” culturalmente l’Italia: si tratta dunque di un’omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre. La strategia della tensione è una spia, anche se sostanzialmente anacronistica, di tutto questo. Maurizio Ferrara, nell’articolo citato (come del resto Ferrarotti, in « Paese Sera », 14-6-1974) mi accusa di estetismo. E tende con questo a escludermi, a recludermi. Va bene: la mia può essere l’ottica di un «artista», cioè, come vuole la buona borghesia, di un matto. Ma il fatto per esempio che due rappresentanti del vecchio Potere (che servono però ora, in realtà, benché interlocutoriamente, il Potere nuovo) si siano ricattati a vicenda a proposito dei finanziamenti ai Partiti e del caso Montesi, può essere anche una buona ragione per fare impazzire: cioè screditare talmente una classe dirigente e una società davanti agli occhi di un uomo, da fargli perdere il senso dell’opportunità e dei limiti, gettandolo in un vero e proprio stato di «anomia». Va detto inoltre che l’ottica dei pazzi è da prendersi in seria considerazione: a meno che non si voglia essere progrediti in tutto fuorché sul problema dei pazzi, limitandosi comodamente a rimuoverli. Ci sono certi pazzi che guardano le facce della gente e il suo comportamento. Ma non perché epigoni del positivismo lombrosiano (come rozzamente insinua Ferrara), ma perché conoscono la semiologia. Sanno che la cultura produce dei codici; che i codici producono il comportamento; che il comportamento è un linguaggio; e che in un momento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato (tecnicizzato) il linguaggio del comportamento (fisico e mimico) assume una decisiva importanza. Per tornare così all’inizio del nostro discorso, mi sembra che ci siano delle buone ragioni per sostenere che la cultura di una nazione (nella fattispecie l’Italia) è oggi espressa soprattutto attraverso il linguaggio del comportamento, o linguaggio fisico, più un certo quantitativo – completamente convenzionalizzato e estremamente povero – di linguaggio verbale. È a un tale livello di comunicazione linguistica che si manifestano: a) la mutazione antropologica degli italiani; b) la loro completa omologazione a un unico modello. Dunque: decidere di farsi crescere i capelli fin sulle spalle, oppure tagliarsi i capelli e farsi crescere i baffi (in una citazione protonovecentesca); decidere di mettersi una benda in testa oppure di calcarsi una scopoletta sugli occhi; decidere se sognare una Ferrari o una Porsche; seguire attentamente i programmi televisivi; conoscere i titoli di qualche best-seller; vestirsi con pantaloni e magliette prepotentemente alla moda; avere rapporti ossessivi con ragazze tenute accanto esornativamente, ma, nel tempo stesso, con la pretesa che siano «libere» ecc. ecc. ecc.: tutti questi sono atti culturali. Ora, tutti gli Italiani giovani compiono questi identici atti, hanno questo stesso linguaggio fisico, sono interscambiabili; cosa vecchia come il mondo, se limitata a una classe sociale, a una categoria: ma il fatto è che questi atti culturali e questo linguaggio somatico sono interclassisti. In una piazza piena di giovani, nessuno potrà più distinguere, dal suo corpo, un operaio da uno studente, un fascista da un antifascista; cosa che era ancora possibile nel 1968. I problemi di un intellettuale appartenente all’intelligencija sono diversi da quelli di un partito e di un uomo politico, anche se magari l’ideologia è la stessa. Vorrei che i miei attuali contraddittori di sinistra comprendessero che io sono in grado di rendermi conto che, nel caso che lo Sviluppo subisse un arresto e si avesse una recessione, se i Partiti di Sinistra non appoggiassero il Potere vigente, l’Italia semplicemente si sfascerebbe; se invece lo Sviluppo continuasse così com’è cominciato, sarebbe indubbiamente realistico il cosiddetto «compromesso storico», unico modo per cercare di correggere quello Sviluppo, nel senso indicato da Berlinguer nel suo rapporto al CC del partito comunista (cfr. «l’Unità », 4-6-1974). Tuttavia, come a Maurizio Ferrara non competono le «facce», a me non compete questa manovra di pratica politica. Anzi, io ho, se mai, il dovere di esercitare su essa la mia critica, donchisciottescamente e magari anche estremisticamente. Quali sono dunque i miei problemi? Eccone per esempio uno. Nell’articolo che ha suscitato questa polemica («Corriere della sera», 10-6-1974) dicevo che i responsabili reali delle stragi di Milano e di Brescia sono il governo e la polizia italiana: perché se governo e polizia avessero voluto, tali stragi non ci sarebbero state. È un luogo comune. Ebbene, a questo punto mi farò definitivamente ridere dietro dicendo che responsabili di queste stragi siamo anche noi progressisti, antifascisti, uomini di sinistra. Infatti in tutti questi anni non abbiamo fatto nulla:

1) perché parlare di « Strage di Stato » non divenisse un luogo comune, e tutto si fermasse lì;

2) (e più grave) non abbiamo fatto nulla perché i fascisti non ci fossero. Li abbiamo solo condannati gratificando la nostra coscienza con la nostra indignazione; e più forte e petulante era l’indignazione più tranquilla era la coscienza.

In realtà ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti, e di fronte a questa decisione del loro destino non ci fosse niente da fare. E non nascondiamocelo: tutti sapevamo, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale: sarebbe bastata forse una sola parola perché ciò non accadesse. Ma nessuno di noi ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla, e si sono gettati a capofitto nell’orrenda avventura per semplice disperazione. Ma non potevamo distinguerli dagli altri (non dico dagli altri estremisti: ma da tutti gli altri). È questa la nostra spaventosa giustificazione. Padre Zosima (letteratura per letteratura!) ha subito saputo distinguere, tra tutti quelli che si erano ammassati nella sua cella, Dmitrj Karamazov, il parricida. Allora si è alzato dalla sua seggioletta ed è andato a prosternarsi davanti a lui. E l’ha fatto (come avrebbe detto più tardi al Karamazov più giovane) perché Dmitrj era destinato a fare la cosa più orribile e a sopportare il più disumano dolore. Pensate (se ne avete la forza) a quel ragazzo o a quei ragazzi che sono andati a mettere le bombe nella piazza dì Brescia. Non c’era da alzarsi e da andare a prosternarsi davanti a loro? Ma erano giovani con capelli lunghi, oppure con baffetti tipo primo Novecento, avevano in testa bende oppure scopolette calate sugli occhi, erano pallidi e presuntuosi, il loro problema era vestirsi alla moda tutti allo stesso modo, avere Porsche o Ferrari, oppure motociclette da guidare come piccoli idioti arcangeli con dietro le ragazze ornamentali, si, ma moderne, e a favore del divorzio, della liberazione della donna, e in generale dello sviluppo… Erano insomma giovani come tutti gli altri: niente li distingueva in alcun modo. Anche se avessimo voluto non avremmo potuto andare a prosternarci davanti a loro. Perché il vecchio fascismo, sia pure attraverso la degenerazione retorica, distingueva: mentre il nuovo fascismo – che è tutt’altra cosa – non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo.

Pier Paolo Pasolini Il Potere senza volto, in Il Corriere della Sera (1974) in Scritti corsari, Garzanti, Milano (1975)

L'intervista del 74 a Pier Paolo Pasolini: "Oggi buona parte dell'antifascismo è ingenuo, stupido o in malafede". Massimo Fini il 7 Novembre 2021 su Il Giornale. Massimo Fini chiese il parere dello scrittore che sorprese tutti: "La società dei consumi è peggio del Regime". Mai come in questi anni in Italia si è sentita risuonare la parola «antifascista», insieme ai suoi due corollari «laico» e «democratico». Non c'è persona oggi in Italia (a parte i fascisti dichiarati) che non si proclami tutta insieme «laica, democratica e antifascista». Eppure mai come in questi anni la Repubblica è stata, al di là di certe apparenze permissive, percorsa da sindromi di intolleranza, di corporativismo, di antidemocrazia: di fascismo, infine, se fascismo significa anche la prepotenza del potere... Il fatto è che essere genericamente antifascista oggi in Italia non costa nulla, anzi spesso e volentieri paga. Ecco perché il termine è diventato ambiguo, si è consumato al punto da non voler dire quasi più nulla. Del resto è già abbastanza straordinario che a trent'anni dalla Resistenza e dalla caduta del regime si ragioni ancora in termini di fascismo e antifascismo. Questo vuol dire solo due cose: o che siamo rimasti perfettamente immobili e che trent'anni sono passati invano, o che dietro un certo antifascismo di maniera (che nulla ha a che vedere con l'antifascismo reale pagato di persona) si nascondono sotto mentite spoglie i vizi di ieri, le intolleranze, il conformismo, il servilismo di fronte al potere. Un «antifascismo» oltretutto pericoloso perché rischia con il suo conformismo e la sua intolleranza di fare dei fascisti reali dei martiri ingiustificati, e rischia di fare apparire quasi dalla parte della ragione chi ha indiscutibilmente torto. Da questi dubbi nasce la nostra inchiesta. Un'inchiesta, come si vede, delicata (l'accusa che ci verrà immediatamente rivolta, lo sappiamo, è di «fare il gioco delle destre»). Per questo abbiamo chiamato a rispondere a questi dubbi e a queste domande uomini della cui reale, antica e provata fede antifascista non è lecito dubitare.

PASOLINI: «Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per prendersi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più. Partiamo dal recente film di Naldini: Fascista. Ebbene quel film, che si è posto il problema del rapporto fra un capo e la folla, ha dimostrato che sia quel capo, Mussolini, che quella folla sono due personaggi assolutamente archeologici. Un capo come quello oggi è assolutamente inconcepibile non solo per la nullità e per l'irrazionalità di quello che dice, per il nulla logico che sta dietro quello che dice, ma anche perché non troverebbe assolutamente spazio e credibilità nel mondo moderno. Basterebbe la televisione per vanificarlo, per ucciderlo politicamente. Le tecniche di quel capo andavano bene su di un palco, in un comizio, di fronte alle folle oceaniche, non funzionerebbero assolutamente su uno schermo a 22 pollici... Ecco perché buona parte dell'antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. È insomma un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo... Io credo, io credo profondamente che il vero fascismo sia quello che i sociologi hanno troppo bonariamente chiamato la società dei consumi. Una definizione che sembra innocua, puramente indicativa. E invece no. Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell'urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa bonaria e grassoccia società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un fascismo bello e buono. Nel film di Naldini noi abbiamo visto i giovani inquadrati, in divisa. Ma se noi guardiamo i giovani di oggi, anch'essi sono inquadrati, in divisa. Con una differenza però. Allora i giovani, nel momento stesso in cui si toglievano la divisa e riprendevano la strada verso i loro paesi e i loro campi, ritornavano gli italiani di cento, di cinquant'anni addietro, come prima del fascismo. Il fascismo in realtà li aveva resi dei pagliacci, li aveva repressi, e forse in parte anche convinti, ma non li aveva toccati sul serio nel fondo dell'anima, nel loro modo di essere. Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell'intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta più, come all'epoca mussoliniana, di una irreggimentazione superficiale, scenografica, ma di una irreggimentazione reale che ha rubato e cambiato la loro anima. Il che significa, in definitiva, che questa civiltà dei consumi è una civiltà dittatoriale. Insomma se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la società dei consumi ha bene realizzato il fascismo... Secondo me, la vera intolleranza è quella della società dei consumi, della permissività fatta cadere dall'alto, voluta dall'alto, che è la vera, la peggiore, la più subdola, fredda e spietata forma di intolleranza. Perché è intolleranza mascherata da tolleranza. Perché non è vera. Perché è revocabile ogni qualvolta il potere ne senta il bisogno. Perché è il vero fascismo da cui viene poi l'antifascismo di maniera: inutile, ipocrita, sostanzialmente gradito al regime. Se vogliamo fare dell'antifascismo sul serio noi non dobbiamo pronunciare nei confronti dei fascisti dei giudizi intellettuali o moralistici ma dei giudizi storici e politici. Non sono dei peccatori: sono dei nemici. Dei nemici di cui si deve tener conto, della cui cultura si deve tener conto. In questo senso gli intellettuali italiani di sinistra hanno delle gravissime colpe. Perché hanno sempre giudicato con sufficienza, con boria, con stupida superficialità la cultura di destra. Hanno sempre preferito ignorare la cultura di destra, chiudere gli occhi, basti pensare al caso clamoroso di Nietzsche. Le tesi di destra non vanno respinte a priori. Vanno giudicate. Perché, per quanto possa sembrare strano, i fascisti hanno un pensiero, una filosofia, una cultura. Che è una grande cultura che partecipa strettamente della cultura democratica e antifascista: perché il pensiero di Gentile è l'altra faccia di Croce. Perché la filosofia di Gentile la ritroviamo in Hegel. Ci si vergogna a dover spiegare ancora queste cose. Infine l'antifascismo, anche il più vero, anche quello vissuto e pagato sul campo non significa mancanza di misericordia. E voglio concludere col distico che Paul Éluard, poeta comunista, dedicò alle ragazze rapate a zero perché erano state con i nazisti: A quel tempo per non punire i colpevoli si rapavano delle ragazze». Massimo Fini

Moravia, uno scrittore passato dagli omissis all’oblio. Marcello Veneziani il  30 Settembre 2020 su La Verità. È passato quasi inosservato nei giorni scorsi il trentennale della morte di Alberto Moravia. Quando era in vita Moravia era lo Scrittore per antonomasia, l’Intellettuale civile impegnato, il personaggio pubblico. Veniva citato e omaggiato come un Classico vivente. La sua immagine era dappertutto, al centro dei dibattiti, punto di riferimento dell’Intellettuale Collettivo. Le sue prese di posizione, i suoi ritratti, come quello che gli fece Guttuso (nella foto), le sue pose, le sue donne – da Elsa Morante che grandeggia su di lui a Dacia Maraini che alla sua ombra prende corpo come scrittrice – i suoi reportage di viaggi, il cinema, la sua Sabaudia che fu la Capalbio ante litteram, il suo moralismo ideologico, il suo vibrante discorso alla morte di Pasolini. Tanti suoi libri diventarono film. Poi subito dopo la sua morte, il suo nome scomparve, i suoi libri pure, tutto apparve passato remoto e polveroso. Di lui restò solo il secondo cognome a Carmen Llera, l’ultima sua consorte. E un paio di folte sopracciglia grandeggianti come cespugli nei suoi ritratti.

Pasolini

Eppure si parlava e si parla ancora tanto del suo sodale PierPaolo Pasolini, morto molto prima di lui, si ripubblicano i suoi scritti, si ridiscutono le sue tesi; invece di Moravia si sono perse le tracce. Dimenticato. Ora, a trent’anni dalla morte, quasi coeva alla morte del Pci, è difficile risvegliare interesse intorno a lui. Eppure, nonostante tutto alcune sue opere, dagli Indifferenti, opera più che precoce, alla Noia e La Ciociara, hanno il respiro di testi significativi. Rispecchiano una condizione, riflettono un’epoca e un mondo. Moravia restò il prototipo dell’Intellettuale Impegnato, antifascista, vicino al Pci, di cui fu pure europarlamentare seppure “laico”.  La macchina del consenso che a volte è macchina dell’oblio, aveva dimenticato il suo primo libro pubblicato con la casa editrice di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce, l’Alpes; e poi la lettera col cappello in mano che Moravia aveva scritto a Galeazzo Ciano, genero del duce e ministro, per rassicurarlo che il suo libro Le ambizioni sbagliate era “tutt’altro che antitetico alla Rivoluzione fascista”; aveva dimenticato le coperture fasciste assicurategli da suo zio Augusto de Marsanich, gerarca e viceministro ai tempi del regime e poi primo presidente dell’Msi nel dopoguerra; non ricordava che suo cugino antifascista Carlo Rosselli lo riteneva un esponente scettico ma verace della “nuova generazione fascista”.

Prezzolini

Si dimenticò di Prezzolini che ai tempi del fascismo lo aveva invitato alla Columbia University negli Stati Uniti per far conoscere i suoi romanzi in America e che il famigerato Minculpop lo reclutò per un viaggio di Cina degli intellettuali nazionali (che poi, sull’onda di Malaparte, diventerà anni dopo la sua infatuazione maoista). Nessuno ricordava più, ai tempi del suo antifascismo militante e del suo ruolo di vetrina, gli aiutini di regime e la protezione dello stesso Duce ai suoi “Indifferenti”. Nessuno ricordava più che per anni Alberto Moravia era stato nel dopoguerra il segretario personale dell’Arcitaliano Curzio Malaparte a partire dalla sua rivista Prospettive. Può essere ancora istruttivo scorrere libri come Intellettuali sotto due bandiere di Nino Tripodi o Camerata dove sei? di Claudio Quarantotto (che si firmava Anonimo Nero) per rendersi conto di lui e dei suoi tanti compagni di viaggio che voltarono gabbana. Col passare del tempo, Moravia era diventato “Il Conformista”, per citare il titolo di un suo libro, incarnava il Canone ideologico della cultura italiana. E dava la linea, sgridava gli eretici che non seguivano la linea progressista, marx-freudiana e filocomunista. Per esempio, nell’aprile del 1963 su L’Espresso Moravia rimproverava il compagno Pasolini per aver accettato di girare un film con Giovannino Guareschi un conservatore che era stato nel campo di concentramento nazista per la sua fedeltà al regno d’Italia.

Guareschi

Moravia scriveva che “in questi tempi ci accade di vergognarci degli altri, riferendosi a Guareschi e invitando Pasolini a non cadere nella “trappola”. Sei troppo candido per Guareschi, diceva Alberto a Pierpaolo, non contaminarti. E usava proprio l’espressione “candido” per alludere all’omonimo settimanale di battaglia di Guareschi. Divertente era il perbenismo di Moravia che accusava Guareschi di scrivere per una rivista “pornografica” che era poi Il Borghese, per via delle foto osé al centro della rivista. Eppure alla letteratura pornografica in salsa psicanalitica Moravia avrebbe presto dato i suoi contributi (per esempio il pessimo romanzo Io e lui, solo per fare un esempio, dove lui è il suo organo sessuale).

Certo, uno scrittore non si può ridurre al suo ruolo civile e alle sue amnesie, alle sue piccole viltà, ai suoi camaleontismi e alle sue opere peggiori. E gli scrittori in fondo vanno giudicati per le opere e non per la biografia o il mondo in cui si comportarono nella vita pubblica. Però è bene non dimenticare l’emisfero in ombra di Moravia, soprattutto quando tutti gli altri tendono a non ricordarsene. MV, La Verità

Il Pci si celebra Cento anni di menzogne. Alessandro Gnocchi il 19 Gennaio 2021 su Il Giornale. Antonio Gramsci era un santo. Palmiro Togliatti un fior di riformista, sulla scia del socialista Filippo Turati. Antonio Gramsci era un santo. Palmiro Togliatti un fior di riformista, sulla scia del socialista Filippo Turati. Il Partito comunista era non solo del Migliore (Togliatti, appunto), ma anche dei migliori, essendo i suoi elettori colti e moralmente irreprensibili. La svolta della Bolognina e la trasformazione in Partito democratico della sinistra fu una geniale intuizione di Giorgio Napolitano, e non di Achille Occhetto. Botteghe Oscure prese le distanze da Mosca un poco alla volta, ma con decisione, fin dal dopoguerra, quando scelse di partecipare al processo democratico. Budapest non è mai esistita. La Primavera di Praga, neppure. I Gulag sono un'invenzione della propaganda. L'Unione Sovietica era pacifista a differenza dei guerrafondai statunitensi. I dissidenti erano fascisti sotto mentite spoglie. Questo, a sommi capi, è il ritratto del Partito comunista italiano, nato cento anni fa con la scissione di Livorno, che abbiamo potuto leggere sui quotidiani, in pratica tutti, spesso in articoli firmati da... (ex?) comunisti. Massì. Non facciamo i bastian contrari a tutti i costi. È stupido ricordare fatti sgradevoli. San Gramsci disse che la piccola e media borghesia erano «la barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente, con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacchè». Quindi proseguiva, con divino afflato, che la classe sociale in questione bisognava «espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco». Col ferro e col fuoco, che carino. Sul riformismo di Togliatti, sarebbe proprio cercare il pelo nell'uovo il voler ricordare queste parole del Migliore: «Nella persona e nell'attività di Filippo Turati si sommano tutti gli elementi negativi, tutte le tare, tutti i difetti che sin dalle origini viziarono e corruppero il movimento socialista italiano, che lo condannarono al disastro, al fallimento, alla rovina. Per questo la sua vita può bene essere presa come simbolo e, come un simbolo, anche la sua fine. L'insegna sotto cui questa vita e questa fine possono essere poste è l'insegna del tradimento e del fallimento. Nella teoria Turati fu uno zero». Uno zero, dai Palmiro, non fare l'invidioso, sappiamo tutti (?) che in realtà Turati fu il tuo maestro. Quanto alla guerra di Liberazione, chiedere informazioni nel triangolo rosso e lungo il confine orientale: regolamento di conti a mano armata (quella comunista), brigate tradite e sotterrate (dai gappisti), infoibamenti (dai gappisti e dai compagni titini). La «svolta» democratica era tatticismo, voluto e ordinato da Mosca, che stava rafforzando la presa sull'Europa dell'Est e non poteva permettersi l'apertura di un fronte in Italia. In quanto alle posizioni del Partito comunista davanti all'ingresso dei carri armati in Ungheria, sono limpide. Ecco qua cosa scriveva Giorgio Napolitano: «L'intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l'Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione ma alla pace nel mondo». Secondo l'Unità, gli insorti non erano socialisti in cerca di riforme ma «teppisti, spregevoli provocatori e fascisti». Beh, direte voi, però a Praga nel 1968... No, signori, davanti alla repressione, il Partito comunista, con Berlinguer in ascesa a fianco di Luigi Longo, non riuscì ad andare oltre un «forte dissenso». Ah, il dissenso. Vogliamo parlare del tentativo, andato a vuoto, di impedire la pubblicazione del Dottor Zivago di Boris Pasternak? Rossana Rossanda si prese la briga di far capire all'editore Giangiacomo Feltrinelli che quel romanzo era brutta propaganda anti-comunista. Darlo alle stampe significava «passare il segno». Non solo Rossana Rossanda. Scese in campo tutta la prima linea della dirigenza: Pietro Secchia, Paolo Robotti, Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Mario Alicata. E quando il premio Nobel per la letteratura Aleksandr Solgenitsin fu esiliato? I comunisti di casa nostra giudicarono l'atto proporzionato, una dimostrazione di responsabilità da parte dei sovietici. Certo, l'esilio era una misura restrittiva dei diritti individuali, ma Solgenitsin aveva sfidato lo Stato e sostenuto aberranti tesi controrivoluzionarie. Sì, però dopo... a un certo punto le cose saranno cambiate. Nel 1977, non ancora. Quello fu l'anno della Biennale del dissenso voluta da Carlo Ripa di Meana. Ordine diretto di Mosca, subito raccolto dai compagni italiani: boicottate la mostra veneziana. Inutilmente cercherete notizia di questi o analoghi fatti. Prevale, nella stampa e nell'editoria, l'adorazione per la storia formidabile del comunismo italiano, senza macchia e senza paura. D'altronde, il comunismo ha perso come sistema politico ma ha vinto come sistema culturale, come mentalità di massa. Facciamo un esempio. Chi ha pagato il conto più salato in questi mesi piagati dalla pandemia? La piccola o media borghesia, impossibilitata a lavorare e ingannata dai mitici ristori, ovvero soldi a pioggia che non arriveranno mai nella misura necessaria e promessa. D'altro canto come potrebbe lo Stato italiano, che non ha un centesimo, provvedere davvero a tutto? Bene, ricordate le parole di Gramsci da cui siamo partiti? La borghesia «da espellere... col ferro e col fuoco»? Alessandro Gnocchi 

VERITÀ STORICA E STRATEGIA DELLA MENZOGNA: IL TOTALITARISMO COMUNISTA. Renato Cristin il 24 aprile 2019 su opinione.it. «Ciò che più colpisce gli studiosi che hanno esaminato con attenzione i regimi comunisti non è tanto l’entità e la mostruosità dei crimini commessi, quanto la vastità delle complicità e delle omertà che essi sono sempre riusciti a trovare nei Paesi occidentali». Infatti, «il comunismo è riuscito, per durata e diffusione, a condizionare la vita politica e sociale di tanti popoli e a soggiogare, con i suoi metodi e con le sue menzogne, interi continenti», ma «la sua influenza è stata enorme anche perché era sorretta da una formidabile organizzazione internazionale», che consisteva in una incomparabile potenza ideologica e in un vastissimo appoggio negli ambienti culturali, accademici e giornalistici occidentali. Così scriveva Sandro Fontana dieci anni fa in un libro intitolato Le grandi menzogne della storia contemporanea (Edizioni Ares, Milano 2009). In quanto entità statale, a parte alcune sacche marginali di persistenza (la Cina, pur essendo guidata dal partito comunista, è un fenomeno più complesso e non immediatamente classificabile), il comunismo è crollato, ma la sua idea, deflagrata oggi in molte metamorfosi, è sopravvissuta, e il sostegno a questa ideologia sanguinaria (oltre cento milioni di morti, secondo gli studi più accurati, come quello a cura di R. Conquest, Il costo umano del comunismo, Edizioni del Borghese, Roma 1973), è ancora forte in tutti gli ambienti che sono in grado di plasmare l’opinione pubblica occidentale. Le forme di questo sostegno sono svariate e dalle molteplici sfumature, ma hanno in comune l’affermazione di una presunta superiorità intellettuale e l’intento di consolidamento del potere, istituzionale quando possibile e culturale in ogni caso. In questa logica, detto in breve, ideologia comunista e produzione culturale sono diventate sinonimi: dove c’è l’una, dovrà per forza esserci anche l’altra. Su questo assioma si sono rette per decenni molte delle coordinate politiche dell’Europa occidentale e su di esso hanno fatto la loro fortuna i partiti della sinistra europea. Questa però è una menzogna che ha potuto passare per verità solo perché l’ideologia che l’ha spacciata ha un intrinseco carattere violento e totalitario, come aveva perfettamente visto il bulgaro Tzvetan Todorov: «mentre i Paesi occidentali hanno imboccato la via della democrazia, scelta per decisione maggioritaria della popolazione, i loro intellettuali hanno invece optato per regimi violenti e tirannici. Se in quei Paesi il voto fosse stato riservato ai soli intellettuali, oggi vivremmo sotto regimi totalitari». A questa tendenza ideologica va aggiunto il fatto che la retorica sinistrista si è, quasi sempre, fondata sulla falsità, perché, uso ancora parole di Sandro Fontana, «con la menzogna è facile distruggere l’avversario politico e anche conquistare il potere». Tuttavia l’impostura, per quanto grande e ramificata, non consente di governare Stati di grande complessità e di grande autoconsapevolezza come quelli europei, e quindi il limite di quella ideologia consiste nella sua stessa strategia. Per poter avere successo, la strategia della menzogna deve spingere ogni discorso al parossismo, deve portare ogni situazione al suo estremo, deve torcere il linguaggio a scopi sofistici. Se non viene scoperta, questa tecnica offre esiti pragmatici durevoli, ma se viene smascherata, il velo cade, il fumo si dirada e si svela la verità.

L’eccezione e la legge

Un filo di questa trama pende oggi in una polemica che le sinistre genericamente definibili hanno lanciato contro l’amministrazione regionale del Friuli-Venezia Giulia, il cui Presidente Massimiliano Fedriga ha deciso di recepire una mozione approvata dal Consiglio finalizzata a «sospendere ogni contributo finanziario e di qualsiasi altra natura a beneficio di soggetti pubblici e privati che, direttamente o indirettamente, concorrano con qualunque mezzo o in qualunque modo a diffondere azioni volte a non accettare l’esistenza di vicende quali le Foibe o l’Esodo, ovvero a sminuirne la portata». Da qualunque parte del mondo una simile mozione verrebbe classificata nella normale attività legislativa: è normale che la politica contribuisca a custodire la memoria storica, difendendola da menzogne e mistificazioni. È normale che il crimine forse più spregevole che ha colpito gli italiani, in quanto comunità etnica-nazionale, in tutta la loro storia venga definito come tale e, in quanto tale, diventi una sorta di unicum che non può essere associato ad altri, pur gravi. Se dunque quella pulizia etnica contro gli italiani in quanto tali ha il carattere di eccezione storica, eccezionale dev’essere anche la considerazione che la riguarda, e quindi anche il potere legislativo deve trattarla in forma di eccezione. Con ciò, la ricerca storica non viene inficiata nella sua libertà, ma, analogamente a quanto accade per la legislazione tedesca in materia di Shoah, fatte ovviamente salve tutte le differenze, per portata e per conseguenze, fra queste due tragedie storiche, quando si scalfisce il perimetro che protegge l’eccezione si infrange un limite. Da qui la mozione e la decisione del Presidente Fedriga. È normale dunque che una eccezione sia trattata distintamente dagli altri casi. Ma in Italia, e soprattutto a Trieste, sembra che questa normalità non venga accettata da coloro che, dunque, non ritengono che quella spaventosa tragedia costituisca eccezione, e la ridimensionano, la minimizzano. Le forme di questa denegazione (termine psicoanalitico quanto mai appropriato) sono svariate: si rifiuta la realtà storica (oggi però i casi di questa forma estrema non sono più molto frequenti), le si nega dignità, le si nega visibilità, le si nega memoria piena, le si nega il senso dell’unicità, ma tutte queste versioni si discostano dalla verità, che dunque sarebbe oggetto di confutazione storica, non di esperienza esistenziale, come se la verità dovesse essere stabilita dalla storiografia e non dalla memoria delle persone, sempre vivente perché incarnata nell’esperienza. Agli storici spetterebbe sancire la verità dell’esperienza esistenziale? L’oggettività dello storico sarebbe superiore all’esperienza della vittima o alla memoria di coloro che ne rivivono la testimonianza? Alla denigrazione diretta si affianca lo scherno: oltre al disconoscimento di un crimine eccezionale nella sua portata etnico-politica, si mostra qui un positivismo gretto e totalitario, che pretende di imporre agli individui, ai popoli e allo spirito le tabelle del computo storiografico. La tesi della superiorità intellettuale della sinistra applicata al terreno dell’esperienza vissuta: l’ideologia di sinistra ci dice cosa è politicamente giusto; la storiografia di sinistra determina come interpretare gli eventi storici. Ma poiché questi ultimi sono un intreccio inestricabile di fatti reali e di vissuti esistenziali, la loro verità – nel senso filosofico e quindi nel senso originario – non è riducibile agli schemi storiografici. E, in questo senso, il caso di cui sto parlando è paradigmatico.

Il totalitarismo dell’ideologia comunista

Siamo di fronte a un frutto velenoso del pensiero totalitario, perché il totalitarismo si produce mediante la negazione della verità e l’imposizione di schemi strumentali. E a questo scopo si dice pure che quella mozione e la sua conseguente adozione sarebbero divisive. È uno schema talmente vecchio da risultare noioso, se non fosse però sempre dannoso: solo ciò che propone o impone la sinistra sarebbe unitivo, tutto il resto è divisivo. Se si accettano i dettami della sinistra si ha la pace, altrimenti scatenano la guerra. Questa miscela tra sofisma e intimidazione è micidiale, ma da qualche tempo si intravedono alcune crepe nella corazza politicamente corretta, si incominciano a vedere le menzogne che la strutturano; gli italiani si stanno rendendo conto, e lo hanno spesso dimostrato nell’esercizio democratico del voto, che quella retorica è finalizzata all’inganno. Infatti, sotto la maschera di un appello alla libertà di ricerca si vogliono imporre schemi ideologici e, molto più in basso, sistemi di finanziamento che retroalimentano quegli schemi, in un circolo che serve a consolidare e magari rafforzare posizioni acquisite nel corso di decenni di dominio culturale. In gioco dunque è il potere che per decenni la sinistra, la sua retorica e la sua storiografia sono riuscite a imporre all’opinione pubblica. Il confine orientale continua ad essere aggredito da un’ideologia che, nonostante il passare del tempo, nonostante l’affermarsi delle verità storiche, nonostante i suoi fallimenti planetari, sembra la stessa di settant’anni fa, con la stessa struttura logica e con le stesse formule. È la prova che, detto sommariamente, il comunismo, come teoria e come prassi, è vivo, e non è limitato solo all’estremo lembo del Nordest, ma è diffuso in tutto il Paese e, in forme diverse, ovunque nel mondo. Dopo un secolo di aggressioni verbali (per non parlare delle violenze fisiche e degli stermini di massa), i militanti di questa ideologia, oggi mascherati da buonisti e proliferati nella galassia progressista, hanno la spudoratezza di ergersi a paladini del discorso pacato e da inflessibili fustigatori di quelli che, furbescamente, essi chiamano «i discorsi d’odio» e che, invece, sono argomenti teorico-politici avversi al dilagante politicamente corretto o, talvolta, semplici espressioni di buon senso. Con la sicumera che solo i professionisti della menzogna e della dissimulazione riescono ad avere, gli apologeti del buonismo si sono ritagliati uno spazio ragguardevole nel discorso pubblico, nei media e nei social, e lo consolidano con la sistematica aggressione nei confronti di qualsiasi espressione che possa anche solo minimamente mettere in crisi la loro ideologia. È la solita e arcinota mossa dell’attacco preventivo: da un punto di vista politico, tutto ciò che minaccia il piedestallo etico-linguistico su cui si ergono questi sinistri censori va attaccato con accuse pesanti anche se infondate: nazionalismo, populismo, xenofobia, fascismo e così via; da un punto di vista psicologico, bisogna diffamare qualsiasi persona e qualunque idea che possa smascherare la menzogna su cui si regge il politicamente corretto. Che questa truce ideologia, in più di un secolo di vita, non abbia mai cambiato questo schema è un fatto inquietante e al tempo stesso risibile. L’assurda tesi della superiorità etica e politica della sinistra, pur essendo palesemente errata è talmente diffusa da esser diventata luogo comune. Nonostante il crollo dei consensi ai partiti della sinistra, dovuta anche alla diffusione delle idee liberali, del liberal-conservatorismo e del cattolicesimo non di sinistra, nonostante il lavoro di smascheramento ideologico che dal 1994 il centrodestra italiano ha realizzato (e a cui bisognerà attribuire il giusto riconoscimento storico e teorico), le carte continuano a darle gli esponenti di quella ideologia: politici, intellettuali, giornalisti, docenti che assegnano patenti di democraticità, di antifascismo e di qualsivoglia definizione utile ai propri scopi. E gran parte della popolazione, spesso inconsciamente o per timore reverenziale, con comprensibile ma immotivata sudditanza, accetta quelle classificazioni, quelle categorie che hanno la pretesa di regolare i processi culturali, i rapporti sociali e perfino le dinamiche psicologiche degli individui: una pretesa chiaramente totalitaria. Si tratta di una sceneggiata ideologica i cui numerosi attori però hanno fatto e continuano a fare tremendamente sul serio: un tempo agivano per conto dell’internazionale comunista, sul sottile e rovente filo che congiunge l’impegno politico al terrorismo; oggi agiscono in nome dell’internazionale buonista (camuffamento di quella precedente), non più contigui alle frange terroristiche, ma con il medesimo atteggiamento di terrorismo psicologico e linguistico di un tempo. Se, come sosteneva Guglielmo Ferrero, il terrore è lo sbocco inevitabile della rivoluzione, e se il terrore si pratica non solo con la violenza fisica ma pure con quella linguistica, il terrore della nostra epoca è quel blocco culturale che chiamiamo «il politicamente corretto», forma modificata e aggiornata del rivoluzionarismo comunista.

Il diritto democratico di governare

Se la sofistica classica, detestabile ma eccellente, porta al limite ogni ragionamento, la deprimente sofistica attuale, che è un perfetto impasto di leninismo e di postmodernismo (e che nel nostro caso specifico è la sofistica con cui agiscono i negazionisti, i riduzionisti e i loro conniventi, in tutte le numerose sfumature), adotta lo stesso canone eristico, ma poiché è oggettivamente molto al di sotto del livello di quella antica, non riesce a reggere il discorso al limite, tradendo una volontà che sotto la nuova retorica sofistico-decostruzionistica continua a riprodurre la vecchia pretesa di superiorità, la tendenza alla sopraffazione, la concezione totalitaria. Difficile stare sul limite senza varcarlo, se si è tronfi di suprematismo ideologico, culturale, politico e perfino morale. Il vizio antico della sinistra trova in se stesso la causa del suo fallimento. Questo recente episodio – che dalle cronache locali si è esteso alla ribalta nazionale, sia perché, riguardando la pulizia etnica anti-italiana, tocca un nodo molto sentito nella coscienza nazionale, sia perché fra i contestatori di quella mozione del centrodestra ci sono istituti di importanza nazionale – mostra infatti che, in un crescendo di risentimento, la sinistra, che pur raccoglie studiosi seri insieme a ciarlatani, che raggruppa moderati ed estremisti, persone oneste e faccendieri in malafede, negazionisti e riduzionisti, ha oltrepassato quel limite. Forse non lo ha nemmeno visto, ritenendosi infallibile e al di sopra di ogni vincolo morale, ma di fatto ha superato una linea di demarcazione: la tragedia delle foibe è intangibile. Questo è il limite invalicabile, al di là del quale si aprono scenari raccapriccianti, che ci fanno ripiombare a epoche in cui l’ideologia comunista imperava. E forse proprio questa è la nostalgia segreta che spinge a spostare sempre più in avanti il limite del discorso, in una pulsione di autoaffermazione che vuole distruggere, tacitare o negare l’avversario politico e culturale. Sul crimine delle foibe non si transige, come non si transige sulla criminale aberrazione della Shoah. Tutto qui. Al di là di questa linea c’è il divieto, perché si entra nella zona oscura in cui tutto è possibile, anche Auschwitz, in un territorio mefitico in cui si nega l’essenza dell’essere umano. Con questo divieto la libertà della ricerca non viene impedita né minimamente compromessa, e consiste nella responsabilità scientifica e morale di ciascuno, che può liberamente decidere se valicare o meno il limite. Ma la politica, quando ha la responsabilità di governare, ha anche il diritto di decidere come perseguire nel modo migliore il bene comune, perché il potere democratico si fonda su tale diritto. E poiché la nozione di bene comune non è soltanto oggettiva ma si determina anche in base alla concezione della società e del mondo propria di chi è stato eletto per governare, questi decide come indirizzare gli investimenti pubblici per il conseguimento di ciò che è ritenuto bene e giusto. Questo è il senso di legittimità del potere, di quello costituente e di quello ordinario, perché in ciò consiste il principio della democrazia nella sua applicazione concreta. Si può contestare una decisione, e anche questo è un aspetto della dialettica democratica, ma non si può discutere il diritto di decidere, perché se il potere è legittimato dalla maggioranza degli elettori, negare questo diritto è un atto eversivo.

I crimini del comunismo

Il linguaggio è un’arma a doppio taglio, come ben sapeva Freud. Infatti può anche tradire intenzioni nascoste, come nel caso di un recente documento di un istituto di ricerca storica, nel quale la parola «crimini», che è la più adatta per designare gli eventi delle foibe e dintorni, viene usata solo per i «crimini di guerra italiani». I crimini delle foibe vengono chiamati «stragi», con un termine neutro, semanticamente ambiguo, ideologicamente idoneo. E ancora, in una lettera di protesta contro la mozione del Consiglio Regionale FVG, sarebbero «velenose nostalgie» gli sforzi che l’amministrazione regionale e le associazioni a difesa della memoria della tragedia istriano-dalmata stanno compiendo affinché l’intangibilità di quella memoria venga preservata nella sua integrità. Ma in realtà quell’espressione è una parola, freudianamente, caduta, che tradisce la volontà di riprodurre gli inganni ideologici su cui si sono costruite le strutture del potere culturale e che, quindi, evoca la nostalgia di un predominio parzialmente compromesso e, ci si augura, in esaurimento. Questa sì che è nostalgia, e pure venefica. E su questa linea semantica si inserisce pure uno schiaffo denigratorio lanciato contro la Lega Nazionale, associazione insignita benemerita per l’italianità, che nella medesima lettera di protesta viene definita «un ente privo delle necessarie credenziali di competenza e serietà sul terreno della ricerca storica». Ancora una volta la prassi della denigrazione, ma la Lega Nazionale non necessita di difensori: la sua storia, la sua caratura scientifica e la sua integrità morale bastano, da sole, a rintuzzare qualsiasi aggressione, qualsiasi diffamazione. Il modulo è sempre il medesimo: i migliori stanno a sinistra, e chiunque altro, singolo o associazione, si collochi dall’altra parte è per definizione peggiore. E così si svela il nucleo teorico e ideologico da cui discendono, come conseguenze applicative, tutte le pratiche qui brevemente descritte e molte altre non esaminate. I crimini del comunismo sarebbero, per varie ragioni, meno gravi di quelli del nazionalsocialismo: questa è la logica, chiamiamola così, che ancora oggi sembra guidare, talvolta anche come un riflesso condizionato (imposto da decenni di ideologico lavaggio del cervello), le mosse degli intellettuali di sinistra e, più in generale, l’azione del politicamente corretto applicato alla storia. Contro l’essenza criminogena e gli esiti criminali del nazionalsocialismo abbiamo, tutti, non solo la sinistra, detto parole definitive, che si riassumono in un’espressione un poco usurata ma del tutto adeguata: male assoluto. Lo stesso però va detto, e su ciò una parte non marginale della sinistra continua a non essere d’accordo, nei confronti dell’essenza e degli esiti, parimenti criminali del comunismo, pur nella diversità di scenario, di implicazioni e di conseguenze. Di qui la necessità, ormai improcrastinabile, di affiancare oggi al sacrosanto Processo di Norimberga (e a tutti i sotto-processi che hanno permesso di catturare e condannare altri criminali nazionalsocialisti; uno per tutti: il processo che a Gerusalemme ha visto alla sbarra Eichmann) una Norimberga del comunismo, ovviamente nelle forme che la nostra epoca può concedere. O si accetta di stare su questo piano culturale, scientifico ed etico, oppure si sta dalla parte del comunismo: tertium non datur. 

Comunismo: quando il falso diventa vero. Marco Gervasoni il 23 Giugno 2020 su culturaidentita.it. Sorvegliare e mentire: se c’è un distico che caratterizza il comunismo, come ideologia e come regime, è proprio questo. Sorvegliare e pure reprimere, ovvio; anzi in questo il comunismo non accetta confronti, salvo forse con il nazional-socialismo tedesco. Il mentire però è una caratteristica che definisce ancor più l’esperienza storica comunista, ne è anzi il tratto saliente: il comunista è comunista soprattutto perché mente. Bisogna intendersi sul concetto di menzogna e in ciò ci aiuta l’etimologia. Proveniente dal latino mentiri, che sta anche per “indicare”, condivide la radice sanscrita men, cioè “ricordare”. Mentire quindi non significa tanto celare la verità, quanto indicarne un’altra, alternativa a quella vera. Una verità che deve essere intesa in tre forme: empirica (vero è ciò che vedo), logica (vero è ciò che è conforme al principio di non contraddizione) e ontologica (vero è ciò che è coerente con il senso metafisico). Per questo distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, fin dall’antica Grecia diventa uno degli obiettivi fondamentali della filosofia. Perché il falso si maschera da vero o si confonde con esso e anzi, come scrive Sant’Agostino nel De Mendacio, il falso è tanto più dannoso quanto più si presenta come vero, come gli dei pagani.

Il comunismo rappresenta l’esempio più compiuto nella storia di falso che si presenta vero. Dal punto di vista dottrinale, è infatti figlio dell’Illuminismo e della idea settecentesca di “critica”. Secondo la celebre definizione di Paul Ricoeur, Marx assieme a Nietzsche e Freud, è uno dei tre “maestri del sospetto”. E infatti per Marx quello che si presenta come “vero” è, in realtà, frutto della costruzione del mondo ideologico della classe dominante. Per Marx la realtà è già una narrazione e in qualche modo egli è il primo decostruzionista, non per caso Michel Foucault e Jacques Derrida si definivano seguaci di Marx. Compito dei comunisti è quindi criticare, cioè decostruire, la narrazione dominante. Alla quale però, essi oppongono un’altra narrazione, che si presenta come vera: non vera in assoluto, perché la verità per Marx non esiste, ma vera agli occhi della classe operaia. Finché i marxisti stanno all’opposizione, la critica prevale sulla costruzione della verità alternativa, anche se essa è già presente nella propaganda moderna, di cui i partiti socialisti della Seconda Internazionale, a fine Ottocento, sono gli inventori. I problemi si pongono quando il comunismo, da opposizione, diventa governo, cioè regime. Ciò avviene per la prima volta in Russia, dove la cultura politica marxista si incontra con un’altra, pure di matrice europea occidentale, ma che aveva molto attecchito nel populismo russo. Vale a dire il nichilismo di Sergej Gennadievič Nečaev, seguace del tedesco Max Stirner, per il quale la realtà è solo proiezione della volontà del soggetto individuale, il mondo esterno essendo una sua costruzione. Nonostante la cultura positivista, che pure Lenin e i bolscevichi condividono, nel regime comunista si affermano l’idea e la prassi nichilistiche che è il partito a costruire la realtà. Da quel momento verità sarà solo ciò che viene affermato, deciso e messo in pratica dal Partito comunista. Ma poiché il Partito comunista coincide con lo Stato, i comunisti si impegnano a costruire una realtà e una verità alternative. Cosicché, da quel momento, nella propaganda comunista la menzogna diventa ciò che è vero, mentre ciò che è falso dal punto di vista empirico, logico ed ontologico, diventa il vero. Si potrebbero riportare centinaia di esempi della realtà alternativa, fondata sulla menzogna, che i regimi comunisti, da quello sovietico a quelli sudamericani e asiatici a quello cinese, hanno costruito nel corso dei decenni, tanto che i visitatori stranieri, invitati dai regimi in quei paesi, si trovavano di fronte una sorta di Disneyland comunista: i più smaliziati se ne accorgevano e magari cambiavano idea, ma la maggioranza dei compagni di strada ci cascava o faceva finta di cascarci. Vecchia storia, si dirà. Mica tanto. In primo luogo, mentre nazismo e fascismo sono spariti da decenni, i regimi comunisti sono vivi e vegeti: da Cuba al Vietnam fino, ovviamente, alla Cina. Che sul tema della menzogna è perfettamente in linea con la tradizione di Marx, Lenin, Stalin, Mao (del resto tutti, tranne il georgiano, sempre rivendicati laggiù). In secondo luogo, gli eredi dei Partiti comunisti sono ben attivi: dal Pd in Italia alle varie opposizioni in paesi come Ungheria e Polonia. Molti dei loro dirigenti sono cresciuti nelle scuole di partito che, anche se alle Frattocchie, condividevano l’idea di “verità” di Mosca, cioè la logica della menzogna. E che ora, nel governo Conte, ammiratori di XI ed eredi di Togliatti e di Berlinguer siano fianco a fianco spiega molte cose: tutte preoccupanti.

La storia a metà. Il 25 aprile e la menzogna rossa che impedisce la riconciliazione nazionale. Alfonso Baviera il 25 aprile 2021 su loccidentale.it. E’ un nuovo 25 aprile, data che per la Repubblica Italiana segna un momento di svolta storico. Terminava la seconda guerra mondiale e con essa doveva scomparire ogni traccia del regime fascista che aveva governato il Paese per oltre 20 anni. Per ancora pochi giorni truppe dello sconfitto esercito fascista repubblichino avrebbero ancora imbracciato le armi, più in azioni di autodifesa che di vera e propria guerra. La guerra in Italia era stata brutale. Non solo tra gli eserciti regolari che combattevano al fronte, ma anche per “gli eserciti di partito”, da un lato i fascisti e dall’altro i partigiani (comunisti e non), che forse si combatterono con ancor più brutalità con episodi di impiccagioni e fucilazioni quasi quotidiane. Non mancarono episodi di violenza inaudita che coinvolsero anche le inermi popolazioni civili. Tanto brutale fu questa guerra civile che non fu possibile interromperla all’improvviso e, purtroppo, fece ancora molte vittime nei mesi successivi al 25 aprile 1945 tra fascisti, ex fascisti, conservatori, cattolici ed anche gente innocente. Questa scia di sangue fu dovuta ad un semplice fatto che storicamente in Italia si è sempre cercato di far dimenticare. Oltre alla guerra di liberazione nazionale era in corso una vera e propria rivoluzione “rossa” con il tentativo delle forze comuniste sia di egemonizzare il movimento partigiano (anche con atti violenti come la strage di Porzus che vide la morte di 17 partigiani cattolici per mano di partigiani comunisti) sia di favorire l’ingresso in Italia di eserciti stranieri ma di fede comunista (l’esercito nazionale yugoslavo del regime comunista guidato da Tito che condusse numerose azioni violente come le stragi delle foibe). Purtroppo per chi era favorevole a tale progetto, ma fortunatamente per molti altri, altri eserciti si trovarono ad invadere il territorio nazionale. Gli inglesi e gli americani oramai dilagavano per tutta pianura padana e, in un clima di diffidenza reciproca in embrione tra gli alleati vincitori, riuscirono ad arginare sia le forze partigiane, portando avanti un processo di rapida smilitarizzazione, che quelle dell’esercito yugoslavo. Risulta, quindi, evidente che tale circostanza ha sempre avuto un posto secondario nella Storia italiana (quella con la lettera S maiuscola), poiché ammettere tale fatto storico avrebbe significato allargare il concetto di “liberazione” collegato alla ricorrenza del 25 aprile. Perché se fu liberazione, ed è certo che lo fu, lo fu riferita a due pericoli antidemocratici che avevano dominato in passato il Paese o cercavano di farlo in futuro: quello fascista e quello comunista. Purtroppo per l’onestà storica i partiti di origine comunista si trovarono dalla parte dei vincitori e, quindi, ebbero facile gioco ad accreditarsi come “liberatori” e difensori della democrazia. Per comprendere come questo dato sia falsato basta verificare il livello di democrazia che è stato presente in tutti i regimi comunisti europei dopo la seconda guerra mondiale. Elezioni truccate, opposizioni arrestate, militarizzazione dell’apparato statale, costruzioni di barriere e muri quasi invalicabili, crollo del benessere popolare. Tutto questo “percorso democratico comunista” all’Italia fu evitato grazie alla presenza di migliaia di militari americani e inglesi e non perché le forze partigiane comuniste mirassero ad instaurare realmente un regime democratico nel nostro Paese. Chi lo affermava, e lo continua ad affermare, mentiva allora e mente oggi. E questa menzogna costringe l’attuale sinistra a mantenere costantemente un livello di scontro ideologico contro tutti coloro che o dichiaravano o dichiarano legami ideologici con il passato regime fascista. Questo scontro è servito a mantenere le forze ideologiche di origine comunista dalla parte dei vincitori e, quindi, gli ha permesso di creare una barriera nebulosa sui fatti storici di quegli anni. Sappiamo bene quante critiche furono indirizzate allo storico Renzo De Felice, che per molti anni cercò di riportare la “verità storica istituzionale” sui binari “della verità Storica”. Purtroppo, accettare questa verità storica, porterebbe molti di coloro che oggi sventolano la bandiera dell’antifascismo militante, in versione di forza democratica, a dover considerare proprio avversario anche chi rappresenta una ideologia come quella comunista, con la possibilità di potersi trovare nello stesso momento nella duplice posizione di democratico e antidemocratico. Forse accettare la verità storica sarebbe il primo passo fondamentale per iniziare un vero percorso di riconciliazione nazionale. Fascisti e comunisti, ex fascisti ed ex comunisti, post fascisti e post comunisti, tutti insieme messi dalla stessa parte della barricata, non avrebbero più motivo di continuare uno scontro politico e dialettico che oramai dura da oltre 75 anni e si potrebbe realmente considerare la data del 25 aprile come la “festa della riconciliazione nazionale”.

Berlusconi: Il comunismo é un grande viaggio dentro la menzogna. Il Presidente alla presentazione del libro ''Il sangue di Abele'' su forzaitalia.it. "Il comunismo fu un grande viaggio dentro la menzogna che coinvolse anche il mondo libero. E ancora oggi sul comunismo l’occidente fa fatica ad accettare e riconoscere la verità storica. E’ come se si dovesse fare conti con la propria coscienza e con l’indifferenza e la superficialità con cui molti intellettuali spalleggiarono il comunismo e qualcuno continua così ancora. Con questo libro ho avuto la conferma di ciò che sapevo e pensavo: l’ideologia comunista é la più criminale e disumana della storia dell’uomo. 16 anni fa ho voluto che Mondadori pubblicasse una testimonianza, forse la più vasta, di cosa è’ stato il comunismo e credo che tutti si siano resi conto dell’efferatezze di quell’ideologia. L’Ideologia comunista mirava a prendere il potere, era il potere per il potere. Ho letto questo libro e non sono riuscito a dormire. Sono poi d’accordo sul fatto che sia stato una malattia, una vera follia tanto e’ stata esasperata la sua realizzazione. E’ una speranza di tutti noi, seguiamo le vicende e vediamo se davvero la sinistra italiana riuscirà a fare quello che fece l’Inghilterra 100 anni fa. Sarebbe una cosa meravigliosa se anche il Pci che ha fatto molti lifting cambiando molte volte il nome si trasformerà in un partito socialdemocratico"

PILLOLE LETTERARIE. I maiali comunisti e le loro menzogne, in George Orwell. Simone Chiani il 20 luglio 2021 su lacittanews.it. In “La Fattoria degli Animali” George Orwell (pseudonimo di Eric Arthur Blair) compie un’impressionante denuncia allegorica al comunismo, colpevole di distruggere nella pratica tutto ciò che promette nella teoria. Il tradimento della rivoluzione bolscevica osservato da vasta distanza ha permesso allo scrittore britannico di comporre questa pungente novella in maniera impeccabile. Gli animali sono stufi di sottostare alle ingiuste prepotenze degli uomini, così decidono di ribellarsi tutti insieme: nella Fattoria Padronale gli esseri su due zampe sono cacciati durante una rivoluzione e rimangono, in “autogestione”, le bestie; la fattoria, pertanto, diviene “degli animali”. Tuttavia dopo un’iniziale gioia incontenibile, data dal fatto che per la prima volta sono coloro sempre consideratisi “schiavi” al potere, si iniziano a delineare nuove dinamiche, e nuove gerarchie. I maiali, capitani dell’insurrezione, sembrano via via dimenticarsi sempre più delle promesse fatte durante la rivolta, e arrivano ad accomodarsi così tanto al potere da divenire, alla fine del racconto, veri e propri umani. E’ l’utopia del comunismo raccontata con una pungente allegoria: i maiali, cioè i principali comunisti autori della rivoluzione, finiscono per diventare come i padroni, cioè i ricchi/borghesi/industriali/aristocratici, e per tradire dunque il resto degli animali, cioè il popolo che aveva creduto nella rivoluzione ed è finito per essere più schiavo di quanto non fosse in partenza. Con la sua lucidità disarmante, Orwell riesce a cogliere il declinare della situazione giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, finendo per regalare al lettore una favola socio-politica facilmente rapportabile alla realtà per tutta la durata del racconto. Il popolo (cioè il resto degli animali) finisce, come avviene in 1984, per perdere addirittura la memoria, pilotato dall’abile Gazzettino (chiamato così nella traduzione di Luca Manini per Liberamente) e da alcuni comandamenti che paiono cambiare nel corso del tempo. E allora non è difficile rivedere alcuni grandi nomi della storia russa nei principali personaggi della novella: Lenin è il “Vecchio Maggiore”, che dà il via alla rivolta con i più buoni propositi ma vedrà poi, dopo la sua morte, svanire ogni progetto di parità e uguaglianza; Stalin è “Napoleone”, il colpevole di aver tramutato, con metodi scorretti, la rivolta dei pari in un nuovo totalitarismo; infine, “Palla di Neve” è Trockij, comunista incorruttibile costretto a scappare dalla fattoria perché fedele sostenitore dei principi contro le nuove pieghe impresse dal nuovo Capo. In molte porzioni di testo, in realtà, pare di rivedere anche tutti gli altri totalitarismi: il culto del capo, la modifica perpetua della memoria popolare e una sorta di schiavitù lavorativa eretta a incontestabile virtù, oltre che l’allontanamento dalle proposte iniziali, possono facilmente rimandare anche a situazioni viste in dittature realmente avvenute sotto la fazione politica opposta, ossia l’Estrema Destra. Rimane comunque il fatto che, nei caldissimi anni ’40, con questa novella Orwell preferì scagliarsi contro il comunismo, in maniera incontestabilmente evidente. Forse scioccato dal totale ribaltamento degli ideali utopici pre-rivoluzione, e forse preoccupato che qualcosa di simile potesse avvenire anche negli altri Paesi europei, sentì la necessità di farsi portavoce di tutte le menzogne e dell’impossibilità effettiva di concretizzarsi che sono proprie dell’Estrema Sinistra. Sono esemplari, sennonché lapidarie, le battute finali dell’opera, nelle quali i maiali comunisti che avevano promesso la rivoluzione, dopo un climax prolungato per tutto il racconto, finiscono con l’assimilarsi confusamente agli umani, ossia proprio coloro contro i quali insorsero molti anni prima, anche a livello fisiologico: “Dodici voci gridavano piene di rabbia e tutti loro erano uguali. Non importava ormai che cosa fosse accaduto alle facce dei maiali. Le creature, da fuori, spostavano lo sguardo da maiale a uomo e da uomo a maiale, e ancora da maiale a uomo; ma già era impossibile dire chi fosse chi.”

Alcuni spezzoni allegorici evidentemente riferiti al regime comunista sovietico: “Dopo di che, non parve strano che, il giorno seguente, i maiali che sovrintendevano il lavoro della fattoria reggessero tutti una frusta nella zampa. Non parve strano venire a sapere che i maiali si erano comprati una radio senza fili, che stavano facendo i preparativi per installare un telefono e che si erano abbonati a John Bull, Tit-Bits e al Daily Mirror. Non parve strano quando si vide Napoleone che passeggiava nel giardino della casa padronale con una pipa in bocca… no, neppure quando i maiali tolsero dall’armadio del signor Jones i vestiti e li indossarono. Napoleone si fece vedere con indosso una giacca nera, calzoni da caccia e gambali di pelle, mentre la sua scrofa favorita apparve nell’abito di seta marezzata che la signora Jones indossava solitamente la domenica.” – A sottolineare, nel finale, l’assoggettamento e asservimento degli ormai ex-rivoluzionari al mondo capitalista/borghese del resto d’Europa. “Non si parlava più, però, dei lussi che Palla di Neve aveva insegnato agli animali a sognare: le stalle con la luce elettrica e l’acqua calda e fredda. e la settimana lavorativa di tre giorni. Napoleone aveva dichiarato che quell’idea era contraria allo spirito dell’Animalismo. La felicità più autentica, diceva, consisteva nel lavorare duramente e nel vivere frugalmente.” – L’allontanamento progressivo dagli ideali bolscevichi. “Gli anni passarono. Le stagioni vennero e se ne andarono, le brevi vite degli animali fuggirono via. Venne il giorno in cui non ci fu più nessuno che ricordasse i giorni prima della Ribellione […]” – Il tempo (e l’informazione corrotta) che cancella la memoria ed elimina le premesse iniziali della rivoluzione “Verrà il giorno, o presto o tardi, che abbattuto sarà l’Uomo Tiranno e che d’Inghilterra i fertili campi solo dalle bestie saranno calpestati” – Un canto popolare degli animali che intende mostrare la bellezza priva di concretezza delle utopiche promesse comuniste. “Ben presto fu svelato il mistero di dove andasse a finire il latte. Ogni giorno, veniva mescolato al pastone per i maiali. Le prime mele stavano in quel periodo giungendo a maturazione e l’erba del frutteto era cosparsa di mele cadute. Gli animali supponevano che, naturalmente, esse sarebbero state distribuite in modo equo. Un giorno, però, giunse l’ordine che tutte le mele […] fossero portate alla selleria per l’uso esclusivo dei maiali. […] Gazzettino fu mandato in giro per dare la necessaria spiegazione: ‘Compagni! Non immaginerete, spero, che i maiali lo stiano facendo per puro egoismo e per avere un privilegio? A molti di noi in verità non piacciono né il latte né le mele. Non piacciono neanche a me. […] Il latte e le mele contengono sostanze assolutamente necessarie al benessere di un maiale. Noi maiali lavoriamo di cervello. Da noi dipende completamente la gestione e l’amministrazione di questa fattoria. Giorno e notte noi vegliamo sul vostro benessere. E’ per il vostro bene che noi beviamo quel latte e mangiamo quelle mele. […] Così, senza ulteriori discussioni, tutti furono d’accordo che il latte e le mele cadute dai rami dovessero essere riservati ai soli maiali.” – Il paradosso implicito di un regime comunista.

Simone Chiani. Nato nel 1997. Viterbo. Diplomato al Liceo Psicopedagogico e laureato in Lettere Moderne. Autore dei libri Evasione (Settecittà, 2018) e Impronte (Ensemble, 2020).

Ballottaggi, Giorgia Meloni: "Centrodestra sconfitto. Ma la sinistra lotta nel fango per criminalizzarci". Libero Quotidiano il 18 ottobre 2021. "Buona sera, diciamo per mordo di dire". Esordisce così Giorgia Meloni nella conferenza stampa post-ballottaggi, che hanno visto il centrodestra sconfitto. "Si deve riconoscere che il centrodestra esce sconfitto e ne siamo tutti consapevoli. Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia confermano Trieste, ma non riescono a strappare le altre cinque grandi città". Per la leader di FdI non si tratta affatto di una débâcle come molti vogliono far credere. Piuttosto, chi esce ampiamente battuto è il Movimento 5 Stelle. Una buona notizia per la Meloni, perché "si sta lentamente tornando a un sistema bipolare". In ogni caso, confermato Fratelli d'Italia il primo partito nei sondaggi a livello nazionale, la Meloni non intende indietreggiare: "Anche noi ci prenderemo le nostre responsabilità".  Non sono comunque mancate le difficoltà. In particolare la leader di FdI ne rivela due: "Prima tra tutte l'astensionismo. Nessuno può veramente gioire con i dati con cui viene eletto un sindaco di Roma. Questa è una crisi a cui tutti devono rispondere e per me è legata a una politica che con i suoi giochi di palazzo ha mortificato il voto". Ma non è l'unico problema. "Poi - prosegue - la campagna elettorale è stata trasformata dalla sinistra in una lotta nel fango, criminalizzando l'avversario e rendendolo impresentabile. Questo ha portato i cittadini interessati al lavoro e all'economia a non presentarsi alle urne. Questo ha comportato la mobilitazione di un elettorato molto ideologico della sinistra lasciando invece indietro tutti gli altri". Un capolavoro per cui la Meloni vorrebbe "farei i complimenti alla sinistra", se non fosse che così "si distrugge la democrazia". A quel punto a FdI non resta che guardare al futuro ragionando sugli errori commessi: "Condivido con Salvini l'idea che la prossima volta dobbiamo scegliere i candidati più in fretta e questi dovranno essere politici anche a dispetto di queste campagne elettorali aggressive dei nostri avversari". Da qui l'auspicio: "Fra un anno e mezzo votiamo e voglio chiedere alla sinistra se farà ancora così criminalizzando l'avversario e non scendendo ad armi pari, a loro d'altronde basta stare al potere".

Mattia Feltri per "la Stampa" il 19 ottobre 2021. Giorgia Meloni, persuasa di aver perso per la lotta nel fango in cui la sinistra ha trasformato la battaglia elettorale, scorda che il fango è l'elemento naturale in cui la politica sguazza ormai da un trentennio e la gara è a chi ne rimane addosso di meno. E scorda che per quanto gliene abbiano tirato addosso, Silvio Berlusconi nelle città perdeva e spesso vinceva, e quando Massimo D'Alema nel 2008 tirò fuori l'onda nera, a Roma vinse lo stesso Gianni Alemanno. Il fango e le onde nere e le onde rosse non sono mai servite per disincentivare l'elettorato avversario, piuttosto per incentivare il proprio, e sulle pulsioni più elementari. Ma stavolta è capitato qualcosa di diverso: i candidati di destra hanno preso il prendibile al primo turno e non hanno preso un voto in più al secondo, tutti gli altri voti sono diventati voti contro di loro. Una specie di Fronte repubblicano, quello francese contro Jean-Marie e Marine Le Pen, adattato ai ballottaggi italiani. A furia di chiedere l'affondamento delle barche dei migranti, di invocare celle piene e chiavi buttate, di accompagnarsi coi peggiori ceffi del mercato internazionale, da Putin a Orban, di tratteggiare l'Europa come una congrega di borseggiatori e massoni, di tenere su il capino ai No Vax e ai no Green Pass, senza rendersi conto che il nemico comune, alla stragrande maggioranza del Paese, è il Covid e solo il Covid, insomma a furia di ritirarsi nella ridotta del peggio della destra, hanno respinto il meglio della destra. Oggi c'è un pezzo di destra a cui questa destra fa ribrezzo, e preferisce votare a sinistra o rimanersene a casa.

Quarta Repubblica, "Giorgia Meloni a piazzale Loreto": ecco chi c'era in piazza per la Cgil. Libero Quotidiano il 19 ottobre 2021. “Giorgia Meloni la immagino più a piazzale Loreto”, ovvero a testa in giù. Lo ha dichiarato ai microfoni di Quarta Repubblica uno dei manifestanti che sabato è sceso in piazza, rispondendo alla chiamata della Cgil e della sinistra per sfilare contro il fascismo. Quella convocata dal sindacato in risposta alla violenza squadrista e all’assedio di Forza Nuova non è stata propriamente una piazza “trasversale”. Addirittura c’era una bandiera dell’Unione Sovietica, oltre all’immancabile Bella Ciao e ad inni del tipo “fascisti, carogne, tornate nelle fogne”. Il Giornale lo definisce “armamentario ideologico” schierato al suo completo, senza dimenticare nostalgici dell’Urss, marxisti, leninisti e castristi. E allora alla luce di tutto ciò forse il centrodestra ha fatto una scelta saggia a non presentarsi in piazza, pur condannando fermamente le violenze squadriste e fasciste perpetrate ai danni della Cgil. Probabilmente se Giorgia Meloni e Matteo Salvini si fossero presentati alla manifestazione - aperta a tutti solo apparentemente, ma poi si è rivelata a dir poco “schierata” - sarebbero stati sommersi dai fischi una volta saliti sul palco, seppur per condannare il fascismo. Ufficialmente i due leader hanno disertato perché non ritenevano fosse il caso di tenere una manifestazione proprio alla vigilia dei ballottaggi: difficile dargli torto, anche se ormai l’esito della tornata elettorale era già scritto. 

Milano, anarchici assaltano la sede della Cgil ma stavolta la sinistra tace...Libero Quotidiano il 18 ottobre 2021. Mentre a Roma, sabato scorso, il segretario della Cgil Maurizio Landini riempiva piazza San Giovanni per denunciare la «minaccia fascista» dopo l’assalto alla sede del sindacato ad opera di militanti di Forza Nuova, nel mezzo delle manifestazioni contro il Green pass, a Milano nelle stesse ore veniva presa di mira un’altra sede della Cgil. Sempre durante una manifestazione contro il lasciapassare verde, ma questa volta con tre differenze. La prima: a puntare sulla sede del sindacato questa volta sono stati gli anarchici. La seconda: a differenza di quanto accaduto con il blitz di Forza Nuova, a Milano le forze dell’ordine hanno prontamente bloccato i manifestanti. Due di loro sono stati arrestati e otto denunciati al pool antiterrorismo della procura lombarda. La terza differenza: da sinistra non si sono sentite voci allarmate contro il «pericolo anarchico». E chissà se adesso la Cgil vorrà organizzare un’altra manifestazione per denunciare, dopo la minaccia fascista, questa minaccia di diverso colore.

"Rimandare tutto". Covid, come saremo ridotti a Natale. No global e "Sentinelli" parte la caccia al fascista.

Chiara Campo il 19 Ottobre 2021 su Il Giornale. Giovedì presidio davanti a Palazzo Marino Verri (Lega): «Noi pensiamo ai problemi seri». Sul volantino c'è un wc a muro e lo slogan: «Fascisti, il loro posto non è in consiglio comunale». Opera dei Sentinelli di Milano, l'associazione per i diritti gay che ha organizzato per giovedì alle 17.45, in concomitanza con la prima seduta del nuovo consiglio comunale, un presidio davanti a Palazzo Marino. «Un'eletta in Fratelli d'Italia orgogliosamente fascista e tre eletti nella Lega grazie al sostegno di Lealtà e Azione» tuona il portavoce Luca Paladino sull'onda dell'inchiesta di Fanpage sulla presunta «Lobby nera». I Sentinelli saranno in buona compagnia, visto che anche sui canali social dei centri sociali gira la chiamata a radunarsi in piazza Scala dalle 18 per «pretendere la chiusura delle sedi delle organizzazioni neofasciste subito» e «le dimissioni» dei consiglieri citati nell'inchiesta. E, guarda un po', osservano «con sgomento e orrore come ancora in queste ore ci siano tentativi a livello cittadino e nazionale di riproporre vecchie e irricevibili equiparazioni» tra orrori del fascismo e di matrice comunista, «no al revisionismo storico con mozioni e contromozioni». Il centrodestra ha già anticipato una mozione di condanna a ogni forma di estremismo. Il coordinatore di Fdi Stefano Maullu già giorni fa ha anticipato che sarà depositato un documento «contro ogni forma di violenza e totalitarismo, seguendo esattamente la risoluzione approvata esattamente due anni fa dal Parlamento europeo dove si equipara nazismo, fascismo e comunismo ricordando la tragedia di questi totalitarismi che hanno commesso omicidi di massa, genocidi, deportazioni e perdite di libertà. Vedremo se il sindaco Beppe Sala sarà con noi e voterà questa mozione oppure preferirà la solita scorciatoia a uso e consumo dei soliti noti a sinistra». Approderà in aula però la prossima settimana. Il deputato milanese di Fdi Marco Osnato osservato il volantino dei Sentinelli e commenta: «Immagino che questa elegante proposta sia il massimo della capacità democratica di queste persone». Il neo capogruppo della Lega Alessandro Verri ribadisce che «stanno facendo una caccia alle streghe senza senso. Noi pensiamo al bene di Milano e stiamo lavorando su questioni più impellenti, come la sicurezza dopo gli accoltellamenti in zona corso Como dello questo weekend. E siamo già pronti a portare la questione in aula per chiedere all'assessore Granelli cosa farà per controllare la movida violenta». Sulla movida violenta Sala ha premesso ieri che «è un problema in tutte le grandi città, è inutile nasconderlo, e se tutte le forze dell'ordine sono necessariamente concentrate nel contrasto di manifestazioni che avvengono, non sono illimitate, anche questo può essere parte del tema. Inutile negare che le tensioni che ci sono nelle città dopo la pandemia vanno gestite, i più giovani spesso in mancanza di luoghi dove incontrarsi sono più difficili da gestire». E dopo l'ennesimo sabato di proteste No Pass e caos ha rimarcato: «Era incontrollabile. Per ogni corteo in Italia bisogna indicare e autorizzare il percorso, con loro non avviene e questa è l'unica eccezione che ho visto in questi anni». Chiara Campo

 L'allarme fascismo finisce con le elezioni. Ma presto ritornerà. Paolo Bracalini il 20 Ottobre 2021 su Il Giornale. Anche progressisti come Mieli, Mentana e Mauro lo ammettono: era strumentale. Finite le elezioni, finito l'allarme fascismo. È stato il tema che ha dominato la campagna elettorale, anche se c'entrava pochissimo con l'amministrazione delle città al voto, eppure ha monopolizzato il dibattito come se fossimo all'alba di una nuova marcia su Roma. Dal filmato-trappolone su Fratelli d'Italia, alla caccia ai «neonazisti» infiltrati anche nella Lega, alle dichiarazioni sulla shoah di Michetti, ex tesserato Dc trasformato in un nostalgico dell'olio di ricino. Ma tutto lascia supporre che il clima sia cambiato in un sol colpo, con la chiusura delle urne. Puff, svanite le camicie nere, fino a nuovo ordine. Improvvisamente diventa chiaro che parlare di un ritorno al Ventennio sia una manipolazione a fini elettorali. Ed è una evidenza testimoniata da opinionisti di chiara fama antifascista, come Paolo Mieli. L'altro giorno a La7 ha colto di sorpresa lo studio: «Com'è possibile che questo tema spunti magicamente in ogni tornata elettorale?» si è domandato l'ex direttore del Corriere della Sera, ricordando come già nel 1946 un simile trattamento era toccato ad Alcide De Gasperi, e da allora in poi «fascisti sono diventati Fanfani, Craxi, Berlusconi e persino Renzi», tutti gli avversari della sinistra postcomunista. Una analisi che ha trovato concorde Enrico Mentana, direttore del Tg di La7, rete che sull'«allarme fascismo» ci ha costruito ore e ore di talk show: «Il fascismo ha osservato, chiosando Mieli - è come il conflitto d'interesse di Berlusconi. Ricordate? Lo tiravano fuori solo quando il Cavaliere era al governo e spariva magicamente quando tornava all'opposizione». Quel che era incosciente anche solo pensare fino a pochi giorni fa, diventa una constatazione elementare, innocua. Dopo il voto.

Una circostanza che colpisce Guido Crosetto, che l'altro giorno si ha lasciato gli studi di Piazza Pulita perché il programma era orchestrato come «un plotone di esecuzione contro Giorgia Meloni». «Anche per questa volta il pericolo dell'insediamento di un regime nazi-fascista è scongiurato. Riemergerà con estrema gravità, nei 45/60 giorni prima della prossima scadenza elettorale. La Meloni da oggi torna ad essere una peracottara pesciaiola della Garbatella» twitta il cofondatore di Fdi. Anche Pierluigi Battista sfotte la propaganda: «Ora che il nazismo è stato sbaragliato a Romagrad vogliamo sbaragliare pure la monnezza?». Ma addirittura su Repubblica, e a firma del suo ex direttore Ezio Mauro, si prende coscienza di quel che appare lampante, ma che ha alimentato paginate sullo stesso giornale. Il chiarimento chiesto alla Meloni «non significa automaticamente evocare il pericolo di una riemersione del fascismo - scrive Mauro -. È chiaro che il dramma italiano del secolo scorso non potrà riproporsi in mezzo all'Europa delle costituzioni liberali e nel cuore dell'Occidente democratico. Nessuno lo pensa». A Repubblica forse qualcuno sì, vista la frequenza con cui compare la parola fascismo nei pezzi e titoli del quotidiano («Fondi illeciti e culto del fascismo. Il volto nero di Fratelli d'Italia», «Fascismo e Tolkien. L'educazione sentimentale di Giorgia-Calimera», due titoli a caso). Ieri scambio di tweet tra una giornalista appunto di Repubblica e la Meloni. La prima appunta che la leader Fdi, alla Camera per sentire la ministra Lamorgese sugli scontri di Roma, è «vestita interamente di nero». Le risponde la Meloni: «È blu. Interamente vestita di blu. Quanto vi piace la mistificazione». Paolo Bracalini

Le ideologie sono finite ma ancora ci tormentano. Stenio Solinas il 19 Ottobre 2021 su Il Giornale. "I rondoni" mette in scena gli strascichi, anche famigliari, delle guerre politiche del XX secolo. Cinquantenne, professore di filosofia che detesta i colleghi quanto gli studenti, un matrimonio fallito alle spalle, un figlio difficile, un unico amico, nessuna vita affettiva, Toni, il protagonista di I rondoni, il nuovo libro di Fernando Aramburu (Guanda, traduzione di Bruno Arpaia, pagg. 720, euro 22), si dà ancora un anno di tempo prima di togliersi la vita. Proprio perché è in buona salute, non vuole correre il rischio di ritrovarsi un domani solo, vecchio e malato. Proprio perché la sua è stata al fondo un'esistenza noiosa ritiene che a un certo punto anche la noia rischi di farsi insopportabile. Viene in mente quella frase di André Malraux: «Al mercato della vita le cose si comprano in azioni. La maggior parte degli uomini non compra nulla». Toni, almeno in questo, fa parte della maggioranza. I rondoni appartiene a quel genere di narrativa che si potrebbe definire minimalista nella storia, consolatrice nello stile. Non succede nulla, ma è il nulla che in fondo ci accomuna tutti, dissapori familiari, insoddisfazioni sul lavoro, rimpianti e rimorsi, stanchezza esistenziale, lutti. Nel leggerla ci si può insomma identificare, il che non è esaltante, ma fa sentire meno soli. Una scrittura familiare, quasi colloquiale funge poi da anestetico, una sorta di lungo fiume che si snoda tranquillo, senza mulinelli ritmici che impegnino la mente del lettore-nuotatore, senza correnti di pensiero che lo obblighino a riflettere più di tanto. Ci si lascia trascinare, semplicemente, e che questo possa funzionare, nel caso in questione, per più di settecento pagine è comunque una prova d'autore. Naturalmente, Aramburu è uno scrittore interessante e basterebbe Patria, il libro che lo ha fatto conoscere in Italia, per rendersene conto. Ma mentre lì si aveva a che fare con le passioni ideologiche e politiche, con la violenza della Storia e delle idee, con la cecità che spesso si accompagna alla prima come alle seconde, qui siamo come di fronte a un'atarassia dei sentimenti come del pensiero, un'atarassia non appagata però e che rimanda all'unico gesto possibile per dare un senso al non senso dell'esistere. Spagnolo, Aramburu è un autore contemporaneo e la Spagna novecentesca ha molti tratti in comune con l'Italia, una dittatura, una democrazia che ne prende il posto, ma che comunque deve fare i conti con un passato che non si decide a passare. Toni, il protagonista come abbiamo già detto del suo romanzo, ha un padre comunista, come si può essere comunisti nella Spagna franchista degli anni Cinquanta e Sessanta. È anche lui un professore, universitario, però, la cui carriera dipende dal grado di acquiescenza al regime, e quindi il suo è un comunismo sommerso, non esibito, che però non gli ha evitato una volta il carcere e la tortura E però il nonno di Toni, e quindi il padre di suo padre, era un falangista caduto nella Guerra civile e non sorprende che il figlio comunista se ne vergogni e gli inventi un passato e una morte da eroe repubblicano. Sono gli scherzi della storia quando ci si ostina a vederla in bianco e nero, Bene e Male. I compromessi del padre, il suo conformismo, per quanto riluttante, rispetto al franchismo in cui è vissuto, Toni non li ha dovuti fare. Quando ha vent'anni quel regime non c'è più e lui in fondo è un conformista-eroe del nostro tempo: è uno studente universitario di sinistra, il che, «volente o nolente, ti dava in facoltà una specie di salvacondotto, così come nei secoli passati per evitare problemi con il Sant'Uffizio, la gente approfittava di qualunque pretesto per affermare in pubblico la sua fedeltà alla fede. Tutti noi studenti eravamo di sinistra. Essere di destra, alla nostra età, ci sembrava una disgrazia; non so, come avere una deformità o la faccia punteggiata dall'acne». Il problema di Toni è che la sua è una sinistra mainstream, nel ventre di vacca del progresso, quella che, illudendosi, pensa che il non essere di destra sia la condizione sufficiente perché tutto vada avanti e vada bene. Più che una sinistra all'acqua di rose, è una sinistra insapore, che non nutre dubbi semplicemente perché non ha idee, se non generiche, ecumeniche, rassicuranti. Sotto questo aspetto, lì dove Toni si è ritrovato in democrazia grazie semplicemente all'anagrafe, il padre ha fiutato subito che non era roba per lui: «Mi sono ricordato della sua amarezza politica, dell'uscita dal partito due anni dopo la sua legalizzazione. Per questo ho rischiato la pelle?' si lamentava. Per continuare con la stessa bandiera, lo stesso inno, e restaurare la monarchia?'» Andando più in profondità, anche Toni però si rende conto che «papà sognava una Spagna simile a quella di Franco, ma con un leader comunista al posto di un caudillo ultracattolico e militare» Del resto, è un marito manesco e un padre che non sopporta figli piagnucolosi, tanto meno effemminati Il mainstream di oggi lo definirebbe un fascista, il che aggiunge confusione, ma rassicura comunque le coscienze. Se un comunista si comporta male è perché si comporta da fascista, evidentemente una categoria dello Spirito ignota a Kant. Alla fine, il risultato a cui il cinquantenne Toni arriva, mentre contempla l'idea del proprio suicidio, è quello di essere un militante «da lunghi anni del PPSS, del Partito di chi preferisce Stare Solo, in cui non ho alcun incarico. Tutto il programma del mio partito si riduce a uno slogan: lasciatemi in pace». È un approdo interessante che riguarda molti della sua generazione, e non solo in Spagna, ma anche in Italia, dove a un certo punto il mainstream del politicamente corretto va in tilt per il troppo uso, per il voler essere sempre e comunque in accordo con le idee «giuste», con il ron ron benpensante del mondo senza guerre, dove tutti si devono voler bene, dove non si devono avere pensieri cattivi, dove c'è spazio solo per i buoni sentimenti e dove, va da sé, ci si deve sempre scusare di qualcosa Per quanto seppellito, c'è sempre un fondo reazionario che spunta fuori quando la misura è colma e l'acqua del politicamente corretto tracima: «I nostri attuali legislatori si sono inventati un cosiddetto delitto di odio'. Immagino che pensino al terrorismo e cose del genere; ma dov'è il limite fra dimensione pubblica e quella privata? Ci mancherebbe soltanto che una legge approvata alla Camera dei Deputati mi proibisse di odiare la preside della mia scuola. Il giorno dopo mi incatenerei con un cartello di protesta al carro della Fontana di Cibele. Ora i governanti si mettono a regolare a scopi restrittivi i nostri sentimenti come chi detta le norme del traffico. Fa un po' schifo quest'epoca». Sulla stessa lunghezza d'onda si situa del resto il programma ministeriale spagnolo volto alla Prevenzione del Suicidio, con annessa Giornata Mondiale dedicata all'argomento: «Mi domando come faranno a dissuadermi dalle mie intenzioni. Circuendomi con denaro pubblico? Ricoverandomi in un frenocomio? Mandandomi ogni mattina un cantautore a casa a cantarmi Gracias a la vida? Il programma ministeriale contempla il rilevamento precoce di indizi chiamati, in linguaggio burocratico, ideazioni suicide', per la qual cosa si richiede la collaborazione delle persone vicine all'imminente suicida». Senza scomodare la Spagna, vale la pena ricordare che anni fa andava di moda in Italia lo slogan «intercettateci tutti», una sorta di polizia del pensiero travestita da principio etico. Torneremo alla fine sul tema del suicidio, che è poi il tema centrale di I rondoni. Prima però l'altro elemento di questo mainstream progressista cui Aramburu accenna nel libro è un tipo di letteratura «superficiale nel suo pretenzioso psicologismo, nell'eccessivo peso dell'introversione sentimentale», tipico di chi «si unisce al coro dei grilli che cantano alla luna, per vedere se pensando in gruppo la sua mediocrità passi inosservata». È un po' quella narrativa ombelicale da cui siamo partiti, che è una cosa diversa dal solipsismo di certa grande letteratura che sente il suo io diverso dagli altri e perciò lo racconta. Qui l'importante è essere assolutamente come gli altri, cercarne e/o vellicarne il consenso. Anche I rondoni qui e lì cade in questa trappola-cliché, non fosse che Aramburu ha sufficiente padronanza di scrittore per limitarne i danni. Lo salva anche, è una considerazione di Toni, mai come in questo caso alter ego dell'autore, il suo essere «di sinistra, ma non in forma permanente». Applicato al tema del suicidio, questa intermittenza suona tuttavia paradossale. Toni ritiene che la celebre frase di Camus «c'è soltanto un problema filosofico davvero serio. Il suicidio», sia «una trovata gratuita». Vivere, dice, non è un compito filosofico e quindi «ci mancava soltanto questo: suicidarsi perché non quadrano gli enunciati di un sillogismo!». Per quello che lo riguarda, il suo è una forma di stanchezza e di noia nello «svolgere un ruolo in un film che mi sembra mal concepito e peggio realizzato. Questo è tutto, Nuland». Anche il nulla è però un tema filosofico, e se Camus non lo convince non si capisce perché dovrebbe andargli bene Sartre... Ma è, sia pure ironicamente, la «permanenza» della sinistra a prevalere alla fine, l'idea di una sorta di solidarietà: «Perché non avere l'eleganza, persino la dignità, di lasciare il posto ad altri? Uscire di scena sulle mie gambe non potrebbe anche essere interpretato come un apporto?» Il gesto più individuale che ci sia, diventa un surrogato del benessere altrui, il che è tipicamente del mainstream del progresso. Noi restiamo con Montherlant: «Essere padroni del proprio destino: almeno del suo strumento, e della sua ora». Stenio Solinas

Il suo “marchio indelebile” è il dispotismo. Eredità bolscevica, ecco perché non regge il paragone dello storico Luciano Canfora. Biagio De Giovanni su Il Riformista il 12 Ottobre 2021.

1917 – Rivoluzione Russa. Piazza di Pietroburgo con rivoluzionari attorno alla statua dello zar. Luciano Canfora mette talvolta le sue grandi qualità di storico antico al servizio di tesi anche polemicamente molto delineate, e di solito il terreno fertile ed estemporaneo su cui esercita la sua intelligenza è quello della politica. Avviene talvolta che da lui si apprenda, altre volte che stimoli lo spirito critico, sempre buono, dunque, l’effetto. Mi è capitato di leggere un suo articolo sul Corriere della sera, sintesi della Prefazione che ha scritto per un volume di Sergio Romano, un articolo intitolato così: “L’Urss è morta e vive ancora. Nella Russia di oggi rimane incancellabile il marchio della rivoluzione bolscevica”. A prima vista questa idea registra una cosa ovvia, essendo evidente che una vicenda lunga e complessa come quella di cui si parla abbia lasciato tracce nelle società e tra i popoli fra i quali è avvenuta, e nella stessa storia del mondo. Ma non coincidendo affatto il testo di Canfora con la filiera dell’ovvio, esso racconta una tesi ben più articolata, ma assai discutibile. E proprio perché sostenuta da un autorevole storico, val la pena parlarne. Marchio incancellabile della Rivoluzione nella Russia di oggi? Vediamo. L’Urss è morta quando la Rivoluzione del 1917 è finita nel nulla, come Rivoluzione che aveva promesso e profetizzato la redenzione dell’umanità -espressione che si trova nelle “Tesi sulla storia” di Walter Benjamin– o, a essere meno ambiziosi, a promuovere il superamento del 1789: questa, Rivoluzione borghese, l’altra Rivoluzione proletaria, dei vinti che non avevano che da liberarsi delle loro catene, una storia che avrebbe visto i vinti della storia vincere sui vincitori di sempre. Oggi la Russia è una democrazia di massa illiberale e dispotica, gli oppositori in carcere, chiusa nei suoi confini culturali e politici. Il “marchio incancellabile” del dispotismo, proprio della rivoluzione bolscevica, resta, certo in tono minore, ma deprivato di ogni aspettativa più o meno salvifica. La Russia non è più quella dello zar, per cui ha ragione Canfora quando afferma che è sbagliato parlare dello “zar Putin”, ma questo fa ancora parte di quella filiera dell’ovvio di cui si è detto. Il fatto è che le ambizioni dell’autore sono ben altre. E si rivelano per intero con il paragone -il cuore dell’articolo- tra gli esiti della Rivoluzione francese, 1789, e gli esiti del 1917, e qui, per davvero, i conti non tornano, nel confronto “neutrale” del testo. È vero, e peraltro ben noto, che le vicende successive al 1789 furono talmente diverse tra loro, dall’impresa napoleonica al ritorno del sovrano, fratello di quello decapitato, all’esperienza di varie forme di Stato, da escludere osmosi dirette e coerenti con le idee della Rivoluzione. Ma quella data, nei principii che affermò, innestandoli nella storia concreta, tra molte e contrastate vicende, ha contribuito a produrre la costituzionalizzazione dell’Europa, ha portato il “marchio incancellabile” dei suoi principii in una idea di libertà politica e di tolleranza, preparata dal pensiero dell’Illuminismo. Un’idea che sta tra noi, nel nostro pur contraddittorio e certe volte tragico presente, sta dentro le nostre costituzioni, è la vicenda che segna un progresso politico incancellabile della storia umana. Il paragone con il 1917 non regge. Dove questa data è diventata Rivoluzione, in Russia, ha dominato ininterrottamente, fino al 1989, per un tempo lungo e omogeneo, prima il terrore politico, poi l’oppressione di popoli confinanti e dello stesso popolo russo. Il “marchio incancellabile della rivoluzione bolscevica” resta, dunque, all’interno di quella società, a testimoniare un fallimento, l’esito povero, chiuso, rovesciato, dell’ultima filosofia della storia che voleva decidere del destino dell’umanità e finì nel terrore staliniano, ma val la pena di ricordare che quella del 1917 fu una “Rivoluzione contro il Capitale”, contro l’opera di Marx, come scrisse Antonio Gramsci. Poco a che vedere, nell’articolazione della sua storia, con la filosofia di Karl Marx. Essa non fu preparata da una filosofia, fu un colpo di Stato ben riuscito. Il terrore incominciò con Lenin, non con Stalin, un marchio incancellabile resta, in forma certo minore, ed è il dispotismo. Biagio De Giovanni

L’anticomunismo non è solo un valore della destra, risponde Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 23 ottobre 2021.

Caro Aldo, oltre all’antifascismo non di sinistra, esiste anche l’anticomunismo non di destra? Ritengo di sì, forse più marcatamente. Sono due movimenti non uguali ma simili? O è più corretto parlare di singoli antifascisti e di singoli anticomunisti? Lei ha scritto che l’antifascismo non è solo un valore di sinistra. Anche l’anticomunismo non è solo un valore di destra? Ed entrambi dovrebbero essere un valore condiviso? Fino a quando le parole «fascismo» e «comunismo» circoleranno, non finiremo mai di porci domande. Alessandro Prandi

Caro Alessandro, Assolutamente sì. Così come l’antifascismo non è un valore soltanto di sinistra, allo stesso modo l’anticomunismo non è — o non dovrebbe essere — un valore soltanto di destra. Mário Soares — l’uomo che fu undici volte nelle carceri di Salazar e tre volte primo ministro del Portogallo; confinato sull’isola di São Tomé, esiliato, eletto presidente della Repubblica — mi ha raccontato che, quando sembrò che i comunisti di Álvaro Cunhal e i militari ancora più a sinistra guidati da Otelo de Carvalho potessero prendere il potere, il primo ministro laburista James Callaghan gli assicurò che avrebbe fatto intervenire la Raf (Royal Air Force) a Lisbona, pur di sostenere il governo socialista guidato appunto da Soares. Sempre per restare a Londra, il più grande scrittore civile del Novecento, George Orwell, uomo di sinistra, che aveva preso posizione contro Franco («Omaggio alla Catalogna»), era un convinto anticomunista. Proprio a Barcellona vide gli stalinisti fucilare gli anarchici. Non a caso legò il proprio nome a un romanzo costato al totalitarismo comunista più di una battaglia perduta, «La fattoria degli animali». I socialdemocratici tedeschi combatterono gli spartachisti; e più tardi Brandt, per quanto sostenesse la necessità di dialogare con l’Est, prese nettamente le distanze dal comunismo e dal marxismo. In Italia le cose come d’abitudine si complicano. Bettino Craxi fu un leader socialista e anticomunista (sia pure con un uso spregiudicato del denaro; ma questo è un altro discorso). Qui però entriamo nel terreno minato del mito del comunismo italiano, per cui un’idea rivelatasi sbagliata e spesso con applicazioni criminali da Vladivostok a Trieste da noi diventava giusta, o almeno nobile. Certo Togliatti aveva fatto la svolta di Salerno, schierando il Pci nel fronte antifascista con cattolici e monarchici; migliaia di partigiani comunisti diedero la vita per combattere il nazifascismo; e gli eletti comunisti alla Costituente scrissero la Carta con democristiani e liberali. Però era lo stesso Togliatti che aveva fatto fucilare gli anarchici di Barcellona.

Fascista o comunista purché sia arte autentica. Vittorio Sgarbi il 24 Ottobre 2021 su Il Giornale. Chi grida allo scandalo per le mostre di Depero sappia che lì a fianco c'è quella del marxista Perilli. Agli imbecilli e ignoranti che la buttano in politica, e che non sono in grado di capire né concetti, né battute, né paradossi, occorre dire che, in tanto parlare di fascismo e antifascismo, una cosa sola è certa: che l'unico fascista, amato, idolatrato e onorato in Trentino, è Fortunato Depero, al quale io, in qualità di presidente del Mart, ho, dopo molte pressioni locali, consentito fossero dedicate due belle e importanti mostre in tutta la città di Rovereto, nella sede principale di Mario Botta e nel museo d'arte futurista, insieme ad altre, volute dal Comune, nel Museo della città, nel Museo storico italiano della guerra e alla Fondazione Campana dei caduti, e all'omaggio a Depero dalla sua valle, a Cles. La fantasia dell'artista, le sue creazioni, soprattutto negli anni '20, '30 e '40 sono, in tutto il mondo, la più straordinaria esaltazione del Fascismo. Nel '32 è proprio il grande artista a scrivere: «l'arte nell'avvenire sarà potentemente pubblicitaria». Il suo percorso fascista inizia nel 1923 con due veglie futuriste e con la ridecorazione della casa d'arte che apparirà nella rivista Rovente futurista. Per quelli che pretendono di demonizzare qualunque manifestazione del Fascismo, l'esperienza di Depero è la più clamorosa smentita; ed è esattamente quello che io ho detto, strumentalizzato da beceri ignoranti che pretendono di chiamarsi «Sinistra italiana», oltre che da modesti giornalisti locali, ricordando ciò che tuttora vive nella cultura, nell'esperienza, nella conservazione dei monumenti, nei teatri italiani, con l'impresa della Treccani, con le opere di Pirandello, con le conquiste di Marconi e di Fermi, iscritto al partito fascista dal 1929, con la legge di tutela del patrimonio artistico italiano che è ancora quella voluta dal gerarca Bottai nel 1939, con la grande architettura dell'Eur e delle città di fondazione, il cui pieno riconoscimento è toccato ad Asmara, città coloniale, dichiarata dall'Unesco patrimonio dell'umanità. Quanto a Marconi, si iscrisse al Partito fascista nel giugno del 1923, otto mesi dopo la formazione del primo governo Mussolini. Fu la scelta di un conservatore che era stato testimone dei duri scontri del biennio rosso, aveva visto nella occupazione delle fabbriche la minaccia del contagio bolscevico e dava del leader del fascismo un giudizio non diverso da quello di una larga parte della classe politica europea fra cui, in particolare, Winston Churchill. Così ho detto e così è. Vi è chiaro, imbecilli? E così come Asmara, Depero indica, con la sua creatività, la perfetta coincidenza della sua arte con la visione del Fascismo, in cui si rispecchia anche l'impresa transoceanica di Balbo. E puntualmente il futurismo si esprime nella Aeropittura. Depero era una persona «coi piedi per terra», e per nulla affascinato da aeroplani e nuvole. Il suo punto d'osservazione era paradossalmente più alto di quello raggiungibile con gli aeroplani futuristi: era stato a New York e aveva toccato con mano quel futuro solo vagheggiato e teorizzato dai Futuristi italiani. Nel 1931 pubblica Il Futurismo e l'Arte Pubblicitaria, già in bozze a New York nel 1929. Secondo Depero l'immagine pubblicitaria doveva essere veloce, sintetica, fascinatrice, con grandi campiture di colore a tinte piatte, per così poter aumentare la dinamicità della comunicazione. Nel 1932 espone prima in una sala personale alla XVIII Biennale di Venezia, e poi alla V Triennale di Milano. A Rovereto pubblica una rivista di cui usciranno solo cinque numeri nel 1933: Dinamo Futurista. In seguito, nel 1934, le Liriche Radiofoniche, che declamerà anche all'EIAR fascista (la Rai di allora). Molti saranno i Futuristi di terza generazione ad andare in pellegrinaggio a Rovereto, come altri da d'Annunzio, protetto e locupletato dal fascismo (diversamente da me che esercito gratuitamente la funzione di presidente del Mart, e che non ho alcun interesse economico nelle iniziative che promuovo), per rendergli omaggio o per coinvolgerlo in qualche iniziativa. I principali committenti di Depero sono corporazioni, segreterie di partito, grandi alberghi, amministrazioni pubbliche, industrie locali. Le opere richieste sono eminentemente didascaliche, propagandistiche, decorative. Rispettosamente fasciste. Verso la seconda metà degli anni '30, a causa dell'austerità dovuta alla politica autarchica da lui condivisa, contribuisce al rilancio del Buxus, un materiale economico a base di cellulosa atto a sostituire il legno delle impiallacciature, brevettato e prodotto dalle Cartiere Bosso. Nel '40 pubblica l'autobiografia. Nel '42 realizza un grande mosaico per l'E42 di Roma, mentre nel '43 con A Passo Romano cerca di dimostrare il suo allineamento sostanziale con il Fascismo anche per ottenerne lavori e commesse. Finita la guerra, nel tentativo di giustificarsi di fronte al nuovo ordine dello Stato italiano per quel libro apertamente fascista, afferma che loro, i Futuristi, credevano fermamente che il Fascismo avrebbe concretizzato il trionfo del Futurismo, e che lui aveva anche «bisogno di mangiare». Nel '47, in parte sponsorizzato dalle Cartiere Bosso, ritenta di riproporsi in America, ma la trova ostile al Futurismo perché ritenuto l'arte del Fascismo. Nel '49 torna quindi in Italia, disilluso e dimenticato dall'antifascismo di regime. È la solita storia, come nelle proclamazioni di oggi. Ennio Flaiano scriveva: «i fascisti si son sempre divisi in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Agli antagonisti di Depero e agli opportunisti di oggi rispondeva Pasolini: «nulla di peggio del Fascismo degli antifascisti». Per ciò che riguarda i teppisti, che si nascondono dietro la sigla «Sinistra italiana», è utile ricordare Leonardo Sciascia: «il più bell'esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è». Per rimuovere l'accusa di Fascismo, Fortunato Depero aderisce al progetto della collezione Verzocchi sul tema del lavoro, nella già fascista e ora comunista Forlì. Contestualmente (1955) entra in polemica con la Biennale di Venezia, accusata di censurare lui e il Futurismo, pubblicando il saggio Antibiennale contro le penose critiche politiche al Futurismo. E proprio perché io non ho voluto lasciare spazio soltanto all'arte di propaganda di Depero, alla grande mostra sul pittore fascista, nei suoi anni migliori, ho affiancato quella sul profondamente intimista e spirituale Romolo Romani, che ritira subito la sua adesione al manifesto futurista e muore precocemente nel 1916. Si tratta di una palese e dichiarata contrapposizione tra arte applicata e arte implicata, come ho spiegato in diverse occasioni. I disegni di Romani hanno, rispetto alle invenzioni dei futuristi, una verità e una necessità spirituale che si esprimono in forme nuove attraverso una ricerca profonda che non ha niente di propagandistico. Ogni disegno è una ossessione o la trascrizione di una visione. Per questo Romani si ritirò. Ai futuristi interessava il mondo, e Depero lo ha dimostrato. A Romani importava seguire la propria anima, trascriverne i palpiti, registrare apparizioni in segni necessari perché ne potessimo conservare memoria. E, se non fosse chiaro questo, aggiungerò che, nell'offerta di mostre del Mart, vi è un artista di cui si conosce la professione di antifascismo nei tempi giusti, non oggi: Alceo Dossena, morto nel 1937, quando il Fascismo c'era. È facile fare gli antifascisti quando il regime è finito, e accusare di Fascismo ridicoli facinorosi che, con la collaborazione delle Forze dell'Ordine che smanganellano innocui manifestanti, occupano la sede della Cgil! Non si può dire? E come collegare le proteste contro il green pass con l'assalto al sindacato? Ecco allora gridare «al fuoco al fuoco!» chi si piega devotamente alle prescrizioni autoritarie del governo, docili come furono durante il Fascismo. Mentre non deve essere abbastanza chiaro che l'altra mostra proposta nel museo, con il confronto fra Guccione e Perilli, onora due artisti dichiaratamente comunisti. Il settore culturale, da sempre priorità della sinistra, in quegli anni incarnata dal Partito Comunista Italiano, vede l'adesione di artisti e intellettuali, e tra questi anche gli esponenti di Forma 1, fra i quali Perilli. I giovani pittori nel 1947 si trovano di fronte a un bivio: aderire o disobbedire alle linee estetiche realiste proprie dell'iconografia sovietica? E la risposta arriva con la stesura del Manifesto redatto dal gruppo di artisti militanti. Gli esponenti di Forma 1 si proclamano ufficialmente «formalisti e marxisti», opponendosi all'idea che l'arte abbia una funzione sociale e politica esprimibile esclusivamente attraverso un realismo di carattere illustrativo. E vero comunista fu, con queste legittime riserve, Achille Perilli. Non meno progressista fu Piero Guccione, il cui ritratto di Antonio Gramsci, una grande tela di 1,50 x 1,50 m, è stato per quasi quarant'anni esposto nelle varie sedi delle sezioni del Partito della sinistra sciclitana, costituendone il simbolo e il riferimento per intere generazioni. Sarebbe buona cosa che i vigliacchi e gli ignoranti che parlano di cose che non conoscono avessero l'umiltà di studiare, visto che non hanno la capacità di capire. Vittorio Sgarbi

L'antifascismo senza memoria è solo un'arma. Stenio Solinas il 27 Ottobre 2021 su Il Giornale. Non le è bastato, già un ventennio fa, il "lavacro" di Fiuggi, né l'essere già stata ministro della Repubblica, né l'essere tutt'ora un deputato nonché il segretario di un partito riconosciuto a pieno titolo nella dialettica parlamentare. Non le è bastato, già un ventennio fa, il «lavacro» di Fiuggi, né l'essere già stata ministro della Repubblica, né l'essere tutt'ora un deputato nonché il segretario di un partito riconosciuto a pieno titolo nella dialettica parlamentare. Non le è bastato aver detto, ridetto, stradetto e in più lingue (visto che ne parla niente male almeno un paio) che lei con il fascismo non ha niente a che spartire, per età, per rifiuto di ogni tentazione totalitaria, e tantomeno con il neofascismo, palla al piede per ogni partito che intenda rifarsi a un'idea di destra. Non le basterà, come ha appena fatto, intervistata da Bruno Vespa nel suo ultimo libro fresco d'uscita (Come Mussolini rovinò l'Italia. E come Draghi la sta risanando) dire che «il 25 aprile celebra la liberazione dell'Italia dal nazifascismo»... Qualsiasi cosa abbia detto, dica e dirà Giorgia Meloni sul tema non muterà di una virgola ciò che c'è dietro a esso: un'Italia fragile, un Paese senza, aggrappato a una memoria di comodo, non avendo mai voluto fare veramente i conti con la sua storia. Diceva Renan che la nazione «è un plebiscito quotidiano». A giudicare dalle ultime amministrative, siamo una nazione in sciopero. L'antifascismo è la chiave che serve a tener chiuse le miserie italiane. Abbiamo perso una guerra e ci siamo crogiolati con l'idea che l'avesse persa il fascismo e vinta gli italiani... Non è un caso che la vulgata più popolare sull'argomento sia stata un film comico, Tutti a casa. Ricordate? «Colonnello è successa una cosa straordinaria», diceva il tenente Innocenzi, Alberto Sordi sullo schermo: «I tedeschi si sono alleati con gli americani e ci stanno sparando contro». Dalla tragedia ci stavamo specializzando nella farsa. Nel tempo è diventata la nostra maschera nazionale. Il film è degli anni Sessanta, quando l'antifascismo strumentale si accinge a blindare la nascita del centro-sinistra da future tentazioni di centro-destra. Prima non era stato così, e in fondo gli anni della ricostruzione sono quelli di un Paese troppo vicino a ciò che è successo per giocarci sopra o per fare finta di avere in maggioranza resistito lì dove invece in maggioranza aveva acconsentito. Per ogni antifascista improvvisato che punta il dito sul fascista non pentito c'è sempre qualcuno che ricorda al primo che no, che non ha i titoli per ergersi a coscienza civile... Nella Milano degli anni Cinquanta, Leo Longanesi, uno che ha fatto e disfatto il fascismo, salta sul tavolo di un ristorante e grida all'indirizzo di chi lo denunciò all'indomani della Liberazione: «Prendetelo, è un antifascista». Quello si alza e imbocca di corsa l'uscita. Il fatto è che siamo sempre più un Paese senza memoria. Avevamo il più forte Partito comunista d'Occidente. Si è sciolto come neve al sole e non trovi nessuno fra i suoi politici di lungo corso, fra i suoi mâitres à penser intellettuali che sull'argomento vada mai veramente a fondo. Ti guardano seccati, come se gli stessi chiedendo di rivelare chissà quali oscenità private. Per anni sono stati al servizio di un'idea, poi sono passati ad altro, come si cambia d'abito al mutare delle stagioni. Il comunismo prêt à porter. Naturalmente, memoria e identità sono legate fra loro e in politica l'esserne privi è tanto più dannoso perché sono le classi dirigenti che costruiscono il carattere di una nazione. La fine della Prima repubblica, il non essere mai nata della Seconda, il proliferare di sigle parlamentari, il nascere e il morire di maggioranze di governo senza legittimazione di voto, la moratoria alle elezioni politiche, che cosa ci raccontano se non un Paese senza timone né rotta? Ci si affida così a un feticcio nominale, residuo postbellico riesumato a comando, immagine di comodo costruita su una lettura parziale e autoconsolatoria di cosa sia stato il ventennio fascista, la sua pervasività, le sue connivenze, il grado di partecipazione, di consenso, persino di entusiasmo. Era stato un antifascista serio, Piero Gobetti, a definire il fascismo «l'autobiografia della nazione». Per anni si è continuato a far finta che quell'autobiografia fosse antifascista I conti non tornano, non possono tornare, non torneranno mai. Giorgia Meloni se ne faccia una ragione, si metta l'anima in pace e si candidi alla guida del Pd. Stenio Solinas

Budapest 1956: tragedia e eroismo della rivoluzione ungherese. Andrea Muratore su Inside Over il 24 ottobre 2021. La rivoluzione ungherese del 1956 fu uno degli eventi chiave della storia europea della Guerra Fredda e un punto di svolta per l’area del Vecchio Continente controllata dall’Unione Sovietica. L’epopea dei “ragazzi di Buda” che per due settimane, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre sfidarono il potere sovietico e il suo dominio sull’Ungheria è passata alla storia e tuttora è considerata una parte chiave della storia europea. La durissima repressione operata dall’Armata Rossa sancì un rafforzamento del controllo sovietico sulle aree occupate con la fine della Seconda guerra mondiale.

L'Ungheria post-bellica

Occupata nel 1945 dall’Armata Rossa dopo aver partecipato a fianco della Germania alla seconda guerra mondiale, l’Ungheria aveva subito uno dei più traumatici declini mai capitati a uno Stato europeo nell’era contemporanea. In meno di trent’anni, dal 1918 in avanti, Budapest era passata dall’essere la seconda città di un impero, l’Austria-Ungheria, a diventare la capitale di uno Stato ristretto di oltre due terzi del suo territorio e diventato satellite di una delle due superpotenze mondiali.

L’Ungheria, nazione abitata da una popolazione politicamente molto dinamica, legata ai valori pubblici e identitari, fu sottoposta a una delle più repressive dittature mai insediatesi nella zona, che avrebbe avuto come unico termine di paragone futuro la Romania di Nicolae Ceaucescu.

Il regime di Matyas Rakosi, al potere dal 1948 al 1956, fu uno dei maggiormente duri in termini di stretta sulle libertà politiche, di espressione e di confessione religiosa; complice la natura di ex Paese alleato della Germania, l’Ungheria fu sottoposta a una sorveglianza speciale da parte di Mosca e a una vera e propria esternalizzazione dei metodi staliniani tristemente famosi in Russia. Purghe, persecuzioni delle minoranze, ghettizzazione di membri dello stesso Partito Comunista accusati di revisionismo o vicinanza alla Jugoslavia di Tito erano all’ordine del giorno, così come le azioni dell’Autorità per la Sicurezza Pubblica, il servizio segreto di Budapest (Avh).

L’onda lunga della destalinizzazione dopo la morte del dittatore sovietico nel 1953 raggiunse anche Budapest. Negli anni precedenti nelle purghe era caduto vittima anche Laszlo Rajk, ex ministro dell’Interno e fondatore dell’Avh, mentre per spostare l’attenzione dalla crescente problematica della crisi economica il regime provò, tardivamente, a incentivare dibattiti e riflessioni interne.

L'anomalia ungherese

Il problema dell’Ungheria era, in quella fase, triplice. In primo luogo, il Paese era costretto nonostante la formale alleanza a pagare pesanti riparazioni di guerra a Unione Sovietica, Repubblica Ceca e Jugoslavia che, nell’era Rakosi, assorbivano circa un quinto del budget nazionale, oltre a dover mantenere sul suo territorio le forze dell’Armata Rossa.

In secondo luogo, l’Ungheria era vittima di iperinflazione, depauperamento dei salari e problemi legati all’assenza di prospettive nella fase dell’industrializzazione post-bellica, che aveva portato i redditi nel 1952 a due terzi del livello del 1938.

In terzo luogo, l’insicurezza economica e sociale si sommava con un contesto interno che vedeva una popolazione dinamica, istruita e abituata a standard di vita ben più elevati depauperata nelle prospettive di sviluppo e ostacolata nella volontà di commerciare e confrontarsi con i Paesi occidentali.

In quest’ottica maturarono le condizioni perché si sviluppasse una magmatica esplosione che ebbe nella messa in discussione dei miti del conformismo bolscevico il suo innesco.

Ottobre 1956: esplode la rivoluzione

L’innesco della rivoluzione ungherese avvenne per eventi accaduti in Polonia. Tra il 19 e il 21 ottobre 1956 in Polonia, il “revisionista” Władysław Gomułka venne riabilitato ed eletto a capo del Partito Operaio Unificato Polacco, dopo una “prova di forza” con i sovietici.

In sostegno a Gomulka si mossero movimenti politici di tutta l’Europa orientale, tra cui un gruppo di studenti dell’Università di Tecnologia e di Economia di Budapest ritrovatosi il 23 ottobre a Pest sotto la statua di Sándor Petőfi, il poeta che secondo la tradizione storica del Paese avrebbe scatenato la rivoluzione del 1848 con la lettura di una sua poesia e a cui nome era stato intitolato un gruppo interno al partito favorevole alle politiche riformiste dell’ex primo ministro Imre Nagy.

L’acclamazione della folla di Pest per Nagy, ritenuto l’oppositore numero uno di Rakosi e fautore della recente caduta di quest’ultimo dalla guida del partito, si tradusse in sostegno aperto quando la folla acclamò il politico del centro del partito e inneggiò in suo favore. Nel timore di non riuscire a placare la rivolta, il Comitato centrale del Partito comunista decise nella notte di richiamare a capo del governo Nagy, conscio del fatto che le proteste stavano ricevendo il sostegno della popolazione e si stavano trasformando in rivolta anti-sovietica.

Nagy tentò di restare nel solco della disciplina di partito, ma impostò una linea decisionista. Come ricorda Il Giornale, Nagy fece sciogliere “la terribile polizia segreta stalinista”, ordinando inoltre di liberare i prigionieri dai campi di detenzione, mentre “i nuovi patrioti” liberano il cardinale József Mindszenty, oppositore del regime comunista incarcerato nel 1948. Giornalisti, pensatori, oppositori del regime tornano ad aver voce ovunque nella nazione. Nel primo giorno di novembre, l’Ungheria, paese satellite che nello scacchiere della Guerra Fredda rappresenta una bandierina in più, annuncia l’intenzione di uscire dall’alleanza politico-militare dei Paesi comunisti”, suscitando il definitivo tracollo della pazienza sovietica per l’esperimento ungherese.

La repressione

Ovunque l’Ungheria entrò in subbuglio: i fedelissimi della linea stalinista e repressiva del Partito Comunista furono messi all’angolo e in certi casi cacciati dalle loro posizioni politiche armi in pugno, nelle fabbriche del Paese formarono consigli operai anarco-sindacalisti e fu indetto lo sciopero generale. Mosca rispedì due membri del Comitato Centrale del Pcus, Mikojan e Suslov, a Budapest e mobilitò le truppe nella regione magiara, mentre ovunque si apriva una strisciante guerra civile tra lealisti e rivoluzionari sovrapposta ai combattimenti tra i protestanti e le truppe sovietiche stanziate in Ungheria.

In seguito alla comparsa dei blindati sovietici, si estese l’insurrezione. I comandanti sovietici spesso negoziavano dei cessate il fuoco a livello locale con i rivoluzionari. In alcune regioni le forze sovietiche riuscirono a fermare l’attività rivoluzionaria. In Italia, nel frattempo, crollava nella fila del Partito Comunista Italiano il mito dell’infallibilità sovietica e un centinaio di intellettuali (tra cui Renzo De Felice, Lucio Colletti, Alberto Asor Rosa, Antonio Maccanico) firmarono un manifesto di netta condanna delle azioni di Mosca.

Per due settimane, il governo di Budapest cantò apparentemente vittoria sul futuro del Paese, conscio inoltre del fatto che la parallela crisi di Suez attirasse l’attenzione degli attori occidentali facendo cadere la pretesa sovietica di un possibile intervento occidentale nella zona d’influenza di Mosca. Del resto gli Stati Uniti espressero con precisione il 27 ottobre la loro posizione per bocca del Segretario di Stato dell’amministrazione Eisenhower, John Foster Dulles, dichiarandosi contrari a ogni intervento in Ungheria.

Ciononostante, a Budapest si preparavano barricate, milizie armate con il tricolore ungherese verde-bianco-rosso strappato per rimuovervi i simboli comunisti sul braccio combattevano fianco a fianco con i militari dell’esercito regolare passati ai rivoluzionri, il governo temeva un intervento sovietico. Col senno di poi legittimamente: l’Urss il 31 ottobre ufficializzò i piani d’invasione dell’Ungheria, che entrò in azione quattro giorni dopo.

L’attacco sovietico fu una vera e propria guerra all’Ungheria: combinando  incursioni aeree, bombardamenti di artiglieria e azioni coordinate tra carri e fanteria i sovietici travolsero, passo dopo passo, ogni ostacolo di fronte a loro. Il successore di Stalin, Nikita Krushev, non potè esimersi dall’applicare una linea diversa da quella del dittatore suo predecessore, conscio che perdere l’Ungheria avrebbe leso la posizione geostrategica di Mosca.

Gli scontri terminano poco prima di Natale e lasciano sulle strade di una Budapest distrutta e ben 3.000 morti, mentre l’Armata Rossa subì a sua volta perdite non indifferenti, superiori ai 700 caduti. Mosca insediò a capo del governo di Budapest un fedelissimo, Janos Kadar. Negli anni successivi sotto la sua guida sarebbero stati migliaia gli ungheresi incarcerati e centinaia quelli giustiziati per questioni legate alla rivoluzione del 1956, tra cui l’appena diciottenne Péter Mansfeld, vittime della retorica secondo cui “il 1956 è stata una contro-rivoluzione“ a cui le forze del proletariato mondiale avevano legittimamente risposto.

Un dramma epocale

L’Urss temeva un effetto contagio. A Cluj, in Transilvania, si era protestato contro il governo romeno, mentre a Bratislava, in Cecoslovacchia, il tema principale era la questione universitaria. Inoltre, l’Urss aveva bisogno di rafforzare la sua presa su un Paese di confine e non lesinò le forze: l’Ungheria fu invasa, occupata e gradualmente schiacciata assieme al suo popolo perché aveva scelto la linea deviazionista.

Tra novembre e dicembre l’esperienza della primavera fuori stagione di Budapest finì in uno spazio ancor più breve di quello in cui era fiorita. Nagy fu arrestato e sarebbe stato giustiziato due anni dopo, nel quadro dell’ennesima purga contraddistinta da processi-farsa. Troppo importante la posta in palio per l’Urss, che avrebbe però subito un grave danno d’immagine dalla sua azione. Pietro Nenni, leader del Partito Socialista Italiano, andò ancora oltre i compagni del Pci e sull‘Avanti! del 28 ottobre scrisse: “Si può schiacciare una rivolta, ma se questa, come è avvenuto in Ungheria, è un fatto di popolo, le esigenze ed i problemi da essa poste rimangono immutati. Il movimento operaio non aveva mai vissuto una tragedia paragonabile a quella ungherese, a quella che in forme diverse cova in tutti i paesi dell’Europa orientale, anche con i silenzi, i quali non sono meno angosciosi delle esplosioni della collera popolare”.

Nenni non aveva, di fatto, torto: trent’anni dopo, col collasso del regime comunista, il pensiero dei cittadini della nuova Ungheria libera e indipendente andò proprio ai martiri del 1956. Caduti per l’indipendenza nazionale prima ancora che per il socialismo reale. Tanto che nel giugno 1989 proprio la commemorazione pubblica di Imre Nagy segnò l’inizio della fine del potere sovietico in Ungheria. Nella giornata del 16 giugno, durante questa commemorazione, ebbe modo di far conoscere il suo volto al mondo un giovane politico capace in futuro di segnare a sua volta la storia ungherese, Viktor Orban. Capace di far decollare la sua carriera proprio commemorando lo spartiacque decisivo della storia del Paese nel Novecento. A testimonianza della natura unificante e universale che l’epopea dei “ragazzi di Buda” ha per la nazione magiara.

Alessandro Sallusti: "Non tocca alla Meloni, ma a Veltroni e compagni", chi si deve scusare per il proprio passato. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 23 maggio 2021. «Io sono Giorgia», l'autobiografia edita da Rizzoli di Giorgia Meloni, è appena uscita e già è in testa alle classifiche di vendita. Tanto per cambiare, il successo di pubblico non coincide con quello di critica. Sui giornali si parla del libro per stroncarlo a prescindere: c'è la spocchia del critico letterario che scambia una biografia per un romanzo, cosa che non è, e c'è chi l'ha spulciato a caccia di anomalie nel racconto, manco fossimo in tribunale. E poi c'è chi - come ha fatto anche ieri Gad Lerner sul Fatto Quotidiano - contesta alla Meloni «amnesie e buchi neri» rispetto al fascismo. Premesso che non sono l'avvocato difensore di Giorgia Meloni, mi chiedo come in una sua autobiografia avrebbe potuto trovare spazio il fascismo, essendo la signora nata nel 1977, anno in cui Gad Lerner di anni ne aveva 23 e già faceva politica nel quotidiano Lotta Continua, l'organo della sinistra extraparlamentare il cui vertice fu condannato per l'omicidio del commissario Calabresi. Intendo dire che ci risiamo con il solito vizio della sinistra radical chic, quello di non voler fare i conti con il proprio passato ma pretendere che lo facciano gli avversari, anche quando questi sono totalmente estranei ai fatti che gli vengono rinfacciati. Se un politico, solo perché di destra, può essere tranquillamente inchiodato al fascismo, che dire dei politici che hanno militato nel partito che incarnava l'ideologia che ha provocato la più grande tragedia del Novecento, cioè quella comunista? Gad Lerner è stato convintamente comunista e non mi risulta, per esempio, che abbia mai rinfacciato a Napolitano di essere non erede ma entusiasta sostenitore di alcuni dei crimini del regime sovietico. Gad Lerner e i suoi emuli, all'uscita di uno dei tanti libri di Veltroni o di D'Alema, non hanno mai scritto: sì, però non dici che sei stato comunista, cioè parente contemporaneo di chi ha prodotto i gulag, la privazione di libertà fondamentali e tanta povertà. No, si sono tutti genuflessi per tessere elogi, peraltro immeritati, alle capacità narrative dei compagni. Caro Gad, fattene una ragione. Giorgia Meloni non ha nulla a che fare con il fascismo, e se qualche nostalgico le si accoda in scia non è colpa sua. Se uno come Napolitano ha potuto indisturbato rimuovere il proprio passato e salire al Colle, significa che ognuno ha le sue amnesie. E quelle della sinistra sono grandi come una casa.

L’ossessione fascista degli antifascisti. LO SPAURACCHIO DELL’ETERNO FASCISMO È ORMAI USATO PER DEMONIZZARE L’AVVERSARIO POLITICO.  Beatrice Nencha il 2 Novembre 2021 su Nicola Porro.it. Abbiamo un problema: il ritorno dell’eterno fascismo. Prima ancora dell’incursione di Forza Nuova dentro la sede della Cgil, la parola Fascismo stava già tornando in auge, in tutto il mondo, grazie alla pandemia. Non a caso la rivista spagnola Vanguardia, nel dossier di marzo 2021 intitolato “El mundo después de la Covid 19”, si interroga sul risorgere delle pulsioni fasciste, parallelamente all’imporsi di quello che è stato denominato il “Nuovo ordine mondiale”.

Covid come strumento di potere

Nel reportage “Autocracias y populismo en los nuevos tiempos”, l’autore Joshua Kurlantzick – giornalista e membro del sud-est asiatico presso il Council on Foreign Relations – riflette su cosa, durante l’emergenza dovuta al Covid-19, abbia accomunato il tragitto politico di numerosi governi, in ogni parte del mondo. Da quello del presidente delle Filippine Rodrigo Duerte, passando per l’Ungheria di Viktor Orbàn e l’India del primo ministro Narendra Modi, per arrivare al partito conservatore “Legge e giustizia” in Polonia fino ai governi di Israele, Canada, Australia, Russia. Solo per citarne alcuni.

“Un contagio della magnitudine del Coronavirus offre alle figure autoritarie una opportunità di consolidarsi al potere superiore a qualsiasi altro avvenimento, eccetto una guerra” scrive Kurlantzick, elencando come l’uso dei poteri emergenziali sia avvenuto, in moltissimi Paesi, a scapito delle libertà civili della popolazione. La compressione dei principali diritti costituzionali è stata compensata solo in parte dalla promessa di sicurezza offerta dallo Stato ai propri cittadini. A questa promessa si è poi saldata, da parte di dirigenti autocrati, “l’opportunità di stigmatizzare determinate minoranze nella popolazione, incolpandole dell’epidemia. Di fatto, dalle Filippine all’Ungheria, attraverso l’India e la Cambogia, i governanti di molti Paesi stanno usando il Coronavirus per accumulare poteri e stabilire nuove regole che saranno difficili da eliminare quando l’emergenza sarà cessata. Molti di questi nuovi poteri non hanno un limite temporale come scadenza. E la pandemia avrà consolidato il potere di questi despoti in modo indefinito” sottolinea l’autore.

Stato d’emergenza perenne

Queste riflessioni dovrebbero colpirci, anche se non viviamo in Cambogia. Dall’inizio della pandemia, quasi due anni fa, l’Italia è impantanata in uno stato di emergenza perenne. Nonostante da tempo l’emergenza non sia più così evidente, né nei numeri né nella logica dei provvedimenti emanati da enti spesso nemmeno di rango istituzionale ma, nei fatti, dotati di maggiori poteri e di una trasparenza a dir poco carente. Comitati e istituti che emanano norme spesso in contrasto tra di loro: da un lato c’è l’assoluta rigidità di protocolli (più politici che sanitari) come il lasciapassare verde per accedere al posto di lavoro; dall’altro l’assoluto disinteresse a conoscere quali siano i luoghi di maggior contagio del virus, i soggetti ad esso più esposti (in maggioranza, a leggere i dati dell’Istituto superiore di Sanità, soggetti non più in età lavorativa) e il modo più efficace per proteggerli. Mentre appaiono totalmente ignorati, da questi apparati, i costi sociali, economici e psicofisici generati da uno stato di emergenza endemico, che non può che erodere la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche rappresentative. La scarsa partecipazione politica alle più recenti tornate elettorali, anche se locali, dovrebbe suonare come un campanello di allarme.

Bastano queste forti compressioni dello stato di diritto e del principio di checks and balances dei poteri per connotare l’operato di un governo con l’aggettivo “fascista”? O neofascita? O populista? O autoritario? Qui entriamo in un campo spinoso da maneggiare, persino per i politologi, che non concordano su una definizione condivisa del fenomeno. Sicuramente, la pandemia ha fatto risorgere l’uso demagogico, e talvolta improprio, di tutte queste denominazioni per qualificare quei governi che hanno imposto limitazioni durature dei diritti costituiti ai propri popoli. Ma questo è avvenuto solo nei governi e nei regimi dittatoriali considerati di destra? Su questo tema si interroga la rivista Il Mulino, che ha dedicato la sua ultima pubblicazione trimestrale all’analisi del concetto di Fascismo come “eterno ritorno”.

Fascismo immaginario

“La tesi del fascismo eterno è una conseguenza della banalizzazione del fascismo stesso, al punto in cui il passato storico viene continuamente adattato ai desideri, alle speranze, alle paure attuali” scrive Steven Forti, professore di Storia Contemporanea presso l’Universitat Autònoma de Barcelona e ricercatore presso l’Instituto de Historia Contemporanea dell’Universidade Nova de Lisboa. In questo modo personalità del tutto diverse come Trump, Bolsonaro, Salvini, Meloni e Orbàn possono essere etichettate come “fasciste” dai media, e dai loro oppositori, pur non avendo tratti né obiettivi in comune col fenomeno politico conosciuto come “fascismo” storico”. Tanto che per Trump è stata coniata, tra le tante, anche la magmatica definizione di “leader postfascista senza fascismo”. Come spiega Emilio Gentile, la tesi del “fascismo eterno” – o Ur Fascismo, avanzata da Umberto Eco in una conferenza tenuta negli Usa nel 1995 – “ha portato a una sorta di astoriologia in cui il passato storico viene continuamente adattato ai desideri, alle speranze, alle paure attuali”. Ma leggiamo quali elementi, secondo Eco, sono caratteristiche tipiche del Fascismo: il culto della tradizione, il rifiuto del modernismo, il culto dell’azione per l’azione, il rifiuto di qualsiasi critica, la paura dell’Altro, l’appello alle classi medie frustrate, l’ossessione del complotto, l’elitismo popolare, l’eroismo, il machismo, un “populismo qualitativo” e la creazione di una neolingua. Secondo il semiologo e filosofo piemontese, la presenza di almeno una di queste caratteristiche sarebbe sufficiente a creare una “nebulosa fascista”.

Demonizzare l’avversario politico

Tuttavia, la facilità con cui si possono addebitare alcune di queste connotazioni a governi considerati oggi di centro o di sinistra, oltreché a quelli populisti o conservatori, dovrebbe portare a maneggiare la definizione di “fascismo” con più onestà intellettuale e accortezza. E non come spauracchio demagogico e retorico per guadagnare facile consenso elettorale o demonizzare l’avversario politico. L’analisi politica dovrebbe essere non solo più precisa, ma anche più profonda. Come osserva lucidamente Forti “né il concetto di fascismo né quello di populismo ci aiutano a capire cosa sono e quali obiettivi hanno Trump o Salvini: tempi nuovi richiedono nuove categorie”.

Provate a elencare alcuni degli ultimi provvedimenti di un governo a caso, sia esso italiano o francese o americano: imporre un pass per frequentare luoghi di svago, di cultura o di lavoro, discriminando chi non lo possiede; imporre l’uso di una neo lingua per rifondare la grammatica e rendere impersonale (“equa”) la definizione di genere; enfatizzare le differenze tra oppressi e oppressori in chiave razziale (crical race theory); stigmatizzare la pandemia come risultato di un comportamento irresponsabile dei “non vaccinati”, creando divisioni all’interno del corpo sociale; usare la tecnologia per censurare opinioni e articoli che non corrispondono alla narrativa ufficiale di governo, intaccando la libertà di espressione, la libertà di stampa e la libertà di manifestare per i propri diritti da parte delle minoranze.

Se mettete su queste azioni, o su una di esse, la faccia di Salvini o di Trump, sarebbe facile bollarle come imposizioni autoritarie o “fasciste”. Anche se non sono loro ad averle imposte bensì leader democratici per i quali, oggi, servirebbe un nuovo Eco per definirne le gesta.

Beatrice Nencha, 1° novembre 2021

Enzo Risso per editorialedomani.it il 3 novembre 2021. La cronaca delle ultime settimane ha posto nuovamente all’ordine del giorno il tema della presenza nel nostro paese di nostalgie e pulsioni verso il fascismo. L'inchiesta di Fanpage sulla campagna elettorale di Milano; l’assalto alla sede della Cgil a Roma; il video, corredato di saluto romano e cori pro duce allo stadio Olimpico, sono solo gli ultimi casi. Nelle viscere di una parte della nostra società il fascismo resta un tema irrisolto. Per poco più di un terzo degli italiani (36 per cento) i regimi fascisti hanno realizzato cose importanti nei loro paesi. Ne sono conviti i residenti a Nordest (41 per cento) e in Centro Italia (43 per cento), nonché la maggioranza degli elettori di Giorgia Meloni (69 per cento). Significativo, per identificare l’animus che aleggia lungo lo stivale, è osservare quanti ritengano attuale o anacronistico parlare del fascismo. Per il 43 per cento è un tema superato, anzi è bollato come la «solita manovra retorica cui ricorre la sinistra quando non ha argomenti». Questa opinione è particolarmente vivida tra le fila degli elettori di Fratelli d’Italia (70 per cento), ma è ben presente nei ceti popolari (52 per cento), nel ceto medio-basso (47 per cento), nonché tra i residenti delle isole (50 per cento) e del Nord-est (47 per cento). Il senso anacronistico non coinvolge solo i partiti di centrodestra (57 per cento in Forza Italia, 67 nella Lega), ma lo ritroviamo tra gli elettori indecisi (42 per cento), tra i pentastellati (36 per cento) e, in forma ridotta, anche tra le fila del Pd (15 per cento). Tra i giovani, il 40 per cento reputa sorpassato il discorso sul fascismo, mentre nella Generazione X (i nati dal 1965 al 1979 e cresciuti nel cuore degli anni Ottanta) la percentuale lievita al 46 per cento. Il dato più significativo, nonostante il clamore suscitato dall’assalto alla sede della Cgil, è quello relativo alla necessità di reprimere i movimenti che inneggiano al duce e al regime. La quota di favorevoli è rimasta, più o meno, la stessa rispetto a un anno fa. Nel dicembre 2020, il 70 per cento degli italiani si diceva favorevole alla repressione. Una quota che, allora, saliva al 76 per centro nelle fila dei giovani della Generazione Z (nati tra il 1997 e il 2010), ma scendeva al 65 per cento tra le fila delle Generazione X. Fra quanti erano favorevoli alla repressione c’erano porzioni non secondarie di elettori di Fratelli d’Italia (43 per cento), anche se il dato toccava il suo apice tra i supporter di Pd (92 per cento) e M5s (80 per cento). Pochi giorni dopo l’assalto alla sede della Cgil la percentuale di quanti ritengono giusto mettere fuori legge le associazioni o i partiti che si richiamano al fascismo è cresciuta di un solo punto (71 per cento). Se la vicenda non ha mutato gli equilibri complessivi, ha inciso su una parte dell’elettorato di Giorgia Meloni. La sua base, dopo la vicenda della Cgil, si spacca in due, con una metà (50 per cento) favorevole alla repressione (con un incremento di 7 punti rispetto al 2020) e l’altra metà suddivisa tra i nettamente contrari (18 per cento) e i silenti (32 per cento che non sa). Il dato, tuttavia, non sembra essere il risultato di una riflessione autocritica sul tema, bensì il prodotto dell’ampliamento della base elettorale di Fratelli d’Italia. La crescita di consensi registrata nell’ultimo anno ha inglobato persone provenienti da storie politiche differenti, ex Pdl, Lega, M5s o centristi. Elettori che non hanno legami nostalgici e che, anzi, sono particolarmente infastiditi da questi rigurgiti. Dal punto di vista dei segmenti sociali, l’ipotesi di repressione dei movimenti fascisti trova più freddi, rispetto la media, i ceti popolari (66 per cento), gli operai (64 per cento), i disoccupati (63 per cento) e i lavoratori autonomi (59 per cento). Il tema del rapporto col fascismo mostra, oggi come ieri, il carattere anomalo e anti-sistema che la destra italiana porta con sé dalle origini. In particolare, come sottolineava il politologo Marco Revelli, sfoggia il permanere, in alcuni segmenti della società, di tratti anti-liberali e totalitari, in cui la pulsione nostalgica verso il fascismo si coniuga con la tensione critica e il rifiuto epidermico e empatico dei valori e delle regole del modello democratico.  

 Salvini e Bolsonaro? La sinistra si indigna, ma sono i compagni ad omaggiare sempre i "cattivi". Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 03 novembre 2021. Ma da che pulpito viene la predica! Vi indigna, eh, vedere Salvini incontrare un presidente democraticamente eletto, come il brasiliano Jair Bolsonaro. E ritenete che la sua «presenza sia indigesta», come ha detto il grillino Mario Perantoni. E pertanto vi considerate legittimati a protestare, come hanno fatto ieri a Pistoia centri sociali e antagonisti, o a disertare, come ha fatto il vescovo della città. Peccato che voi cattocomunisti, grillini e gente varia di sinistra, soffrite di un doppio male: la memoria corta e lo strabismo cronico. Non vi ricordate di quando i vostri leader incontravano brutti ceffi. E, se pure ve ne ricordate, guardate a quegli incontri con occhio indulgente perché, quando il personaggio ingombrante è di sinistra o islamico, allora è solo un compagno che sbaglia (non troppo) o una simpatica canaglia. Se invece è un sovranista, è un nemico del popolo. Visto che i compagnucci sono smemorati o strabici, glieli ricordiamo noi quegli incontri scomodi. Che ne pensate di quella passeggiata nel 2006 tra Massimo D'Alema, allora ministro degli Esteri, e un deputato di Hezbollah, gruppo terroristico anti-israeliano, con cui l'altro se ne andava a braccetto per le strade di Beirut? E che ne dite di quei suoi incontri con un altro presidente brasiliano, il comunista Lula, condannato per corruzione e riciclaggio (accuse dalle quali, sebbene le condanne siano state annullate, non è stato assolto) e tuttavia ritenuto frequentabile dagli italo-comunisti? Non solo da D'Alema, ma anche dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri, che da ministro dell'Economia lo ha incontrato a febbraio 2020, dopo essere andato a trovarlo in carcere in Brasile due anni prima. Un abboccamento dal quale non poteva esimersi l'allora segretario del Pd Nicola Zingaretti che, poco prima che impazzasse la pandemia, trovava il tempo di stringere la mano a Lula. Cioè l'uomo che si è sempre rifiutato di consegnarci Cesare Battisti. Quanto a frequentazioni sudamericane discutibili non si può non ricordare il doppio incontro di delegazioni grilline, nel 2017 e 2019, coi ministri di Maduro, il presidente venezuelano che sta affamando il suo popolo. Forse volevano emulare D'Alema, che nel 2008 aveva siglato un accordo con Chávez, predecessore di Maduro. Ma parliamo di poca cosa rispetto alle reiterate strette di mano sinistre con Fidel Castro. Lo incontra ripetutamente Romano Prodi negli anni da premier: ne resterà positivamente impressionato tanto da definire, alla sua morte, quella incarnata da Castro «la speranza di un comunismo diverso». E lo va a trovare Fausto Bertinotti, da segretario rifondarolo, definendo la Cuba castrista «una terra miracolosa». Con lo stesso interesse con cui ha guardato ai tiranni latinoamericani, la sinistra ha mostrato sorrisi a personaggi controversi del mondo arabo. Il palestinese Arafat è stato il campione degli esponenti rossi, da D'Alema a Prodi che lo hanno accreditato come interlocutore, fino a Federica Mogherini, immortalata da giovane fan col leader palestinese. Ma anche Gheddafi, per l'amicizia col quale Berlusconi ha subito insulti, è stato incontrato più volte da Prodi, in veste di presidente della Commissione Ue. Caso singolare è quello del curdo Ocalan, artefice di azioni terroristiche, nel 1998 prima accolto in Italia come richiedente asilo grazie all'appoggio di Rifondazione Comunista (fu Bertinotti a incontrarlo) e poi scaricato dal premier D'Alema. Ma uno come Baffino, che ha abbracciato i peggiori leader, avrebbe potuto anche non fare lo schifiltoso con Ocalan. All'elenco manca Di Maio, che forse avrebbe voluto incontrare Pinochet, prima di scoprire che era già morto e non era il dittatore del Venezuela. 

Il Partito fascista che non rinascerà dopo 100 anni. Giordano Bruno Guerri il 9 Novembre 2021 su Il Giornale. Chi sbandiera il pericolo fascista lo fa per una deprecabile mancanza di studi, che lo metterebbero in grado di interpretare i nessi storici. Oppure per distrarre l'opinione pubblica da problemi concreti. Esattamente 100 anni fa Benito Mussolini trasformò il suo movimento in Partito Nazionale Fascista. Non è un ricordo festoso, ma stupiscono, imbarazzano, i timori di chi sventola a ogni passo il pericolo della «ricostituzione» di quel partito. La temevano, più a ragione, gli autori della nostra Costituzione, che nel XII emendamento provvisorio scrissero asciuttamente «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Quasi nessuno, però, ricorda il secondo capoverso di quell'emendamento (lo ha fatto pochi giorni fa Stefano Bruno Galli): «In deroga all'articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall'entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista». L'articolo 48 è quello per cui «sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. ... Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge». I costituenti dunque stabilivano che, a partire dal 1953, «i capi responsabili del regime fascista» avrebbero potuto votare e addirittura essere eletti alla Camera o al Senato: una decisione non da poco, visto che erano ancora vivi per citare solo i due più brillanti Giuseppe Bottai e Dino Grandi. Curiosamente, il vezzo di diffondere il timore della possibile ricostituzione di un partito fascista è cresciuto con gli anni, invece di diminuire. L'ultima volta, recentissima, è stata per l'ignobile - abietta, infame, meschina, miserabile, nefanda, spregevole, turpe - aggressione di alcuni facinorosi alla sede della Cgil. La nostra condanna va da sé, ma occorre ricordare che per procedere legislativamente allo scioglimento di una forza politica (per esempio Forza Nuova) occorre prima una sentenza della magistratura che certifichi il tentativo di ricostituire un partito fascista. Questa sentenza non c'è. C'è il pericolo? Giurerei che non lo credano neanche quelli di Forza Nuova e dei movimenti simili. Il fascismo storico non può rinascere perché non ci sono le condizioni che lo permisero: l'immensa crisi del dopoguerra, gli scontri armati in piazza con socialisti e comunisti e - non ultimo - la mancanza di un capo carismatico come Mussolini. Non può rinascere anche perché il sistema internazionale (a partire dall'Ue) non lo consentirebbe, e soprattutto perché nessuno ne ha voglia, a parte qualcuno che confonde Dio, Patria e Famiglia con Punizione, Disciplina e Tristezza. Chi sbandiera il pericolo fascista lo fa per una deprecabile mancanza di studi, che lo metterebbero in grado di interpretare i nessi storici. Oppure, temo più spesso, per distrarre l'opinione pubblica da problemi concreti, quelli che davvero dovremmo affrontare ogni giorno. Per esempio un sistema scolastico che aiuti a capire le differenze fra storia e attualità. Giordano Bruno Guerri

Antifascisti, siete anticomunisti? Marco Gervasoni il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. La vicenda della cosiddetta «lobby nera» e la ricorrente accusa a Giorgia Meloni, ma anche a Matteo Salvini, di non dichiararsi "antifascisti" ci ricorda quando la sinistra attaccava ossessivamente il Berlusconi assente dalle celebrazioni del 25 aprile. La vicenda della cosiddetta «lobby nera» e la ricorrente accusa a Giorgia Meloni, ma anche a Matteo Salvini, di non dichiararsi «antifascisti» ci ricorda quando la sinistra attaccava ossessivamente il Berlusconi assente dalle celebrazioni del 25 aprile. Quando poi nel 2009 a Onna, sulle rovine del terremoto, il Cavaliere presidente del Consiglio vi prese parte e pronunciò anche un bel discorso, la sinistra spostò il tiro su altre questioni, e accadde quel che sappiamo. Questo per dire che, in buona parte dei casi, come questo di una «inchiesta» diffusa a due giorni dal voto, l'antifascismo è solo un pretesto, e anche molto ipocrita e peloso. Sarebbe tuttavia limitativo fare spallucce e rispondere solo in questo modo. In primo luogo perché l'argomento fa parte della lotta politica ed è utilizzato come arma, a cui bisogna rispondere. In secondo luogo, perché l'antifascismo è si qualcosa che appartiene al passato ma il passato, anche quello antico, fa sempre parte del presente - la storia è sempre storia contemporanea, noto adagio crociano. E tra fascismo e antifascismo non ha solo vinto quest'ultimo ma la ragione stava da questa parte: da quella di Roosevelt, di Churchill, di De Gaulle, di De Gasperi, di Sturzo, di Einaudi, di Matteotti e dei Fratelli Rosselli, e cosi via. A un regime che si impose con la violenza, soffocando la libertà e la democrazia, come quello fascista, Giorgia Meloni, Carlo Fidanza e tutti i militanti ed elettori di Fdi sono lontani anni luce; e oggi sicuramente lo combatterebbero. Dal nostro punto di vista quindi, non dovrebbe esserci problema alcuno a dichiararsi antifascisti. Purché ci si dica al tempo stesso anticomunisti. I due termini dovrebbero essere inseparabili: non si può essere antifascisti se non si è anche anticomunisti. Come scriveva François Furet, tutti i democratici sono antifascisti ma non tutti gli antifascisti sono democratici: basti pensare a Stalin, a Tito, e via dicendo. Allo stesso tempo, non si può essere anticomunisti se non ci si definisce pure antifascisti: perché la lotta al comunismo va condotta avendo in mente la democrazia e la libertà, non esperimenti autoritari. Si tratta di questioni storiche passate? Forse. Sta di fatto che il fascismo è morto nel 1945 mentre il comunismo è vivo e vegeto (la Cina, a Cuba, alla Corea del Nord ecc) e alle Comunali si parano miriade di liste con falce e martello. E allora rivolgiamo noi la domanda agli antifascisti (a fascismo morto) in servizio permanente ed effettivo: siete disposti a dichiararvi anticomunisti? Marco Gervasoni 

"Inchieste sotto elezioni. Come con Berlusconi..." Serenella Bettin il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'ex pm: "Strane inchieste a ridosso del voto. Con il Cavaliere questo è sempre accaduto". Luca Morisi per diversi anni è stato responsabile della comunicazione della Lega e di Matteo Salvini. È lui l'artefice della bestia social di Matteo Salvini. Analizzava i tweet e i discorsi. Ora è indagato dalla procura di Verona per detenzione e cessione di sostanze stupefacenti. La vicenda è emersa a cinque giorni dal voto anche se l'indagine è di oltre un mese. Un caso? Il Giornale ne ha parlato con Carlo Nordio, magistrato, ora in pensione, ex procuratore aggiunto di Venezia. Il titolare dell'inchiesta Mose. Colui che ha alle spalle le indagini di Mani Pulite, le Brigate Rosse, Tangentopoli.

Questa indagine che colpisce Luca Morisi, non è strana a pochi giorni dal voto?

«In un certo senso è strano, tuttavia poiché in Italia come da regolamento le elezioni si fanno ogni anno è possibile che si tratti anche di una coincidenza. È un fatto tuttavia che alla vigilia delle elezioni, la politica tenda a strumentalizzare ogni forma di indagine anche se infondata, nei confronti degli avversari. L'hanno sempre fatto, anche con Berlusconi. A pochi giorni dal voto usano l'indagine. Queste indagini vengono strumentalizzate a fini politici per delegittimare l'avversario».

Le accuse mosse a Morisi sono gravi?

«Giuridicamente no, anche perché la cocaina detenuta rientra nei limiti dell'uso personale e quindi non costituisce reato. Quanto alla possibilità di spaccio per ora manca la prova, sia della avvenuta cessione, sia della natura della sostanza ceduta cioè se sia stupefacente o meno».

Un leader di un partito è tenuto a sapere dei vizi del suo staff e a renderne conto?

«Un leader non è assolutamente tenuto a risponderne giuridicamente e non è neanche tenuto a esserne a conoscenza. Prudenza però vorrebbe che ci si informasse dettagliatamente anche sulla vita privata di chi ci sta vicino proprio per evitare le strumentalizzazioni di cui parlavo prima. Sotto un profilo mediatico si tratta di una vicenda che avrà conseguenze negative».

La notizia può essere di rilevanza pubblica? A noi veramente interessa?

«A noi in quanto italiani la vita privata di un individuo non può e non deve interessare. Ma quando si ha una forte esposizione mediatica si è tenuti per una propria convenienza a una condotta prudente».

Dopo gli scandali che hanno coinvolto la magistratura, potrebbe esserci un tentativo di pilotare le elezioni da parte delle procure?

«No. Probabilmente c'è stato negli anni passati, ma ora escludo che ci sia una gestione pilotata per influenzare le indagini».

Perché queste cose accadono sempre contro una certa parte politica?

«In realtà non è accaduto sempre contro una certa parte politica, basta vedere il sindaco di Riace. In questo caso è stata la condotta imprudente di Morisi che l'ha cacciato in questo guaio. Non è reato ma...»

Però assistiamo a una sinistra che assolve un ex sindaco anche se condannato e condanna una persona per la quale ancora non c'è alcuna condanna.

«Sono due situazioni assolutamente non assimilabili. Sul caso Morisi c'è semplicemente un'indagine e probabilmente nemmeno un reato, dall'altro c'è una condanna ed è anche vero che il sindaco si era vantato di aver violato la legge. Che poi la condanna sia alta, anche questo è possibile».

Salvini ne uscirà danneggiato?

«Salvini ne uscirà danneggiato dal punto di vista mediatico, ma non sarà un danno grave. Il contenuto della politica conta più di queste vicende personali. Quello che conta per lui sarà una prudenza su argomenti sensibili come il green pass senza cedere alle emotività di alcuni estremisti». 

Serenella Bettin. Sono nata nelle Marche, vivo in Veneto. Firmo sul Giornale dal 2016. Mi occupo di attualità, cronaca e immigrazione. 

Meloni, l'ira e l'orgoglio. "Linciaggio di un partito orchestrato a tavolino". Fabrizio De Feo il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. La leader Fdi in un video: "Non ci mostrano il girato integrale, cosa devono nascondere?" La «polpetta avvelenata» a pochi giorni dal voto, il linciaggio di un intero partito, le trappole disseminate lungo un percorso politico. Giorgia Meloni in un video torna sulla vicenda Fanpage e passa con decisione al contrattacco. «Mimmo Lucano, condannato in primo grado a 13 anni per oltre 22 reati come associazione a delinquere, truffa aggravata, peculato. Per la sinistra non solo è innocente, è un eroe: perché è uno di loro. Carlo Fidanza invece viene condannato a morte per 10 minuti di video senza nemmeno un'indagine. Perché è uno di noi. E con lui veniamo condannati tutti, migliaia di militanti appassionati che hanno preso un partito dal niente e contro tutto e tutti lo hanno portato a essere il primo partito». La convinzione della leader di Fdi è chiara. «Non sono una persona abituata a nascondersi, non voglio farlo neanche stavolta. Banalmente perché non c'è niente di cui mi debba vergognare. Quello che penso è che, per quanto si possa fingere di non vederlo, era tutto studiato, scientificamente, a tavolino. Non da Fanpage, ma da un intero circuito, o circo, se vogliamo». L'attenzione si concentra sulla coincidenza temporale, sulla pubblicazione del video in prossimità del voto nelle grandi città. «Tre anni di giornalista infiltrato, 100 ore di girato, dalle quali vengono estrapolati 10 minuti di video tagliati e cuciti arbitrariamente, piazzati in prima serata a due giorni dalle elezioni e dal silenzio elettorale. Quando loro possono parlare di te e tu non puoi difenderti, quando le persone devono decidere se votarti o no il giorno successivo, perché oggi si vota». «Ho chiesto a Fanpage di avere l'intero girato per sapere esattamente come siano andate le cose e come si siano comportate le persone coinvolte. Il direttore di Fanpage ha risposto che la mia richiesta è oscena. Cosa c'è che non si può mostrare in quei video? Capiamoci, io voglio andare a fondo nella vicenda perché dalle nostre parti siamo parecchio rigidi sulle regole di comportamento dei nostri dirigenti». Ma dentro Fdi sono convinti che ci siano immagini ed registrazioni in grado di scagionare il capo delegazione di Fdi al Parlamento europeo. Giorgia Meloni a questo punto chiede un risarcimento mediatico. «La prossima settimana, sempre in campagna elettorale, Piazzapulita farà un'altra puntata su questo tema. Confido che Corrado Formigli, dall'alto della sua onestà intellettuale tipica dei giornalisti che non sono di parte, manderà in onda integralmente anche questo mio video». Richiesta accolta dal conduttore: «Il nostro invito a Giorgia Meloni resterà valido fino a giovedì, così avrà tutto il tempo per rispondere nel merito sui contenuti del video di Fanpage che abbiamo mandato in onda», dice all'Adnkronos. Ma alla leader di Fdi, non basta: «Sarò lieta di accettare il tuo invito quando il direttore di Fanpage mi fornirà il girato delle 100 ore. Altrimenti forniscimelo tu: immagino che prima di mandare in onda il video di 13 minuti realizzato da altri avrai controllato il materiale. O no?». Il direttore di Fanpage non ritiene che la coincidenza con il voto possa destare sospetto. E aggiunge: «Se Giorgia Meloni ritiene che l'inchiesta sia stata montata ad arte, ha tutti gli strumenti giuridici per far valere le sue ragioni». Intanto all'attacco della Meloni va il leader M5s Giuseppe Conte, che parla di «attacchi strumentali» e accusa: «Hai continuato a fare propaganda durante il silenzio elettorale attaccando Virginia Raggi per l'incendio che ha devastato il ponte di Ferro». Fabrizio De Feo

Il direttore di Fanpage insiste: "Giusta l'inchiesta prima del voto". Luca Sablone il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. Fratelli d'Italia chiede il video integrale, ma per il direttore Cancellato "è una forzatura". L'ira della Meloni: "Dicono che la nostra richiesta è oscena". L'inchiesta di Fanpage continua ad agitare la politica anche a urne aperte. Da una parte il centrosinistra coglie l'occasione al balzo per tentare di affossare gli avversari a ridosso delle elezioni; dall'altra Fratelli d'Italia si sente attaccato e denuncia il tempismo con cui è stato reso neto il servizio. Il reportage di Fanpage è stato pubblicato a poche ore dall'inizio del silenzio elettorale: proprio per questo motivo Giorgia Meloni è andata su tutte le furie.

La leader di FdI continua a chiedere di poter visionare le 100 ore di filmato integrale per poter prendere atto dei comportamenti dei suoi dirigenti e prendere eventualmente le dovute conseguenze. Il sospetto di Fratelli d'Italia è che possano essere stati omessi importanti aspetti che potrebbero invece ribaltare la situazione. Anche perché c'è più di qualcosa che non torna. Ma da parte del direttore di Fanpage è arrivata una chiara risposta in merito alla richiesta della Meloni.

Il "no" del direttore di Fanpage

Il centrodestra teme che le tempistiche di pubblicazione dell'inchiesta siano piuttosto sospette. Su questo però Francesco Cancellato - intervistato dal Corriere della Sera - ha sottolineato che "né il codice deontologico, né il codice civile prevedono un calendario che dica quando uscire". Anzi, il direttore della testata web ha rivendicato la scelta fatta: ritiene assolutamente doveroso che un'inchiesta, quando riguarda un candidato, "per l’interesse pubblico debba andare in onda prima delle elezioni".

Quanto alla posizione della presidente di Fratelli d'Italia, Cancellato ha fatto sapere che il girato oggetto della prima puntata "sarà acquisito dalla procura della Repubblica che ha aperto un fascicolo". Ma c'è di più: il direttore di Fanpage reputa quella della Meloni "una forzatura" e l'ha invitata a "far valere le sue ragioni" se ritiene effettivamente che si sia trattata di un'inchiesta "montata ad arte".

L'ira della Meloni

In mattinata Giorgia Meloni ha pubblicato sui propri canali social un video per fare chiarezza sulla vicenda. Nel mirino è finito il servizio di Fanpage che vorrebbe dimostrare come la "lobby nera" starebbe cercando di entrare nella campagna elettorale della destra a Milano. Un effetto lo ha già prodotto: l'europarlamentare Carlo Fidanza si è autosospeso dal partito. Ieri la leader di Fratelli d'Italia ha parlato di "polpetta avvelenata", facendo notare che il video è stato mandato in onda nell'ultimo giorno di campagna elettorale "per fare sì che stesse sulle prime pagine nel giorno di silenzio elettorale".

Oggi la Meloni è tornata all'attacco senza mezzi termini: "Per quanto si possa fingere di non vederlo, era tutto studiato, scientificamente, a tavolino. Non da Fanpage, ma da un intero circuito, o circo, se vogliamo". E ha ribadito la richiesta di poter visionare il girato integrale: "Il direttore ha risposto che la mia richiesta è oscena. Cosa c'è che non si può mostrare in quei video? Cosa c'è che non devo vedere? La sua risposta è oscena".

Va tuttavia riportata la contro-replica del sito web: Fanpage in un articolo ha accusato la leader di FdI di aver inventato "di sana pianta una dichiarazione del direttore Francesco Cancellato", che invece "non ha mai definito oscena la richiesta di visionare l'intero girato". Dunque quella della Meloni viene giudicata "una vera e propria fake news, un'invenzione di sana pianta, una balla".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC.

Carlo Fidanza e l'agguato a FdI, Alessandro Sallusti: "Tre anni di microfono nascosto per un ragno dal buco". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2021. Domani si vota per rinnovare i sindaci di alcune delle più importanti città italiane e il governatore della Calabria. Magistrati e giornalisti nelle ultime settimane hanno frugato nel bidone della spazzatura in cerca del colpo grosso per screditare i partiti del Centrodestra ma questa volta, nonostante lo spiegamento di forze, il bottino è stato misero e il tanfo prevale nettamente sulla sostanza. La vicenda condita con droga e sesso dell'ex braccio destro di Salvini, Luca Morisi, col passare delle ore appare sempre più come una bufala costruita a tavolino per trasformare un discutibile fatto privato in uno scandalo politico. Poi c'è il pacco che il sito Fanpage, via Corrado Formigli su La7, ha confezionato contro Carlo Fidanza, plenipotenziario di Fratelli d'Italia a Milano. Per tre anni un giornalista munito di microfono nascosto si è finto supporter di quel partito istigando Fidanza a commettere illeciti finanziari ma cavandone di fatto un ragno dal buco. Ovviamente sono rimaste impresse stupide frasi e un immancabile saluto romano, però sono certo che nessuno, neppure i giornalisti autori e complici di questo pazzesco scoop, uscirebbero formalmente lindi e immacolati da tre anni di microfoni nascosti. Salvo colpi di scena dell'ultima ora la controcampagna elettorale dei nostri eroi democratici quasi tutti amici e sostenitori di Mimmo Lucano - l'ex sindaco di Riace pro immigrati condannato ieri l'altro a tredici anni perché truffava lo Stato - si ferma qui. Non penso che queste cose sposteranno un solo voto, semmai hanno fatto contenti i non pochi nemici interni che Morisi aveva nella Lega e Fidanza in Fratelli d'Italia. La sostanza è che la campagna elettorale più surreale e pasticciata nella storia del Centrodestra si chiude con una foto dei tre leader - Meloni, Salvini e Tajani - seduti allo stesso tavolo, e questo fa ben sperare per il futuro. La stessa cosa oggi non possono farla Letta, Conte e Bersani che nelle urne sono avversari dopo settimane passate a darsele di santa ragione. Insomma, nel casino che è la politica il Centrodestra, al dunque, resta una certezza. Dall'altra parte, come al solito, è caos al motto di "nemici al primo turno, semmai amici ai ballottaggi" ma solamente per fermare le destre. Sai che grande programma politico... 

Alemanno: «L’hanno condannato per ciò che è, non per ciò che ha fatto». Il caso di Mimmo Lucano, ma anche quello di Morisi e l'inchiesta di Fanpage vista dall'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 3 ottobre 2021. Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma e con una pesante vicenda giudiziaria ormai alle spalle dopo l’assoluzione in Cassazione, spiega che Mimmo Lucano è stato condannato «non per quello che ha fatto, ma per il ruolo che ha interpretato; per quello che è, non per quello che fa» e commenta: «Con questa vicenda la sinistra ha riscoperto il garantismo, ma Salvini che giustamente difende Morisi e poi improvvisamente impazzisce e parte in quarta attaccando Lucano è l’anticamera dell’autodistruzione del dibattito democratico».

A freddo, che idea si è fatto sulla condanna dell’ex sindaco di Riace?

Occorre fare due osservazioni: la prima è che bisogna aver fatto il sindaco nella vita per rendersi conto di quante difficoltà ci sono nel portare avanti questo mestiere. I sindaci devono prendere le decisioni più difficili dal punto di vista amministrativo e quindi sono i più esposti ad azioni penali, amministrative e della Corte dei Conti. Secondo, è riemersa la tendenza del garantismo a senso unico: quando viene colpito uno di sinistra protesta la gente di sinistra, quando viene colpito un personaggio di destra protesta la destra. In questo caso la sinistra ha riscoperto il garantismo ma Salvini che giustamente difende Morisi e poi improvvisamente impazzisce e parte in quarta è l’anticamera dell’autodistruzione del dibattito democratico.

PUBBLICITÀ

Molti hanno criticato i tredici anni e due mesi di condanna, un periodo ritenuto abnorme rispetto ai reati contestati. Come la giudica?

Le sentenze siamo obbligati a rispettarle, ma possono essere criticate. Rispetto alla sentenza penso sia enorme perché tredici anni si danno per omicidio, mi sembrano davvero troppi. Ma bisogna saper leggere tra le righe per capire i meccanismi mentali che hanno animato questa sentenza. Poi leggeremo le motivazioni ma in base ai reati per i quali è stato condannato risulta fondamentale il fatto di avere un progetto politico, trasformato in associazione per delinquere, e il fatto di aver portato soldi alle cooperative per immigrati, azione trasformata in peculato.

Si spieghi meglio.

Non condivido affatto l’immigrazionismo estremo di Lucano e credo ci sia stata molta demagogia nella sua politica. Ma da qui a pensare che siano stati commessi reati significa arrivare alla criminalizzazione della politica. Io sono stato incriminato perché sollecitavo a una cooperativa un pagamento al Comune ma non si era capito che è normale che un sindaco lo faccia. Lucano voleva apparire come il campione dell’immigrazione e non lo condivido ma da qui a pensare che abbiamo commesso reati ce ne passa.

Ieri in un’intervista Lucano a chiamato in causa un magistrato e un politico di razza. Crede ci sia stato un disegno contro l’ex sindaco di Riace?

Non c’è nessun disegno contro Lucano. Anzi la tendenza del sistema è quella di favorire l’immigrazione. C’è invece una mentalità sbagliata dei giudici, anche se non so cosa li abbia spinti a condannare Lucano. Il punto è che non hanno condannato quello che ha fatto, ma il ruolo che ha interpretato. L’hanno condannato per quello che è, non per quello che fa. Un atteggiamento che si rileva ogni giorno nell’azione della magistratura. D’altronde i sindaci di tutta Italia sono continuamente colpiti da azioni penali e amministrative per atti che fanno parte della normale vita di una città.

Dunque nessun complotto di chi, magari, lo avrebbe voluto fuori dalle elezioni di domani e lunedì, nelle quali Lucano è in corsa nella lista di De Magistris?

Di fronte a un teorema si cade nella tentazione giudice di Magistratura democratica. E questo dimostra che ero stato condannato perché espressione di un modo di fare politica, non per le mie azioni.

Tornando al garantismo paragonato al caso Morisi, che differenze ci sono tra destra e sinistra nell’affrontare certe vicende?

Sicurante quando c’è di mezzo qualcuno di centrodestra l’aggressione mediatica è molto più forte e non c’è dubbio che l’attacco a Morisi è di gran lunga superiore rispetto a chi critica Lucano. Tantissime voci si sono alzate nel dire che quella contro Lucano è stata una sentenza abnorme, mentre quasi nessuno ha difeso Morisi, protagonista di una vicenda, per quanto ancora da verificare, del tutto personale.

Due giorni fa è arrivata poi l’inchiesta di Fanpage che ha provocato l’autosospensione di Fidanza da Fratelli d’Italia, «guarda caso a due giorni dal voto», ha detto Meloni. Crede anche lei sia stata fatta uscire apposta?

Certamente, e vale sia per il caso di Fidanza che per quello di Morisi. L’inchiesta di Fanpage è durata tre anni e guarda caso è stata tirata fuori a due giorni dalle elezioni, con Fratelli d’Italia che va a gonfie vele. La vicenda Morisi è ancora peggiore, perché risale ad agosto ed è venuta fuori solo ora.

Nell’inchiesta di Fanpage alcuni gesti e commenti di Fidanza sono inequivocabili.

I fatti sono che un giornalista sotto copertura ha ricavato pezzetti di video, con chissà quante ore buttate invece nel cassonetto, in cui si vedono certamente diverse cose di cattivo gusto ma sostanzialmente durante momenti di svago e “cazzeggio”. Ha fatto quindi bene Meloni a richiedere la visione dell’intero filmato.

Tornando a Lucano, in che modo si può invertire la rotta di un giustizialismo imperante sia a destra che a sinistra?

Soltanto con il dialogo. Le posizioni di Lucano non fanno che favorire l’invasione in atto nel nostro paese, che è molto pericolosa e sta creando danni sociali ed economici gravi. Le persone che arrivano sono destinate a essere sfruttate dalla malavita e quindi non condivido la santificazione di Lucano fatta in passato. Ma sono un suo avversario politico e penso che le scelte politiche non possano essere decise in un’aula di tribunale. Detto questo, quella della giustizia ad esempio è la classica riforma che andrebbe fatta insieme. Con l’obiettivo di arrivare a una maggior qualità della magistratura in senso meritocratico e dal punto di vista della responsabilità dei giudici.

Il caso del guru della comunicazione leghista. Il fango dei media su Morisi per colpire Salvini e i referendum sulla giustizia. Maurizio Turco, Irene Testa su Il Riformista l'1 Ottobre 2021. Il 2 febbraio, incontrando Matteo Salvini per proporgli di promuovere insieme una campagna sulla giustizia giusta, lo mettemmo in guardia ricordandogli quanto accadde a seguito del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati nel 1987. La storia si ripete. Da alcune settimane notiamo da Radio radicale come i media si stiano accanendo a sollecitare tra i dirigenti della Lega una alternativa a Matteo Salvini. Il bombardamento mediatico delle ultime settimane non va confuso con la cronaca di un dibattito interno, a quel momento inesistente. Poi è arrivata la vicenda di Luca Morisi. Sul lato personale non abbiamo nulla da dire: sono scelte personali e i protagonisti sono maggiorenni. Se ci sono risvolti penali sarà un giudice a decidere. Dal punto di vista politico è evidente la contraddizione tra la sua attività pubblica e la sua vita privata. Attività che non condividiamo nel merito e nei toni. Detto questo, sarebbe una novità se la vita privata di una persona esposta come Luca Morisi non fosse nota, se non attenzionata, da qualche istituzione. Ormai è certo che si sta usando la vicenda Morisi per colpire Matteo Salvini e la Lega nel momento in cui il loro massimo impegno è sulla campagna elettorale e sui referendum giustizia. Non ci stupisce: è la reazione del regime italiano che non tollera sbavature democratiche. Avevamo salutato la decisione di Matteo Salvini di promuovere i referendum sulla giustizia come una evoluzione, e salutiamo positivamente la sua decisione di abbracciare anziché abbandonare Luca Morisi. C’è chi vuole che Matteo Salvini sia condannato al suo passato e marginalizzato, noi lo ringraziamo per aver rimesso al centro del dibattito pubblico la questione giustizia “la più grande e grave questione sociale di questo paese” e gli chiediamo di non mollare quello che può rappresentare l’inizio di un processo riformatore. Maurizio Turco, Irene Testa

Palamara non ha dubbi: «Morisi sputtanato dal “Sistema”». L'ex capo della procura di Roma, Palamara in un'intervista spiega che l'indagine su Morisi è uscita dai soliti "burattinai". «Dietro c'è sempre il Sistema». su Il Dubbio l'1 ottobre 2021. Luca Palamara, in un’intervista a Libero, parla del caso del momento, ovvero di Luca Morisi e l’indagine per cessione di stupefacenti aperta dalla procura di Verona che ormai è diventata una questione politica, visto che l’indagato è l’ex Guru social di Matteo Salvini. «Noto la sovraesposizione mediatica in queste ore di una persona, il ragazzo rumeno, che racconta fatti risalenti a oltre due mesi fa. Chi ha fornito solo adesso questo genere di “pista”? Chi e perché acquisisce e utilizza informazioni per provare a manipolare l’agibilità democratica nel nostro Paese?» si domanda l’ex pm della procura di Roma, espulso dalla magistratura dopo lo scandalo delle nomine pilotate al Consiglio Superiore della Magistratura. Palamara, inoltre, cerca di dare una risposta su chi abbia veicolato la notizia dell’inchiesta ai giornalisti. «In questi casi si tratta dei soliti soggetti che puntano a strumentalizzare il processo penale. Da luogo in cui si accertano i fatti, il processo viene utilizzato per altri fini, servendosi in alcuni casi e a loro insaputa degli stessi magistrati. Bisogna allora scoprire chi sono i burattinai che scelgono quali informazioni dare, come darle e quando darle, avvalendosi sempre delle stesse firme giornalistiche». Si può paragonare Morisi a Palamara? Sono due vittime del “Sistema”? Ecco come la pensa l’ex segretario dell’associazione nazionale magistrati. «I casi sono profondamente diversi, ma la modalità con cui sono date le notizie è la stessa. Non entro nel merito se le notizie su Morisi siano vere o false. Però è certo che sono sistematicamente stritolati dagli ingranaggi del “Sistema” vite, carriere, affetti, immagine pubblica di persone prescindendo dall’accertamento della loro colpevolezza. Quando anche un processo dovesse accettarne l’innocenza sarà comunque rimasta la macchia. E chi risarcirà la vittima dallo sputtanamento subito? Mesi di prime pagine compensate da tre righe prima delle previsioni del tempo o dell’oroscopo?».

Luca Morisi, l'accusa di Luca Palamara: "Chi c'è dietro all'inchiesta, manipolano la nostra democrazia". Giovanni M. Jacobazzi su Libero Quotidiano l'1 ottobre 2021. «Una persona ieri al Corviale mi ha detto: "Ad ogni elezione qui passano i politici, chiacchierano, promettono e poi non ritornano. Il Serpentone è abitato da persone non da bestie". Io credo che quella persona con dignità abbia denunciato l'utilitarismo di certa politica. La gente è stanca e chiede il cambiamento». Corviale è il simbolo del degrado della sterminata periferia romana. Soprannominato Serpentone per essere lungo un chilometro, è un palazzo di edilizia popolare costruito negli anni '70, di 9 piani con 1200 appartamenti dove abitano circa 4500 persone, di cui molti anziani e disabili.

Dottor Palamara, lei è candidato con una sua lista alle suppletive per la Camera nel collegio Roma Primavalle. Dopo essere stato nelle ovattate stanze del Csm cosa prova a venire in queste zone dimenticate da tutti?

«Sto battendo il collegio in lungo e in largo. Ho incontrato tantissima gente che mi ha trasmesso rabbia e allo stesso tempo forza. Rabbia perché non è possibile assistere inermi all'ingiustizia sociale di persone abbandonate a se stesse. Forza perché se verrò eletto impiegherò tutte le mie energie per essere da pungolo all'amministrazione comunale in primis e alle istituzioni più in generale affinché si cerchi una soluzione alle problematiche di questo territorio».

Che candidatura è la sua?

«Una candidatura tematica che si rivolge a tutti. Chi è interessato al mio racconto e crede sia necessaria una discussione seria sulla giustizia, può votarmi ed io continuerò in Parlamento, ancora più libero di parlare e ancora più determinato, la mia battaglia per la verità».

Pensa di essere l'uomo del cambiamento? L'alternativa ai politicanti?

«Guardi, io penso di aver subito sulla mia pelle gli effetti del "Sistema". Parlo con la consapevolezza di chi si è passato dalla condizione di carnefice a quella di vittima. Forte della mia innocenza ho accettato la sfida mettendoci la faccia. Ora chiedo il giudizio dei cittadini sulla mia vicenda. C'è una frase del mio libro che può essere tranquillamente ribaltata: "Quando ho toccato il cielo, il Sistema ha deciso che dovevo andare all'inferno". Se gli elettori mi daranno fiducia potrò dire che "quando il Sistema decise di spedirmi all'inferno, l'elettorato decise di riportarmi in cielo".

Che pensa della vicenda di Luca Morisi?

«Innanzitutto noto la sovraesposizione mediatica in queste ore di una persona, il ragazzo rumeno, che racconta fatti risalenti a oltre due mesi fa. Chi ha fornito solo adesso questo genere di "pista"? Chi e perché acquisisce e utilizza informazioni per provare a manipolare l'agibilità democratica nel nostro Paese?» 

Chi può essere? Il procuratore della Repubblica di Verona ha smentito di aver dato la notizia ai giornali.

«In questi casi si tratta dei soliti soggetti che puntano a strumentalizzare il processo penale. Da luogo in cui si accertano i fatti, il processo viene utilizzato per altri fini, servendosi in alcuni casi e a loro insaputa degli stessi magistrati. Bisogna allora scoprire chi sono i burattinai che scelgono quali informazioni dare, come darle e quando darle, avvalendosi sempre delle stesse firme giornalistiche».

Morisi come Palamara, vittime del "Sistema"?

«I casi sono profondamente diversi, ma la modalità con cui sono date le notizie è la stessa. Non entro nel merito se le notizie su Morisi siano vere o false. Però è certo che sono sistematicamente stritolati dagli ingranaggi del "Sistema" vite, carriere, affetti, immagine pubblica di persone prescindendo dall'accertamento della loro colpevolezza. Quando anche un processo dovesse accettarne l'innocenza sarà comunque rimasta la macchia. E chi risarcirà la vittima dallo sputtanamento subito? Mesi di prime pagine compensate da tre righe prima delle previsioni del tempo o dell'oroscopo?». 

Quei veleni sulla lotta politica da “Mani pulite” alla “trattativa”. La verità è che una trentina d’anni fa gli scribi giudiziari della storia - intesi come certi inquirenti e i cronisti, commentatori, analisti che ne raccoglievano e amplificavano iniziative, convinzioni e umori- si passarono le consegne fra Milano e Palermo per deformare la conclusione della cosiddetta prima Repubblica e l’incubazione della seconda. Francesco Damato su Il Dubbio il 26 settembre 2021. Diciamoci la verità, tutta la verità, a commento della sentenza d’appello di Palermo che ha declassato a un fatto che “non costituisce reato” la presunta trattativa fra lo Stato e la mafia. Della quale l’intera vicenda giudiziaria ha preso addirittura il nome più generalmente usato sui giornali e nelle stesse aule dei tribunali. Sono stati perciò assolti gli ufficiali dei Carabinieri accusati di averla condotta, e nuovamente condannati i mafiosi che dall’altra parte non avrebbero compiuto ma solo cercato di attentare con violenze e minacce al funzionamento di un corpo politico o amministrativo o giudiziario dello Stato, come dice l’articolo 338 del codice penale cavalcato dall’accusa. Diciamocela, questa verità, senza fare sconti a nessuno: né ai magistrati inquirenti, né a quelli giudicanti di primo grado, sconfessati appunto in appello, né ai giornalisti. O, se preferite, a noi giornalisti, fra i quali ve ne sono alcuni oggi quasi soddisfatti anch’essi del nuovo verdetto, ma sino a qualche tempo fa partecipi – spero in buona fede- di una colossale opera di mistificazione della storia e di avvelenamento della lotta politica. La verità è che una trentina d’anni fa gli scribi giudiziari della storia – intesi come certi inquirenti e i cronisti, commentatori, analisti che ne raccoglievano e amplificavano iniziative, convinzioni e umori- si passarono le consegne fra Milano e Palermo per deformare la conclusione della cosiddetta prima Repubblica e l’incubazione della seconda. Che, secondo costoro, non stava avvenendo nel 1993 col passaggio referendario e legislativo dal sistema elettorale proporzionale a quello prevalentemente maggioritario, che prese il nome latinizzato dell’attuale capo dello Stato, cioè Mattarellum, ma con le stragi mafiose e col tentativo “spregiudicato e disperato”, ancora ieri lamentato su Repubblica da Carlo Bonini, di prevenirle, limitarne i danni e addirittura strumentalizzarle con la infausta “trattativa”. Alla quale molti tolsero via via anche le virgolette originariamente usate per cautela. A Milano, senza offesa per protagonisti, attori e comparse di “Mani pulite”, i cui superstiti peraltro hanno finito o stanno finendo la loro carriera scambiandosi querele o minacciandosele, la cosiddetta prima Repubblica fu travolta da una decapitazione selettiva dei partiti, e relative correnti, che da anni, e sotto gli occhi di tutti, si finanziavano irregolarmente, diciamo pure illegalmente. Né potevano fare diversamente per la scelta ipocrita da tutti compiuta di destinare alle forze politiche un finanziamento pubblico insufficiente a coprire davvero le loro spese, che pure erano evidenti con le sedi di cui disponevano, il personale, le manifestazioni, i giornali, e magari anche l’arricchimento personale di alcuni che raccoglievano illegalmente – ripeto fondi per la loro parte politica e ne trattenevano per sé un po’, o un bel po’, secondo i casi. Tutto divenne o fu scambiato per corruzione, in buona e cattiva, anzi cattivissima fede. Già minato dalla caduta del muro di Berlino, nel 1989, e dalla dissoluzione fortunatamente senza sangue del comunismo, si era spontaneamente esaurito il sistema bipolare italiano derivato per decenni dalla presenza del partito comunista più forte dell’Occidente e dall’azione di contrasto degli avversari, salvo tregue come quella della cosiddetta solidarietà nazionale nel 1976. L’unico a capirlo e a dirlo più o meno chiaramente in pubblico fu l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga auspicando, pur con picconate verbali, un’evoluzione ordinaria e ordinata degli equilibri politici. Gli altri preferirono ricorrere all’ascia giudiziaria, liquidando come ladri quelli che resistevano al governo o, sul versante opposto, continuando a scambiare per comunisti quelli che di fatto non lo erano più per chiusura, diciamo così, della ditta. A Palermo, anziché saltare in groppa alla lotta alla corruzione, vera o presunta che fosse, si saltò in groppa alla lotta alla mafia, anche lì vera o presunta che fosse, per abbattere vecchi equilibri e crearne di nuovi. E poiché la mafia, quella vera, proprio in quel periodo aveva deciso di ricorrere agli attentati sanguinosi per spezzare l’assedio che magistrati di valore come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano pazientemente tessuto, contrastati spesso dai loro stessi colleghi per basse ragioni di carriera, anche le stragi furono strumentalizzate più per lotte politiche che per altro. E così fu possibile che, o per liberarsi più rapidamente dei vecchi equilibri o per scongiurarne di nuovi, Giulio Andreotti divenne il capomafia, più o meno, da abbattere e Silvio Berlusconi l’erede da soffocare in culla presentandolo come il nuovo referente della criminalità organizzata, disposto ad assecondarla direttamente o attraverso i suoi amici, a cominciare da Marcello Dell’Utri, peraltro siciliano doc, per consolidare il potere appena conquistato con la sorprendente vittoria elettorale del 1994. O addirittura per conseguire quella vittoria. È potuto così accadere che un’operazione “spregiudicata e disperata”, come – ripeto- la definisce ancora Carlo Bonini su Repubblica, anche dopo l’assoluzione in appello degli alti ufficiali che la condussero, pur avendo portato alla cattura di boss mafiosi come Totò Riina e Bernardo Provenzano, morti entrambi in carcere, fosse scambiata per una torbida congiura, o qualcosa del genere. E ciò anche a costo di trascinare ad un certo punto nelle polemiche, e nella stessa vicenda giudiziaria, un onestissimo presidente della Repubblica come Giorgio Napolitano, e altrettanto onesti collaboratori come il compianto consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, morto di crepacuore. Vergognatevi, scribi della malora.

Magistratura, il vizio di fare politica delle toghe comincia con Tangentopoli: ecco la vera storia. Francesco Carella su Libero Quotidiano il 24 aprile 2021. Il recente rinvio a giudizio dell'ex ministro dell'Interno con l'accusa di sequestro di persone in relazione alla vicenda della nave Open Arms di fatto trasforma una legittima decisione di governo in un reato penale. Vi è poco da stupirsi. Si tratta solo dell'ultimo capitolo di un conflitto fra la giurisdizione e la politica aperto da decenni e che rischia di lesionare in profondità le istituzioni liberaldemocratiche del nostro Paese. Per capirne di più, occorre partire dalla stagione della "grande slavina", quando a mezzo di un'incessante azione della magistratura in poco più di un anno, tra il '92 e il '94, finiscono sotto inchiesta, per violazione delle norme sul finanziamento pubblico ai partiti, 385 deputati e 155 senatori dell'allora maggioranza di governo. In quei mesi, in Italia accade qualcosa di unico e che non trova riscontro in alcun Paese democratico, ovvero si realizza, in seguito alle inchieste di un gruppo di magistrati inquirenti, una radicale e violenta alterazione della rappresentanza politica con l'eliminazione dalla scena pubblica di tutti i partiti che avevano contribuito alla stesura della Costituzione e alla realizzazione del miracolo italiano in forza del quale il Paese passò in pochi decenni dalle macerie del Secondo conflitto mondiale a un ruolo di primo piano fra le maggiori potenze industriali dell'Occidente. A partire da quel biennio nulla sarà più come prima. Lo svolgimento della vita politica nella sua articolazione classica scandita da "elezioni - formazione di una maggioranza - sovranità della decisione politica" verrà condizionato pesantemente nei tempi e nei modi dagli interventi delle Procure. Eppure, vi fu chi nella tempesta di quei mesi intuì che la crisi in cui versava il Paese fosse di carattere sistemico e che, come tale, richiedesse una soluzione parlamentare in luogo di quella giudiziaria. Ciò non fu possibile, principalmente a causa dell'opposizione degli eredi del Pci. Si preferì cavalcare l'onda giustizialista, consentendo un'abnorme dilatazione delle funzioni giurisdizionali, convinti di poterne trarre benefici elettorali e non solo. Del resto, timori per finanziamenti illeciti e fenomeni corruttivi ve ne erano molti nel Partito comunista e non solo per l'ingente flusso di denaro proveniente dall'Urss. Lo storico Guido Crainz in Il Paese mancato. Dal miracolo economico agli anni '80, documenta che già nel marzo '74, nel corso di una direzione, il responsabile del bilancio, Guido Cappelloni, dice di essere «molto preoccupato sulla capillarità della corruzione che coinvolge anche il nostro partito». In quell'occasione così si espresse Armando Cossutta: «C'è un inquinamento nel rapporto con le amministrazioni pubbliche nel quale c'è di mezzo l'organizzazione del partito e poi ci sono dei singoli che fanno anche il loro interesse». Preoccupazioni che vengono risolte in parte con la legge di amnistia del 1989 e in parte scegliendo di agevolare lo sviluppo di ciò che Tate e Valinder chiamano «giudiziarizzazione della politica», ossia «lo spostamento delle competenze decisionali dal legislativo e dall'esecutivo verso i tribunali». Questo, per sommi capi, il contesto storico-politico in cui maturarono i due grandi fenomeni che ancora oggi condizionano la vita pubblica del Paese: la «politicizzazione della magistratura» - con l'inevitabile «perdita di quell'immagine di neutralità senza la quale non può esservi fiducia nella giustizia» - e la strumentalizzazione delle inchieste da parte della sinistra, al fine di eliminare quegli avversari che sul terreno politico non si è in grado di sconfiggere. È accaduto con il leader socialista Bettino Craxi e poi con Silvio Berlusconi, mentre ora si cerca di ripetere l'operazione nei confronti di Matteo Salvini. L'Italia scivola, in tal modo, verso una «democrazia giudiziaria». Uscirne sarà impresa difficile.

Storia e congiure. Così è nato l’uso politico della giustizia: da D’Artagnan e l’arresto di Fouquet ai giorni nostri. Alessandra Necci su Il Riformista il 13 Aprile 2021. “Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini e vi troverò materiale sufficiente a farlo impiccare”. Questa frase, pronunciata dal cardinale Richelieu, riassume il senso della giustizia politica. O meglio, dell’uso politico e strumentale che il potere può fare della giustizia. Non a caso descrive un’attitudine valida sotto ogni regime e in ogni epoca. Compresa quella attuale, come ben sa chi conosce le vicende che hanno accompagnato gli ultimi trent’anni della nostra storia nazionale. Certo oggi la pena di morte non esiste più, ma ci sono molti modi di infliggere una condanna alla morte civile, a una forma di ostracismo in patria o addirittura alla damnatio memoriae. Bastano quelle poche righe estrapolate di cui parlava Richelieu. Poiché, come diceva Benedetto Croce, “la storia è sempre storia contemporanea”, nel passato si trovano esempi indiscutibili di una tendenza che attraversa i secoli e ha qualcosa a che fare con una forma di assolutismo, di potere che rifiuta ogni controllo, respingendo quella bilancia che garantisce equilibrio alla democrazia. E per la quale strumento irrinunciabile è – o dovrebbe essere – una stampa libera e coraggiosa, mossa dal desiderio di cercare la verità e non la semplice conferma di pretestuosi teoremi. Né tanto meno dalla vocazione interessata a sostenere gruppi più o meno forti. Un archetipo in tal senso è Nicolas Fouquet, Sovrintendente delle Finanze di Mazzarino e Luigi XIV. Nato a Parigi nel 1615, proviene dalla noblesse de robe, la “nobiltà di toga” che si è arricchita con il commercio e poi ha acquistato per i propri rampolli delle cariche pubbliche. Laureato in diritto alla Sorbona, viene nominato grazie a Richelieu consigliere al Parlamento di Metz, quindi “relatore ai ricorsi”. Nel 1642 il “gran cardinale” muore e Giulio Mazzarino prende il suo posto come Primo ministro. Ė lui, insieme ad Anna d’Austria, a governare la Francia in nome del piccolo Luigi XIV. Durante la reggenza, però, i Grandi si fanno più facinorosi; il Parlamento di Parigi (composto da magistrati, non da parlamentari), che amministra la giustizia per conto del sovrano, diviene più potente e geloso delle proprie prerogative. Dopo poco, inizia la ribellione conosciuta come “Fronda”. Uno dei problemi maggiori, per la corona, è trovare denaro, necessario per fare la guerra, difendersi, pagare amici e nemici, distribuire prebende, mantenere il re e la corte. Il sistema finanziario è anacronistico, incapace di “una previsione di spesa”, ovvero quella che chiameremmo una finanziaria. Non esiste una Banca di Francia, né un vero ministero del Tesoro: le entrate non sono sufficienti, per cui il sovrano è spesso costretto a ricorrere ai banchieri, che gli prestano i soldi a tassi elevati. Può succedere che la monarchia non sia considerata affidabile; allora i banchieri concedono il prestito a colui che offre maggiori garanzie ed è quest’ultimo a dare i soldi al re, correndo grandi rischi ma ricavandone ampi utili. In questa “finanza creativa”, dove non mancano neppure i “titoli spazzatura”, le tasse vengono mangiate con anni di anticipo ed è necessaria un’abilità da prestigiatore perché il sistema non collassi. Mentre la guerra civile impazza, Mazzarino è costretto due volte all’esilio; la regina e il re bambino alla fuga da Parigi. Fra colpi di scena ben descritti da Alexandre Dumas, un uomo si impone, rendendosi insostituibile nel reperire le risorse necessarie allo Stato e poi nel porre le condizioni per la sconfitta del Parlamento: Nicolas Fouquet. Sempre lui aiuta il cardinale ad ammassare un’immensa fortuna. Per premio, nel febbraio 1653 viene nominato Sovrintendente delle Finanze. Inizia la fase di apogeo dello “Scoiattolo”: l’emblema dei Fouquet, infatti, è uno scoiattolo insieme alla divisa Quo non ascendet, “Fino a dove non salirà”? Un motto imprudente, ma che si addice al proteiforme, intelligente, abilissimo Nicolas, ovvero Monsieur le Surintendent. Fastoso, brillante, generoso, visionario, gran signore, colto, protettore delle arti, estimatore delle belle donne, capace di geniali intuizioni, Fouquet “il Magnifico” costruisce in quegli anni il castello di Vaux-le-Vicomte. In giro si dice che “ospiti il Perù a casa sua”: risponde solo al re, le spese di questi passano per lui. Ė Fouquet che firma per autorizzare le ordinanze di pagamento, sempre lui quello a cui i banchieri prestano i soldi. Inoltre, è procuratore generale del Parlamento. C’è però un rovescio della medaglia: tanta luce, tanto consenso gli attirano invidie feroci. Fra coloro che lo detestano c’è un oscuro commesso di Mazzarino, Jean-Baptiste Colbert, che vuole prenderne il posto. Nemmeno il cardinale, che gli deve tutto, lo ama davvero ma si guarda bene dal palesarlo. Si limita a porre le premesse per la caduta successiva, diffamandolo presso il re. Lo spartiacque è quel 9 marzo 1661 in cui “l’italiano” muore. Per Luigi XIV, ancora lontano dall’essere il re Sole, è il momento della “presa di potere”. Come dice lui stesso, “la faccia del teatro cambia”. Fouquet non se ne rende conto, anzi spera di essere nominato Primo ministro e non ascolta le voci allarmanti. Nella manciata di mesi in cui si consuma la sua perdita, Colbert riesce a “contaminare” il re con il suo odio feroce, convincendolo che il Sovrintendente è troppo potente, sa troppe cose e va eliminato. Luigi XIV, dal canto suo, ha dimenticato le prove di lealtà che questi gli ha dato e ne patisce la superiorità, i talenti. Inoltre, l’illecito arricchimento di Mazzarino necessita un capro espiatorio: non si può fare un processo al cardinale defunto, ma a Fouquet sì. La carica in Parlamento resta uno dei pochi “scudi di protezione”, poiché equivale a una “immunità”, tuttavia Colbert convince Fouquet a venderla, con la scusa che il sovrano ha bisogno di soldi. L’ingenuo cade nella trappola, manda il ricavato a Luigi XIV e questi, fregandosi le mani, esclama: “Si è messo in trappola da solo!”. L’ultima pennellata viene data quando il re va alla meravigliosa festa che il 17 agosto 1661 il Sovrintendente offre in suo onore a Vaux-le-Vicomte. Commenterà Voltaire: “Alle sei di pomeriggio Fouquet era il re di Francia, alle due del mattino non era più nulla”. Il 5 settembre viene arrestato a Nantes dal luogotenente dei moschettieri d’Artagnan. Inizia così un lunghissimo calvario giudiziario, che lo porta a peregrinare per anni in diverse carceri – “carcerazione preventiva” – senza nemmeno sapere di cosa sia accusato. Nel frattempo Colbert falsifica le prove, assiste senza averne diritto alle perquisizioni, avalla le peggiori nefandezze. Quando finalmente comincia il processo, la “Camera di giustizia” scelta per giudicare l’ex Sovrintendente è stata composta dai suoi nemici, i testimoni vengono corrotti o intimiditi, sui giudici si esercita una forte pressione, l’opinione pubblica viene montata con articoli scandalistici, false rivelazioni e delazioni ad arte. I capi di imputazione sono tantissimi ma alla fine si riducono a peculato e lesa maestà. Gli abusi commessi dalla corona sono tali che alla fine l’opinione pubblica e persino i giudici si convincono del fatto che Fouquet è soprattutto un capro espiatorio. E così, invece di condannarlo a morte come vorrebbe Luigi XIV, i magistrati optano per il bando a vita, dichiarandolo colpevole di peculato. Folle di rabbia, il re avoca a sé la sentenza, smentendo i giudici scelti da lui stesso, e la muta nel carcere a vita e nel sequestro dei beni. La sua vendetta si abbatte su quei magistrati che non sono stati abbastanza compiacenti e che cadono in disgrazia. Lo Scoiattolo viene lasciato in carcere a Pinerolo per circa vent’anni, nonostante le infinite pressioni dei letterati e di molti importanti personaggi perché venga liberato. Lì morirà, nel 1680. Commenta Saint-Simon: “Monsieur Fouquet… pagò i milioni che il cardinale Mazzarino aveva preso, l’invidia di Le Tellier e Colbert, un po’ troppa galanteria e splendore con 34 anni di carcere a Pinerolo, perché non avevano potuto fargli di peggio”. (In realtà gli anni di carcere erano 19, ndr). Nulla di nuovo sotto il sole, del resto. Era già capitato, sarebbe capitato ancora.

·        L’Astensionismo.

L'astensione boom alle comunali. Astensione boom alle comunali è il grido dei diritti sociali negati. Astolfo Di Amato su Il Riformista il 28 Ottobre 2021. Enrico Letta ha vinto il seggio alla Camera dei deputati ottenendo il voto favorevole di poco più del 17% degli aventi diritto al voto. Difatti, alle elezioni suppletive del collegio di Siena ha partecipato appena il 35,65 degli elettori. A Roma, i votanti al ballottaggio sono stati solo il 40,68% degli aventi diritto. Gualtieri, quindi, è stato eletto da meno del 25% degli aventi diritto al voto. Termini numerici analoghi segnano le elezioni della più gran parte degli altri primi cittadini. Il dato dell’astensione è ancora più impressionante, poi, se lo si confronta con il clima infuocato in cui si è svolto, prima delle elezioni, il dibattito sul fascismo e l’antifascismo e, prima ancora, quello sulla legge Zan. Temi identitari, che avrebbero dovuto, nelle intenzioni di chi ha alzato i toni, mobilitare il popolo degli elettori. Così non è stato. Inevitabile, perciò, chiedersi cosa stia succedendo e porsi la domanda, come ha fatto Paolo Mieli sul Corriere della sera (21 ottobre), “e se decidessimo di non andare più a votare?”. Fausto Bertinotti, su questo giornale (23 ottobre), ha scritto che ci si trova di fronte a un fatto politico clamoroso, costituito dal dato che la maggioranza degli aventi diritto al voto, per la precisione il 56%, non ha votato. È un fatto politico che segnala un “incendio, in questo caso l’incendio è della democrazia rappresentativa”. Ridurre la questione alla palese inadeguatezza di molti candidati del centrodestra è del tutto insoddisfacente. Si tratta di un aspetto che spiega il loro flop elettorale, ma che non offre alcuna utile chiave di lettura per comprendere il dato complessivo di una astensione così massiccia. Se Enrico Letta, segretario acclamato di un partito importante e radicato come è il Partito Democratico, è eletto con appena il 17% degli aventi diritto al voto, appare evidente che il tema dell’astensione riguarda tutti, vinti e vincitori. È l’intero sistema democratico, come sottolinea Fausto Bertinotti, a essere in crisi. Una causa decisiva è certamente stata la progressiva e inarrestabile riduzione della sfera di azione della politica. Viene, in particolare, in evidenza il capitolo, amplissimo, dei diritti sociali. Essi sono gradualmente spariti dall’agenda politica, man mano che si è andata affermando la globalizzazione. Questo è avvenuto per due ragioni diverse, ma convergenti. Da un lato, la globalizzazione è stata vista da molti, e tra questi da larga parte della sinistra, come la nuova età dell’oro, che avrebbe portato ricchezza e benessere a tutti. In questo senso ogni riferimento ai confini nazionali è stato visto come un ostacolo alla globalizzazione e, perciò sacrilego. La globalizzazione è stata come un fiume in piena, al quale è stato consentito di travolgere qualsiasi resistenza. Quando poi ci si è resi conto che la globalizzazione non era un ballo di gala, ma un fenomeno complesso e spesso con conseguenze disumane, quali quelle determinate dalle delocalizzazioni e dalla competizione tra poveri, la politica si è scoperta troppo debole per avere un reale potere di governo del fenomeno. Non avere un potere di governo sull’economia significa non avere un potere di governo dei diritti sociali. Il grado di soddisfacimento di questi ultimi, difatti, è l’indicatore più qualificato di quale sia l’indirizzo reale di un determinato governo. In Italia, poi, la situazione è ancora di più aggravata dall’altissimo debito pubblico, che non consente interventi realmente significativi. A ben vedere, gli ultimi tentativi della politica di incidere sui diritti sociali sono stati i provvedimenti sul reddito di cittadinanza e sul regime pensionistico che va sotto il nome di quota 100. Al di là di ogni considerazione sulla coerenza e sulla adeguatezza di tali misure, le riforme che si annunciano su questi temi appaiono dettate, più che da una valutazione di carattere politico-sociale, dall’esigenza di adeguarsi alle regole economiche imposte dalla globalizzazione. Nel momento in cui il dibattito politico sui diritti sociali appare largamente privo di contenuti concreti, viene automaticamente a sparire dal suo orizzonte uno dei temi fondamentali per la concreta vita di ciascun cittadino. È sempre più diffusa la consapevolezza che, quale che sia il voto, nulla mai potrà cambiare in un mercato, divenuto ormai il centro dell’esistenza di ciascuno, in cui le regole sono determinate in altre sedi. Ecco, allora, che la politica diventa un luogo vuoto, visto nella prospettiva delle esigenze di vita di ciascuno. Né un tale vuoto può essere riempito spostando l’attenzione sui diritti civili e sui temi della giustizia. Gli uni e gli altri sono argomenti certamente importanti, ma che riescono a svilupparsi appieno solo dopo che i diritti sociali siano stati adeguatamente soddisfatti. Ma se si guarda ad una situazione quale l’attuale, nella quale nuove povertà e diffusa precarietà dominano l’orizzonte, nella quale l’incertezza è l’unica chiave di lettura del futuro e nella quale vi è la consapevolezza che si tratta di temi su cui la politica non è in grado di incidere, non ci si può meravigliare del fatto che la politica sia sentita sempre di più distante e non in grado di appassionare i cittadini. Affinché, allora, la politica riaccenda l’interesse dei cittadini e così restituisca vitalità alla democrazia, è necessario che si riappropri del potere di decidere. E, se il potere di decidere si è ormai collocato a livello sovranazionale, a seguito della globalizzazione, è necessario che anche la politica si porti a quel livello. Oggi, si assiste ad uno strano fenomeno. Le sedi nelle quali si decidono i destini di tutti, come collettività e come singoli, sono gli organismi di carattere internazionale, dalla Organizzazione mondiale del Commercio (WTO) alla Organizzazione mondiale della Sanità (WHO). Si tratta, tuttavia, di organismi dominati dalla burocrazia, ai quali la democrazia non ha accesso. La stessa Unione europea, del resto, ha nel deficit di democrazia, che segna le sue istituzioni, il proprio maggiore tallone di Achille e la causa prima dell’inesistenza di un sentire comune europeo. Occorre che la politica, tutta, cessi di essere sovranista, nel senso di guardare solo ai confini della propria nazione, e diventi consapevole che potrà riprendere realmente il governo della vita degli individui se riuscirà ad esprimersi ad un livello adeguato ad affrontare i temi posti dalla globalizzazione. Una politica ristretta nei confini nazionali è una politica impotente e, come tale, non può essere coinvolgente per i cittadini. Questo è un pericolo per la democrazia. Astolfo Di Amato

Crisi della democrazia e astensione. Astensionismo contro la crisi della democrazia, la politica ha abbandonato il popolo. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 24 Ottobre 2021. “E se decidessimo di non votare più?”. La domanda, tutt’altro che non formulabile, apre l’editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera del 21 ottobre. Si potrebbe dire, anzi, che essa vive in un’attesa non dichiarata, perché non dichiarabile, di una parte dell’opinione pubblica che conta. È l’altra faccia dell’astensione di massa emersa col voto delle amministrative. In esso, il fatto politico c’è tutto: il 56% degli elettori non ha votato, cioè non ha votato la maggioranza dei rappresentati. Si può provare a passare oltre, ad accantonare il fatto, ma i fatti hanno la testa dura. C’era già stato chi suggerisce di “sopire, troncare, padre molto reverendo, troncare, sopire”. Se il fatto è un segnalatore di incendio, in questo caso l’incendio è della democrazia rappresentativa, e allora esso diventa indicativo proprio del problema di società che ci sta dinanzi. Difficile certo da accettare perché chiede alla politica un cambio del suo intero impianto teorico-politico. Se è accolto, infatti, esso condurrebbe ad accettare che la fine del secondo dopoguerra si è compiuta e che siamo di fronte a una crisi di una concezione della democrazia rappresentativa, quella che si era affermata e spinta oltre i confini dettati dalla rivoluzione liberale, illuminata dall’orizzonte di quella democrazia progressiva inscritta nella Costituzione, fondata sulla partecipazione e sull’inclusione dei ceti fin lì esclusi: i ceti popolari. Finita quella storia, il gambero è ormai prossimo alla sua meta, ridurre la democrazia al suo simulacro. Nell’analisi del voto, ogni sforzo di ridurre a fisiologia una crisi patologica non regge. Il voto amministrativo è diverso da quello politico, ma quanto diverso oggi rispetto alle dinamiche di fondo? Il ballottaggio, nel quale si è registrato un ulteriore crollo della partecipazione, ha sempre visto una flessione ulteriore, ma qui già il primo turno aveva mostrato l’abbandono. Andrebbe anche ricordata la retorica sulla democrazia dei sindaci, quella con un sistema elettorale che avrebbe dato luogo direttamente al riconoscimento del vincitore e alla stabilità del governo. Ora, è questa nuova frontiera a franare. Ancora più evidente è il dato saliente del primo turno. Tra i poveri, tutti i diversamente poveri, c’è il maggiore rifiuto del voto. Mentre si profila così una democrazia di censo, in un sistema che mostra una forte vocazione al governo tecno-oligarchico, si acutizza nella società un’altra linea di faglia. L‘interrogativo di Paolo Mieli vive, seppur sorvegliato affinché non diventi politico, quindi direttamente espresso, in un atteggiamento presente tra una quota non trascurabile dei votanti che si riassume così: la politica dei partiti ha condotto alla crisi della politica, il Parlamento mostra ormai tutta la povertà della sua rappresentanza, allora teniamoci per l’oggi, e magari anche per il domani, l’uomo della necessità. Appunto, non una scelta, ma una delega. Così è stato salutato l’esito del primo turno con un “ha vinto Draghi”. Tra il popolo degli abissi che ha animato il non-voto, il disagio sociale, le inquietudini, le difficoltà del vivere quotidiano hanno portato a tutt’altra propensione, una propensione che oscilla tra l’indifferenza dell’abbandonato che, a sua volta, abbandona, e il rancore. Lo Zingarelli ci dice, tra l’altro, che il rancore è un sentimento di astio per un torto ricevuto. Il punto è proprio qui: per un torto ricevuto. Viene sempre in mente quando ci si interroga sulla crisi del rapporto tra la politica e il popolo, la domanda di Thomas Eliot: “È la chiesa ad aver abbandonato il popolo o il popolo ad aver abbandonato la Chiesa?”. È una domanda capitale per la politica. In questo nostro tempo, tempo lungo ormai più di un quarto di secolo, è la politica ad aver abbandonato il popolo, e il popolo, abbandonato a sé, si è disunito, disarticolato, disgregato fino a configurarsi come un insieme di individui che abitano nel mercato. Nella crisi della politica, nella sua separazione dal popolo, un discorso a sé, di enorme portata, richiederebbe il rapporto tra le sinistre e la classe operaia, la vicenda del Movimento operaio. È un discorso irrinviabile e senza far luce sul quale, anche il primo, quello tra la politica e il popolo, è destinato a restare muto. Vale, secondo me, anche per lui la risposta data al quesito di Eliot. Le crisi dell’ideologia e delle grandi istituzioni del Movimento operaio hanno lasciato la classe operaia senza la coscienza di sé, senza la coscienza di classe, e senza le sue grandi istituzioni. Restano sul campo, ridimensionati, gli operai, immersi tra le lavoratrici e i lavoratori che formano una compagine destrutturata, che va dalla schiavitù alle altre professioni, passando per quella precarietà, se ce n’è una, che se ce n’è una, è la cifra del nuovo mondo del lavoro, colpita da tanti torti, con tante ragioni negate o compresse, senza che possano per ora prendere la forza di una coalizione e di un programma. Eppure, è lì, in quel crogiuolo di lotte, che vanno cercati i sentieri oggi e le strade domani, di un nuovo protagonismo sociale e politico, senza farsi impedire nella ricerca dalle contraddizioni interne e da esperienze che persino si negano e contraddicono la ricerca di un impegno per l’uguaglianza. Questi c’erano persino ai tempi dell’ascesa del Movimento operaio, figurarsi ora! Ora, il ventaglio del mondo del lavoro arriva sino a comprendere gli opposti. La lotta di Trieste, appunto, non è quella dei campi di Bisenzio, dico di un luogo e non di un soggetto, i portuali di Trieste, perché mi convince molto l’analisi che sulle vicende ha condotto uno studioso della competenza e della qualità come Sergio Bologna, che ha saputo vedere la differenza tra il conflitto sindacale incentrato sul lavoro e la mobilitazione politica della piazza. Quella lotta, su cui riflettere criticamente, è l’opposto di quella dei lavoratori del Gkn, del loro collettivo di fabbrica, e della loro capacità di socializzazione del conflitto. Si tratta di due forme di politicizzazione del conflitto tra loro opposte, delle quali una sola è promettente. Entrambe, però, parlano del lavoro politico da fare per la ricostruzione di una sinistra sociale e politica che affronti la grande contesa, ma non si può sfuggire alle domanda: perché la sinistra politica non c’è né là, né qua, e non si vede neanche attivare con il lavoro politico che ha nomi storici, come l’inchiesta partecipata, o nomi nuovi da trovare per definire pratiche nuove di contestazione, di contrattazione, di autogoverno e di contropotere? Forse, perché persino negandoselo c’è chi pensa, problematicamente, alla domande del Corriere della sera, o forse perché i risultati delle elezioni delle diverse forze politiche inducono al contrario a tornare, con ancora maggiore convinzione, al problema del governo, del proprio governo. Il centrosinistra vince, le destre perdono di brutto, il populismo politico diventa gregario, Draghi resta indispensabile, ma potrebbe rivelarsi utile anche in un altro ruolo rispetto a quello attuale, quello di garante verso l’Europa, verso l’economia e le finanze interne, verso le classi dirigenti del Paese, garante nei confronti di un governo di centrosinistra sul solco tracciato da questo stesso suo governo. Dimenticato l’astensionismo di maggioranza, omesso il conflitto sociale, assunta la tesi che la ripresa economica sgocciolerà fino a lenire il disagio sociale, torna o almeno fa capolino il vizio assurdo della sinistra politica, di una sinistra senza popolo, cioè l’ossessione del governo. Se, al contrario, guardi a come il popolo si è espresso nel non-voto, se guardi al disorganico ma risorgente conflitto del lavoro, se guardi alla complessa e contraddittoria dinamica dei movimenti, mai riducibili a uno, non puoi non vedere che quella è una via senza rinascita e che invece la cifra dura della realtà è l’instabilità. L’instabilità è nei processi di fondo che attraversano il mondo e l’Europa, ma l’instabilità è anche nella relazione incertissima tra una politica separata e debole e dall’altra parte una dinamica imprevedibile dei movimenti di fronte alla crisi sociale ed ecologica. Quel che è evidente è la loro natura complessa, plurale, articolata, in cui si mescolano il grano e l’olio. Il loro carattere è discontinuo, carsico. Si separi da loro, com’è necessario, l’infiltrazione, l’orrenda azione neofascista, che è un fenomeno a sé, da combattere come tale e per il suo retroterra sempre inquietante, resta ciò che deve restare. Resta l’insieme delle lotte che possono su un fatto imprevedibile diventare movimento. Non si danno servitori a due padroni: governabilità e conflitto non stanno insieme. Per la prima, le soluzioni sono più dure, ma ormai dentro un quadro circoscritto al cui interno c’è l’assetto tecnico-oligarchico. Per rinascere, la sinistra dovrebbe collegarsi fuori da questo quadro. Verso dove, lo ha suggerito bene Judith Butler, quando l’ha indicato in un certo noi: “Il “noi siamo qui”, che traduce la presenza corporea, collettiva, può essere reinterpretato come “noi siamo ancora qui”, nel senso di “non siamo ancora stati gettati via”. Non ci siamo silenziosamente rintanati nell’ombra della vita pubblica”.

Fausto Bertinotti. Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.

L’astensione spiegata da Squid Game. Michela Murgia su L'Espresso il 25 ottobre 2021. La serie tv coreana ci mostra un mondo di disperati senza prospettive. Per loro non ha senso l’idea che votando possano cambiare le loro vite. La prima volta che andai in Cina lo feci, come molt*, con la presunzione eurocentrica di chi viene da un paese democratico e pensa di poter guardare con superiorità evolutiva a tutti i sistemi governati in modo politicamente meno partecipato. Mi bastò una settimana di conversazioni con le persone del posto per abbassare la cresta della spocchia occidentale e comprendere che quello che chiamiamo democrazia è marxianamente una sovrastruttura, molto più conseguenza che non causa, e che è segno di poca consapevolezza civica dare per scontato che chi vive in contesti gestiti con altri metodi sia automaticamente una persona oppressa che “vorrebbe essere noi”. A distruggere ogni ingenuità in merito è sufficiente il dato dell’astensione italiana alle ultime elezioni, nelle quali una persona su due non ha votato. Nelle grandi città, a non tirare nemmeno fuori il certificato elettorale sono state addirittura sei persone su dieci. Per alcun* è un episodio di disamoramento, ma per moltissim* altr* è una prassi da anni, una delle poche evidenze misurabili del silenzioso disinteresse collettivo a tutti gli aspetti della partecipazione alla gestione della cosa pubblica. Ricordo ancora le parole del funzionario statale pechinese, che sulla sovrastima del desiderio di partecipazione civica mi disse con serenità: «Il nostro sistema garantisce sicurezza sociale e un’economia forte. Mi creda se le dico che le persone che vogliono qualcosa di diverso da un governo non sono molte da nessuna parte». Allora provai a smentirlo con slancio, ma oggi sono costretta a domandarmi cosa succederebbe se fermassi dieci persone in una strada qualunque di una città italiana a caso e chiedessi loro a bruciapelo se preferiscono avere stabilità economica o diritti politici. Avrei paura di scoprire quanto sia più che probabile un’alta percentuale di risposte sulla prima opzione. Se siete capitati nelle pieghe narrative della serie tv del momento, la coreana “Squid game”, la questione vi sarà stata posta attraverso un brillante espediente inserito in una sceneggiatura che non ne ha molti altri. Non c’è niente di innovativo nell’idea di un gioco al massacro tra poveri per il divertimento dei ricchi: dai giochi del Colosseo a “Hunger Games”, passando per “Running man” o “La lunga marcia”, la messa in scena distopica della lotta sociale per la sopravvivenza è un topos narrativo più che consunto. “Squid Game” però aggiunge al già visto qualcosa di più e di peggio: mettendo in scena sin troppo didascalicamente come funziona il sistema del debito in Corea, inserisce per gli sventurati partecipanti al gioco mortale anche la possibilità di votare l’ipotesi di uscirne. Lo fa attraverso un meccanismo brutale a due sole opzioni che ricorda le dinamiche della piattaforma Rousseau, o volendo cercare esempi più nobili, quelle del processo pilatesco con scelta diretta tra Gesù e Barabba. Il dato interessante è nel risultato: che i partecipanti scelgano di uscire dal gioco oppure no, la loro condizione sostanziale di condannat* a morte non varia. O vengono uccis* sul colpo perdendo una delle sfide infantili della competizione, o moriranno comunque fuori da lì, disperandosi nelle spire del debito in una società capitalista iper competitiva come quella coreana, dove non esiste un welfare nel senso europeo del termine. La possibilità di votare e la politica stessa vengono così descritte come un epifenomeno, qualcosa che in condizioni di forte dislivello economico in realtà non serve a niente, anzi offre al meccanismo mortale la certificazione illusoria di essere agito con il consenso delle persone condannate. Per molt* questo è già vero anche in un paese democratico come il nostro, dove la scelta elettorale è percepita come parte di un meccanismo narrativo finzionale: andare a votare e chiedersi se vincerà una destra o una sinistra appare un intrattenimento come un altro, il lusso sfizioso di chi non convive con la paura ben più radicale di perdere tutto. Quella di “Squid Game” sembra una distopia solo a chi non ha sperimentato i limiti di una società che non perdona il fallimento: per tutt* gl* altr* è banalmente la realtà.

Le tv e il sottobosco politicante lontani dal Paese concreto. Paolo Guzzanti Il Quotidiano del Sud il 19 ottobre 2021. CHIUSA la Guerra dei Trent’anni contro l’Italia liberale rappresentata da Berlusconi che pagò il fio per aver impedito al PCI di Achille Occhetto ribattezzato in corsa Pds di conquistare il potere dopo la disfatta a e la cancellazione dei partiti repubblicani dalla scena politica, è arrivata la nuova guerra. Ciò che è accaduto e sta succedendo in queste ore a Trieste, dopo i fatti di Roma nella sede della CGIL e degli anarchici dei centri sociali di Milano e di Genova, mostra i primi scontri della nuova guerra, che è una guerra contro il riformismo calmo e vincente di Draghi e che è anche una guerra di servizi segreti, agenti provocatori e agenti di altri Paesi, come è inevitabile che accada. I protagonisti dello scontro sono dunque due: Draghi con l’Europa, da una parte; e un fronte magmatico e non definito che ha scelto di travestirsi occasionalmente da no Green Pass, e che nel recente passato è stato di volta in volta “No Tav”, o ha preso le mosse dai vertici dei G8 con l’arrivo di lanzichenecchi stranieri, fra cui io Black Bloc della ex Germania comunista ed altre ancora. Ma al centro dello scontro stanno le televisioni italiane i social più influenti. Nei casi migliori queste entità dedite ai talk show ma non all’informazione perseguono come unica fonte legittimante, la percentuale degli ascolti televisivi che si conoscono alle 10 del mattino successivo. La guerra ha sullo sfondo lontano i due antagonisti travestiti in maniera confusa: il riformismo accelerato e intransigente del governo Draghi e come suo nemico la resistenza alle riforme. Apparentemente lo scontro ha preso anche le forme di nuova destra smaniosa di menar le mani gridando “Libertà” specialmente quando si tratta di negarla agli altri. E di una sinistra che sostiene il governo ma che già dà in smanie perché sul campo ci sono comunque i lavoratori che non agiscono più come forze progressive, ma come corporazioni lese nei loro interessi da tutto ciò che si è abbattuto sull’Italia: lockdown, mascherine, tavoli a rotelle, monopattini e piste ciclabili. La politica parlamentare, benché ciò sfugga per lo più alle cronache e alle analisi di là è fatta di poche quercia e un grande sottobosco in cui brulicano piccoli nani e curiosi mostri, i quali di mestiere fanno la politica politicante ovvero pongono taglie, ricattano, chiedono compensi, pongono condizioni, minacciano fratture, danno segni di nervosismo pur di apparire vivi sulla scena e tutto questo accade più o meno da sempre anche con un certo successo. In tutti i governi del passato questi elementi brulicanti e ricattatori hanno riscosso il loro compenso e hanno definito sé stessi la dimostrazione della democrazia invita. Quando Draghi si è insediato a Palazzo Chigi dopo un periodo di tempo abbastanza breve, si è capito di che cosa si tratta: un uomo che pensa in inglese, che ha un piano preciso delle cose da fare con un ordine in cui devono essere fatte e che non si lascia intimidire nel ricattare. D’altra parte, non è neanche un uomo che faccia sfoggio di muscolatura, accetta di rifinanziare persino il reddito di cittadinanza, cerca di dare ascolto a tutte le voci politiche presenti nella sua maggioranza, ma in definitiva decide lui virgola e le cose vanno come lui ha deciso. Questo è quanto ha più volte confermato ad esempio Giorgetti, il numero 2 della Lega che guida una massa di elettori che formano la borghesia imprenditoriale del nord est e in parte anche del nord ovest. Ciò manda nel panico la politica politicante che ha cercato di alzare il prezzo delle sue richieste pur di poter seguitare ad esistere. La politica della vaccinazione e del Green card hanno suscitato effettivamente malumori corporativi in gran parte del paese perché non tutti sono disposti a sacrificare la propria libertà capricciosa in nome di un bene comune come accade in altri paesi più avvezzi all’identità collettiva. Si è creato quindi un terreno limaccioso e scivoloso che però è apparso come un terreno di coltura molto fecondo per tutti quei politici che non hanno proprie idee ma soltanto uno spirito di opportunismo che li porta a cavalcare la tigre quando passa, salvo saltare su un’altra che corre nel senso contrario appunto. Ciò prodotto un clima di guerra fredda interna che costituisce un tessuto infetto sul quale corrono nuovi germi e nuovi interessi sprezzanti. Qui, si trova latente e allo stato brado una collettività che si usa chiamare violenta ma che in realtà è composta da approfittatori notturni capaci di trarre giovamento oh piacere soddisfazione oltre che voti occasionali. Abbiamo visto il crollo del Movimento 5 stelle in cui erano confluite tendenze aggressive ed anarcoidi che di tanto in tanto costituiscono il grande mal di pancia italiano e poi ne abbiamo viste rientrare nell’alveo dei partiti di origine che in pratica sono stati soltanto uno, il partito democratico perché il centrodestra sembra avere subito una sonora sconfitta. La sconfitta è dovuta certamente alla scelta di candidati arrogantemente imposti da questo o quel leader, stiamo parlando naturalmente di Salvini e della Meloni, i quali hanno causato la catastrofe elettorale Di Milano, Roma e Torino. È inevitabile che queste falle aprono ho facilitino l’ingresso di elementi estranei ma alla ricerca dell’occasione buona per produrre le loro tossine appunto per comprendere questa circostanza occorre far riferimento alla situazione internazionale che è bruscamente cambiata giusto con arrivo di Draghi che fa seguito all’arrivo di Biden a Washington. L’America ha definitivamente abbandonato l’Europa e ha mollato l’Afghanistan, come sappiamo. L’Europa è alla ricerca disperata delle sue stesse forze morali interne per produrre ciò che non ha mai avuto, ovvero una politica estera e una consistenza militare con cui sostenerla. Draghi e il rappresentante della nuova tendenza e in questo modo si è posto di fatto alla leadership della intera Europa, mentre la Merkel esce di scena e Macron sì prepara ad affrontare elezioni con poche prospettive di vincita. La leadership di Draghi è stata Benedetta da eventi imprevedibili come le vittorie sportive e il premio Nobel a Giorgio Parisi per la fisica, si che l’Italia di colpo si trova a godere di ottima fama e anzi ad essere guardata come il paese pilota che ha scelto e imposto una politica di contenimento del virus e di imposizione delle vaccinazioni che viene oggi studiata attentamente dagli altri paesi perché i risultati indicano un chiaro successo. La Cina e la sua via della seta sono state mollate come le cime di una barca che ci portavamo dietro piena di zavorra esplosiva. I rapporti con la Russia si sono fatti tesi e ridotti sostanzialmente la politica energetica che ci riguarda tutti nel momento in cui la ripresa mondiale della produzione della ricchezza richiede di colpo un consumo di energia che non è disponibile sui mercati. Di qui la conseguenza delle crisi degli autisti di camion nel Regno unito e ora anche in Europa, la crisi dei porti a cominciare da quelli Di Genova e di Trieste dove guarda caso sono avvenuti gli episodi di ribellione più clamorosi e più opportuni per determinare una crisi negli approvvigionamenti energetici oltre che commerciali. Non ci vuole un indovino per capire che una situazione del genere e certamente aperta alle influenze di agenti esterni, il quale perseguono giustamente i propri interessi che non sono per nulla coincidenti con quelli del paese. Ecco che la politica del governo Draghi si sta mostrando man mano sempre più divisiva perché quelle che potremmo senz’altro definire le forze del male hanno trovato un pascolo insperato nelle suggestioni che passano attraverso le televisioni e i social. Queste suggestioni sono artefatte drogate, come prova il fatto che vengono date a uno a uno le presenze dei no vax dei pro vax mentre nel paese si è visto che la percentuale di coloro che sono veramente ostili sia al green card che alla vaccinazione sono una piccolissima minoranza. Ma ciò che le televisioni mostrano invece è una parità. Anzi spesso una supremazia del partito negazionista e ostile allora politica moderna riformista di ricordarsi che si moltiplica un effetto suggestivo su tutto il paese che poi determina dei comportamenti del tutto incomprensibili se non si sa prima che cosa c’è dietro. Ognuno sembra aggrappato al proprio particolare come diceva Niccolò Machiavelli e inoltre l’Italia sta dando la propria rappresentazione più vera di un paese fatto di corporazioni, di tanti ognuno per sé Dio per tutti che è stato ben descritto dai tre esemplari autori italiani dell’Ottocento: Alessandro Manzoni nella Colonna infame, Carlo Collodi nel Pinocchio, Giacomo Leopardi nel discorso sul carattere degli italiani recentemente riedito. Il carattere degli italiani è un carattere non unitario, apparentemente molto egoista, pronto all’assalto ai forni o alla diffusione della peste, incurante del bene comune e facile sia alla suggestione che alla pura finzione. Ciò sta spaccando il paese in una nuova guerra fredda in cui sono cambiati in maniera drastica i combattenti dei fronti opposti di cui uno è ben riconoscibile del governo, mentre l’altro appare come una piovra molto composita e cangiante. Forse piovra non è la parola data perché richiama l’idea della mafia mentre forse migliore sarebbe quella dei camaleonti che sanno adattarsi scomparire riapparire colpire sparire.

Da true-news.it il 18 ottobre 2021. La fotografia politica delle tornata di amministrative 2021? “Conta solo l’astensionismo” dice Massimo Cacciari a True-News commentando a caldo l’esito, che pare scontato, dei ballottaggi alle comunali. “Nessuno che rappresenta il disagio e la sofferenza delle persone”. Roma va a Gualtieri. Torino a Lo Russo e al centrosinistra. Trieste in forse e Varese al centrosinistra dopo il tentativo leghista di riconquistare la patria di Umberto Bossi e Attilio Fontana. Come che sia, c’è un solo dato politico: l’astensionismo. Nella penisola cresciuto ulteriormente e assestatosi al 50%, virgola più, virgola meno.

Cacciari: “Se fosse un referendum andrebbe annullato”

Con certe aree del Paese o quartieri dei capoluoghi dove i primi dati che arrivano dalle sezioni fotografano un ulteriore incremento dei non votanti rispetto a due settimane fa. A Roma si rischia il cappotto con meno del 45%. “A Torino l’astensionismo si concentra nelle zone di destra” spiega il sondaggista Roberto Weber. 

“Certo – risponde a distanza Massimo Cacciari – ora questo risultato verrà venduto dal centrosinistra come un grande successo ma per capire che cosa significa politicamente basta pensare che se questo voto fosse quello di un referendum sarebbe da annullare”. “Abbiamo livelli di astensione – prosegue Cacciari – da Paese in cui o funziona tutto o non funziona nulla. Secondo voi quale delle due tipologie è l’Italia?”. Secondo il filosofo ed ex sindaco di Venezia sono “il disagio dei poveri che aumentano e delle persone che soffrono a non essere rappresentato da nessuno. Le stesse aree dove il voto di protesta ha trainato la corsa di Matteo Salvini due anni fa, o quella del Movimento Cinque Stelle nel 2023 e nel 2018, ora sono diventate bacini dell’astensionismo di massa”. “Nessuno rifletterà su questo punto – chiude Cacciari – perché tanto la politica ormai se ne frega e continuerebbe a farlo anche se gli italiani a recarsi alle urne fossero 15, ma è questo l’unico elemento politico di riflessione che mi suscita questo voto”.

Francesco Floris per true-news.it il 18 ottobre 2021. Giulio Sapelli, professore ordinario di Storia economica all’Università di Milano ed editorialista, analizza l’esito del voto, dopo il secondo turno delle amministrative. “Siamo sotto il 50% di affluenza, questo conferma quello che dicevano già da tempo i sociologi americani: i ricchi votano a sinistra, i poveri a destra ma hanno smesso di andare a votare. Gualtieri ha solo il passato di sinistra, Sala non lo è per nulla. I ricchi votano per l’establishment e per le conferme. I poveri un tempo votavano contro, l’anti-establishment poteva essere di sinistra come di destra. Ora il collegamento è solo tra classi medio-alte, che non si curano più di ultimi e penultimi”. Il docente e intellettuale passa dal voto alle proteste di questi giorni. “Bisogna stare attenti all’emarginazione di questi tempi, perché i penultimi possono dare vita a gilet gialli. Esiste una tendenza in tutto il mondo, con eccezione in Germania forse, ma in Italia c’è una scollatura classista molto forte. Le proteste dei portuali di Trieste non hanno avuto esito, il porto non è stato bloccato. Rimane il segno dell’autonomia triestina, della “lista del Melone” degli anni ’70 e ‘80, un indipendentismo che è un mix di estremismi di destra e di sinistra, di residuo fiumano. Il movimento non si è diffuso in nessuna parte d’Italia, è stato un fuoco di paglia. Occorre invece sottolineare l’influenza cinese, che è enorme sul porto”. Il paese che emerge dal voto? “Esiste ancora una divisione tra città e campagna. In Italia abbiamo campagna industrializzata, Vittorio Foa parlava di ‘campagna industrializzata’, dove il contatto è stretto e la divisione sociale è forte tra ricchi e poveri. La povertà nel nostro paese sta diventando enorme”. Un voto locale che avrà conseguenze politiche, a livello locale. “Queste amministrative rappresentano un rafforzamento del governo Draghi, ‘senza formula politica’ come ha detto Mattarella, una definizione di Gaetano Mosca, un teorico dell’elitismo. Senza partiti, né formula politica, questo governo è la quintessenza del liberismo, un governo dall’alto. Qualsiasi voto è una conferma per Draghi a cui non importa degli esiti politici”. Un voto che però avrà conseguenze anche sui partiti. “Il centrodestra è stupido: non comprende quello che succede nel mondo, non comprende lo Zeitgeist del nostro tempo. L’unico è Berlusconi, ed è tutto un dire. La Lega purtroppo non è un partito di centro. Il voto rafforza il Partito democratico, ma non l’asse con il Movimento 5 Stelle. Max Weber insegna che il tempo è fondamentale: per la coalizione di governo Pd-M5s servirebbe tempo che il Movimento forse non ha, vista l’emorragia di voti che rischia di far scomparire i grillini”.

Politica sorda, popolo muto e Paese cieco. Lo dice il luogo comune, ai ballottaggi delle amministrative vanno a votare meno persone del primo turno. Claudio Brachino su Il Giornale il 18/10/2021. Lo dice il luogo comune, ai ballottaggi delle amministrative vanno a votare meno persone del primo turno. Ma oltre il luogo comune c'è il potere degli eventi. Se già al primo turno gli elettori erano pochi e i dati sull'affluenza di oggi e domani verranno confermati in sostanza (alle 19 era ferma al 26,71%) si pone un bel problema per la democrazia. Chiunque vincerà avrà vinto meno del cosiddetto partito degli astenuti. Un segnale minaccioso per la politica tutta, pacificata, in negativo, per il suo scarso fascino verso i cittadini. Ah, benedetti cittadini, sempre citati e mai compresi davvero, cosa avranno voluto dirci? Che le fragilità di Morisi messe in piazza e le inchieste a orologeria non li appassionano. Che i programmi e i candidati non sono stati in grado di farli uscire da casa, non sono stati ritenuti in grado di poter cambiare la loro realtà. La realtà di cui parliamo è quella di un Paese che sta uscendo con successo ma tra mille problemi dalla pandemia. Uno tsunami che ha riportato al centro la persona e i suoi bisogni, dal lavoro alla qualità dell'habitat, e invece la campagna elettorale che fa? Il mainstream è stato dominato dal reportage di un sito web che sente l'urgenza della pubblicazione a ridosso del primo turno e ricorre alla forza della vecchia tv generalista per il film a puntate (così da coprire anche il secondo turno) sul pericolo del nuovo fascismo, ovviamente nei partiti della destra che sono al 20% nei sondaggi nazionali. Poi l'irruzione nella sede della Cgil e la conseguente richiesta da parte della sinistra di chiudere Forza nuova ma anche Fratelli d'Italia. Nonostante Mattarella ci abbia messo una pietra tombale, preoccupati sì, angosciati no, il tormentone va avanti. Se uno vive nella periferia di una grande città, e la più grande, Roma, deve esprimere il suo sindaco domani, che gliene frega di questa nostalgia del Novecento quando nel 2021, tra i vari diritti negati, non ha neanche quello alla mobilità? Contro la cancel culture, l'annientamento dell'altro, si è schierato il più grande intellettuale americano, Chomsky, il primo che aveva parlato di democrazia rappresentativa malata quando un elettore yankee su due non si fidava più né dei democratici, né dei repubblicani. Da noi chi ha vinto al primo turno con oltre il 50% dei voti di meno del 50% dei votanti, rappresenta circa un quarto dei suoi cittadini. Questa sera la voce simbolica del popolo sarà ancora più lieve.

L'astensione alle amministrative. Elezioni comunali, intervista a Sabino Cassese: “Letta votato da un quinto degli elettori, hanno perso tutti”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 10 Ottobre 2021. Il “partito dell’astensione” cresce: un fatto “fisiologico” o un campanello d’allarme per il nostro sistema politico? A discuterne con Il Riformista, è il professor Sabino Cassese, ministro della Funzione Pubblica nel governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi, Giudice emerito della Corte Costituzionale e professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa, nonché professore di “Global governance” al “Master of Public Affairs” dell’”Institut d’Etudes Politiques” di Parigi. Tra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo i più recenti Una volta il futuro era migliore. Lezioni per invertire la rotta (Solferino, 2021); La nuova costituzione economica. Nuova ediz. (Laterza, 2021); Il buon governo. L’Età dei doveri (Mondadori, 2020); Governare gli italiani. Storia dello Stato (Il Mulino, 2019); La svolta. Dialoghi sulla politica che cambia (Il Mulino, 2019). Le considerazioni di Cassese danno conto di una preoccupazione che non ha coloriture politiche ma che dovrebbe essere presa da tutte le forze che un tempo si sarebbero definite dell’”arco costituzionale”, come un terreno di riflessione di priorità assoluta. Perché, avverte il professor Cassese, non siamo di fronte a un fenomeno contingente, legato ad una tipologia di elezioni o circoscrivibile ad un’area del paese o alle sole periferie.

Un italiano su due ha disertato le urne nelle elezioni amministrative. C’è chi minimizza, sostenendo che è un dato “fisiologico” e chi parla di un preoccupante campanello d’allarme. Come la vede, professor Cassese?

Le ultime elezioni locali, che hanno visto al voto circa un quarto dell’elettorato, hanno rappresentato una sconfitta per tutte le forze politiche…

Un’affermazione molto forte. Su cosa fonda il suo giudizio?

In primo luogo, questa sconfitta è stata registrata dalla ricerca di candidati esterni. In sostanza, i partiti hanno rinunciato al loro ruolo di formatori di una classe politica e hanno dovuto far ricorso all’esterno. In secondo luogo, la generale sconfitta si nota nella partecipazione, del 54,7%. Questa va misurata con la partecipazione alle elezioni alla Camera dei deputati, che è di circa 30 punti percentuali superiore. Ma bisogna aggiungere che a Torino, Roma, Napoli, Milano, cioè nelle grandi città, vi è stata una partecipazione oscillante intorno al 48%. Questo vuol dire che la maggior parte degli aventi diritto al voto non si è recata a votare. Questo è un segno importante perché ne deriva l’osservazione che più sono grandi le città, minore è la partecipazione. L’altro elemento negativo è costituito dalla tendenza: la diminuzione negli ultimi 10 anni alle elezioni comunali è stata superiore al 15%, mentre quella nelle elezioni del Parlamento europeo è stata di poco più dell’ 11% e quella nelle elezioni alla Camera dei deputati di poco più del 7%. Quindi, la disaffezione dei cittadini, segnata dal trend elettorale, vede in testa gli enti locali.

Qual è il portato di questa tendenza?

Questo è un segnale grave perché i comuni sono gli enti politici più vicini ai cittadini: se questi attraggono meno la partecipazione, il segnale che ne deriva é particolarmente grave. Ancor più grave il segnale che deriva dalla votazione senese, dove i votanti sono stati il 36% del corpo elettorale e i voti raccolti dal segretario del Pd il 50% di questi. Ciò vuol dire che il segretario di uno dei maggiori partiti è stato votato da meno di 1/5 dell’elettorato. Se la democrazia è il governo della maggioranza, questo è un pessimo segno.

I 5 Stelle avevano saputo intercettare il malessere e la rabbia sociale che covava dentro la società, in particolare nelle periferie. Ora la rabbia si “astiene” dal voto. È l’anti politica che non è più attrattiva o le spiegazioni sono più complesse e interrogano l’insieme del sistema di rappresentanza?

Penso che le ragioni dell’astensione non vadano cercate tanto nell’elettorato quanto nella povertà dell’offerta politica. Le forze politiche, in preparazione delle elezioni non hanno fatto altro che battibeccare. Pochi candidati hanno offerto un programma. Di conseguenza, l’elettorato non è stato mobilitato dalla prospettazione di una politica, o di un futuro.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Massimo Cacciari per “La Stampa” l'8 ottobre 2021. A ogni tornata elettorale, sono ormai più o meno trent' anni, si ripete lo stucchevole rito del "chi ha vinto-chi ha perso", quando ormai è chiaro che il voto dei residui elettori, tolta una parte che va dileguando di tipo ancora "identitario", è del tutto fluttuante, completamente estranea alle vecchie faglie parlamentari di destra, centro e sinistra. Si fatica a comprendere la nuova situazione culturale e politica in cui viviamo. Una situazione in cui nell'opinione pubblica dominano la "cura" per le ricorrenti emergenze, che solo a livello sovra-nazionale possono essere affrontate, e la irreversibile delusione, dopo i fallimenti delle "riforme" costituzionali, nei confronti di ogni strategia di riassetto istituzionale fondato sul ruolo delle autonomie e una visione federalistica dello Stato. La funzione del lavoro intellettuale, se mai ve n'è una, non consiste nel fotografare lo stato delle cose, tantomeno nel farne apologia o nel deprecarlo; essa consiste nell'individuare la logica interna delle tendenze in atto e a che cosa queste possano condurre. Spesso tale logica viene oscurata o mistificata da ragioni contingenti di convenienza politica, altrettanto spesso si evita di fare i conti con essa e viene ignorata. Il lavoro critico, senza alcuna presunzione anticipatrice, con sobrietà e freddezza, è chiamato a metterla in luce e a responsabilizzare nei suoi confronti. Ora, le tendenze di fondo sembrano chiare. Di fronte a "stati di emergenza" che si ripetono, e certamente si ripeteranno in futuro su scala ancora più larga, derivanti dal rapido mutare degli equilibri internazionali, dalla riconversione dell'apparato economico-produttivo, dalla "sfida ecologica", i principi dell'equilibrio tra legislativo ed esecutivo, della divisione dei poteri, del ruolo delle autonomie (nel senso più vasto, non solo amministrativo), sembrano diventare sempre più residui di un mondo di ieri. L'accentramento decisionale trova in queste "fisiologiche emergenze" non solo una spinta formidabile, ma, sembra, anche un'innegabile giustificazione. La delega all'esecutivo si fa prassi costante, e sempre più il momento della ratifica diviene formale. La delega all'esecutivo diviene delega perché esso legiferi tout court. La tendenza - che comporterebbe, al limite, la trasformazione dello "stato di emergenza" in "stato di eccezione" (quello che è proprio di una situazione di guerra) - viene al momento vissuta con incredibile leggerezza: chi si limita a giustificarla in base alla congiuntura, chi ne garantisce la provvisorietà e promette il rapido ritorno allo stato "normale", e chi ancora magari la depreca, ma da un punto di vista moralistico, astratto, senza capirne la potenza. Manca totalmente un pensiero critico e democratico che affronti questa logica delle cose (assai poco vichianamente provvidenziale, temo) per cercare di mostrarne le ultime, possibili conseguenze e per opporvisi dall'interno con idee costituzionali, giuridiche, politiche coerenti e praticabili. E come potrebbero, d'altra parte, maturare visioni alternative nell'assenza di partiti politici? Una volta erano le dittature a distruggerli - oggi si sono auto-disciolti in obbedienza alla cultura dominante. Ciò che sta accadendo non è inquadrabile nelle vecchie idee. È ormai inevitabile pensare a un modello presidenzialistico? Con quali equilibri e garanzie? E la Regione quale funzione ha ancora, se la trasformazione dello Stato in senso federalistico appare ormai una vuota utopia? Ma, molto oltre queste domande, un'altra sorge, decisiva: posto che l'emergenza divenga la nostra condizione normale, fino, magari, a rendere necessaria una norma che preveda lo "stato di eccezione", come "custodire" quell'idea di persona, che è uno dei pilastri del nostro vecchio assetto costituzionale? È del tutto logico che laddove si debba affrontare un comune pericolo o un comune nemico i diritti della persona cedano il passo al supremo interesse della Nazione. Ma che avviene se pericolo e nemico si "normalizzano"? Pongo il problema, non ho soluzioni, credo però che sarebbe necessario ragionarci prima che gli eventi facciano da sé. Da certe manifestazioni di "pensiero" negli ultimi tempi ho tratto l'idea che alcuni ritengano del tutto ovvio che il concetto di persona vada "sussunto" in quello, diciamo così, di "comunità concreta", e che al posto di "relazioni personali" occorra porre, appunto, l'idea di ordinamento e di comunità. Ora, desidererei soltanto che si volesse comprendere a che inevitabilmente conducono queste idee e si procedesse con coerenza, senza infingimenti e ipocrisie. Queste idee comportano una radicale reinterpretazione della nostra Costituzione in una chiave di "Stato etico", condito magari in salsa rousseauiana, quella mal digerita dal movimento (movimento, non partito per carità, e anche qui ci sarebbe da fare un bel discorso) che detiene la maggioranza dei seggi nell'attuale Parlamento. Rimandare l'appuntamento con queste scelte culturali e politiche non farà che rendere ancora più drammatici il momento e i modi in cui dovrà avvenire. La libertà è della persona o semplicemente non è. Tuttavia, è indubitabile che affermarla nelle attuali condizioni dell'organizzazione di massa, di fronte alla potenza del sistema economico, finanziario, mediatico che la regola in ogni movimento, che ne esige il sempre più capillare controllo per funzionare a regime, è compito infinitamente più arduo che nei decenni del secondo dopoguerra, fino a una generazione fa. La dimensione pubblica non è più organizzata da "dittature", ma da quel sistema. Prima che non resti al pensiero critico altro spazio se non il tacere o il volgersi alla selva di Thoreau (la democrazia americana nasce anche da queste idee), sarebbe utile pensare a quale "contraddittorio" con esso il Politico è ancora in grado di istituire, prima di trasformarsi in un'articolazione del suo funzionamento globale, in una rete di suoi competenti Commissari. E la democrazia nel governo di chi sa e di chi può, fusi in un unico universale Mandarinato.

La bassa affluenza alle amministrative. Astensionismo, è emergenza democratica. Salvatore Curreri su Il Riformista il 6 Ottobre 2021. Milano 47,72% (contro il 54,65% del 2016, meno 12,68%); Roma 48,83% (57,03%, -14,37%); Torino 48,08% (57,18%, -15,91%); Napoli 47,17% (54,12%, -12,84%); Bologna 51,18% (59,66%, -14,21%). Complessivamente in Italia alle amministrative ha votato il 54,7% degli aventi diritto al voto contro il 61,58% delle elezioni precedenti (-11,17%). Il che significa – visto che dietro i freddi numeri ci sono persone con il loro vissuto e le loro scelte – che, dei 12.147.040 che avrebbero potuto, hanno votato appena 6.633.491 elettori, circa 850 mila in meno rispetto alla precedente tornata elettorale. E non sappiamo quanti di costoro hanno depositato nell’urna scheda bianca o nulla…Per trovare questi dati non ho consultato i quotidiani di ieri, prevalentemente intenti a commentare vincitori e vinti della tornata elettorale, ma il sito del ministero dell’Interno. Il che già dimostra quanta attenzione viene dedicata al tema dell’astensionismo elettorale: giusto il tempo di aprirci le pagine il lunedì mattina o, nei talk-show elettorali, di chiacchierarci su prima della chiusura delle urne per poi scatenarsi a commentare i primi exit-poll: ne riparleremo alle prossime elezioni! Ed invece, sfondando al ribasso la soglia psicologica del 50%, l’astensionismo elettorale ha superato il livello di guardia e si pone oggi in termini allarmanti di vera e propria emergenza democratica. Inutile girarci intorno: una classe politico-amministrativa che rappresenta meno della metà degli elettori pone un serio problema di legittimazione democratica delle istituzioni di rappresentanza politica. Ciò tanto più ove si consideri che, come i dati inequivocabilmente dimostrano, siamo di fronte ad una tendenza di lungo periodo che, elezione dopo elezione, peggiora, senza alcuna significativa inversione di tendenza (al massimo, come nelle regionali calabre, di tenuta: 44,36% contro il 44,33% del 2020). Quali le cause di questo crollo? Non certo l’irrilevanza delle elezioni, dato che il Comune è l’ente di governo più prossimo ai cittadini che ad esso quindi si rivolgono per primo per soddisfare i loro legittimi interessi e bisogni. Non certo l’impossibilità di scegliere il candidato da eleggere, visto che a livello locale e regionale è previsto il voto di preferenza. Non certo, infine, lo scarso peso politico del voto. Grazie all’elezione diretta del Sindaco ed al premio di maggioranza attribuito alle liste collegate, gli elettori sono in grado di decidere l’indirizzo politico-amministrativo del loro Comune per i successivi cinque anni. Invocare come rimedio all’astensionismo elettorale il ritorno al bipolarismo, come scrive ieri Veltroni sul Corriere, mi sembra un’osservazione “fuori fuoco” (tanto per usare una terminologia a lui cara), dato che gli elettori rinunciano a votare anche quando la scelta del governo delle loro città produce ovviamente il massimo della bipolarizzazione. Anzi, è facile pronosticare che nel ballottaggio l’astensionismo aumenterà perché gli elettori che non si riconoscono nei due candidati preferiranno non andare a votare. Del resto, che, al contrario, un sistema parlamentare compromissorio possa comunque produrre un’offerta politica complessivamente apprezzata dagli elettori lo dimostrano le elezioni tedesche dello scorso 26 settembre, dove ha votato il 76,8% degli aventi diritto, con un modesto ma significativo incremento dello 0,6%. E allora? A mio modesto parere alla radice dell’astensionismo elettorale c’è un problema di serietà della politica, che è serietà innanzi tutto della classe dirigente, dei suoi comportamenti pre e post elettorali (penso ai casi di cambi-casacca, quanto mai diffusi a livello locale…) nonché dei metodi con cui essa seleziona le candidature, spesso paracadutando illustri sconosciuti (salvo piangere oggi lacrime di coccodrillo). Con tutto il rispetto che si deve all’esercizio della sovranità popolare, mi chiedo se sia democrazia trovarsi in cabina con schede elettorali “lenzuolo” (difficili da ripiegare per chi non è pratico di origami…), in cui sono presenti decine di liste cosiddette civiche prive di una qualunque identità politico-programmatica che non sia quella di essere solo strumento per candidare quante più persone possibili in grado, grazie ad amici e parenti, di portare voti al candidato Sindaco collegato in cambio magari di qualche favore futuro. Sotto questo profilo andrebbe aperta una riflessione sia sulle firme necessarie per presentare una lista, sia soprattutto sulla irrilevanza dei voti dati a liste al di sotto di un pur minimo quorum. Le recenti mobilitazioni referendarie, per quanto non vadano sopravvalutate, dimostrano che c’è ancora una domanda di partecipazione politica che i partiti politici non riescono ad intercettare essenzialmente perché assenti nei territori (giustappunto comunali), sia perché talora convinti di poter disintermediare le strutture locali grazie alla comunicazione (unidirezionale, s’intende) della Rete, sia a causa della sciagurata riforma del finanziamento pubblico che ha tolto loro risorse vitali (fare politica costa, e chi lo nega è un ipocrita), buttando così l’acqua con tutto il bambino. Tempo fa, per rappresentare plasticamente l’astensionismo, i radicali proposero che il numero degli eletti fosse proporzionale agli elettori, cosicché, ad esempio, se vota il 50% degli elettori dovrebbe essere eletto il 50% dei componenti dell’assemblea elettiva. Al di là della provocazione (e dell’ossimoro), anziché entusiasmarsi o avvilirsi per il risultato conseguito, le forze politiche farebbero comunque bene a non ignorare questo ennesimo, estremamente preoccupante campanello d’allarme per la tenuta della nostra democrazia, se finalmente vogliono guardare la luna, anziché il dito che la indica. Salvatore Curreri

Invece di esultare per i risultati alle elezioni, la sinistra dovrebbe preoccuparsi di chi non vota più. L’astensione record dimostra una volta di più la distanza tra la società e la politica. La destra è in crisi, ma a preoccuparsi dovrebbero essere soprattutto i riformisti. Marco Damilano su L'Espresso.it l'8 ottobre 2021. Addio Lega, avevamo scelto come titolo della nostra storia di copertina di una settimana fa. Un azzardo giornalistico, nel pieno di una domenica elettorale, eravamo pronti a essere smentiti dai risultati del voto. Abbiamo visto giusto. Gli elettori, in tanti, hanno detto addio al partito di Matteo Salvini, che aveva provato a espandersi fuori dai confini geografici e ideologici del vecchio Carroccio ereditato da Umberto Bossi. Ora si trova in ritirata perfino a Milano, un misero dieci per cento nella capitale del Nord, un terzo del Pd che vola sulla scia del sindaco Beppe Sala e appena qualche pugno di voti sopra i rivali interni al centrodestra Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni (e del recordman di preferenze Vittorio Feltri e del barone nero, l’indagato Roberto Jonghi Lavarini, che piazza in consiglio comunale la sua candidata al centro dell’inchiesta di Fanpage e ora della procura di Milano). Una batosta che spinge Salvini alla tentazione di un addio più clamoroso: uscire dal governo e dalla maggioranza che sostiene Mario Draghi e tornare all’opposizione. Per ora è un bagliore di lama, il Consiglio dei ministri sulla riforma fiscale disertato da tutti i ministri leghisti, a partire da quel Giancarlo Giorgetti che è tra i grandi sconfitti del turno elettorale. Ma c’è un altro addio che dovrebbe inquietare di più. L’addio, o l’arrivederci, dei cittadini alle urne. La metà più uno che non è andata a votare e che promette malissimo in vista dei ballottaggi di domenica prossima, dove grandi città e medi e piccoli comuni rischiano di ritrovarsi con sindaci più che dimezzati. Sindaci che vinceranno con la metà dei voti di un terzo o poco più dei loro elettori. Un deserto. «Occorreva tenere un diario dello sfacelo di Roma, annotare mese per mese, anno per anno, diligentemente, le tappe della sua crescita obbrobriosa. Roma città inumana, inabitabile, omicida, espressione topografica dell’incultura pubblica e della inciviltà privata», scriveva Antonio Cederna sulle pagine del Mondo negli anni Cinquanta e Sessanta, in quegli articoli raccolti in “Mirabilia Urbis” da Einaudi. Cederna, nato cento anni fa, il 27 ottobre 2021, proseguì il suo impegno sulle pagine dell’Espresso. Bisogna tornare indietro per capire da dove arrivi il risultato elettorale della settimana scorsa nella Capitale e nel resto d’Italia. E poi tornare vicino, all’ultimo anno, agli effetti invisibili della pandemia. Per orientarmi continuo a portare con me, come ideale guida al voto nella città di Roma, le mappe della disuguaglianza nella città curate dai ricercatori Keti Lelo, Salvatore Monni e Federico Tomassi (“Le sette Rome”, Donzelli editore), la bussola migliore per comprendere perché il vuoto di rappresentanza sociale sia diventato un cratere politico nella capitale d’Italia in cui più di un elettore su due ha rifiutato di prendere parte al voto. Le sette Rome sono la città storica del centro, la città ricca ad alto reddito e istruzione, la città compatta delle colate di cemento nelle vie consolari dove si concentra il 37 per cento degli abitanti, più di un milione, la città del disagio delle periferie, la città dei nuovi quartieri sorti attorno al Grande Raccordo Anulare, al confine con la campagna, dove per spostarsi è necessaria l’automobile. A queste va aggiunta la città che non si vede (e che non vota) di immigrati, disabili, anziani soli. In questa enorme metropoli, concentrato di tutte le sfaccettature e contraddizioni italiane, ha risposto all’appello elettorale la città ricca, è rimasta a casa la città del disagio, dove la pandemia del Covid-19 si è trasformata in sindemia, l’amplificazione di tutti i mali storici, dalla scarsa prevenzione di malattie cardiocircolatorie e dell’obesità alla densità abitativa, provocando un numero medio di decessi da virus più alto che nel resto della città. Nel VI Municipio, quello delle Torri, Tor Bella Monaca e Torre Angela, ha votato il 42 per cento degli aventi diritto, dunque il 58 per cento è rimasto a casa, nei quartieri dove un anno fa, tra reddito di cittadinanza, reddito di emergenza, Naspi e bonus Covid-19, 30mila cittadini tra i 15 e i 65 anni vivevano di provvidenze (su 73mila). Eppure, al momento della presentazione delle candidature, si era registrato un record: 22 candidati a sindaco, 22 liste, 1800 candidati. Ho provato a dividerli per lo scarso milione di elettori che è andato a votare, 1.109.371 per l’esattezza. Fanno in media 616 elettori ogni candidato. Senza contare la valanga dei candidati nei quindici municipi, che farebbe ulteriormente abbassare la media. Più candidati che elettori, siamo vicini al paradosso letale. Non solo a Roma, perché i votanti sono più che dimezzati a Milano, Torino, Napoli. È la stessa sconfitta. Il voto non è più speranza, perché chi ha bisogno di un cambiamento a votare non ci va, il voto rischia di diventare un gioco di società o l’espressione di un interesse diretto. Il giorno dopo le elezioni amministrative sono state depositate le firme per il referendum sull’eutanasia: un milione e 200mila. E il governo Draghi è andato avanti con la riforma fiscale, nonostante l’assenza dei ministri della Lega. È la fotografia dello stato di salute della nostra democrazia. Le firme, digitali e non, per una singola questione mobilitano soprattutto i giovani più del voto tradizionale. Il governo decide, senza avere alle spalle una maggioranza legittimata dal voto popolare. E la rappresentanza è in crisi, ovunque e con qualunque sistema elettorale: doppio turno, turno unico, elezione diretta dei sindaci, preferenze e liste bloccate. A furia di sottolineare l’irrilevanza del cittadino-elettore il giocattolo si rompe. C’è l’incapacità generale dei partiti di selezionare una classe dirigente all’altezza, con qualche notazione per il futuro. Nel Pd vanno meglio i politici di professione, con una trafila nel partito e una esperienza amministrativa, Matteo Lepore a Bologna o Stefano Lo Russo a Torino, nel centrodestra sono stati accolti malissimo i candidati civici, con l’eccezione almeno per ora dello sconosciuto Enrico Michetti a Roma e con il risultato deludente dell’imprenditore Paolo Damilano. Infine, a proposito di stato di salute della democrazia: passare in rassegna i candidati ai ballottaggi nei comuni capoluogo di provincia nel prossimo fine settimana significa fare una passeggiata sul monte Athos, notoriamente precluso a umani e altri animali di genere femminile, o chiudersi in un conclave per eleggere il nuovo papa, tra maschi anziani. Neppure una donna in rassegna, dopo tanti fiumi di parole sulla presenza femminile nei partiti e nelle istituzioni siamo di nuovo all’anno zero, con l’uscita di scena di Virginia Raggi e di Chiara Appendino nei capoluoghi di regione resiste solo Valeria Mancinelli ad Ancona, unica donna. Alla metà degli elettori che si auto-esclude dal voto corrisponde la metà femminile esclusa dalla possibilità di governare le città: offensivo che ora tutti i candidati in corsa si affannino a giurare che la loro vice sarà una donna. Si può esultare per la débacle del sovranismo modello Lega e si può considerare una parentesi il boom dei voti per il Movimento 5 Stelle tra il 2013 e il 2018, in mezzo ci fu nel 2016 il trionfo di Raggi a Roma e Appendino a Torino, le ultime invenzioni di Gian Roberto Casaleggio. Ma c’è meno da gioire se la parentesi si chiude non perché il sovranismo e il populismo siano stati sconfitti nella società, ma per abbandono del campo, per non aver saputo mantenere la promessa di trasformare la protesta in governo. La protesta non può essere liquidata come un fastidioso rumore di sottofondo, dopo il quale si torna alle conversazioni ovattate, incredibile che lo si faccia a sinistra. In quella desolazione elettorale c’è una domanda senza risposta che aspetta ancora di essere ascoltata, interpretata. È un’attesa che si trasforma in micro-rabbia. In quelle periferie che non vanno a votare c’è il mercato nero delle case, prolifera il traffico della droga fino a diventare un nuovo welfare di caseggiato, c’è l’aumento delle violenze e dei delitti familiari che vanno sotto il titolo di femminicidi, ma nulla di tutto questo è entrato nei dibattiti elettorali, pur essendo la questione più politica di tutti. Il modello Draghi, l’establishment che si fa governo, si è confrontato in questi mesi con la gestione della campagna vaccinale e ora con l’uso dei fondi europei del Piano di Ripresa e di Resilienza, si muove sullo sfondo occidentale e europeo: gli Stati Uniti di Joe Biden in arretramento dopo la ritirata in Afghanistan, l’Europa orfana di Angela Merkel. Ma non è compito del governo Draghi dare la risposta alla attesa di rappresentanza, che non è solo soluzione dei problemi, è anche ascolto, riconoscimento. Semmai si amplifica la delega, la voglia di lasciar fare al commissario, al competente, a chi sa dove mettere le mani. Ma il campo di chi fa politica non soltanto per trovare soluzioni ma offrire un canale di rappresentanza è una prateria. Il vincitore dichiarato del primo turno delle elezioni amministrative Enrico Letta dovrà superare la tentazione dell’auto-sufficienza e preoccuparsi di quella metà che non ha votato. Per ragioni di prudenza, perché alle prossime elezioni politiche potrebbe risvegliarsi e consegnare al Pd un’altra lezione di realtà, come è accaduto in passato. E perché è dal circuito della rappresentanza che passa il successo delle tre operazioni più importanti della segreteria Letta. La ricostruzione di un partito e di una coalizione del centro-sinistra, su modello di quello vincente a Bologna che mette insieme Elly Schlein, Mattia Santori e Isabella Conti. La riscrittura dell’agenda di priorità: diritti sociali e civili insieme. Spostare l’asse del governo Draghi: dopo mesi in cui il Pd ha subito la presenza della Lega ora c’è la situazione opposta. E ancora una volta tutto ruota sulla scelta del prossimo inquilino del Quirinale. Ci si può chiedere, alla fine, se sia ancora la politica il luogo in cui trovare alcune delle risposte di cui c’è bisogno. E ammettere che no, quel tempo è finito. Che oggi le due grandi invenzioni del Novecento democratico, il suffragio universale e l’opinione pubblica che si esprime nella libertà di stampa, sono due attrezzi superati dai tempi. Gli influencer contano più di un politico o di un giornalista, forse, ma una volta che si è preso atto di questa novità non cambiano le esigenze di sempre: controllare il potere, sottoporlo a critica, battersi perché sia rappresentativo e democratico. E perché non brilli nel vuoto.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 6 ottobre 2021. Cammino anzi saltello. E canticchio: che sensazione di leggera follia sta colorando l'anima mia. Ah, Lucio Battisti è sempre qui, a porgermi le chiavi del cuore. Canticchio all'aria corroborante d'ottobre, mentre cinque anni fa sotto un cielo plumbeo, cattivo, i militanti meloniani e salviniani salivano al Campidoglio in nome del popolo a gridare fuori la mafia dal Comune. Era il Comune in cui s' era rinserrato il sindaco Ignazio Marino, arreso alla follia collettiva, e dunque sì, diceva, la mafia è entrata in queste stanze ma per sloggiare me. Poi il suo partito lo portò in pellegrinaggio di borgata in borgata a chiedere scusa per non aver riconosciuto la mafia a prima vista, e in una tale melma chi ci sguazzava come un pescetto nella boccia erano i cinque stelle. Beppe Grillo chiedeva alla gente onesta la forza di disinfestare la città, Luigi Di Maio invitava i cittadini a consegnargli notizie di stampo mafioso in busta chiusa, e in cambio dell'anonimato, Alessandro Di Battista esortava le persone perbene di Pd e Forza Italia ("ce ne sono!") a mandargli delazioni via mail, ché ci avrebbe pensato lui a ripulire la "Repubblica filomafiosa". Arrivarono pure i giornalisti americani a cercare le coppole e le lupare sotto la statua di Marco Aurelio, ma per fortuna passano anche le sbronze e no, la mafia non si era impadronita dell'amministrazione comunale, era una colossale e scema calunnia. Ma intanto sotto quel cielo plumbeo e cattivo, a liberarci dai padrini era stata eletta Virginia Raggi. Questo, cinque anni fa. Va sempre peggio: che sciocca espressione. E che sensazione di leggera follia sta colorando l'anima mia.

Gabriele Romagnoli per "La Stampa" il 6 ottobre 2021. Come un gatto in tangenziale o come un politico in periferia. Durano lo stesso lasso di tempo. Più o meno: un lampo. O scappa o è travolto. Miao, sono venuto a cambiarvi la vitavrooom! A travolgere i candidati alle elezioni amministrative dell'ottobre 2021 è stato il camion dell'astensionismo. Trasportava i renitenti al voto di Tor Bella Monaca (Roma), Barriera di Milano (Torino), Secondigliano (Napoli). La controtendenza di Milano e Bologna (dove invece è più inerte il centro) è relativa: in assoluto, le periferie non ci stanno, non nell'urna. In queste ore gli scienziati e i protagonisti della politica si affannano in analisi e proclami. «Non hanno trovato rappresentanza», «Esprimono disillusione», «La sfida è riportarle al voto». Tutte le affermazioni tradiscono più che un pizzico di condiscendenza: laggiù, ai margini, non sanno quello che non fanno (cioè votare). Nel loro distacco le periferie vivono le scadenze elettorali come le vecchie zie vivono le feste comandate. Sanno che i nipoti, una tantum, si faranno vedere, accenderanno sorrisi, esprimeranno affetto, ma tutto quel che si aspetteranno è un regalo, meglio se dentro una busta e poi spariranno fino alla successiva ricorrenza. Così, con quel senso di già visto e già gabbato, i quartieri dell'oblio accolgono gli improvvisati passaggi dei candidati e i loro ritornelli di circostanza. Lo scetticismo è spesso figlio dell'esperienza. Arriva Enrico Michetti e propone la creazione di un assessorato alle periferie. Bene, bravo, ma soprattutto bis: c'era già stato, l'ha abolito Virginia Raggi. Lui rincara: ma ne metteremo la sede a Tor Bella Monaca. La senti l'eco? «Torniamo in periferia per restarci», disse Nicola Zingaretti riaprendo la sezione di Casal Bruciato. «Non è uno spot - assicurò -. Sposteremo la sede del partito dal centro alla Tiburtina. Sarà la prima tappa di un grande progetto nazionale per riportare i democratici nelle periferie». Non gli ha funzionato il navigatore. È sceso. Il progetto è andato altrove. Il politico e la periferia non si frequentano. Di più, non si conoscono. Il film con Albanese e Cortellesi è la perfetta rappresentazione. Lui fa parte di un gruppo di studio sulla situazione delle periferie italiane, ma quando arriva a Bastogi, dove lei vive, è come atterrasse a Falluja: gliel'avevano raccontata con le slide e i fogli excel, ma non immaginava fosse quella cosa lì. Parlano linguaggi diversi, pur usando parole della stessa lingua. Lui si aggrappa ai luoghi comuni della «riqualificazione», della «necessità di andare oltre le parole», perché «lì si gioca la sfida del futuro». Lei taglia corto: «È tutto un magna magna». L'espressione sintetizza una percezione della galassia politica: pianeti indistinti da cui proviene un forte e incessante rumore di mandibole. Più facile s’innamorino che si capiscano davvero. Nel volume «Come votano le periferie» lo studioso Marco Valbruzzi sgancia la scelta dalla condizione di disagio. Si lega piuttosto a una capacità d'interpretazione del bisogno. O alla scintilla della novità. Non basta un peronista a raccogliere i suffragi. Occorre non sia compromesso con il sistema, arrivi dai buchi neri, non dalla solita materia di cui sono fatti i sogni. La propaganda viene sgamata in fretta, senza passare per una decodificazione del messaggio. Il Salvini prima maniera empatizza e passa, quello che suona al citofono del Pilastro (Bologna) viene respinto e lì rimane: senza risposta. Hanno fatto presa i 5 stelle perché erano inediti, esprimevano un sentimento comprensibile e condiviso e proponevano, invece di un vasto programma, qualche minimo rimedio. I dati del 2021 non consegnano a nessuno l'eredità grillina. Il Pd si affranca dal ruolo designato di partito della ztl, ma il punto vero resta che nella ztl risiede il governo e ogni politico, quando ci arriva, si adegua. Oltre i confini del Grande Raccordo Anulare o del Quadrilatero della Moda comincia una mutazione spontanea. Virginia Raggi emblema del «no» alle olimpiadi (vissute dalla periferia come l'ennesimo circo in città), finisce la sua campagna per l'impossibile rielezione con il sì all'Expo. Chiara Appendino consegna come suo retaggio dalla carica di sindaco che lascia per diventare consigliere della Federtennis le Finali Atp, annunciando che la manifestazione raggiunge «101,9 milioni di impressions». Anche chi alla Falchera cerca lavoro e casa è impressionato. Andrebbe pubblicata un'appendice al volume di Valbruzzi: «Come NON votano le periferie». Certo, è uno di quei soggetti mitologici, inafferrabili e di ricorrente scrutinio come «i giovani» o «il ceto medio», ma stavolta il dato è di una forza senza precedenti: a Torino sfiora il meno 30 per cento. Che cosa è accaduto? In parte è, come ogni cosa s'illumini attualmente, spiegabile con la pandemia. Per un lungo periodo tutti si sono ritirati nel proprio alveo e ne hanno constatato estensione e qualità. Si sono evidenziati i limiti, tagliati i collegamenti, ridotti i travasi. Distanziamento sociale, applicato per quartieri, ha significato isolare le situazioni e allontanare gli interventi. Se si viene bloccati in una condizione insoddisfacente è difficile non riaffacciarsi con accresciuta diffidenza. Gli unici a incassare voti di speranza sono, da sempre e ovunque, gli outsider. Nel momento in cui tutti governano insieme sotto Draghi e la leader dell'opposizione lo propone come capo dello Stato, chi incarna quel ruolo? Chi può, in meno di due settimane, tornare a Coccia di morto e «dire qualcosa di periferico»?

·        La vera questione morale? L’incompetenza.

Il Pd e la trappola dei buoni ma scarsi che blocca l’Italia da decenni. Giovanni Cagnoli su L'Inkiesta il 5 novembre 2021. Dare patenti di virtù morale attaccando quelli bravi ma antipatici è sempre stato un modo per mantenere il potere e preservare la propria parte politica. In un tempo così complesso bisogna far governare chi è capace, come ha dimostrato coi fatti il presidente del Consiglio rispetto al vacuo Giuseppe Conte (e l’ex segretario dem rispetto all’attuale).  Dopo il pasticcio sulla legge Zan e la conseguente divisione del mondo in Buoni e Cattivi argutamente descritta da Guia Soncini vengono alla mente pensieri cattivi anche se elementari, quasi infantili nella loro semplicità. Non è che alla fine la divisione del mondo per gestire una realtà complessa come il nostro Paese bisogna farla in base alle competenze e qualità delle persone e non in base alla omologazione culturale basata sugli stereotipi? Per due anni e tre quarti il Partito democratico ci ha propinato la favoletta di Giuseppe Conte come sintesi estrema del pensiero da statista e baluardo dei Buoni. Dopo solo nove mesi di governo Draghi, chiunque si rende conto perfettamente che il presidente del Consiglio non è paragonabile a Conte. Semplicemente è di un’altra categoria. Ce lo dicono i banchi a rotelle, le mascherine comprate e inutilizzabili (800 milioni) perché non a norma; la campagna vaccinale del generale Figliuolo anni luce avanti rispetto alle primule di Domenico Arcuri, il G20 in cui per la prima volta dopo anni l’Italia ha mostrato una leadership sui temi della transizione ecologica anziché il vuoto, stucchevole, imbarazzante deserto delle conferenza stampa in prime time di Casalino/Conte; il tono asciutto e preciso degli interventi di Draghi invece della retorica ampollosa di Conte che alla fine chiama davvero il verdoniano «in che senso?», perché nulla viene detto salvo ovvietà e tautologie frasi buoniste. Ce lo dice chiunque sia dotato di buon senso che abbiamo finalmente una leadership e una classe di governo degna di questo nome e non un branco di scappati di casa alla Danilo Toninelli, senz’arte né parte, capitati per caso a ruoli di responsabilità del tutto inadatti alle loro competenze.

Insomma Draghi è immensamente più bravo di Conte nel ruolo di capo del governo, e si vede. Così come si vede che Matteo Renzi è un politico più bravo di Enrico Letta.

Anche qui la vulgata del pensiero buono omologato vuole pretendere che Letta sia il vincitore morale delle elezioni amministrative, dimenticando che in realtà le hanno perse malamente Matteo Salvini e Giorgia Meloni con un’astensione mai vista assecondata da candidati improbabili. Dimenticando che Beppe Sala è davvero bravo, mentre il candidato del centrodestra a Milano (come si chiama? Non mi ricordo) è irrilevante.

Letta, quello “buono”, va in Senato e si fa mettere sotto dai franchi tiratori del Pd su una legge osteggiata dai settori più vicini alla Curia tradizionalista, settori che nel Pd sono ampiamente rappresentati come Letta sa perfettamente.

Renzi, invece, è quello che ha scelto di fare cadere Conte e di spingere per un governo Draghi, nonostante Andrea Orlando e Conte stesso solo cinque giorni prima dell’incarico sostenessero con ironia che Draghi mai avrebbe accettato l’incarico, con pressioni che definirei leggendarie sullo stesso Renzi (e sui responsabili che erano buoni a prescindere, orgogliosamente guidati da Lello Ciampolillo) perché lasciasse via libera a un Conte ter che avrebbe avuto conseguenze letali per il Paese.

Renzi è anche quello che ha spinto Salvini fuori dal governo dopo il Papeete, nonostante il leader della Lega avesse a quel tempo nei sondaggi un consenso al 34 per cento. E Salvini non si è più ripreso. Ma di questo ci si dimentica facilmente perché bisogna sostenere che Letta è un fantastico segretario e Renzi è il male assoluto. Ovviamente non è vero. Renzi è politicamente molto più capace di Letta e infatti ha scalato il Pd contro la grande maggioranza dei “buoni”, lo ha portato al 40 per cento. È stato, come dice Carlo Calenda, uno dei migliori presidenti del Consiglio italiani e nel 2014 aveva deciso che Letta non era adeguato al ruolo, come anche all’epoca era evidente a tutti.

Renzi non è il bene assoluto. Tutt’altro. Il referendum costituzionale perso nel 2016 passerà alla storia come l’errore più marchiano che potesse fare, paragonabile al referendum sulla Brexit di David Cameron. Ma il leader di Italia Viva è immensamente più capace di Letta, come sanno perfettamente e dicono solo in privato chi li conosce da vicino.

Ora forse da queste riflessioni discende una evidenza simile alla favola del bambino che dice “il re è nudo”. Non è che questi “buoni” che da 30 o 40 anni nel Pd ci insegnano cosa è giusto e cosa invece è cattivo, che usano la parola fascista quando si deve delegittimare senza appello un avversario politico. Non è che questi “buoni” sono semplicemente scarsi?

Non è che sono così scarsi da aver bisogno delle patenti di buono o cattivo, fascista o antifascista, democratico o non democratico, proprio per nascondere l’incapacità di governare e anche in fondo l’incapacità di dibattere, di orientare l’opinione, di fare proposte realistiche e concrete su temi chiave che poi sono quelli che davvero interessano al paese?

Non è che sono così scarsi da continuare a scegliersi tra di loro e appena emerge qualcuno NON scarso (Renzi, ma anche Giorgio Gori o Beppe Sala) ci tocca subito leggere un’intervista del fantastico e scarsissimo Francesco Boccia che ci dice che Renzi sta «flirtando» con la destra… e per questo quindi è cattivo?

Non è che da 30 anni perdono spesso le elezioni, anche in collegi locali semi-blindati (esempi: Boccia e Dario Franceschini), una volta contro Berlusconi, una volta contro Salvini, una volta contro Grillo e la prossima magari anche contro Meloni, perché non sono capaci di convincere gli elettori?

Non è che forse sarebbe il caso di avere una leadership non solo della destra (che i buoni definiscono «impresentabile») ma anche della sinistra che non ci spieghi che Conte è uno statista di livello planetario? E che finalmente ci dica come faremo a sostenere con le nostre tasse tutte le forti e giuste iniziative progressiste in una società con una demografia drammatica, con un debito elevatissimo e tasse sul lavoro senza eguali nel mondo?

Non è forse il caso di sollevare il tema della leadership di un partito di “buoni” che si crogiola nella assunta e pervicace convinzione che tutti gli altri sono cattivi, a meno che, come i Cinquestelle, siano presuntamente necessari a dare il potere ai buoni di governare senza impicci?

Io penso che i buoni, esattamente come hanno dimostrato al Senato con la legge Zan, saranno un gravissimo problema per questo paese, perché non hanno alcuna capacità di identificare un buon leader, sostenerlo convintamente, eliminare un’intera classe dirigente di figli dei buoni, ovvero coloro che non hanno nessuna competenza, nessuna esperienza di lavoro, ma grande attitudine a baciare le pile dei grandi vecchi” e a essere messi da questi nella condizione di diventare presunti leader.

Un leader crea consenso e stima intorno a sé. Sa quando cedere al compromesso su aspetti minori e quando tenere il punto sui temi chiave. Ha una visione, una competenza e una credibilità derivati dal ruolo e dall’esperienza. Non parla per catturare consenso becero, ma per orientare il pensiero di chi lo ascolta, anche, se è il caso, dicendo verità scomode. Come spiegare al ministro Franceschini (che leader non è e non è mai stato) che le risorse sono scarse, sono dei contribuenti italiani e non del Pd o del ministro, e va scelto molto attentamente dove investirle (che è sempre diverso da dove sprecarle per avere un presunto dividendo elettorale). A me ricorda tanto gli anni Settanta, quando andavo al liceo, negli anni duri della contestazione che poi tracimava in cultura della mediocrità, e da ingenuo quindicenne chiedevo perché fosse corretto dare il diciotto politico a montagne di libretti nelle facoltà, o perché selezione e meritocrazia fossero da distruggere.

Anche lì c’erano i buoni e i cattivi.

Cinquanta anni dopo, con 2,5 trilioni di debito pubblico – sempre “buono” per carità ma che adesso è tristemente da pagare – ho la netta sensazione che i buoni di allora fossero semplicemente quelli che non avevano voglia di studiare e poi di lavorare e poi di costruire qualcosa. Avevano trovato semplicemente un modo per non fare fatica, perché studiare, lavorare e costruire costa fatica, tanta fatica come sanno milioni di persone buone o cattive che tutte le mattine vanno a lavorare.

Non vorrei che i buoni di oggi siano sempre gli stessi, quelli che si sono costruiti con il partito un sistema per continuare a detenere il potere. Lo stesso potere che invece privatamente non avrebbero mai nemmeno lontanamente potuto avere, banalmente perché non ne hanno le qualità. Perché non sono appunto bravi.

In sintesi io non vorrei mai farmi operare da un chirurgo non bravo ma “buono”, né vorrei che le aziende italiane migliore fossero gestite dagli amici dei buoni e non dai bravi, e quindi non mi interessa avere un presidente del Consiglio o della Repubblica “buono” se incompetente. Non vorrei proprio sentire mai più questa favoletta dei “buoni” e dei “cattivi”.

Preferirei dividere il mondo in competenti e incompetenti e ho la netta sensazione che la grande maggioranza dei “buoni” sia profondamente incompetente.

Non che nei cattivi ci siano per contro tantissimi competenti, tutt’altro. Ma essendo catalogati a priori come cattivi non hanno l’aura del competente. Se vincono le elezioni è solo perché il popolo bue non ha capito.

Il re è nudo. I buoni non sono necessariamente bravi. Ed esistono invece i vestiti dell’imperatore. Li hanno tendenzialmente i competenti che esistono sia tra i buoni che tra i cattivi. I competenti si riconoscono tra di loro, ed evitano di dare le patenti di buono o cattivo, perché non servono a nulla. Sono bravi chirurghi, bravi manager, bravi politici.

I bravi esistono, come dimostrato da Draghi, e sono molto riconoscibili anche a occhio nudo rispetto agli incompetenti. Tendenzialmente sono sempre stati bravi nella loro vita e hanno avuto leadership e successo nei loro ambiti. Parlano poco e quando lo fanno sono molto chiari, e fanno molto. Non usano patenti e sono legati alle realizzazioni, non alle promesse.

A me non interessa se sono di destra o di sinistra, vorrei quelli bravi a decidere cosa fare nel nostro paese che, per la prima volta da 40 anni cresce più della Germania e della media europea, crea lavoro e ridurrà nel 2022 il deficit pubblico in modo sostanziale.

Sarà magari una coincidenza, ma quest’anno c’è stato uno bravo al governo, senza patenti di buono o di cattivo, e francamente non interessa minimamente sapere se sia buono o cattivo, di destra o di sinistra, uomo o donna, cattolico o no, progressista o no.

È solo molto bravo.

Questa è l’unica cosa che conta nel mondo difficile che andremo ad affrontare.

Il Milite Ignoto, la gaffe del governo e i danni dell’ora di «geostoria» a scuola. Tutti gli svarioni dei politici. Marco Ricucci su Il Corriere della Sera il 26 ottobre 2021. L’immagine sbagliata nella locandina per il centenario dell’inumazione della salma all’Altare della Patria come metafora di un Paese con la memoria corta: «Ecco gli effetti della riforma Gelmini che tagliò le ore di storia e geografia e le fuse in una nuova materia». Si sa: l’Italia è un paese che ha memoria corta e, adesso, inizia a mostrare i primi effetti collaterali della riforma Gelmini, datata 2011. Il taglio delle ore curricolari, che fu attuato per far cassa e risparmiare sulla pelle delle.

Non solo Milite Ignoto. Tutti gli strafalcioni dei politici. Redazione Scuola su Il Corriere della Sera il 26 ottobre 2021. Piccolo campionario di svarioni dei politici, da Di Maio a Renzi, da Berlusconi a Razzi.

La locandina sbagliata del Milite Ignoto

Una locandina per ricordare l’anniversario dei cento anni dell’inumazione della salma del Milite ignoto all’Altare della Patria è stata diffusa venerdì sui profili social del governo. Ed è scoppiata la polemica, perché conteneva diverse inesattezze, segnalate da storici e utenti. Nell’immagine sono stati inseriti alcuni soldati non italiani, peraltro della Seconda guerra mondiale: si tratterebbe di militari portoricani impegnati durante la guerra di Corea. E, come se non bastasse, lo sfondo utilizzato mostra una carta geografica — anch’essa — straniera: osservando nel dettaglio la mappa si scorgono riferimenti a «Cartagena» e «Regio del Perù». 

Coronavirus, la gaffe di Salvini

Erano le prime settimane dell’emergenza Covid quando l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini incappò in un brutto svarione mentre accusava il governo giallo-rosso di aver sottovalutato il rischio da Covid-19. «Se qualcuno chiedesse scusa agli italiani non sarebbe male - disse a febbraio del 2020 -, perché è evidente che qualcuno ha sbagliato qualcosa se l’Italia è il terzo Paese al mondo per contagi, davanti persino al Giappone, che confina con la Cina». Peccato che il Giappone sia un arcipelago e a separarlo dalla Cina ci sia un mare, quello del Giappone appunto. Non era la prima volta che Salvini incappava in uno strafalcione. Alcuni anni fa, ospite della trasmissione tv «Virus» su Rai Due, disse: «Il migrante è un gerundio. Quando migri, c’è un migrante». Immediata la vendetta della Rete, che lo sommerse di battute. Una per tutte: «Migrante è gerundio, Salvini è imperfetto».

Non solo coronavirus: Parigi come Atene, il Cile come il Venezuela

Anche Luigi Di Maio non è nuovo a incidenti di questo genere. A febbraio 2018 a tradirlo era stata una sua lettera a Le Monde scritta nel tentativo di ricucire lo strappo con Macron causato dal suo blitz a Parigi in casa dei Gilets Jaunes. «L’Italia e il governo italiano considerano la Francia come un Paese amico e il suo popolo, con la sua tradizione democratica millenaria, come un punto di riferimento», scrisse allora. Ma nella foga dell’«embrassons-nous», come dicono i francesi, gli scappò la mano e così la democrazia francese divenne addirittura millenaria. Ma non era Atene, semmai? Qualche mese prima, accogliendo il presidente cinese Xi Jingping, l’allora vice premier in un empito di simpatia lo aveva chiamato «Mr Ping». Memorabile poi lo strafalcione storico-geografico commesso ai tempi del referendum costituzionale quando paragonò il tentativo dell’ex premier Matteo Renzi di mettere mano alla carta fondamentale al golpe cileno. Peccato che scrisse: «Come ai tempi di Pinochet in Venezuela».

Albatros o airone?

Anche l’ex premier Renzi è incorso in un clamoroso scivolone. Proprio durante gli Stati generali della lingua italiana a Firenze. Voleva citare Baudelaire, ma scambiò l’albatros della celeberrima poesia con un airone. Intervenne pure la Lipu!

Austerlitz o Auschwitz?

Alessandro Di Battista. Luglio 2017, interrogazione all’allora ministro degli Interni Marco Minniti sull’emergenza migranti. Dice Dibba: «Macron piace a tutti quanti voi come se fosse Napoleone ma almeno quello combatteva sui campi ad Auschwitz e non nei cda delle banche d’affari». Voleva dire Austerlitz, forse...

Prima i tos-cani (anche prima dell’ortografia)

Prima gli italiani? Nell’Italia dei campanili si presta ad almeno venti declinazioni diverse: prima i veneti, i lombardi, i toscani (per non parlare di fiorentini, senesi, livornesi). Voleva essere una trovata spiritosa, quella dei leghisti toscani Roberto Salvini, Jacopo Alberti, Luciana Bartolini, Roberto Biasci, Marco Casucci e Elisa Montemagni. Presentarsi al consiglio regionale in fila per cinque con altrettante magliette che lette in successione recitavano lo slogan suddetto. Peccato per l’erroraccio da matita blu nella divisione in sillabe. Come si impara, o almeno si dovrebbe imparare, già in quinta elementare, si scrive «to-sca-ni», non «tos-ca-ni» (che suona pure male...). Immediato il fuoco di battute in Rete. A partire dal sindaco di Firenze Dario Nardella che ha subito postato un tweet di risposta: « Da #Firenze, città di Dante e dell’Accademia della Crusca ... PRIMA L’ITALIANO!!!!!!!!! To-sca-ni. Segnatevelo per la prossima volta... @AccademiaCrusca @comunefi @la_dante».

Egida o egidia?

A tradire Roberto Fico sono state le Nazioni Unite. Ospite in tv da Lucia Annunziata, il presidente della Camera (terza carica dello Stato) è scivolato sul Global Compact. «Si tratta di un patto globale sotto l’egidia dell’Onu», ha spiegato. Intendeva dire «sotto l’egida», naturalmente, ma gli è scappata una «i» di troppo. La Rete non ha tardato a farsi sentire: «Mi ha chiamato Egidia dell’Onu. Mi ha detto che con Fico è stata solo un’avventura».

Romolo e Remolo

E’ rimasta negli annali degli strafalcioni politici la volta che Silvio Berlusconi al vertice di Pratica di Mare attribuì la fondazione di Roma a «Romolo e Remolo». Inevitabili le ironie sui sette nani di Roma e via discorrendo.

Ma che c’azzecca

Inciampi, refusi, erroracci da matita blu. Poi ci sono le sgrammaticature rivendicate con orgoglio, come quel «Che c’azzecca» di Antonio Di Pietro che l’allora pm di Mani Pulite brandiva durante le sue arringhe come un marchio di fabbrica del suo stile informale, «made in» Montenero di Bisaccia.

Gli uomini sessuali

L’ex senatore Antonio Razzi ha collezionato un’intera enciclopedia di erroracci grammaticali, dagli «uomini sessuali» (voleva dire «omosessuali») al «se sarei» pronunciato davanti a Palazzo Madama lo scorso marzo, quando ormai era rimasto fuori dal Parlamento.

Le «traccie» della Maturità

E’ rimasta negli annali degli studenti la clamorosa gaffe con cui il ministero dell’Istruzione, allora retto da Valeria Fedeli, due anni diffuse un comunicato sulle «traccie» con la I della maturità. Irriferibili i commenti.

Mendel o Mendeleev?

Più di recente il ministro di Marco Bussetti, in occasione della Settimana della Cultura scientifica e tecnologica, ha diffuso un comunicato in cui la tavola degli elementi veniva attribuita al genetista Mendel anziché al chimico russo Mendeleev. Lapsus calami? Ai posteri l’ardua sentenza.

Vadi, Fantozzi

Incidente con il congiuntivo anche per il segretario generale della Cgil Maurizio Landini che, citando involontariamente «Il secondo tragico Fantozzi», ha detto in tv: «Vadi in qualsiasi luogo di lavoro, vadi in un centro commerciale, vadi in un ospedale, vadi in un’azienda, vadi in una logistica: sa cosa succede? Ci sono persone che pur facendo lo stesso lavoro, non hanno gli stessi diritti».

Irritamento o irritazione?

«Difficile nascondere il nostro irritamento per la scelta di non essere in segreteria...». E in effetti doveva essere davvero tanta l’irritazione di Roberto Giachetti per fargli prendere uno svarione su Twitter. In italiano infatti la parola irritamento esiste ma - spiega la Treccani - essa significa un’altra cosa da quella a cui voleva alludere il deputato Pd ed ex candidato alle primarie di area renziana sconfitto da Zingaretti. E cioè: «l’azione, il fatto di irritare, in alcuni sign. del verbo (v. irritare1): i. dello sdegno, dell’orgoglio, delle passioni». Solo raramente irritamento è usato come sinonimo di irritazione, per indicare lo stato di chi o di ciò che è irritato. «Con senso più concr., ciò che è causa d’irritazione: la polvere, il fumo è un i. degli occhi; ant., irritamenti della gola, i cibi che eccitano la gola, cioè stuzzicano l’appetito.

Valeria Forgnone per repubblica.it il 5 ottobre 2021. Personaggi conosciuti, No Vax, rifugiati, musicisti, vip. Chi ce l'ha fatta e chi no. Tra le migliaia di candidati nelle grandi e piccole città al voto, tra gli eletti spiccano nomi e liste inaspettate. A Milano, ad esempio, con 903 voti entra in consiglio comunale l'avvocata Chiara Valcepina, finita al centro delle polemiche dopo l'inchiesta 'Lobby nera' di Fanpage sull'estrema destra. Recordman di preferenze tra i candidati il giornalista-capolista di FdI, Vittorio Feltri, eletto con 2.268 preferenze. Boom di voti, ben 2.586, per la sardina Mattia Santori, a Bologna: è stato infatti il candidato del Pd più votato, grazie anche alla benedizione di Romano Prodi, battuto però da miss preferenze Emily Clancy. Nel consiglio comunale di Trieste siederà invece il No Vax Ugo Rossi con la sua lista che si è attestata al 4,59%. Un altro No Vax ce l'ha fatta a Rimini: è Matteo Angelini che con la lista '3V Verità Liberta" ha ottenuto più voti del M5S tanto da essere eletto con il 4,13%. Restano fuori dal consiglio regionale in Calabria, l'ex sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, e l'ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, condannato a 13 anni per presunte irregolarità nella gestione dei migranti. Esclusi i musicisti a Torino: non ce l'hanno fatta Max Casacci dei Subsonica e Johnson Righeira del famoso duo anni Ottanta. E l'ex bambino volto della Kinder, Manuel Perga, candidato con Torino bellissima di Paolo Damilano. Mentre ha qualche probabilità di farcela, il rifugiato somalo Abdullahi Ahmed Abdullahi, arrivato in Italia con il barcone. 

Milano: dalla 'Lobby nera' al consiglio comunale

Sono cinque i seggi assegnati a Fratelli d'Italia a Milano: due sono per l'avvocata Chiara Valcepina e Francesco Rocca, tra i protagonisti dell'inchiesta giornalistica sull'estrema destra di Fanpage.it. Alla prima sono andate 903 preferenze, a Rocca 606. Il partito guidato da Giorgia Meloni conquista il 9,76% dei voti in città, di poco sotto la Lega, che arriva al 10,74% e a Palazzo Marino avrà 16 consiglieri di opposizione. Recordman di preferenze tra i candidati il giornalista Vittorio Feltri, capolista, eletto con 2.268 preferenze.

Roma: Rachele Mussolini la più votata

Boom di preferenze per Rachele Mussolini, candidata nella lista di Fdi, figlia di Romano e sorellastra di Alessandra. Risulta così la più votata a Roma nella lista di Fratelli d'Italia con più di 3.500 preferenze: Rachele Mussolini era già entrata in assemblea capitolina durante i cinque anni di Virginia Raggi, eletta allora nella lista civica di Giorgia Meloni. Da Miss Italia a 'miss flop': non è andata bene a Nadia Bengala, 'reginetta d'Italia' nel 1988, scelta per la prima volta con il televoto, si era candidata in una lista civica pro Raggi ma ha incassato solo 7 preferenze. Dalla più votata nella capitale al flop più grande, quello di Pippo Franco. Il comico del bagaglino, in corsa per il candidato sindaco del centrodestra Enrico Michetti, ha preso solo 18 preferenze.

Bologna: battuto il recordman Santori

La miss preferenze a Bologna è Emily Clancy, consigliera comunale uscente e leader di Coalizione civica, che ha otteuto 3.541 consensi al suo nome. Battuto il recordman, la sardina Mattia Santori, che ne ha presi mille in meno, ben 2.586 voti, campione di preferenze nella lista del Pd che ha sostenuto Matteo Lepore. Nel nuovo consiglio comunale di Bologna, per coalizione, siederà anche la paladina dei ciclisti Simona Larghetti (ha ricevuto 1.015 preferenze).

Torino: fuori i musicisti

A Torino non ce l'hanno fatta i due musicisti candidati: restano fuori dal consiglio comunale Max Casacci dei Subsonica che correva per una lista civica di centrosinistra e ha ottenuto comunque 539 voti e Johnson Righeira, per lui solo 28 voti con i comunisti di Marco Rizzo. Poche preferenze anche per l'ex bambino volto della Kinder Manuel Perga, candidato con Torino Bellissima di Paolo Damilano. Incrocia le dita, il rifugiato somalo Abdullahi Ahmed Abdullahi, classe 1988, arrivato in Italia con il barcone: entrerà in consiglio solo se Stefano Lo Russo vincerà il ballottaggio contro Damilano il 17 e 18 ottobre. Si è integrato così bene da fondare un Festival premiato dall'Unione Europea. Ha preso 1.112 voti e se dovesse vincere Lo Russo sarebbe il primo rifugiato in Consiglio comunale. Delusione per Osvaldo Napoli fermato per 16 punti dai No Tav. Lo storico volto di Forza Italia ora deputato di Cambiamo si è proposto come sindaco nel paesino valsusino di Mompantero (409 votanti) e ha perso 42 a 58 contro una lista civica No Tav. 

Calabria: De Magistris e Lucano non ce la fanno

Fuori dal consiglio regionale della Calabria due ex. Non ce l'hanno fatta l'ex sindaco di Riace Mimmo Lucano ad essere eletto: nonostante l'ottimo risultato personale (9.779 preferenze), la sua lista a sostegno del candidato governatore Luigi de Magistris non ha raggiunto la soglia di sbarramento del 4% fermandosi al 2,39. Lucano, giovedì scorso, a tre giorni dal voto, era stato condannato dal Tribunale di Locri a 13 anni e 2 mesi per presunte irregolarità nella gestione dei migranti del "modello Riace". Una condanna che ha provocato numerose polemiche politiche. In caso di elezione tuttavia la Legge Severino gli avrebbe impedito di assumere un incarico elettivo pubblico sia pure dopo una condanna in primo grado, pronunciata dai magistrati a poche ore dal voto. Il sorpasso con la candidata del centrosinistra e dei 5S, Amalia Bruni, non c'è stato. Così la coalizione che sostiene l'ex Pm di Catanzaro ed ex sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, primo a ufficializzare la sua candidatura a governatore nei mesi scorsi, conquista due seggi assegnati a "de Magistris presidente", l'unica lista della coalizione in suo sostegno ad aver superato lo sbarramento del 4% previsto dalla legge elettorale calabrese, ma lui resta fuori perché entra in Consiglio solo il miglior perdente rispetto al vincitore, ossia Amalia Bruni.

No Vax a Trieste e Rimini

Nel consiglio comunale di Trieste siederà un No Vax. È Ugo Rossi, con la lista 3V che si è attestata al 4,59%. Un altro No Vax avrà un posto anche a Rimini: la lista '3V Verità Libertà' ottiene alle elezioni amministrative più voti del Movimento 5 stelle ed elegge un consigliere. Matteo Angelini, candidato sindaco, entra in consiglio comunale grazie al 4,13% dei voti ottenuti dalla lista. I grillini, che sostenevano invece Gloria Lisi, si sono fermati al 2,45 %.

Ancona: dentro la madre di Gimbo Tamberi

Ce l'ha fatta la madre del campione olimpico Gianmarco 'Gimbo' Tamberi: Sabrina Piastrellini, insegnante di educazione fisica, è stata eletta consigliera comunale a Camerano (Ancona) con una lista civica di centrodestra e siederà sui banchi dell'opposizione.

Diodato Pirone per "il Messaggero" il 4 ottobre 2021. Enzo Risso è direttore scientifico di Ipsos, fra i principali centri italiani di ricerche di mercato e di sondaggi politici. A lui chiediamo alcune chiavi di lettura del voto delle amministrative alla parzialissima ma significativa luce delle affluenze. 

Dottor Risso cosa la colpisce di più dai primi dati sull'affluenza che stanno emergendo?

«Premesso che si tratta di elementi parziali che andranno analizzati compiutamente a bocce ferme, possiamo ricavare qualche linea di tendenza. La prima è che si delinea un abbassamento della partecipazione soprattutto nelle periferie anche se il fenomeno ha connotazioni diverse da città a città perché, come in tutti i voti, anche in questa tornata amministrativa si intersecano varie spinte».

E cioè?

«Mi pare evidente che in alcune città il richiamo delle elezioni locali è stato modesto».

Cosa vuol dire?

«Prendiamo il caso di Bologna. Alle 19 ha votato circa il 30% degli aventi diritto contro il 46% del 2016. È vero che cinque anni fa si votava in un giorno solo ma la differenza è enorme. Sembra evidente che una parte degli elettori abbia deciso di stare a casa perché non ha gradito il candidato o i candidati oppure perché considerava già perdente la propria parte politica. Si tratta di ipotesi che possono riguardare tutto l'arco dei partiti ma ovviamente lo spoglio ci aiuterà a capire».

Cos'altro può aver raffreddato l'elettorato?

«La grande quantità di liste e di candidati certamente non ha fatto bene. Una parte degli elettori sembra aver avuto una reazione di rigetto a una proposta troppo articolata e di cui è difficile percepire l'attrazione. Ma anche i candidati non sempre sembrano essere stati all'altezza o comunque in alcune città non sono stati percepiti come leve per governare secondo le esigenze più sentite della popolazione».

Non pensa che un governo di unità nazionale e una figura così poco retorica come quella del premier Mario Draghi abbiano potuto sopire il vento di protesta che pure in passato ha travolto proprio le urne delle elezioni amministrative?

«Paradossalmente un governo con un'ampia maggioranza non attizza la protesta perché gli elettori percepiscono che il loro voto alle amministrative difficilmente si tradurrebbe in un segnale di indebolimento del governo. L'afflato del voto di protesta è indubbiamente sceso». 

Dunque nelle periferie l'ordine regna sovrano?

«Tutt' altro. Il disagio sociale in Italia resta fortissimo e non potrebbe essere diversamente dopo lo tsunami del Covid. Il magma della rivolta però sta cercando canali diversi da quelli nei quali si era infilato negli anni scorsi». 

E politicamente come si esprime?

«Intanto bisognerà analizzare bene i risultati di queste comunali. In ogni caso entrambi gli schieramenti più forti, semplificando il centro-destra e il centro-sinistra, farebbero bene a non cantare vittoria o a far finta d'aver vinto. Il messaggio di queste amministrative andrà studiato in profondità. Perché magari il profilo del voto delle grandi città sarà diverso da quello dei centri della provincia e perché comunque le periferie restano una delle linee di frattura della nostra società ancora irrisolta».

Italia: il collasso della Politica e la profezia di Moro. Piccole Note il 4 ottobre 2021 su Il Giornale. “Sia Salvini che Conte non riescono proprio a ficcarsi nella testa che mettersi contro l’establishment, nazionale ed europeo, non poteva non condurre ad aprire qualche armadio e buttare all’aria i vari scheletri”. Inizia così una nota di Dagospia dedicata alle inchieste giudiziarie (caso Morisi, caso Di Donna) che stanno tirando giù i due leader politici. Operazione che sembra riuscita con Salvini e con prospettive di riuscita per Conte. Dago aggiunge che si credevano onnipotenti, ma erano solo burattini che i burattinai ora buttano nel cestino della storia. In realtà la storia dei due è diversa, e la realtà più complessa, come indica la crisi innescata da Salvini, quando tentò di buttare giù il governo gialloverde nell’idea di andare alle urne e prendersi tutto, ipotesi naufragata a causa dell’accordo che diede il “la” al cosiddetto governo giallorosso. Allora a stoppare Salvini fu Trump, che tutti i giornali indicavano come referente dei populisti di cui Salvini sarebbe stato il leader italiano. Fu il tweet del presidente americano, infatti, il famoso “sto con Giuseppi”, che fece naufragare la prospettiva aperta dal leader della Lega. Insomma, l’asse Salvini-Conte appartiene alle narrazioni semplicistiche. E però è vero che Salvini e Conte diedero vita al governo gialloverde, che l’establishment recepì come una scortesia, il quale, nato sotto un nefasto auspicio  (il crollo del ponte Morandi), ebbe un decorso faticoso fino al suo surreale epilogo. Ma a quanto pare, non sono solo Salvini e Conte ad attraversare acque tempestose, dato che anche Fratelli d’Italia è finito nella bufera, piccolo segnale che anche questa forza politica, che sembrava proiettata a governare l’Italia, deve limitare i sogni di gloria. Un Processo che si è dato anche nel partito democratico, ma in maniera più silenziosa, con cambi di guardia mirati e rottamazioni permanenti. Quel che sta avvenendo, ricorda quanto avvenne nel ’92, quando una tempesta si abbatté sulla politica italiana, incenerendola, anche se lo tsunami di allora si ripete in farsa, cioè con una limatina, ché tanto basta a smussare gli angoli della politica italiana ancora non del tutto in linea con i dettati del sistema internazionale, che percepisce anche deviazioni minime dai suoi dogmi come sfide esistenziali.

Smussare gli angoli della Politica. Normali vicissitudini della storia. La variabile Trump ha lasciato la Casa Bianca e l’establishment internazionale mette un po’ d’ordine nella colonia, cosa che finché l’Italia è rimasta una Repubblica indipendente, sebbene a sovranità limitata, non si dava, da cui la continuità di governo del Dopoguerra italiano, durato oltre quarant’anni. Un governo binario, fondato sull’asse dei due partiti popolari Dc-Pci, che godeva dell’appoggio altalenante dei circoli imprenditoriali, finanziari e culturali italiani (con punte di feroce avversione). La fine di tale asse, che ha avuto nel ’92 il suo redde rationem – devastante nella Dc, silenzioso nel Pci – e nella strage di Capaci, dove furono uccisi Falcone e la sua scorta, il suo momento simbolico, ha dato vita a una lunga e sanguinosa transizione, conclusasi con l’insediamento del governo Draghi. Al di là della persona, l’uomo è simbolo della nuova sovranità del nostro Paese, una sovranità subordinata che assegna al Primo ministro un ruolo da viceré, dal momento che regna in nome e per conto dei nuovi padroni dell’Impero americano e dei vecchi e sclerotici poteri della cosiddetta Unione europea. Il viceré, in quanto tale, non ha margini di manovra per quanto riguarda la proiezione estera del nostro Paese, che nel dopoguerra aveva assunto un ruolo di primo piano nel Mediterraneo e nel mondo grazie alla capacità del suo governo (cioè dell’asse Dc-Pci) di parlare con russi e americani, ebrei e arabi, ponendosi spesso come tramite nei loro conflitti; e grazie alla Chiesa, che comunque aveva un ruolo rilevante nel mondo, ormai residuale, che accresceva il peso di tale governo (anche, cioè, delle forze che non facevano riferimento a essa). Questo il nuovo status italiano e il peso specifico del nostro viceré, che può essere misurato dall’eco che ha avuto il suo annuncio del G-20 straordinario sull’Afghanistan (ignorato dai media internazionali nonostante si tratti di un tema cruciale della politica internazionale, neanche fosse il premier del Burkina Faso). Ciò non vuol dire che il nostro viceré non possa assurgere a una dimensione internazionale, come d’altronde gli è capitato ai tempi della reggenza della Bce, ma solo e soltanto quando si muova in sintonia con i poteri che gli hanno conferito la carica, potendo al massimo usare gli spazi di manovra che si aprissero in una vera dialettica tra Ue e Usa, forse in aumento dopo il caso dei sommergibili atomici australiani. Resta da vedere se la lotta per il Quirinale, vedrà il viceré vincente o meno. Cresce, infatti, la spinta per trattenerlo a Palazzo Chigi, cioè per toglierlo da quella corsa che, se evitava il passaggio politico, gli era forse più facile. Il fatto che i media e la politica pongano domande sulla sua ipotesi quirinalizia indica che la strada non è spianata come sembrava in partenza, anche se non è detto che le alternative siano migliori. Ma al di là del destino di Draghi, resta la derelitta Italia, che ai flagelli pandemici ed economici vede sommarsi quelli di una classe politica inerme o fantasmatica, quando non consegnata ai poteri internazionali, incapace e/o impossibilitata ad agire per porre argini al declino del Paese o che rema attivamente in tal senso (vedi alla voce Renzi, non per nulla decisivo nell’ascesa del viceré e sempre in Prima linea sui media nonostante rappresenti, in termini di voti, se stesso).

La profezia di Moro. Tale il portato del ’68, che ha avuto nel ’78, l’omicidio Moro, il primo grande successo di una rivoluzione colorata ormai vittoriosa. Tanti sinceri analisti che tentano di porre domande su quanto sta avvenendo, a volte cadendo nel complottismo, parlano di reset, di nuovo potere autoritario e altro, senza accorgersi che non c’è nulla di nuovo: è solo l’emersione potente e prepotente di qualcosa di feroce iniziato tempo fa, rimasto invisibile ai più per anni, e che si palesa in tutto il suo fulgore. Qualcosa che la politica del tempo che fu conosceva molto bene e aveva pronosticato. Così riportiamo un passo del memoriale Moro che, letto oggi, appare più profetico che mai. “Io fui a colazione da Volpe [ambasciatore Usa in Italia ndr.] una sola volta in compagnia del Segretario Generale Amb. Gaja per una breve, generica ed inconcludente conversazione. Seppi poi, ed il fenomeno divenne sempre più vistoso, che non mancarono all’Ambasciata occasioni d’incontro politico-mondano, al quale peraltro, senza alcun mio dispiacere, non venivo invitato”. “Si trattava di questo, per quel che ho capito, di una direttiva cioè del Segretario di Stato Kissinger, il quale per realismo continuava a puntare sulla D.C., ma su di una [D.C. ndr] nuova, giovane, tecnologicamente attrezzata e non più su quella tradizionale e non sofisticata alla quale io appartenevo”.  “Cominciarono a frequentare sistematicamente l’ambasciata giovani parlamentari (io so, ad es., di Borruso e Segni; ma immagino che il De Carolis, Rossi ed altri fossero volentieri accettati). Insomma si ebbe qui, non per iniziativa dell’Ambasciatore, ma dello stesso Dipartimento di Stato, un mutamento di rapporti, che prefigurava un’Italia tecnocratica, che tra l’altro parla l’inglese, più omogenea ad un mondo più sofisticato e, per così dire, più internazionale che si era andato profilando”. Tutto previsto, dunque, dove alla D.C., allora partito Stato, si è sostituito un potere altro, solo più apparentemente frastagliato, in realtà molto più monolitico. Così concludiamo con una nota di Rino Formica: “La crisi dei partiti ha investito le istituzioni, ed è una crisi che si vorrebbe risolvere dicendo che non c’è più destra e sinistra ma c’è l’istituzione. Questo porta a una novità: le istituzioni si fanno partito politico. Lo stato diventa partito” (Domani, ripreso da Dagospia). Dove per Stato si intenda la tecnocrazia fatta ormai istituzione.

Alessandro Sallusti contro Raggi e Appendino: "Ragazzine presuntuose e arroganti, il disastro fu servito". Libero Quotidiano il 03 ottobre 2021. Se fosse per i Cinque Stelle e per la sinistra oggi avremmo ancora premier Giuseppe Conte, Arcuri sarebbe commissario per il Covid, la Azzolina governerebbe sulla scuola e Toninelli avrebbe voce in capitolo. Poi, per fortuna, Renzi ha avuto un guizzo, Berlusconi e Salvini lo hanno assecondato e dal cilindro è uscito Mario Draghi, Pd e grillini hanno fatto buon viso a cattiva sorte e l'Italia si è rimessa in marcia. Oggi c'è l'occasione di fare ripartire città che in mano alla sinistra e ai grillini sono ferme, paralizzate da quel vento giustizialista che soffiò cinque anni fa e che aveva fatto credere ai romani e ai torinesi che la competenza e l'esperienza in politica fossero degli optional, al punto da consegnare le chiavi delle città a due ragazzine presuntuose e arroganti di nome Raggi e Appendino e il disastro fu servito. Ai milanesi andò meglio, Beppe Sala non era certo l'ultimo arrivato, ma un conto è organizzare da manager l'Esposizione Universale, altro è dare un indirizzo politico allo sviluppo della città. E qui mister Expo è rimasto irretito dalla demagogia di quella sinistra radicale che gli ha assicurato i voti necessari per governare: porte aperte agli immigrati clandestini, strizzate d'occhio ai centri sociali, via libera all'ambientalismo della decrescita felice con piste ciclabili che uccidono il commercio e strozzano la mobilità. Oggi c'è la possibilità di ribaltare la situazione. Impresa difficile, ma vale la pena di provarci. Ricordiamoci una cosa importante. Impedire ai candidati della sinistra di vincere al primo turno li costringerà a chiedere aiuto al ballottaggio ai grillini, il che invece che rafforzarli li indebolirà perché i due elettorati non si amano per nulla. Le aggressioni mediatiche e giudiziarie al centrodestra degli ultimi giorni sono la prova che a sinistra hanno paura. Quando si arriva a evocare, come ha fatto ieri Enrico Letta, lo spettro del nazismo significa che si teme la democrazia delle urne. Andiamo a votare e giochiamoci questa partita, nelle grandi città - Milano, Roma, Torino, Napoli e Bologna - si parte da un cinque a zero per loro del 2016. Non abbiamo nulla da perdere, solo da guadagnarci. 

Diodato Pirone per “il Messaggero” il 3 ottobre 2021. Per ogni poltrona da sindaco corrono in media 8,53 candidati. Per i 17 posti da primo cittadino in palio oggi e domani in altrettanti Comuni capoluogo si registrano infatti ben 145 candidature. Capi di un esercito di 13.281 nominativi disseminati in un paio di centinaia di liste per poco più di 400 incarichi da consigliere comunale. Più che una competizione elettorale quella che parte stamattina sembra avere la stazza di un concorso per la scuola o per l'Inps. Peccato che a farne le spese saranno gli elettori, specialmente i meno giovani, che fino alle 15 di domani dovranno domare maxi-schede aggrovigliate ed estese come lenzuola. Talmente grandi che sarà difficile aprirle e chiuderle ma soprattutto stenderle sull'apposito ripiano della cabina elettorale per apporre la classica croce sul candidato prescelto. Meglio arrivare al seggio armati di pazienza e idee chiare. Tutto lascia credere che in cabina non mancheranno acrobazie fantozziane. Anche perché le mostro-schede sono due: a quella per le comunali (a Roma di colore azzurro) va aggiunta quella grigia - altrettanto immensa - per la Circoscrizione. Non solo. Circa 200.000 elettori capitolini del collegio Primavalle della Camera, o almeno quelli che si recheranno alle urne, dovranno fronteggiare una terza scheda (rosa) dedicata all'elezione del loro deputato. Le maxi-schede sono figlie di una legge folle che permette la proliferazione delle liste senza limiti a favore di partiti liquidi a caccia di consenso a buon mercato. Il risultato è da manicomio: 31 liste a Napoli con ben 1.200 candidati; 22 (ventidue) candidati a sindaco e 39 (trentanove) liste a Roma; a Milano il candidato di centro-sinistra, Beppe Sala, troneggia su otto liste ; ovunque i candidati del centro-destra non sono da meno; ha ceduto anche il Movimento 5 Stelle, finora sempre presente con un solo simbolo, che si fa affiancare da sedicenti civici. Come sempre in Italia al tragico si unisce un filone comico. Nelle schede si segnala la presenza di due o tre simboli con la falce e il martello. Come facciano i gruppuscoli comunisti italiani a dividersi persino sulla raccolta dei rifiuti resterà un mistero nella storia del proletariato mondiale. Poi ci sono le formazioni bizzarre, dal Partito delle buone maniere, ai No Vax con vari marchi, ai candidati che si ispirano agli imperatori romani, alle liste che spaccano il capello in quattro: Napoli Libera è in concorrenza con Napoli solidale e tutte e due sono contro Essere Napoli. Nessuna che intenda affrontare l'enorme debito accumulato dal Comune di Napoli. Non mancano infine episodi di narcisismo di candidati-comparse dei talk show pollai delle tv oppure di trombati che puntano a togliere voti a ex compagni di partito. E' triste scriverlo, ma più il circo si gonfia e meno elettori si recano alle urne visto che nel 2016 nelle grandi città l'affluenza è stata fra il 50 e il 60% contro il 73% registrato per la Camera nel 2018. Un prezzo inaccettabile. Pagato dalla collettività, nella maggioranza dei casi, a piccoli gruppi di potere in grado di negoziare assunzioni nelle municipalizzate e appalti grandi e piccoli fra il primo turno e i ballottaggi. Diodato Pirone

Francesco Malfetano per “il Messaggero” il 3 ottobre 2021. Urne ufficialmente aperte lungo tutta la Penisola. Dal comune più piccolo, Morterone in provincia di Lecco, con soli 27 elettori, fino al più grande, Roma con quasi 2,3 milioni di aventi diritto. Da questa mattina alle 7 fino alle ore 23 di stasera, e poi di nuovo dalle 7 fino alle 15 di domani, oltre 12 milioni di italiani (tra cui 136.329 neomaggiorenni al voto per la prima volta) potranno infatti recarsi ai seggi elettorali in 1.192 Comuni per rinnovare sindaco e giunta comunale; o, per i cittadini calabresi, scegliere il nuovo presidente della Regione. Urne già pronte inoltre per le suppletive a Siena e a Roma-Primavalle. Tra accessi contingentati e mascherine obbligatorie (consentito abbassarla solo per farsi identificare dal presidente di seggio), quella al via è la seconda tornata elettorale dell'era Covid, dopo l'election day dello scorso anno. L'appuntamento è imponente e coinvolge circa il 15 per cento dei comuni dello Stivale. Tuttavia gli occhi sono però puntati tutti sulla sfida dei sindaci in sei capoluoghi di regione: Bologna, Milano, Napoli, Torino, Trieste e soprattutto Roma. Per la Capitale infatti si tratta di una sfida decisiva. Mai come questa volta le urne sono il punto di inizio di una stagione politica di irrinunciabile rinnovamento per Roma, che può tornare ad essere traino di un'intera porzione della Penisola. La città necessita di cambiare marcia e ha le carte in regola per farlo con i fondi del Pnrr, il Giubileo del 2025 e la candidatura, tutta da costruire, per l'Expo 2030. A prescindere da chi sarà il nuovo inquilino del Campidoglio tra Carlo Calenda, Roberto Gualtieri, Enrico Michetti e Virginia Raggi, la sola certezza oggi è che questo è un percorso irrinunciabile. Anche per questo è fondamentale che partecipino al voto in tanti tra i 2,3 milioni di romani chiamati alle urne (tra cui spica il numero più alto di diciottenni: quasi 23 mila). Come fa sapere il Viminale i primi dati sull'affluenza di tutti i seggi della Penisola saranno disponibili da oggi alle ore 12, attraverso l'app Eligendo Mobile o sul sito dedicato. Il clima che si annuncia poco favorevole però potrebbe condizionare molti cittadini, finendo con l'invertire il trend delle ultime tornate elettorali: nel 2019 e nel 2020 in media la partecipazione degli aventi diritto è stata un po' più alta rispetto al 2015 (rispettivamente il 65,6 per cento, il 67,6 e il 64,3), con la sola tornata paragonabile, quella del 2016, che registrò un 62,1 per cento. Nulla da dire invece sul fronte della partecipazione dell'elettorato passivo. I candidati sono infatti un esercito: 2.855 per la carica di sindaco e 62.294 per il ruolo di consigliere comunale, ma guardando alle statistiche del ministero dell'Interno, si tratta per lo più di una corsa al maschile. Sono meno di una su cinque le candidate sindaco: addirittura 25 su 145 nei 17 comuni capoluogo nelle regioni a statuto ordinario e 535 sui 2.855 (il 18,6 per cento del totale) nei quasi 1.200 comuni al voto. Da registrare anche come siano risultate particolarmente infuocate le ultime ore di campagna elettorale. Non tanto per i comizi tenuti dai leader di partito a sostegno dei propri candidati o per le numerose polemiche politiche dell'ultima ora, quanto per alcuni riprovevoli episodi. Due aggressioni e un atto vandalico con vittime esponenti del M5s, e una intimidazione a un consigliere regionale del Pd ricandidato in Calabria. In particolare a Nardò, in Salento, un candidato al Consiglio comunale dei 5Stelle, Tiziano De Pirro, sabato sera è stato colpito con un pugno mentre raggiungeva il palco per il comizio finale, riportando alcune ferite. Tante e bipartisan le condanne. «Episodi di questo genere - è intervenuto il leader dei 5S, Giuseppe Conte - sono di una gravità inaudita. Recrudescenze di odio e intolleranza di questo tipo sono non solo dannose ma pericolose». 

I nostalgici con falce e martello. Francesco Maria Del Vigo il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. All'armi son comunisti. E sono tanti. Più di quello che ci si potrebbe immaginare. Basta dare un'occhiata alle liste dei candidati dei principali comuni al voto. All'armi son comunisti. E sono tanti. Più di quello che ci si potrebbe immaginare. Basta dare un'occhiata alle liste dei candidati dei principali comuni al voto: è tutto un fiorire di falci e martelli sulle schede elettorali. Nonostante negli ultimi giorni sotto i riflettori della stampa sia finita la presunta galassia nera, c'è un'intera costellazione rossa che, sotto molteplici insegne, corre per avere un posto in consiglio comunale. Tutto assolutamente legittimo e legale, ma nel 2021 a cento anni dalla fondazione del Pci (quello originale, non uno degli attuali tarocchi) e a più di centocinquant'anni dal primo volume del Capitale tutto questo proliferare di compagni è quantomeno naïve. A Milano i partiti che esibiscono la falce e il martello nel loro simbolo sono addirittura tre. E mica corrono insieme, bensì uno contro l'altro armati. D'altronde si sa, ogni qualvolta s'incalza un nipotino di Marx sui crimini commessi da quell'ideologia in Unione Sovietica o in Cina, lui risponde serafico: «No, ma quello è un altro comunismo». È la moltiplicazione delle falci e dei martelli, il marxismo à la carte, la diaspora dei compagni. Perché il comunismo cattivo è sempre quello altrui e, quando si chiede loro di indicarci quello buono, incredibilmente, non riescono mai a trovare un valido esempio in tutto l'orbe terracqueo. Stalin, Mao e Fidel sono sempre compagni che sbagliano. Quelli che non sbagliano, al momento, sono irreperibili. Torniamo a Milano e alle sue liste: il Partito Comunista, il Pci e il Partito Comunista dei lavoratori. Solo Torino riesce a offrire una scelta più ampia ai suoi cittadini: ai tre simboli presenti nel capoluogo lombardo si aggiunge anche Sinistra Comune. A dire il vero c'è anche Potere al popolo, che non ha la falce e il martello nel simbolo, ma abbiamo buone ragioni di pensare che non sia un covo di moderati e liberali. Gli elettori di Roma e Bologna sono decisamente più sfortunati: compaiono solo due partiti comunisti su ogni scheda elettorale. Insomma, nonostante l'allerta sempre altissima per il ritorno delle formazioni di estrema destra, quelle di estrema sinistra sembrano godere di ottima salute ed essere iperattive nella vita democratica dello Stivale. Il proliferare di tutti questi simboli oramai viene derubricato come folklore politico. E va bene così, non ci sono, per fortuna, armate rosse alle porte delle nostre città e il marxismo è stato già ampiamente sconfitto dalla storia, prima ancora che nelle urne. Però vale la pena ricordare la storica risoluzione europea del 19 settembre del 2019, quella che equipara il nazismo al comunismo perché, dietro quel simbolo che oggi è poco più che una carnevalata, c'è una ideologia criminale e, dietro quell'ideologia, qualche milione di morti.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati. 

Marcello Sorgi per “La Stampa” il 2 ottobre 2021. Un partito che ha nelle sue file due tipi come Carlo Fidanza e Roberto Jonghi Lavarini, il primo autospeso dopo le rivelazioni dell'inchiesta di Fanpage, entrambi difesi dalla leader Meloni, può aspirare alla guida del governo? Quasi quasi verrebbe da concordare con Berlusconi, che i suoi alleati li conosce bene, ed esclude, per loro, un futuro a Palazzo Chigi. Anche se le rivelazioni che riguardano i due partiti hanno effetti diversi. Nel caso di FdI, infatti, oltre al dubbio sulla disponibilità a finanziamenti illeciti di campagne elettorali, emerge la storica carenza di dirigenti politici della destra. Fini almeno fece un tentativo, tra molte resistenze interne, di innestare nel corpaccione del partito post-fascista qualche figura di intellettuale che avrebbe dovuto scolorire l'anima più dura dell'ex-Msi. Meloni invece, pur tenendosi i reduci dell'esperienza di Alleanza nazionale, tal che La Russa è oggi considerato il numero due di FdI, ha voluto intorno a sé la generazione nuova della destra giovanile, senza alcun riguardo per le biografie personali e per il passato non sempre esemplare. Da questo punto di vista i due casi di Fidanza e Jonghi Lavarini sono emblematici. Giovani nostalgici del fascismo e in qualche caso anche del nazismo, assurti in fretta, per mancanza di competitors interni nel partito, a incarichi di responsabilità istituzionale, come la guida della pattuglia di eletti al Parlamento europeo. Ora che il velo è caduto, non sorprende che, conoscendo il rigore di Bruxelles e Strasburgo su certi argomenti, Fidanza sia corso ad autosospendersi, sperando di evitare conseguenze più serie. Ma dietro a questo caso c'è una questione aperta che Meloni, presto o tardi, non potrà eludere: perché diversamente da Alleanza Nazionale, il partito di Fini che nacque sulla base di una pubblica abiura di ogni nostalgia del fascismo, Fratelli d'Italia non ha mai voluto affrontare pubblicamente il problema. Dando per scontato che ci avevano pensato i fratelli maggiori di An. Ma non esplicitando mai chiaramente se le conclusioni a cui erano giunti nello storico congresso di Fiuggi del 1994 siano ancora condivise, e in che modo, da FdI. Un'affermazione che, oltre a portare chiarezza, farebbe giustizia di certe inspiegabili carriere.

Simul stabunt, simul cadent. Salvini e Meloni nei guai insieme tra i casi Morisi e Fidanza. Claudia Fusani su Il Riformista il 2 Ottobre 2021. La prende in braccio, la tira su – con qualche tentennamento del bicipite – e sorridono insieme in posa selfie. Sarebbe bello, per Giorgia e Matteo, chiudere così, almeno per le prossime 60 ore, l’anomala campagna elettorale delle amministrative 2021. Ieri, per fortuna, a Spinaceto, periferia della Capitale, si sono visti tutti e tutti insieme. Nessun problema di ritardi con treni ed aerei come invece era successo il giorno prima tra molti nervosismi nella conferenza stampa gemella di fine campagna a Milano. I due leader hanno provato a cancellare tutto con quell’abbraccio da “gigante e la bambina”. Anche se l’originale – 2012, auditorium della Conciliazione, congresso fondativo di Fratelli d’Italia – tra Guido Crosetto e Giorgia Meloni è e resta inimitabile. Il problema è che dietro quell’abbraccio stavolta c’è la condivisone di uno status politico oltreché umano. Che l’altro giorno Silvio Berlusconi ha sintetizzato con un lapidario: «Salvini e Meloni non potranno mai essere premier». Affermazione subito smentita ma con il pregio della chiarezza della verità. Perché questi ultimi giorni hanno messo a nudo una verità che aleggia da tempo ma non era ancora tempo di tirare fuori: Giorgia e Matteo non hanno capito il vento e hanno perso l’occasione. Simul stabunt, simul cadent, stanno insieme e cadranno insieme. Con sfumature e destini diversi. Però. La pandemia ha messo in evidenza che i nazionalismi, con tutto quello che si portano dietro, non possono essere risorse. Le elezioni europee, prima ancora della pandemia, e i risultati in Germania adesso dimostrano che le destre non hanno sufficiente cittadinanza per ambire a ruoli di governo. Meloni è andata avanti dritta lungo questa strada. Ha rivendicato “coerenza”: è diventata presidente del partito dei Conservatori europei sponsorizzata da polacchi e ungheresi; è rimasta orgogliosamente fuori dal governo Draghi. Ora però per lei, come ha ben spiegato il medievalista Franco Cardini intellettuale curioso della destra, è scritto un destino da “perdente di successo”. Lei è brava e simpatica. Piace. Ma intorno ha il deserto di una classe dirigente che non si è mai affrancata dal milieu di una destra nazionalista, razzista e sessista. E non è casuale se dopo Cardini ieri l’inchiesta di Fanpage ha documentato non tanto i sospetti di finanziamento illecito della campagna elettorale su Milano ma il becerume nazi-fascista dei ritrovi al bar di quelli di Fratelli d’Italia. Carlo Fidanza, l’europarlamentare meloniano che, secondo il video di Fanpage, avrebbe gestito o comunque sarebbe stato a conoscenza del sistema del finanziamento illecito, ieri si è autosospeso dal partito negando ogni addebito e appellandosi al fatto che è stato fatto «un montaggio mirato di almeno cento ore di girato» dove sarebbe chiaro, invece, che Fidanza non ha mai incentivato certi metodi. Su epiteti, modi di dire, risate alle spalle di giornalisti non amici (come Berizzi di Repubblica), Fidanza si è scusato derubricando il tutto a modi di dire senza alcuna sostanza. Ed è già qui il problema: il significato delle parole. Che vengono pronunciate, a cui non si dà peso e che però innescano comportamenti conseguenti. Simul stabunt, simul cadent si diceva. Il fatto è che fare campagna elettorale ai tempi della pandemia e del governo Draghi ha messo a nudo tutti i limiti della destra di Salvini e Meloni. Loro si offendono se la definisci “sovranista” e “antieuropeista” e quindi no vax e no pass e no euro nelle sue tante declinazioni che di quelle categorie sono alcuni aspetti specifici. Per Meloni, quindi, molti pronosticano un futuro da Marine Le pen italiana: 15-20% (che è sempre tanto) ma mai sufficiente per governare. Un po’ diversa la situazione di Salvini. Il leader della Lega ha capito che l’aggettivo “moderato” deve diventare “sostanziale” se si tratta di ambire alla premiership di un paese fondatore dell’Europa. La decisione di appoggiare il governo Draghi è tutta qua: un investimento per il futuro, per il “centrodestra di governo”, magari verso il Ppe. Ma Salvini, Morisi o non Morisi, Bestia o non Bestia, non ce l’ha fatta a lasciare da parte le scorie della destra. Sette mesi dentro anche contro il governo lo hanno logorato. E l’inchiesta Morisi altro non è che l’inchiesta gemella di quella che vede protagonista Fidanza: il cartellino giallo che oltre non possono andare. A meno che non cambino. A meno che non accettino l’offerta di Berlusconi che ieri sulla pagine de Il Giornale ha ben spiegato perché «senza Forza Italia, senza la forza liberal-moderata-europeista, senza il Zentrum alla tedesca ancorato nel centro destra ma anche nella grande famiglia del Partito popolare europeo, quei due non vanno da nessuna parte». Potrebbe quindi essere troppo tardi per correggere la propria storia. Da qui la mestizia dell’abbraccio di ieri. Siamo arrivati così all’ultimo giorno di una campagna elettorale amministrativa molto nervosa. Diciamolo chiaro: in palio non ci sono solo i 1200 sindaci e relative giunte. In verità queste amministrative mettono in palio una nuova geografia politica. Al Nazareno, la casa del Pd, si aspettano colpi di coda dello scontro interno alla Lega, ma i più esperti (ad esempio Franceschini) avvertono che se mai ci saranno, verrebbero regolati dopo febbraio, ovvero dopo l’elezione del Capo dello Stato. Sono tanti gli indicatori che dovranno essere pesati a partire da lunedì sera. A destra e a sinistra. Nel centrosinistra occhi puntati sulle percentuali del M5S a Roma e a Torino, dopo i bagni di folla richiamati dal tour di Conte: il movimento sarà ancora vivo e continuerà ad essere un interlocutore credibile per gli alleati? Che farà Grillo? Analogo confronto, sempre nel Pd, tra le liste di Roma e Torino: nella capitale sabauda si è fatto avanti un partito più autonomo e fortemente anti 5 stelle, in assoluta controtendenza nazionale; a Roma il centrosinistra è diviso in tre, Calenda, Gualtieri e Raggi. Occhi puntati sul confronto muscolare nel centrodestra a Milano: riuscirà Giorgia Meloni a battere la Lega giocando nella sua storica roccaforte? Un eventuale sorpasso di Fratelli d’Italia acuirebbe senza dubbio i problemi di Salvini e metterebbe sempre più Meloni nel mirino. Così come la tenuta di Forza Italia oltre il 5% manderebbe all’aria i progetti egemonici di Salvini sul partito di Berlusconi. Che infatti ha sempre congelato le pretese sul partito unico. Altro quesito molto attenzionato riguarderà Calenda: quale sarà la percentuale finale del leader di Azione nella Capitale? Nel caso fossero confermate le percentuali attribuite dai sondaggi, il prossimo passo dell’ex ministro riguarderebbe la costituzione di un polo centrista, con ricadute che si farebbero sentire anche dalle parti del Nazareno. Letta, infatti, per una fortuita congiuntura astrale, rischia di essere il vincitore di questa tornata elettorale. Ma per fare cosa? E andare dove? Verso la sinistra, come vorrebbero Bersani ma anche Orlando e Provenzano? O verso il centro progressista di Renzi e Calenda? Poi dipenderà tutto, come sempre, dalla legge elettorale. I fan del proporzionale stanno crescendo a vista d’occhio.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

La destra impresentabile. Stefano Cappellini su La Repubblica il 2 ottobre 2021. Può una coalizione che produce le candidature di Enrico Michetti a Roma e Luca Bernardo a Milano ambire seriamente a governare il Paese? Può una coalizione che annovera cultori del fascismo tra i suoi dirigenti e rappresentanti nelle istituzioni presentarsi come una affidabile destra di governo? Le due domande si incrociano e si amplificano in questa vigilia elettorale che rischia di essere un passaggio molto doloroso per i due grandi partiti sovranisti italiani, Lega e Fratelli d'Italia. Sebbene premiati da tempo da tutti i sondaggi nazionali sulle intenzioni di voto alle Politiche, Matteo Salvini e Giorgia Meloni sono riusciti nell'impresa al rovescio di presentarsi alle elezioni comunali con lo sfavore del pronostico nelle grandi città. Colpa di candidati più che sbagliati: impresentabili. Certo, bisogna ancora votare e nulla è scontato, ma per immaginare Michetti o Bernardo alla guida delle due principali città italiane bisogna presupporre che la disperazione o il disagio di ampie fette di elettorato si sia trasformato in pura pulsione suicida. Per fortuna, non si tratta di uno scenario probabile. C'è un problema ciclopico di classe dirigente, vale per tutti i partiti, ma senz'altro di più per Lega e FdI. Problemi incrociati e speculari quelli delle due forze principali della destra nazionale. La Lega ha ancora sul territorio una classe dirigente solida, oltre che un'ala convintamente governista che ha voglia di avvicinare il partito al popolarismo europeo, non di inseguire le sirene dei neofascisti tedeschi, polacchi o ungheresi. Ma ha anche un leader che, dall'euforia del Papeete in poi, non ha azzeccato una mossa disperdendo il consenso accumulato alle Europee del 2019 con una velocità imprevedibile. Un capo senza grammatica politica, è stato necessario l'intervento di Giancarlo Giorgetti per spiegargli che non si può entrare al governo e poi fare le barricate sul Green Pass e in generale comportarsi come una forza di opposizione. Un capo contornato al Sud da signori delle tessere riciclatisi da ogni direzione, mentre nel suo cerchio magico si agitano folcloristici marescialli passati da No Euro a No Vax pur di perpetuare la loro visibilità da tribuni del ridicolo. Un capo pasticcione, impermeabile al principio di non contraddizione al punto da invocare il garantismo sulle disgrazie del suo braccio destro Luca Morisi e poche ore dopo inondare la sua comunicazione social, pur orfana del guru, di post per inneggiare alla condanna in primo grado di Mimmo Lucano. Opposta la situazione di Fratelli d'Italia. Qui l'astro ascendente di Meloni è servito a nascondere il livello scarso della compagine che guida. Non c'è solo il marcio confermato dall'inchiesta di Fanpage, con esponenti di FdI che trafficano tra finanziamenti illeciti e apologia di fascismo, con la seconda anche più grave dei primi, dato che essere onesti e nostalgici del Ventennio non aiuta a risolvere il problema. C'è proprio l'inadeguatezza di una forza politica che ha raccolto consenso come il vecchio Movimento 5 Stelle, sull'onda di un'opposizione urlata e facilona, senza preoccuparsi di costruire o attirare figure in grado di passare dalla comodità della critica alla concretezza delle soluzioni. Quando il partito che si fa vanto del suo nazionalismo e patriottismo offre per la capitale del Paese una figura come Michetti significa o che non ha a cuore la patria o che non ha un candidato decente. Nel primo caso mente, nel secondo bara sulla pelle dei romani. Salvini e Meloni hanno una sola chance di trarre vantaggio da queste elezioni. Se il Pd si illuderà sul risultato, se scambierà il possibile successo matematico nelle città per l'anticipo di una vittoria alle Politiche, considerando risolte le molte ambiguità sulla coalizione (prima su tutte quella del rapporto con il M5S, naturalmente), sull'identità e il progetto da offrire al Paese, allora i leader sovranisti avranno lo spazio per prendersi la migliore delle rivincite. Perché, a dispetto dei loro guai, hanno sempre un consenso nazionale e una legge elettorale che li aiuta. "L'Italia del riscatto", come recita lo slogan di Meloni per queste comunali, seduce ancora milioni di elettori e potete scommettere che il riscatto da pagare, se i sovranisti sequestrassero il Paese, sarebbe molto alto.

I sovranisti al potere rischiano di fare seri danni. Draghi deve restare a Palazzo Chigi, Salvini e Meloni sono inaffidabili. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista l'1 Ottobre 2021. Proprio alla vigilia del voto per le amministrative del 3 ottobre si è aperto il dibattito sull’elezione del presidente della Repubblica, che deve avvenire nel 2022, mentre come è noto la scadenza normale delle elezioni politiche è un anno dopo, nel 2023. Questa sfasatura rischia di essere devastante. Perdipiù è ovvio che questo dibattito si è aperto nelle condizioni peggiori, al massimo del nervosismo, per molteplici ragioni. La prima causa di questo nervosismo è costituita dal fatto che, a meno di sorprese straordinarie, dai sondaggi risulta che il centro-destra ha sbagliato i candidati sindaci a Milano (candidato Bernardo indicato da Salvini con la raccomandazione della senatrice Ronzulli), a Roma (candidato Michetti indicato da Giorgia Meloni), a Napoli (candidato Maresca pubblico ministero indicato da non si sa chi). A quanto sembra gli unici candidati di centro-destra con possibilità di successo sono Damilano a Torino, sostenuto da Giorgetti, e Occhiuto come presidente della Regione, attuale capogruppo di Forza Italia alla Camera. Ad accentuare il nervosismo del centro-destra però ci sono altri due elementi ancor più urticanti. Non solo Giorgetti ha marcato in questi giorni la sua posizione strategica diversa da quella di Salvini, ma ha anche preso le distanze da due dei candidati del centro-destra, cioè da Bernardo e da Michetti. Allo stato non si capisce se si è trattato di un incredibile errore o di una dichiarazione di guerra. Infine l’ultima ragione di nervosismo (usiamo un eufemismo) nella Lega è causato dall’infortunio personale a cui è andato incontro Luca Morisi, il geniale inventore e gestore della struttura social di Salvini denominata giustamente “la Bestia”. Due giorni fa Tiziana Maiolo sulle pagine di questo giornale ha scritto condivisibili parole di stampo garantista sulla vicenda personale di Morisi. Però c’è anche il rovescio della medaglia. Se Salvini e Morisi hanno messo in piedi una macchina sui social fondata sulla demonizzazione sistematica e selvaggia di tutti gli avversari possibili e immaginabili è poi un po’ difficile pensare di farla franca quando perdipiù ci si trova personalmente esposti su materie che hanno costituito uno degli elementi fondamentali di attacco da parte della “Bestia”. Facciamo qualche esempio attraverso i nomi: Ilaria Cucchi, Elsa Fornero, Maria Elena Boschi sono state letteralmente linciate con effetto di trascinamento sui social. La famiglia Cucchi è stata insultata perché comunque “quel drogato se l’è cercata”, sotto casa della professoressa Fornero ci sono state manifestazioni e adesso è sotto scorta, Maria Elena Boschi è stata oggetto di insulti di tutti i tipi propagati dalla rete. E questo è l’apparato di comunicazione apprestato da un leader che punta a diventare nel futuro il presidente del Consiglio risultando il più votato nel centro-destra. Ecco che con questo retroterra nel centro-destra e con lo stato confusionale con cui sull’altro lato si trovano i grillini non si può fare a meno di rilevare che, visti i gravissimi problemi da affrontare (pandemia ed economia) l’Italia corre rischi molto seri se con leggerezza, anzi con incoscienza cambia il ruolo di Draghi nello spazio di pochi mesi andando incontro a incognite molto rilevanti sul piano del governo. Rispetto a tutto questo personalmente non abbiamo remore a dichiarare che per noi la situazione ottimale sarebbe quella di prolungare di un paio d’anni la presidenza della Repubblica di Mattarella portando almeno fino al 2023 la presidenza del Consiglio di Draghi. Finora si è trattato di una eterogenea “coppia politica istituzionale” che ha funzionato benissimo e in modo assai equilibrato. Contro questa ipotesi si è già mossa Giorgia Meloni et pour cause?: da un lato Giorgia Meloni punta ad elezioni il più possibile anticipate in modo da far saltare tutto l’equilibrio da cui si è autoesclusa; in secondo luogo, anche senza dirlo esplicitamente, siccome Giorgia Meloni ha qualche contezza delle possibili reazioni europee a un governo di centro-destra presieduto da lei o da Salvini (ma anche senza dover superare i confini per parte sua Berlusconi ha espresso la sua stupefazione rispetto a questa ipotesi), allora essa vuole utilizzare una eventuale ravvicinata presidenza della Repubblica di Draghi come copertura di un governo di destra esposto di per sé a molteplici rischi e avventure, sia per i suoi leader, sia per la sua eventuale composizione (a proposito, che ruolo avrebbero i professori Borghi e Bagnai?). Perdipiù siccome non siamo in una repubblica presidenziale sarebbe in quel caso elevatissimo il rischio di mille casini e anche di una destabilizzazione globale. Allora rovesciamo il discorso. Per parte nostra diciamo esplicitamente di capire molto poco il fatto che a parte Giorgia Meloni ci siano invece altri, sostenitori di ben diversa impostazione, che sostengono anch’essi l’elezione anticipata di Draghi nel 2022 alla presidenza della Repubblica, anticipando di un anno la verifica politica globale che avverrebbe alla scadenza naturale del 2023. A nostro avviso il rischio assai probabile di questa anticipazione sarebbe che nel 2022 si apra in Italia una fase di “torbidi” che porta o ad elezioni anticipate in un clima di rissa, o a un governo debolissimo rispetto alle esigenze obiettive: si parla di un governo Cartabia o Franco (ma con tutto il rispetto siamo a Scherzi a parte?). Inoltre nell’uno e nell’altro caso a nostro avviso la copertura offerta da Draghi dalla presidenza della Repubblica a una situazione così destabilizzata e anche piena di incognite rischierebbe di essere comunque di carta velina: in quel caso l’Italia rischia di andare incontro a gravissime perturbazioni dal lato della speculazione finanziaria e internazionale perdipiù dovendo fare i conti con un establishment europeo a sua volta incerto vista anche la situazione tedesca che però potrebbe trattare malissimo un’Italia che ha perso alla presidenza del Consiglio l’unica personalità nella quale tutti hanno fiducia. Di conseguenza il governo Draghi di qui al 2023 con il suo orientamento riformista, garantista, europeista e occidentale è l’unico governo in grado di tenere la barra ferma sul terreno della lotta al contagio (anche su questo terreno né Salvini né la Meloni offrono serie garanzie di tenuta e di rigore rispetto ai no vax e a stati d’animo lassisti) e di una politica economica in grado di sviluppare crescita e rigore realizzando tutte le riforme richieste dalla realizzazione del Recovery Fund e misurandosi con l’Europa per ciò che riguarda sia la revisione del fiscal compact, sia la politica migratoria. Insomma, a nostro avviso, è molto meglio assicurare all’Italia il governo Draghi fino al 2023 correndo qualche rischio nel 2022 per l’elezione del presidente della Repubblica (ma oltre Mattarella esistono candidati seri e affidabili e c’è un bilanciamento fra le forze e un ruolo di equilibrio che possono svolgere in parlamento Forza Italia, Renzi, Quagliariello, per i centristi Toti e Brugnaro) piuttosto che mettere tutto a rischio con la messa in questione del governo Draghi. Facciamo insomma di tutto affinché non si realizzi il pericoloso motto quos deus vult perdere perdidit che sarebbe appunto l’ipotesi di eliminare dalla scena nel 2022 il governo Draghi. Fabrizio Cicchitto

DAGONOTA l'1 ottobre 2021. Ce la faranno Salvini (caso Morisi) e Conte (caso Di Donna) a resistere fino al 18 ottobre? Il Truce, in primis, aspetta la botta finale e lo ha sibilato ieri a Radio Capital: “Attaccano Morisi per attaccare me”. Sia Salvini che Conte non riescono proprio a ficcarsi nella testa che mettersi contro l’establishment, nazionale ed europeo, non poteva non condurre ad aprire qualche armadio e buttare all’aria i vari scheletri. Ubriachi di potere pensavano di poter essere onnipotenti, invincibili, intoccabili. Invece erano solo dei burattini che si credevano burattinai. E quando il gioco si fa duro, i veri burattinai hanno aperto armadi e cassetti e per Salvini e Conte non resta che una dolorosa Via Crucis... 

Jacopo Iacoboni per lastampa.it l'1 ottobre 2021. L’assedio finale a Matteo Salvini è in pieno corso. Le due settimane che il leader della Lega si lascia alle spalle, e culmineranno con il voto rischiosissimo delle amministrative di domenica, sono troppo dense di eventi sfavorevoli per poter pensare solo a una serie di circostanze casuali. Semmai, un mix di errori politici e forse arroganze anche caratteriali stanno producendo conseguenze anche su altri piani, affondando l’uomo che due anni fa, prima del Papeete, sembrava il potenziale padrone d’Italia. In fondo è stato Giuseppe Conte a farlo intuire, sia pure negandolo: «Cacciamo via questi pensieri di una giustizia a orologeria, che abbiamo sentito troppe volte. Però, dobbiamo evitare strumentalizzazioni politiche». In una sola frase veniva alzato il velo su tutti i pensieri che effettivamente circolano attorno alla Lega, sia tra avversari sia tra amici, o ex amici, o addirittura tra i leghisti. Salvini stesso l’ha capito, e anzi l’ha detto apertis verbis parlando con Radio Capital: «Questa storia di Morisi mi sembra molto sospetta, ma non ho letto le dichiarazioni dei ragazzi». E ancora: «Attaccano Morisi per attaccare me: è un'inchiesta senza prove, un errore privato che non ha rilevanza penale. Se finisse senza alcun reato, nessun processo, chi gli restituisce la dignità? Gli spacciatori sono venditori di morte. Far l'amore a pagamento è una questione politica?». Dove, a parte sentir parlare Salvini come un garantista liberal (nel caso di Morisi, pochi tra i garantisti e i liberal sono stati garantisti e liberal), colpiscono due cose: uno, il capo leghista è ormai convinto che gli stiano andando addosso. E però, ed è il secondo punto, non si fa la domanda politica: se è così, perché avviene questo assedio finale? Una risposta sicura non c’è, ma si possono mettere in fila i fatti, una congerie di errori politici, o di scontri o frizioni che ha avuto Salvini in tutta l’ultima fase, e su cui non sembra essersi interrogato. Il primo, raccontato dalla Stampa per prima due settimane fa, è l’acuirsi del dualismo con Giancarlo Giorgetti, approfonditosi tutta l’estate, tanto Salvini insiste e pesta (ancora) su immigrazione e sovranismo quanto Giorgetti – ormai soprannonimato nella Lega “l’oracolo” – parla di «federalismo», di «partite Iva», di una Lega che torni a pensare soprattutto al Nord, e nel frattempo ha un’interlocuzione solida con l’ambasciata americana, oltre che con il premier Mario Draghi. Anche se, ci dice una fonte leghista che li conosce bene entrambi, «la vera altra polarità nella Lega non è Giorgetti, è Zaia». Giorgetti rappresenta però quella Lega “di sistema”, radicata al nord ma anche nei palazzi romani, sempre più stanca delle uscite aggressive di cui la Bestia di Luca Morisi è stata solo un simbolo: dietro la Bestia, c’era sempre Salvini. Proprio su Morisi si incrocia il secondo elemento dell’assedio a Salvini: ci sono davvero tanti tasselli ancora opachi nella vicenda dell’ex guru social leghista. Intanto, una cosa è clamorosamente non chiara: se il ragazzo rumeno è, come si definisce, un professionista che si prostituiva, si è mai visto un professionista della prostituzione (non è chiaro se anche della droga) che chiama lui i carabinieri? Per quali modalità questa storia arriva a essere pubblica? Salvini si è trovato sempre più accerchiato negli ultimi mesi anche in quello che era il “suo” ex ministero, il Viminale, la roccaforte del suo potere nella stagione del governo ultrasovranista Conte1. E questo anche a causa dei suoi attacchi sempre più forsennati alla ministra in carica, Luciana Lamorgese, di cui ha continuato a chiedere apertamente (anche se non esplicitamente) la rimozione (ministra invece è stata sempre difesa da Giorgetti). Il terzo elemento è la zampata di Silvio Berlusconi, che alla sola ipotesi di un Salvini (o Meloni) premier, ha detto al direttore della Stampa «non scherziamo»: creando se non altro lo scenario possibile per un reset post sovranista di tutto il centrodestra. Lo scenario è in ogni caso ribaltato, rispetto al febbraio 2018, quando Salvini si avvicinò alle elezioni cavalcando un’emozione collettiva per la sicurezza generata dopo l’assassinio di Pamela Mastropietro a Macerata, la visita nelle Marche, e la successiva campagna antimigranti del leader leghista. Adesso tutto il contrario: il Capitano si presenta a un voto difficilissimo sull’onda del caso Morisi, e nelle uniche due città in cui il centrodestra è in pista, per vincere o almeno combattere, Torino e Roma, è competitivo rispettivamente grazie a un candidato vicino a Giorgetti (Paolo Damilano) e a un uomo scelto da Giorgia Meloni nella Capitale. Con l’assedio che (forse) si sta per compiere. Il redde rationem, anche per Salvini, si avrà con l’elezione del Quirinale. Il leader della Lega pone un solo veto: «Gianni Letta al Colle? Non faccio il toto-Quirinale, l'importante è che non ci vada Prodi». Per ora è però disallineato anche dalla sua alleata Giorgia Meloni, nonostante Salvini smentisca di averci litigato per il mancato incontro a Milano, causa ritardo della capa di Frateli d’Italia: «Se i treni partano e gli aerei ritardano non posso farci nulla. Lascio che i giornalisti parlino di una realtà parallela, io mi occupo dell'Italia», ha tagliato corto Salvini. La domanda è se il treno del Capitano stia per ripartire, o la linea ferroviaria sia ormai interrotta. 

Ugo Magri per “La Stampa” l'1 ottobre 2021. Due scaltri “comunisti” vanno insinuando in giro che questa destra ideologica, estremista, sovreccitata non è pronta a governare; se arrivasse al potere con gli attuali leader rischieremmo un frontale con la realtà; per cui meglio tenerci stretti Mario Draghi, possibilmente «forever». Il primo subdolo “denigratore” si chiama, sorpresa, Giancarlo Giorgetti: ministro dello Sviluppo economico e figura autorevole della Lega, quella che non rinnega le proprie ascendenze bossiane e mantiene ferma la rotta a Nord. Ha dichiarato domenica a La Stampa che vedrebbe bene Draghi sul Colle; però non a tagliare nastri né a ricevere scolaresche bensì come Charles de Gaulle, dunque da presidente che regna e governa nello stesso tempo. Una polizza assicurativa per l’Italia. Un “tutor” per Matteo Salvini o per Giorgia Meloni che, lascia intuire il ragionamento, non hanno la stessa esperienza, il medesimo “standing” internazionale, e se dovessero vincere andrebbero aiutati. L’altro subdolo avversario della destra si chiama nientemeno Silvio Berlusconi; anche lui su La Stampa ha manifestato dubbi che, a chi lo frequenta, sono quasi venuti a noia per quante volte l’ex premier li esprime privatamente. Il Cav va ben oltre Giorgetti: trema all’idea che Meloni o Salvini possano sedersi al volante dell’Italia, «non scherziamo» si mette idealmente le mani nei capelli. Ironia della sorte, proprio Berlusconi ai suoi tempi era stato bollato come «unfit» a governare, cioè inadatto, incapace (celebre una copertina del britannico The Economist nel 2001, per non parlare delle umilianti risatine tra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy dieci anni più tardi); giusta o sbagliata che fosse quell’etichetta di impresentabile, adesso è lui, leader tra i più longevi nella storia repubblicana, a giudicare «unfit» la classe dirigente del centrodestra attuale augurando lunga vita al governo Draghi. Entra dunque in scena un tema politico con cui Salvini e Meloni forse speravano di non doversi mai confrontare perché scomodo e ingombrante. Riguarda non la legittimità di un loro eventuale trionfo alle urne (è sempre il popolo che decide, libero e sovrano). Tocca semmai il loro grado di competenza. La cultura politica che si portano dietro. La capacità o meno di guidare un Paese; di sapersi assumere certe responsabilità; di rapportarsi con l’Europa che conta; di padroneggiare i conti pubblici; di rassicurare i mercati, domare lo spread, sventare gli agguati speculativi e vincere i pregiudizi che questa destra orgogliosamente alimenta sul proprio conto. Mesi di feroce competizione hanno portato Giorgia e Matteo a contendersi schegge di società sempre più esigue, porzioni di elettorato sempre più marginali. Campagne di dileggio contro la ministra Luciana Lamorgese, nel nome di un’emergenza migranti che non è in cima alle priorità della gente; per intestarsi il gradimento no vax, al massimo il 20 per cento, hanno perso di vista l’80 che il Green Pass lo vuole eccome. C’è una mucca, direbbe Bersani, nel corridoio del centrodestra. Impossibile da ignorare soprattutto quando una fetta del centrodestra, quella meno ideologica e più pragmatica, sceglie il campione ideale nella persona di Draghi, simbolo di una certa idea moderata dell’Italia e dell’Europa. Per Giorgetti, SuperMario è «un vero fuoriclasse», l’unico di cui disponiamo; Berlusconi si fa vanto di averne indicato il nome per la presidenza della Bce. Diciamola tutta: tempo fa non avrebbero osato. Sarebbero rimasti allineati e coperti in attesa della vittoria elettorale, prima giudicata inevitabile ma forse adesso non più. Se questo disagio sta venendo a galla, tra l’altro proprio alla vigilia del voto nei Comuni, ciò significa che la deriva sovranista e populista non promette nulla di buono al Paese; al centro-destra nemmeno. 

Estratto dell'articolo da "Libero quotidiano" il 30 settembre 2021. [...] "Non mi occupo di smentite dello staff di Berlusconi. Ho avuto una conversazione con il leader di Forza Italia nel giorno del suo compleanno. Non ho difficoltà a riportare lo sbobinato", ribatte Giannini.

(Adnkronos il 30 settembre 2021) - «Il presidente Silvio Berlusconi non ha mai rilasciato alcuna intervista a 'La Stampà e smentisce le parole a lui attribuite». È quanto si legge in una nota.  

M. Gia. per "la Stampa" il 30 settembre 2021. «Sto bene, sto molto bene, e sono pronto a tornare in campo. E sa che le dico? Ce n'è bisogno, con questa penuria di classe dirigente che abbiamo». Chi lo dà per politicamente morto, chi lo dà per moralmente depresso, chi lo dà per mentalmente bollito. È il destino di Silvio Berlusconi, da qualche anno a questa parte. Lui l'ha in parte avvalorato, con i ricoveri ormai quasi settimanali al San Raffaele, non sai più se necessitati da patologie sanitarie o consigliati da idiosincrasie giudiziarie. Certo è che a sentirlo parlare al telefono, nel giorno delle sue ottantacinque primavere e nel pieno di una tormenta politica che squassa il centrodestra, tutto si direbbe fuorché si tratti di un "anziano" in disarmo. Al contrario. «Finalmente mi sento in forma», dice il Cavaliere sempre più insofferente per il suo lockdown nella Villa di Arcore. «E sa qual è la buona notizia di oggi? È che forse già da lunedì prossimo i medici mi daranno via libera per tornare a Roma, dove voglio riprendere subito a lavorare, per rilanciare Forza Italia e per unire il centrodestra». «Vaste programme», direbbe il solito generale De Gaulle. Con Forza Italia che sta annaspando, la Lega di Salvini che sta implodendo e i Fratelli d'Italia della Meloni che stanno dilagando. «Ha ragione - ammette Berlusconi - ma non è solo il centrodestra che è in difficoltà, è tutta la politica italiana che è in confusione totale. Anzi, le dirò di più: lo è tutta la politica internazionale. Guardi quello che sta succedendo in Europa, guardi quello che sta succedendo soprattutto in Germania, dove di fatto non ha vinto nessuno e Scholz pretende di formare il suo nuovo governo. Ma io lo conosco bene il signor Scholz, e le assicuro che è un politico modesto. Troppo modesto per guidare un grande Paese come la Germania, che esce dai sedici anni di Angela Merkel». Mancano in giro «statisti» all'altezza della fase e del ruolo, si lamenta il Cavaliere. Con tutta evidenza pensando, senza dirlo, a se stesso. «Le confesso una cosa. Poco fa mi ha telefonato l'amico Putin per farmi gli auguri, e gli ho detto esattamente questo: Vladi, non te lo dico per piaggeria, perché mi conosci e sai che sono sempre sincero, ma ormai nel mondo l'unico vero grande leader rimasto sei solo tu. Si è fatto una risata, ma la mia non è una battuta, è la semplice verità». Non conta Navalny in galera, non conta la Crimea. Forse contano i "Na Zdorovje" a base di vodka nella dacia sul Mar Nero, contano le cene eleganti a Villa Certosa, conta il famoso "lettone" fatto trasvolare direttamente da Mosca. Ormai si sa, il Cavaliere ha idee originali sulla democrazia e sulla diplomazia. Non sarà che alzare gli occhi sul mondo è solo un trucco per non guardare alle miserie del fu glorioso "Popolo delle Libertà"? In realtà sui destini della sua creatura politica l'uomo di Arcore è altrettanto severo. «È chiaro che abbiamo problemi, ma proprio per questo voglio tornare in campo al più presto. Anche in questo caso mancano i leader». Fosse solo questo. Alle lotte interne sulla guida della coalizione, alle pessime scelte sui candidati, alle ambiguità strategiche tra sovranismo ed europeismo, adesso si sommano anche le inchieste su Luca Morisi e le richieste di Giancarlo Giorgetti. Un doppio terremoto, che fa sbandare il Carroccio e smottare tutto il campo della destra. Berlusconi ne è consapevole: «Ma sì, è chiaro che questa vicenda è un danno per Salvini e per la Lega. Quando c'è di mezzo la droga, poi, ci si fa sempre del male. Però se andiamo a vedere bene, alla fine il caso politico non esiste. Stiamo sempre a parlare di lesbiche e di omosessuali. In fondo Morisi che ha fatto? Aveva solo il difetto di essere gay». Non andiamo oltre, per carità di patria. E restiamo alla politica. La linea del Cav è nota ed è sempre la stessa: a destra serve un partito unico, dove l'anima "moderata" e occidentale di Forza Italia deve bilanciare quella "populista" della Lega e di Fdi. «Nelle democrazie mature di tipo anglosassone, le idee del centro e della destra democratica - come ha detto a "Fortune" - sono espresse da un solo partito, come i Repubblicani negli Stati Uniti o i Conservatori nel Regno Unito. Un partito nel quale convivono anime diverse e dove vi è una virtuosa competizione interna. Io credo che non sia un sogno quello di realizzare un partito simile anche in Italia"» Nonostante le enormi difficoltà del momento, par di capire, l'obiettivo rimane questo. E anche qui varrebbe lo scettico preambolo di De Gaulle. Tanto più se la Resistibile Armata del centrodestra dovesse uscire sconfitta, magari addirittura per 5 a 0, dal voto delle grandi città di domenica e lunedì prossimi. Il leader azzurro sembra averlo messo nel conto. Ma a maggior ragione la risposta deve essere un rilancio unitario. Un po' come successe ai tempi della «svolta del Predellino», al culmine della battaglia tra Forza Italia e Alleanza Nazionale, che spinse Gianfranco Fini a promulgare la sentenza memorabile: «Siamo alle comiche finali» (senza capire che quelle parole, di lì a poco, avrebbero riguardato soprattutto lui, la sua signora, suo cognato e le sue case a Montecarlo). Oggi il nuovo Fini, non più per Berlusconi ma per Salvini, sembra diventato Giorgetti. L'uomo dell'«Altra Lega». La Lega dei padri, quella di Bossi e del Nord, quella dei ministri che governano il Paese e dei presidenti che governano le regioni. Quella che nell'intervista-fine-di-mondo alla «Stampa» dice «Draghi non si può far logorare dai partiti, meglio che a febbraio vada al Quirinale, dove diventa una specie di De Gaulle, e un minuto dopo torniamo tutti a votare». Di questo il Cavaliere parla malvolentieri. Forse per fatto personale, visto che lo raccontano quotidianamente impegnato a contare sul serio i possibili voti dei "grandi elettori" che gli servirebbero per ascendere al sacro soglio quirinalizio. Ma una cosa la dice. Resta convinto che «Draghi deve durare», perché al governo ha un compito troppo importante. E poi da vecchio leone conclude con l'ultima zampata per i suoi alleati. «Senta, siamo sinceri: ma se Draghi va a fare il presidente della Repubblica poi a chi dà l'incarico di fare il nuovo governo? A Salvini? Alla Meloni? Ma dai, non scherziamo». Auguri, presidente. A lei e al partito unico della destra divisa.

Massimo Giletti, indiscreto su Lilli Gruber: "La politica cercò anche lei", svelati i corteggiamenti. Libero Quotidiano il 28 settembre 2021. Non è l'Arena tornerà nella serata del 29 settembre. Un cambio di giorno frutto, come afferma lo stesso Massimo Giletti, del suo carattere "masochista". Quella del mercoledì sera sarà una sfida che il conduttore accetta volentieri abbandonando la messa in onda di domenica. "Sarà una nuova sfida e non è mai semplice rimettersi in gioco - premette presentando la nuova edizione al Maxxi, il Museo delle Arti del XXI secolo a Roma -. Al mercoledì, il programma durerà un'ora in meno rispetto alla precedente collocazione domenicale e con lo stesso staff potremo lavorare più approfonditamente per le nostre inchieste specifiche, sul campo". D'altronde per il giornalista non è la prima competizione che accetta volentieri. Anche "la scelta fatta allora di andare in onda la domenica era sembrata folle... - ricorda - Poi, abbiamo fatto il 7 per cento di share". Il suo lavoro gli è costato caro: da mesi il conduttore di La7 vive sotto scorta a causa delle minacce mafiose ricevute. Minacce che non l'hanno fermato. Ora più che mai Giletti è intenzionato a tirare dritto. Un impegno non passato inosservato ai partiti, che l'hanno corteggiato per lungo tempo. "Mi chiesero di candidarmi in Puglia - ammette - poi a Torino e mi hanno anche cercato come sindaco di Roma, il che racconta di una debolezza dei partiti, in cerca di volti: Santoro, Gruber, Del Debbio, Badaloni, Marrazzo... quindi non è strano che cerchino anche Giletti. Ora no, in futuro vedremo". E proprio sul futuro il conduttore si augura che Mario Draghi rimanga a Palazzo Chigi fino a fine legislatura, viste le sue capacità nel gestire il governo in tempi difficili.

Dai social ai santini, diventare consigliere costa più di 15mila euro. Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 22 settembre 2021. I partiti ridotti all’osso ormai ospitano aspiranti eletti e non finanziano più nessuno. Così i candidati pagano di tasca propria, confidando in donazioni e volontariato. Tipografi, qualche ristoratore, sondaggisti e soprattutto Facebook: ogni campagna elettorale è Natale, con i candidati che spendono e a volte spandono per farsi conoscere, pubblicizzare se stessi sui social e nelle cassette della posta. I partiti ridotti all’osso ormai ospitano aspiranti eletti e basta, non finanziano più nessuno, al massimo danno una mano al candidato sindaco e stop. A tutti gli altri in corsa tocca metterceli di tasca propria, affidarsi alle donazioni dei privati - grandi e piccoli - e al lavoro dei volontari. Già, ma quanto costa una campagna elettorale per entrare in un Consiglio comunale di una grande città? In realtà non c’è un “prezzo” esatto, influiscono molti fattori diversi; in generale però per una candidatura minimamente competitiva occorrono almeno 15 mila euro. La prima considerazione da fare è che non sempre e non solo si tratta di entrare nell’assemblea cittadina: soprattutto per i notabili locali è questione di contarsi, dimostrare il proprio peso politico, la capacità insomma di mobilitare; serve per gli equilibri interni oppure per ambire ad un posto nella eventuale giunta. La spesa è quindi un investimento sul proprio futuro. Un posto in Consiglio a livello economico non è lontanamente paragonabile, economicamente parlando, a quello in Parlamento o in Regione: con i gettoni di presenza si arriva a 1.500-1.800 euro al mese. Per molti è però un trampolino di lancio, una istruttiva gavetta che una volta i partiti organizzati – ne sono rimasti giusto due, oggi: Pd e in parte la Lega – valorizzavano, facendo partire tutti dal gradino più basso per poi far salire i meritevoli. Comunque: spedire 50 mila buste e farle arrivare in cassetta costa sui 15 mila euro; un giro di affissione regolare di manifesti 1.000 euro; la realizzazione e la stampa del materiale (manifesti, volantini ora anche con il qr code incluso, i famosi santini) viaggia sull’ordine delle migliaia di euro, ovviamente dipende da quanti e come; una buona sponsorizzazione sul social più frequentato tocca i 500-1.000 euro a settimana. Alcuni affittano anche dei punti elettorali, i più facoltosi assumono uno o due collaboratori, magari uno per fare da ufficio stampa. Poi ci sono gli affitti delle sale, i noleggi dei furgoni, i gazebo da affittare, montare e smontare, qualche aperitivo elettorale da offrire, spot in tv o in radio. A voler fare in grande, si può arrivare ad una spesa totale di 40-50 mila euro. A parlar di vil denaro piace a pochi, specie se si è tra quelli che spendono di più. “Comunque anche facendo una campagna molto semplice, volantinando al mercato e stampando qualche manifesto, senza grossi eventi, cene o affitti, qualche migliaio di euro alla fine si spende”, racconta Carlo Monguzzi, storico esponente ambientalista milanese, dopo i verdi e una lunga esperienza nel Pd tornato in Europa Verde. “Questo voto subito dopo l’estate, con una campagna vera molto corta, ti fa risparmiare un po’”, dice Gianmarco Senna, capolista della Lega a Milano in ticket con Annarosa Racca; uno che ad esempio è anche consigliere regionale, “ma se il partito ti chiede di correre per trainare la lista non puoi mica dire di no”. Il forzista Luigi Amicone giura che finora ha speso solo 800 euro, ma nel suo caso – consigliere uscente, fondatore e direttore per molti anni della rivista ciellina Tempi – l’elettorato è fidelizzato: “In generale però a destra si è sempre lasciata maggiore competizione interna, perlomeno storicamente è stato così, vista anche la natura di partiti meno strutturati: per questo spesso si spende di più che a sinistra”. Nei 5 Stelle gli investimenti dei singoli candidati sono bassissimi: il voto di opinione ha sempre premiato il simbolo e qualcuno in passato è entrato in Consiglio comunale di città con milioni di abitanti con poche centinaia di preferenze. Anche a questo giro resta più o meno così. Per dire, la campagna per Layla Pavone sindaca di Milano costerà sui 30 mila euro in tutto; mentre in una sola settimana, Carlo Calenda a Roma ha investito 5 mila euro solo per sponsorizzare i propri post su Facebook e lui stesso ha parlato di 200 mila euro totali di esborso. Quantificare la spesa per un candidato sindaco è comunque molto spesso difficile, i soggetti che pagano sono diversi (dai partiti che mettono una quota alle raccolte fondi nelle iniziative pubbliche passando per i gruppi imprenditoriali, in quest’ultimo campo sempre Calenda è il più abile) ma comunque si parla di centinaia di migliaia di euro: la federazione del Pd meneghino scuce 120 mila euro per la corsa al fianco di Beppe Sala, cinque anni fa furono quasi il doppio ma stavolta la partita sembra più in discesa. Nella stessa città, il Carroccio supererà i 110 mila euro, Fratelli d'Italia 25 mila. Le norme vorrebbero che prima delle elezioni, per questione di trasparenza, chiunque dovrebbe avere la possibilità di conoscere quanto ciascun candidato sindaco e ciascuna lista intendono spendere per la propria campagna elettorale. Poi entro 30 giorni dopo il voto ogni lista ha l’obbligo di presentare il resoconto reale. Non sempre avviene, specie nei casi dei bilanci preventivi. Comunque: a Bologna il favoritissimo Matteo Lepore ha preventivato 160 mila euro di spese. A Torino per Valentina Sganga (M5S) parlamentari, consiglieri regionali e candidati si sono tassati racimolando 37 mila euro, mentre la campagna di Stefano Lo Russo per il centrosinistra costa 245 mila euro. Altra capacità di spesa ce l'ha Paolo Damilano del centrodestra, le cui liste messe assieme hanno preventivato un conto oltre 400 mila euro. Dopodiché nella generale rincorsa individuale al seggio comunale partiti e liste sono molto spesso dei semplici taxi sul quale salire con l’obiettivo di arrivare a destinazione. Soldi e finanziamenti ce li metto io, i voti sono i “miei”: valori e collocazione politica restano un po’ di contorno. Ma anche questo, come il discorso sulle spese, non piace confessarlo a nessuno.

Elogi, retroscena domestici (e soccorso sui social) : il «partito» dei consorti. Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 17 settembre 2021. Dal marito di Raggi alla moglie di de Magistris, familiari in campo. Il messaggio rivolto ai cittadini di Roma non è di quelli che si definirebbero «subliminali», al contrario. Ed è questo: «Dovete sapere che Puffo difficilmente si fa mettere il guinzaglio da me, aspetta sempre che si alzi Virginia per concedermi questo privilegio. Quindi, dopo averlo chiamato una decina di volte, si alza Virginia e lui da sotto il letto sbuca e si fa mettere il guinzaglio». L’io narrante di questa storia — in realtà poche righe non fotografano a dovere l’erculea fatica di tenere a bada il cane di famiglia «quando non c’è Virginia» («Ho provato di tutto: premi, premietti, carezze, educatori, nulla, non funziona nulla») — è Andrea Severini, marito di Virginia Raggi. Puffo è il quattrozampe che vive dentro casa e «Virginia», per l’appunto, è la sindaca di Roma in corsa per la rielezione. Il racconto è tratto da un diario che il first gentleman della Capitale sta tenendo su Facebook per raccontare in presa diretta, e dal suo punto di vista, l’ultimo miglio della campagna elettorale della moglie («31 giorni con Virginia»). Memori della vecchia lezione del celebre telequiz secondo cui «l’aiuto da casa» è più funzionale di quello del pubblico, ma al contempo dimentichi dell’antica regola per la quale l’oste non è il miglior giudice del proprio vino (vale anche per il parere di un familiare su un congiunto), mogli e mariti piombano a piedi uniti nella campagna elettorale per le Amministrative. In soccorso, si fa per dire, di candidati che sembrano — sondaggi alla mano — indietro nei pronostici. Lo fa Severini con la Raggi, segnalando le virtù familiari della moglie, indifferentemente una fuoriclasse tanto nel farsi obbedire dal cane Puffo quanto nella preparazione di un sandwich («Sveglia alle 8 per preparare i panini per il pic-nic. La “paninara” del gruppo è Virginia (…), sui panini è imbattibile, altro che Philadelphia e zucca»). E lo fa anche la moglie di Luigi de Magistris, candidato alla presidenza della Regione Calabria. Nascosta dietro lo pseudonimo «Greta Fiore», Mariateresa Dolce, consorte del sindaco uscente di Napoli, sfida su Facebook gli odiatori, gli avversari e in qualche caso, come l’altro giorno, anche la sfidante del marito, la candidata del centrosinistra Amalia Bruni. «Luigi de Magistris non ha mai fatto calcoli di convenienza in vita sua», ha scritto rivolgendosi all’esponente della società civile messa in campo in Calabria da Pd e M5S. «Quando si attaccano i propri avversari», ha aggiunto, «bisognerebbe informarsi sulla loro storia. Altrimenti si sputa veleno e basta». Aveva iniziato già da cittadina di Napoli, a difendere il marito. «Raramente pubblico foto con mio marito, difficilmente parlo di noi», aveva scritto qualche tempo fa. Ancora prima, prendendosela con alcuni «intellettuali o presunti tali» che ce l’avevano con la giunta partenopea, aveva precisato: «Di capacità (del sindaco, ndr) non parlo. Sarei troppo di parte». Poi avrà cambiato idea. E così, nelle pieghe di una campagna elettorale attesa agli ultimi guizzi, spunta il partito dei consorti. Invisibile all’epoca della Prima Repubblica (la moglie di Bettino Craxi si muoveva coi mezzi pubblici, non la riconosceva nessuno), silenzioso all’inizio della Seconda (Veronica Lario e Flavia Prodi erano votate al massimo dell’understatement quando i loro mariti erano a Palazzo Chigi) e visibile a tratti solo cromaticamente (il viola sgargiante della signora Donatella Dini scombinò l’equilibrio dei colori nelle foto del battesimo di Rinnovamento Italiano, il movimento del marito Lamberto), oggi il partito dei consorti si affaccia sulla scena. E, come il Puffo di casa Raggi, non sta fermo un secondo.

Perché a destra non ci sono candidati civici. Massimiliano Panarari su L'Espresso il 14 settembre 2021. Nelle città le manca proprio una classe dirigente di qualità corrispondente alla sua forza elettorale. E dal cilindro sono riusciti a far uscire solo Enrico Michetti a Roma e Luca Bernardo a Milano. Rara avis il candidato civico di destracentro. Ancorché sia spuntato - dopo ricerche molto lunghe - in queste elezioni amministrative. Per certi versi, servirebbe quindi una fenomenologia “per assenza” del candidato che non c’è (o che, comunque, esce allo scoperto piuttosto di rado). E si tratta del segnale di una relazione della destra non troppo sciolta, né così agevole con la società civile che proviene da lontano, a parte la parentesi anni Novanta del berlusconismo, che stipò il Parlamento di figure provenienti dal mondo economico e da quello delle professioni, nonché di comunicatori a vario titolo. E, nella fase piena di promesse dell’(assai)incompiuta “rivoluzione liberale”, ci fu perfino brevemente posto per qualche professore. Mentre, in seguito, a dilagare furono persone di professione decisamente più incerta, e pure qualche esponente di quella che si potrebbe etichettare più appropriatamente come la società incivile. La strategia del candidato civico del destracentro risponde a vari obiettivi. Se si tratta di amministrative, come quelle di inizio ottobre, il civico può piacere di più, mettendo anche (faticosamente) d’accordo partiti litigiosi che faticano a intendersi su chi abbia diritto di precedenza alla candidatura. E, magari, pensa maliziosamente qualcuno, può funzionare anche come capro espiatorio sul quale scaricare un’eventuale sconfitta. Solo che i civici non si sono affatto affollati dalle parti del destracentro, non foss’altro in ragione dei sondaggi che lo danno come maggioranza nel Paese. E, anziché ritrovarseli spuntare come funghi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni se li sono dovuti andare lungamente a cercare col lanternino, ritardando l’inizio delle campagne elettorali locali. Alla fine, dal cilindro sono usciti fuori Enrico Michetti a Roma e Luca Bernardo a Milano, non proprio due prime scelte, arrivati dopo parecchi rifiuti e casting di altri andati in fumo. Michetti è un avvocato, alquanto appassionato di storia dell’antica Roma (che, sebbene gloriosa, non è precisamente un progetto per il futuro...), quando le buche nelle strade venivano colmate con maggiore solerzia di quanto è avvenuto dopo la mancata “rivoluzione grillina”. E, soprattutto, è un tribuno radiofonico del popolo sovranista (e tifoso) capitolino, una versione alla vaccinara dei “radiopredicatori” che tanto hanno influito sui consensi del trumpismo e affini. Bernardo, primario di neonatologia all’Ospedale Fatebenefratelli-Sacco, è balzato agli onori delle cronache come il «pediatra con la pistola in tasca», arrivando ai blocchi di partenza elettorali davvero in zona Cesarini. E, per quanto sia un medico stimato e riconosciuto, dalla già città vetrina del centrodestra sarebbe stato lecito aspettarsi nomi più altisonanti e importanti. Perché il problema della destra, a proposito di candidati che non ci sono, è che nelle città le manca proprio una classe dirigente di qualità corrispondente alla sua forza elettorale. Non sul territorio in generale - basti pensare ad alcuni dei suoi votatissimi governatori (come Luca Zaia o Massimiliano Fedriga) - ma specificamente nei centri urbani e nelle aree metropolitane. Una frattura vecchia come la storia dei partiti quella tra città e campagna, si potrebbe dire. Certamente; nondimeno, questa incapacità di dotarsi di gruppi dirigenti cittadini all’altezza (provando per giunta a metterci la pecetta del candidato civico “che non c’è”) non rappresenta soltanto un grattacapo per il destracentro. Ma un fattore di debolezza complessiva del sistema politico e del Paese. 

L’esercito dei candidati under 25: «La politica non ascolta, serviamo noi giovani per un reale cambiamento». Sono tanti i ragazzi che scenderanno in campo alle prossime elezioni amministrative, tra liste civiche e partiti. Per dare voce a chi non ne ha. Per costruirsi un futuro. A prescindere dallo schieramento politico. Samuele Damilano su L'Espresso il 14 settembre 2021. Un bambino affacciato al balcone chiede alla mamma chi siano quei signori incamiciati, attorniati da un gruppo di persone e videocamere. «I politici», risponde la mamma. «E che fanno quindi?». La mamma, dopo qualche secondo di imbarazzo, svia, lo riporta a giocare. In una casa di Primavalle, quartiere del Municipio XIV, in occasione di un incontro organizzato dal Partito democratico a cui erano presenti il segretario Enrico Letta e il candidato sindaco Roberto Gualtieri, si misura la distanza della politica dai cittadini. Che i giovani, però, vogliono accorciare il più possibile. «In periferia non ci sono servizi, né culturali né di trasporti. Non è possibile che all’interno dello stesso Municipio vi siano cittadini di serie A e di serie B», afferma Jacopo Colalongo, 20 anni, candidato al Consiglio del Municipio XIV e al Consiglio comunale nella lista civica Virginia Raggi, decisa a portarlo a bordo dopo aver assistito a una presentazione delle sue attività socioculturali nel quartiere di Ottavia. Ma anche per Tommaso Di Prospero, 24 anni, nella lista civica Calenda sindaco per lo stesso Municipio, «ci sono diseguaglianze enormi, sembra di non essere nella stessa città. Dobbiamo collaborare tra di noi per un’idea di politica giovanile, per poi rivolgere lo sguardo al territorio, dallo stato indecente del mercatino di Piazza Carlo Mazzaresi, al degrado di Piazza della Balduina, per cui sto proponendo la costruzione di un parcheggio sotterraneo e di un parco». Come Di Prospero e Colalongo, così un esercito di ragazzi, mai così tanti nelle elezioni amministrative, ha deciso di mettersi in gioco. Per essere rappresentati. Magari «in un Organo consultivo dei giovani, come già accade in altre capitali europee», propone il giovane pentastellato. E per rappresentare. Perché «c’è una generazione di cui la politica non si cura. Il problema principale, però, è che non vengono considerate le istanze di troppi cittadini. Dicono che non abbiamo l’esperienza per poter amministrare, ma essere giovani non può rappresentare un limite», afferma Giovanni Crisanti, 22 anni, candidato al Consiglio comunale con il Pd. La costruzione di impianti sportivi in aree pubbliche è la sua battaglia da portare in Campidoglio: «Lo sport come momento di aggregazione sociale è fondamentale, lo ha dimostrato anche la pandemia. E Roma è piena di aree verdi inutilizzate, da Villa Pamphili a Tor Bella Monaca. È un’occasione per ridare vita a interi quartieri». Inutilizzati sono anche molti edifici: dal Gazometro di Ostiense all’Ex Forlanini, fino ad arrivare allo stadio Flaminio. Luoghi che potrebbero essere centri di aggregazione sociale, poli culturali. Tra questi, anche l’ex auditorium Albergotti, nel Municipio XIII; «Il Comune non sa come gestirlo perché non ha parlato con le realtà presenti sul territorio», denuncia Lorenzo Ianiro, 22 anni, candidato nel Consiglio municipale nella lista “Aurelio in comune”. «Si tratta di un problema trasversale», dice Ianiro, «Gualtieri, che comunque supporto convintamente nella sua candidatura, quando è venuto qui non guardava in faccia le persone, non ci parlava. Come fai così a svolgere il ruolo di rappresentante?». All’interno di 4hopes4rome, progetto che racchiude a sua volta diverse associazioni, c’è invece la lista “Sinistra civica ecologista”, che candida al Consiglio comunale il ventenne Michelangelo Ricci: «La nostra battaglia principale è quella contro il consumo di suolo dell’agro romano, che unisce la questione sociale a quella ambientale, da affrontare in maniera congiunta», afferma in una stanza dello Spin Time Labs, stabile occupato a scopo abitativo, sede del comitato elettorale nonché oggetto del prossimo film di Sabina Guzzanti, “Spin time. Che fatica la democrazia”, che racconta l’esperimento di rigenerazione urbana e assistenza sociale svolto al suo interno. Costruzione delle proposte e, in parallelo, mobilitazione per rivendicarle, le linee guida di Ricci. Così, alla biciclettata su Corso Francia per promuovere la riabilitazione della stazione di Vigna Clara, inaugurata nel 1990 e mai entrata in funzione, viene affiancata dall’urbanista Giovanni Tucci di 4hopes4rome una proposta di co-progettazione dell’area, arrivata finalista in un concorso di architettura, “New european bauhaus”, che potrebbe finanziarne lo sviluppo fino a 15.000 euro. «L’obiettivo della mia candidatura è quello di rendere la città a misura di giovani. Una stazione bloccata da 30 anni allora non è accettabile, già lo scorso dicembre abbiamo fatto un sit-in di protesta», denuncia anche Simone Leoni, 20 anni, candidato al Consiglio comunale con Forza Italia e coordinatore dei giovani azzurri nel Consiglio regionale. Come non è accettabile, secondo Antonio Serra, 23 anni, segretario dei Giovani democratici al I Municipio e candidato al Consiglio municipale, «che in un quadrante in cui sono presenti cinque scuole pubbliche ci sia una sola biblioteca, la Giordano Bruno, con sei postazioni, laddove la media a Roma è di 80. Trasferirla in un luogo più ampio, come la parte sovrastante del Mercato Trionfale, cambierebbe la vita di ragazzi e ragazze del quartiere». La carenza di servizi socioculturali di prossimità, non solo in aree periferiche, è una denuncia che accomuna tutti i giovani candidati. Che di questa carenza soffrono, a maggior ragione dopo un anno e mezzo di pandemia, in cui la politica si è paralizzata, e alle necessità dei più fragili ha anteposto la salute di tutti. «Dopo mesi e mesi non è ancora possibile studiare nelle biblioteche comunali. Sopperire alla mancanza di spazi culturali è la nostra principale battaglia», afferma Dario Barberini, responsabile della campagna elettorale dei Giovani democratici nella capitale. Nel corso di questi mesi hanno aperto aule studio all’interno dei propri circoli. Ma non sono gli unici a battersi per rendere la cultura a portata di tutti. «Qualora dovessi essere eletto, la rigenerazione delle scuole come luoghi di aggregazione sociale, non solo di studio, sarebbe la mia priorità». Marco Colarossi, 21 anni, candidato al Consiglio comunale nella lista civica Virginia Raggi, è convinto che «la scuola salva le persone. Ragazzi in situazioni socioeconomiche difficili trovano nell’interazione con altri studenti un’occasione unica di crescita. Dobbiamo avvicinare enti culturali, circoli artistici e sportivi ai ragazzi. Per ora le procedure amministrative sono troppo penalizzanti». Diverse sono le storie, la formazione, l’educazione. Da chi ha iniziato a fare politica al liceo, a chi ha deciso di reagire a una sensazione di trascuratezza. Da esperienze di associazionismo ad anni di militanza nel partito. Unico però è l’obiettivo: dare voce a chi non ne ha. Ai giovani, che, rappresentando un peso elettorale ridotto e ritenuti non in grado di svolgere funzione di rappresentanza e amministrazione, sono esclusi dalla politica. E alle classi sociali più fragili, i cui diritti all’educazione, alla sanità e al lavoro, sostengono all’unisono i giovani candidati, pur riconosciuti dalla Costituzione non vengono tutelati a sufficienza. E i giovani stessi, devono considerarsi classe sociale a sé stante? Qui le voci si dividono. Per Crisanti, candidato Pd al Consiglio comunale, «no, credo che siamo cittadini come tutti gli altri, ci dobbiamo porre sullo stesso piano per ottenere determinati obiettivi». «Dobbiamo essere rappresentati il più possibile, ma non credo che per gestire i problemi dei giovani servano dei giovani», gli fa eco Di Prospero, candidato al Municipio XIV. Al contrario, per Federico Lobuono, 21 anni, per un periodo il più giovane candidato sindaco di Roma, adesso nella lista civica a sostegno di Gualtieri, che gli ha affidato la stesura del capitolo sulle politiche giovanili nel suo programma elettorale, «non abbiamo diritti, non abbiamo tutele e non abbiamo rappresentanza quindi sì, penso che i giovani debbano essere considerati una classe sociale a sé stante. Agli elettori e alle elettrici lancio una provocazione racchiusa in un hashtag: #votaigiovani, a prescindere dall’appartenenza politica per dare un segnale di reale cambiamento nella prossima amministrazione della Capitale».

Federica Manzitti per il "Corriere della Sera - Edizione Roma" il 13 settembre 2021. «Io non spiego e non analizzo, il mio compito è raccontare». Fabrizio Roncone nel nuovo libro Razza poltrona. Una classe politica sull'orlo del baratro - che oggi sarà presentato alla Casa del Cinema (ore 18) - guarda in faccia agli ultimi anni, anzi mesi, della politica italiana e li restituisce come farebbe uno specchio. Lo spettacolo non è edificante: è la scena in cui la cultura politica italiana - non solo la classe che dovrebbe incarnala - sta a un passo dello schianto definitivo. Sono ritratti e racconti in bilico tra farsa e tragedia senza bisogno di calcare la penna, raccolti dall'inviato speciale del Corriere della Sera in ore e ore di cronaca sul campo. Nel volume, in uscita giovedì, si trovano le risse in Transatlantico e il voto di scambio, Matteo Salvini che scende dalla consolle del Papeete Beach e distribuisce santini, i proclami di Beppe Grillo, la metamorfosi di Alessandro Di Battista dentro e fuori il Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte a cavallo di due governi di segno opposto, ma anche le peripezie di Rocco Casalino e Danilo Toninelli, la personalità prorompente di Matteo Renzi e quella di Paola Binetti, i monologhi di Vincenzo De Luca e la presenza scenica di Berlusconi. «Leggendo questo libro - dice Roncone - buona parte della classe politica dovrebbe farsi un esame di coscienza. È semplice testimonianza, la memoria di fatti che si tendono a dimenticare». Fino al punto in cui, nella parabola della storia recente, compare Mario Draghi. «Non è l'unico che si salva, è colui che ha salvato il Paese dal fallimento in cui altri lo stavano portando». Eppure oggi pomeriggio a Villa Borghese l'autore si farà accompagnare da Giorgia Meloni e Enrico Letta, protagonisti dell'attualità politica. «Meloni si distingue perché ha mantenuto la barra dritta, è rimasta nel suo sentiero, all'opposizione, e con profonda coerenza; mentre Letta è arrivato quando tutto era già successo. Per questo presenteranno il libro insieme a me». Un'occasione per incontrare i lettori romani a cui il discorso sul potere risuona diversamente che altrove: «Roma convive da secoli con il potere. Qui sono abituati a incontrare il Papa per strada. Il problema è costituito da chi arriva a Roma e scopre qualcosa che non conosceva, come Di Maio, Renzi o Salvini - aggiunge l'autore - e ne resta invischiato». Dopo il noir La paura ti trova (2016) e Peccati immortali, scritto insieme ad Aldo Cazzullo (2019), Roncone ha composto una carrellata di fatti, «fattacci» e ritratti al vetriolo che narrano l'ultimo atto della Seconda Repubblica. 

Antonio Polito per il "Corriere della Sera" il 16 settembre 2021. A modo suo, Fabrizio Roncone ha inventato un genere del giornalismo parlamentare. Lo definirei lo stile dello «sketch». Avrei potuto dire «bozzetto», o «disegno», o «schizzo», ma sono termini che in italiano si riferiscono di preferenza alle arti visive. Uso il termine inglese perché ha una forte tradizione letteraria. Non solo nel teatro, dove indica una breve scenetta comica, con un paio di personaggi curiosi che fanno cose curiose, più o meno come se ne vedono tante nel Parlamento italiano. Ma anche nella scrittura: fu del resto facendo il cronista parlamentare che a Charles Dickens venne in mente di scrivere per i giornali una serie di bozzetti di vita comune, che raccolti in volume presero il titolo di Sketches by Boz . Per raggiungere il suo effetto di scrittura, comico, acido, sapido, Roncone (in uscita domani con Razza poltrona , Solferino) usa materiali disparati, presi dall'armamentario tradizionale del giornalismo politico. L'intervista, per esempio; ma anche il retroscena, il reportage, il pettegolezzo, il corsivo. E li assembla insieme in uno stile originale che, col tempo e con il successo, ha osato sempre più nel rompere le barriere della classificazione dei generi (nei giornali c'è sempre un redattore capo che ti chiede: ma insomma, questo pezzo che è, un'apertura, una spalla, un fogliettone?). Ne vengono fuori per l'appunto degli «sketch», grazie ai quali apprendiamo cose che non sapevamo sui politici e la politica, frutto di un lavoro certosino da cronista; ma ci facciamo anche un'opinione dei personaggi, ridiamo di loro, o ci scandalizziamo, o ci indigniamo. Qualche esempio. «Lezzi, quarantotto anni, da Lecce, arriva al Senato due legislature fa e si presenta nell'emiciclo con un apriscatole. Lo agita minacciosa: "Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno! Cambieremo tutte le brutte abitudini!". Poi, subito, assume la figlia del compagno. Stupore, polemiche, volgarissimo caso di parentopoli. La ragazza viene licenziata in fretta, mentre lei, la Lezzi, non molla la scena. All'Aria che tira , su La7, chiede che il cittadino "venga informato a trecentosettanta gradi". Poco tempo dopo spiega che l'aumento del Pil non è merito del governo a guida Pd, ma del caldo e dell'uso, eccessivo, dei condizionatori». Oppure: Claudio Borghi: «Un furbacchione con la parlantina del furbacchione (in tivù, nei talk, va fortissimo): ex fattorino, ex agente di cambio, ex broker, ex agente della Deutsche Bank, ex docente a contratto di Economia e mercato dell'arte all'Università Cattolica e, per hobby, a sua volta mercante d'arte. La vita gli cambia una notte. Con il cellulare che inizia a vibrare. Voce leggermente impastata. "Ciao, sono Matteo: hai voglia di spiegarmi queste tue strane idee sull'euro?"». Oppure ancora (poi giuro che smetto, anche se non vorrei): Andrea Marcucci. «Si sposta abitualmente in elicottero (ma anche, come vedremo, in macchina, o cavalcando potenti moto da enduro). È gentile, empatico, scaltro, tifa Cagliari, sostiene di preparare risotti squisiti (dev' essere fichissimo entrare in cucina e dire al cuoco: scansati, stasera ci penso io), sbaglia regolarmente il colore degli abiti (tonalità preferita: il verde pistacchio di Bronte), ma - quasi mai - strategie: se fa, o dice, una cosa, c'è sempre un perché. A ventisette anni è già vice-capogruppo del Pli a Montecitorio; incappa in Mani Pulite (il "Fatto" in un brillante ritratto ha scritto che è l'unico politico italiano - oltre naturalmente a Berlusconi - coinvolto nell'inchiesta non per aver preso soldi ma per essere stato costretto a darli); diventa prodiano, rutelliano, quindi incontra Renzi». Queste descrizioni non sono mai fini a se stesse, ma servono sempre a illustrare un momento politico, una svolta, una marcia indietro. Compongono insieme il caleidoscopio di una «classe politica sull'orlo del baratro», come da sottotitolo del libro. Si trasformano in critica corrosiva, anche etica ed estetica, di un mondo che ci è contemporaneamente intimo (è ogni sera in tv) ed estraneo, perché retto dalle regole, le mode e i tic di un «mondo a parte». E, da lettore quotidiano di Roncone, devo anzi avvertire il lettore di una mutazione nel tempo che nel libro si nota poco, perché mescola scritti di diverse epoche raccogliendoli per temi, ma seguendo la cronologia è più evidente: e cioè che il divertimento del cronista, uso a scrivere con il sorriso sulle labbra, si è fatto via via sempre più indignazione e talvolta rabbia per ciò che vedeva, trasformando spesso il sorriso in ghigno, e la penna in frusta. Deve essere lo sconforto che prende molti osservatori abbastanza âgé per confrontare le diverse epoche e la diversa qualità dei protagonisti, ma non abbastanza da lasciar prevalere il cinismo sul civismo. Se la prende di più chi ci tiene di più. Fatto sta che, raccolti insieme, questi scritti così intrisi di attualità, così legati all'istante (istruttivo leggere oggi la sicumera con cui i più esperti parlamentari escludevano la possibilità di un governo Draghi), destinati a durare lo spazio di un mattino sul quotidiano, prendono invece nel libro la forma di un discorso coerente, di un atto di denuncia, di una sentenza di condanna della generazione post-2013, quella della cosiddetta «Terza Repubblica», così fallimentare da aver portato a un nuovo commissariamento della politica. Il libro racconta in definitiva proprio questo: il come e il perché la grande illusione populista si sia sciolta nel crogiolo dell'era Draghi. E per questo assume il valore di un saggio, seppure di lettura incomparabilmente più godibile. Un'unica critica all'editore Solferino (essendo lo stesso del «Corriere» ce lo possiamo permettere): da feticista dello stile-Roncone ho cercato nei suoi articoli i «corsivi», quel suo originalissimo uso del carattere tipografico per segnalare, sottolineare, ammiccare, alludere, che sul giornale c'erano e qui non ho trovato. Si vede ormai da tanti indizi che il corsivo viene considerato obsoleto sulla carta stampata. È un peccato. In fin dei conti il suo secondo nome è «italico».

Di consigli comunali di persone perbene, ma incapaci, è pieno il mondo. Liste pulite: è troppo chiedere candidati perbene ma pure competenti? Salvatore Prisco su Il Riformista il 28 Agosto 2021. Se non è usuale confessarlo, almeno è onesto. Sono fuggito dalla regione, per rilassarmi in vacanza due settimane, agli inizi di agosto. Da sempre sono al riparo dal rischio di assembramento, per una naturale misantropia che cresce con gli anni e perché il mio buen retiro sulle montagne abruzzesi è volutamente lontano da rotte turistiche. Non si può farlo (c’è sempre un parente o una persona amica con la quale è necessario restare in contatto), ma staccherei anche ogni comunicazione, riducendo allo stretto indispensabile l’uso del cellulare, scordandosi di televisione, computer e giornali, andando a zonzo nei boschi e a pesca, lasciando il mondo fuori dalla porta e recuperando letture inattuali di classici che riconciliano con la grande letteratura e il sublime, inquietante o rasserenante, pensiero filosofico. Così ho appreso in ritardo del precipitoso ritiro statunitense dal paludoso inferno afgano e quel che ne è seguito, schivando felicemente la polemica estiva contro un sottosegretario troppo loquace e le liti dentro la maggioranza di governo. Soprattutto, però, ho brillantemente dribblato le schermaglie della campagna elettorale napoletana, che peraltro avrei potuto anticipare al millimetro a occhi chiusi. Si urla come sempre al trasformismo per i cambi di casacca s’invoca coerenza (dai nemici; per gli amici, passi), si mena scandalo per le troppe liste, magari anche poco “pulite”, prendendosela coi candidati a sindaco che, assicurata personale intemeratezza e promesso il rigoroso controllo del sangue dei reclutati a sostegno e dei loro parenti e amici fino alla settima generazione precedente, puntualmente si sbracano via via che il giorno del voto si avvicina, per strappare consenso agli avversari. Sorrido. I notabili del Regno il “trasformismo” lo hanno inventato, con Depretis e prima ancora con Cavour. Un noto politico democristiano era soprannominato Tarzan per la velocità con cui cambiava corrente, volando di liana in liana e col tempo la pratica si è perfezionata, volete che facciano specie piccoli personaggi oggi a destra, ma pronti a giurare di essere sempre stati di sinistra o viceversa, e giocolieri del pro, ma anche del contro (in cuor loro, s’intende) de Magistris? Anche i due candidati più in spolvero, del resto, si sono trasformati in aspiranti politici e amministratori, da che facevano bene altri mestieri. Sulla pulizia pretesa da prefetti e da alcuni magistrati, leggi, pubblici ministeri e preti permettono di perdonare i delinquenti, purché pentiti. Nulla di nuovo anche qui, restiamo un Paese laico di ipocriti bigottoni. Infine, l’appello a confrontare programmi e a esibire squadre competenti. Qui i candidati si fanno vaghi ed ecumenici, hai visto mai scontentare. Come a ogni appuntamento elettorale, Antonio Bassolino ha scodellato un nuovo libro, che leggerò presto, sicuro di trovarci proposte serie. Lo farei anche coi prodotti consimili di Manfredi e Maresca, essendo certo che qualche brillante laureato e dottore di ricerca precario starà per loro compilando un pamphlet di idee. Il valore aggiunto per motivare l’elettorato è infatti proprio la visione e la competenza. Di consigli comunali di persone perbene, ma incapaci, è pieno il mondo, come di pietre lastricate di buone intenzioni che menano all’inferno. Salvatore Prisco

Maurizio Belpietro per “La Verità” il 17 agosto 2021. Di Mario Draghi abbiamo una grande stima e per questo, dal giorno del suo insediamento a Palazzo Chigi, siamo un po' meno pessimisti sul futuro del nostro Paese. Quando serve, l'ex governatore della Banca centrale europea sa tirare diritto senza piegarsi alle convenienze politiche, ma soprattutto senza lasciarsi trascinare nel gorgo delle ambiguità partitiche. In sei mesi di governo, ha già fornito diverse prove di capacità decisionale e una di queste fu quando a metà giugno, rientrando da un vertice internazionale, convocò in tutta fretta una conferenza stampa per correggere la linea del ministro della Salute. Tuttavia, se possiamo dir bene del presidente del Consiglio, la stessa cosa non possiamo fare per alcuni dei suoi ministri, i quali si rivelano giorno dopo giorno al di sotto del ruolo loro assegnato. Il primo tra questi è senza dubbio Roberto Speranza, che da quando si occupa della Salute ha collezionato una serie di brutte figure. Tralasciamo, ma solo perché i lettori ne sono a conoscenza, le gaffe di quando faceva parte del gabinetto guidato da Giuseppe Conte: alcune infatti sono passate alla storia. E non consideriamo neppure il pasticcio su AstraZeneca, che costrinse il premier a dettare la linea del governo sul mix vaccinale rientrando in fretta dalla Spagna. Ci limitiamo dunque alla stretta attualità, ovvero al green pass. Il certificato vaccinale avrebbe dovuto essere uno strumento per agevolare la vita degli italiani, consentendo loro di avere normali relazioni nonostante il Covid. Invece, da passaporto verso la libertà, si è trasformato in un problema. Prova ne siano le continue correzioni di rotta dell'esecutivo, che, lungi dal trasmettere una situazione di certezza, danno l'impressione di un caos incontrollato. A noi erano da subito apparse chiare le incongruenze del provvedimento approvato dagli esperti nominati dal ministero. Ma per gli occhiuti funzionari, continuava a essere giusto imporre il lasciapassare nei ristoranti e non nelle mense, sui treni interregionali, ma non su quelli dei pendolari. Risultato: a dieci giorni dall'introduzione del green pass, Speranza e la sua corte sono costretti alla retromarcia, rendendo obbligatorio il certificato anche per accedere alla mensa. È evidente che si tratta solo dell'inizio, perché tra poco la stessa correzione di rotta riguarderà i luoghi di lavoro e poi i mezzi di trasporto, perché se il green pass è indispensabile sul treno, non si capisce perché non lo debba essere anche sull'autobus. Ma Speranza non è il solo ministro a essere al di sotto di una soglia minima di decenza che lo renda credibile agli occhi degli italiani. Infatti, altri suoi colleghi stanno facendo a gara per eguagliarne gli insuccessi. Prendete per esempio Patrizio Bianchi. Da sei mesi si occupa dell'Istruzione, ma da quando è al ministero si è dato da fare per far rimpiangere Lucia Azzolina, l'indimenticabile responsabile della scuola a 5 stelle. Arrivato con una solida fama di gregario prodiano, Bianchi è riuscito a scomparire dai radar per mesi, lasciando che le lezioni proseguissero in una specie di autogestione, poi è riemerso per annunciare un accordo con il sindacato che consentirà ai docenti non vaccinati di poter fare lezione. In pratica, il ministro ha annunciato tamponi gratis per tutti i No vax in cattedra. Neanche il tempo di gioire dell'intesa sindacale, che Bianchi è stato costretto alla marcia indietro.  Resosi conto che il patto non solo introduceva una disparità di trattamento con altre categorie di lavoratori, ma anche con gli studenti, il ministro ha annunciato che i tamponi gratis saranno messi a disposizione solo di chi non può vaccinarsi e non dei No vax. Un dietrofront che ovviamente non ha convinto nessuno, anche perché non risulta che in Italia ci siano oltre duecento mila insegnanti considerati «fragili». Ma se Bianchi, forse a causa dell'inesperienza, si è dimostrato al di sotto delle aspettative, anche una donna delle istituzioni come Luciana Lamorgese in questi primi mesi di governo Draghi è uscita con le ossa rotte. Anche in questo caso, come per Speranza, trascuriamo l'anno al fianco di Giuseppe Conte, le migliaia di sbarchi di clandestini e gli annunci di intese per la distribuzione dei migranti in Europa poi mai divenute concrete. Ci concentriamo solo sulle notizie più recenti, quelle riguardanti i controlli del green pass. Le giravolte su chi avesse titolo per controllare il certificato vaccinale, confrontandolo con la carta d'identità, rimarranno negli annali della confusione al governo, perché di rado si riesce a dare una sensazione così netta di improvvisazione delle istituzioni. Dopo aver nominato carabinieri i camerieri, salvo degradarli il giorno seguente al loro ruolo iniziale per poi riattribuirgli un potere di verifica grazie a un intervento del Garante della privacy, il ministro ha annunciato feroci controlli, ma chiunque ha capito che non erano minacce da prendere in grande considerazione. L'elenco degli impresentabili dell'esecutivo può proseguire con Luigi Di Maio, che con la caduta di Kabul ha dimostrato tutta la sua inconsistenza, spiaggiandosi in Puglia e rilasciando un'inutile intervista al Corriere della Sera invece di organizzare un ponte aereo per salvare chi negli anni era stato al fianco delle truppe italiane in Afghanistan. Ma dell'elenco di incapaci non possono non far parte la ministra per le politiche giovanili, Fabiana Dadone, e quella per le politiche giovanili, Elena Bonetti, personaggi che meriterebbero una puntata di Chi l'ha visto? a loro interamente dedicata. Dubbi ne abbiamo anche su ministri come Dario Franceschini, Enrico Giovannini, Stefano Patuanelli e perfino sui cosiddetti esperti in innovazione e transizione ecologica, Vittorio Colao e Roberto Cingolani, i quali saranno competenti nelle loro materie, ma al ministero loro assegnato sembrano pesci fuori dall'acqua. Visto nel suo complesso, l'esecutivo ci induce a rinnovare la stima nei confronti di Mario Draghi, il quale se riesce a governare con simili ministri deve essere per forza un drago.

Il declino del Movimento. Il dilettantismo al capolinea è un monito per la democrazia. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 4 Luglio 2021. Si può facilmente ironizzare, e in molti lo hanno fatto, su quanto sta accadendo nella galassia dei Cinquestelle. Per esempio, si potrebbe dire che i fatti danno una spiegazione del perché l’esaltazione della democrazia diretta sia stato un caposaldo identitario dei programmi pentastellati. Data l’incapacità dimostrata nel gestire i meccanismi legati alla democrazia rappresentativa, a cominciare dalla forma organizzativa del movimento, non resta veramente che ripiegare sulla democrazia diretta. Almeno (all’apparenza) è più facile. Scherzi a parte, quello che sta succedendo in questi giorni, a cominciare dalla contrapposizione tra Grillo e Conte, non dovrebbe preoccupare solo i militanti pentastellati. E nemmeno preoccupare solo i partiti loro potenziali alleati (come in effetti sta accadendo). Le baruffe in corso dovrebbero preoccupare tutti, perché al di là del merito, sono il sintomo della grave malattia della nostra democrazia. Innanzitutto perché mettono ancora una volta in luce il tradimento dell’art. 49 della Costituzione, che vorrebbe tutelare i cittadini che vogliano associarsi per concorrere a determinare la politica nazionale. I cittadini, non le élites, i capi-bastone o i predestinati. Per questo la previsione del metodo democratico interno dovrebbe essere, oggi, la regola aurea per qualunque formazione che voglia partecipare alle elezioni e aspiri al governo, nazionale o locale, del paese. E non è certo il gioco linguistico del “movimento-non partito” che può consentire di aggirare quei principi. Va aggiunto che la democrazia è cosa diversa dal plebiscito o dall’acclamazione. Se il momento democratico, elettronico o reale che sia, si risolve esclusivamente nella possibilità di dire sì o no a proposte preconfezionate, questa non è, appunto, democrazia. Nella quale, invece, dev’essere possibile la contendibilità delle cariche, la dialettica competitiva, le garanzie formali della correttezza delle procedure, la trasparenza e, soprattutto, la predeterminazione delle regole del gioco, che non possono essere continuamente cambiate in corsa. Se questi requisiti mancano, siamo all’abuso del concetto, alla mistificazione opportunistica delle parole e dei valori. Lo svuotamento dei principi è contagioso. Trasmette l’idea, sbagliata, che basti evocare la democrazia per essere democratici, che basti esprimere un voto perché tutto sia legittimo. Applicato su scala generale, e non alla vita interna di un partito, ci troveremmo nella stessa situazione di quelle democrazie apparenti che usano il rito elettorale per coprire derive autoritarie, di cui è piena la storia recente e l’attualità in giro per il mondo. Il rischio-contagio di questi virus, innanzitutto culturali, non può essere sottovalutato. Per questo deve interessare tutti. E la prova che le vicende dei Cinquestelle siano il segno di questi tempi di degenerazione è dimostrato dal fatto che, in realtà, la contesa non è sul “partito”, ma sulle leadership del medesimo. La personalizzazione dei partiti è un fenomeno ormai universale e, a mio parere, anche positivo. Piuttosto che le burocrazie e le oligarchie correntizie senza volto del passato, in cui nessuno ci metteva la faccia, ma le facce cambiavano (più o meno per cooptazione) senza che i militanti potessero effettivamente condizionare i processi, ben venga una situazione nella quale si sa chi è che si assume la responsabilità di guidare il partito o le istituzioni. Questo però non può avvenire senza regole, in forza di meccanismi di selezione ancor più oscuri di prima. Perché sennò, anziché leader, avremo unti del Signore, uomini della provvidenza, imbonitori di folle, conigli tirati fuori dal cilindro, che chiedono l’acclamazione e il plebiscito. Inoltre la regolazione dei processi di personalizzazione non può limitarsi alla vita interna dei partiti, perché la personalizzazione si trasferisce anche sulle istituzioni. Anche questo è un fenomeno ormai irreversibile della politica contemporanea (v. per tutti Poguntke, Webb, The Presidentialization of Politics, Oxford University Press, 2005). Ma se così è, appare ormai improcrastinabile adeguare la disciplina istituzionale a queste tendenze, in modo che, alla personalizzazione, corrisponda una effettiva responsabilità. Quello che sta accadendo in questi giorni, dunque, non è solo la rappresentazione di un fallimento delle illusioni sgrammaticate di chi ha voluto improvvisare una palingenesi politica che non ha prodotto nulla di palingenetico. E anche l’ennesima spia di un sistema politico sbandato, in cui l’avventurismo e l’improvvisazione rischiano di prendere sempre più il posto della democrazia e della responsabilità. Giovanni Guzzetta

Dagli economisti ai virologi: viaggio nella crisi dei “competenti”. Andrea Muratore su Inside Over il 19 giugno 2021. Su una scala ancora più ampia rispetto al recente passato, l’anno della pandemia di Covid-19 ha imposto una mediatizzazione e un’enorme concentrazione di attenzione su precise categorie tecnico-professionali, in questo caso quelle dell’ambito medico e in particolare delle discipline legate alla virologia. In ogni Paese virologi e medici di simile professionalizzazione sono diventati centrali nel dibattito pubblico, i loro volti un’abitudine per i lettori dei giornali e i telespettatori dei talk show e delle tribune, le loro dichiarazioni un tema di discussione politico. Tanto che in Italia non è mancata l’antica e a tratti stucchevole tendenza a dividerne il campo in termini di appartenenza partigiana tra virologi “di sinistra”, partigiani delle chiusure più dure e soprattutto della linea adottata dall’ex governo Conte II (per i loro critici, interpreti di un presunto metodo “comunista”) e virologi “di destra” che perorano una strategia di contenimento del Covid in grado di conciliare libertà individuali e prevenzione sanitaria (accusati di “antiscientismo” da un fallace dibattito mediatico). Non è la prima volta che succede negli anni della globalizzazione, che nell’ultimo trentennio si è caratterizzata come un continuo accumularsi di emergenze per i Paesi occidentali, i quali hanno avuto nella pandemia il loro definitivo big bang. L’emergenza economica, l’emergenza immigrazione, l’emergenza terrorismo e l’emergenza sociale hanno assunto, in diversi periodi, un ruolo chiave su scala nazionale o globale, portando di conseguenza gli esperti ad assumere visibilità e centralità nel dibattito pubblico. Prima del Covid-19, l’apoteosi di questo fenomeno si ebbe in occasione degli anni della Grande Recessione e della crisi economica globale che, a più riprese, dal 2007-2008 allo scoppio del terremoto europeo sui debiti sovrani (2010-2012) perturbò le economie avanzate provocando smottamenti sistemici che in diversi Paesi, come ad esempio l’Italia, mai tornata ai livelli di Pil pre-crisi, si sono fatti sentire duramente. Allora furono chiamati in causa gli economisti, che si moltiplicarono nei salotti televisivi, sui giornali, in libreria, arrivando a ricoprire cariche apicali in diversi esecutivi e, in Italia, addirittura la carica di premier con Mario Monti. L’accentuazione della visibilità degli economisti, come quella dei virologi di oggi, portò con se sul medio-lungo periodo un fenomeno tipico dei nostri tempi che è quello della crisi della competenza. Se oggi il dibattito tra medici non fa altro che aumentare, troppo spesso, la confusione sul tema Covid, le opinioni contrastanti tra loro si rincorrono in un tourbillon confuso e si giunge a conclusioni affrettate con troppa superficialità, presentando come oggettive prove non peer-reviewed. Negli scorsi anni, gli economisti che non erano riusciti a prevedere i palesi venti di crisi che soffiavano sull’Occidente, non mancavano di presentare come soluzione quelle ricette (tagli alla spesa pubblica, austerità, disciplina di bilancio) che la crisi l’avevano favorita, ma la cui difesa aveva garantito loro un’ascesa sociale, professionale, politica. Dimostrandosi tanto impreparati nel leggere i segni dei tempi in passato quanto spiazzati dall’accelerare delle tempeste economiche durante il loro sdoganamento.

La crisi della competenza. La crisi della competenza, intendiamoci, non va associata nella stragrande maggioranza dei casi a un’impreparazione o a un’esplicita malafede da parte degli esperti chiamati in causa. O, nei casi limite, non solo. Ad andare in crisi è il costrutto sociale che vede le emergenze affidate, volta per volta, al consiglio e all’ausilio di categorie professionali “tecniche” ritenute oggettivamente in grado di padroneggiare le discipline. Nella speranza che questo procuri, a cascata, un rafforzamento delle capacità del sistema sociale e politico di affrontare le emergenze. Questo processo si è tuttavia più volte dimostrato fallace per un’ampia serie di motivi. In primo luogo, ai “competenti” viene affidata un’aura salvifica che pare deresponsabilizzare completamente il peso dei decisori esterni al loro ambito senza una corrispondenza tra visibilità e autorità effettiva. Spesso i tecnici sono accademici o ex professori universitari, editorialisti o professionisti, ma non ricoprono cariche formali e il loro ruolo può e in certi casi deve fermarsi a quello del consigliere. In secondo luogo, la società contemporanea è abituata a chiedere risposte, ma non a porsi le domande giuste. E in questo ha giocato un ruolo anche l’èlite culturale e accademica che ha voluto isolarsi in una torre d’avorio pretendendo, in larga misura, di distanziarsi dalla società reale, dalle comunità di riferimento creando un meccanismo entro cui  si pretende che il sapere tecnico, scientifico o professionale sia patrimonio di pochi eletti, che solo l’aver stabilizzato una determinata competenza in un preciso ambito consenta di dichiararsi chiamato in causa per parlare di tale tema. Livellando così nel dibattito pubblico la capacità di analisti, studiosi e opinione socialmente attiva di interrogarsi per poter vedere i propri dubbi risolti e, soprattutto, scrutinare effettivamente il ruolo dei tecnici. Terzo punto, somma degli altri due e causa principale, è il fatto che ad aver incentivato questi meccanismi sia stata la politica in una fase in cui i partiti hanno abdicato, in Italia e nel resto d’Europa, alla loro volontà di costruire classi dirigenti all’altezza delle sfide del presente e in grado di coniugare sapere pratico e visione politica. Da un lato questo ha portato i politici e i governanti a cercare nei tecnici dapprima i salvatori e in seguito i responsabili di possibili fallimenti; dall’altro, nella politica stessa e nel dibattito pubblico si è creato un mito che vorrebbe come necessario il possesso di determinati requisiti o competenze per l’assunzione di cariche politiche. Richiesta tanto vaga quanto fallace: siamo certi che affidando, ex lege, il ministero degli Esteri a un diplomatico di carriera, la Sanità a un medico e la Giustizia a un magistrato la capacità di produzione di azioni e iniziative e la tenuta politica di questi dicasteri, del resto già stracolmi di tecnici nelle loro burocrazie strategiche, si valorizzerebbero? Evidentemente no. Un leader non deve essere “competente”: deve avere una solida cultura, idee precise e certamente padronanza delle dinamiche oggetto dei suoi campi d’interesse, ma è la capacità politica la prima necessità, non una data “expertise”, per usare un gergo comune nel campo dei “competenti”.

Il dialogo tra politica e competenza. Giulio Andreotti fu sette anni ministro della Difesa (1959-1966) senza venire dai ranghi militari e, anzi, fu scartato alla visita di leva per allievi ufficiali; ricoprì la carica di ministeri economici di peso, l’Industria e le Finanze, senza aver avuto un pesante background accademico in materia. Anzi, come amava ironizzare, all’università odiava studiare “la scienza delle finanze dove ho preso il mio l’unico 18. Un voto che però non mi ha impedito di diventare proprio ministro delle finanze. Per questo, forse, non sono portato al pessimismo”. Dulcis in fundo, il sette volte presidente del Consiglio ebbe anche un incarico di sei anni alla Farnesina (1983-1989). In tutte queste esperienze nessuno mise mai in dubbio il fatto che Andreotti avrebbe potuto costruire il giusto mix tra conoscenze politiche ed esperienza personale e sostegno di apparati e ministeri. In Regno Unito nientemeno che Winston Churchill seppe capire l’importanza di questa alchimia dopo che alcuni errori personali legati a intuizioni sbagliate (l’attacco di Gallipoli nel 1915 e il fallimento della difesa del gold standard dopo la Grande Guerra) avevano rischiato di troncarne la carriera politica. Churchill seppe guidare con tenacia lo sforzo bellico di Londra dal 1940 al 1945 costruendo una squadra che avrebbe saputo coniugare alla perfezione sapere politico e competenze tecniche. La scelta del dinamico Lord Beaverbook, ex giornalista dalla mente poliedrica e uomo di grande ingegno, come ministro della produzione aeronautica nel 1940 contribuì a accelerare la difesa dalla Luftwaffe nella Battaglia d’Inghilterra; sul finire della guerra, la consulenza data a Churchill e al suo governo da John Maynard Keynes, che del premier fu forte avversario negli anni precedenti la crisi del 1929, seppe contribuire a costruire l’agenda economica che il Regno Unito, assieme agli Usa, avrebbe proposto per l’ordine post-bellico. La tecnica, in un certo senso, è sempre politica. Ed è sbagliato ritenere le due sfere separate o illudersi che in uno dei due campi possa nascondersi una supposta oggettività. Le grandi innovazioni e progressi della storia e le grandi fasi della vita dei popoli e delle nazioni non sono mai state dovute solo all’una o all’altra fattispecie. La competenza come fattore di governo della vita pubblica è pia illusione senza un progetto politico alle spalle; la politica senza l’ausilio di un mix di conoscenze e esperienze è di fatto cieca. L’era della globalizzazione culminata nella pandemia ha portato governi e opinioni pubbliche a pensare che separare i due campi potesse essere la soluzione per risolvere le varie crisi settoriali mano a mano che esse si presentavano. La pandemia, crisi al tempo stesso sanitaria, economica, sociale, politica, ci ha insegnato che così non è. E che forse la vera emergenza è la stessa globalizzazione per come è stata strutturata: competitiva, anarchica, atomizzante. E la risposta a dilemmi del genere non può che passare per la riscoperta della politica.

Il paradosso della competenza in politica. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 15 Giugno 2021. L’ascesa dell’uomo qualunque nella politica italiana ha portato ad un paradosso. Invece di garantire più democrazia, ha avuto l’effetto contrario. Ha assicurato maggiore potere ai tecnocrati, non eletti, che hanno spesso dovuto supplire alle carenze tecniche degli eletti, “invadendone” lo spazio. La democrazia rappresentativa ha virato dunque verso un’aristocrazia, passando però per il mito della democrazia diretta e dell’individuazione dei candidati attraverso un mi piace, messo sotto ad una video-presentazione. Per la rubrica Lobby Non Olet di Telos A&S, ne abbiamo parlato con Lorenzo Castellani, politologo e autore de L’ingranaggio del potere (Liberilibri 2020). “[…] i poteri non-elettivi, a carattere tecnico, oggi condizionano la vita dei cittadini e le scelte politiche allo stesso modo, se non forse ancor di più, di quelli elettivi e rappresentativi” afferma Castellani. L’effetto di questa situazione è la Tecnocrazia, il “regime misto” tra potere dei tecnici e potere del popolo. Su questo argomento sono molto interessanti le dichiarazioni di una delle protagoniste del fenomeno della democrazia diretta, che ha portato i membri della società civile, a discapito dei politici di professione, a rappresentarci nei luoghi dove si gestisce la cosa pubblica. “Noi eletti quasi per caso eravamo la sfida al sistema […]. “Per Beppe [Grillo] e Gianroberto [Casaleggio] eravamo i granelli di sabbia nell’ingranaggio”. Sono le parole di Laura Castelli, viceministra del M5S, sia con il Governo Conte II sia con l’attuale Governo Draghi (intervista di Matteo Pucciarelli, La Repubblica, 8 giugno 2021). Sarebbe utile condurre un’indagine per appurare quanto i cittadini siano consapevoli di come il ruolo di persone che non hanno eletto condizioni la loro vita. A naso, possiamo dire che non ne sanno assolutamente nulla. Così come credo che siano totalmente inconsapevoli di come stanno realmente le cose la gran parte degli imprenditori e dei manager che rappresentano la forza produttiva del Paese. Lo sanno molto bene invece quelli che, come me, svolgono attività di rappresentanza degli interessi. Noi lobbisti abbiamo imparato da tempo che l’interlocutore non è necessariamente il ministro o il deputato, ma può e, talvolta, deve essere il capo di gabinetto o il direttore generale che, spesso, è la persona che ha la prima, ma anche l’ultima, parola su un argomento. Certamente la sua è una parola informata e competente, perché la classe dirigente della Pubblica Amministrazione italiana annovera personaggi di grande spessore. Ne è una prova il fatto che non è infrequente che lavorino per politici di schieramenti diversi, spostandosi da un ruolo all’altro in un “mercato” informale delle competenze, che certamente privilegia il merito. Ma la competenza, anche la più sofisticata, non basta per fare la democrazia. L’ultima parola dovrebbe essere sempre della politica.

SAPETE QUANTO PRESE ALLA MATURITÀ IL MINISTRO BIANCHI? MENO DELLA AZZOLINA. Dagospia l'11 giugno 2021.

Da corriere.it l'11 giugno 2021.  

Patrizio Bianchi: 56/60. 56/60: è con questo punteggio di fascia alta, anche se non con il massimo dei voti, che il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi fu congedato dal suo liceo scientifico alla Maturità. Lo ha raccontato lui stesso a Skuola.net: «In ginnastica sono andato sempre molto male, ma ero un grande appassionato di storia. Poi ho fatto scienze politiche e in seguito economia». Bianchi è stato a lungo docente universitario di Economia e poi anche rettore dell’Università di Ferrara dal 2004 al 2010 e successivamente per dieci anni assessore all’Istruzione della Regione Emilia Romagna. Prima di essere scelto da Draghi come ministro dell’Istruzione era stato a capo della task force per la ripartenza delle scuole voluta dal governo Conte. «Durante l’estate della maturità con i miei amici abbiamo fatto moltissime cose, tra cui attività di volontariato», ha raccontato Bianchi, che ha poi suggerito ai giovani di fare la stessa cosa perché «la bellezza della vita è donarsi agli altri». Il ministro ha anche suggerito ai ragazzi di «prendersi un momento per abbracciarsi e festeggiare con i propri compagni», finita la maturità.

Lucia Azzolina: 100/100 e menzione (e due lauree). L’ex ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, 38 anni, ha frequentato il liceo scientifico Leonardo Da Vinci di Floridia (Siracusa) sua città natale dove si è diplomata con 100/100 e menzione d’onore. Ha due lauree, in Filosofia e Giurisprudenza. Ha insegnato storia e filosofia nei licei di Sarzana e La Spezia e successivamente a Biella, nel 2019 ha superato il concorso per dirigente scolastico ma non è mai stata preside perché nel frattempo era già stata eletta alla Camera con il M5S.

Mario Draghi. Sul curriculum scolastico del premier Mario Draghi si sono scritti dei romanzi: il liceo classico dai gesuiti - il Massimiliano Massimo di Roma - dove in quegli anni studiavano anche Luigi Abete, Luca Cordero di Montezemolo, Giancarlo Magalli (qui la sua intervista pubblicata sul Corriere), la laurea alla Sapienza con Federico Caffè, il dottorato al Mit con il Nobel Modigliani.

Giuseppe Conte: 60/60. L’ex premier Giuseppe Conte ha studiato al liceo classico Pietro Giannone a San Marco in Lamis agli inizi degli anni Ottanta. Voto da secchione: 60/60. Professore ordinario di diritto privato, il 19 aprile scorso è tornato a fare lezione all’Università di Firenze dopo il lungo intervallo da presidente del Consiglio.

Giorgia Meloni, media del 9 ma 7 in condotta. La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni è insieme a Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana quel che resta dell’opposizione al governo Draghi. Che tipo di studentessa eri?, le hanno chiesto in un'intervista. «Da ultimo banco: 7 in condotta e media del 9», risponde sulla piattaforma Skuola.net. Meloni si è raccontata così: «Ero sicuramente una che andava bene a scuola ed ero già impegnata politicamente. Organizzavo parecchie proteste studentesche, tra l’altro a destra e quindi non ero proprio amatissima dai professori. Sapevo che non potevo permettermi di andare male». E infatti si è diplomata in lingue con 60/sessantesimi presso l’ex istituto tecnico professionale Amerigo Vespucci di Roma.

Matteo Salvini: 48/60. «Se potessi tornerei agli anni del Manzoni a Milano, con i miei italiano e latino allo scritto, greco e storia all’orale, e un 48 finale»: così l’ex ministro dell’Interno ed ex vicepremier Matteo Salvini. Anche Salvini, però, nei beati anni del liceo ha avuto qualche problema con la condotta: così ha raccontato, almeno, qualche tempo fa una sua ex compagna di scuola, Maria Luisa Godino, avvocato: «Aveva 7 in condotta – ha detto a Il Giornale -. Il voto in condotta, un piccolo neo, era dovuto al fatto che non le mandava a dire e spesso aveva qualcosa da ribattere anche agli insegnanti. Che se lo legavano al dito». Dopo il diploma di maturità, Salvini si iscrive al corso di laurea in Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Milano, per poi passare a Scienze Storiche e fermandosi infine a cinque esami dalla laurea.

Roberto Fico, presidente della Camera: 40/60. «Ho preso 40 alla maturità. Ma al di la del voto, di cui poi fui contento, la cosa importante di quell’esame è che è la struttura di quello che vuoi fare nella vita». Lo confessa il presidente della Camera Roberto Fico in un’intervista a Skuola.net, in cui ricorda la sua notte prima degli esami di maturità. «Ero a casa, in camera mia con il mio migliore amico, e parlavamo dell’esame. Quella notte facemmo la `cartucciera´, con tutta una serie di temi. Ma non la usammo. Fu un gesto per sentirci più sicuri». E qui un consiglio ai maturandi: «Non bisogna copiare niente ma scrivere quello che si ha dentro».

Virginia Raggi: 55/60. La sindaca di Roma Virginia Raggi ha superato l’esame di maturità nel 1997. Aveva frequentato il liceo scientifico Newton a Roma e il suo voto è stato 55/60.

Carlo Calenda bocciato al Mamiani. I trascorsi scolastici dei politici sono spesso oggetto di polemiche infuocate nelle cronache. Tempo fa su Twitter si è scatenato un acceso dibattito in seguito a un post dello scrittore Christian Raimo che se la prendeva con il candidato sindaco di Roma Carlo Calenda per il suo passato scolastico assai poco brillante, accusandolo di essersi «comprato la promozione in un esamificio». L’ex ministro dello Sviluppo economico, che non ha mai fatto mistero dei suoi travagliati anni di scuola, si è risentito solo perché Raimo ha tirato in mezzo pure i suoi figli in quanto iscritti a una scuola privata. Durante la trasmissione radiofonica Un giorno da pecora, Calenda aveva raccontato: «Al Liceo Mamiani ho avuto prima due materie, poi quattro e poi sono stato bocciato in prima liceo. Contemporaneamente, in prima liceo, ho anche avuto una figlia e sono stato sbattuto fuori casa». Calenda si è poi laureato in Giurisprudenza alla Sapienza.

Gaetano Manfredi: 60/60. L’ex ministro dell’Università Gaetano Manfredi, già rettore dell’Ateneo napoletano Federico II, ha frequentato il liceo classico Carducci di Nola dove si è diplomato con 60/60 prima di iscriversi a ingegneria. Attualmente è candidato sindaco di Napoli (sostenuto da PD-Leu -M5).

Luigi Di Maio: 100/100. Ecco il racconto che il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha fatto della sua maturità: «Ho sostenuto l’esame nel 2004, con un anno di anticipo rispetto ai canonici 18 anni, e portai una tesina sulla Scelta nella Storia, ovvero le grandi “sliding doors” che hanno spostato il normale corso degli eventi. L’elaborato scritto era, invece, un tema sull’Europa, sui suoi valori, mi pare di ricordare. La notte prima degli esami l’ho passata studiando. Ci tenevo troppo per andare a divertirmi. E la mattina dopo lo dimostrai: mi presentai all’esame, unico del Liceo Vittorio Imbriani di Pomigliano, con la giacca. Sotto portavo una semplice t-shirt, ma volevo riconoscere il massimo dell’importanza a quell’appuntamento. Ai professori che mi chiesero spiegazione per quel look risposi così: è per dare autorevolezza a questa occasione. I professori mostrarono di apprezzare: In realtà il commissario interno mi prese in giro. Mi disse che non mi avevano voluto dare 100/100 perché si erano sentiti oltraggiati dal mio comportamento. Io mi inalberai, ma il professore scoppiò a ridere e mi disse che era solo uno scherzo”. E 100/100 fu.

Le due giustizie di Ferri e Palamara. Liana Milella su La Repubblica il 14 Febbraio 2021. Ma la giustizia è una sola, oppure è doppia? Una vale per le toghe, e un’altra vale per la politica? C’è da porsi questo interrogativo osservando cosa accade per due magistrati come Luca Palamara e Cosimo Maria Ferri. Il primo toga di Unicost. Il secondo di Magistratura indipendente. Due “boss”, se con questa parola si può sintetizzare l’essere molto potenti, non solo nel proprio gruppo, ma anche nei confronti delle altre correnti. Il primo resta con la toga addosso. Il secondo la mette in freezer, e diventa prima sottosegretario (si disse segnalato da Niccolò Ghedini), in ben tre governi, e poi passa nel Pd, e poi ancora con Renzi. Partito per il quale tuttora siede in Parlamento, e fa parte anche della commissione Giustizia della Camera. E qui si può osservare la fotografia dei differenti destini e delle due “giustizie”. Quella dei giudici. E quella della politica. Perché Palamara, sotto processo a Perugia per corruzione, viene rimosso dalla magistratura in quanto protagonista dell’incontro all’hotel Champagne di Roma per pilotare la nomina del nuovo procuratore di piazzale Clodio. Incontri in cui erano presenti anche Ferri e Luca Lotti, un renziano rimasto nel Pd. Per Palamara sono bastate nove udienze a palazzo dei Marescialli lo scorso autunno. Il 9 ottobre il verdetto era pronto. Rimosso. Via la toga dalle spalle. E Ferri invece ? Il suo processo va ancora avanti, rallentato dai dubbi sulle intercettazioni via Trojan, visto che lui è un parlamentare. Ma in Parlamento invece, e dentro Italia viva, che è successo? Semplicemente non è accaduto nulla. Ferri - che non è sotto inchiesta a Perugia, ma risponde solo per il suo comportamento da magistrato in sede disciplinare - è sempre lì dove stava prima. Quegli accordi sottobanco tra toghe e politica per il procuratore di Roma fanno scandalo al Csm e producono una radiazione, ma alla politica - evidentemente - fanno il solletico. Tant’è che Italia viva si tiene Ferri. E il Pd si tiene Lotti. Due giustizie, e non una sola giustizia. Materia per dotte analisi sulle tante riviste che si occupano di dottrina giuridica. Certo un evidente caso di doppia morale. Tant’è, prendiamone atto.

La vera questione morale? I politici incompetenti. Astolfo Di Amato su Il Riformista il 31 Dicembre 2020. Le cronache danno notizia, con una certa frequenza, dell’arresto di personaggi, i quali esercitano attività professionali senza avere i relativi titoli. Si legge, così, di falsi commercialisti, di falsi avvocati, di falsi ingegneri etc. La questione diventa particolarmente inquietante quando l’attività esercitata, senza averne titoli, è quella di medico. In tutti questi casi, ed in particolare quando si tratta di falsi medici, la vicenda è presentata come una vera e propria truffa ai danni dei cittadini, i quali affidano la loro salute, i loro beni e comunque il loro futuro a chi è sprovvisto delle competenze necessarie. Nessuno dubita che si tratti di un comportamento non soltanto delittuoso, ma moralmente del tutto inaccettabile. Ebbene, se si riflette un attimo, è quello che oggi sta accadendo nella gestione della cosa pubblica. Al grido di “onestà, onestà” il valore della competenza è stato derubricato ad accessorio irrilevante e, anzi, addirittura ad elemento di sospetto. Chi è competente è, in qualche modo, connesso ad interessi oscuri. Questo ha determinato che il governo della cosa pubblica sia finito in mano a personaggi che si distinguono, tanto per fare un esempio, nel fatto di gestire un ministero estremamente delicato, come quello degli esteri, confondendo tra Libia e Libano. È il risultato del famoso principio dell’uno vale uno, che dileggia le competenze e che sostiene che chiunque può fare qualsiasi cosa. In definitiva, secondo questa prospettiva, colui che fa il medico senza avere le competenze è un immorale, che merita la galera. Mentre chi gestisce la cosa pubblica, senza alcuna competenza e pregiudicando il presente e ancora di più il futuro delle nuove generazioni, è persona immacolata. Questa situazione, già grave durante il governo gialloverde, è esplosa in tutta la sua drammaticità con la pandemia. Che certamente è difficile da gestire, ma che proprio per questo avrebbe richiesto un livello di competenza ancora maggiore dell’ordinario. Ed invece, l’incompetenza e l’incapacità la stanno facendo da padroni. Per convincersene basta dare uno sguardo alla legge di bilancio per il 2021. Ebbene, un bilancio che avrebbe dovuto affrontare i nodi irrisolti della società italiana, destinati ad esplodere nei prossimi mesi per una crisi economica che sta diventando sempre più profonda e che sta destinando milioni di persone al massacro sociale, si è risolta, con il concorso attivo dell’opposizione, in un coacervo di mance e mancette volte a raccattare il consenso elettorale. Così, in una sorta di euforia da deficit, come l’ha definita Carlo Cottarelli (Repubblica del 24 dicembre), sono stati regolati e finanziati, come ha rilevato Sabino Cassese (Corriere della Sera del 29 dicembre) cori, bande musicali, corsi di formazione turistica esperienziale, l’ottavo centenario della prima rappresentazione del presepe, il voucher per occhiali da vista, il piano nazionale demenze, etc. Sono stati moltiplicati gli uffici dirigenziali della Pubblica Amministrazione ed immessi in ruolo, nella stessa Pubblica Amministrazione, persone che se pur idonee non avevano vinto il concorso. Il risultato negativo è duplice. Da un lato, il disavanzo complessivo è stato portato al 10,8% ed il debito pubblico al 158% del Pil, senza che siano state poste in alcun modo le basi per una ripartenza del Paese e per la creazione di nuovi posti di lavoro. Dall’altro il mostro della Pubblica Amministrazione, additato come una delle cause centrali della crisi italiana, ha continuato ad ingigantirsi. La logica, per usare l’espressione di Luca Ricolfi, è stata quella di una società assistenziale di massa, senza considerare che, come l’esperienza dei paesi del socialismo reale ha ampiamente dimostrato, le società assistenziali di massa sono destinate ad un progressivo e drammatico impoverimento e alla negazione di molte libertà. Queste considerazioni rendono ancora più evidente che un ulteriore dramma si sta consumando rispetto alle risorse europee che vanno sotto il nome di New Generation EU. Non solo un piano adeguato non è stato ancora redatto, ed in questo l’Italia è già in ritardo di oltre un mese rispetto ad altri paesi, ma se si va ad analizzare cosa è successo in proposito, si deve prendere atto che l’ultimo mese è stato speso solo per discutere a quali poltrone spetti il potere di decidere come spendere. Il tema delle poltrone, cioè, è stato prevalente sui contenuti. Né questa circostanza può sorprendere ove si consideri che chi è chiamato a prendere decisioni non ha alcuna familiarità con i contenuti, attesa la sua incompetenza, e quindi l’unico tema su cui può cimentarsi è quello delle poltrone. La profonda immoralità di questa situazione è resa ancora più evidente dalla circostanza che gli errori del presente non solo faranno esplodere una tragedia sociale nei prossimi mesi, ma si rifletteranno in modo irreparabile sulle future generazioni. Ovviamente, la storia e coloro che pagheranno questi errori non potranno non prendere in considerazione la condotta di chi, come il Presidente della Repubblica ed il Partito Democratico, aveva gli strumenti culturali per rendersi conto di quanto stava maturando.

·        Mai dire…Silenzio Elettorale.

I partiti litigano sulla piazza della Cgil. Ancora tensione nel giorno del voto. Il centrodestra sulla manifestazione: violato il silenzio elettorale. Il centrosinistra replica: occasione per tutti, sbagliato disertarla. Paola Di Caro su Il Corriere della Sera il 17 ottobre 2021. La certezza è che, comunque vada il voto, se ne tornerà a parlare. Perché la manifestazione dei sindacati di San Giovanni ha spaccato il mondo politico: da una parte il centrosinistra, che ha trovato doveroso partecipare e incalza gli avversari: «Nessuno doveva sottrarsi — spiega la capogruppo alla Camera del Pd, Debora Serracchiani — era un momento di unità»; dall’altra l’intero centrodestra che ha disertato un appuntamento «strumentale» e «in violazione del silenzio elettorale». Facile immaginare che da oggi il centrodestra, soprattutto per Roma, chiamerà in causa la manifestazione come fattore distorsivo, sia in caso di sconfitta sia di vittoria. Ha già attaccato ieri Giorgia Meloni: «Nella manifestazione contro tutti i fascismi e gli estremismi sventola la bandiera dell’Unione Sovietica, ovvero uno dei regimi più sanguinari della storia dell’umanità. Ale’», il commento su Facebook a una foto di San Giovanni. E poi, al seggio, ha aggiunto che «votare è importantissimo», i politici «sono lo specchio della società che rappresentano: ce n’è di buoni e di cattivi, bisogna saper scegliere» ma sulla manifestazione è stata definitiva: «Mica sono come il Pd che viola il silenzio elettorale». «C’è un regime totalitario (ancora al potere in certi Paesi) che ha lasciato dietro sé morte e povertà. È lo stesso che tra pugni chiusi e bandiere rosse veniva omaggiato in piazza ieri. Per chi non volesse rinunciare alla memoria, si chiama comunismo?», ha aggiunto per FdI Daniela Santanché.Se il candidato Enrico Michetti ha scelto un polemico no comment («Noi rispettiamo la legge sempre»), e Salvini ieri non è intervenuto dopo aver censurato duramente il giorno prima la manifestazione, è Licia Ronzulli a dar voce all’irritazione di Forza Italia: «Abbiamo scelto di non andare in piazza a Roma con chi nel corso di una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti, si vuole arrogare il diritto di dividere l’Italia tra buoni e cattivi, tolleranti e intolleranti, fingendo che gli estremismi siano solo di una parte». E dunque a una «inopportuna passerella abbiamo preferito essere sui territori, tra i nostri elettori e tra i cittadini». «Purtroppo —chiosa Fabrizio Cicchitto — la manifestazione dei sindacati si è tradotta in una sostanziale rottura del giorno del silenzio elettorale e in una manifestazione politica a favore del centrosinistra». Accuse respinte da sinistra. Enrico Letta, su Twitter, pubblica una sua foto al seggio e si limita a un «Buon voto a tutti. Viva la democrazia». Ma è la capogruppo Pd Serracchiani a replicare: «È stata la piazza dei lavoratori, della democrazia, dei valori costituzionali. Una piazza di tutti gli italiani, così come chiesto e voluto dai sindacati, per dare una risposta popolare e democratica all’assalto fascista alla Cgil. Una risposta di unità a cui nessuno avrebbe dovuto sottrarsi», è la contro accusa. Condivisa da Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana: «C’era un popolo pieno di dignità. Antifascista. Perché antifascista è il cuore dell’Italia».

Alla faccia della par condicio: la Cgil ha stracciato le regole. Analisti concordi: "Manifestazione per influenzare il voto". Cardini: "In piazza c'era un'oligarchia". Domenico Di Sanzo su Il Giornale il 18/10/2021. La materia è scivolosa. E se molti costituzionalisti sono convinti che la manifestazione di sabato organizzata dai sindacati non abbia violato - almeno formalmente - la legge sul silenzio elettorale, la politica e l'opinione pubblica sono divise sull'opportunità di convocare un grande evento in cui non sono mancate le coloriture identitarie nel giorno precedente l'apertura dei seggi per i ballottaggi in alcune delle principali città italiane. Compresa Roma, la sfida regina di questo turno. Teatro, a Piazza San Giovanni della sfilata della triplice sindacale e del centrosinistra al gran completo. Dal segretario del Pd Enrico Letta al presidente del M5s Giuseppe Conte. La chiamata a raccolta nel segno dell'antifascismo ha finito per provocare divisioni. Con il centrodestra che ha parlato di «manifestazione di parte» e ha stigmatizzato la violazione del silenzio elettorale e delle leggi sulla par condicio, particolarmente severe prima delle elezioni. Basti pensare alle polemiche, al primo turno, sulla mancata messa in onda da parte della Rai del film Hammamet su Bettino Craxi, ufficialmente per un cambiamento del palinsesto, secondo il figlio del leader socialista Bobo, invece lo sbianchettamento sarebbe stato dovuto alla sua candidatura al consiglio comunale di Roma a sostegno di Gualtieri. Surreale la discussione sulla trasmissione di Rai1 È sempre mezzogiorno condotta da Antonella Clerici. Nella puntata del cooking show del 4 ottobre è stato fatto ascoltare uno spezzone di una canzone di Pippo Franco e si sono registrati risentimenti perché il comico era candidato a Roma con il centrodestra. Per Lorenzo Pregliasco, analista politico e fondatore di You Trend, tutto parte dagli eventi violenti di sabato 9 ottobre, con l'assalto alla Cgil della frangia violenta dei No Pass guidata dai neofascisti di Forza Nuova. «Secondo me - dice al Giornale - sono gli eventi di due sabati fa ad aver avuto come conseguenza potenziale un compattamento del centrosinistra in vista dei ballottaggi, con effetti che potrebbero essere più favorevoli al centrosinistra che al centrodestra». E sulla manifestazione di sabato sottolinea: «In piazza c'erano molti politici di centrosinistra e nel manifesto della Cgil erano presenti temi dell'agenda politica del sindacato come ad esempio l'età pensionabile», riflette. Alessandro Campi, politologo e direttore dell'Istituto di Politica, va oltre e ci spiega che «un sindacato come la Cgil invece di ergersi a paladino dell'antifascismo e custode della democrazia dovrebbe interrogarsi sullo sfilacciamento del suo rapporto con i lavoratori». Molti settori del lavoro «non si sentono rappresentati dai sindacati e con le trasformazioni in atto rischiano di diventare disoccupati anche gli stessi sindacalisti oltre ai lavoratori che dovrebbero rappresentare». Franco Cardini, storico e medievalista, non ha dubbi. Con il Giornale parla di «una manifestazione di potere da parte di un'oligarchia». «È ovvio che la manifestazione della Cgil a poche ore dall'apertura delle urne serva anche a raccogliere dei voti per il ballottaggio - continua lo studioso - soprattutto in questi tempi in cui il colpo d'occhio di una piazza piena può influenzare le elezioni, sta di fatto che sabato lì c'era più che altro il paese legale, completamente scollato dal paese reale».

Fabrizio Caccia per il "Corriere della Sera" il 4 ottobre 2021. Indignatissimo Franz Caruso, candidato del centrosinistra a sindaco di Cosenza. Ieri ha annunciato querela contro il geologo Carlo Tansi, candidato anche lui al Comune: «Ha violato il silenzio elettorale con un post...». Ma c'è poco da indignarsi. Dalla mezzanotte di venerdì scorso, secondo la legge, sarebbe dovuto scattare il divieto di fare campagna elettorale fino alle 15 di oggi, cioè l'ora di chiusura dei seggi. E invece trasgressioni ovunque, molteplici, non solo sul web (il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, si è fermato a parlare coi cronisti fuori dal seggio a Milano) e con le scuse più disparate. Perfino l'incendio che ha danneggiato a Roma il Ponte dell'Industria è diventato l'occasione per gli ultimi slogan. Verrebbe da dire: niente di nuovo. Perché la normativa risale allo scorso millennio (legge 212 del 4 aprile del 1956), quindi aggiornata (legge 130 del 24 aprile 1975), ma continua a non occuparsi del vasto mondo dei social, da Twitter a Facebook, da anni ormai tra i canali più diffusi della comunicazione politica. In occasione delle elezioni europee del 2019, l'Agcom (l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) ha predisposto delle linee guida per le piattaforme digitali, ma non è stato ancora mai regolato in modo chiaro il silenzio elettorale sul web. Che perciò si può rompere tranquillamente. E infatti ieri ha scritto su Facebook il leader della Lega, Matteo Salvini («Ho votato per il cambiamento»). Mentre la presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, con un video postato sui social, ha attaccato di nuovo Fanpage ma non ha risparmiato la sindaca Raggi parlando del ponte. E sempre con un post le ha risposto poi Giuseppe Conte, il presidente M5S: «Strumentali i tuoi attacchi a Virginia...». Anche Gianluigi Paragone, candidato sindaco a Milano di Italexit, ha pubblicato un video per gli elettori: «Bisogna mandare un segnale...». A Napoli un candidato che appoggia Antonio Bassolino nella corsa a sindaco, Domenico Masciari, ha addirittura mostrato su Fb la foto della sua scheda scattata in cabina con la X segnata sulla lista. Travolto dalle polemiche, si è difeso: «Era solo un facsimile». Più prudente e in controtendenza, invece, il candidato sindaco a Roma del centrodestra, Enrico Michetti. Ai cronisti che gli chiedevano un commento sull'incendio del Ponte di Ferro, ha risposto netto: «Il silenzio è il silenzio...».

Antonio Polito per il "Corriere della Sera" il 4 ottobre 2021. Come tante altre finzioni, anche il «silenzio elettorale» ha fatto il suo tempo. L a giornata di ieri, tra il comizio di Berlusconi appena fuori dal seggio; il lungo video di Giorgia Meloni in cui risponde alle accuse del filmato di Fanpage sul suo europarlamentare Fidanza e il «barone nero» che frequenta; la polemica politica sul web per stabilire se l'incendio del Ponte di ferro a Roma è colpa della Raggi o è la solita manovra dei poteri forti come i cinghiali e l'immondizia; sono tutte prove che l'efficacia della norma del 1956, sessantacinque anni fa, è finita per desuetudine, consunzione, collasso strutturale. Le cause sono due. La prima è quella cui ormai diamo la colpa di tutto ciò che non funziona: la Rete. In effetti la parola «silenzio» è una bestemmia per la società digitale, che vive di chiacchiere e bla bla bla. Però la legge non sopprime la conversazione, si limita a vietare «i comizi, le riunioni di propaganda elettorale diretta o indiretta, in luoghi pubblici o aperti al pubblico, la nuova affissione di stampati, giornali murali o altri e manifesti di propaganda elettorale». Quindi più che agli elettori è rivolta ai candidati e relativi galoppini. E qui c'è il secondo - o forse primo - problema: i destinatari del divieto ormai se ne fregano, e il sabato e la domenica elettorale dicono ciò che vogliono nella giusta convinzione che non gli succederà nulla, nemmeno la multa da 103 a 1.032 euro prevista dalla norma. Accade per tante leggi: ne produciamo come nessun altro Paese al mondo, ma il Parlamento non spende mai un secondo ad abrogare quelle che non stanno più in piedi, oppure ad adeguare ai tempi quelle che vuole conservare. E così, nel paese delle «grida manzoniane», i «bravi» la fanno sempre franca.

·        Gli Impresentabili.

Elezioni comunali, l’Antimafia pubblica i nomi di nove “impresentabili”: quattro sono a Roma (tra cui De Vito). In Calabria c’è anche Lucano. Il Fatto Quotidiano l'1 ottobre 2021. Oltre al presidente dell'assemblea capitolina già in quota M5s, poi espulso e passato a Forza Italia dopo l'arresto per corruzione, nelle liste per l'assemblea capitolina ci sono Maria Capozza, anche lei di Forza Italia, Viorica Mariuta e Antonio Ruggiero, entrambi del Movimento Idea Sociale. Altri nomi anche negli elenchi di candidati ai consigli comunali di Cosenza, Siderno (Reggio Calabria), Napoli e Bologna. La commissione parlamentare Antimafia presieduta da Nicola Morra ha pubblicato la lista dei candidati “impresentabili” alle elezioni comunali del 3 e 4 ottobre, individuati in base a carichi pendenti o sentenze definitive per un elenco di reati previsto dal codice di autoregolamentazione della Commissione o dalla legge Severino (in quest’ultimo caso, se eletti i candidati decadono). L’elenco consta di nove nominativi, di cui quattro sono candidati al Consiglio comunale di Roma: oltre a Marcello De Vito – presidente dell’assemblea capitolina già in quota M5s, poi espulso e passato a Forza Italia – ci sono Maria Capozza, anche lei di Forza Italia, Viorica Mariuta e Antonio Ruggiero, entrambi del Movimento Idea Sociale. De Vito è sotto processo per corruzione: fu arrestato nel marzo 2019 con l’accusa di aver ricevuto tangenti per per “oliare” i procedimenti amministrativi sulla costruzione dello stadio della Roma e altri importanti progetti immobiliari. Anche Maria Capozza, avvocatessa esperta in diritto canonico (specializzata in procedimenti di fronte alla Sacra Rota) è a giudizio per corruzione in qualità di ex segretaria generale dell’Istituto pubblico di assistenza di Santa Maria in Aquiro, accusata di aver versato tangenti per ottenere appalti diretti a favore del proprio ente. Per quanto riguarda le regionali in Calabria, l’unico candidato inserito nella lista dell’Antimafia è proprio Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace simbolo dell’accoglienza e appena condannato a 13 anni e 2 mesi di carcere per un lungo elenco di reati, che si presenta a sostegno di Luigi De Magistris con la lista “Un’altra Calabria è possibile”. In occasione del controllo preventivo sugli elenchi provvisori – una facoltà concessa ai partiti a partire da quest’anno, che però è stata sfruttata ben poco – ne erano stati individuati altri due nelle liste a sostegno di Roberto Occhiuto, candidato del centrodestra, che però evidentemente non hanno superato il vaglio definitivo. Altri “impresentabili” compaiono negli elenchi di candidati ai consigli comunali di Cosenza, Siderno (Reggio Calabria), Napoli e Bologna. A Cosenza c’è l’ingegnere Gianluca Guarnaccia, che corre nella lista “Coraggio Cosenza” con Francesco Caruso sindaco, rinviato a giudizio in un processo per una lunga serie di reati (falso materiale e ideologico, rivelazione di segreto d’ufficio, turbativa d’asta) relativi ai lavori di riqualificazione di una piazza della città. A Siderno invece l’impresentabile è Domenico Barbieri, della lista “Corriamo insieme” a sostegno di Antonio Cotugno: per lui una condanna non definitiva a sei mesi per detenzione di stupefacenti. A Napoli il nome sotto i riflettori è quello di Carlo De Gregorio, tra i candidati della lista civica “Essere Napoli” a sostegno di Catello Maresca per il centrodestra, condannato in primo grado per importazione, detenzione e commercio di sostanze stupefacenti. A Bologna, invece, ecco Riccardo Monticelli (“Coalizione civica per Bologna Coraggiosa”) condannato anche lui in via non definitiva per detenzione a fini di spaccio. Nella lista degli impresentabili, infine, c’è anche uno dei candidati sindaco di Cerignola (Foggia), Franco Metta, che era anche l’ultimo sindaco in carica prima dello scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose nell’ottobre 2019: la sua incandidabilità è stata sancita il 1° giugno del 2021 dalla Corte d’Appello di Bari, e anche se la decisione non è definitiva “rileva ai fini del codice di autoregolamentazione“, ha spiegato il presidente Morra, pur precisando che la situazione potrebbe cambiare in seguito al ricorso in Cassazione. L’articolo 143 del Testo unico degli enti locali, infatti, impedisce agli “amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento” di candidarsi nei “due turni elettorali successivi allo scioglimento, qualora la loro incandidabilità sia dichiarata con provvedimento definitivo”.

Amministrative, Morra presenta la lista: Lucano e De Vito tra gli “impresentabili”. A soli due giorni dal voto, la commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Nicola Morra, presenta la lista definitiva dei cosiddetti "impresentabili" alle amministrative. Sono in tutto dieci: 9 alle Comunali e uno alle Regionali. Il Dubbio l'1 ottobre 2021. A soli due giorni dal voto, la commissione parlamentare Antimafia, presieduta dal senatore grillino Nicola Morra, presenta la lista definitiva dei cosiddetti “impresentabili” alle amministrative. Sono in tutto dieci: 9 alle Comunali e uno alle Regionali. Di questi, quattro sono candidati alle Comunali di Roma. Si tratta di Marcello De Vito, Maria Capozza – entrambi di Forza Italia – e di Viorica Mariuta e Antonio Ruggiero, di Movimento Idea Sociale. A spiccare, tra tutti, è il nome di Marcello De Vito, ex M5S e presidente dell’assemblea Capitolina in questa legislatura, ora candidato nelle liste di Forza Italia per il Comune di Roma con Enrico Michetti, a cui carico c’è un decreto di giudizio immediato per corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio. Una scelta che, però, non sorprende Carlo Calenda che, in una piazza del Popolo gremita di sostenitori accorsi per la chiusura della sua campagna elettorale, commenta a LaPresse: «Non c’era bisogno. Era già inserito d’ufficio, diciamo». Tra gli impresentabili c’è anche l’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, condannato ieri in primo grado a 13 anni e due mesi di reclusione nel processo sui presunti illeciti nella gestione dei migranti nell’ambito del processo Xenia. Lucano è candidato all’assemblea regionale della Calabria a sostegno dell’uscente sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. La Commissione definisce “impresentabile” un candidato in base a criteri che rinviano alla cosiddetta legge Severino e al codice di autoregolamentazione Antimafia. Si può dunque essere considerati “impresentabili” nel caso di condanne, anche se non definitive, per alcune tipologie. «Questa sentenza ha dimostrato che c’è in Italia un problema di applicazione della norma», commenta il presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra,riguardo alla condanna dell’ex sindaco Mimmo Lucano. «Mi piacerebbe che la stessa attenzione e inflessibilità mostrata con il candidato ed ex sindaco Lucano venisse manifestata da altri tribunali e procure nei confronti di soggetti che magari sono stati oggetto di esposto o denuncia senza che vi sia stato alcun provvedimento da parte delle procure che, evidentemente, avranno accertato la non sussistenza dei fatti denunciati, questo posso concludere, o forse  no».

Nove i nomi presenti. Gli “impresentabili” di Morra a 2 giorni dal voto: nella lista di proscrizione c’è anche Mimmo Lucano. Carmine Di Niro su Il Riformista l'1 Ottobre 2021. Non solo le inchieste giudiziarie e giornalistiche. Ad entrare a gamba tesa sul voto delle amministrative del 3 e 4 ottobre arriva anche la commissione parlamentare Antimafia presieduta dall’ex grillino Nicola Morra. A due giorni dal voto infatti è stata presentata la lista dei cosiddetti “impresentabili”: si tratta di nove candidati alle Comunali e uno alle Regionali, previste esclusivamente in Calabria. Dei 9 “impresentabili, quattro sono candidati alle Comunali di Roma: si tratta di Marcello De Vito, Maria Capozza – entrambi di Forza Italia – e di Viorica Mariuta e Antonio Ruggiero, di Movimento Idea Sociale. A spiccare, tra tutti, è il nome di Marcello De Vito, ex M5S e presidente dell’assemblea Capitolina in questa legislatura, ora candidato nelle liste di Forza Italia per il Comune di Roma con Enrico Michetti, a cui carico c’è un decreto di giudizio immediato per corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio. Ma tra gli impresentabili c’è anche l’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, condannato ieri in primo grado a 13 anni e due mesi di reclusione nel processo sui presunti illeciti nella gestione dei migranti nell’ambito del processo ‘Xenia’. Lucano è candidato all’assemblea regionale della Calabria a sostegno dell’uscente sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. Il ‘tribunale etico’ di Morra ha bocciato anche la candidatura di Domenico Barbieri al consiglio comunale di Siderno, a sostegno del candidato sindaco Antonio Cutugno. ‘Fatale’ una condanna, non definitiva, a sei mesi di reclusione e mille euro di multa per “coltivazione di stupefacenti”. Anche a Napoli e Bologna ci sono “impresentabili”. Nel capoluogo campano è nella compagine che sostiene l’ex pm Catello Maresca: si tratta di Carlo De Gregorio, lista “Essere Napoli”, che se eletto verrebbe sospeso in quanto condannato a due anni per “importazione detenzione e commercio di sostanze stupefacenti”. A Bologna la ‘mannaia’ della commissione Antimafia cala invece su Riccardo Monticelli, in corsa nel campo del centrosinistra per Matteo Lepore e candidato nella lista “Coalizione civica per Bologna coraggiosa ecologista solidale”. Monticelli paga una condanna a 4 mesi per “detenzione ai fini di spaccio” ma al momento della presentazione della candidatura il casellario giudiziale non presentava riferimenti alla pronuncia. Ultimo nome è quello di Franco Metta, aspirante sindaco di Cerignola, in provincia di Foggia. Metta non può correre di nuovo in quanto “ha ricoperto le stesse funzioni” proprio in quel Comune che fu sciolto per infiltrazioni criminali. La Commissione definisce ‘impresentabile’ un candidato in base a criteri che rinviano alla cosiddetta legge Severino e al codice di autoregolamentazione Antimafia. Si può dunque essere considerati ‘impresentabili’ nel caso di condanne, anche se non definitive, per alcune tipologie di reato e rinvii a giudizio. Morra al termine della riunione della commissione ha spiegato anche che vi sono stati casi di soggetti “impresentabili” che sono stati “sostituiti da congiunti o parenti, le cosiddette teste di legno, ma su quello formalmente non si può fare alcunché”. LE REAZIONI – Una lista di proscrizione che ha ovviamente causato immediate reazioni. “Le elucubrazioni del senatore Nicola Morra, rese scorrettamente e pavidamente a poche ore dal silenzio elettorale, non hanno alcun valore giuridico né fattuale: domenica sarò, meravigliosamente presentabile, ben presente nelle liste di Forza Italia Roma Capitale, dal momento che io non sono mai stato condannato neppure per una multa”, ha reagito prontamente Marcello De Vito, candidato nelle liste di Forza Italia per il Campidoglio. Di un Morra “mosso da risentimenti” parlano invece Maurizio Gasparri, commissario romano di Forza Italia e il senatore Antonio Saccone segretario Udc del Lazio. Sul caso di Maria Capozza i due sottolineano infatti come la candidata azzurra “è in prima linea nel contrastare fenomeni di illegalità ed ha annunciato una querela nei confronti di chi fa rilievi assolutamente infondati. Peraltro è paradossale che proprio Morra abbia presentato delle interrogazioni chiedendo perché l’Anac non abbia dato seguito alle denunce della Capozza”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

·        I Vitalizi.

Editoriali. Giudici sotto ricatto, ma di chi? Dei grillini…. Antonello Falomi e Giuseppe Gargani su Il Riformista il 28 Luglio 2021. Caro direttore, il tuo giornale si caratterizza per la battaglia a favore della legalità interpretando un filone tradizionale della cultura italiana da Beccaria in poi che garantisce a tutti in maniera non episodica e contraddittoria prerogative e diritti così come rappresentati nell’età moderna dalla Costituzione italiana. Vi è una questione molto delicata che riguarda i diritti degli ex parlamentari che sono disconosciuti e vituperati in riferimento ai loro vitalizi o pensioni come dir si voglia e tu hai difeso giustamente nelle settimane scorse i diritti di alcuni ex senatori condannati a cui era stato revocato il vitalizio che il Senato ha poi riconosciuto, come viene riconosciuto a qualunque cittadino che sta nelle stesse condizioni. Ha trionfato la legalità che tanto sta a cuore a tutti i cittadini! Da oltre due anni dunque la politica si occupa dei vitalizi degli ex parlamentari perché l’Ufficio di Presidenza della Camera dei Deputati e del Senato nel 2018 aveva deciso, a maggioranza dei suoi componenti, di tagliarli mediamente del 42% e lo aveva fatto in maniera irrazionale penalizzando i più anziani; con un sedicente metodo contributivo retroattivo cioè da quando il parlamentare aveva cessato le funzioni e non dalla data della delibera, e senza la indicazione di un termine che la Corte Costituzionale ha ritenuto costantemente nel massimo di tre anni. Una delibera incostituzionale che offende lo Stato di diritto con la conseguenza che gli ex parlamentari non sono stati trattati come comuni cittadini ma sono stati puniti. Naturalmente gli ex parlamentari hanno presentato ricorso alle magistrature interne di Camera e Senato, le uniche competenti per simili controversie. La Commissione di Garanzia del Senato in primo grado ha accolto i ricorsi e ha confermato i principi di diritto stigmatizzando la illegalità e la illegittimità della delibera sopra indicata non degna di uno Stato di diritto. La Commissione di secondo grado, interessata a seguito del ricorso del Segretario Generale del Senato, ha sospeso la esecutività della sentenza e si è in attesa della decisione nel merito. Alla Camera il Consiglio di giurisdizione di primo grado ha reso nell’aprile 2020 una sentenza parziale, che ha censurato la eccessiva severità delle misure di mitigazione del taglio previste nella delibera per i casi di persone affette da gravi malattie o da insufficienza di reddito e ha delegato lo stesso Ufficio di Presidenza a correggere con criteri meno restrittivi la delibera. La Camera lo ha fatto ma in modo distorto al punto da vedersi bocciata la delibera di recepimento della sentenza. Purtroppo da quando è sorto il contenzioso, i rappresentanti del Movimento cinque stelle, che sin dall’inizio hanno proposto il “taglio”, hanno attribuito valore politico alle decisioni degli organi giurisdizionali interni, ritenendo che i componenti del collegio giudicante debbano essere coerenti con le idee politiche della maggioranza dei componenti dell’ufficio di presidenza e quindi “obbligati” ad adottare una decisione politica, distorcendo il rapporto politico – giustizia. Gli organi giurisdizionali, non sarebbero tenuti al rispetto dei principi di terzietà e imparzialità e indipendenza, ma organi politici che scelgono sulla base delle convenienze politiche e non sulla base del diritto. Abbiamo denunziato varie volte la pericolosità di questo comportamento perché compromette il tema cruciale della terzietà e imparzialità dei “giudici”, e perché il “tribunale” interno al Parlamento è a tutti gli effetti un organo giurisdizionale che ha il compito di garantire l’autonomia del Parlamento sovrano, libero da condizionamenti esterni, per rafforzare l’indipendenza e il valore della “rappresentanza” della Repubblica parlamentare. La nostra insistenza su quello che la nostra Costituzione definisce i pilastri della tutela giurisdizionale, terzietà, imparzialità, indipendenza dei giudici è direttamente proporzionale alla nostra fondata preoccupazione che quei principi, nella realtà, non sono rispettati. Ora leggiamo su un quotidiano che nel caso il Collegio di Garanzia di secondo grado del Senato dovesse confermare la sentenza di primo grado il Movimento cinque stelle deve essere pronto a uscire dalla maggioranza, “sollecitato”, secondo lo stesso quotidiano, da quei senatori che fanno capo a Giuseppe Conte che essendo un cultore del diritto dovrebbe rispettare ancor più le istituzioni e rendersi conto della illegalità di un simile ricatto. Si legge inoltre, ed è virgolettato, che «non si può stare in una maggioranza che spazza via il taglio degli assegni». Con questa minaccia agli organi giudiziari si è superato ogni limite perché in tal modo si oltraggiano le istituzioni e l’Associazione degli ex parlamentari ha fatto sentire forte la sua voce di dissenso, reclamando un intervento fermo dei Presidenti delle Camere che continuano a far finta di niente. C’è un partito dell’odio e dell’accanimento che sta distruggendo, assieme alla vita delle persone, tutte le garanzie poste dalla Costituzione a tutela dell’autonomia e della libertà della funzione parlamentare e che pretende di trasformare la giurisdizione domestica in una zona franca controllata dalle scelte di parte anziché dalla logica del diritto e dalla Costituzione, minando il valore e il significato dell’ “autodichia”, che come detto, serve a garantire l’autonomia del Parlamento. Non si possono subire misure discriminatorie che non rappresentano un atto di giustizia ma una punizione esemplare soltanto per quello che gli ex parlamentari hanno rappresentato. Si tratta di una discriminazione eclatante e tra l’altro non si tiene conto della legge sulle cosiddette “pensioni d’oro” che ha previsto per tutte le pensioni di una certa consistenza un taglio proporzionale e generale per cinque anni che poi la Corte Costituzionale ha ridotto a tre anni. Rispetto alle decisioni assunte dagli Uffici di Presidenza, gli ex parlamentari non fanno rivendicazioni corporative, né rifiutano di fare la propria parte di fronte alle difficoltà del paese e si sono dichiarati disponibili a tagli temporanei e soprattutto proporzionali come appunto la Corte Costituzionale ha stabilito. L’Associazione a nome di tutti gli Ex Parlamentari ha interessato il Presidente della Repubblica non per coinvolgerlo nella controversia giudiziaria ma per far valutare la fondatezza delle nostre preoccupazioni di fronte a comportamenti che mirano a delegittimare il Parlamento e con esso l’espressione più alta della sovranità popolare, e a minacciare l’autonomia degli organi giurisdizionali interni al Parlamento che sono chiamati a decidere senza interferenze e senza ricatti politici. Antonello Falomi e Giuseppe Gargani, Presidente e vicepresidente dell’associazione ex parlamentari

Vitalizi ai condannati, l’aula del Senato approva tutte le mozioni. Il Dubbio il 26 maggio 2021. La M5s, Pd e Leu impegna il Senato «ad adottare tutte le opportune determinazioni, nelle sedi proprie e competenti, tenendo conto dei principi posti dalla normativa vigente in materia di incandidabilità, volte a disciplinare i casi di revoca del vitalizio dei senatori, cessati dal mandato, che siano stati condannati in via definitiva per delitti di particolare gravità». L’aula del Senato ha approvato le tre mozioni sui vitalizi. Il testo di M5s, Pd e Leu è passato con 122 voti favorevoli, 40 contrari e 68 astenuti e quello del centrodestra con 120 sì, tre no e 108 astenuti. La mozione di Italia viva, invece, ha avuto il via libera con 113 sì, nessun contrario e 117 astenuti. La richiesta di discutere del tema era stata avanzata la scorsa settimana dal Movimento cinque stelle dopo la decisione del Consiglio di garanzia del Senato, che aveva confermato il vitalizio a Roberto Formigoni e ad altri ex parlamentari condannati in via definitiva. La M5s, Pd e Leu impegna il Senato «ad adottare tutte le opportune determinazioni, nelle sedi proprie e competenti, tenendo conto dei principi posti dalla normativa vigente in materia di incandidabilità, volte a disciplinare i casi di revoca del vitalizio dei senatori, cessati dal mandato, che siano stati condannati in via definitiva per delitti di particolare gravità». Il centrodestra chiede invece di rivalutare la direttiva del Senato del 2015 che toglieva i vitalizi agli ex senatori condannati. Il documento di Italia viva, infine, auspica di «adottare tutte le opportune determinazioni, volte a disciplinare i casi di revisione o revoca del vitalizio dei senatori, cessati dal mandato, che siano stati condannati in via definitiva per delitti di particolare gravità». Nel corso delle dichiarazioni di voto, i senatori del M5s, al momento dell’intervento di Paola Taverna, hanno esposto dei cartelloni con la scritta «Stop vitalizi», che sono stati subito rimossi dagli assistenti parlamentari. «Il Senato non è una scatoletta di tonno, è un bunker antiatomico che resiste a tutto, e non bastano otto anni per cambiare le cose, ma forse 20 anni», ha affermato Taverna parlando in Aula. 

I dem firmano la mozione dei 5 stelle. Il Pd agli ordini di Travaglio: “Basta vitalizi, annientiamo Formigoni!”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 27 Maggio 2021. “Stringiamoci a Coorte” (o forse a corte…) hanno gridato i Cinque stelle, sebbene in rotta. “Siam pronti alla morte”, hanno risposto quelli del Pd, sempre eroici. Gli uni e gli altri dichiarandosi “soldati di Travaglio”, tutti impegnati nella grande battaglia di moralizzazione del paese. Che consisterebbe in? Beh, nel perseguire un signore di circa 75 anni, ex parlamentare, ex fondatore di uno dei più importanti movimenti politico-religiosi del dopoguerra, ex governatore, con gran successo, per quindici anni, della regione Lombardia, accusato di aver preso tangenti e condannato senza che le tangenti fossero trovate, senza indizi di colpevolezza, senza prove regine e nemmeno prove semplici. Lui si chiama Roberto Formigoni; il movimento che fondò, insieme a Padre Giussani, fu Comunione e Liberazione, e rappresentò il contraltare giovanile e cattolico al travolgente e moderno Sessantotto. I ragazzi (cioè i parlamentari) del combattivo esercito di Travaglio, vogliono che questo Formigoni sia ridotto in miseria. E per questa ragione hanno presentato e fatto approvare una mozione alla Camera per togliergli la pensione, che è la sua unica fonte di reddito. E ora che è stata approvata questa mozione si sentono tutti meglio. Più liberi, più giusti. Più maramaldi. Perché questa ossessione dei 5 Stelle, che trascina anche i dem e i giovani di Leu? Perché questa della rovina di Formigoni e del suo sacrificio può diventare la bandiera, la fiaccola, la bussola della nuova idea giallo-rossa, che è quella – antica, antica – di sostituire lo stato di diritto con lo stato etico. Funziona meglio. Si parte da qui. Dalla gogna, e dall’umiliazione, e dalla punizione feroce di un capo politico importante, che va esposto al ludibrio pubblico, per affermare in questo modo la moralità e la trasparenza propria, cioè di chi si fa protagonista di questa esposizione. E si parte dalla necessità di superare i codici, cioè in questo caso il codice penale – che sono burocratici, impastoiati, e quindi di rendere la punizione crudele e spettacolare. Povertà, povertà, povertà. E annientamento dei diritti. Si parte da qui per arrivare dove? Al davighismo vero, quello che forse neanche Davigo osa propugnare: la costruzione di una società dove i buoni, gli onesti, gli uno-vale-uno, godano di ogni privilegio, e i reprobi di nessuno, e vengano cacciati dalla comunità civile, cacciati e gettati nella polvere. Chi sono i buoni? Quelli che esprimono il potere che si sono conquistati in virtù della propria virtù. In origine i 5 Stelle e solo i 5 Stelle (tranne i Cinque Stelle dissidenti). Ora anche quelli del Pd e di Leu. Gli altri fuori. Così si decide di togliere la pensione a Formigoni, dopo aver tentato di togliergli il diritto di stare in detenzione domiciliare e non in cella. Su che base? Della pura e semplice sopraffazione, fondata però sul diritto etico al potere. E dunque buona: la buona sopraffazione. Le cose stanno così. Formigoni fu condannato a cinque anni e qualche mese di prigione. Avendo lui più di settanta anni, però, aveva il diritto ai domiciliari. I Cinque stelle e una parte della magistratura si opposero, e sostennero che non poteva godere di questo diritto perché questo diritto era stato cancellato da una legge fascista, approvata dai 5 Stelle e dalla Lega nel 2019, la quale equipara quelli accusati di aver preso tangenti a quelli accusati di strage. E che toglieva dunque a costoro i diritti ai benefici carcerari che invece spettano, ad esempio, agli stupratori e agli assassini non mafiosi. La domanda sulla quale era costruita questa nuova legge (battezzata spazzacorrotti) era questa: è più grave uccidere un nemico o prendere una tangente da un amico? La risposta era scontata: la tangente è molto più grave. Questa legge però era stata approvata – senza clamorose opposizioni da parte dei partiti democratici, impauriti e rincattucciati – dopo i presunti reati di Formigoni. Magistrati e 5 Stelle chiesero la retroattività della legge, per applicarla a Formigoni, superando in questo anche i regimi fascisti. Però intervennero altri magistrati, laureati, i quali spiegarono che la retroattività è impossibile e così Formigoni ebbe i domiciliari. Da quel momento, guidati da Travaglio, le truppe “fasciste” iniziarono la marcia contro la pensione. Che era stata già tolta a Formigoni, in spregio a leggi e Costituzione, ma che recentemente gli è stata restituita dalla apposita commissione “contenziosa” del Senato, che ha potere di decidere su queste cose. La commissione ha stabilito che siccome a nessuno può essere tolta la pensione, neppure agli assassini e ai mafiosi, non può essere nemmeno tolta ai politici. L’ex presidente del Senato, Pietro Grasso, che si è messo alla testa dei travaglini del Pd e di Leu, ha spiegato che quella non è una pensione ma un vitalizio. Ignaro di svariate sentenze della Corte Costituzionale e della decisione dello stesso Senato, del 2018, nella quale i vitalizi venivano equiparati alle pensioni e su questa base ricalcolati e ridimensionati. Ma voi credete che il diritto conti qualcosa, quando infuria il travaglismo e detta la legge ai 5 Stelle e al Pd? Conta poco, conta niente. Travaglio da diverse settimane dedica tutti i giorni la prima pagina del suo giornale alla battaglia contro Formigoni. I 5 Stelle lo seguono, un po’ intontiti ma contenti. E ora anche il Pd, il quale ha deciso che Formigoni e le pensioni dei politici sono il vero nemico di classe. La sinistra vincerà – dicono al Nazareno – quando finalmente raderà al suolo le organizzazioni politiche e convincerà tutti che il male vero è quello: non lo sfruttamento, non la povertà, non il razzismo, non la dittatura della magistratura, no, no no. Il vero nemico di classe è la politica. E il simbolo della politica, della malvagia politica, è il malvagio Formigoni. Quousque tandem? Non so. Ma possibile che non ci sia qualcuno, nel Pd, che si ribella, che si ricorda del Pci, della Democrazia cristiana di Moro, magari anche del Psi – delle loro tradizioni, della loro capacità di pensiero – e dà l’assalto al Nazareno?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Vitalizio a Formigoni, i 5Stelle gridano allo scandalo: «Daremo battaglia». Grillini sul piede di guerra dopo la decisione del Senato di riassegnare la pensione a Roberto Formigoni, ex presidente della Regione Lombardia ed ex "inquilino" di palazzo Madama, condannato in via definitiva. Il Dubbio il 19 maggio 2021. Movimento 5 stelle sul piede di guerra contro i vitalizi, dopo la decisione dei “giudici d’appello” del Senato di confermare il diritto alla pensione per Roberto Formigoni, ex presidente della Regione Lombardia ed ex “inquilino” di palazzo Madama, condannato in via definitiva. Con una manifestazione davanti al Senato i 5 stelle hanno annunciato di voler dare battaglia: non solo chiedendo un dibattito in Aula, ma con nuove iniziative. Fra queste non è esclusa la presentazione di una nuova delibera che regoli la questione in modo più stringente e che dovrà essere sottoposta al consiglio di presidenza. In campo sono scesi tutti, anche Luigi Di Maio e Giuseppe Conte. In piazza san Luigi dei Francesi, a ridosso della Camera Alta, Paola Taverna ha denunciato: «ieri sera è successo qualcosa di scandaloso. All’interno del Consiglio di garanzia, un organo di giustizia domestico, sono stati riassegnati i vitalizi ai condannati. Due forze politiche, Forza Italia e Lega, hanno deciso di riassegnare il vitalizio a condannati del calibro di Formigoni, Dell’Utri, Berlusconi». All’interno di questi palazzi «si è venuta a consumare qualcosa che noi non permetteremo. Ci sono numerosi strumenti per controbattere a questa indegna sentenza, uno schiaffo in faccia alla politica buona». È «veramente odioso, beffardo ricorrere a una legge comune che riguarda le pensioni dei cittadini comuni per difendere i vitalizi. È un fatto inaccettabile. Il giudizio avrebbe dovuto pronunciarsi solo sulla sospensiva» del trattamento a Formigoni. Invece «è entrato nel merito in maniera sfrontata. Non è una sfida al Movimento 5 stelle. Questo è uno sputo in faccia a tutte quelle persone alle quali stiamo chiedendo sacrifici tutti i giorni», ha detto il capogruppo in Senato, Ettore Licheri spiegando che il Consiglio di garanzia si è pronunciato su un ricorso non del Movimento ma della stessa amministrazione di palazzo Madama. Il Movimento 5 stelle «non starà a guardare», ha avvertito Gianluca Perilli. «M5s darà battaglia. Lo faremo in Aula e in tutti quanti gli organismi in cui siamo presenti» e ci saranno tutte le iniziative necessarie «per cercare di scongiurare questo vuoto gravissimo che consentirebbe a dei condannati, anche per reati gravi, di ricevere il vitalizio. Faremo delle delibere anche più restrittive, faremo delle leggi». Con questa sentenza «si cerca di cancellare l’identità del Movimento 5 stelle e non lo permetteremo». Attraverso i social parlano anche Di Maio e Conte. «Ieri l’organo di secondo grado di giustizia interna del Senato ha confermato la riassegnazione del vitalizio a Formigoni, nonostante la condanna definitiva per corruzione. Da non crederci, ma è successo davvero. In quest’organo non siedono componenti del M5s, e con il voto a favore di Lega e FI hanno di fatto assecondato il superamento della delibera che impediva ai condannati per reati gravi di percepire il vitalizio. Tra questi reati c’era appunto quello di corruzione. Lasciatemelo dire: è riprovevole», scrive il ministro degli Esteri. «Se poi consideriamo le difficoltà attuali di famiglie, imprenditori, autonomi, lavoratori a causa degli effetti della pandemia, ciò è ancora più grave», aggiunge il ministro degli Esteri. «Così la politica si dimostra davvero fuori dal mondo. Mi appello a tutte le forze politiche: non facciamo passare sotto silenzio quanto accaduto. Tutti dimostrino coerenza e responsabilità», aggiunge l’esponente pentastellato.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 23 maggio 2021. Sputare sentenze. Lucia Azzolina come Cetto La Qualunque, anzi peggio. Per offendere l'avversario politico, il povero De Santis, Cetto se ne usciva con una perla della sua saggezza: «Io non ti sputo se no ti profumo». L'Azzolina, per deprecare una decisione del Consiglio di Garanzia del Senato, che ristabiliva il diritto alla pensione per l'ex presidente della Regione Lombardia e senatore Roberto Formigoni, ha paragonato il provvedimento a una grande sputazza sugli italiani. A onor del vero, l'ex ministra nel governo Conte II ha usato un termine molto più forte: «Come scatarrare sui cittadini onesti». Scatarrare è un verbo poco elegante per una ex ministra dell'Istruzione, quella che voleva combattere il Covid con gli inutili e inutilizzati banchi a rotelle, ma la reazione della Azzolina ha subito trovato il conforto di altri esponenti del M5S che confondono ancora il vitalizio con la pensione (che non si nega nemmeno agli ergastolani). Da siciliana, l'ex ministra sa bene che lo sputo non è una semplice emissione di saliva, c'è tutto un arco di spregio che va dalla semplice sputazza alla sgracchiata catarrosa, un gesto che non conosce metafore. C'è chi sputa l'anima per imparare le buone maniere e c'è chi usa un lessico politico appiccicato con lo sputo. Questione di gusti. O di disgusti.

Azzolina e Formigoni, tra corrotti e "scatarri". Ma la politica può volare più in alto. Lavinia Rivara su La Repubblica il 20 maggio 2021. Il verbo "scatarrare" no, non era ancora entrato nel lessico del dibattito politico, che pure negli ultimi anni tra "vaffa" e "patonze" ci aveva abituato a tutto. Ci ha pensato l'ex ministra dell'Istruzione a colmare la lacuna. Lo sputo sì, era già stato (tristemente) sdoganato in politica. Quello fisico vero e proprio, non infrequente durante le risse nelle aule parlamentari, e quello simbolico. Nel 2012 Grillo rivendicò "il diritto di ogni cittadino" a quello "virtuale", contro una classe politica sospettata di illeciti arricchimenti. Ma il verbo "scatarrare" no, non era ancora entrato nel lessico del dibattito politico, che pure negli ultimi anni tra vaffa e patonze ci aveva abituato a tutto.

“Come scatarrare sugli onesti”. Da Calenda a Borghi indignazione per le parole di Azzolina ma silenzio sul vitalizio al corrotto Formigoni. Il leader di Azione e il deputato leghista su Twitter contro il termine usato dall'ex ministra M5s. Non sono gli unici. La deputata FdI Frassinetti: "Si scusi immediatamente". Ma nessuno di loro parla della decisione di restituire l'assegno ai senatori condannati. Il Fatto Quotidiano il 19 maggio 2021. “Come scatarrare sui cittadini onesti”. Così l’ex ministra e deputata M5s Lucia Azzolina ha commentato la decisione presa martedì dal consiglio di garanzia del Senato, che con i voti di Forza Italia e Lega ha confermato la decisione di riassegnare il vitalizio a Roberto Formigoni, nonostante la condanna per tangenti. Esultano i senatori pregiudicati: potranno presto riavere il loro vitalizio. Si indignano i politici, da Carlo Calenda a Claudio Borghi. Non per il vitalizio ai condannati, bensì per il termine usato da Azzolina. Sulla restituzione dell’assegno non risulta nessun commento, né suoi profili social né nell’archivio Ansa. Questa volta sono gli stessi follower del leader di Azione e del deputato leghista a farlo notare: tra i commenti ai loro tweet contro la Azzolina ce ne sono diversi di sostegno, ma moltissimi criticano la mancata presa di posizione. Pensieri sintetizzabili nella frase di un utente: “Certo parliamo di scatarrare che non è elegante, mentre passiamo sul fatto che si ridà il vitalizio a un condannato che ha disintegrato la sanità in Lombardia”. Calenda ha scritto in un tweet: “Non male per l’ex Ministro della pubblica istruzione. Scatarrare. Sofisticato“. Il leghista Borghi invece ha rispolverato la polemica in voga quando Azzolina era ancora ministra dell’Istruzione: “Con i tuoi banchi a rotelle pagavi un sussidio di mille euro al mese per dieci anni a mille poveri“. Forse il riferimento è alla decisione della commissione Contenziosa, presieduta da Giacomo Caliendo (pure lui di Forza Italia) che aveva paragonato il caso di Formigoni a quello dei percettori del reddito di cittadinanza.

Da today.it l'1 giugno 2021. "Come scatarrare sui cittadini onesti", così l'ex ministro dell'Istruzione Lucia Azzolina ha definito giorni fa la restituzione del vitalizio a Roberto Formigoni, condannato per corruzione a 5 anni e 10 mesi e attualmente ai domiciliari. "A me il nome Azzolina fa venire in mente i banchi a rotelle che ho visto accatastati in molte scuole" ha risposto l'ex presidente della Regione Lombardia in un'intervista esclusiva a Le Iene, in onda questa sera, martedì 1 giugno, in prima serata su Italia 1. Giulia Innocenzi lo ha intervistato nell'appartamento di Milano in cui sta scontando la pena. "Ho la possibilità di uscire due ore al giorno, per il resto devo stare in casa" spiega, ricordando i 5 mesi trascorsi in carcere: "Avevo una cella che dividevo con altri tre detenuti. Sono stato trattato con grandissimo rispetto, era presente uno di loro condannato per omicidio, mi disse 'noi tutti i giorni laviamo, puliamo. Tu non farai nulla di tutto questo, abbiamo deciso, tu hai fatto tanto bene ai cittadini, vogliamo darti questo segno di riconoscenza'. Non ho potuto fare nulla, addirittura non volevano che apparecchiassi la tavola". Il vitalizio a Formigoni: essere condannati in via definitiva non basta più per lo stop? Formigoni ha vinto il ricorso per riottenere il vitalizio - o meglio "pensione", come la definisce più volte nel corso dell'intervista - scatenando una polemica che ancora fatica a placarsi: "Ricevo attorno ai 2000 euro al mese. O quello oppure non ho niente. Tenga conto che mi è stato sequestrato tutto". Prima della condanna ne riceveva due, uno dalla Regione Lombardia e l'altro dal Senato, per un totale di 10 mila euro. "Dal momento della condanna la Corte Dei Conti mi ha sequestrato integralmente il vitalizio di Regione Lombardia" fa sapere Formigoni, che dopo essersi visto togliere anche quello del Senato ha fatto subito ricorso: "La commissione di garanzia mi ha dato pienamente ragione, ha stabilito quindi che la sentenza Grasso non stava né in cielo né in terra - continua - In termini di diritto ha riconosciuto il mio diritto a non morire di stenti". Soldi che gli spettano, spiega ancora: "Avendo lavorato nelle Istituzioni per 34 anni ho maturato la pensione. Voglio vivere con i soldi miei. La legge italiana stabilisce con chiarezza che la pensione non può essere sequestrata, se non nella misura massima del 20% a nessuno, tranne a chi si è macchiato di delitti di mafia, di terrorismo o ha evaso - prosegue Roberto Formigoni - I soldi sono i miei! Non sono dello Stato, i soldi sono la rinuncia a una parte dell'emolumento che io ho fatto per 16 anni, mese per mese". A proposito dei 47 milioni che deve risarcire dice: "Se mi lasciassero lavorare potrei trovare un lavoro significativo e potrei magari fare quello che devo. Sono stato aiutato in questi mesi dagli amici che mi hanno permesso di sopravvivere". E infine, sempre sul vitalizio che tanto fa discutere: "E' una vittoria del diritto. Il diritto che dice che in Italia nessuno deve morire per stenti".

Il libro dell'ex presidente della Lombardia. Una storia popolare, la biografia di Formigoni che nessuno vuole ascoltare ma solo giudicare. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Giugno 2021. Nel libro di Roberto Formigoni c’è tutto (Una storia popolare, Edizioni Cantagalli, 25 euro), trentaquattro anni di partecipazione alla vita pubblica, fin da quando un ragazzino tredicenne si avvicinò a un movimento ecclesiale, e per 18 anni presidente della Lombardia. Monarca assoluto, si disse, ma intanto la Regione da lui governata diventava la locomotiva d’Europa nel sistema sanitario. Basta spigolare le cinquecento pagine, introdotte dal cardinale Ruini e presentate attraverso l’intervista di Rodolfo Casadei che non è soltanto un giornalista, ma anche un amico e un compagno di cordata, per avere sotto gli occhi la ricchezza di una vita non banale: c’è l’uomo, il militante, l’amministratore, il politico. Ci sarebbe anche di che ucciderlo, volendo. Perché Formigoni è un peccatore. Ma occorre saper leggere, e nella vita di quest’uomo di 74 anni trovi un po’ di tutto. E nulla è come ti aspetti. Vedi uno vestito un po’ strano, molto glamour, e che ti guarda con un filo di arroganza dal suo 1,87 di altezza. Quello che, quando è finito nel carcere di Bollate, lo obbligava a tenere i piedi a penzolare oltre il limite massimo della brandina. Quasi a dimostrare che lui con quel luogo lì non c’entrava niente, che gli stava stretto persino al corpo. Ma anche per altri due buoni motivi. Perché è stato giudicato da tribunali che parevano istituiti dalle regole del diritto ecclesiastico più che da quelle di uno Stato laico, e che giudicavano i peccati più che i reati. E anche perché, quando avrebbe avuto diritto, da settantenne, a scontare al domicilio la pena di cinque anni e dieci mesi cui era stato condannato, gli cascò sul collo una specie di norma voluta da una specie di ministro e che portava un nome buffo da operatori ecologici (“spazzacorrotti”) e che oltre a tutto gli venne applicata in modo retroattivo. Così, quando la Corte Costituzionale rimise le cose a posto e spazzò via la legge degli operatori ecologici, intanto Formigoni era riuscito a farsi cambiare la branda e aveva scontato i suoi cinque mesi di carcere. Il libro ha pagine di grande interesse, e varrebbe la pena di discuterne pubblicamente. A Formigoni questo non è consentito. Viene chiamato insieme al suo legale, l’avvocato Domenico Menorello, di domenica sera da Massimo Giletti, ma per parlare di vitalizi, uno dei più noiosi e stupidi tra i mantra grillini, se non fosse per il fatto che si parla della vita delle persone. Formigoni è costretto a mostrare il proprio libro perché il conduttore si limita a un accenno infastidito, poi viene subito aggredito dal giornalista grillino Peter Gomez che cerca di farlo parlare del processo, fingendo di non capire l’imbarazzo di una persona che è ancora ai domiciliari. E che poi gli dice che dovrebbe accontentarsi del reddito di cittadinanza, cioè rinunciare ai contributi versati per farsi mantenere dallo Stato. Imprevedibilmente l’altro giornalista grillino presente, Luca Telese si accapiglia con il collega quasi come se questi gli avesse insidiato la moglie e si improvvisa difensore dell’imputato gridando: “Volete applicargli la pena di morte?”. Tutto fa brodo, pur di non parlare del libro, cioè di Formigoni uomo e politico e bravo amministratore. Meglio accanirsi sul prigioniero. Ma chi ha seguito la trasmissione non può non aver notato da subito come colui che era stato invitato per essere messo alla gogna, ne emerga come un gigante in un mondo di lillipuziani. Perché lui è quello della famosa riforma della sanità lombarda del 1997. Quella “rivoluzione” che ha portato alla costruzione di nove nuovi ospedali, che ha azzerato le liste d’attesa e ha consentito, con l’introduzione dell’accreditamento dei privati, a chiunque di accedere all’eccellenza, per le proprie cure. Quella riforma che gli ignorantoni del Fatto quotidiano chiamano “privatizzazione” della sanità e che invece ha portato la Lombardia ai vertici delle eccellenze europee. E che ha consentito alla Regione di mantenere sempre i bilanci in attivo. Certo, Roberto Formigoni è stato condannato e sta scontando la sua pena. Lo Stato gli ha tolto tutto. Paga il suo essere “peccatore”, il suo esser forse andato oltre i limiti anche del voto di povertà e di castità stipulato quando era entrato nei Memores Domini. Ma nessuno potrà mai dire che lui sia un corrotto, che abbia ricevuto soldi. E anche per quel che riguarda le “utilità” (viaggi e vacanze), occorre, perché uno sia colpevole, come ha detto l’avvocato Coppi, dimostrare il nesso di causalità tra un atto pubblico e la “ricompensa” ricevuta. Cosa di cui non c’è traccia. Infatti la sua non è una storia criminale, ma una Storia Popolare.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il dibattito sulla pensione a Formigoni. “Guadagno 160mila euro, teniamo stipendi bassi per far lavorare i giovani”, Peter Gomez e lo scontro con Telese. Fabio Calcagni su Il Riformista il 7 Giugno 2021. Uno scontro in cui sono volate parole grosse. È quello andato in scena domenica durante la trasmissione di La7 Non è l’Arena che vedeva ospiti l’ex presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, il direttore del Fatto Quotidiano online Peter Gomez e il giornalista Luca Telese: al centro del dibattito la polemica politica sui vitalizi, con Formigoni che si è visto riconoscere il diritto alla pensione da senatore dopo la condanna a 5 anni e 10 mesi per corruzione. Secondo il direttore web del Fatto infatti sarebbe sbagliato assicurare il riconoscimento di una lauta pensione da senatore a Formigoni in virtù della sua condanna. Un punto su cui è Telese, ex firma del giornale di Travaglio, ad attaccare Gomez: “Peter quanto prendi di stipendio come direttore del Fatto? Non guadagni il doppio di un parlamentare?”. “160mila euro lordi, meno di un parlamentare, lo dico in televisione senza problemi”, ribatte Gomez, che aggiunge anche di avere uno stipendio più basso di altri colleghi direttori “perché qui (al Fatto Quotidiano, ndr) teniamo gli stipendi bassi per dare lavoro ai ragazzi”. Il dibattito si sposta quindi su Formigoni e la sua pensione da senatore. Secondo Gomez l’ex governatore lombardo ha diritto “a una pensione che gli garantisca di non morire di fame, ma non di quelle dimensioni”. Ma sono gli stessi Telese e Formigoni a spiegare che in realtà si tratta di un trattamento da circa 2mila euro al mese: “Si tratta – ha sottolineato ancora Formigoni, ricordando di aver lavorato 34 anni “al servizio del Paese, 18 in Regione Lombardia” – di 2mila, 2.200 euro al mese. Lo vedremo appena arriva, non certo di 7 mila come è stato detto”. Sempre Telese ricorda come dopo la condanna a 5 anni di Formigoni, la giustizia italiana ha sequestrato case e conti corrente a Formigoni, anche gli appartamenti cointestati con i fratelli: “Formigoni ha fatto il politico – sottolinea Telese – e non ha un’alta pensione. È molto semplice: c’è la giustizia o c’è l’accanimento? Se no istituite la pena di morte e quando uno viene condannato lo ammazzate”. Toni che si accendono quando il giornalista ricorda al direttore del Fatto online che era un garantista “e ora sei diventato un Torquemada”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

INTERVISTA ESCLUSIVA A ROBERTO FORMIGONI. Anticipazione da “Le Iene” l'1 giugno 2021. Giulia Innocenzi intervista in esclusiva l’ex presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, nell’appartamento a Milano dove attualmente sta scontando i domiciliari. Il servizio in onda a “Le Iene” stasera, martedì 1° giugno, in prima serata su Italia 1.

Innocenzi: Allora Formigoni, perché ha fatto il ricorso per riottenere il vitalizio? Si trova ancora agli arresti domiciliari?

Formigoni: Mi trovo agli arresti domiciliari, ho la possibilità di uscire due ore al giorno, per il resto devo stare in casa.

Innocenzi: La sua condanna per corruzione è di 5 anni e 10 mesi giusto?

Formigoni: Esattamente. 

Innocenzi: E in carcere quanto è stato?

Formigoni: 5 mesi, benché avessi superato i 70 anni, e quindi sono stato in carcere grazie alla Legge “spazza corrotti”, voluta dai 5 Stelle che pochi mesi dopo fu dichiarata incostituzionale.

Innocenzi: Ha il dente avvelenato coi 5 Stelle?

Formigoni: Ma no poveretti! Non ne hanno vinta una, gli è rimasta soltanto la battaglia contro Formigoni, ma mi sembra che stiano perdendo anche quella. 

Innocenzi: In carcere è stata dura immagino, 5 mesi.

Formigoni: Guardi, l’ho accettata. Grazie all’educazione cristiana che ho ricevuto, avevo una cella che dividevo con altri tre detenuti.

Innocenzi: Quindi non aveva una cella lusso?

Formigoni: No.

Innocenzi: Da ex Senatore? 

Formigoni: No, sono stato trattato con grandissimo rispetto, era presente uno di loro condannato per omicidio, mi disse “noi tutti i giorni laviamo, puliamo. Tu non farai nulla di tutto questo, abbiamo deciso, tu hai fatto tanto bene ai cittadini, vogliamo darti questo segno di riconoscenza”.

Innocenzi: E lei ha accettato il trattamento privilegiato? 

Formigoni: Non ho potuto fare nulla, addirittura non volevano che apparecchiassi la tavola.

Innocenzi: Oggi quali altri redditi percepisce lei?

Formigoni: Da quando la commissione contenziosa del Senato ha stabilito che doveva essermi restituita questa pensione, ricevo attorno ai 2000 euro al mese.

Innocenzi: Quindi lei o ha il vitalizio della sua vita politica oppure non ha niente?

Formigoni: Esattamente, oppure non ho niente. Tenga anche conto che mi è stato sequestrato tutto.

Innocenzi: Perchè lei è stato condannato per corruzione a risarcire 47 milioni di euro.

Formigoni: Sì, uno strano calcolo ma anche qui ho accettato cristianamente.

Innocenzi: Ok ma 47 milioni quando li restituisce? 

Formigoni: Se mi lasciassero lavorare potrei trovare un lavoro significativo e potrei magari fare quello che devo. Sono stato aiutato in questi mesi dagli amici che mi hanno permesso di sopravvivere. 

Innocenzi: Allora è un indigente fortunato rispetto ad altri!

Formigoni: Forse qualcuno sperava che gli amici mi abbandonassero.

Innocenzi: Allora, facciamo un po’ di chiarezza sulle cifre. Lei prima della condanna percepiva due vitalizi, giusto?

Formigoni: Del Senato e della Regione.

Innocenzi: Per un totale di 10 mila euro al mese. Questo prima che venisse condannato.

Formigoni: Esattamente. Dal momento della condanna la Corte Dei Conti mi ha sequestrato integralmente il vitalizio di Regione Lombardia. 

Innocenzi: E il Senato le toglie l’altro vitalizio in quanto condannato.

Formigoni: Esatto, e io ho fatto immediatamente ricorso. La commissione di garanzia mi ha dato pienamente ragione, ha stabilito quindi che la sentenza Grasso non stava né in cielo né in terra.

Innocenzi: Ma la decisione è politica.

 Formigoni: La commissione del Senato in termini di diritto ha riconosciuto il mio diritto a non morire di stenti.

Innocenzi: Paola Taverna ha detto che potrebbe richiedere il reddito di cittadinanza se ha questi problemi economici. 

Formigoni: No perché avendo lavorato nelle Istituzioni per 34 anni ho maturato la pensione.

Innocenzi: Eh ma se è un vitalizio, allora il vitalizio ai condannati non si dà?

Formigoni: Abbiamo già spiegato che si tratta di pensione quindi avendo maturato la pensione, io voglio vivere con i soldi miei.

Innocenzi: È che diciamo, nell’idea dei 5 stelle, la politica sarebbe dovuta essere una parentesi nella vita di un lavoratore. Il suo caso invece è diverso perché lei ha sempre lavorato in politica.

Formigoni: Esattamente, io ho sempre lavorato per 34 anni di politica.

Innocenzi: Nei suoi 34 anni di onorata carriera non è riuscito a mettersi niente da parte?

Formigoni: Le ripeto, mi hanno sequestrato tutto. 

Innocenzi: Questa casa non è di proprietà?

Formigoni: Questa casa non è mia, questa casa mi è stata prestata da un amico per un qualche tempo, perché tra poco avrà bisogno lui stesso.

Innocenzi: La delibera Grasso parla di un principio condivisibile. Se la disciplina e l’onore non ci sono più e per un condannato per corruzione in via definitiva possiamo dire che non c’è, non ci deve più essere il vitalizio?

Formigoni: Per le colpe che il tribunale ha ritenuto di vedere in me, mi ha attribuito una pena. 5 anni e 10 mesi, che sto scontando, con disciplina e onore, nel pieno rispetto di quello che mi è stato detto. 

Innocenzi: Però era una condanna per corruzione.

Formigoni: Perché il signor Grasso vuole aggiungere una pena aggiuntiva? Non gli è lecito. Questa sentenza che invece è a mio favore, i 5 Stelle la vogliono abbattere, questo è il loro giustizialismo, sono dei forcaioli!

Innocenzi: Quindi anche se ha tradito il suo mandato nei confronti dei cittadini, dice “questi soldi mi aspettano comunque”.

Formigoni: La legge italiana stabilisce con chiarezza che la pensione non può essere sequestrata, se non nella misura massima del 20% a nessuno, tranne a chi si è macchiato di delitti di mafia, di terrorismo o ha evaso. 

Innocenzi: Però è un po’ un paradosso che chi è condannato per corruzione poi venga “premiato” con i soldi dei cittadini.

Formigoni: Ma come premiato? I soldi sono i miei.

Innocenzi: Per il vitalizio.

Formigoni: I soldi sono i miei! No, non sono dello Stato, i soldi sono la rinuncia a una parte dell’emolumento che io ho fatto per 16 anni, mese per mese.

Innocenzi: Lei si può immaginare un italiano che si vede le sue foto delle vacanze in barca, mentre faceva i tuffi che sono quelle vacanze per cui poi è stato condannato.

Formigoni: Ha detto giusto.

Innocenzi: Ecco.

Formigoni: Sono stato condannato per delle vacanze, la ringrazio.

Innocenzi: Vacanze, emolumenti vari insomma, ma io con i miei soldi delle mie tasse devo dare il vitalizio a Formigoni?

Formigoni: Ma non mi paga con i suoi soldi, mi perdoni, se insisto nel dire che 60 milioni di italiani non tirano fuori 1 centesimo da dare a Formigoni. Sono tutti risparmi messi via da me… 

Innocenzi: La Azzolina ha definito il suo vitalizio una “scatarrata” sui cittadini.

Formigoni: A me il nome Azzolina fa venire in mente i banchi a rotelle che ho visto accatastati in molte scuole.

Innocenzi: Ma non ci deve essere anche un’etica diversa che giudica i politici? Lei non è stato un lavoratore qualunque, lei è stato un rappresentante di noi cittadini.

Formigoni: Da un punto di vista del lavoro ho lavorato come un matto, Le assicuro, i lombardi lo sanno, mi vedevano arrivare alle otto e mezza nel mio ufficio e fino alle 10, 10:30 di sera il trentesimo piano del Pirellone era con la luce accesa.

Innocenzi: Purtroppo per lei però oggi quello che noi ci ricordiamo è la condanna, no?

Formigoni: Ma le assicuro che molti cittadini ricordano invece quello che ho fatto. Se lei potesse fare un giro con me vedrebbe quante persone mi salutano, quante persone vengono a stringermi la mano, quante persone vengono a dirmi “grazie Formigoni”.

Innocenzi: Quindi non le dicono che è una “scatarrata” sui cittadini?

Formigoni: No, no… Una volta mi è capitato.

Innocenzi: Solo una volta?

Formigoni: Uno che passava lì in bicicletta mi ha detto “pirla!”, e vabbè, l’ho accettato, guardi non gli ho neanche risposto… io che pure sono un tipo sanguigno.

Innocenzi: Lei oggi è diventato il simbolo della peggiore casta.

Formigoni: Io vedo che c’è un’insistenza straordinaria nei confronti di Formigoni, sono i 5 stelle che la portano avanti. 

Innocenzi: Lei come considera la sua vittoria per riottenere il vitalizio?

Formigoni: Una vittoria del diritto. Il diritto che dice che in Italia nessuno deve morire per stenti.

Grasso tuona sui vitalizi ma sistema parenti e amici. Luca Fazzo il 19 Aprile 2021 su Il Giornale. L'ex presidente del Senato Pietro Grasso ieri se l'è presa con la commissione Contenzioso di Palazzo Madama che ha annullato la delibera che negò il vitalizio ai parlamentari condannati in via definitiva per reati di particolare gravità. L'ex presidente del Senato Pietro Grasso ieri se l'è presa, in una lunga intervista al Fatto Quotidiano, con la commissione Contenzioso di Palazzo Madama che ha annullato la delibera che il 7 maggio 2015 negò il vitalizio ai parlamentari condannati in via definitiva per reati di particolare gravità, accogliendo così il ricorso di Roberto Formigoni. Per l'ex seconda carica dello Stato, quella decisione apre al ritorno dell'assegno pure per i parlamentari «condannati per mafia o terrorismo», ed è dunque «errata». Una forte presa di posizione contro i privilegi della Casta. Casta di cui pure il fondatore di Liberi e Uguali però fa parte. Irradiandone i vantaggi anche a persone a lui vicine. Tra i benefit di cui godono le persone vicine all'ex procuratore nazionale antimafia sembra esserci una corsia preferenziale per entrare nei servizi segreti. Quando Grasso era presidente del Senato, per dirne una, la moglie di suo figlio Maurilio, Lara Panella, ha lasciato l'incarico di comandante della polizia stradale di Teramo per sbarcare, era il 2015, a Roma nei ranghi dell'intelligence. Un bel salto in avanti per la nuora del moralizzatore. Per colmare la distanza tra i coniugi, l'anno dopo Maurilio Grasso, funzionario di polizia, viene trasferito dalla squadra mobile dell'Aquila a quella capitolina. Un posto nei servizi segreti lo avrebbe ottenuto anche la moglie di Rosario Salvatore Aitala, magistrato e consigliere per gli Affari internazionali di Grasso quand'era presidente del Senato (e in precedenza già con Frattini alla Farnesina). Di Aitala, Grasso è sempre stato una sorta di nume tutelare. Che gli sta accanto anche nel braccio di ferro al Csm, quando nel 2016, da dodici anni fuori ruolo, Aitala chiede di restare con l'ex procuratore nazionale antimafia a Palazzo Madama per completare l'incarico. Il Csm era spaccato tra favorevoli e contrari nel confermare il collocamento fuori ruolo oltre le scadenze massime, ma Grasso scrisse a Palazzo dei Marescialli per caldeggiare la necessità di avere al suo fianco il suo fedelissimo. Aitala ce la fece, e poco dopo passò a un altro (e alto) incarico: a dicembre dell'anno successivo Aitala viene eletto tra i giudici della Corte Penale Internazionale dell'Aia senza avere quasi mai fatto il giudice (e senza avere mai diretto una Procura, a differenza del suo predecessore Cuno Tarfusser). Ma, al di là delle brillanti carriere di chi è nella sua cerchia, Grasso è finito anche direttamente invischiato nelle beghe tipiche della classe politica che ha sposato dopo aver smesso la toga. Come quando, lasciato il Pd proprio per creare Leu, nello stesso giorno del varo della nuova sigla si vide recapitare dalla tesoreria dem un decreto ingiuntivo con la richiesta di restituire 83.250 euro. Motivo? Morosità. Per i cinque anni precedenti, Grasso si sarebbe scordato di versare la quota mensile (1.500 euro) dello stipendio da parlamentare che era tenuto a devolvere alle casse del partito, classificandosi primo nella classifica dei 62 cattivi pagatori Pd. All'epoca rispose piccato, spiegando che avrebbe fatto opposizione. Giustificazioni che non convinsero l'allora tesoriere democratico Francesco Bonifazi: «Se Grasso insiste tagliò corto - andremo avanti perché dove non arriva il buon senso, arrivano i decreti ingiuntivi». Anche il più classico dei temi da Casta, quello del mattone, ha visto saltare fuori il nome di Grasso. Pure lui, come tanti politici, capace di assicurarsi una bella casa romana a un prezzo ben al di sotto del valore di mercato. La storia salta fuori nel 2013, ma risale al 1999, quando Grasso affitta dal Campidoglio e dalla Cassa per le pensioni dei dipendenti degli enti locali una casa di sei vani e mezzo più cantina e posto auto all'Eur. Due anni dopo, da inquilino (non residente, visto che era tornato a fare il procuratore a Palermo), se la compra. Grazie allo sconto riservato agli affittuari delle case degli enti pubblici, la paga solo 255mila euro: il 48 per cento in meno del valore di mercato. E la casa viene messa in sicurezza: a spese di chi?

DAGONOTA il 14 aprile 2021. Lo sblocco del trattamento pensionistico per Roberto Formigoni non è una valutazione soggettiva della commissione contenziosa del Senato, ma la fedele applicazione della legge. In particolare, la legge 26/2019 art. 18 bis in materia di reddito di cittadinanza consente la sospensione dei trattamenti previdenziali solo ai condannati per i casi di mafia, terrorismo o evasione. Era quindi impossibile e contraria alla legislazione vigente una decisione diversa da quella assunta. Di fatto è la legge dei grillini che ha ridato il vitalizio a Formigoni.

Senato restituisce vitalizio a Formigoni. M5s: "Una vergogna inaudita". Da rainews.it il 14 aprile 2021. "Una vergogna". Insorge il M5s commentando la decisione della Commissione Contenziosa del Senato che ha stabilito il diritto al vitalizio per Roberto Formigoni, ex parlamentare ed ex presidente della Regione Lombardia, dopo che questi aveva fatto ricorso contro la sospensione a seguito della condanna definitiva a 5 anni e 10 mesi di reclusione per corruzione.  "Aspettiamo di conoscere le motivazioni della Commissione Contenziosa, certo è che in un momento di grave difficoltà in cui versano i cittadini italiani, vedere assegnato il vitalizio a un condannato, Roberto Formigoni, è inaudito". Così su Twitter il senatore M5S Gianluca Castaldi. "Gli italiani che ogni giorno lavorano e cercano di arrivare a fine mese ringraziano di cuore Caliendo, Pillon e Riccardi che hanno detto sì alla pensione/vitalizio per il condannato #Formigoni. Una vergogna inaudita" scrive ancora in un tweet la vice presidente del Senato Paola Taverna. "Senza parole. Roberto Formigoni, ex senatore, ex Presidente Lombardia, ma soprattutto condannato in via definitiva per corruzione, ora ai domiciliari, avrà la pensione. Sapete chi lo ha deciso? La Commissione contenziosa al Senato dove solo 1 senatore su 5 è M5S. Che schifo!" attacca a sua volta il deputato del M5S, Stefano Buffagni.

Formigoni: "Contro di me invettive forcaiole". Formigoni appresa la notizia ha commentato: "Ho visto la decisione. Ho fatto bene a fare ricorso perché ho ottenuto una misura di giustizia non solo per me ma per tanti altri cittadini". L'ex Presidente della Regione Lombardia, in una nota dove denuncia le "invettive forcaiole rivoltemi contro in questi anni", sottolinea: "Si deve chiedere a quei parlamentari, a quegli intellettuali e a quei commentatori che tanto si stracciano le vesti di fronte a una sentenza, se ritengano che lo stato di diritto sia ancora il baluardo contro gli abusi di qualsiasi potere a protezione della singola persona o se per qualcuno possa invece essere ripristinata una forma di condanna a morire di stenti". 

"Annullata la cosiddetta delibera Grasso-Boldrini". Con questa decisione viene così annullata la cosiddetta delibera Grasso-Boldrini del 2015 che sottraeva il vitalizio. "La decisione, che tiene conto - precisa Giacomo Caliendo, senatore di Forza Italia e presidente della commissione adita da Formigoni - di sentenze della Corte costituzionale e delle leggi che si sono susseguite dal 1966 fino al 2019 sul diritto alla pensione che non può essere sospeso se non in caso di evasione o latitanza, è una interpretazione basata sulle norme vigenti e si applica erga omnes, non riguarda il caso singolo". Dovrebbe quindi consentire, se il Senato non promuoverà ulteriori azioni per opporsi (in sede di Consiglio di Garanzia) anche all'ex presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco di riavere il vitalizio.

Sentenza 21 febbraio 2019: Corte di Cassazione condanna il "Celeste" a 5 anni e 10 mesi. I problemi con la giustizia di Roberto Formigoni, ex parlamentare ed ex presidente della Regione Lombardia, risalgono all'aprile del 2012 quando scoppiò il caso Maugeri, una delle eccellenze della sanità lombarda. La Procura di Milano dispose l'arresto di cinque persone, accusate di aver sottratto 56 milioni di euro dalle casse della Fondazione Maugeri. Tra gli arrestati, anche l'uomo d'affari Pierangelo Daccò, amico di amico di Formigoni e uomo vicino a Comunione e Liberazione, di cui fa parte l'allora presidente della Lombardia. L'inchiesta si allarga coinvolgendo anche il San Raffaele. Il processo si apre il 6 maggio 2014: secondo i pm di Milano, dalle casse della Maugeri sarebbero usciti soldi confluiti sui conti delle società di Daccò, che avrebbero garantito a Roberto Formigoni circa 8 milioni di euro tra contanti, viaggi, e la disponibilità di tre yacht. In cambio, Formigoni avrebbe favorito la Maugeri e il San Raffaele garantendo rimborsi indebiti. I pm chiedono 9 anni di carcere per Formigoni, imputato per associazione a delinquere e corruzione. La sentenza arriva nel dicembre 2016 con la condanna a 6 anni di reclusione. Pena aggravata dalla Corte d'Appello di Milano a 7 anni e 6 mesi. Poi la sentenza definitiva del 21 febbraio 2019 con la decisione della Corte di Cassazione che condanna il 'Celeste' a 5 anni e 10 mesi, con un leggero sconto di pena per prescrizione. E' stato detenuto nel carcere di Bollate dal 22 febbraio al 22 luglio 2019, quando gli è stata concessa la detenzione domiciliare, in quanto ultrasettantenne, come richiesto dalla difesa.

Dagospia il 15 aprile 2021. Da “Radio Cusano Campus”. L’Avv. Maurizio Paniz, ex-deputato e tra i patrocinatori dei ricorsi degli ex parlamentari a cui è stato tagliato il vitalizio, è intervenuto ai microfoni de “L’Italia s’è desta” condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sui vitalizi agli ex parlamentari. “Ci sono due interventi decisivi negli ultimi tempi –ha affermato Paniz-. La legge che ha introdotto il reddito di cittadinanza ha stabilito che il trattamento pensionistico non può essere tanto se non per reati di mafia o per latitanza, questo non è il caso né per Formigoni né per Del Turco. L’altro intervento è quello della Cassazione che ha stabilito che il vitalizio non è un privilegio, ma il trattamento pensionistico dell’ex parlamentare. Per questo il vitalizio non può essere tolto dalla sera alla mattina, perché sarebbe un illecito. Agli occhi del cittadino questo appare un’ingiustizia perché gran parte della gente ritiene il vitalizio un privilegio e non un trattamento pensionistico. E’ possibile togliere a persone che hanno più di 80 anni l’unica pensione che hanno? Ad un ergastolano, se ha maturato la pensione, gli viene data e a un ex parlamentare non bisogna darla? Se passa il principio che si può togliere la pensione all’ex parlamentare passa il principio che si può toccare la pensione di tutti i cittadini italiani. Il diritto acquisito non è mai stato toccato e quando è stato toccato, come con la legge Fornero, lo Stato è stato costretto a pagare. Intervenire di fronte ad un ex parlamentare che ha 90 anni ed ha un’unica fonte di trattamento pensionistico significa compiere un atto profondamente immorale. Io ho visto un ex parlamentare cacciato da una casa di riposo perché non poteva più pagarla, è stato costretto ad andare alla Caritas. Il cittadino italiano deve capire che non tutti sono uguali, l’uno vale uno è una follia, ci sono persone più capaci e persone meno capaci. La politica negli ultimi tempi è passata in mano a persone meno capaci e ne stiamo pagando i danni che sono tremendi. Penso che tutti siano d’accordo sul fatto che si stava meglio quando si stava peggio. I numeri uno vanno apprezzati e incoraggiati ad occuparsi della cosa pubblica, non invidiati e bistrattati perché se no il Paese va a fondo”.

Cesare Zapperi per il "Corriere della Sera" il 15 aprile 2021. Roberto Formigoni ha vinto la sua battaglia. Riavrà il suo assegno mensile. A costo di subire «le invettive forcaiole» che gli sono piovute addosso da diversi esponenti del Movimento 5 Stelle dopo che la commissione Contenziosa del Senato martedì sera ha accolto il suo ricorso e ha cancellato la sospensione al versamento del suo vitalizio decretata nel 2015 dall' allora presidente di Palazzo Madama Pietro Grasso con una delibera ad hoc (e una analoga fu adottata alla Camera da Laura Boldrini) per gli ex parlamentare condannati a pene detentive superiori ai due anni. Ma adesso toccherà anche ad Ottaviano Del Turco, ex leader sindacale ed ex presidente della Regione Abruzzo, il cui caso verrà trattato, come ha stabilito il presidente della commissione, il forzista Giacomo Caliendo (gli altri due componenti politici sono i leghisti Simone Pillon e Alessandra Riccardi, oltre a due tecnici), il 27 aprile prossimo. E, visto il fresco precedente, non è nemmeno lontanamente immaginabile un epilogo diverso. Così come succederà all' ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, quando l' omologa commissione della Camera deciderà di calendarizzare un ricorso, scritto dall' ex senatore Maurizio Paniz, depositato oltre quattro anni fa. Con i loro casi, si riapre il tema controverso dei vitalizi che riguarda altri ex parlamentari che hanno avuto problemi con la giustizia e che hanno subito lo stop decretato nel 2015 (allora furono 18, alcuni sono morti, altri sono stati riabilitati nel frattempo): dall' ex sottosegretario socialista Giulio Di Donato all' ex sindaco di Taranto e deputato Giancarlo Cito. Il nodo è spinoso soprattutto per il Movimento 5 Stelle che, non a caso, alza le barricate di fronte a quanto deciso per Formigoni e promette già che farà il possibile per ripristinare la sospensione. La vicepresidente del Senato Paola Taverna se la prende con chi ha deciso: «Chi c' è dentro questa commissione? Giacomo Caliendo di Forza Italia e i due leghisti Riccardi e Pillon. Salvini meno di un anno fa diceva che i vitalizi erano una vergogna: ieri ha calato ancora una volta la maschera con questa indegna prova di restaurazione dei privilegi della casta. Daremo battaglia in Senato». Formigoni ridimensiona il presunto ammontare del suo vitalizio («non 7 mila euro al mese, ma meno della metà») e contrattacca: «Si deve chiedere a chi si straccia le vesti di fronte a una sentenza, se ritenga che lo stato di diritto sia ancora il baluardo contro gli abusi di qualsiasi potere a protezione della singola persona o se per qualcuno possa invece essere ripristinata una forma di condanna a morire di stenti». Ma la replica forse più «velenosa» al Movimento 5 Stelle filtra informalmente dalla commissione Contenziosa. Perché si fa sapere che lo sblocco del trattamento pensionistico non sarebbe una valutazione soggettiva della commissione, ma l' applicazione della legge 26/2019 art. 18 bis che ha istituito il Reddito di cittadinanza. È questa che consente la sospensione solo ai condannati per i casi di mafia e terrorismo . Per i commissari non c' era interpretazione diversa possibile. Ma c' è anche chi fa osservare una singolarità: sul caso di Formigoni l' unico partito che ha preso posizione, con diversi esponenti, è stato il M5S. Tutti gli altri, sono rimasti in silenzio ad assistere alla polemica. Se per una condivisione della decisione presa o per non esporsi non si sa.

La decisione su Formigoni "erga omnes". Vittoria per Del Turco, il Consiglio di Presidenza prende atto della sentenza Formigoni: l’ex governatore mantiene la pensione. Fabio Calcagni su Il Riformista il 15 Aprile 2021. Ottaviano Del Turco può conservare la sua pensione. Il fronte populista e manettare incassa una parziale sconfitta nella riunione del Consiglio di Presidenza di Palazzo Madama, dove è stata esaminata la revoca alla sospensione del vitalizio per l’ex governatore dell’Abruzzo. In Consiglio non si è giunti ad un accordo e, dopo due ore di scontri tra la presidenza e i membri del Movimento 5 Stelle, si è preso atto della decisione della Commissione Contenziosa di ieri sul caso Formigoni, col via libera alla pensione per l’ex numero uno della Lombardia: una decisione esecutiva erga omnes che annullava la delibera Grasso-Boldrini sullo stop al trattamento previdenziali ai parlamentari condannati. Per questo non sarà operativo, almeno per il momento, il taglio del vitalizio dell’ex sindacalista e governatore dell’Abruzzo, gravemente malato. A spiegare cosa è successo durante la riunione del Consiglio di Presidenza del Senato è Francesco Giro. “Oggi ci si è limitati a prendere atto di una sentenza emessa dalla cosiddetta Commissione contenziosa, l’organo giurisdizionale di primo grado del Senato, che accogliendo il ricorso dell’ex senatore Formigoni ha decretato la morte della delibera Grasso del 2015, che revocava il vitalizio ai condannati in via definitiva e ciò in forza di una sentenza della Cassazione a sezioni riunite che equiparando i vitalizi alle pensioni ne impedisce la revoca ai condannati, ma solo ai latitanti, cosi come accade per i pensionati e, aggiungiamo noi, per gli stessi percettori del reddito di cittadinanza”, ha spiegato il senatore di Forza Italia”. Effetti che, conferma Giro, “valgono erga omnes, per tutti, per Formigoni ma anche per Del Turco”. Quanto alla richiesta del M5S alla presidente del Senato Casellati “di promuovere rispetto l’amministrazione del Senato un ricorso alla sentenza Caliendo, è impropria perché solo il vertice della stessa amministrazione, nella persona del Segretario Generale, può impugnare il provvedimento in piena autonomia, sentita l’Avvocatura dello Stato. Personalmente non credo vi siano i presupposti per invocare i presupposti di autotutela del Senato rispetto ad una sentenza giuridicamente ineccepibile. Ricorsi temerari vanno assolutamente evitati”, chiosa Giro. Una decisione che ha fatto andare su tutte le furie i rappresentati del Movimento 5 Stelle. Lasciando l’Aula del Senato Paola Taverna ha annunciato che i pentastellati chiederanno di impugnare la sentenza della Contenziosa, che apre la strada all’annullamento di tutte le delibere del Senato, legate alla Grasso-Boldrini. “Abbiamo chiesto alla presidente Casellati di procedere con il ricorso, e con la sospensione della sentenza” su Formigoni, chiedendo l’intervento “del segretario generale, su richiesta del presidente”. Ironia della sorte vuole che lo sblocco del trattamento pensionistico per Formigoni approvato ieri dalla Commissione Contenziosa del Senato, decisione che di fatto permetterà a Del Turco di mantenere il vitalizio, è dovuto all’applicazione della legge del 2019 che istituisce il reddito di cittadinanza. Il ‘baluardo’ del Movimento 5 Stelle indica i cittadini a cui va sospeso il pagamento dei trattamenti previdenziali in coloro che, condannati in via definitiva per reati che non sono di stampo mafioso o terroristico, si siano resi latitanti o siano evasi. Commentando all’Ansa la decisione del Consiglio di Presidenza del Senato Guido Del Turco, figlio dell’ex senatore e suo amministratore di sostegno, ha spiegato che per ora “aspetta indicazioni”. Per ora “non abbiamo ricevuto alcuna comunicazione formale. Ma trovo odioso continuare a chiamarlo vitalizio: quella di mio padre è una pensione a tutti gli effetti dopo aver pagato i contributi per 20 anni di attività politica”. Guido Del Turco ricorda, a proposito del mantenimento dell’assegno per effetto della validità "erga omnes" della sentenza su Formigoni, che “c’è una sentenza della Cassazione e la pronuncia di cinque costituzionalisti che equiparano il trattamento pensionistico ai vitalizi degli ex parlamentari. Quindi continuare a usare la parola vitalizio e farne una battaglia è solo una bandiera da agitare. Basterebbe leggere le carte anziché invocare legalità”. Quanto alle condizioni del padre, Del Turco spiega che attualmente “le sue condizioni di salute sono quelle di un uomo affetto da Alzheimer e Parkinson, al massimo riesce a fare quattro passi“.

Fabio Calcagni. (calcagni) Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Perché i forcaioli giustizialisti hanno perso sul vitalizio a Formigoni. Matteo Mura il 15 Aprile 2021 su Il Giornale. La decisione della Commissione Contenziosa del Senato scatena l'ira M5S. Sconfitta totale per i giustizialisti. In Senato è scontro sulla decisione della Commissione Contenziosa che ha deciso di riconoscere nuovamente il vitalizio a Roberto Formigoni. L’ex presidente della Regione Lombardia ha vinto la sua battaglia dopo che era stato considerato decaduto dal trattamento a causa delle condanne penali diventate esecutive. La scelta dell’organo giuridico di Palazzo Madama ha mandato su tutte le furie il Movimento 5 stelle causando una durissima reazione di alcuni eletti del Movimento 5 stelle. I senatori pentastellati hanno chiesto alla presidente Elisabetta Casellati di impugnare la scelta durante l’Ufficio di presidenza di oggi. Richiesta che, con tuttà probabilità, cadrà nel vuoto. Il verdetto della Commissione relativo all’ex presidente lombardo avrà infatti validità erga omnes; alcuni decaduti dal vitalizio, come il socialista Ottaviano Del Turco, potranno godere nuovamente del trattamento previdenziale senza promuovere un nuovo ricorso. Risultato su cui puntavano gli esponenti di diverse forze parlamentari. Il ricorso presentato da Formigoni è stato ritenuto pienamente fondato. Il forzista Giacomo Caliendo, magistrato e presidente della Commissione Contenziosa, ha deciso di annullare una delibera adottata durante la presidenza Grasso. L’atto prevedeva infatti la sospensione della pensione per tutti i parlamentari condannati in via definitiva. Caliendo ha motivato attingendo a una norma promossa proprio dal Movimento 5 stella all’epoca dell’istituzione del reddito di cittadinanza: “La Commissione deve richiamare l'attuale vigenza dell'articolo 18-bis, del decreto- legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito in legge con modificazioni dalla legge 28 marzo 2019, n. 26 (relativo al c.d. Reddito di Cittadinanza), che ha previsto la sospensione dei trattamenti previdenziali solo e unicamente per i soggetti condannati a pena detentiva con sentenza passata in giudicato per i gravi reati di cui all'articolo 2, comma 58, della legge 28 giugno 2012, n. 92. Tale disposizione fa riferimento ai reati di cui agli articoli 270-bis, 280, 289-bis, 416-bis, 416-ter e 422 del codice penale, nonché ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni dell'articolo 416-bis, ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo”. L’organo del Senato è poi sceso nel dettaglio fornendo una spiegazione più chiara: “Si tratta come ognuno può vedere, di reati gravissimi quali terrorismo, associazione di stampo mafioso et similia. Inoltre, la normativa del 2019 prevede anche la sospensione dei trattamenti previdenziali ai soggetti condannati definitivamente a pena detentiva per ogni altro delitto per il quale sia stata erogata, in via definitiva, una pena non inferiore ai due anni di reclusione, ma solo nel caso in cui si siano volontariamente sottratti all'esecuzione della pena. Nel caso di specie tuttavia la situazione del ricorrente non è in alcun modo sussumibile alle circostanze previste dalla norma ora citata”. I senatori che hanno dato ragione all’ex presidente della Giunta lombarda hanno ricordato che la recente giurisprudenza in tema di vitalizio attribuisce natura previdenziale a questi trattamenti. Sarebbero stato quindi un’evidente ingiustizia non applicare in maniera analogica le norme introdotte con il varo del reddito di cittadinanza. Caliendo e la Commissione hanno blindato il proprio dispositivo attingendo anche alle decisioni in materia assunte dalla Corte costituzionale. Tra le motivazioni si legge: “Parimenti la Commissione contenziosa non può non rilevare come il legislatore nazionale, a seguito della prima pronuncia della Corte costituzionale, abbia approvato la legge 8 giugno 1966, n. 424, recante l'abrogazione proprio delle norme che prevedevano la perdita, la riduzione o la sospensione delle pensioni a carico dello Stato o di altro ente pubblico, a seguito di condanna penale o di provvedimento disciplinare”. Sospendere dal vitalizio Formigoni e gli altri condannati per fatti “non di sangue” o non connessi alla mafia o al terrorismo è quindi una sanzione del tutto sproporzionata. Giustizialisti in servizio permanene e ultras della manetta possono mettersi l’anima in pace.

·        Il Redditometro dei Parlamentari.

Ilario Lombardo per “la Stampa” l'1 agosto 2021. E siccome le prime volte non mancano mai, ecco il grande stupore di oggi: i deputati riuniti in massa alla Camera in una tropicale domenica d'agosto. Miracoli di Mario Draghi si dirà, a cui ormai, per riflesso collettivo, si associa il ruolo di mago taumaturgo qualunque cosa egli faccia. Ma forse di più pesa la fame di vacanza, legittima, dei parlamentari che vogliono chiudere in fretta il capitolo sulla riforma della giustizia per infilarsi le tanto agognate infradito. Sta di fatto che oggi tutti i deputati si troveranno in aula per una manciata di ore, sperando di evitare inciampi e trappole prima che la pausa estiva dal prossimo fine settimana faccia calare il sipario sui lavori del Parlamento. Ogni anno l'argomento rispunta con la stessa tediosità di un pomeriggio agostano: nel 2020, dopo che pandemia e lockdown prosciugarono i giorni di lavoro in presenza dei parlamentari, si promise solennemente che per dare l'esempio le Camere non avrebbero chiuso. Non fu così, ovviamente. Ora che i fustigatori della casta sono diventati casta non si sente più bistrattare la supposta pigrizia, indolenza e privilegio degli eletti che aspettano svogliati l'ultimo decreto del governo prima di correre in ferie. Fu così invece nel 2012, ai tempi del governo dei tecnici e dei professori, quando Fabrizio Cicchitto, allora capogruppo del Polo delle libertà, puntò il ministro dei Rapporti con il Parlamento Pietro Giarda: «Ve lo dico, se ci volete far stare qui fino al 13 agosto, sono problemi vostri...ve la dovete trovare da soli una maggioranza». Per liberarsi della frase imbarazzante e sottrarsi alla ghigliottina mediatica Cicchitto disse di essere stato frainteso. Ma in quei mesi in cui l'antipolitica stava per buttare giù la porta del palazzo, dove sarebbe entrata con le elezioni da lì a pochi mesi, c'è chi dovette manifestare cautela come il presidente della Camera Gianfranco Fini («Se serve siamo pronti a lavorare in agosto»), e chi invece sfidò il tritatutto populista come Pierluigi Bersani: «Ora basta. Abbiamo tutti una famiglia che ha diritto di stare due giorni con il padre o la madre». Anche perché, va detto, l'anno prima l'allora premier Silvio Berlusconi varò una manovra correttiva che costrinse circa 150 parlamentari a rientrare a Roma per un solo giorno ad ascoltare l'audizione del ministro dell'Economia Giulio Tremonti l'11 agosto. Addio ferie anche per i ministri, compreso il Guardasigilli Nitto Palma sommerso di improperi perché aveva detto che mai e poi mai avrebbe rinunciato al viaggio già prenotato in Polinesia. Ma la politica italiana produce colpi di scena che nemmeno le serie tv più inverosimili, e dunque non c'è da meravigliarsi se sono passati appena due anni ma sembra un secolo dall'agosto del 2019, quando ai mille parlamentari italiani andò di traverso l'aperitivo fronte spiaggia. «Tutti a Roma!» si disse, dopo che Matteo Salvini si ritrovò al Papeete Beach di Milano Marittima con la voglia matta di far cadere il governo Conte I di cui era vicepremier. Il 20 agosto la crisi di mezza estate andò in scena in Senato, con l'ovvio pienone, in un'aula dove, caldo o freddo, le stagioni si assomigliano tutte.

Paolo Baroni per "la Stampa" il 13 maggio 2021. Quanto intasca Mario Draghi a fare il presidente del Consiglio? Nulla, si scopre dai dati sull'Amministrazione trasparente pubblicati ieri sul sito del Governo. L'ultima dichiarazione dei redditi del premier, quella riferita al 2019, registra invece un reddito lordo annuo di 583.470 euro. Nel nuovo esecutivo solo il ministro dell'Innovazione tecnologica Vittorio Colao ha guadagnato di più: oltre 3,9 milioni di euro. I ministri parlamentari viaggiano più o meno tutti attorno a quota 100 mila euro. Ma all'appello mancano i dati degli altri ministri tecnici, da Daniele Franco (Mef) ad Enrico Giovannini (Trasporti e Infrastrutture), da Marta Cartabia (Giustizia) a Roberto Cingolani (Ambiente) che non hanno ancora aggiornato le rispettive pagine web. Va ricordato che Draghi, sino a novembre 2019, era il presidente della Banca centrale europea, ed era membro del consiglio di amministrazione della Banca dei regolamenti internazionali e da qui discende il suo maxi-stipendio. Risulta poi proprietario e comproprietario di dieci fabbricati e terreni in Italia e di un fabbricato a Londra, oltre a questo il premier detiene una quota da 10mila euro nella società semplice «Serena». Nulla si sa invece dei familiari, dal momento che questi come è nelle loro prerogative non hanno dato il loro consenso alla pubblicazione dei loro dati reddituali e patrimoniali. Il sito di palazzo Chigi pubblica anche i costi delle trasferte del premier: per l'unica trasferta di marzo 2021 (presumibilmente quella di Bergamo) per il trasferimento ha speso 330 euro e 549 peri pasti e pernottamenti. Anche Colao ha diverse proprietà immobiliari: 15 tra case e terreni, alcune in comproprietà, una sola nel Regno Unito dove ha lavorato per tanti anni chiamato alla guida del gruppo Vodafone e dove ha presentato l'ultima dichiarazione dei redditi nota dal momento che era consigliere di amministrazione di Unilever Plc e Verizon. Dopo i guadagni da super-top manager dei tempi d'oro Colao - che al momento di assumere l'incarico di governo ha lasciato ogni incarico e venduto tutte le azioni Vodafone che possedeva in quando ex ceo del gigante delle tlc - sfoggia comunque una dichiarazione ancora di tutto rispetto: tra dividendi, compensi da lavoro dipendente e compensi da lavoro autonomo nel 2019 ha infatti incassato ben 3.389.401 sterline, ovvero 3 milioni e 921 mila 270 euro al cambio di oggi. In dettaglio: 6.209 sterline di proventi non tassati, 795.901 sterline sotto forma di dividendi e poi altre 419.597 sterline come redditi da lavoro dipendente (64.469 sterline da Unilever Nv con tasse pagate nei Paesi Bassi, 57.500 sterline da Unilever UK con 24.333 sterline di imposte trattenute, 2.078.127 da Vodafone con 928.906 sterline di trattenute e infine 89.816 sterline da Verizon, con tasse pagate negli Usa). Poi ci sono altre 288.384 sterline come provento di lavoro autonomo. E alla fine 523.010 sterline di tasse (oltre 606 mila euro) versate al fisco di sua Maestà. Inutile dire che gli altri componenti della squadra ministeriale che fa capo a palazzo Chigi, in pratica tutti i ministri senza portafoglio (anche qui però non tutti hanno aggiornato i loro profili con le dichiarazioni dei redditi) sono staccati anni luce. Tra i titolari di dicastero, solo la responsabile del Sud Mara Carfagna sfonda il tetto dei 100 mila euro attestandosi a quota 135.819 di imponibile Irpef 2019. Nella media dei compensi da parlamentare seguono Fabiana Dadone (Politiche giovanili) con 98.471, Erika Stefani (Disabilità) con 97.763, Maria Stella Gelmini (Affari regionali) con 96.512 e Federico D'Inca (Rapporti col Parlamento) con 95mila. Più staccata Elena Bonetti (Pari opportunità e famiglia) con 70.364 euro ed ancora più giù l'ex ministro ed oggi sottosegretario agli Affari europei Vincenzo Amendola che nella dichiarazione presentata nel 2020 dichiarava solamente 33.375 euro. Tra i sottosegretari alla Presidenza in due doppiano i redditi dei ministri: sono il sottosegretario alla Presidenza Roberto Garofoli, che nel 2019 ha dichiarato 212.911 euro, appena 30 mila euro sotto il tetto massimo consentito nella pubblica amministrazione; ed il sottosegretario con delega alla sicurezza pubblica Franco Gabrielli, che grazie all'incarico precedente di capo della Polizia dichiarava a sua volta 189.468 euro. Quando si dice la forza dei grand commis.

Il Parlamento fa bene al portafoglio dei nostri politici? Il redditometro delle Iene. Le Iene News il 23 febbraio 2021. Entrare in Parlamento ha fatto bene al portafoglio della gran parte dei nostri politici? E se sì, di quanto? C’è qualcuno che ci ha rimesso (e anche tanto)? In attesa del servizio sul “redditometro delle Iene” di Filippo Roma e Marco Occhipinti diamo uno sguardo di alcuni protagonisti come Renzi e l’ex premier Conte. Dal loro ingresso in Parlamento come è cambiato il reddito dei nostri politici? In attesa di scoprirlo con il “redditometro” dei politici, in onda questa sera su Italia 1, diamo uno sguardo alla situazione di alcuni parlamentari. Filippo Roma e Marco Occhipinti hanno messo a confronto l’ultimo reddito imponibile presentato da 100 parlamentari prima del loro ingresso alla Camera o al Senato, con l’ultima dichiarazione disponibile presentata nel 2020, e che fa riferimento al 2019. L’ingresso in Parlamento ha generato un incremento dei guadagni per la maggior parte dei 100 politici presi in considerazione. Ma non per tutti. Ad esempio, nel 2019 l’onorevole Paolo Zangrillo, deputato di Forza Italia, fratello del celebre medico di fiducia di Berlusconi, ha dichiarato 98.471 euro rispetto agli 820.799 euro dichiarati quando faceva il dirigente d’azienda (ben 722.328 euro in meno). Nella classifica di chi ci ha perso troviamo anche nomi come Vittorio Sgarbi, Renato Brunetta, Laura Boldrini e pochi altri. La Top Ten della classifica di chi ha aumentato il proprio reddito è popolata da volti noti come il leghista Simone Pillon con un +203.243 euro (passato dai 40.155 euro nel 2017 ai 243.398 nel 2019), la Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, che ha registrato un incremento di 215.699 euro, collocandosi al quinto posto della speciale classifica, e Ignazio La Russa (FdI) che è passato dai 107.670 euro del 1991 ai 347.352 euro del 2019, registrando un +239.682 euro e collocandosi al settimo posto del redditometro delle Iene. L’ambitissimo primo posto della Top 100 se lo aggiudica il leader di Italia Viva Matteo Renzi che, rispetto a quanto dichiarato nel 2013, ha registrato un aumento di ben 936.318 euro. Pensate che solo nel 2018 il premier appena nominato Giuseppe Conte registrava un incremento del proprio reddito superiore a quello di Renzi, con un +781.583 euro. Nel 2019, però, il reddito imponibile di Conte ha subito una riduzione drastica (-211.840 euro) facendogli guadagnare il quinto posto nella classifica di chi ci ha perso di più e che tiene conto della rivalutazione dei dati Istat.

Le Iene, scoop su Matteo Renzi: balzo in avanti, ecco quanto guadagna. Le cifre stratosferiche dell'ex premier. Libero Quotidiano il 23 febbraio 2021. Matteo Renzi vanta il primato di politico più ricco da quando ha iniziato la propria attività in Parlamento. A snocciolare i numeri sono Le Iene. La trasmissione di Italia Uno, condotta da Nicola Savino e Alessia Marcuzzi, parla di un "reddito lievitato". Le entrate del leader di Italia Viva ammontano a 938.890, passando dai 98.961 del 2013 a 1.037.851 del 2019. Secondo posto per la senatrice leghista, nonché avvocato, Giulia Bongiorno. Per lei l'incremento è di 644.138. Il legale - ricordano Le Iene - partiva nel 2005 da un reddito imponibile di 173.534, salvo poi nel 2019 raggiungere 817.672. Ma ce n'è anche per il Partito democratico. Tra i primi dieci parlamentari ad aumentare il reddito spunta il senatore Andrea Marcucci. È lui, con un +426.040 euro (passando dagli 83.192 euro del 1991 ai 509.232 euro del 2019), ad aggiudicarsi il terzo posto. A seguire Simone Pillon. Il senatore leghista vede gonfiarsi il portafoglio di un +203.243 (passato dal 40.155 del 2017 ai 243.398 euro del 2019), mentre al quinto posto si piazza la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati (FI) con un incremento di 215.699, passando dai 41.040 euro del 1993 ai 256.739 del 2019. Con +206.780 euro Daniela Santanchè passa dagli 85.784 del 2000 ai 292.564 euro del 2019. Segue il compagno di partito Ignazio La Russa. Il senatore di Fratelli d'Italia ottiene un +239.682 (passa dai 107.670 del 1991 ai 347.352 del 2019). Ottavo il senatore forzista Luigi Vitali con +135.490 euro (passa dai 52.776 euro nel 1996 a 188.266 euro nel 2019). A venire la dem Anna Ascani con +98.471 euro (nel 2012 non aveva reddito), e la senatrice azzurra Licia Ronzulli con +98.639 (passa da un reddito di 26.681 nel 2017 a 125.320 nel 2019).

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 23 febbraio 2021. Non era un anno bisestile, non c’era ancora la pandemia e non ha subito alluvioni ma il 2019 per Paolo Zangrillo, fratello del celeberrimo Alberto medico di fiducia di Silvio Berlusconi, è stato un anno davvero sciagurato: 722.328 euro di buco. Colpa della politica. Direte: scherza? No, documenti alla mano, lo dice un’inchiesta delle Iene. Che hanno controllato chi, eletto in Parlamento, ci ha guadagnato o perso. Primo nella lista di chi andato in rosso è lui, primo di chi si è arricchito Matteo Renzi. Una hit-parade che riaccende polemiche sacrosante e mai chiuse: è giusto che un parlamentare possa fare altri lavori a pagamento?

Il confronto. Partiamo dall’inizio. Marco Occhipinti e Filippo Roma, per la trasmissione di Italia1 in onda stasera col titolo «Il redditometro delle Iene», hanno confrontato l’ultimo reddito imponibile presentato da cento parlamentari prima di entrare alla Camera o al Senato, chi tre e chi trent’anni fa, con la dichiarazione più recente, presentata nel 2020 per il 2019. Non una novità assoluta, vero. Come ricordano Tito Boeri e Sergio Rizzo in Riprendiamoci lo Stato, diversi studi avevano già dimostrato come vincere un seggio sia stato spesso seguito da una svolta economica e professionale. Per non dire di altre inchieste giornalistiche o addirittura di motivetti come quello di Claudio Villa su «L’onorevole Bricolle / deputato di Gioia del Colle», nato come «il modello dell’agitator» ma presto a suo agio «col suo bianco gilet / e le ghette ai suoi piè». Certo è che il servizio tivù di stasera, visti i tempi, le chiusure, i ritardi nei rimborsi per il Covid-19 rischia di arroventare ulteriormente le polemiche sul dossier sul sistema previdenziale Ue da cui emerge come gli italiani siano i parlamentari più pagati d’Europa. La maggioranza dei deputati e senatori (più l’ex premier Giuseppe Conte) passati al setaccio dalle Iene, infatti, non hanno subito il tracollo di Paolo Zangrillo, che dai 820.799 euro del 2017, quando faceva il dirigente d’azienda prima di essere eletto con Forza Italia, è sceso nel 2019 a 98.471 euro. Anzi.

Il crollo di Paragone, l’impennata di Cunial. Se l’ex giornalista e conduttore tivù Gianluigi Paragone risulta precipitato dopo l’elezione col Movimento 5 Stelle di 321.734 euro, l’imprenditrice Michela Vittoria Brambilla di 242.173 euro e altri ancora per importi minori come Dario Franceschini, Renata Polverini o Francesco Boccia, molti altri hanno visto i loro redditi sollevarsi sensibilmente o addirittura schizzare all’insù. A partire da alcuni grillini catapultati su un seggio da posizioni assai meno prestigiose. Come la pasionaria No vax e teorica dei complotti planetariSara Cunial, passata da imprenditrice agricola con «reddito imponibile 0» nel 2017 a 92.728 euro nel 2019, pari allo stipendio e voci varie parlamentari, tolti i soldi al partito. Come a zero, prima d’essere eletti, stavano Roberto Fico, Anna Ascani, Luigi Di Maio. Che neppure risulta aver fatto la dichiarazione... Sconosciuti.

La salita degli avvocati. Nelle prime file nomi più o meno noti. Come l’avvocato Maria Elisabetta Alberti Casellati, che in ventisette anni da parlamentare ha visto il suo reddito salire (come presidente del Senato) di 187.956 euro. L’avvocato e senatore leghista Simone Pillon, benedetto tra il 2017 e 2019 di un’impennata di 202.601 euro. L’imprenditore farmaceutico, deputato e poi senatore e capogruppo democratico Andrea Marcucci, salito nel reddito dal ‘91 ad oggi di 354.910 euro. Fino all’avvocato ed ex ministro Giulia Bongiorno. Palermitana, famosa già a 27 anni nel collegio difensivo di Giulio Andreotti, prima di entrare alla Camera con Alleanza nazionale aveva nel 2005 un imponibile 173.534 euro. Nel 2019 era a 817.672. Cinque volte di più. Guai a chiederle però, come han fatto le Iene, se la politica in qualche modo c’entrasse con l’accelerazione: «Ho guadagnato solo ed esclusivamente sulla base del lavoro duro che ho fatto nei processi che poi mi hanno portato ulteriori clienti». Anzi, rivendica, è seconda dopo Renzi solo perché ha fatto la ministra nel governo giallo-verde: «Altrimenti non sarei seconda!» Nel 2018, infatti, era salita a un imponibile di 2.833.488. Traduzione: con la politica ci ha rimesso.

Conte in un anno sotto di 996 mila euro. La stessa tesi, più o meno, di Giuseppe Conte. Parola di Rocco Casalino: l’ex premier è passato da 1.155.229 euro di imponibile nel 2018 a 158.474 del 2019, «con una perdita di 996.755». Marco Occhipinti e Filippo Roma però precisano: i confronti vanno fatti sull’ultimo anno in cui «l’avvocato del popolo» non aveva ruoli politici, cioè il 2017. Quando l’imponibile era di 370.314: un terzo dell’anno successivo, con sette mesi a Palazzo Chigi. E torniamo alla polemica di queste settimane, dopo il volo nell’Arabia Saudita «rinascimentale», intorno alle conferenze di Matteo Renzi. Il quale, stando all’imponibile 2013 (98.961 euro, rivalutato a 101.533) prima che diventasse capo del governo, si è ritrovato con redditi nel 2019 per 1.037.851. Cioè 936.318 euro più che nell’anno di partenza. Una sgommata fortunata. Sulla quale le Iene dicono d’avere invano chiesto un commento. Zitto. Come zitti, davanti ai microfoni, hanno preferito rimanere finora Salvini, Conte, Marcucci e altri...

Le regole americane. Resta il nodo di cui dicevamo: è giusto che un parlamentare pagato dai cittadini per fare il parlamentare faccia contemporaneamente altri lavori? Si dirà: da noi è sempre andata così. Vero. Non ovunque è così, però. In America, ad esempio, è impensabile. Basti leggere le regole sul sito ufficiale del Congresso: «A rappresentanti e senatori è vietato accettare onorari. L’accettazione di onorari da parte dei Rappresentanti è stata proibita a partire dall’1 gennaio 1991. L’accettazione di onorari da parte dei senatori è stata vietata a partire dal 14 agosto 1991». Spiega il Congressional Institute: «Secondo il comitato etico della Camera, il limite al reddito da lavoro esterno per i membri del Congresso è stato nel 2019 di 28.440 dollari. Oltre a limitare l’importo che i membri possono guadagnare, ci sono anche restrizioni su come possono farlo». Esempio? «È vietato accettare pagamenti per i discorsi». Di più: poiché nel Congresso attuale «si stima che 50 senatori e 168 membri della Camera siano avvocati», si ricorda che ogni attività simile è proibita. «Ma è ovvio che sia così», ride Antonio Merlo, docente alla New York University e autore qualche anno fa con Andrea Mattozzi di Mediocracy, un saggio duro sui sistemi di selezione della politica italiana, «L’idea che in America un parlamentare abbia dei clienti che lo pagano come avvocato finché è in carica è fuori dal mondo».

·        Il Redditometro dei Partiti.

La vera storia dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. VANESSA RICCIARDI su Editoriale Domani.it il 7 dicembre 2021. La storia attribuisce al Movimento 5 stelle la spinta per abolire il finanziamento pubblico ai partiti, ma la legge è stata varata nel 2013 dall’allora premier e oggi segretario del Pd Enrico Letta su pressione di Matteo Renzi

Il M5s votò contro perché non la trovava abbastanza radicale.

Il primo a dare un colpo al finanziamento pubblico ai partiti senza tuttavia eliminarlo è stato Mario Monti.

La storia riconosce nei “portavoce” eletti del Movimento 5 stelle i padri morali dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, ma la legge è stata varata nel 2013 dall’allora premier e oggi segretario del Pd Enrico Letta su pressione di Matteo Renzi.

Lo stesso Letta ne diede annuncio festante su Twitter: «In consiglio dei ministri manteniamo la promessa».

Il taglio era tra le promesse della Leopolda 2011 di Renzi, e i renziani, scriveva l’Ansa, mentre era ancora in corso la riunione del consiglio dei ministri, festeggiavano la vittoria.

Il portavoce del Pd Lorenzo Guerini (oggi ministro della Difesa) rivendicava «un positivo effetto Renzi sull'esecutivo» festeggiando «un primo importante risultato». Letta garantiva di pari passo sulla tenuta del suo esecutivo finendo con l’essere smentito da lì a poco.

La legge sarà approvata nel 2014, subito dopo che Renzi disse a Letta di «stare sereno» per poi cacciarlo da Palazzo Chigi prendendo il suo posto il 17 febbraio 2014. Tre giorni dopo il voto definitivo alla camera: a favore Pd, FI, Ncd, Scelta Civica e Per l'Italia. Contrari Lega Nord, Sel e Movimento 5 Stelle.

Il primo a dare un colpo al finanziamento pubblico ai partiti senza tuttavia eliminarlo è stato Mario Monti. Il disegno di legge del 2012 varato dall’esecutivo guidato dal tecnico ha infatti fissato un tetto alle erogazioni pubbliche a 91 milioni, da elargire per il 70 per cento come rimborso. Il restante 30 per cento a titolo di cofinanziamento. 

In venti anni, dal 1993 al 2013, ha ricordato Emanuele Felice su Domani, i partiti hanno incassato circa 2,7 miliardi di rimborsi pubblici, per spese che però in media sono il 30 per cento di questa cifra.

La nuova legge Monti ha stabilito che per avere diritto al finanziamento i partiti devono dotarsi di un atto costitutivo e di uno statuto, e che questi devono essere conformi ai principi di democraticità interna.

Dopo quella legge, le critiche dei grillini ma anche la linea “rottamatrice” di Matteo Renzi, hanno portato ancora avanti le pressioni dell’opinione pubblica finché Letta non ha deciso di intervenire. Dal 2014 così si è passati a una forma indiretta di finanziamenti, ai parlamentari e ai gruppi parlamentari, tramite donazioni o tramite il 2 per mille nel secondo caso.

Al 2 per mille, si legge nel testo, possono accedere i partiti con uno statuto e regolarmente iscritti al registro dei partiti. Una modalità a cui adesso il Movimento 5 stelle, il più acerrimo nemico dei condizionamenti, ha deciso di ricorrere segnando il suo passaggio a partito politico.

Alessandro Di Battista, ex pentastellato che allora siedeva in Parlamento, ha gioco facile a ricordare sui social: «Il Movimento votò contro la legge del governo Letta che istituiva il 2X1000 ai partiti sostenendo che fosse un finanziamento pubblico mascherato (sempre soldi pubblici sono) ed era un bel Movimento», adesso invece, lamenta, «il neo-movimento si avvita su se stesso. Incapace di ottenere donazioni puntando sull'identità».

LA SPAZZACORROTTI

Mentre da una parte Renzi andava contro il finanziamento pubblico, dall’altra però lavorava con la fondazione Open, guidata dall’avvocato Alberto Bianchi organizzando ogni anno la sua kermesse personale. Oggi sappiamo dall’inchiesta in corso alla procura di Firenze, che vede indagato il senatore per finanziamento illecito ai partiti, che la fondazione ha ricevuto soldi da gruppi di interesse e uomini d’affari, dalla British American Tobacco al politico imprenditore Gianfranco Librandi, deputato tra i renziani di Italia viva. Per far fronte alle complicazioni emerse dalla gestione delle fondazioni, nel 2019, durante il governo giallo-verde Conte I, si è aggiunta la legge Spazzacorrotti fortemente voluta dal ministro della Giustizia pentastellato Alfonso Bonafede. Per la prima volta sono stati dati alle fondazioni politiche gli stessi obblighi di trasparenza dei partiti. La fondazione Open è la prima a tremare. L’ex presidente e avvocato di Renzi, Bianchi, indagato per traffico di influenze, infatti scrive ai deputati Luca Lotti e Maria Elena Boschi: «La Fondazione deve essere chiusa in ogni modo entro il 31 gennaio, altrimenti entriamo nell’orbita di applicazione della l. 3/2019, con le complesse conseguenze che ne seguirebbero».

LE CRITICHE DI ALLORA

Ogni partito e ogni parlamentare è obbligato a dichiarare chi sono i suoi finanziatori, ma già nel 2013 la legge che avrebbe dovuto dare sollievo alle casse dello stato ha suscitato qualche perplessità, a partire dalla presidente della Camera, Laura Boldrini (all’epoca Sel e oggi Pd): «Serve una seria riflessione – avvertiva – così come bisogna riflettere su come regolamentare le lobby. Non sono soddisfatta, anzi ho una grande preoccupazione per la situazione attuale», aveva detto. La presidente aveva poi notato: «Abbiamo deciso di abbandonare il finanziamento pubblico che non era difendibile, ma ora siamo senza. Siamo davvero sicuri che il privato finanzi la politica perché ha amore della cosa pubblica? Non saranno alla fine tutti a presentare il conto?».

IL CASO RENZI

Il caso Renzi-Arabia Saudita ha complicato ancora di più lo scenario. Renzi infatti percepisce non donazioni, ma regolare retribuzione da privati e soggetti esteri per le sue conferenze e consulenze. Come rivelato da Domani, persino dal governo dell’Arabia Saudita: siede infatti nel board del FII Institute, un organismo controllato dalla famiglia reale. Una situazione che, seppure consentita dalla legge ha fatto molto discutere: è opportuno che un parlamentare prenda soldi da un paese straniero o da un qualunque altro portatore di interessi senza nemmeno doverlo dichiarare? Per questo Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, ha presentato una proposta di legge che vieta sia ai parlamentari italiani sia a quelli europei di percepire denaro da qualunque portatore di interesse.

VANESSA RICCIARDI.  Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Michele Emiliano a processo per le primarie nazionali del Pd: slitta udienza a Torino. Il Corriere del Giorno l'11 dicembre 2021. L’ipotesi di reato per cui la Procura di Torino ha chiesto il decreto di citazione a giudizio, è di finanziamento illecito per le modalità con cui sarebbe stata retribuita la società piemontese Eggers a cui Michele Emiliano si era rivolto per la comunicazione della propria candidatura alle primarie nazionali del PD nel 2017...È approdata in tribunale a Torino la vicenda giudiziaria che riguarda il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, e il suo capo di gabinetto, Claudio Stefanazzi. Nel procedimento coinvolti anche l’ imprenditore barese Vito Ladisa e l’ imprenditore foggiano Giacomo Mescia. Un problema burocratico ha però comportato lo slittamento dell’udienza di ieri al prossimo 18 marzo 2022. La questione è collegata alla campagna elettorale del 2017 per le primarie nazionali alla segreteria nazionale del Pd. Il capo di gabinetto del presidente Emiliano alla Regione Puglia Claudio Stefanazzi era stato coinvolto nell’inchiesta della Procura di Bari venendo identificato come il tramite tra Emiliano e gli imprenditori Ladisa e Mescia. Le ipotesi accusatorie si erano ridotte a seguito delle dichiarazioni di Pietro Dotti, titolare della società Eggers, il quale aveva chiarito e documentato di avere realmente eseguito delle prestazioni per la Ladisa Ristorazione e di essere stato remunerate a fronte del proprio legittimo lavoro . Il quadro accusatorio della Procura era quindi stato modificato e trasferiti gli atti d’indagini alla Procura di Torino, essendo decaduta con un’archiviazione l’ipotesi corruttiva, rimanendo in piedi soltanto l’ipotesi di reato per violazione della legge sul finanziamento ai partiti e di false fatturazioni. Le indagini svolte in seguito dal pm Giovanni Carpani hanno separato di fatto le posizioni di Emiliano e Stefanazzi rispetto a quelle degli imprenditori Ladisa e Mescia, che sono ritornate a Bari, per valutare proprio il reato di false fatturazioni. La Procura di Bari dopo aver svolto ulteriori indagini ha chiesto l’archiviazione nei confronti di Ladisa, accolta dal Gip, ed inviato a Roma la documentazione d’indagine nei confronti del Mescia. Alla Procura di Torino è stata restituita invece la parte d’inchiesta relativa a Ladisa e al finanziamento illecito, ma dalla procura piemontese è stato sollevato conflitto di attribuzione che la Corte di Cassazione ha chiarito stabilendo che è Torino la sede giudiziaria dove va definito il procedimento. Il fascicolo era stato trasferito dalla procura di Bari a quella di Torino, città ove aveva sede la società di comunicazione Eggers che aveva curato nel 2017 la campagna di comunicazione di Emiliano, quando si era candidato alle Primarie del Pd sfidando Matteo Renzi che vinse le primarie ed Andrea Orlando che arrivò secondo. L’inchiesta inizialmente avviata in Puglia, ipotizzato che l’ imprenditore della ristorazione (ed ora anche dell’editoria) Vito Ladisa e Giacomo Mescia operante nel settore delle energie rinnovabili avessero pagato delle fatture una da 63mila euro e una da 24 per conto di Emiliano alla società Eggers. L’ipotesi di reato per cui la Procura di Torino ha chiesto il decreto di citazione a giudizio, è di finanziamento illecito per le modalità con cui sarebbe stata retribuita la società subalpina a cui Emiliano si era rivolto per la comunicazione della propria candidatura. Per il governatore e il suo capo di gabinetto è stata quindi disposta la citazione a giudizio solo in relazione all’ipotesi accusatoria di finanziamento illecito. “Dopo la necessaria archiviazione delle ipotesi più rilevanti, l’unico auspicio possibile è quello di poter affrontare quanto prima il merito, per poter chiarire anche la marginale ipotesi residuata di violazione di una normativa speciale sui finanziamenti in occasione delle primarie” ha detto l’avvocato Gaetano Sassanelli, difensore del governatore Emiliano. “Il reato contestato – conclude Sassanelli – è a citazione diretta del pm. Tale procedura è prevista solo per fattispecie di lieve entità. L’udienza è stata rinviata a seguito di un vizio formale“.

Chi finanzia la politica in Italia. Negli ultimi dodici mesi il sistema dei partiti ha ricevuto in elargizioni private 47 milioni di euro e, tra i donatori, ci sono 400 aziende e molti imprenditori di edilizia, sanità e università private. Così la fine del finanziamento pubblico ha abbandonato i partiti impoveriti in mano a interessi particolari.  Antonio Fraschilla, Vittorio Malagutti e Mauro Munafò su L'Espresso il 3 dicembre 2021. E alla fine, per dare una mano a Carlo Calenda, sono scesi in campo anche i signori del cemento. Un bonifico da cinquemila euro è arrivato da Nicolò Rebecchini, erede di una dinastia di costruttori romani che da decenni naviga tra affari e politica. Mentre Pietro Salini, patron del gruppo Webuild, il campione nazionale delle grandi opere, ha versato diecimila euro.

Sandro De Riccardis e Luca De Vito per "la Repubblica" il 15 aprile 2021. Oltre due milioni e 700 mila euro in «dazioni a partiti politici, influencer e lobbisti». Altri otto milioni e 400 mila in aerei, auto, ville e regalie. L' elenco delle spese allegato al piano di concordato preventivo di Moby, depositato in procura a Milano, è la fotografia di cinque anni (dal 2015 al 2019) di gestione della compagnia di navigazione della famiglia Onorato. Gravata da finanziamenti alla politica e altre uscite «prive di giustificazione economica». Basti pensare al milione e 200 mila euro pagati da Moby a Casaleggio Associati per la «creazione e gestione di un sito internet, e la creazione della pagina Facebook e Instagram». Sono in totale undici milioni e 140 mila euro le uscite considerate «meritevoli di attenzione». Sui soldi alla politica la procura di Milano, con l' aggiunto Maurizio Romanelli, ha aperto un' indagine conoscitiva, senza ipotesi di reato né indagati, mentre il gruppo affronta oggi l' udienza in cui creditori e procura potrebbero chiedere il fallimento della controllata Cin-Tirrenia. Tra i finanziamenti i 240mila euro in due anni alla srl che gestisce il sito di Beppe Grillo e i 200mila alla fondazione Open di Matteo Renzi, per i quali «non è stata rinvenuta delibera» della società. Altri 100 mila euro sono stati bonificati a Change di Giovanni Toti, 10mila a Fratelli d' Italia, 90mila al Pd. Di questi, 40 mila arrivano alla Federazione Val di Cornia - Elba, altri 50 mila a Ernesto Carbone, ex deputato renziano Pd poi transitato in Italia Viva. Carbone ha condiviso molti eventi pubblici con il patron di Moby Vincenzo Onorato, ed è stato firmatario di emendamenti a leggi sul trasporto marittimo. Per il «supporto tecnico-specialistico in relazione alle attività con Parlamento, Governo e Commissione Europea », 900 mila euro tra il 2017 e il 2019 sono andati in consulenze a Roberto Mercuri, vicino all' ex vicepresidente di Unicredit Fabrizio Palenzona, nel cda di Tirrenia-Cin dal 2016. Ad appesantire ulteriormente i conti, sono segnalati il «noleggio di aerei e auto, l' acquisto di Villa Lilium ad Arzachena, molti regali». Moby ha affittato «un Falcon 2000 da 19 passeggeri, con un canone mensile di 13700 euro», e contemporaneamente Cin ha sottoscritto per lo stesso aereo, «ma per un maggior numero di ore di volo assegnate, un noleggio da 27400 euro al mese». Una spesa di 2,8 milioni. Villa Lilium è invece acquistata per due milioni e 100 mila euro, ma altri due milioni e 300 mila sono stati spesi in ristrutturazione. I periti segnalano di aver richiesto «maggiori dettagli sulle ragioni di noleggi e acquisti, nonché i relativi utilizzi, senza tuttavia ricevere a oggi ulteriori informazioni». Altro mezzo milione è finito in due appartamenti in centro a Milano, a Brera e Porta Venezia. Seicentomila euro in auto a noleggio: Aston Martin V8, Rolls Royce Wraith, Mercedes SLK 200, Range Rover, Maserati Levante, Aston Martin Coupe. E tra gli omaggi, spiccano i 50mila euro in «gioielli per Erika Pollack, vedova di Alf Pollack e madrina del varo della nave Alf Pollack».

Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 12 marzo 2021. Nel 2020 il Pil italiano è calato del 9%, quello dei partiti del 22%. Hanno ricevuto 21 milioni di euro di donazioni private (il canale di finanziamento rimasto assieme al 2 per mille, una volta abolito quello pubblico), contro i 27 dell'anno prima. Gran parte delle donazioni (circa 17 milioni) è in realtà una partita di giro, perché proviene dai parlamentari. Il Movimento 5 Stelle è il partito più «ricco». Secondo Transparency International Italia, che da tre anni raccoglie, elabora e rende fruibili i dati sul sito soldiepolitica.it, la via della trasparenza è ancora lastricata di buone intenzioni: le informazioni sui donatori sono parziali e il ruolo di fondazioni, associazioni e comitati resta opaco. Nel 2020 i 21 milioni di euro provengono da 1500 donatori che hanno effettuato 12 mila erogazioni. Come nel 2019, sul podio dei beneficiari Movimento 5 Stelle (7,9 milioni), Lega (6,2) e Pd (2,4). Il principale donatore è il Comitato Iniziative 5 Stelle. Creato nel 2019 per organizzare la kermesse «Italia 5 Stelle», ha girato al Movimento 140 mila euro. Questo comitato fa parte della galassia di sei tra fondazioni e associazioni (tra cui Rousseau) che circonda il Movimento, alimentandolo sia dal punto di vista politico che finanziario, in modo non del tutto trasparente. Ben 17,7 milioni su 21 arrivano ai partiti da parlamentari o ministri. Tra le persone fisiche, i principali donatori sono la senatrice Emma Bonino (68 mila euro a +Europa e 45 mila a Radicali Italiani), l'imprenditore Lupo Rattazzi (105 mila euro a Italia Viva), la senatrice Vilma Moronese (73 mila euro al Movimento 5 Stelle, da cui è stata espulsa dopo il no al governo Draghi), il senatore e tesoriere di Forza Italia Alfredo Messina (72 mila euro al suo partito), l'industriale Gianfelice Rocca (100 mila euro ad Azione di Calenda), il senatore M5S Vito Petrocelli (67 mila euro al suo partito). Tra le persone giuridiche, la Fondazione Arvedi Buschini (100 mila euro ad Azione), la berlusconiana Fininvest (100 mila euro a Forza Italia), l'azienda di imballaggi Seda Italy (67 mila euro a Forza Italia). Donazioni lecite e trasparenti. Meno trasparente l'operato di fondazioni, associazioni e comitati, che intermediano circa 8 milioni di euro. Benché la legge «spazzacorrotti» abbia esteso gli obblighi di rendicontazione anche a questi soggetti, solo nove su un centinaio li assolvono in parte e solo cinque in pieno. Anche i partiti, nel loro piccolo, s'arrangiano. Quindici su 21 pubblicano dati dei donatori per lo più parziali (il che rende incerta l'identificazione) e aggregati in formati eterogenei, non estraibili (tipo schermate in jpeg) e difficilmente incrociabili con i potenziali conflitti di interessi dei 129 parlamentari e ministri che dichiarano legami con 217 aziende, per lo più nei settori immobiliare, finanziario e turistico. Motivo per cui Transparency chiede (invano, finora) un regolamento che precisi gli standard di trasparenza per partiti e fondazioni, sbarrando le scorciatoie ai furbetti.

Manager e alta finanza: il salotto buono tifa Giuseppe Sala. Antonio Fraschilla, Vittorio Malagutti e Mauro Munafò su L'Espresso il 6 dicembre 2021. Professionisti e imprenditori per il sindaco appena rieletto a Milano. E anche dal mondo della moda sono arrivate ricche donazioni. La corsa vincente di Giuseppe Sala verso la riconferma sulla poltrona di sindaco di Milano è stata accompagnata da una pioggia di donazioni di molti ricchi sostenitori: finanzieri, avvocati d’affari, imprenditori. Sala, che vanta una lunga carriera da manager nel gruppo Pirelli e poi anche in Telecom Italia, ha ricevuto generosi contributi provenienti dalla cerchia dei professionisti che frequenta da sempre. Non per niente la lista dei finanziatori del sindaco comprende Federico Sarruggia del fondo Permira e l’ex Mediobanca Roberto Notarbartolo di Villarosa, che hanno versato 10 mila euro ciascuno. Con un contributo di 10 mila euro, si è schierato con il sindaco anche Carlo Buora, già collega di Sala nella prima linea del gruppo Pirelli e ora vicepresidente dello Ieo, l’Istituto europeo di oncologia. Altri 10 mila euro sono stati donati dal manager Antonio Belloni, braccio destro di Bernard Arnault alla guida della multinazionale della moda Lvmh. Dal mondo della moda è arrivato anche il contributo (10 mila euro) di Italian fashion team, l’azienda salentina di Michele Zonno e i 5 mila euro donati da Silvio Campara, che ha inventato le sneaker griffate Golden Goose.

L’immobiliarista Daniel Buaron, che ha gestito numerosi affari milionari in città, ha donato 1.500 euro, mentre 4.990 euro sono arrivati da Marco Drago, che guida il gruppo De Agostini. Ben introdotta nel mondo della finanza è anche Stefania Bariatti, avvocato e docente universitaria di dichiarate simpatie renziane, presidente fino all’anno scorso del Monte dei Paschi di Siena. Bariatti ha contribuito con mille euro al comitato di Sala, il sindaco che l’ha nominata nel consiglio di amministrazione di A2a, l’azienda energetica quotata in Borsa e partecipata dal comune di Milano. La professionista milanese, esperta di diritto internazionale, ha trovato posto anche nel board di Mediaset, indicata dalla Fininvest di Silvio Berlusconi.

La documentazione pubblicata online sul sito del Parlamento certifica che il Comitato elettorale di Sala ha incassato poco meno di 300mila euro, a cui si possono aggiungere altri 120mila euro raccolti dalla lista “Lavoriamo per Milano con Sala”, schierata con il sindaco uscente. Quest’ultima risulta finanziata per oltre la metà del totale raccolto, dalla famiglia dell’imprenditore, nonché deputato, Gianfranco Librandi, ora schierato con Italia Viva di Matteo Renzi dopo essere transitato da Forza Italia, Scelta Civica (il partito di Mario Monti) e il Pd. Librandi ha versato 50mila euro anche al Comitato di Sala e altri 190mila euro al Comitato Leopolda 9 e 10 di Renzi. In totale quindi, l’industriale di Saronno (in provincia di Varese) proprietario di un’azienda che produce impianti di illuminazione, ha finanziato la politica per oltre 360mila euro nell’arco di un anno, tra agosto 2020 e lo scorso ottobre. Un record, almeno per quanto riguarda le donazioni inserite nel registro pubblico. 

Con i suoi 50mila euro, il massimo previsto dalla legge per un singolo sostenitore, Librandi è al primo posto tra i finanziatori di Sala. Al secondo posto, con 30mila euro, troviamo l’imprenditore Maurizio Traglio, che una dozzina di anni fa partecipò al fallimentare tentativo di salvare l’Alitalia con la cordata dei cosiddetti capitani coraggiosi sponsorizzata da Silvio Berlusconi. Traglio nel 2017 si candidò alla carica di sindaco di Como con l’appoggio di una coalizione che comprendeva anche il Pd. All’epoca, Sala si spese a favore dell’amico che quest’anno ha ricambiato il favore con una ricca donazione. Un bonifico di 10 mila euro è invece arrivato dalla Borio Mangiarotti, un’impresa di costruzioni che fa capo alla famiglia De Angelis, molto attiva nella metropoli lombarda. Borio Mangiarotti tira le fila, tra l’altro, del progetto Seimilano, destinato a trasformare un’area di 300mila metri quadrati nella periferia nordovest della città, dove verrà costruito un nuovo quartiere, con spazi residenziali, commerciali e un parco.

Carlo Calenda da record: pioggia di donazioni dal mondo delle imprese. Antonio Fraschilla, Vittorio Malagutti e Mauro Munafò su L'Espresso il 6 dicembre 2021. L’ex ministro delle Industria ha raccolto più di un milione e mezzo di euro in un anno. Le elargizioni più generose sono arrivate dal patron di Prada, Patrizio Bertelli, dagli Zegna, dai Rocca della Techint e da Giovanni Arvedi, a capo dell’omonimo gruppo siderurgico. Se il successo elettorale si misurasse con il valore delle donazioni ricevute, Carlo Calenda avrebbe vinto la corsa a sindaco di Roma e Azione, il suo partito, potrebbe puntare a conquistare decine di posti in Parlamento alle prossime elezioni. Le cose fin qui sono andate diversamente, ma intanto l’ex ministro con targa Pd ha fatto il pieno di contributi privati. Il mondo della grande impresa si è mobilitato per dare un segno concreto del suo sostegno alle ambizioni del manager, già braccio destro di Luca Montezemolo in Confindustria, che ha fatto il gran salto in politica. Nell’arco di poco più di un anno, tra agosto 2020 e l’ottobre scorso, Azione e la lista Calenda sindaco, in lizza per le recenti amministrative della Capitale, hanno incassato più di un milione e mezzo di euro. La lista dei donatori di Azione è affollata di grandi nomi dell’imprenditoria. Si parte dalla moda. Il patron di Prada, Patrizio Bertelli ha versato 50 mila euro, dalla famiglia Zegna, dell’omonimo marchio di abbigliamento, sono arrivati due pagamenti per un totale di 50 mila euro, mentre i Loro Piana, titolari di un’altra famosa griffe del made in Italy, hanno inviato un bonifico di 30 mila euro. L’ex presidente di Confindustria Antonio D’Amato, finanziatore importante anche di Forza Italia, ha contribuito con un versamento di 50 mila euro, il massimo consentito dalla legge per un singolo donatore. Stessa somma anche per la Fondazione Giovanni Arvedi, che fa capo all’omonimo imprenditore siderurgico di Cremona, mentre 3 mila euro sono arrivati da Alessandro Banzato, che presiede Federacciai.

Il lungo elenco dei sostenitori comprende anche Alberto Bombassei, a capo del gruppo Brembo, che ha contribuito con 50 mila euro. Poi troviamo Luca Garavoglia, presidente del gruppo Campari con 10 mila euro, i Merloni della Ariston, appena sbarcati in Borsa (20 mila euro), Gianfelice Rocca della Techint (50 mila euro) e i petrolieri Brachetti Peretti, con una donazione di 10 mila euro a carico della holding di famiglia Finbra.

A fine settembre, negli ultimi giorni di campagna elettorale a Roma, si sono fatti avanti anche Nicolò Rebecchini e Pietro Salini. Il primo, erede della nota famiglia di costruttori della Capitale, ha contribuito con 5 mila euro al bilancio del Comitato Calenda sindaco. Salini invece, primo azionista e amministratore delegato di Webuild, colosso internazionale delle grandi opere, ha versato 10 mila euro. Davide Serra, il finanziere con base a Londra che da tempo sostiene Matteo Renzi, ha puntato 24 mila euro anche su Azione.

In testa alla graduatoria delle donazioni più ricche a favore della lista Calenda per il Campidoglio troviamo invece l’imprenditore veneto Alberto Baban e Massimo Caputi, un manager di lungo corso in campo immobiliare che negli ultimi anni ha puntato sulle terme, rilevando, tra l’altro, quelle di Chianciano. Entrambi hanno versato 20 mila euro. Dai fratelli Fausto e Felice Boga, titolari del marchio di arredamento Habitare (sede in provincia di Varese) sono invece arrivati 15 mila euro ciascuno. Dal profondo nord, arrivano anche i finanziamenti della famiglia Zacchera, che gestiscono una rinomata catena alberghiera sul Lago Maggiore. Le società Zaccheraservice e la collegata Viscania hotel hanno versato in totale 20 mila euro. Stefano Zacchera, amministratore del gruppo, l’anno scorso ha trovato posto nella direzione nazionale di Azione, come esperto del settore turistico.

Estratto dell'articolo di Davide Milosa per “il Fatto Quotidiano” il 14 aprile 2021. […] Dal Pd a Fratelli d'Italia a Forza italia. Partiti o società e fondazioni comunque riferibili alla politica. Poco meno di 2 milioni in cinque anni. Paga la compagnia di navigazione Moby dell'armatore napoletano Vincenzo Onorato, incassano in molti. Tra questi, 1,2 milioni, la Casaleggio Associati, creata dal figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle. Circa 90mila euro vanno al Pd, 100mila al comitato Change […] di Giovanni Toti. Il libro mastro delle spese "politiche" di Moby […] è oggi sul tavolo della Procura di Milano che ha aperto un'inchiesta. […] Alcuni pagamenti della compagnia fondata da Onorato, quelli al Blog di Grillo e alla Casaleggio Associati, erano stati segnalati nel 2019 da Banca d'Italia. […] Emergono 240mila euro pagati alla società che gestisce il Blog di Grillo. […] Si passa al milione e due pagati […] alla Casaleggio Associati per sensibilizzare le istituzioni sui trasporti marittimi. Il piano segnala 550mila euro di consulenza a Roberto Mercuri, già braccio destro dell'ex presidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona, a sua volta nominato (2016) da Onorato nel Cda di Cin. […] 400mila euro vanno a partiti e altre entità: 10mila a Fdi, 200mila alla fondazione Open vicina a Renzi […]

Fabio Pavesi per affaritaliani.it il 14 aprile 2021. Dimagrire (e molto) per sopravvivere, ma soprattutto far pagare a banche e obbligazionisti i propri passi falsi. Sta tutto qui il piano di concordato preventivo in continuità presentato dalla Moby, la compagnia di traghetti della famiglia Onorato. Il passo del concordato è l’unica mossa inevitabile per scongiurare un crac ormai più che evidente. Solo nel 2019 Moby ha chiuso un bilancio terribile. Una perdita netta di 198 milioni su un fatturato di 271 milioni con un patrimonio netto andato in rosso per la bellezza di 145 milioni. E complice il Covid i dati (gli ultimi disponibili) a giugno del 2020 sono ulteriormente peggiorati. I ricavi del semestre sono crollati a 65 milioni con una perdita salita a 298 milioni e il patrimonio finito sottozero per la cifra monstre di 444 milioni. Un disastro da cui si potrà (forse) uscire solo con una cura shock. Il concordato prevede infatti la vendita della divisione rimorchiatori oltre a 5 traghetti della flotta. Ma ovviamente la cessione non è sufficiente a ripianare il maxi debito accumulato nel tempo che solo a livello finanziario vale 460 milioni, di cui 160 milioni in capo alle banche e 300 milioni sono il bond lussemburghese in scadenza nel 2023. Senza flussi di cassa quei 460 milioni di debiti finanziari non possono essere ripagati. E allora la famiglia Onorato non può che rifugiarsi nelle more del concordato chiedendo a banche e obbligazionisti di rinunciare a parte della propria esposizione. Un sacrificio che vale più della metà delle risorse concesse da banche e bondisti. Tra privilegio e debiti chirografari al ceto bancario dovrebbero tornare 73 milioni sui 160 di esposizione, mentre per i detentori del bond da 300 milioni dovrebbero essere rimborsati, se il piano avrà successo, solo 147 milioni. In totale su un’esposizione complessiva debitoria, oltre alle banche e ai bondisti di 536 milioni il piano di rimborso nel tempo dovrebbe garantire 255 milioni non di più. E’ il sacrificio che viene sempre chiesto ai creditori quando si propone un piano concordatario. Già ma come mai il più grande gruppo di navigazione italiano è finito in acque così basse? La famiglia incolpa della crisi la pandemia e la concorrenza spietata sui prezzi da parte del Gruppo Grimaldi. Ma la realtà è ben diversa. A far finire a gambe all’aria la compagnia di Vincenzo Onorato, più che il Covid e il mercato è stato un peccato veniale grave. Essersi pesantemente indebitato nel lontano 2015-2016 per rilevare il 100% di Cin, la Compagnia iIaliana di Navigazione,  che aveva rilevato l’ex Tirrenia in amministrazione straordinaria. Il peccato originale si chiama Leverage buy out, essersi cioè stra indebitati per acquisire l’ex Tirrenia e quindi quote di mercato. Un passo lungo della gamba molto avventato se letto a posteriori.

·        Parlamento: un Covo di Avvocati.

Bongiorno Italia di Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano il 24 aprile 2021. Per dire come funziona quella che spiritosamente chiamiamo “informazione”. Il Tempo riporta una dichiarazione di Salvini dopo il video di Grillo sulle accuse al figlio: “Qualcosina su come siano andate le cose mi ha detto il mio avvocato, dato che è lo stesso della ragazza che ha denunciato lo stupro, ovvero Giulia Bongiorno”. Né Salvini né Bongiorno smentiscono. Anna Macina, sottosegretario M5S alla Giustizia, pone la domanda che tutti si pongono: la Bongiorno, nella sua doppia veste di legale della ragazza e di Salvini, nonché di avvocata e di senatrice, ha spifferato notizie sul caso di Grillo jr. al suo cliente e leader che l’ha portata in Parlamento? Se così fosse, un conflitto d’interessi già enorme (un’eletta per rappresentare l’intera nazione che rappresenta tizio o caio) si moltiplicherebbe vieppiù, senza contare la questione deontologica degli eventuali segreti di una cliente rivelati a un altro cliente. In un Paese normale, tutti chiederebbero a Salvini e Bongiorno di chiarire l’imbarazzante situazione. Invece siamo in Italia e tutti attaccano la Macina, che si dovrebbe dimettere dal governo per aver detto l’unica cosa sensata in tutta la vicenda. Salvini tace. La Bongiorno chiede le dimissioni della Macina e minaccia di trascinare anche lei in tribunale per non si sa bene cosa, visto che la sua domanda è tipica dell’attività parlamentare, scriminata dall’insindacabilità. A quel punto, toma toma cacchia cacchia, arriva l’ineffabile ministra Cartabia, che ammonisce la sottosegretaria al dovere “istituzionale del massimo riserbo sulle vicende giudiziarie aperte”. Peccato che la Macina non abbia detto nulla sul processo a Grillo jr.: è il senatore Salvini che ha detto di sapere ciò che non dovrebbe grazie alla Bongiorno che non l’ha smentito. Intanto l’altro sottosegretario alla Giustizia, il forzista Sisto, deputato e avvocato di B. nel processo Escort, dichiara che il rinvio a giudizio di Salvini per Open Arms non sta in piedi perché “è impossibile pensare che abbia commesso tutto da solo”. Tifo da stadio per il neoimputato anche dai ministri Gelmini e Garavaglia e dai sottosegretari Durigon e Gava. Ma per loro non risultano moniti della Cartabia. Riavvolgiamo il nastro. Se Salvini ha detto la verità, la Bongiorno ha tradito il mandato legale, dunque dovrebbe dimettersi, se non da parlamentare, almeno da avvocata della ragazza, e querelare per diffamazione non la Macina, ma se stessa. Se Salvini ha mentito, dovrebbe dimettersi lui e la Bongiorno dovrebbe querelare lui, non la Macina. In attesa di sapere chi se ne deve andare e fra Salvini e la Bongiorno, gli unici che devono dare spiegazioni sono Salvini e la Bongiorno. E l’unica che deve restare al suo posto senza spiegare nulla è la Macina.

Avvisate Travaglio che Conte è un avvocato. Il Fatto denuncia il clamoroso “conflitto di interessi”. Ma scorda una particolare: anche il suo premier ideale è un avvocato...di Davide Varì su Il Dubbio il 26 aprile 2021. Ci sono volute settimane, forse mesi, e probabilmente è servito anche l’aiuto di qualche coraggioso 007, ma alla fine la verità è venuta a galla: il Parlamento italiano è un covo di avvocati. Lo scoop è arrivato dal Fatto quotidiano, il giornale di Travaglio che ha una visione delle cose talmente manichea da considerare la giurisdizione divisa in buoni a cattivi: da un lato i magistrati – i buoni naturalmente – dall’altro i cattivi, gli avvocati. E sì, il mondo in bianco e nero di Travaglio e soci vive di contrasti senza mediazioni e i loro profeti intingono sempre la penna nel fiele e nell’odio. E capita assai spesso che l’obiettivo di tanto “amore” sia l’avvocato, ovvero colui che si si ostina a difendere i diritti di chi è indagato pretendendo, pensate, il rispetto delle garanzie e della Costituzione.

Caro Travaglio, anche la Costituente era un covo di avvocati. Secondo "Il Fatto Quotidiano" la professione forense è la lobby dominante dell'attuale Parlamento: ha il 13%. Nessun record: nella Costituente raggiunse il 32,4. Giovanni Guzzetta su Il Dubbio il 27 aprile 2021. Con il consueto linguaggio asciutto, tipico del miglior giornalismo anglosassone, il Fatto Quotidiano del 25 aprile ci propone l’ennesimo scoop che non è uno scoop. Oggetto: il PdA, il partito degli avvocati (anzi degli “azzeccagarbugli” per citare letteralmente) che sarebbe il “vero partito di maggioranza nell’attuale Parlamento”. Interessante concezione quella di una maggioranza che rappresenta il 13% del totale. Ma anche a considerarla una maggioranza relativa (attributo che viene ovviamente omesso) siamo sempre, com’è ovvio, davanti all’uso di un’iperbole a effetto, atteso che, politicamente, ci sono vari partiti che superano per consistenza quella percentuale. Ma che vuol dire, si dirà, qui si parla della percentuale rispetto alle varie categorie professionali. Peccato che la Camera delle professioni non è prevista nel nostro ordinamento e, pur essendosene discusso in Assemblea Costituente, non fu mai varata anche perché, forse, ricordava troppo la Camera dei fasci e delle corporazioni. Ma anche considerando la questione in questa prospettiva e dunque dimenticando tutte quelle quisquilie e pinzillacchere come il divieto di mandato imperativo, il conflitto tra maggioranza e opposizione, la disciplina di partito e l’esplosività divisiva dei temi che riguardano la giustizia (e quindi anche l’avvocatura), veri e propri totem ideologici sui quali i partiti si scannano da decenni, mal tollerando qualsiasi dissenso al proprio interno… anche considerando tutto ciò, la riflessione del Fatto appare quantomeno allusiva e tendenziosa. Sul piano quantitativo e sul piano del merito. Sul piano del quantitativo lo scoop non scoop ci dice che è stato battuto qualsiasi record. Conclusione tratta, non da uno studio sistematico sulle varie legislature repubblicane dal 1948 a oggi, ma utilizzando come termine di paragone semplicemente la precedente (la XVII): oggi gli avvocati sono 132, allora erano 113. Notiziona! Peccato che se si fosse andati appena un po’ indietro si sarebbe scoperto che nella XVI legislatura gli avvocati erano 130 (dati di Italia Oggi 22 marzo 2013). Due in meno rispetto a oggi. È vero che nella trance agonistica di ispirazione olimpionica anche un secondo basta per stabilire un record, ma francamente una differenza di due parlamentari su quasi mille non pare una gran notizia. Per non parlare poi di quanto nefasta, se si guardano i numeri, dovrebbe considerarsi, con questo metro, la madre di tutte le assemblee parlamentari, quella Costituente che lavorò tra il 1946 e il 1948 a scrivere la Carta costituzionale, avendo tra i propri 556 componenti il 32,45 per cento di avvocati. Questi sono i dati che forniscono coloro che sul punto hanno fatto ricerche scientifiche, senza improvvisazioni giornalistiche (Cammarano F., Piretti M. S., I professionisti in Parlamento, in Malatesta M. – a cura di, I professionisti, Torino, Einaudi, 1996, p. 560), ricordando anche che nella I legislatura gli avvocati erano il 26 per cento alla Camera e il 36 per cento al Senato, nella II il 24 per cento alla Camera e il 30 per cento al Senato… e via discorrendo. Quanto al merito, lo scoop è ancora più deludente. Assimilare una professione a una corporazione senza il benché minimo accertamento empirico di ipotetiche convergenze granitiche sulla mera e bieca difesa degli interessi professionali significa semplicemente affidarsi agli stereotipi e solleticare, con una tipica strizzata d’occhio lievemente populista, gli umori del proprio lettorato. Sarebbe come dire appunto che i vari avvocati e giuristi che parteciparono all’Assemblea Costituente (uno per tutti Piero Calamandrei), per questo solo fatto, abbiano esercitato il proprio mandato con l’unica preoccupazione di tutelare la propria “casta” di appartenenza (consiglio a questo proposito nell’ambito della vastissima letteratura, la completa e approfondita voce dell’Enciclopedia Treccani su “I giuristi alla Costituente”, redatta da Enzo Cheli, costituzionalista e già Vice Presidente della Corte costituzionale). Nessun nega che il problema della rappresentanza politico-istituzionale debba confrontarsi con il tema degli interessi e dei conflitti di interessi (non solo professionali), problema delicatissimo per le democrazie contemporanee. Ma, a mio sommesso parere, farlo in maniera così rozza e sommaria non aiuta la causa che si vuol difendere, per affermare la quale, invece, bisogna, in ogni settore, agire con grande consapevolezza della complessità dei problemi, piuttosto che con la foia scandalistica e pruriginosa dei falsi scoop. Tanto più che, in questo campo, è proprio il caso di dire “chi è senza peccato…” con quel che segue.

Il Fatto ancora alla carica contro gli avvocati: «Azzeccagarbugli padroni del Parlamento». Non bastava l'accusa di essere "furbetti del vaccino": gli avvocati, ora, sono colpevoli di fare politica. Il Dubbio il 25 aprile 2021. Il giornale di Marco Travaglio ci ricasca. E se la prende di nuovo con gli avvocati, questa volta colpevoli di “occupare” il Parlamento e rappresentare la categoria più presente tra gli scranni di Palazzo Madama e Montecitorio. Un vero e proprio conflitto di interessi, si legge sul Fatto, perché quegli avvocati che scrivono e approvano leggi in Parlamento lo fanno quasi sicuramente – questo il sottotesto nemmeno troppo implicito – per favorire i propri clienti. E così dalle colonne del giornale di Travaglio, parte ancora una volta la crociata contro la separazione delle carriere, non quella tra pm e giudici, però, bensì quella tra avvocati e parlamentari. Costretti, dunque, a scegliere: o la professione o la politica. «Le elezioni del 2018 sono state una manna dal cielo per gli Azzeccagarbugli nostrani – si legge – gli avvocati eletti in Parlamento sono ben 132, 87 a Montecitorio e 45 a Palazzo Madama. Un record considerando che nella legislatura precedente (la XVII) erano 113. Non c’è altra professione che sia più rappresentata nelle due Camere: secondo un rapporto di inizio legislatura, a fronte dei 132 avvocati, ci sono 116 imprenditori, 114 impiegati mentre molto più in basso si posizionano gli ingegneri (21), sindacalisti (13) e gli operai (2)». «Molti di questi propongono, discutono, chiedono modifiche e votano leggi in materia di giustizia che, oggi o domani, potranno tornare utili nella difesa dei propri assistiti – continua l’articolo -. E per dare l’idea del potenziale conflitto d’interessi, basti pensare che la maggioranza dei parlamentari che siede nelle commissioni Giustizia, e quindi quelli più coinvolti nei provvedimenti sul tema, sono avvocati. A Palazzo Madama sono ben 17 su 24 (il 71%) mentre alla Camera 26 su 46 (il 57%).E proprio per questo che una legge per rendere incompatibili le professioni di avvocato e parlamentare non arriverà mai. E sì, che di tentativi in passato ce ne sono stati. Basti ricordare la proposta del 2003 di Giuseppe Fanfani per rendere incompatibili le cariche di avvocato e ministro e obbligando i parlamentari a scegliere tra le due professioni. Poi nel 2010 l’allora senatore Marco Follini scrisse una legge che impediva agli avvocati/parlamentari di difendere clienti privati in cause con lo Stato fino a quella dell’ex pm di Mani Pulite, Antonio Di Pietro (anno 2011) che prevedeva la secca incompatibilità. Tutte cadute nel nulla. In questa legislatura, chissà perché, non c’è alcuna proposta di legge che provi a risolvere questo conflitto d’interessi. Eppure la questione è regolata in molte democrazie occidentali. In Spagna è prevista l’incompatibilità, in Francia e negli Usa gli avvocati/deputati non possono difendere aziende o persone che hanno cause con lo Stato mentre in Germania il codice di condotta del Bundestag obbligai deputati a informare il presidente su ogni incarico con interessi contro lo Stato o la Pubblica amministrazione». Insomma, sarebbe solo la categoria degli avvocati quella che potrebbe approvare leggi ad personam. Ne sono immuni, a quanto pare, i magistrati, i medici, gli ingegneri e qualsiasi altra categoria che non abbia il peccato originale di trovarsi da quella che, per Travaglio, è di sicuro la parte sbagliata: quella degli imputati (tra gli altri). E così, dopo l’accusa di essere “furbetti del vaccino” (anche in quel caso i magistrati sono stati trattati con maggiore indulgenza, nonostante entrambi fossero stati inseriti nel piano vaccinale dall’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, anche lui avvocato), ora sono diventati un partito. «Che quella degli Avvocati in Parlamento sia una influente lobby è una favola a cui ormai crede soltanto Il Fatto Quotidiano – ha commentato con un post su Facebook Antonio De Angelis, presidente dell’Aiga -. Il “partito degli avvocati”, anche in un momento come questo, non riesce ad imporre misure a sostegno delle libere professioni, ed assiste inerte al depotenziamento sistematico della categoria in favore di altre. Non ho sentito, per esempio, nessuno dei 132 Colleghi parlamentari far notare alla ministra Cartabia che le tante Commissioni che ha istituto sono piene zeppe di magistrati e accademici, ma pochissimi sono i rappresentanti dell’avvocatura (si, i professori sono quasi sempre anche avvocati, ma in molti casi frequentano le aule di Tribunale con la stessa frequenza con cui io frequento corsi di danza moderna). Insomma, Caro Fatto Quotidiano, il “partito degli Avvocati” non esiste, e comunque se esistesse io non lo voterei».

·        Autenticazione delle firme per i procedimenti elettorali.

Oltre ai notai, segretari comunali e consiglieri comunali.

Autenticazione delle firme: referendum e ruolo sociale dell’avvocato. La norma introdotta dal Decreto semplificazioni introduce il potere di autenticare le firme dei procedimenti elettorali per tutti gli avvocati, anche non Cassazionisti. L'intervento del presidente di Aiga, Antonio De Angelis. Il Dubbio il 19 giugno 2021. Il decreto semplificazioni (d. l. n. 76 del 16 luglio 2020, convertito in legge con L. n. 12 del 2020) ha introdotto una importante novità che riguarda gli Avvocati, stabilendo all’a all’art. 16 bis che tutti gli iscritti all’Albo possano effettuare le autenticazioni delle firme in occasione dei procedimenti elettorali. La norma prevede che gli Avvocati interessati debbano semplicemente comunicare la loro disponibilità all’ordine di appartenenza. Già nel 2017 una disposizione avente carattere transitorio aveva attribuito la possibilità di autenticare le firme delle liste agli Avvocati, limitando però tale facoltà alle liste delle elezioni politiche 2018 e agli Avvocati abilitati al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori. La norma introdotta dal Decreto semplificazioni introduce invece il potere di autenticare le firme dei procedimenti elettorali per tutti gli Avvocati, anche non Cassazionisti. L’unica limitazione che viene posta è territoriale: potranno essere autenticate le firme limitatamente al territorio del distretto di cui fa parte il circondario di iscrizione. Si tratta di una opportunità importante per tutti gli Avvocati; la possibilità di autenticare le firme dei cittadini che intendono sottoscrivere una lista relativa ad un procedimento elettorale esalta infatti quel ruolo sociale dell’avvocato quale “guardiano” dei principi fondamentali della civiltà giuridica, garante del rispetto dei diritti costituzionali baluardo della democrazia. La prima occasione utile per esercitare questa forma di diritto/dovere civico è rappresentata dalla raccolta firme relativa ai 6 referendum in materia di giustizia, che si svolgerà nei mesi di luglio e agosto. I referendum costituiscono lo strumento più alto di democrazia diretta previsto dalla nostra Costituzione, ed è significativo che proprio su questioni che riguardano la giustizia gli Avvocati possano per la prima volta svolgere questa meritoria attività. Al di là del merito dei quesiti referendari (alcuni dei quali riguardano temi da sempre cari alla classe forense), l’Avvocatura tutta potrà impegnarsi direttamente, per consentire a tutti i cittadini di esprimersi su questioni di grande rilievo. Gli Avvocati hanno il dovere di rispondere positivamente a questa chiamata, per consolidare nella società il proprio ruolo.

Antonio De Angelis, Presidente dell’Associazione italiana giovani avvocati

·        Il Conflitto di interessi.

Fratelli d’Italia, Adolfo Urso era in affari con l’imprenditore inguaiato dagli 007. E adesso controlla l’intelligence. Il deputato di FdI presiede il comitato parlamentare sui servizi. Ma era in rapporti con un fornitore di velivoli in Iran e Libia, condannato grazie ai Servizi. Andrea Tornago su L'Espresso il 29 novembre 2021. Pezzi di ricambio di elicotteri. Giubbotti antiproiettile. Aerei adattabili all’uso militare. Incontri con alti funzionari della guida suprema della Repubblica Islamica dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei. E un contratto di collaborazione con una società coinvolta in un’inchiesta per traffico di materiale «dual use», dal doppio uso civile e militare, esportabile solo con specifiche autorizzazioni ministeriali. Sono i contenuti, che L’Espresso pubblica in esclusiva, di alcune lettere commerciali e contratti riconducibili alla Italy world services, società di cui è stato legale rappresentante fino al giugno del 2018 il senatore di Fratelli d’Italia Adolfo Urso, presidente del Copasir, il comitato parlamentare che controlla i servizi segreti.

Da striscialanotizia.mediaset.it l'11 novembre 2021. Negli ultimi giorni circola voce che il nuovo ad Rai Fuortes avrebbe tagliato diversi programmi già approvati da Salini. E che l'ex ad Rai avesse già approvato i palinsesti Rai Scoglio 24 si era già occupata. Ora Pinuccio approfondisce la questione e fa notare come alcuni dei programmi prima approvati e ora tagliati fossero prodotti dalla Stand by me, casa di produzione in cui lavorava Salini prima della nomina

Striscia la Notizia, bomba su Dario Franceschini: "Toh, proprio la sua amica". Un caso da 150mila euro l'anno. Libero Quotidiano il 06 ottobre 2021. Nel mirino di Striscia la Notizia, ci finisce - anche - Dario Franceschini. Dopo l'inchiesta del tg satirico di Canale 5 sulla Fondazione Scuola Beni e Attività Culturali, l’onorevole Daniele Belotti - componente della Commissione Cultura, scienza e istruzione della Camera dei deputati -, rende noto la redazione di Striscia, ha presentato un’interrogazione per far luce sull’istituto privato a partecipazione pubblica fortemente voluto dal ministro della Cultura Dario Franceschini. "Abbiamo presentato un’interrogazione al ministro Franceschini perché 23 milioni non sono pochi, soprattutto se rapportati all’attività e alla produttività della scuola: un corso in 5 anni con 17 specializzati formati. Neanche un super master ad Harvard o a Cambridge ha costi così elevati", ha spiegato Belotti ai microfoni dell’inviato Pinuccio, il tutto in un servizio che verrà trasmesso nella puntata di oggi, mercoledì 6 ottobre. Il deputato avanza anche delle perplessità sull’incarico da direttrice ricoperto da Alessandra Vittorini (la cui retribuzione dichiarata sul sito sarebbe di 150mila euro l’anno). "Con tutti gli esperti che ci sono in circolazione, il ministro Franceschini doveva proprio scegliere la sua amica, nonché moglie del suo compagno di partito David Sassoli?", conclude. Che imbarazzo per il piddino Franceschini...

(ANSA il 29 settembre 2021) - "Ho depositato oggi in commissione Finanze una interrogazione rivolta al Ministero dell'Economia e delle Finanze per portare alla luce il caso del commissario Consob Carmine Di Noia". Lo afferma Giovanni Currò (M5S), vicepresidente M5S della commissione Finanze della Camera.  "Di Noia ricopre un incarico di estrema all'interno della Commissione nazionale per le società e la borsa, deputata al corretto funzionamento dei mercati finanziari. Eppure, da fonti di stampa, sarebbe da poco stato assunto con nomina diretta dall'Università Luiss Guido Carli, da sempre vicina a Confindustria e da essa indirettamente influenzata. La particolarità risiede nel fatto che l'università avrebbe immediatamente messo in aspettativa Di Noia per consentirgli di terminare il mandato in Consob, in scadenza nel 2023, anno in cui scade anche la sua abilitazione da docente. Con un pizzico di malizia potremmo concludere che una università privata legata strettamente ad ambienti confindustriali abbia preparato un 'posto al caldo' per chi oggi veste i panni del controllore delle società attive nel mercato mobiliare italiano, molte delle quali aderenti proprio a Confindustria". "Nell'interrogazione segnalo a titolo informativo che Di Noia fu nominato commissario di Consob nel 2016, contestualmente alle sue dimissioni da presidente di Assonime, l'Associazione fra le Società Italiane per Azioni. Nulla di illecito, dato che il nostro Paese deve ancora dotarsi di una seria legge per contrastare il fenomeno delle 'porte girevoli' tra finanza e politica, ma un ulteriore elemento da porre all'attenzione del ministro Daniele Franco affinché valuti la portata del dossier e si esprima eventualmente per una revoca dell'incarico ricoperto oggi da Di Noia in Consob", conclude Currò.

Marco Zonetti per “VigilanzaTv.it” il 24 settembre 2021. Presi nel tourbillon della curiosità per il ritorno di Mauro Corona a #Cartabianca presentato da Bianca Berlinguer, fra i cui ospiti – come denunciato dal Segretario della Commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi – abbiamo anche visto un medico novax incappucciato, è sfuggito ai più l’interessante siparietto “tutto in famiglia” tra la conduttrice e il cognato Luca Telese, compagno della collega Laura Berlinguer – sorella di Bianca – dalla quale il giornalista ha avuto il figlio Enrico chiamato in onore dell’illustre nonno. La parentela è sottolineata in un post dal titolo “Cognati”, pubblicato su Facebook da Onofrio Dispenza, già Vicedirettore del Tg3 e del Gr. L’ospitata di Telese nel programma di Rai3 in prima serata è stata infatti occasione per la promozione del nuovo settimanale T.P.I. in edicola da questa settimana, del quale è divenuto vicedirettore. Primo numero che, come annuncia proprio Telese in diretta nazionale sulla Rai, ospita la sua “bellissima intervista” a Giuseppe Conte, che egli “ha avuto modo di seguire sul campo” scoprendolo un “piccolo fenomeno”. Un fenomeno perché Conte “rivendica anche con il beneficio del dubbio le scelte fatte durante il lockdown per salvare delle vite, ricevendo applausi dalla gente”. Cotale celebrazione dell’ex premier da parte di Telese non ci stupisce: ne ricordiamo gli interventi quale ospite di Otto e mezzo su La7 in strenua difesa del Governo Conte durante la crisi innescata da Matteo Renzi che poi ha portato all’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi. La cognata Berlinguer però non ci sta. Di fronte a una simile agiografia del leader del M5s è deontologicamente necessario intervenire, dato che siamo in periodo di par condicio elettorale in vista delle consultazioni del 3-4 ottobre prossimi. “Fenomeno che da noi non ha mai messo piede” obietta Bianca piccata, “ci tengo a sottolinearlo, non so perché”. Ah, ecco il neo di Conte, ecco il suo lato oscuro, ecco il suo rovescio della medaglia, svelato dal formidabile contraddittorio watchdog del Servizio Pubblico: Conte non è un fenomeno perché non è andato ospite di #Cartabianca. Mica per altro.

Marco Zonetti per "vigilanzatv.it" il 21 settembre 2021. A Rai1 si è appena chiuso il caso di Marco Ventura, capo autore di Uno Mattina (già membro dello staff di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, quindi portavoce dell'ex Presidente Rai Marcello Foa) recentemente nominato Consigliere per la Comunicazione della Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberta Casellati, dando vita a un possibile conflitto d'interessi segnalato all'Amministratore Delegato Rai Carlo Fuortes dal Consigliere di Amministrazione in quota Dipendenti Riccardo Laganà. "Un conflitto d'interesse grande come una casa", secondo il Segretario della Commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi. L'Ad Fuortes ha quindi proceduto a sciogliere il contratto di Ventura con Uno Mattina. Ora, sempre per quanto riguarda il contenitore mattutino di Rai1, VigilanzaTv apprende in anteprima di un altro caso forse analogo. Quello della scrittrice Paola Tavella, capo autrice di Uno Mattina nonché da anni collaboratrice della Ministra per il Sud e la Coesione Territoriale Mara Carfagna, fin da quando quest'ultima era Vicepresidente della Camera. Secondo la documentazione ufficiale istituzionale, Paola Tavella risulta infatti Consigliere del Ministro Carfagna a 25mila euro annui lordi fino alla scadenza del mandato governativo (quindi fino al 2023). Ed è al tempo stesso una dei tre capo autori esterni di Uno Mattina (con Cetta Meddi e la prezzemolina Claudia Manari, che lavora anche a Ore14 su Rai2) che, assieme a un quarto - interno - Romano Ciriaci, sono rimasti nel programma dopo la dipartita di Marco Ventura (ricordiamo che gli autori dello storico contenitore mattutino della Prima Rete diretta da Stefano Coletta, come segnalato da Riccardo Laganà, sono in tutto ben 21, con Ventura erano 22). Paola Tavella è peraltro autrice di Rai1 fin dal 2019, e precisamente fin dai tempi della prima edizione del programma Io e te con Pierluigi Diaco, nel quale la giornalista/scrittrice interveniva anche in video leggendo "la favola della buonanotte" in finale di puntata di Io e te di notte, e poi in uno spazio dedicato agli animali nella versione pomeridiana in onda nell'estate del 2020. La questione è la seguente: il suo incarico parallelo prima alla Camera dei Deputati e poi al Ministero del Sud può dare adito a un conflitto d'interessi, essendo Tavella autrice di un programma d'informazione del Servizio Pubblico e al tempo stesso collaboratrice di un Ministro, nonché personaggio di punta, di Forza Italia (specie in questo periodo pre-elettorale e con la corsa al Quirinale vicina)? Questo lo decideranno i vertici Rai. Come accadde per Marco Ventura, sempre il Consigliere di Amministrazione Rai in quota Dipendenti Riccardo Laganà - apprendiamo da fonti accreditate di Viale Mazzini - avrebbe infatti segnalato il caso del duplice incarico di Paola Tavella (a partire dal 2019), caso che è ora all'attenzione del settimo piano di Viale Mazzini. Come finirà? Vi terremo aggiornati. 

Francesco Furlan per repubblica.it il 7 settembre 2021. Imprenditore, sindaco di Venezia al secondo mandato, e da poche settimane leader di un movimento politico nazionale, Coraggio Italia, che punta a diventare la nuova casa dei moderati. In questa sua corsa tra Venezia e Roma ora Luigi Brugnaro deve difendersi da una serie di accuse di conflitto di interesse - "ridicole", dice lui  - che fino ai ieri facevano discutere solo Venezia e oggi invece diventano argomento di dibattito politico a livello nazionale. L'ultimo caso è quello del terreno dei Pili, una vasta area a ridosso del Ponte della libertà, l'ingresso a piazzale Roma e al centro storico della città dalla terraferma, di proprietà del Brugnaro imprenditore dove il Brugnaro sindaco ha intenzione di costruire un nuovo terminal d'accesso turistico. Si tratta di un'area che il Brugnaro imprenditore, fondatore dell'agenzia per il lavoro Umana, ha acquistato quindici anni fa, per circa 5 milioni di euro. Un'area di 40 ettari affacciata alla laguna che negli anni della grande Porto Marghera riceveva gli scarti inquinanti delle lavorazioni dell'Eni, e che da tempo è in cerca di una funzione, vista la prossimità con il centro storico. Tre anni fa, come aveva raccontato un'inchiesta della Nuova Venezia, la società proprietaria dell'area aveva aperto una trattiva per la vendita, poi però non andata a buon fine, con l'imprenditore di Singapore Ching Chiat Kwong, che nello stesso tempo stava trattando con l'amministrazione comunale l'acquisto di due palazzi storici: Palazzo Donà e Palazzo Papadopoli. Nel terreno dei Pili avrebbero dovuto trovare spazio alberghi e negozi, oltre ad alcune palazzine residenziali. La società proprietaria dell'area dei Pili è la "Porta di Venezia" della galassia Brugnaro: società inserita in un blind trust nel 2017, così come le altre società dell'Umana Holding, ma proprietaria di terreni su cui a decidere è il Comune. "Creare il blind trust è stato un gesto di responsabilità, sono stato il primo in Italia", ricorda spesso Brugnaro. "Certo, un blind trust che però", per citare una battuta che gira tra i suoi oppositori, "ci vede benissimo". Ora l'area dei Pili torna al centro della discussione per la volontà del Comune di realizzarvi uno dei terminal turistici che serviranno a garantire l'accesso a Venezia con l'obiettivo di decongestionare il Ponte della Libertà. Il terminal nell'area dei Pili nelle fasi di alta stagione dovrebbe arrivare fino a 240 bus turistici al giorno, spostando circa 10 mila persone. Garantendo nuova vita - e nuovo valore - ai terreni. La vicenda del terminal turistico ai Pili è stata raccontata lunedì in un lungo articolo del quotidiano Il Domani dal titolo "Le mani sulla laguna di Venezia" che ha messo insieme una serie di altri episodi in cui si intrecciano i rapporti tra l'imprenditore Brugnaro e il sindaco Brugnaro: ad esempio le nomine nelle società partecipate dove parte dei professionisti indicati dall'amministrazione arrivano dalle società dell'Umana Holding; o ancora la proprietà della Scuola della Misericordia, edificio usato recentemente da Dolce&Gabbana come quartiere generale per il fine settimane di sfilate in laguna; o le varianti urbanistiche di cui hanno goduto società sponsor della Reyer, la squadra di basket del sindaco. Stamattina Brugnaro ha deciso di rispondere all'inchiesta del Domani pubblicando un post su Facebook: "Una pagina vergognosa di un giornalismo meschino, ridicolo, offensivo, che prova a intimidire un potenziale avversario politico. Forse è il prezzo che una persona onesta deve pagare per provare a cambiare il Paese. Male non fare, paura non avere". Nessun riferimento però al merito delle questioni sollevate, di cui si continua a discutere. "Solo un attacco politico ora che è diventato un leader nazionale", fanno sapere dal suo staff, "le scelte dell'amministrazione sono pubbliche". Michele Zuin, assessore al Bilancio e coordinatore regionale di Forza Italia, parla di "Macchina del fango. Ho ben presente nella mia memoria degli ultimi 25 anni cosa succede quando un imprenditore scende in politica a livello nazionale". Nel frattempo però il caso Venezia è destinato ad arrivare in Parlamento: la senatrice Orietta Vanin (M5S) ha presentato un'interrogazione per chiedere al governo "verifiche sull'andamento dell'attività amministrativa" a Venezia. E anche per il Pd cittadino "il conflitto di interessi è clamoroso".  

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 3 settembre 2021. Siamo stati i primi, molti mesi fa e varie volte, a sottolineare come il Premio Biagio Agnes, ambìto riconoscimento giornalistico intitolato all'ex Direttore Generale della Rai scomparso nel 2011 e organizzato dalla Fondazione omonima che fa capo alla Figlia Simona Agnes, fosse l'apoteosi dell'autoreferenzialità. Un "premio internazionale a conduzione familiare", con i giurati che coincidono con i premiati (Antonio Polito, nell'edizione 2020) e una spartizione di fatto dei premi tra Rai (che trasmette televisivamente l'evento), Corriere della Sera (le cui firme e quelle della galassia editoriale RCS MediaGroup sono presenti in massa fra i giurati) e Il Sole 240re (house organ di Confindustria che patrocina il tutto). Con l'ingresso della Agnes nel Consiglio di Amministrazione Rai (scatenando per giunta un fiume di polemiche politiche inerenti alla defenestrazione di Giampaolo Rossi in quota Fratelli d'Italia), il tutto si è tramutato nell'apoteosi del conflitto d'interesse. Basti solo guardare l'invito alla conferenza stampa che introdurrà l'edizione 2021 del premio, come di consueto trasmesso su Rai1 — quest'anno precisamente sabato 11 settembre in seconda serata. Ci scuserete le ripetizioni, ma sono funzionali. Alla conferenza stampa interverrà la Presidente del Consiglio di Amministrazione Rai Marinella Soldi, che però — l'invito non lo dice — è anche Presidente Onoraria del Premio Biagio Agnes. Alla conferenza sarà ovviamente presente Simona Agnes, giurata del Premio Biagio Agnes e Presidente della Fondazione Biagio Agnes che organizza il Premio Biagio Agnes. E che da qualche mese è anche, come detto sopra, membro del Consiglio di Amministrazione Rai (l'invito lo omette). Ci sarà anche Gianni Letta, Presidente della Giuria del Premio Biagio Agnes, nonché consigliere fidato di Silvio Berlusconi e promotore della candidatura di Simona Agnes nel Consiglio di Amministrazione Rai in quota Forza Italia. Se poi aggiungiamo che in giuria del Premio Biagio Agnes c'è Aurelio Regina, partner di spicco della società svizzera Egon Zehnder che ha vagliato i curricula dei candidati al Consiglio di Amministrazione Rai, Fra cui quello della stessa Simona Agnes, insomma... c'è da avere le vertigini in un tale tourbillon di commistioni. Sarà interessante vedere i nomi dei premiati, vi aggiorneremo. Oltre a tutto ciò, abbiamo il caso più unico che raro di un membro del CdA della Rai che ha anche un programma in onda su Rai1 (presentato ancora una volta dai cari amici della Agnes Mara Venier e Alberto Matano) e, come se non bastasse, una seconda trasmissione in partenza su Rai2. Ovvero Check-Up, del cui ritorno sui teleschermi dopo quasi un ventennio (e diversi rifiuti da parte dei vari Dg che si sono avvicendati negli anni) abbiamo parlato per primi e a profusione, trasmissione ideata dal fu Biagio Agnes e prodotta dalla Fondazione Biagio Agnes che fa capo a Simona Agnes. Possibile che nessuno sollevi una benché minima obiezione su tutti questi conflitti d'interesse nella Tv di Stato pagata dal canone? Possibile che tutti trovino normale una tale situazione? L'Ad Carlo Fuortes cosa ne pensa? Ah, stavamo per dimenticarci che sarà anch'egli ospite del Premio Biagio Agnes e che quello sarà il suo "debutto in un programma di Rai1" in qualità di Amministratore Delegato Rai. A questo punto, consentiteci di dubitare che possa eccepire sulla situazione di cui sopra. Non il migliore dei debutti, in ogni caso.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 9 settembre 2021. La conferenza stampa di presentazione dell'edizione 2021 del Premio Biagio Agnes organizzato dalla figlia Simona Agnes (da qualche mese anche Consigliera di Amministrazione Rai), in onda sabato sera 11 settembre in seconda serata su Rai1, ha confermato la tendenza già da noi segnalata in passato. I premi sono di fatto spartiti perlopiù tra Rai, Sole 24 Ore (Confindustria), ovvero i patrocinatori del riconoscimento e Corriere della Sera/Rcs MediaGroup, che ha molte firme presenti in giuria. L'elenco dei premiati lo dimostra: premio per la carta stampata a Massimo Franco (Corriere della Sera) e premio per la Tv a Myrta Merlino (La7 di proprietà di Urbano Cairo, proprietario anche del Corriere). Per la fiction, premiata la serie Rai Il Commissario Ricciardi (con Lino Guanciale, originario di Avezzano come il Presidente di Giuria Gianni Letta, per stessa ammissione di quest'ultimo in conferenza "onde evitare sospetti di conflitti d’interesse"). Per il cinema Emilia Costantini (Corriere); per la divulgazione culturale Paolo Conti (Corriere). Per il giornalismo economico Fabio Tamburini (Direttore Sole 24 Ore) che è anche in giuria del Premio Agnes, quindi - come l'anno scorso con Antonio Polito - ancora una volta i giurati, in questo caso anche patrocinatori, si autopremiano. Per la Radio a Roberto Sergio di Rai Radio. Per il giornalista scrittore a Bruno Vespa (Rai, abruzzese come Letta, sempre per stessa ammissione di quest'ultimo e sempre "onde evitare il minimo sospetto di conflitto d’interesse). Per l'innovazione e sostenibilità Silvia Calandrelli di Rai Cultura con il programma Newton. Premiati anche la trasmissione Circolo degli Anelli (Rai) e Francesca Fialdini (Rai, nonché ex conduttrice del Premio Agnes), alla quale è stato assegnato il riconoscimento speciale per Fame d'amore. Durante la conferenza stampa, Mara Venier - da anni conduttrice del premio - ha poi ricordato la figura di Biagio Agnes come suo amico e testimone di nozze, nonché il rapporto familiare che la lega alla figlia Simona, così come al collega Alberto Matano, elogiato professionalmente dal Direttore di Rai1 Stefano Coletta assieme alla conduttrice di Domenica In. Fra un complimento reciproco e l'altro scambiato fra organizzatori, giurati, presidenti di giuria, premiati, direttori, vicedirettori e conduttori, la fiaba è stata guastata - almeno indirettamente - dal comunicato di Daniela Santanchè e Federico Mollicone, rispettivamente Senatrice e Deputato di Fratelli d'Italia nonché membri della Vigilanza Rai. Come annunciato qualche giorno fa dopo una nostra segnalazione rilanciata da Dagospia, i due parlamentari di FdI hanno presentato un quesito in Commissione, riguardo al "palese conflitto d'interesse che riguarda il consigliere d'amministrazione Rai, Simona Agnes". Precisando che: "Il conflitto di interesse riguarda la messa in onda su Rai1 del Premio Agnes, organizzato dalla stessa Simona Agnes, e su Rai2 del format Check-Up da lei ideato e scritto e prodotto dalla Fondazione Biagio Agnes. Due circostanze che violano apertamente il Codice Etico della Rai che i membri del CdA sono obbligati a rispettare". E ancora: "Si tratta di una situazione a dir poco imbarazzante, in cui un componente del CdA della Rai si trova ad essere riferimento contemporaneamente di due trasmissioni in onda su Rai1 e Rai2. Chiediamo, quindi, che i vertici Rai chiariscano questa circostanza, ma soprattutto che siano prese iniziative al fine di evitare la messa in onda di queste trasmissioni, prevedendone anche la sospensione". Come andrà a finire? Vi terremo aggiornati.

(Adnkronos il 28 luglio 2021) - ''Nello svolgimento delle mie funzioni presso Leonardo naturalmente mi asterrò dal partecipare a qualsiasi attività connessa alle materie concernenti la delega di governo attribuita a mio padre relativa allo Spazio e al Dipe''. E' quanto dichiara Simone Tabacci, figlio del sottosegretario Bruno, a seguito degli articoli apparsi tra ieri sera e questa mattina su alcune testate giornalistiche.

Leonardo: "Simone Tabacci assunto come quadro dopo selezione". (ANSA il 28 luglio 2021) - ROMA, 28 LUG - "In merito alle indiscrezioni riportate oggi da alcuni media, relative all'assunzione del dott. Simone Tabacci con la qualifica di quadro nell'ambito delle attività di Merger & Acquisition" Leonardo precisa con una nota: "In data 4 novembre 2020 l'azienda ha affidato a una società di recruiting esterna la selezione di uno o più profili con esperienza internazionale nell'ambito dell'M&A. Il processo selettivo ha portato alla individuazione di sette candidature in possesso dei requisiti richiesti. I colloqui avviati il 17 novembre 2020 hanno portato, attraverso successivi passaggi di selezione, alla scelta di due risorse da inserire nella struttura di Chief Strategic Equity Officer: nello specifico un dirigente e un quadro. Il dirigente è stato inserito in organico in data 15 marzo 2021 e il quadro (nella fattispecie Simone Tabacci) in data 1 luglio 2021". (ANSA)

DAGONEWS il 28 luglio 2021. Ieri, verso ora di pranzo, Bruno Tabacci è stato portato via in ambulanza da palazzo Chigi. Forse un calo di pressione o forse l'eccessiva gioia per l'assunzione del figlio a Leonardo, fatto sta che è stato necessario l'intervento dei medici. Chi c'è dietro la decisione di portare il rampollo Simone Tabacci a lavorare nel colosso della Difesa con uno stipendio inferiore a 100 mila euro? Per il quotidiano "Domani", la decisione è figlia dell'Ad Alessandro Profumo e del suo entourage. Quel che è certo è che Mario Draghi, di cui Tabacci padre è collaboratore e sottosegretario, non era stato neanche informato. E infatti a palazzo Chigi a qualcuno sono girati - e molto - gli zebedei. L'eterno Tabacci era già balzato agli onori della cronaca anche per la consulenza milionaria a Invitalia del fantastico Domenico Arcuri, concessa appena 10 giorni dopo la sua nomina a sottosegretario (10 marzo), a totale insaputa di Draghi, e per la scelta di chiamare come consulente l'ex ministro Elsa Fornero...

Estratto dell'articolo di Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 28 luglio 2021. Leonardo, il nostro colosso degli armamenti, qualche giorno fa ha assunto Simone Tabacci. Domani ha scoperto che non si tratta di un manager qualsiasi, ma del figlio di Bruno, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e braccio destro del premier Mario Draghi, che ha deleghe fondamentali per la programmazione economica del governo e ha voce in capitolo, come vedremo, anche sulla strategica partecipata di Stato. La decisione, a quanto pare, è stata presa dall’amministratore delegato Alessandro Profumo e dai suoi uomini più fidati, che […] hanno piazzato il 49enne nella divisione chiamata Chief strategic equity officier, oggi guidata da Giovanni Saccodato. Un ufficio-chiave della multinazionale, dove si coordinano tutte le partecipazioni e delle joint venture strategiche della spa romana di Piazza Montegrappa. […] Il conflitto d’interesse è infatti triplice: non solo Tabacci padre è onorevole di Centro democratico e tra i principali consiglieri economici di Draghi di cui è amico personale «dai primi anni ‘80» come lui stesso ha raccontato, ma quattro mesi fa ha ottenuto dal premier anche le deleghe alle politiche aerospaziali italiane. Un comparto fondamentale per l’ex Finmeccanica, curato dalla divisione dove è stato assunto il figlio di Tabacci. Non a caso Saccodato, che la guida, è presidente del cda di Thales Alenia Space e vicepresidente di Mbda e Telespazio.

[…] voci aziendali segnalano che, anche se il figlio del sottosegretario è entrato in azienda pochi giorni fa, la selezione del posto si sarebbe conclusa prima della caduta del Conte I, quando Bruno era semplice deputato (assai attivo nella ricerca di “responsabili” per salvare la maggioranza M5S-Pd) ma senza le deleghe pesanti che ha oggi con Draghi. L’entourage dell’ad non sembra preoccupato nemmeno dal fatto che nei palazzi sia notorio il rapporto antico tra Profumo e Tabacci senior, che pochi giorni fa erano insieme al workshop dell’Agenzia spaziale italiana. La stima tra i due è cementata da lustri di amicizia e rispetto reciproco, tanto che nel settembre del 2011 l’ex democristiano, durante un confronto alla festa di Alleanza per l’Italia di cui era animatore politico insieme a Francesco Rutelli, rivolse al banchiere parole al miele: «[…] Uomini come Alessandro Profumo, persona libera e indipendente, devono cominciare a dare una mano alla politica. Devi sporcarti le mani, questa è la sfida per uomini come te!». […] […] La vicenda dell’assunzione del figlio, però, potrebbe mettere in dubbio la necessaria terzietà dell’azione di governo nei confronti di una multinazionale strategica, i cui vertici dipendono direttamente dall’esecutivo. Per la cronaca la carriera professionale di Simone, che prima di entrare in Leonardo lavorava in Wimmer Financial (una banca d'investimento londinese […]) si è già intrecciata in passato con faccende politiche che avevano al centro il celebre papà. Era il 2011 e Bruno, al tempo assessore del Bilancio a Milano della giunta Pisapia, fu tra i protagonisti del merge tra la Sea, l’azienda che controllava gli scali di Malpensa e Linate, e il fondo privato F2i che acquistò le quote del comune meneghino. Anche allora qualcuno alzò un sopracciglio quando si scoprì che Simone era dirigente di Alerion, una società partecipata dal fondo F2i. Le polemiche scemarono però subito, quando Alerion spiegò ai media che Tabacci junior collaborava con loro dal lontano 2001, mentre l’assessore precisò come «mio figlio ha una certa età e totale autonomia, io non mi sono mai occupato delle sue cose». Probabilmente è vero, così come è probabile che Simone sarà un bravissimo quadro a Leonardo. Ma per il governo tutto e sottosegretario di Draghi le questioni di opportunità, nell’assunzione del rampollo, restano inevase.

Francis Walsingham - startmag.it  - ESTRATTO il 29 luglio 2021. “Un quotidiano a noi ostile ci ha fornito un assist formidabile”, si gongola in ambienti della Lega sulla notizia pubblicata due giorni fa dal quotidiano Domani che riguarda il figlio di Bruno Tabacci, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’aerospazio, assunto dal gruppo Leonardo attivo nell’aerospazio e difesa. “Ho fatto presente” al premier Draghi che il caso “non mi sembra di buon gusto”, ha detto ieri il leader della Lega, Matteo Salvini. Il partito di Salvini ha innescato in effetti una dirompente polemica dopo la notizia pubblicata da Domani rincarando la dose con una nota del responsabile Difesa del Carroccio: «L’assunzione del figlio del sottosegretario Tabacci nella Leonardo dell’ad Profumo è solo l’ultima provocazione di una lunga serie. Più che al mercato e alle sfide globali, Leonardo è impegnata a trovare una poltrona per gente del Pd come Minniti (presidente della Fondazione Med-Or) e Violante (presidente della Fondazione Leonardo) o per l’ex portavoce di Di Maio, Rubei. Uno scandalo dopo l’altro, un impegno costante per accontentare gli appetiti della sinistra. Profumo si dimetta», scandisce il deputato, Paolo Ferrari, responsabile dipartimento difesa della Lega e capogruppo in commissione Difesa. “Nella medesima dichiarazione – fa notare il Corriere della Sera – oltre a chiedere le dimissioni di Alessandro Profumo, alimenta nuovamente lo scontro tra la Lega e Tabacci, dopo che nei giorni scorsi Salvini aveva contestato la scelta del sottosegretario di indicare l’ex ministro Elsa Fornero per un incarico nel Consiglio d’indirizzo per la politica economica”. Inoltre sia dalla Lega che da Fratelli d’Italia si ricorda anche il caso dell’ex consigliere di Luigi Di Maio, Carmine America, nominato consigliere d’amministrazione di Leonardo già quando era presieduto da Gianni De Gennaro (lodato anni fa da Carmine America per il ruolo di presidente del Centro studi americani con cui Carmine America ha collaborato quando il Csa era diretto da Paolo Messa, editore di Formiche e Airpress, top manager di Leonardo e da sempre molto vicino a De Gennaro). Tra l’altro Messa, dopo essere stato sostituito tempo fa come direttore Relazioni Istituzionali Italia di Leonardo, si appresta ora a lavorare negli Stati Uniti per conto di Leonardo con un ruolo non ancora comunicato dall’azienda. Ma da ambienti del Movimento 5 Stelle non gradiscono l’immagine di un partito con addentellati rilevanti nel gruppo ex Finmeccanica. Alcuni senatori pentastellati, primo firmatario Elio Lannutti, hanno depositato un’interrogazione parlamentare in cui si chiede conto di un contratto fra il gruppo capitanato da Alessandro Profumo e la società di comunicazione Incontra di Enrico Cisnetto. “L’amministratore delegato di Leonardo S.p.A. Alessandro Profumo è genovese come Enrico Cisnetto”, scrivono i senatori pentastellati. Inoltre dai 5 Stelle trapelano altri sbuffi. Si fa soprattutto notare come anche personalità e professionalità vicine alla Lega siano state coinvolte dal gruppo della difesa e dell’aerospazio. Ad esempio il giornalista e intellettuale di destra, Pietrangelo Buttafuoco, vicedirettore della rivista Civiltà delle Macchine, edita dalla fondazione Leonardo che è emanazione del gruppo partecipato dal ministero dell’Economia, e l’analista di geopolitica, e consigliere scientifico di Limes, Germano Dottori, già collaboratore del leghista Raffaele Volpi quando era presidente del Copasir; Dottori fa parte del board della fondazione Med-Or presieduta da Minniti. Gli schizzi pentastellati, rovistando nel passato, rammentano che durante precedenti gestioni dell’ex Finmeccanica fu assunto anche un figlio dell’ex parlamentare del Pd, Nicola Latorre, già presidente della Commissione Difesa del Senato e ora direttore generale dell’Agenzia Industrie Difesa voluto dal ministro della Difesa, Lorenzo Guerini (Pd). “Pesa un precedente, però – ha fatto notare oggi La Stampa – Già dieci anni fa, quando Tabacci senior era assessore del Bilancio a Milano nella giunta di Giuliano Pisapia, il figlio Simone era dirigente di Alerion, società partecipata dal fondo F2i. Tabacci guidò l’operazione che portò proprio F2i ad acquistare dal Comune le quote di Sea, l’azienda che controllava gli scali di Malpensa e Linate. E di fronte al conflitto d’interessi emerso si spiegò: «Mio figlio ha una certa età e totale autonomia, io non mi sono mai occupato delle sue cose»”.

Conte e i silenzi grillini sull'assunzione del figlio di Tabacci. Luca Sablone il 29 Luglio 2021 su Il Giornale. Come mai l'ex premier e il Movimento 5 Stelle non commentano la vicenda? "La selezione si è conclusa quando c'era la ricerca dei responsabili per salvare Conte". Se il Movimento 5 Stelle fosse ancora quello degli anni duri e puri contro la casta e le poltrone, per domani sarebbero state già programmate manifestazioni in tutte le piazze d'Italia. E invece, almeno per il momento, i grillini e il loro leader in pectore Giuseppe Conte hanno preferito tacere in merito al caos che si è creato sull'assunzione del figlio di Bruno Tabacci. Il 49enne Simone può vantare ora di essere stato inserito in organico come quadro, dal primo luglio 2021, nella divisione chiamata Chief strategic equity officier di Leonardo. Ma a cosa è da ricondurre il mutismo del M5S? Anche se il figlio di Tabacci è entrato in azienda pochi giorni fa, la selezione del posto si sarebbe conclusa prima della caduta del governo Conte. Il che è stato confermato proprio da Leonardo: in una nota viene spiegato che il 4 novembre 2020 l'azienda ha affidato a una società di recruiting esterna la selezione di uno o più profili con esperienza internazionale, per poi avviare i colloqui dal 17 novembre. Dal punto di vista temporale, Tabacci era semplicemente un deputato senza le deleghe "pesanti" che ha oggi con l'esecutivo Draghi. Il giornalista Emiliano Fittipaldi ha fatto tuttavia notare un dettaglio di non poco conto. "Bruno era assai attivo nella ricerca di 'responsabili' per salvare la maggioranza M5S-Pd", si legge nell'articolo che porta la sua firma. Va ricordato infatti che, prima dell'approdo di Mario Draghi a Palazzo Chigi, l'avvocato Conte ha provato a tenersi stretto la poltrona provando a puntare sui "pontieri europei". Un tentativo che dal punto di vista politico si è rivelato del tutto fallimentare. A denunciare l'immobilismo del Movimento 5 Stelle sul tema è stata la Lega. Massimo Candura, vicepresidente in commissione Difesa a Palazzo Madama, ha sottolineato come a oggi Enrico Letta e Giuseppe Conte - sempre pronti per prendere le distanze e commentare le mosse di Matteo Salvini - non hanno ancora proferito parola: "Nella grottesca vicenda dell'assunzione del figlio di Tabacci in Leonardo, ciò che colpisce è l'assoluto silenzio del Pd e dei 5 Stelle rispetto a quello che pare un conflitto d'interessi in piena regola. Un vuoto assordante e per certi versi imbarazzante". La questione relativa all'assunzione del figlio di Tabacci è stata toccata anche nel corso dell'incontro tra Salvini e Draghi: il leader del Carroccio ha fatto sapere che nel faccia a faccia ha detto al presidente del Consiglio che la vicenda Leonardo-Tabacci "non mi sembra di buon gusto". All'ex ministro dell'Interno non è andato giù neanche il ritorno di Elsa Fornero: "Non mi è piaciuto che sia stata presa come consulente dal sottosegretario Tabacci. Poi peraltro, io non commento vicende familiari, ma emerge che una grande azienda di Stato come Leonardo abbia appena assunto il figlio di questo sottosegretario che riprende la Fornero e anche Arcuri".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri.

Così lo Stato ha finanziato le iniziative musicali di Alvise Casellati, figlio della presidente del Senato. Per un filmato visto da poche decine di persone, una sorta di prove generali di un concerto, l’Istituto italiano di cultura di New York ha speso 30.000 dollari per pagare i cantanti del maestro. Il direttore Finotti: “Omaggio a Caruso in collegamento col ministero e il Comitato del centenario”, ma entrambi smentiscono. Il ruolo del direttore d’orchestra nei contratti dei suoi soprani e del suo tenore. Carlo Tecce su L'Espresso il 27 luglio 2021. Finalmente lo Stato è riuscito a sovvenzionare le attività di un artista musicale di rapida e fulgida carriera che in un decennio si è formato e si è consacrato nei più prestigiosi teatri d’opera d’Italia: Alvise Casellati, il direttore d’orchestra, il figlio di Maria Elisabetta Alberti Casellati, la presidente del Senato. Con un investimento di oltre 30.000 dollari, attraverso l’Istituto italiano di cultura di New York, lo Stato si è conquistato il merito e l’onore di finanziare non un concerto, quello è ancora un’aspirazione, ma le prove generali di un concerto del maestro Casellati e dei suoi cantanti. Il filmato è ancora disponibile sulla pagina dell’Istituto su Youtube e ha già deliziato qualche decina di appassionati. Ogni anno da quattro anni, ben sostenuto da diverse multinazionali italiane, il maestro Casellati si esibisce a New York oppure a Miami, davanti a un pubblico non pagante, con un classico repertorio italiano, brani di Giacomo Puccini, Giuseppe Verdi, Gaetano Donizetti, Gioachino Rossini. La manifestazione, organizzata da «Central Park Summer Concerts» di cui Alvise è presidente, si intitola «Opera italiana is in the air». Quest’anno il maestro Casellati ha omaggiato la rinascita dopo la pandemia e il tenore Enrico Caruso nel centenario della scomparsa. Così l’Istituto italiano di cultura di New York, che dipende dal ministero degli Esteri, si è fiondato sull’evento. Il direttore Fabio Finotti, alla vigilia del concerto che si è tenuto il 28 giugno a Central Park, ha ospitato nella sede dell’Istituto un’ora e mezza di lezione a imprecisati allievi del maestro Casellati con i soprani Gabriella Reyes e Jennifer Rowley e il tenore Stephen Costello. Il gruppo ha intonato un paio di arie e il maestro Casellati ha insistito parecchio con la giovane Reyes sull’esigenza di non far vibrare troppo la voce su «Oh mio babbino caro» come ha insegnato Maria Callas. Poi unanime commozione per «Core ‘ngrato». Quando L’Espresso ha contattato l’Istituto italiano di cultura di New York, il direttore Finotti ha rivendicato la sua impresa, cioè di aver ottenuto «senza il versamento di alcuna somma» che il concerto venisse dedicato a Caruso, «il tutto in collegamento con il ministero della Cultura e col comitato Caruso ivi insediato per celebrare il centenario della morte del tenore che - come lei sa - è un'icona dell'italianità negli Stati Uniti». Chi non sapeva, però, erano proprio il ministero della Cultura e il comitato Caruso ivi insediato. E non li si può biasimare. Poiché il programma ufficiale per le celebrazioni di Caruso è stato presentato al teatro San Carlo di Napoli il 6 luglio con il ministro Dario Franceschini e Franco Iacono, presidente del comitato. «Noi non c’entriamo nulla con New York. Ci hanno soltanto chiesto l’utilizzo del nostro logo e non me ne sono neanche occupato io», racconta Iacono, già deputato socialista e assessore regionale. Finotti ha sempre quasi confermato e quasi negato una partecipazione economica. Ha quasi risposto. Finché L’Espresso ha chiesto se l’Istituto avesse utilizzato del denaro pubblico per registrare quella lezione – viene chiamata «Masterclass» – in cui il direttore Finotti siede accanto al concittadino maestro Casellati (entrambi sono di Padova) e Reyes e colleghi scaldano le corde vocali prima del concerto di Central Park. A quel punto Finotti ci ha comunicato, in terza persona, di essere in congedo e di rivolgerci alla segreteria dopo il 22 agosto. Per fare chiarezza, prima che il video raggiungesse le cento visualizzazioni in trenta giorni, L’Espresso ha ricavato le informazioni in altro modo. E dunque l’Istituto italiano di cultura di New York, a parte i costi fissi per le riprese di Awen Films, ha speso 30.000 dollari per ingaggiare Reyes, Rowley e Costello. Una cifra considerevole per la prestazione artistica dei cantanti e per le risorse di solito utilizzate. In passato per un concerto dal vivo, durante il mandato di Giorgio Van Straten, l’Istituto ha impiegato non più di 1.500 dollari.

Rowley e Costello hanno fama internazionale e perciò si sono divisi gran parte dei compensi, mentre Reyes si è accontentata di 5.000 dollari per un intenso ripasso di «Oh mio babbino caro». Alessandro Ariosi di Ariosi Management è l’agente del soprano Rowley e anche del maestro Casellati (non retribuito per la lezione). Stavolta Ariosi, come i rappresentanti di Costello, non ha dovuto gestire complesse trattative o pratiche burocratiche. Perché l’Istituto italiano di cultura di New York si è riferito a Casellati per i contratti dei suoi cantanti. Basta poco, un sorriso. Viva Caruso: «Era lu tiempo antico/pe mme lu paraviso/ca sempre benedico/pecchè cu nu surriso/li bbraccia m’arapive».

Renzi e i suoi fratelli: sono 196 parlamentari con il doppio lavoro tra aziende e spa. Zan è proprietario e amministratore della società che gestisce l’evento del Pride Village di Padova, Bonifazi è in una società immobiliare con Davide Serra. Il meloniano Urso siede in commissione Affari esteri ed è socio con il figlio di una società che si occupa di internazionalizzazione delle imprese. La forzista Bernini è ancora nel cda di una società di armi. Ecco i casi più eclatanti. Antonio Fraschilla e Carlo Tecce su L'Espresso il 3 maggio 2021. Matteo Renzi fa tendenza. Non fra gli elettori, ma fra i parlamentari col doppio lavoro, la doppia poltrona e, a volte, il doppio stipendio. Come ha raccontato L’Espresso, il conferenziere a ingaggio ha appena inaugurato la Ma.Re, una società di consulenza che, con modestia, porta le sue iniziali. Però di Renzi n’è pieno il Parlamento: 196 parlamentari durante la legislatura hanno avviato imprese o assunto cariche in consigli di amministrazione oppure, semplicemente, non hanno mai sospeso i loro affari. Siccome non ci sono limiti, ci si muove senza limiti. In Italia non ci sono norme precise e rigide. Il Senato non prescrive nulla. La Camera ha un timido codice di condotta. Il Gruppo di Stati contro la corruzione, il cosiddetto organismo Greco del consiglio d’Europa, ha appena consegnato un rapporto molto critico a Palazzo Chigi: «Ci si rammarica che le iniziative concrete che erano state impostate dalla precedente legislatura sui conflitti di interesse non abbiano avuto seguito. Le autorità italiane fanno solo riferimento a una bozza di modifica della legge sui conflitti di interesse attualmente in discussione alla Camera». Si tratta del disegno di legge Fiano-Boccia, impantanato da mesi nelle commissioni a Montecitorio. La norma prevede «ulteriori casi di ineleggibilità e incompatibilità per i parlamentari sul fronte dell’attività privata anche se svolta all’estero e sulle partecipazioni societarie e azionarie anche in srl e aziende non solo dirette ma anche di familiari». E poi si demanda all’Autorità per la concorrenza, cioè all’Antitrust, il compito di controllare il rispetto della norma e irrogare eventuali sanzioni «fino alla decadenza del parlamentare in questione». Vincoli severi e perciò ancora in bozza. Il Greco ha chiesto, inoltre, altri interventi sui conflitti di interessi dopo la carriera parlamentare. Roma indugia perché i politici indugiano. In fondo conviene, a chi ha uno stipendio, ritrovarsene due o tre. E partendo da sinistra a destra o viceversa, passando per il centro, non ci sono differenze. Ecco un piccolo campionario di parlamentari-imprenditori-consulenti. Il terzetto Francesco Bonifazi, Federico Lovadina, Emanuele Boschi avanza sempre compatto. Bonifazi è avvocato e senatore di Italia Viva, un irriducibile renziano, tesoriere di Iv come lo fu nel Pd con Renzi segretario. Lovadina è avvocato e presidente di Toscana Energia e del gruppo Sia (pagamenti digitali), due aziende di carattere pubblico. Boschi è commercialista e fratello di Maria Elena. Oltre a condividere lo studio legale Bl, Bonifazi, Lovadina e Boschi sono soci con pari quota al 27 per cento di Lbr servizi, a sua volta presente con lo 0,38 per cento nel capitale di Homepal, l’agenzia immobiliare interamente su internet lanciata da Andrea Lacalamita, ex dirigente di Unicredit e Mediobanca. Homepal ha un paio di anni e già fattura 2 milioni di euro. Ha un futuro splendente, tant’è che ci hanno speso migliaia di euro anche la Banca Bper e il finanziere Davide Serra, l’amico e donatore di Renzi. Adesso ci sono Renzi e i renziani, un tempo c’era il conflitto di interessi di Silvio Berlusconi che ha assuefatto gli italiani. Per rinfrescare quel disappunto un tempo assai vivace, va rammentato che a Palazzo Madama siedono tre senatori che fanno parte anche del consiglio di amministrazione di Fininvest, la cassaforte della famiglia Berlusconi: Adriano Galliani, Niccolò Ghedini e Salvatore Sciascia. Invece la senatrice Anna Maria Bernini, capogruppo forzista a Palazzo Madama, è al secondo triennio nel cda di Benelli armi del gruppo Beretta che, per l’appunto, fa armi e munizioni da caccia e da guerra anche per l’esercito italiano. Ci si abitua a non indignarsi più. L’ha capito il deputato leghista Dario Galli. Nel governo gialloverde di Giuseppe Conte fu viceministro allo Sviluppo economico. Dopo una lunga istruttoria, l’Antitrust sancì che le cariche societarie di Galli erano incompatibili con l’incarico di governo. Il governo gialloverde, però, non esiste più, ma Galli conserva la presidenza di Ticino Holding, il ruolo di consigliere delegato e azionista al 50 per cento di Ticino Plast che, come s’intuisce, fabbrica prodotti in plastica. Neppure il senatore Andrea Marcucci, ex capogruppo del Pd, si è mai preoccupato della distanza fra i suoi affari di famiglia e i suoi incarichi politici. Marcucci è ancora consigliere di Kedrion, l’azienda farmaceutica di famiglia di cui Fsi Investimenti, controllata da Cassa depositi e prestiti, cioè dallo Stato, è un importante azionista. Anzi Marcucci ha varato un’altra impresa un paio di anni fa: si chiama Ambrosia e vende all’ingrosso bevande alcoliche. La svolta meridionalista di Matteo Salvini è sublimata dalla travolgente passione per i panzerotti pugliesi. I panzerotti pugliesi sono il suo cibo di conforto - ne fece una scorpacciata dopo una sconfitta del suo Milan nel derby con l’Inter - e la traiettoria filosofica del suo partito. Lui li mangia, altri ci investono. I deputati Massimiliano Capitanio, Giulio Centemero e Alberto Ribolla hanno acquistato un po’ di azioni di “I love panzerotti”, un’azienda americana formata da una coppia di cugini lombardi, Angelo Magni e Giovanni Bonati. I tre deputati leghisti, tra cui il tesoriere Centemero, hanno deciso di aiutare “I love panzerotti” perché utilizza unicamente prodotti pugliesi, coinvolge imprenditori lombardi e assume personale italiano. E in più i panzerotti si annaffiano con la birra Elav di un birrificio indipendente bergamasco per un pasto totalmente leghista a New York e Miami. Dopo l’uscita di Salvatore Caita dal gruppo, il deputato irpino Michele Gubitosa è l’imprenditore per eccellenza dei Cinque Stelle. Gubitosa è proprietario dell’azienda di informatica Hs Company. Ogni anno a Padova d’estate si tiene il Pride Village. «Il più grande evento Lgbt+ d’Italia», specifica con orgoglio Alessandro Zan, che si definisce, in ordine, fondatore del Padova Pride Village, attivista Lgbt+ e deputato della Repubblica. Com’è noto l’onorevole democratico Zan è il relatore del ddl Zan, il disegno di legge contro l’omofobia, la transfobia, la misoginia e l’abilismo, già approvato in prima lettura alla Camera e contrastato dalle destre al Senato. Questo, invece, non è noto: Zan è azionista di maggioranza col 52 per cento e amministratore unico di Be proud srl, la società a responsabilità limitata che organizza concerti, spettacoli e dibattiti nei tre mesi del Pride Village alla fiera di Padova. Be proud fu aperta nella primavera del 2015 alla vigilia dell’ottava edizione, mentre Zan, già assessore comunale di Padova, era deputato di Sel di Nichi Vendola. «La Be proud è una società di scopo che gestisce solo il Pride Village a Padova. Io non ho alcun compenso e», precisa il deputato del Pd, «non c’è alcun ritorno economico. Tutto quello che incassa lo reinveste e quindi non fa alcun tipo di utile. La società è nata perché l’Arcigay non poteva seguire la gestione del Village per motivi fiscali». Be proud ha impiegato 23 persone e ha dichiarato ricavi per 1,049 milioni di euro nel 2019 e si tratta, soprattutto, dei biglietti d’ingresso. Non riceve contributi pubblici, ma il comune di Padova finanzia alcune associazioni e alcuni appuntamenti del cartellone del Village. La società Bithouseweb si occupa di comunicazione per il Pride Village da sempre e ha una quota del 24 per cento in Be proud. A differenza di Be proud, Bithousweb non lavora soltanto per il Pride Village e i suoi amministratori sono ben retribuiti. Zan non guadagna un euro dal Pride Village e assicura che si è intestato la società per generosità: di fatto, però, i conti e le scelte del Pride Village, un potere, dipendono completamente da Be proud di cui Zan è proprietario e amministratore e dai suoi soci di Bithousweb. Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia, è la spalla del giovane figlio Pietro nella società Italy World Services (Iws) che svolge «attività di consulenza e assistenza a professionisti e imprese, pubbliche e private, per raggiungere il mercato internazionale». Papà Adolfo ha il 31 per cento, il figlio Pietro il 69. Per sette anni viceministro con delega al commercio estero negli ultimi governi di Berlusconi, dunque competente del settore, Urso ha fondato Iws nel 2013 quando non venne candidato dopo la rottura fra Gianfranco Fini e l’ex Cavaliere. Adesso è membro della commissione Esteri e vicepresidente del comitato che vigila sui servizi segreti (Copasir), ma non ha lasciato la società di famiglia: «Nel 2013 non ero più in Parlamento né avevo ancora il vitalizio. Non ho chiesto un posto pubblico e mi sono reinventato nel privato. Quando nel 2017 ho compiuto 60 anni e ho iniziato a ricevere il vitalizio, ho smesso di avere ruoli operativi in questa società e non ho più ricevuto compensi. Nel 2018 sono stato rieletto e continuo a mantenere solo una piccola quota. Oggi non ho alcuna incompatibilità perché non svolgo alcuna attività operativa. E le dico di più: anche se l’avessi non sarebbe incompatibile. Sentite, qui tutti vanno alla ricerca di incarichi pubblici, io quando non ero più parlamentare cosa dovevo fare? Ho seguito la legge: mi sono dimesso dal governo Berlusconi e dopo tre anni ho fondato Iws». Tutti stanno un po’ di qua e un po’ di là. Un po’ attentamente in aula e un po’ distrattamente in cda. Nessuno si sente operativo. Di sicuro, molti si avvertono indispensabili.

Trasparenti ma non troppo: il posto in commissione va alla sorella di Giorgia Meloni. Carlo Tecce su L'Espresso il 4 giugno 2021. Fratelli d’Italia ha ottenuto la presidenza dell’organo che deve indagare sul caso delle assunzioni in regione Lazio di persone vicine al Pd. E la consigliera Chiara Colosimo ha ingaggiato Arianna Meloni come responsabile della segreteria. Fratelli d’Italia ha appena ottenuto la presidenza della commissione trasparenza che deve indagare sui concorsi e le assunzioni nella Regione Lazio dell’ex segretario dem Nicola Zingaretti. Come prima cosa, il consigliere/presidente Chiara Colosimo - si presume per indagare meglio sulle magagne del Pd - ha deciso di nominare responsabile della sua segreteria Arianna Meloni, da vent’anni collaboratrice dei gruppi regionali di centrodestra di ogni declinazione (cioè da An a Pdl fino a Fdi) e soprattutto sorella del leader Giorgia Meloni e moglie del deputato Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fdi alla Camera. Siccome la vicenda non riguarda la trasparenza, Colosimo ha spiegato la sua originale idea con sincerità: “In quel ruolo, per il mio lavoro in commissione, ho bisogno di una persona esperta e di fiducia. E chi meglio di Arianna Meloni, una precaria che va avanti con contratti annuali e però conosce alla perfezione i meccanismi della Regione Lazio?”. In effetti, è coerente. Giovedì pomeriggio l’ingaggio del responsabile della segreteria della commissione trasparenza era in forma anonima al primo punto dell’ordine del giorno. I consiglieri hanno votato l’istituzione del posto senza rivelare l’identità dell’occupante. Non molto trasparente. Fra gli oltre 85.000 dipendenti a tempo determinato o indeterminato della Regione Lazio, di sicuro Arianna Meloni è la più adatta e la più vicina al pensiero, e dunque all’azione, di Fratelli d’Italia. Che per una volta, questa volta, si può chiamare Sorelle d’Italia.

Claudio Antonelli per “La Verità” il 24 luglio 2021. Buone notizie da Bruxelles. L'Aiad, la federazione delle aziende italiane per l'aerospazio e la difesa, è stata riammessa nel comitato tecnico che si occuperà dei fondi europei per la Difesa. Si parla di un budget complessivo di 7,9 miliardi di euro. La notizia della riammissione arriva, come dice il termine stesso, a distanza di tre giorni da quella dell'esclusione, riportata dalla Verità. O meglio l'unica cosa certa, lo scorso mercoledì, era che l'associazione che rappresenta le Pmi italiane non fosse presente nella lista del comitato al termine del bando di gara. Dai vertici dell'associazione La Verità ha appreso che non era stata fatta domanda perché le federazioni non avrebbero dovuto partecipare. Invece le equivalenti dell'Aiad francese e tedesca si erano piazzate. A quel punto la stessa associazione guidata da Guido Crosetto ha chiesto l'intervento del nostro ambasciatore presso Bruxelles, Pietro Benassi, per chiedere il posto spettante all'Italia. A quanto risulta alla Verità, nella missiva di lamentela si faceva espressamente menzione al termine esclusione. Quale sia stato veramente il motivo della non presenza non sembra più essere un problema. Ieri l'impasse è stato superato. L'attivismo di Crosetto che, come lui stesso ha comunicato, ha coinvolto anche Paolo Gentiloni e le spettanti forze del governo, è riuscito a colpire nel segno. E a riportare il sistema Italia dentro a un comitato che avrebbe corso il rischio di pendere verso Francia e Germania. Per carità, c'erano già anche i colossi come Leonardo, Fincantieri, Iveco e Avio, a dire la loro. Ma è fondamentale avere le medie aziende a questi tavoli. Essere presenti come associazione significa spalmare il più possibile la tecnologia lungo la penisola. Siamo felici della celere svolta e adesso tocca non solo a Crosetto ma anche a tutta la politica monitorare che gli equilibri europei e le proporzioni tra Stati vengano sempre tenuti vivi e rispettati. L'aver pubblicato la notizia mercoledì non solo è parte del lavoro di un giornalista, ma anche il modo per tenere alta l'attenzione della politica. Spiace essere accusati di godere di probabili esclusioni da tavoli Ue. È proprio il contrario. Il sistema Italia va sostenuto sempre e in ogni caso. In particolare il settore della Difesa contribuisce all'apporto di tecnologia avanzata e contribuisce con importanti ritorni sul Pil. Invece è troppo spesso sottovalutato o ignorato dai media nazionali e da intere fette di partiti. Per non dire di quei movimenti che invece lo boicottano apertamente. Bene che Crosetto sia stato sostenuto nell'intento. Ora prosegua. Come sempre la corsa inizia quando si arriva a Bruxelles. D'altronde ci sono numerosi progetti congiunti che accompagneranno il Continente nei prossimi dieci anni e ci sono le sfide di lunghissimo termine. Il mondo militare va verso l'intelligenza artificiale e l'Iot. Campi dove la Cina ha vantaggi di diversi anni e la possibilità di dirottare enormi risorse pubbliche. A differenza dei budget stringati dell'area euro.

DAGOREPORT il 3 giugno 2021. L’altro giorno Ernesto Galli della Loggia, in un fondo sul Corriere, ha rilanciato la pregiudiziale antifascista contro Fratelli d’Italia: ‘’Se la destra di FdI vuole davvero governare il Paese, deve dire parole chiare sull’incompatibilità tra fascismo e sistema democratico-liberale. Lo richiedono la nostra storia, i principi della nostra Costituzione, le alleanze e le amicizie internazionali che vogliamo mantenere. Lo richiede la possibilità di diventare domani classe dirigente del Paese. È su questo terreno che Fratelli d’Italia è chiamata a misurarsi”. E pronta è arrivata la replica di Guido Crosetto. In un’intervista a ‘’Libero’’ ha spiegato che FdI è un partito nuovo, che mai ha flirtato con gli estremisti di destra. “A parte il fatto che chi parla di fascismo nel 2021 sovrappone l’ideologia col giudizio storico e sociale su un periodo drammatico, FdI nulla ha a che fare col fascismo. Siamo un partito nuovo. Non c’è nessuno, qui, che pensa che il fascismo possa essere punto di riferimento cultural-politico”. E poi ancora Crosetto ha sottolineato che “perfino quando FdI era all’1%, sul crinale della sopravvivenza, nessuno ha mai accettato coinvolgimenti con estremisti… e il nostro candidato sindaco a Roma, Michetti, attaccato soltanto per aver detto che il saluto romano viene prima del fascismo mi parte un’assurdità…”. E qui il gigantesco Crosetto, 57 anni, da Cuneo, nato politicamente democristiano, poi berlusconiano e infine fondatore di Fratelli d’Italia, quindi tutor, braccio destro e deus ex machina di Giorgia Meloni, che si assegnò in modalità Oscar Giannino una laurea in Economia e Commercio mai conseguita, continua a sbattere contro un conflitto di interessi grande quanto Montecitorio. Perché nessuno si chiede come fa il buon Guido a militare in un partito e contemporaneamente a ricoprire il ruolo, lautamente retribuito, di presidente dell’AIAD, la Federazione, membro di Confindustria, che rappresenta le Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza. E che accoglie nel proprio ambito la quasi totalità delle imprese nazionali, ad alta tecnologia, che esercitano attività di progettazione, produzione, ricerca e servizi nei comparti: aerospaziale civile e militare, comparto navale e terrestre militare e dei sistemi elettronici ad essi ricollegabili. L’AIAD, si legge sul sito, mantiene stretti e costanti rapporti con organi e istituzioni nazionali, internazionali o in ambito NATO al fine di promuovere, rappresentare e garantire gli interessi dell’industria che essa rappresenta. Significativa l'attività svolta a riguardo dal NIAG (NATO Industrial Advisory Group) garantita attraverso i propri esperti. L’AIAD è inoltre membro, in rappresentanza dell’industria italiana, dell’equivalente Associazione Europea (ASD). In questo contesto è l’interfaccia di riferimento di tutte le Istituzioni nazionali ed estere per il coordinamento di ogni iniziativa in cui ci sia necessità di rappresentare gli interessi nazionali del comparto. Insomma, la mattina spunta Crosetto-Uno che va ad ‘’istruire” politicamente Giorgia Meloni, aprendole le porte di importanti personaggi, dal sottosegretario di Stato del Vaticano il cardinale Pietro Parolin a Enrico Letta, dalla partecipazione a un’importante Convention repubblicana presente anche Trump a Steve Bannon; e nel pomeriggio sbuca Crosetto-Due che va all’Aiad a redigere e presentare rapporti e posizioni industriali ai vari dicasteri governativi e ad ogni altra organizzazione istituzionale estera. Una incompatibilità per il suo ruolo nella Federazione che riunisce le aziende del comparto difesa, aerospazio e sicurezza, nominato all’epoca dal ministro della Difesa Pinotti, che aveva già spinto nel 2018 il braccio destro di Giorgia Meloni di lasciare Montecitorio. Un addio alla Camera a soli due mesi dall'investitura a parlamentare della Repubblica, che Crosetto giustificò con un lapidario: “I motivi? Personali”. Saranno anche motivi personali ma ciò non cancella il fatto che continua tranquillante a fare politica in aperto conflitto d’interessi. 

Daniele Auteri per repubblica.it il 27 settembre 2021. Pierpaolo Sileri, sottosegretario al ministero della Salute ma prima di tutto medico, è oggi al centro di un'indagine aperta dal suo ordine professionale. La questione Sileri, accusato di aver lavorato per il pubblico e per il convenzionato insieme, è sbarcata all'Ordine dei Medici che adesso dovrà pronunciarsi sulla possibilità che uno dei più autorevoli rappresentanti dei 5Stelle al governo sia inciampato nel più banale dei conflitti di interesse. La vicenda inizia oltre due anni fa quando il consigliere regionale e vice presidente della commissione Sanità, Antonello Aurigemma, invia alla direzione sanitaria della Regione una serie di esposti proprio sul comportamento professionale di Pierpaolo Sileri. Per due anni nessuno risponde, fino a quando il caso diventa politico e la regione si mette in moto. A Sileri viene contestato di aver lavorato all'interno della clinica Villa Claudia di Roma (una struttura convenzionata con il sistema sanitario regionale) mentre si trovava in aspettativa all'università di TorVergata. A supporto di questa tesi è arrivato in questi giorni l'elenco delle prestazioni che Sileri avrebbe svolto proprio all'interno di Villa Claudia. Una lista di 46 voci che spaziano dall'"onorario di primo operatore" alla "visita specialistica", dalla "rettosigmocolonscopia" alla "polipectomia operativa". Allegato alla lista che la clinica invia alla Asl Roma 1, la segreteria di direzione della struttura scrive: "Si comunica che il professor Paolo Sileri ha effettuato occasionalmente la propria attività professionale presso questa casa di cura a far data dal 20 marzo 2018 fino al 25 gennaio 2019". Il caso si riaccende a settembre quando, con due note (la prima del 2 e la seconda del 13), il consigliere Aurigemma torna a chiedere chiarimenti all'assessore alla Sanità Alessio D'Amato. A quel punto la Regione si muove e invia una prima lettera all'ordine dei Medici che ha come oggetto "Informativa riguardante l'attività professionale svolta dal professor Paolo Sileri presso la casa di cura Nuova Villa Claudia". Interpellato da Repubblica, l'Ordine dei Medici fa sapere tuttavia che la documentazione trasmessa dalla Regione non è ad oggi sufficiente per formulare un giudizio completo sull'operato del medico sottosegretario. Nell'attesa che la Regione invii il materiale richiesto, l'Ordine stesso ha mandato una lettera a Sileri nella quale chiede una serie di prime spiegazioni sul suo operato e annuncia l'apertura di un fascicolo e la futura convocazione di una commissione per valutare il rispetto della legge da parte del professore. A valle della valutazione deontologica, il punto chiave della vicenda rimane quello politico. "Sileri si è più volte smentito - dichiara Antonello Aurigemma (Fdi) - all'inizio ha assicurato di non aver mai effettuato prestazioni sanitarie e visite, poi ha dichiarato che erano lezioni stabilite da un protocollo universitario, e infine che era un dipendente dell'Università e non del Policlinico e per questo non incompatibile. In realtà, la risposta della regione alle mie interrogazioni dimostra che il sottosegretario ha effettuato prestazioni sanitarie e visite presso una struttura convenzionata con il Servizio Sanitario Regionale contravvenendo alla legge nazionale e di fatto confermando che il Vice Ministro non ha detto la verità". Sarà adesso compito dell'Ordine dei Medici stabilire se le parziali verità del sottosegretario rappresentano o no una violazione della legge.

Alessandro Rico per “La Verità” il 10 settembre 2021. Il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, ha parlato di «documenti vecchi e superati, notizie false create ad arte da gruppi di potere». Può darsi sia in atto una cospirazione. Per adesso, una nota della Regione Lazio, che non sembra affatto «vecchia e superata», essendo datata 8 settembre 2021, porta il caso delle sue visite private a Nuova Villa Claudia direttamente sul tavolo dell'Ordine dei medici di Roma. Prima di tutto, ricapitoliamo la vicenda. Mercoledì, La Verità (e anche Repubblica) (e anche Dagospia, ndD) hanno rivelato i risultati di un'istruttoria della Direzione regionale Salute e Integrazione socio-sanitaria del Lazio. Le carte provavano che Sileri, medico del Policlinico Tor Vergata, entrato in aspettativa allorché, nel 2018, si era fatto eleggere senatore con il Movimento 5 stelle, aveva esercitato, tra il 20 marzo di quell'anno e il 25 gennaio 2019, «attività professionale, sia pure di natura occasionale, presso la casa di cura Nuova Villa Claudia», che sorge sulla via Flaminia Nuova, «con oneri a carico del singolo utente e non a carico del Sistema sanitario regionale», con il quale la clinica è convenzionata. Problemino: la legge consente, ai medici in aspettativa come lui, solo di effettuare «prestazioni di alta qualificazione professionale in relazione alle quali si renda necessario il continuo esercizio per evitare la perdita della professionalità acquisita», purché quei servizi vengano erogati «presso l'amministrazione di appartenenza», in maniera «saltuaria, gratuita e senza alcun onere per l'amministrazione». In parole povere, Sileri, per non perdere la mano da chirurgo, era autorizzato a esercitare di tanto in tanto, senza percepire compensi. L'indagine svolta dall'ente di Nicola Zingaretti, invece, conclude che il sottosegretario grillino ha lavorato, sì, occasionalmente, ma presso una struttura privata e facendosi anche pagare. In un servizio del maggio scorso, andato in onda alle Iene, Sileri si schermì, spiegando che a Villa Claudia aveva svolto esclusivamente «attività di formazione e tutoraggio». Il documento della Regione, risalente al 10 giugno, lo smentiva. E gli attribuiva una «attività non svolta presso l'amministrazione di appartenenza per il mantenimento delle competenze, né (di insegnamento e tutoraggio) a titolo gratutio». Infine, prometteva che avrebbe trasmesso tutte le informazioni «all'Ordine dei medici di Roma» e all'Università Tor Vergata, mentre avrebbe chiesto «alla Asl Roma 1 di procedere al computo esatto delle somme incassate nel periodo sopra citato, affinché il predetto importo possa essere scomputato dal livello massimo di finanziamento per l'anno corrente perché la casa di cura, pur essendo in possesso degli elementi conoscitivi idonei a prevenire i fatti, avrebbe consentito l'erogazione di prestazioni in modo non conforme alla cornice normativa prevista». Con curiosa intempestività, finalmente, proprio mercoledì - il giorno in cui la stampa ha portato il pubblico a conoscenza dei fatti - il materiale dell'inchiesta, le cui conclusioni vengono tutte confermate, è giunto all'ordine professionale al quale appartiene il sottosegretario. Ed è singolare che, nell'incipit della missiva, la Direzione regionale Salute faccia «ammenda per il ritardo dovuto a disguidi fra uffici». Dove, negli ultimi giorni, dovevano aver capito che qualcosa si stava muovendo. Il 2 settembre, ad esempio, Antonello Aurigemma, consigliere regionale di Fdi, aveva inviato un sollecito via pec al dipartimento Salute e all'assessore Alessio D'Amato, chiedendo «di ricevere copia del riscontro dell'Ordine dei medici di Roma e dell'Università Tor Vergata alla nota» di giugno e «di sapere se la Asl Roma 1 ha proceduto al computo esatto delle somme indebitamente incassate dalla casa di cura» di via Flaminia Nuova. È solo con la comunicazione dell'altro ieri, però, che il Lazio si è affidato ai dottori della Capitale «per ogni valutazione di vostra competenza». Tradotto dal burocratese: per stabilire se sia opportuno sanzionare Sileri. Il quale, nella sua autodifesa, ha appunto squalificato tutti i documenti come «vecchi e superati». Peccato che, a quanto pare, nel frattempo la Regione non abbia cambiato versione. Anzi, ribadisca gli esiti della sua indagine ai colleghi del sottosegretario. Come può essere «vecchia e superata» una carta risalente a mercoledì? Dallo staff del sottosegretario è arrivata, in tarda serata, una replica: «All'epoca, Sileri era ricercatore a Tor Vergata e non dipendente del Servizio sanitario nazionale. Fu autorizzato a svolgere quell'incarico dal titolare della cattedra e dal rettore dell'ateneo. Se qualcuno ha sbagliato, non è stato certo il ricercatore...». Chissà se l'Ordine sarà dello stesso parere.

“Visite a pagamento durante l'aspettativa”. La Regione Lazio contro Sileri. Le Iene News l'8 settembre 2021. L’attuale sottosegretario alla Salute avrebbe effettuato in una clinica privata convenzionata delle visite a pagamento che non avrebbe potuto fare da medico dipendente del servizio pubblico in aspettativa. Per questo è stato segnalato all’Ordine dei Medici. È il risultato, che contraddice anche nello specifico quanto ci aveva detto Pierpaolo Sileri, dell’istruttoria regionale sul caso sollevato da Le Iene con l’inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti. La replica: “Si tratta di documenti vecchi e superati”. Il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri avrebbe effettuato in una clinica privata convenzionata delle visite a pagamento che non avrebbe potuto fare da medico dipendente del servizio pubblico in aspettativa. Lo sostiene la Regione Lazio che per questo l’ha segnalato all’Ordine dei Medici e all’Università di Tor Vergata, dove lavorava come medico (ora è in aspettativa) prima di diventare senatore dei Cinque Stelle. La nuova notizia sul caso, sollevato da noi de Le iene con il servizio dell’11 maggio scorso di Filippo Roma e Marco Occhipinti che potete vedere qui sopra, arriva da una nota della Direzione regionale Salute e Integrazione Socio-sanitaria della Regione Lazio. Un’interrogazione di Fratelli d’Italia chiede ora al ministro della Salute Roberto Speranza di "valutare la permanenza in carica del sottosegretario". Sileri contesta però la ricostruzione. “Il prof. Sileri ha esercitato attività professionale, sia pure di natura occasionale, presso la casa di cura Nuova Villa Claudia con oneri a carico del singolo utente e del Servizio sanitario regionale”, recita la nota riportata ora da Repubblica e datata 10 giugno. “Trattandosi di attività non svolta presso l’amministrazione di appartenenza per il mantenimento di competenze, né (di insegnamento e tutoraggio) a titolo gratuito, la presente verrà trasmessa all’Ordine dei Medici di Roma e all’Università di Tor Vergata”. Proprio a noi de Le Iene Sileri aveva definito attività di “insegnamento e tutoraggio” per conto dell’università di Tor Vergata le sue prestazioni a Nuova Villa Claudia, a cui l’Ateneo si appoggia per la formazione: “Si trattava di insegnamento e tutoraggio. L’unica cosa che io ho fatto lì è stata la parte di endoscopia e di chirurgia endoscopica per un totale, se non ricordo male, di 54 procedure fra insegnamento, tutoraggio e quant’altro”. Questa versione viene contraddetta anche nello specifico, citandola, dalla nota regionale come potete leggere sopra. Per la Regione ai trattava di “prestazioni in modo non conforme alla cornice normativa prevista”. La legge permette ai medici in aspettativa "prestazioni di alta qualificazione professionale in relazione alle quali si renda necessario il continuo esercizio per evitare la perdita della professionalità acquisita", ma solo "presso l'amministrazione di appartenenza" e “in maniera saltuaria, gratuita e senza alcun onere per l'amministrazione”.  Alla Casa di cura Villa Claudia dove si sarebbero svolte le prestazioni "non conformi" verrà chiesto il rimborso degli importi percepiti senza averne diritto. Sileri, che vorrebbe rispondere personalmente in Parlamento all’interrogazione di Fdi a Speranza, contesta la ricostruzione della nota regionale: "Si tratta di documenti vecchi e superati, notizie false create ad arte da gruppi di potere contro la mia persona. Per rendersene conto basta chiedere al direttore generale del Policlinico di Tor Vergata, al rettore, al direttore della scuola di specializzazione, all'assessore alla Salute del Lazio e al presidente dell'Ordine dei medici di Roma". La nota della Regione Lazio è arrivata arriva dopo le interrogazioni sul caso presentate in Consiglio regionale sempre da Fratelli d’Italia con Antonello Aurigemma (Fdi) e come risultato di una istruttoria aperta il 18 maggio proprio dopo i servizi de Le Iene scorso dall’assessore alla Sanità Alessio D’Amato. La versione di Sileri sulla natura del suo rapporto, anche economico, con Nuova Claudia sembra contraddetta in particolare anche da un audio esclusivo che potete sentire sempre nel servizio qui sopra. Si tratta di un cosiddetto redazionale a carattere promozionale trasmesso sulla radio romana Radio Sei, che pubblicizzava la clinica. “Lei è lì perciò per un appuntamento, per un controllo”, chiede a Sileri il giornalista Guido De Angelis. “Sì, sì, io sono qui, certo, sì”, risponde Sileri, confermando la sua presenza all’interno della struttura. “Allora, Nuova Villa Claudia si trova in via Flaminia Nuova 280”, prosegue De Angelis. “Per un appuntamento anche con il professor Pierpaolo Sileri io do il telefono 06…”. In un altro audio esclusivo raccolto nella nostra inchiesta la segreteria della clinica indica i prezzi che sarebbero stati praticati da Sileri quando svolgeva la sua attività professionale in quella struttura: “200 euro la prima visita e 150 euro la visita di controllo”. Siamo come sempre a disposizione per raccogliere l’eventuale replica del prof. Sileri.

Alessandro Rico per “La Verità” l'8 settembre 2021. Lo scivolone sul cancro («Ora è più facile morire di quello che di Covid») potrebbe non essere stato il punto più basso della carriera politica di Pierpaolo Sileri. Un documento della Regione Lazio prova che il sottosegretario alla Salute, in quota 5 stelle, ha mentito ai giornalisti delle Iene. I quali gli avevano chiesto se, nonostante fosse dipendente del Policlinico Tor Vergata di Roma (poi entrato in aspettativa, allorché, nel 2018, fu eletto senatore con il M5s), svolgesse visite private a pagamento presso una clinica convenzionata con la Regione, Nuova Villa Claudia. Violando così la legge. «L'unica cosa che io ho fatto lì», rispose a maggio a Filippo Roma, «è stata la parte di endoscopia e di chirurgia endoscopica per un totale di 54 procedure fra insegnamento, tutoraggio e quant' altro». Dunque, solo docenze per la scuola di specializzazione. Le Iene avevano interpellato il consigliere regionale Antonio Aurigemma, di Fdi, che aveva mostrato la lista delle prestazioni (esami, visite specialistiche, eccetera) svolte effettivamente da Sileri nella struttura di via Flaminia Nuova. Era spuntato anche uno spot, trasmesso da un'emittente della Capitale, Radio Sei, in cui a sponsorizzare la clinica compariva proprio «il professor Pierpaolo Sileri, specialista in chirurgia dell'apparato digerente», che «è lì per un appuntamento per un controllo». «Sì sì, io sono qui, certo», garantiva il medico. Tuttavia, allora non era stato possibile accertare se quelle prestazioni sanitarie fossero state retribuite. Adesso è la Regione Lazio a togliere ogni dubbio. Nella risposta a un'interrogazione del consigliere Aurigemma, l'ente guidato da Nicola Zingaretti certifica infatti che, «nel periodo dal 20 marzo 2018 al 25 gennaio 2019, [...] il prof Sileri ha esercitato attività professionale, sia pure di natura occasionale, presso la casa di cura Nuova Villa Claudia con oneri a carico del singolo utente e non a carico del Ssr». Ovvero, del Sistema sanitario regionale, con il quale la struttura è appunto convenzionata. La conclusione del documento è una mazzata sul cursus honorum del pentastellato: «Trattandosi, pertanto, di attività non svolta presso l'amministrazione di appartenenza per il mantenimento delle competenze, né (di insegnamento e tutoraggio) a titolo gratuito, [...] la presente verrà trasmessa all'Ordine dei medici di Roma, all'Università Tor Vergata [...]» e, «con l'occasione si chiederà alla Asl Roma 1 di procedere al computo esatto delle somme incassate», al fine da scomputarle «dal livello massimo di finanziamento per l'anno corrente» alla casa di cura. Che - senza saperlo, specifica la carta - ha però di fatto «consentito l'erogazione di prestazioni in modo non conforme alla cornice normativa prevista». C'era una volta «onestà, onestà». Complimenti, sottosegretario. Per citare una frase da lei detta in tv: la cosa migliore è che si dimetta.

Antonio Rossitto per La Verità il 12 settembre 2021. Gli diamo atto del suo garbo. E poi, a differenza di tanti illustri colleghi, non si sottrae alle domande, anche le più velenosette. Per non parlare del suo infausto destino: prima viceministro, e poi sottosegretario di Robertino Speranza, l'ex assessore all'Urbanistica di Potenza diventato ministro della Sanità, per due volte consecutive pure. Il chirurgo Pierpaolo Sileri si è inoltre distinto, soprattutto nell'epoca pre vaccini, per essere uno dei più misurati e meno allarmisti in circolazione. E ha battagliato pure con il vecchio Comitato tecnico scientifico: quello che, per volontà dell'ex premier, Giuseppe Conte, ha commissariato la politica fino all'avvento di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Nella raccapricciante gestione giallorossa della pandemia, Sileri si è dunque distinto. Foss'anche solo per altrui demerito. È proprio per questo che torniamo a chiedergli conto di una storia che lui reputa vetusta: «Documenti vecchi e superati, notizie false create ad arte da gruppi di potere» dice attingendo a uno dei capisaldi del cospirazionismo grillino. Si riferisce, probabilmente, alle interpellanze presentate da Fratelli d'Italia. Culminate con l'interrogazione parlamentare con cui il partito di Giorgia Meloni chiede di «valutare la permanenza in carica del sottosegretario». Comunque sia: come ha raccontato La Verità, una nota della Regione Lazio, datata ahilui 8 settembre 2021, ha fatto planare il decrepito caso delle sue visite private direttamente sul tavolo dell'Ordine dei medici di Roma. In estrema sintesi: avrebbe esercitato senza autorizzazione, dietro compenso, mentre era in aspettativa causa elezione al senato con i 5 stelle. Claudio Durigon, sottosegretario leghista all'Economia, si è dimesso nei giorni scorsi per l'infelice proposta di intitolare un parco ad Arnaldo Mussolini, fratello di Benito. Una frase dal sen fuggita, certo. Ma pur sempre una frase. Nel caso di Sileri si parla invece di fatti. Datati, per carità. Ma ridiventati d'attualità dopo un'istruttoria della Direzione regionale Salute e Integrazione socio-sanitaria del Lazio. Il sottosegretario, medico universitario del Policlinico Tor Vergata, in aspettativa dopo l'ingresso a Palazzo Madama nel 2018, avrebbe svolto, tra il 20 marzo di quell'anno e il 25 gennaio 2019, «attività professionale, sia pure di natura occasionale, presso la casa di cura Nuova Villa Claudia» di Roma. Ma «con oneri a carico del singolo utente e non a carico del Sistema sanitario regionale», con il quale la clinica è convenzionata. È vero: la legge consente ai medici in aspettativa di esercitare. Ma solo «per evitare la perdita della professionalità acquisita», «presso l'amministrazione di appartenenza», e soprattutto in maniera «gratuita». Sileri era quindi autorizzato a rifare il suo mestiere di tanto in tanto, ma senza percepire compensi. In effetti l'ente della Regione guidata dall'ex segretario del Pd, Nicola Zingaretti, conferma che il sottosegretario grillino ha lavorato occasionalmente. Ma in una struttura privata. E a pagamento. Sileri derubrica: solo «formazione e tutoraggio». Quella nota del 10 giugno scorso però lo smentisce: «Attività non svolta presso l'amministrazione di appartenenza per il mantenimento delle competenze, né (di insegnamento e tutoraggio) a titolo gratuito». La Direzione regionale Salute annuncia anche di voler trasmettere tutte le informazioni «all'Ordine dei medici di Roma e all'Università Tor Vergata», a cui verrà chiesto il rimborso degli importi percepiti senza averne diritto. Quasi tre mesi dopo, lo scorso mercoledì, il materiale dell'istruttoria viene dunque inviato all'Ordine dei medici di Roma, al quale appartiene il politico. Dopo aver fatto «ammenda per il ritardo dovuto a disguidi fra uffici», l'ente laziale chiede «ogni valutazione di vostra competenza». Insomma: sarà l'ordine a decidere se sanzionare Sileri. Documenti «vecchi e superati» insiste il sottosegretario. La sua versione non cambia. All'epoca era solo un ricercatore a Tor Vergata, non un dipendente del Servizio sanitario nazionale. E soprattutto venne autorizzato a svolgere quell'incarico dal titolare della cattedra e dal rettore dell'ateneo. Insomma, è il sotteso, se qualcuno ha sbagliato, non è stato certo lui. Invece la regione Lazio lascia intendere il peggio: una mandrakata da barone. E magari, come assicura l'interessato, è davvero tutta una cospirazione ai suoi danni. Eppure, anche stavolta, viene in mente l'eterno lampo di Pietro Nenni: «Nella gara a fare i puri, c'è sempre qualcuno più puro che ti epura». O, per lo meno, ci prova. Perché Sileri, prima di venire eletto in senato, era un implacabile fustigatore. Baronie universitarie, concorsi truccati, accordi sottobanco. Quelli sì, che erano tempi.

Estratto dell'articolo di Giovanna Vitale per “la Repubblica” l'8 settembre 2021. (…)  La vicenda, piuttosto intricata, merita di essere raccontata dal principio. Prima di diventare senatore, Sileri faceva il medico al secondo policlinico universitario della Capitale. Eletto nel marzo 2018, si mette subito in aspettativa, ma quasi in contemporanea inizia a svolgere (per circa 10 mesi, fino al gennaio 2019) attività libero-professionale nella clinica Nuova Villa Claudia, convenzionata con la Regione, dove l'ateneo di Tor Vergata si appoggia per fare formazione. Orbene la legge consente, a chi è in aspettativa, di effettuare "prestazioni di alta qualificazione professionale in relazione alle quali si renda necessario il continuo esercizio per evitare la perdita della professionalità acquisita", ma tali prestazioni devono avvenire "presso l'amministrazione di appartenenza" in maniera "saltuaria, gratuita e senza alcun onere per l'amministrazione". Invece dall'indagine regionale emerge che Sileri avrebbe sì lavorato in modo occasionale, ma in una struttura privata e facendosi pagare: «Fino a 200 euro a visita», denuncia il consigliere di Fdi Aurigemma. Quando a maggio la storia viene fuori, il sottosegretario prova a difendersi. Alle Iene , che fanno esplodere il caso, spiega: «Si trattava di attività di formazione e tutoraggio», legata cioè alla scuola di specializzazione di Tor Vergata che con Villa Claudia ha una convenzione. Ma le opposizioni contestano questa versione e chiedono all'assessore D'Amato una risposta chiara. Che arriverà il 10 giugno, firmata da due dirigenti regionali di grande esperienza: Massimo Annichiarico (Salute) e Paola Maddaloni (Contenzioso). «Il prof. Sileri - scrivono - ha esercitato attività professionale, sia pure di natura occasionale, presso la casa di cura Nuova Villa Claudia con oneri a carico del singolo utente e del Servizio sanitario regionale». Pertanto, «trattandosi di attività non svolta presso l'amministrazione di appartenenza per il mantenimento di competenze, né (di insegnamento e tutoraggio) a titolo gratuito la presente verrà trasmessa all'Ordine dei Medici di Roma e all'Università di Tor Vergata». Non solo. L'incasso della clinica verrà «scomputato dal livello massimo di finanziamento per l'anno corrente perché la Casa di cura, pur essendo in possesso degli elementi conoscitivi idonei a prevenire i fatti, avrebbe consentito l'erogazione di prestazioni in modo non conforme alla cornice normativa prevista». Interpretazione che però il sottosegretario rifiuta in toto: «Si tratta di documenti vecchi e superati, notizie false create ad arte da gruppi di potere contro la mia persona», taglia corto. (…)

DAGONOTA il 17 maggio 2021. La Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione per il consigliere regionale del Lazio Antonello Aurigemma, che era stato querelato dal sottosegretario Pierpaolo Sileri dopo aver tirato fuori, con un’interrogazione, la storia dell’incompatibilità della sua attività professionale in una clinica provata convenzionata. Giovedì intanto l’assessore Alessio D’Amato deve rispondere in consiglio alla nuova interrogazione di Aurigemma sul caso di Sileri. Ma c’è di più: i legali del sottosegretario hanno mandato alla redazione delle Iene una diffida e una richiesta di risarcimento danni, prima che andasse in onda il servizio incriminato, soltanto sulla base delle anticipazioni. Nella diffida si cita un parere dell’avvocatura regionale che, interrogata dallo stesso Aurigemma, ha risposto di non essere stata interpellata né si è pronunciata sulla vicenda…

Giuseppe China e Francois De Tonquédec per “La Verità” il 17 maggio 2021. La Regione Lazio avrebbe riaperto l'inchiesta interna sull'attività medica svolta dal sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri in una clinica privata convenzionata mentre era già stato eletto in Parlamento. Lo ha annunciato sulla sua pagina Facebook l'inviato delle Iene Filippo Roma, autore di un servizio andato in onda la settimana scorsa e che avrebbe portato a ulteriori approfondimenti da parte dell'assessore alla Sanità Alessio D'Amato. Secondo Roma, D'Amato avrebbe comunicato che la Regione Lazio ha «riaperto indagine amministrativa alla luce delle novità emerse» e sarebbe in attesa di «puntuali risultati». La vicenda di Sileri era già emersa nel 2019, attraverso una serie di interrogazioni del consigliere regionale di Fratelli d'Italia Antonello Aurigemma. È lo scorso 11 maggio quando Le Iene mandano in onda il servizio su Sileri che riassume la vicenda. Nella seconda parte del reportage vengono inizialmente trasmesse le incomprensioni tra il sottosegretario e i giornalisti. Poi il focus si sposta sul 2018, anno fino al quale Sileri è stato un medico dell'ospedale romano Policlinico Tor Vergata. Nel marzo di quell'anno conquista il seggio del Senato in quota M5s, dunque scatta l'aspettativa dalla struttura ospedaliera. Eppure, secondo quanto ricostruito dalle Iene, Sileri avrebbe continuato a lavorare in una clinica privata (Nuova Villa Claudia) convenzionata con la Regione Lazio. Circostanza che, secondo il servizio, avrebbe portato alla violazione della norma che nega a un medico dipendente pubblico di lavorare, dietro compenso, allo stesso tempo per una struttura privata convenzionata. Sileri respinge le accuse spiegando che in clinica avrebbe prestato la sua opera solo in qualità di professore della scuola di specializzazione. Una versione che sarebbe già stata smentita dalla documentazione della clinica allegata alle interrogazioni presentate nel 2019 da Aurigemma, che contenevano, tra le altre cose, un elenco di prestazioni effettuate da Sileri a Villa Claudia. Prestazioni lecite secondo quanto risposto in aula da D'Amato, in quanto il sottosegretario, essendo un ricercatore, godrebbe delle prerogative riservate al personale docente nelle università, più ampie di quelle riservate al personale medico. L'assessore aveva spiegato che secondo la norma, «i professori e i ricercatori a tempo definito possono svolgere attività libero professionale e di lavoro autonomo, anche continuativo, purché non determinino situazioni di conflitto di interesse rispetto all'ateneo di competenza», e in questo caso l'ateneo di competenza aveva sottoscritto un protocollo d'intesa di natura didattica con la casa di cura». Nella puntata delle Iene, però, viene mandato in onda un estratto di una trasmissione della radio romana Radio sei, in cui il sottosegretario pentastellato avrebbe promosso Villa Claudia e la sua attività all'interno della stessa. Lo speaker: «Allora abbiamo il professor Pierpaolo Sileri in diretta, buongiorno a lei professore. [] Lei è specialista in chirurgia dell'apparato digerente». «La diagnosi precoce consente la rimozione e la guarigione completa del paziente», replica Sileri. Il conduttore continua: «Professore la clinica Nuova Villa Claudia lei è lì perciò per un appuntamento un controllo». «Sì sì io sono qui» risponde Sileri. «Allora Nuova Villa Claudia si trova in via Flaminia nuova 280, per un appuntamento anche con il professor Pierpaolo Sileri, io do il telefono []». In Regione, sulla riapertura dell'indagine su Sileri, le bocche sono cucite. Come quella dell'assessore D'Amato che, per conferma, abbiamo provato senza fortuna a contattare.

Daniele Autieri per repubblica.it il 12 maggio 2021. Il sottosegretario di Stato al ministero della Salute ed ex-vice ministro della Salute, Pierpaolo Sileri, inciampa sul più banale dei conflitti di interesse per un camice bianco: lavorare per il pubblico e il privato convenzionato insieme. La prova dell’incompatibilità manifesta di Sileri, che la mattina faceva il medico all’università di TorVergata e il pomeriggio riceveva nelle salette di Villa Claudia, casa di cura convenzionata con la Regione Lazio, è in un audio trasmesso ieri sera dal programma Le Iene, in onda su ItaliaUno, e che Repubblica è in grado di anticipare. Partecipando a una diretta di un’emittente radio romana, Sileri promuove le attività di Villa Claudia e quando l’intervistatore gli chiede «Voi a Villa Claudia siete organizzati?», risponde senza esitazioni esortando i pazienti a raggiungere la clinica per sottoporsi ai controlli medici.

Il doppio lavoro di Pierpaolo Sileri. «Più di prevenzione parlerei di diagnosi precoce – spiega il professor Sileri. – Come si dice, prevenire è meglio che curare». Il professore, quindi senatore, quindi vice ministro e sottosegretario non ha previsto però che quel doppio ruolo venisse fuori in modo così evidente e quando – oltre un anno fa – la questione è emersa anche in seno alla Regione Lazio, si è difeso assicurando che a Villa Claudia si era occupato solo di «tutoraggio e insegnamento nell’ambito di un accordo siglato con la scuola di specializzazione di TorVergata». La rassicurazione viene però smentita nel servizio di Filippo Roma e Marco Occhipinti grazie anche alla testimonianza di una dipendente della clinica che mette in fila il tariffario della prima visita e della visita di controllo previsto dal professore Sileri, specialista in chirurgia dell’apparato digerente. Una circostanza che confermerebbe la violazione della legge introdotta nei primi anni ’90 dall’allora ministro Rosy Bindi, che vieta a un medico dipendente del pubblico di percepire reddito da una clinica privata convenzionata. Resta adesso da capire quanto a lungo Sileri, che nel marzo del 2018 è stato eletto senatore nelle fila dei 5Stelle, abbia mantenuto in piedi un doppio ruolo vietato dalla legge.

Da iene.mediaset.it il 12 maggio 2021. C'è un conflitto di interessi per il lavoro della moglie del sottosegretario alla Salute Sileri in una ditta che fornisce prodotti medicali agli ospedali pubblici? L'Agcm a giugno 2020 ha detto di no, ma ci sono novità clamorose. Ci chiediamo pure: Sileri ha violato la legge, da medico dipendente del servizio pubblico, lavorando anche in una clinica convenzionata con la Regione? L'inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti, con video, audio e testimonianze esclusive Conflitto di interessi, il doppio lavoro del viceministro Sileri: ecco l'audio con il suo tariffario

Anticipazione da LE IENE il 4 maggio 2021. Questa sera, martedì 4 maggio, in prima serata su Italia 1, andrà in onda a “Le Iene” un servizio di Filippo Roma e Marco Occhipinti, relativo al presunto conflitto d’interessi, che riguarderebbe il sottosegretario alla salute Pierpaolo Sileri. Fino al 2018 l’attuale viceministro alla Salute era un medico dipendente di un ospedale pubblico, il Policlinico Tor Vergata. Eletto Senatore per il Movimento 5Stelle, partito politico a cui appartiene, nonostante l’aspettativa, risulta che lavorasse anche per una clinica privata convenzionata. Pierpaolo Sileri ha violato la legge che impedisce a un medico dipendente pubblico di lavorare contemporaneamente a pagamento per una clinica privata convenzionata? Il consigliere regionale Antonello Aurigemma di Fratelli d’Italia aveva dichiarato: “Il Senatore Sileri svolgeva attività privata senza averne diritto”, accuse che erano seguite alla denuncia pubblica dell’assessore alla sanità del Lazio Alessio D’Amato, con queste parole: “Si fa pagare visite mediche private mentre fa il Senatore”. “Si trattava di insegnamento e tutoraggio”, rispose Sileri, aggiungendo “l’unica cosa che io ho fatto lì, è stata la parte di endoscopia e di chirurgia endoscopica per un totale, se non ricordo male, di 54 procedure fra insegnamento, tutoraggio e quant’altro e a questo ci fu anche un’interrogazione che fu fatta alla Regione Lazio alla quale ha risposto l’assessore D’amato e diciamo ha stabilito perfettamente che non vi era nessun conflitto.” Spiega così, ai microfoni de Le Iene, che avrebbe chiarito, rispondendo a un’interrogazione, che non ci sarebbero stati conflitti d’interesse. “Io, per evitare ulteriori cose, ho lasciato e quello era insegnamento per la scuola di specializzazione”, dice in riferimento a quella dell’Università di Tor Vergata. Il consigliere regionale Antonello Aurigemma di Fratelli d’Italia sostiene invece che si sarebbe trattato di prestazioni a pagamento: “Dalle carte che ci ha fornito l’Asl non c’è nessuna menzione all’attività didattica che il professore ha svolto”. A testimonianza della sua dichiarazione, Aurigemma ha portato un documento esclusivo che potrebbe smentire la versione dei fatti data dal sottosegretario Sileri: è un cosiddetto redazionale a carattere promozionale di una radio romana, Radio Sei. Nell’audio si sente il prof. Pierpaolo Sileri fare pubblicità alla Nuova Villa Claudia. “Lei è lì perciò per un appuntamento, per un controllo”, gli chiede il giornalista Guido De Angelis. “Sì, sì, io sono qui certo sì”, risponde Sileri. “Allora nuova Villa Claudia si trova in via Flaminia Nuova 280, c’è anche il sito Nuovavillaclaudia.it”, prosegue De Angelis. “Per un appuntamento anche con il professor Pierpaolo Sileri io do il telefono 06…”. Ma come? Filippo Roma si chiede, non doveva trattarsi di insegnamento e tutoraggio per l’Università? Ne parla al telefono anche con il proprietario della clinica, Gianluigi Rizzo. “Lei mi conferma che Sileri non veniva qua a insegnare ma a fare il medico a fare viste interventi endoscopie”, continua la Iena. “Ma insegnare in che senso? Non è che insegnava”, conclude il proprietario. L’inviato legge anche una dichiarazione fornita all’inviato da Rizzo:“Il sottoscritto Gianluigi Rizzo dichiara che il professor Pierpaolo Sileri ha svolto presso questa casa di cura Nuova Villa Claudia la propria attività professionale consistente in prestazioni di chirurgia generale, l’attività è stata effettuata in regime di prestazione occasionale”. Dichiarazioni che Rizzo conferma anche al telefono. Ma per una visita con Sileri si pagava? E, se sì, quanto? Si domanda Filippo Roma. Dal centralino della clinica Nuova Villa Claudia dicono che il professore al momento non ha le liste aperte, ma confermano che prima fosse possibile prenotare una visita con lui al prezzo di “200 euro la prima visita e 150 euro la visita di controllo”. Siamo sicuri che questa attività, per lui, medico dipendente pubblico, fosse consentita dalla legge? E ancora, nel momento in cui è diventato un Senatore, si è messo in aspettativa? A queste ultime domande risponde il giudice Pasquale Landi, ex Consigliere di Stato ed ex consulente giuridico della Presidenza del Consiglio dei Ministri, spiegando: “Un medico dipendente di una struttura pubblica ha diritti e doveri, nell’ambito dei doveri ci sono le incompatibilità. L’aspettativa è fatta per consentire al parlamentare di dedicarsi alla propria attività di soggetto che ha un mandato politico parlamentare, non per fargli fare delle cose che altrimenti non potrebbe fare.”. Alla domanda “Un medico dipendente di un ospedale pubblico collocato in regime di extramoenia può svolgere attività professionale presso una clinica privata convenzionata con la regione, quindi al di fuori della struttura ospedaliera nella quale è incardinato?” Risponde: “Nel momento in cui la struttura è convenzionata l’attività extramoenia non può essere svolta”. “Ok. E se in quel momento si trova in aspettativa perché eletto parlamentare?”, gli chiede l’inviato. “No, assolutamente no – afferma Landi - perché nel momento in cui la struttura è convenzionata l’incompatibilità deriva non solo dal suo status originale di medico dipendente di una struttura pubblica ma l’incompatibilità viene confermata anche dalla legislazione propria dei Senatori e dei Deputati, che impedisce di sommare l’indennità a quella propria del Senatore e del Deputato derivante da enti che sono convenzionati con lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni.”. Qualche giorno fa, in tv, il viceministro ha dichiarato “Io sono mesi che ho chiesto di rispondere alle interrogazioni sulla faccenda di mia moglie alle Iene dello scorso anno, perché io ci tengo a spiegare quello che è successo e a dare risposte, non riesco a rispondere per dare chiarezza su mia moglie, non è una cosa normale”. Già un anno fa, un’inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti, aveva raccontato il presunto conflitto d’interessi tra la moglie dell’attuale sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri e la fornitura di mascherine per la ventilazione a vari ospedali pubblici. Giada Nurry, sua moglie, era agente rappresentante di dispositivi medici di un’azienda che fornì mascherine al Policlinico Umberto I di Roma, grazie a un appalto che sarebbe stato confermato pochi giorni dopo che Sileri venne nominato viceministro del dicastero alla guida di Roberto Speranza. Filippo Roma andò a chiedergli chiarimenti e lui dichiarò: “Mia moglie non fa la rappresentante, fa la segretaria, è un’amministrativa, diciamo, è proprio l’ultima della catena di quella ditta, proprio, cioè, potere decisionale zero”, negando di sapere che la moglie si fosse occupata della vendita di mascherine per la ventilazione al Policlinico. Ma nell’inchiesta, una serie di elementi e alcune testimonianze - tra cui quella di Aldo Segante, datore di lavoro della Nurry - avevano dimostrato che le cose non sarebbero state come le aveva raccontate il sottosegretario. Sileri diceva che la moglie fosse solo una segretaria, mentre il datore di lavoro sosteneva che fosse un’addetta alle vendite e che fosse tutto riportato anche nelle carte ufficiali dell’appalto di mascherine che indicavano il suo ruolo e le sue mansioni, nero su bianco. Segante disse alla Iena: “Alla signora Nurry, per evitare il conflitto d’interessi, se la moglie di un viceministro ha un ruolo, ho detto «guarda, se vuoi ti metti in aspettativa e aspettiamo fino a quando questo ruolo verrà a finire e tu potrai tornare al lavoro»”. Queste dichiarazioni suscitarono un’ulteriore domanda da parte dell’inviato della trasmissione: “Se la moglie percepisce altri soldi in base a quanti più prodotti riesce a piazzare negli ospedali pubblici, si potrebbe parlare di un conflitto di interessi?”. Immediata la risposta di Sileri che negò questa circostanza.

Renzi e i suoi fratelli: sono 196 parlamentari con il doppio lavoro tra aziende e spa. Zan è proprietario e amministratore della società che gestisce l’evento del Pride Village di Padova, Bonifazi è in una società immobiliare con Davide Serra. Il meloniano Urso siede in commissione Affari esteri ed è socio con il figlio di una società che si occupa di internazionalizzazione delle imprese. La forzista Bernini è ancora nel cda di una società di armi. Ecco i casi più eclatanti. Antonio Fraschilla e Carlo Tecce su L'Espresso il 3 maggio 2021. Matteo Renzi fa tendenza. Non fra gli elettori, ma fra i parlamentari col doppio lavoro, la doppia poltrona e, a volte, il doppio stipendio. Come ha raccontato L’Espresso, il conferenziere a ingaggio ha appena inaugurato la Ma.Re, una società di consulenza che, con modestia, porta le sue iniziali. Però di Renzi n’è pieno il Parlamento: 196 parlamentari durante la legislatura hanno avviato imprese o assunto cariche in consigli di amministrazione oppure, semplicemente, non hanno mai sospeso i loro affari. Siccome non ci sono limiti, ci si muove senza limiti. In Italia non ci sono norme precise e rigide. Il Senato non prescrive nulla. La Camera ha un timido codice di condotta. Il Gruppo di Stati contro la corruzione, il cosiddetto organismo Greco del consiglio d’Europa, ha appena consegnato un rapporto molto critico a Palazzo Chigi: «Ci si rammarica che le iniziative concrete che erano state impostate dalla precedente legislatura sui conflitti di interesse non abbiano avuto seguito. Le autorità italiane fanno solo riferimento a una bozza di modifica della legge sui conflitti di interesse attualmente in discussione alla Camera». Si tratta del disegno di legge Fiano-Boccia, impantanato da mesi nelle commissioni a Montecitorio. La norma prevede «ulteriori casi di ineleggibilità e incompatibilità per i parlamentari sul fronte dell’attività privata anche se svolta all’estero e sulle partecipazioni societarie e azionarie anche in srl e aziende non solo dirette ma anche di familiari». E poi si demanda all’Autorità per la concorrenza, cioè all’Antitrust, il compito di controllare il rispetto della norma e irrogare eventuali sanzioni «fino alla decadenza del parlamentare in questione». Vincoli severi e perciò ancora in bozza. Il Greco ha chiesto, inoltre, altri interventi sui conflitti di interessi dopo la carriera parlamentare. Roma indugia perché i politici indugiano. In fondo conviene, a chi ha uno stipendio, ritrovarsene due o tre. E partendo da sinistra a destra o viceversa, passando per il centro, non ci sono differenze. Ecco un piccolo campionario di parlamentari-imprenditori-consulenti. Il terzetto Francesco Bonifazi, Federico Lovadina, Emanuele Boschi avanza sempre compatto. Bonifazi è avvocato e senatore di Italia Viva, un irriducibile renziano, tesoriere di Iv come lo fu nel Pd con Renzi segretario. Lovadina è avvocato e presidente di Toscana Energia e del gruppo Sia (pagamenti digitali), due aziende di carattere pubblico. Boschi è commercialista e fratello di Maria Elena. Oltre a condividere lo studio legale Bl, Bonifazi, Lovadina e Boschi sono soci con pari quota al 27 per cento di Lbr servizi, a sua volta presente con lo 0,38 per cento nel capitale di Homepal, l’agenzia immobiliare interamente su internet lanciata da Andrea Lacalamita, ex dirigente di Unicredit e Mediobanca. Homepal ha un paio di anni e già fattura 2 milioni di euro. Ha un futuro splendente, tant’è che ci hanno speso migliaia di euro anche la Banca Bper e il finanziere Davide Serra, l’amico e donatore di Renzi. Adesso ci sono Renzi e i renziani, un tempo c’era il conflitto di interessi di Silvio Berlusconi che ha assuefatto gli italiani. Per rinfrescare quel disappunto un tempo assai vivace, va rammentato che a Palazzo Madama siedono tre senatori che fanno parte anche del consiglio di amministrazione di Fininvest, la cassaforte della famiglia Berlusconi: Adriano Galliani, Niccolò Ghedini e Salvatore Sciascia. Invece la senatrice Anna Maria Bernini, capogruppo forzista a Palazzo Madama, è al secondo triennio nel cda di Benelli armi del gruppo Beretta che, per l’appunto, fa armi e munizioni da caccia e da guerra anche per l’esercito italiano. Ci si abitua a non indignarsi più. L’ha capito il deputato leghista Dario Galli. Nel governo gialloverde di Giuseppe Conte fu viceministro allo Sviluppo economico. Dopo una lunga istruttoria, l’Antitrust sancì che le cariche societarie di Galli erano incompatibili con l’incarico di governo. Il governo gialloverde, però, non esiste più, ma Galli conserva la presidenza di Ticino Holding, il ruolo di consigliere delegato e azionista al 50 per cento di Ticino Plast che, come s’intuisce, fabbrica prodotti in plastica. Neppure il senatore Andrea Marcucci, ex capogruppo del Pd, si è mai preoccupato della distanza fra i suoi affari di famiglia e i suoi incarichi politici. Marcucci è ancora consigliere di Kedrion, l’azienda farmaceutica di famiglia di cui Fsi Investimenti, controllata da Cassa depositi e prestiti, cioè dallo Stato, è un importante azionista. Anzi Marcucci ha varato un’altra impresa un paio di anni fa: si chiama Ambrosia e vende all’ingrosso bevande alcoliche. La svolta meridionalista di Matteo Salvini è sublimata dalla travolgente passione per i panzerotti pugliesi. I panzerotti pugliesi sono il suo cibo di conforto - ne fece una scorpacciata dopo una sconfitta del suo Milan nel derby con l’Inter - e la traiettoria filosofica del suo partito. Lui li mangia, altri ci investono. I deputati Massimiliano Capitanio, Giulio Centemero e Alberto Ribolla hanno acquistato un po’ di azioni di “I love panzerotti”, un’azienda americana formata da una coppia di cugini lombardi, Angelo Magni e Giovanni Bonati. I tre deputati leghisti, tra cui il tesoriere Centemero, hanno deciso di aiutare “I love panzerotti” perché utilizza unicamente prodotti pugliesi, coinvolge imprenditori lombardi e assume personale italiano. E in più i panzerotti si annaffiano con la birra Elav di un birrificio indipendente bergamasco per un pasto totalmente leghista a New York e Miami. Dopo l’uscita di Salvatore Caita dal gruppo, il deputato irpino Michele Gubitosa è l’imprenditore per eccellenza dei Cinque Stelle. Gubitosa è proprietario dell’azienda di informatica Hs Company. Ogni anno a Padova d’estate si tiene il Pride Village. «Il più grande evento Lgbt+ d’Italia», specifica con orgoglio Alessandro Zan, che si definisce, in ordine, fondatore del Padova Pride Village, attivista Lgbt+ e deputato della Repubblica. Com’è noto l’onorevole democratico Zan è il relatore del ddl Zan, il disegno di legge contro l’omofobia, la transfobia, la misoginia e l’abilismo, già approvato in prima lettura alla Camera e contrastato dalle destre al Senato. Questo, invece, non è noto: Zan è azionista di maggioranza col 52 per cento e amministratore unico di Be proud srl, la società a responsabilità limitata che organizza concerti, spettacoli e dibattiti nei tre mesi del Pride Village alla fiera di Padova. Be proud fu aperta nella primavera del 2015 alla vigilia dell’ottava edizione, mentre Zan, già assessore comunale di Padova, era deputato di Sel di Nichi Vendola. «La Be proud è una società di scopo che gestisce solo il Pride Village a Padova. Io non ho alcun compenso e», precisa il deputato del Pd, «non c’è alcun ritorno economico. Tutto quello che incassa lo reinveste e quindi non fa alcun tipo di utile. La società è nata perché l’Arcigay non poteva seguire la gestione del Village per motivi fiscali». Be proud ha impiegato 23 persone e ha dichiarato ricavi per 1,049 milioni di euro nel 2019 e si tratta, soprattutto, dei biglietti d’ingresso. Non riceve contributi pubblici, ma il comune di Padova finanzia alcune associazioni e alcuni appuntamenti del cartellone del Village. La società Bithouseweb si occupa di comunicazione per il Pride Village da sempre e ha una quota del 24 per cento in Be proud. A differenza di Be proud, Bithousweb non lavora soltanto per il Pride Village e i suoi amministratori sono ben retribuiti. Zan non guadagna un euro dal Pride Village e assicura che si è intestato la società per generosità: di fatto, però, i conti e le scelte del Pride Village, un potere, dipendono completamente da Be proud di cui Zan è proprietario e amministratore e dai suoi soci di Bithousweb. Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia, è la spalla del giovane figlio Pietro nella società Italy World Services (Iws) che svolge «attività di consulenza e assistenza a professionisti e imprese, pubbliche e private, per raggiungere il mercato internazionale». Papà Adolfo ha il 31 per cento, il figlio Pietro il 69. Per sette anni viceministro con delega al commercio estero negli ultimi governi di Berlusconi, dunque competente del settore, Urso ha fondato Iws nel 2013 quando non venne candidato dopo la rottura fra Gianfranco Fini e l’ex Cavaliere. Adesso è membro della commissione Esteri e vicepresidente del comitato che vigila sui servizi segreti (Copasir), ma non ha lasciato la società di famiglia: «Nel 2013 non ero più in Parlamento né avevo ancora il vitalizio. Non ho chiesto un posto pubblico e mi sono reinventato nel privato. Quando nel 2017 ho compiuto 60 anni e ho iniziato a ricevere il vitalizio, ho smesso di avere ruoli operativi in questa società e non ho più ricevuto compensi. Nel 2018 sono stato rieletto e continuo a mantenere solo una piccola quota. Oggi non ho alcuna incompatibilità perché non svolgo alcuna attività operativa. E le dico di più: anche se l’avessi non sarebbe incompatibile. Sentite, qui tutti vanno alla ricerca di incarichi pubblici, io quando non ero più parlamentare cosa dovevo fare? Ho seguito la legge: mi sono dimesso dal governo Berlusconi e dopo tre anni ho fondato Iws». Tutti stanno un po’ di qua e un po’ di là. Un po’ attentamente in aula e un po’ distrattamente in cda. Nessuno si sente operativo. Di sicuro, molti si avvertono indispensabili.

Da fanpage.it il 29 aprile 2021. Claudio Durigon, l’attuale sottosegretario all’Economia del governo Draghi, è stato eletto alla Camera nelle elezioni del 2018. Prima di entrare a Montecitorio Durigon aveva fatto carriera all’interno del sindacato Ugl, dove era arrivato a ricoprire la carica di vicesegretario. L’Ugl, che dichiara di poter contare su quasi due milioni di iscritti, sarebbe in realtà un sindacato con poche migliaia di deleghe. A denunciarlo a Fanpage.it sono gli stessi tesserati. Mentre la procura di Genova bloccava i conti del Carroccio in seguito all’inchiesta sui 49 milioni, è proprio Durigon a suggellare l’alleanza con la Lega di Matteo Salvini. È lui che corre in soccorso del partito in crisi economica mettendo a disposizione della Lega la sede e lo staff del sindacato. È grazie alla discesa in campo del sindacalista che si è fatto onorevole che la Lega costruisce la sua roccaforte nel Lazio. Un’operazione partita dalla provincia di Latina, la città natale di Durigon. Delle fonti coperte rivelano i legami del sottosegretario nella provincia pontina già investita da numerose inchieste dell’antimafia per infiltrazioni mafiose nella politica. Ma le indagini dei pm non sembrano preoccupare il sottosegretario che ha rivendicato di essere stato lui, insieme al suo partito, ad aver nominato il generale della Guardia di finanza che sta indagando sulla Lega di Matteo Salvini.

(askanews il 29 aprile 2021) - Esplode il caso Durigon, dopo l'inchiesta di fanpage.it sull'ascesa dell'attuale sottosegretario al Mef. Con il Movimento Cinque Stelle che chiede un intervento del ministro Daniele Franco. L'inchiesta, un lungo servizio di 25 minuti, racconta i legami tra la Lega e l'Ugl, il sindacato di cui era dirigente Claudio Durigon prima di essere eletto in Parlamento, attraverso i racconti di ex iscritti dell'Ugl. Sotto la lente anche i presunti rapporti tra Durigon e imprenditori della provincia di Latina su cui sono in corso inchieste della magistratura per legami con la criminalità organizzata. Ma non solo: nel servizio ci sono anche conversazioni di Durigon riprese con telecamere nascoste, in cui il sottosegretario prospetta ai suoi interlocutori la possibilità di incarichi pubblici e pronuncia una frase sull'inchiesta relativa ai finanziamenti della Lega: "Quello che indaga della Guardia di Finanza, il generale lo abbiamo messo noi...". Fonti del partito fanno però sapere che Claudio Durigon "è tranquillamente al lavoro" al ministero, e che il suo avvocato ha già presentato dieci querele. Eugenio Saitta (M5s) alla Camera si sofferma proprio sulle affermazioni di Durigon relative all'inchiesta sulla Lega: "Le parole di Durigon sono gravissime, fanno sorgere dubbi sulla Guardia di Finanza. Chiediamo l'intervento del ministro Franco perchè c'è bisogno di chiarezza". La replica della Lega in Aula arriva da Edoardo Ziello: "Siamo sempre garantisti, sono solo inchieste giornalistiche, dal punto di vista giudiziario non c'è niente", dice tirando in ballo l'inchiesta per stupro a carico del figlio di Grillo e le dichiarazioni della sottosegretaria Macina. Scambio di battute che fa salire la tensione in Aula, tanto che la presidente di turno è costretta a sospendere la seduta.

Durigon e la candidatura a governatore della Regione Lazio: ora gli alleati frenano. Valerio Renzi per fanpage.it il 29 aprile 2021. Non è un segreto per nessuno: Claudio Durigon punta alla presidenza della Regione Lazio. Dopo gli incarichi di governo, dopo aver strutturato la Lega di Matteo Salvini in tutta la regione, a partire dalla sua roccaforte di Latina l'attuale sottosegretario vuole la poltrona che oggi è di Nicola Zingaretti. Ma l'inchiesta di Fanpage sui rapporti tra Lega e Ugl, con al centro proprio Durigon, cambia tutte le carte in tavola. Se fino a pochi mesi fa la partita era chiara, Fratelli d'Italia avrebbe indicato il candidato sindaco nella Capitale e la Lega avrebbe espresso il candidato alla Regione Lazio, la possibile discesa in campo a Roma di Zingaretti e l'aumento di gradimento nei sondaggi del partito di Giorgia Meloni hanno cambiato tutto. Se nessuno vuole fare il sindaco di Roma, Fratelli d'Italia ora rivendica per sé la poltrona del governatore della Regione Lazio aprendo una contesa senza esclusione di colpi con la Lega, ora sempre più in difficoltà a sostenere che l'unico candidato possibile è proprio Durigon. Perché l'inchiesta di Fanpage non solo scoperchia i rapporti pochi limpidi tra il sindacato Ugl guidato proprio da Durigon e la Lega di Salvini, ma mostra come Durigon ha costruito il suo potere a Latina, avvalendosi dei servigi e in stretti rapporti con imprenditori non proprio specchiati ed elementi dei clan. E tra pochi mesi si tornerà alle urne proprio a Latina, dove il centrodestra ancora non ha un candidato sindaco e dove sempre Lega e Fratelli d'Italia faticano a trovare un accordo dopo essere stati protagonisti di uno scontro fratricida in provincia all'ultima tornata elettorale, dove si sono presentati come avversari a Terracina e Fondi. Se si arrivasse alle dimissioni di Durigon da sottosegretario a crollare potrebbe essere un intero sistema di potere e clientele costruito con tenacia e determinazione dal parlamentare leghista. Un crogiolo di potere strutturato in pochi anni, ma estremamente radicato e che si tiene insieme solo grazie al ruolo dell'ex segretario dell'Ugl. In queste ore la Lega nel Lazio è smarrita a ogni livello in attesa di capire le sorti del "capo". E in molti già cominciano a ragionare ad alta voce dell'opportunità di voltare pagina e archiviare la stagione della gestione Durigon.

Luigi Ippolito per il "Corriere della Sera" il 31 marzo 2021. Le vie del deserto sembrano particolarmente trafficate. Specialmente quelle che conducono sotto la tenda del principe Mohammed bin Salman, l'uomo forte dell'Arabia saudita - e mandante diretto, secondo la stessa Cia, dell'assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Sono soprattutto gli ex primi ministri europei che non sembrano avere particolari esitazioni a stringere la mano insanguinata di MBS (sigla con cui è conosciuto il principe). Del nostro Matteo Renzi sapevamo già, così come delle sue lodi al «rinascimento saudita» (per maggiori informazioni, chiedere alla vedova Khashoggi); ma adesso si scopre che a godere dell'ospitalità di Bin Salman, addirittura in campeggio fra le dune, è stato pure l'ex premier britannico David Cameron, volato lì in qualità di lobbista della Greensill Capital, la discussa società finanziaria di cui era diventato consulente dopo aver lasciato Downing Street. Il viaggio, ha raccontato il Financial Times , sarebbe avvenuto all'inzio del 2020, subito prima dello scoppio della pandemia. Ma Cameron era andato a Riad già nell'ottobre del 2019, per partecipare alla cosiddetta «Davos del deserto»: una visita che era avvenuta un anno dopo l'omicidio Khashoggi e che già Amnesty International aveva criticato perché poteva «essere interpretata come una dimostrazione di supporto per il regime saudita» nonostante «gli spaventosi precedenti in tema di diritti umani». Considerazioni che evidentemente non hanno impedito a Cameron (e dopo di lui a Renzi) di fraternizzare col despota mediorientale. D'altra parte, gli ex premier sono di bocca buona: il loro modello sembra essere Tony Blair, che dopo aver lasciato la politica attiva ha fatto da consulente ai peggiori regimi, da quello egiziano di Al-Sisi a quelli dei satrapi centro-asiatici. Ma come si sa, pecunia non olet : e Cameron dall'attività di lobbista per la Greensill Capital, esercitata tanto con i sauditi che col governo di Londra, si apprestava a incassare 60 milioni di sterline. La finanziaria però è crollata per le sue dubbie pratiche d'affari e ora a Londra si reclama a gran voce che Cameron risponda a parecchie domande.

Francesca Sforza per "La Stampa" il 15 aprile 2021. Delle volte è tutta una questione di stile. Perché non è vero che sono solo di sinistra i leader che dopo aver chiuso con la grande politica si sono dati al grande business. Ma certo hanno fatto tanto più rumore. In quanti ricordano, ad esempio, che l'ex premier britannico conservatore John Major guadagnò milioni entrando - al termine del suo mandato - nel fondo di Private Equity Carlyle? Molto più difficile da dimenticare l'ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder che, dismessi i panni del socialdemocratico tutto d'un pezzo, ha fatto il suo ingresso prima nel consiglio di amministrazione del colosso petrolifero di Stato russo Rosneft e oggi siede in quello del controverso gasdotto NordStream2, contrastato dagli Stati Uniti e maggior ragione di attrito tra la Germania e l'attuale amministrazione Biden. Di recente in patria gli è stato ricordato il suo passato di leader libertario e di sinistra da una sua ex sodale dei Verdi: «Come può continuare a occupare quel posto di fronte a quanto avvenuto all'oppositore di Putin, Alexiej Navalny?». In linea con la politica di comunicazione del Cremlino, la deputata Göring-Eckardt non ha ricevuto risposta dall'ex cancelliere. «Deve essere una questione legata al materialismo storico - ha osservato qualche tempo fa, non senza una certa ironia, un ex laburista oggi professore alla London School of Economics, Meghnad Desay -: Tony Blair ha sempre invidiato quanti soldi aveva raccolto Bill Clinton una volta finita la sua presidenza». E se ricordare che il materialismo storico non va confuso con interessi materiali finalizzati al proprio tornaconto potrebbe suonare come una sofisticheria fuori luogo, distinguere fra una Fondazione benefica e una partecipazione alla realizzazione di un gasdotto in Azerbaijan è senz'altro di più immediata comprensione: uno è Clinton, l'altro è Blair. Subito dopo aver lasciato la politica nel 2007 il teorico della terza Via, dei mercati che andavano mano nella mano con la difesa dello stato sociale, è prima diventato inviato speciale del Quartetto per il Medio Oriente e poi, attraverso la Tony Blair Associates, ha allargato il suo raggio di consulente a varie altre entità sociali (dal clima all'Africa) fino ad approdare al consorzio guidato da British petroleum per l'esportazione di gas in Europa dall'Azerbaijan (incidentalmente presieduto da Ilham Aliev, figlio del presidente precedente Haidar Aliev ed eletto all'ultima tornata con l'87% dei voti). Meno affascinato dalle autocrazie dell'Est è sembrato essere José Manuel Barroso, anche lui socialdemocratico di estrazione, e passato alla storia europea come strenuo difensore delle politiche di austerità che tanto amaramente colpirono la Grecia. Tra le ragioni del mostruoso disavanzo greco ci furono anche strumenti finanziari derivati sottratti alla contabilità pubblica dai governi dei primi anni duemila con il tacito assenso dei vertici di Goldman Sachs, lo stesso istituto presso cui Barroso divenne advisor appena terminato il suo incarico come presidente della Commissione Europea (dopo aver rispettato il periodo di 18 mesi previsto per l'assunzione di qualsiasi nuovo incarico). «Traditore un giorno, traditore sempre», strillò in prima pagina il quotidiano francese Libération. «Niente di illegale - osservò più pacatamente il presidente Hollande - ma certo così poco opportuno». E di opportunità si è tornato a parlare anche in Italia, di recente, dopo le incursioni del senatore Matteo Renzi per intervenire sul Rinascimento economico in Arabia Saudita con lo sceicco Mohammed Bin Salman. Di nuovo, niente di illegale, e nel suo caso non vale neanche l'amarissima considerazione rivolta agli altri della lista da Mark Blyth, economista della Brown University: «Si trovano adesso nello stesso luogo - l'incrocio opaco di aziende che mescolano energia e danaro - in cui si troverebbero se non avessero mai governato». Per Renzi appunto non vale, perché non ha governato abbastanza.

Alessandra Rizzo per "la Stampa" il 15 aprile 2021. «È il prossimo scandalo pronto a scoppiare. Sto parlando del lobbismo», diceva David Cameron una decina d' anni fa in un video che da giorni impazza su Twitter. «Sappiamo tutti come funziona: un pranzo, un po' di ospitalità, una parola sussurrata all' orecchio». L' ex premier aveva ragione, ma non poteva immaginare che sarebbe stato proprio lui, novello lobbista, a finire al centro dello scandalo. Adesso deve affrontare un' inchiesta ordinata dal suo eterno amico-nemico, l' attuale primo ministro Boris Johnson. Downing Street assicura che l' unico obiettivo è la trasparenza, mentre in molti sospettano un colpo basso di Johnson per danneggiare il rivale di una vita. Ma lo scandalo si sta allargando, e rischia di travolgere altri Tory e creare imbarazzo al primo ministro stesso. Al centro della vicenda c' è la Greensill Capital, una società finanziaria anglo-australiana oggi fallita di cui Cameron è stato consulente per i rapporti con il governo. E così Cameron, dimessosi da primo ministro dopo aver perso il referendum sulla Brexit nel 2016 e arruolato dalla Greensill nel 2018, si è dato da fare per garantire all' azienda un trattamento favorevole: un drink con Matt Hancock, il ministro della Salute; messaggi sul telefonino di Rishi Sunak, il ministro del Tesoro; contatti con sottosegretari vari. Per il Times, il primo a rivelare lo scandalo, Cameron avrebbe confidato ad amici di poter guadagnare fino a 60 milioni di sterline grazie alle sue azioni. Ha anche accompagnato il fondatore Lex Greensill in Arabia Saudita per incontrare il principe ereditario Mohammed Bin Salman, incontro avvenuto circa un anno dopo l' assassinio del giornalista dissidente Jamal Khasshoggi. L' ex premier ha ammesso che, nei suoi contatti con il governo, avrebbe dovuto usare solo «canali di comunicazioni formali così da non lasciare spazio a fraintendimenti». Ma ha negato ogni illecito, sottolineando di aver rispettato l' intervallo di due anni previsto dalla legge prima che ex ministri o funzionari pubblici possano intercedere presso il governo per conto di un' azienda privata. A Johnson non è bastato. Il primo ministro ha ordinato un' inchiesta «seria e indipendente» che si concluderà a giugno. Per gli osservatori, Johnson è ben felice di mettere all' angolo David Cameron dopo aver passato anni nella sua ombra (un' ombra certo ingombrante): prima a Oxford, dove Cameron ha ottenuto migliori risultati accademici; poi nel partito conservatore (all' epoca all' opposizione) dove Cameron, due anni più giovane di Boris, è diventato segretario nel 2005; infine a Downing Street, dove Cameron si è insediato nel 2010, quando Johnson era sindaco di Londra. Vite parallele in cui Johnson, più brillante e carismatico ma meno disciplinato, è finito spesso in seconda fila, ma sempre col fiato sul collo del rivale. Poi ci ha pensato la Brexit, Johnson per il divorzio, Cameron contro, a cementare la frattura e rovesciare i ruoli. Johnson corre però il rischio che il partito, spesso accusato di fare favori ad amici potenti, finisca invischiato in uno scandalo già definito il più grave nelle istituzioni britanniche da vent' anni a questa parte. Nei giorni scorsi un' altra rivelazione: un alto funzionario pubblico lavorava anche come consulente part-time della Greensill. Il Labour vorrebbe un' inchiesta più ampia (richiesta per ora respinta), e accusa Johnson di puntare il dito contro Cameron solo per distogliere l' attenzione dalle accuse di favoritismo rivolte al governo durante pandemia. Il segretario Keir Starmer azzarda un paragone con gli scandali degli Anni 90 sotto John Major, ripetendo una parola, «sleaze» (sporcizia, immoralità), che riporta alla mente quel periodo. «Clientelismo e sporcizia - dice - sono tornati nel cuore del partito conservatore».

Dagospia il 7 aprile 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, mi dispiace che Dagospia abbia rilanciato una notizia che, per quello che mi riguarda, non è vera e che, considerando la diffusione del tuo sito, mi danneggia e non poco. Il mio contratto come Segretario Generale del Prix Italia non è a tempo indeterminato. Scade a giugno. Da 23 anni lavoro per la rai e continuo a essere un collaboratore esterno che deve continuamente conquistarsi il rinnovo della fiducia dell’azienda. È anche oggettivamente falso che i miei programmi su Rai2 non superino “perlopiù il 2%”. Come  è facile verificare.  Grazie per l’attenzione, un cordiale saluto, Annalisa Bruchi

Da vigilanzatv.it il 7 aprile 2021. Il primo è stato Gigi Marzullo, nominato nel 2013 "Capostruttura Notte" dall'allora Direttore Generale Rai Luigi Gubitosi, diventando di fatto capo di se stesso e dei programmi che conduceva in notturna su Rai1. "L'uomo con la maglia a righe" arrivò ad averne ben cinque nel 2019, più la partecipazione fissa a Che tempo che fa. Un Marzullo moltiplicato per sei, che - andato in pensione nel 2020 - è tornato poi alla conduzione con contratto da collaboratore esterno. L'inamovibile Gigi da qualche giorno ha un'emula su Rai1: siamo stati i primi a dare la notizia che Monica Maggioni, conduttrice di Sette Storie dai non entusiasmanti ascolti (eufemismo) è divenuta anch'ella Capostruttura di se stessa, nominata infatti responsabile del "nucleo operativo ad Hoc Sette Storie" come da lettera dell'Ad Salini. Al settimo piano di Viale Mazzini ci hanno sussurrato che la creazione di un ruolo dirigenziale fa parte di una strategia per concorrere alla direzione della Prima Rete. Staremo a vedere. Doppi incarichi di fatto quelli di cui sopra, che appaiono casi unici e che invece sono divenuti quasi la regola, mentre in Rai languono centinaia di giornalisti senza il becco di un incarico. Un esempio è quello di Annalisa Bruchi, collaboratrice esterna Rai e conduttrice da anni di una serie di programmi su Rai2, sempre uguali fra loro e con titoli anglofoni assonanti, che perlopiù non superano il 2% di share. Qualche tempo fa, per espresso volere del Presidente Rai Marcello Foa, Bruchi è stata nominata a tempo indeterminato Responsabile del Prix Italia, scavalcando giornalisti interni (e scatenando un putiferio fra le risorse in forze all'azienda). La nomina di Bruchi assegnata senza job posting finì nel mirino del Segretario della Commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi e dei Consiglieri di Amministrazione Rai Rita Borioni (Pd) e Riccardo Laganà (Dipendenti), che chiesero la testa di Foa auspicando che la giornalista rinunciasse almeno a un incarico. Nulla di tutto questo: Bruchi è rimasta responsabile del Prix Italia e al tempo stesso conduttrice dell'ennesima trasmissione dal titolo anglofono e dai bassi ascolti, Restart, in onda sempre sulla Seconda Rete. Su Rai2 troviamo anche l'esempio di Duilio Giammaria, conduttore televisivo nominato alla guida di Rai Documentari. Spostandoci sulla Terza Rete, Franco Di Mare, Direttore di Rai3 in quota M5s, è anche conduttore del programma Frontiere. La cui guida avrebbe dovuto essere assegnata a Gianluca Semprini e che è invece è rimasta saldamente nelle mani di Di Mare, Direttore di rete e insieme conduttore televisivo, altro doppio incarico per un altro "capo di se stesso". Sempre su Rai3 caso quasi analogo per Sigfrido Ranucci, conduttore di Report poi nominato anche Direttore vicario della Terza Rete. Ma i doppi incarichi non sono solo interni alla Rai e non riguardano solo la conduzione televisiva. Come per Claudia Mazzola, artefice in quota M5s di quattro scatti di carriera in tre anni, e passata da redattrice ordinaria a Direttrice dell'Ufficio Studi di Viale Mazzini, che ricopre vieppiù il ruolo di Presidente dell'Auditorium di Roma per nomina del Sindaco grillino Raggi. Il Segretario della Vigilanza Anzaldi (Iv) e l'Onorevole Federico Mollicone di Fratelli d'Italia hanno eccepito sull'incompatibilità dei due incarichi, ma la Mazzola permane sempre saldamente alle redini dell'uno e dell'altro. Altro caso di doppio incarico esterno alla Rai, quello di Maria Pia Ammirati, ex Direttrice di Rai Teche e nominata nel febbraio 2020 Presidente dell'Istituto Luce Cinecittà dal Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini. Presidenza che Ammirati ancora detiene malgrado sia divenuta poi Direttrice di Rai Fiction, e malgrado le due poltrone, interna ed esterna, siano di fatto incompatibili, come del resto quelle della Mazzola. Qualcuno eccepisce? Nessuno. Nell'atmosfera di fine impero che regna a Viale Mazzini, vale tutto e il contrario di tutto, e anziché lasciare si raddoppia.

Super mutuo per Draghi: lo pagherà fino a 93 anni. Concesso al premier un finanziamento ventennale di 1,5 milioni di euro: il rimborso avverrà in 20 anni a partire dal primo gennaio 2021. Luca Sablone - Mar, 06/04/2021 - su Il Giornale. Un super mutuo è stato concesso al premier Mario Draghi. Lo si apprende dall'edizione odierna de Il Tempo, che ha riportato il testo contenuto nell'atto registrato dal notaio Alessandra Temperini a Roma il 22 luglio 2020: "Banca Passadore ha concesso a titolo di mutuo alla parte finanziata, signori Draghi Mario e Cappello Maria Serenella, che hanno accettato, la somma di euro 1.500.000". Il rimborso del mutuo "avverrà in 20 anni a partire dal primo gennaio 2021". La parte finanziata "si è obbligata per sé, per i suoi eredi, successori e/o aventi causa con vincolo solidale e indivisibile fra di loro, a restituire la somma mutuata entro la scadenza pattuita con ammortamento in numero 40 rate semestrali posticipate". Il tasso di interesse viene infine fissato "nella misura dello 01,220% nominale annuo per tutta la durata del finanziamento-Taeg/i.s.c. 1,251%". Dunque il presidente del Consiglio finirà di pagare il mutuo all'età di 93 anni visto che, al momento della sottoscrizione di quel finanziamento, lui e la sua consorte avevano 72 anni (per la moglie mancavano pochi giorni e per il marito poco più di un mese al compimento del 73esimo compleanno). Il Tempo ha anticipato quello che probabilmente sarebbe stato reso pubblico in breve tempo, considerando che vige l'obbligo di dichiarare la dichiarazione patrimoniale e reddituale del premier e dei ministri non parlamentari del nuovo governo. Il termine masssimo è fissato per il 13 maggio prossimo, praticamente a tre mesi dal giuramento. Nella storia c'è chi ha superato i limiti di pochi giorni, mentre altri hanno anticipato i tempi e hanno depositato tutta la documentazione richiesta poche settimane dopo l'insediamento del nuovo esecutivo. Ad esempio Luciana Lamorgese ha già depositato sia la dichiarazione dei redditi sia quella sul patrimonio. Il ministro dell'Interno nel 2020 (periodo d'imposta 2019) ha dichiarato un reddito complessivo di 230.357 euro lordi; nel 2019 (periodo d'imposta 2018) aveva invece dichiarato 162.713 euro. Vi avevamo inoltre parlato del "caso Lucia Azzolina". L'ex ministro dell'Istruzione è stato il più "fortunato" del governo giallorosso: l'imponibile della pentastellata nella dichiarazione dei redditi 2018 era di 7.731 euro; in quella del 2019 è salito a 81.106 fino ad arrivare ai 95.075 euro in quella del 2020. La Azzolina, nel passaggio dal ruolo di insegnante a quello di ministro, ha più che moltiplicato per 10 le sue entrate. Ora si attendono le dichiarazioni reddituali dei nuovi ministri del governo guidato da Mario Draghi.

Dagospia il 7 aprile 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, ringrazio il dott. Bechis per le lusinghiere parole nei confronti dello studio del quale faccio parte. A onor del vero, in questo momento Unicredit pubblicizza su Mutuionline un prestito ipotecario a sette anni erogabile a pensionati settantatreenni (l’età del premier) al vantaggioso tasso variabile dello 0,35%. Se poi, nel menù a tendina, si riduce l’età del mutuatario a 60 anni, le offerte di mutui ipotecari a 20 anni abbondano…Secondo il dott. Bechis, invece, le banche concedono mutui ventennali ai sessantenni solo in rarissimi casi, e questo avviene perché altrimenti rischiano di restare a mani vuote. Nessuna menzione nel suo articolo della garanzia che il valore dell’immobile ipotecato rappresenta per le banche. Che l’articolo non avesse un tono critico e qualunquista verso il Prof. Draghi – come ha replicato il dott. Bechis – possono giudicarlo i lettori, certo non lui stesso. Cesare Vento

Dagospia il 7 aprile 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Sai che ti scrivo solo quando mi muovono le emozioni e i tecnicismi legali... Be', quell'"articolo" (si fa per dire....) di tale Bechis del Tempo (che poi ho scoperto essere addirittura il direttore!), al quale hai dato ospitalità, secondo cui una banca avrebbe accordato un favoritismo a SuperMario per quel mutuo concesso l'anno scorso, è veramente uno dei più disgustosi esempi di becera propaganda qualunquista che mi sia capitato di leggere, anzi, di riuscire a finire di leggere trattenendomi dal vomitare fino alla fine. Secondo l'erudito commento, se non si fosse trattato di SuperMario, nessuna banca avrebbe concesso un mutuo ipotecario ventennale sulla casa a un ultrasettantenne perché, si sa (? lo sa solo lui…), l'unica garanzia alla quale le banche guardano è la capacità reddituale prospettica di chi prende il prestito... sicché, sempre stando all’eruditissimo “giornalista” (si fa sempre per dire…), nessuna banca concederebbe un prestito a chi ha più di 55 anni, eccezionalmente 60, perché altrimenti chissà come farebbero le banche a essere sicure che il debitore possa lavorare fino a 80 anni e più per racimolare i quattrini sufficienti a rimborsare le rate del mutuo fino a scadenza. Mirabile, poi, la “chicca” secondo cui, anche se nel rogito notarile si legge che sono “obbligati gli eredi al pagamento in caso di scomparsa del debitore: per legge hanno diritto alla rinuncia dell’eredità e la banca rischierebbe di restare a mani quasi vuote, con un rischio che normalmente non vorrebbero correre”… Non risulta che le ipoteche sugli immobili si estinguono in caso di morte del debitore ipotecario: anche un bambino in età scolare sa che un immobile ipotecato significa che se il debitore non paga quanto deve, morto o vivo che sia, il creditore può fare vendere all’asta l’immobile e soddisfarsi sul ricavato. Che poi le banche, prima di prestare 100, si accertano che l’immobile offerto in garanzia ipotecaria valga almeno 120/130 è un fatto che, in un paese dove oltre l’80% della popolazione vive in casa di proprietà, è noto anche ai pochi (fortunatamente) maggiorenni analfabeti rimasti nella nostra amata patria, con tutto il rispetto per loro…Che non lo capisca il direttore di un quotidiano – o, più verosimilmente, che il direttore di un quotidiano ometta di rammentarlo a fini di puerile propaganda politica per sostenere che è stato fatto un favoritismo a un uomo al quale basterebbero poche ore alla settimana dedicate a una consulenza a Goldman Sachs o simili per acquistare un appartamento ai Parioli ogni mese senza ricorrere ad alcun debito bancario, e il quale invece, grazie a Dio, si dedica ad aiutare noi tutti – è un fatto che dovrebbe indurre l’editore di quel quotidiano a riflettere se abbia scelto il “giornalista” adeguato perché, per carità, la critica e la libertà di stampa sono indispensabili alla democrazia, ma c’è un limite a tutto. Cioè, la decenza. Un abbraccio Cesare Vento Partner Gianni&Origoni

Dagospia il 7 aprile 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, ho letto da te un intervento di tale Cesare Vento di cui ho appreso oggi l’esistenza, ma che appartiene a un onorato studio legale che ben conosco essendo stato tanti anni alla direzione di quotidiani economici e finanziari come Mf-Milano Finanza e Italia Oggi. Leggo che l’avvocato è Vento di tempesta in un bicchiere d’acqua perché legge nell’articolo sul mutuo casa del professore Mario Draghi un tono critico e qualunquista che non c’era. Spiega l’avvocato che deve saperla lunga che il mutuo ipotecario ipoteca l’immobile del prof. Draghi e che questa sia garanzia che sopravvive a qualsiasi età ed evento infausto possa capitare al debitore. Già, io che nulla so immaginavo che mutuo ipotecario questo significasse per tutti, non solo per Draghi. Quindi se basta il bene ipotecato a garantire, perché vale almeno il 120% del valore del finanziamento, mi chiedo come tutti gli istituti di norma si ostinino di fronte a questa certa garanzia a rifiutare il finanziamento ventennale a chi lo chiede alle stesse identiche condizioni avendo passato peró la sessantina. Perché di questo sono certo. Così con la semplice garanzia dell’ipoteca e l’obbligo degli eredi viene rifiutato praticamente da tutti gli istituti. Se ne puó discutere davanti a una fidejussione, o con una polizza a vita a garanzia. Non ho mai visto un ultrasettantenne peró sottoscrivere una polizza vita a questo fine perché sempre che ci sia compagnia disposta a farlo, il premio da pagare sarebbe assolutamente non conveniente. Certo se l’Avvocato Vento si fa trascinare dalla tempesta, poi rischia di perdere carte e ricordi. Lo aiuto raccontando un’altra storia. Vero che Draghi è stato numero uno della banca centrale europea e pure di quella europea. E infatti l’articolo esordiva proprio così: “voglio vedere la banca che rifiuta il mutuo a uno con la sua storia e i suoi redditi”. Ma al mondo questo è successo. Perfino a uno più importante di lui. Si chiama Ben Bernanke, per 3 anni in consiglio della Fed e per 8 alla guida: il primo banchiere centrale del mondo. Ha finito l’incarico, ha scritto un libro che gli ha portato 2,4 milioni di dollari di diritti di autore. È diventato conferenziere come capita e per sentire le sue analisi in giro per il mondo erano disposti ogni volta a pagare 400 mila dollari. Il conto in banca era di quelli che contano. Aveva un mutuo casa pesante, a condizioni assai sfavorevoli. Ha fatto la stessa cosa di Draghi: è andato in banca, ha chiesto di accenderne un altro ipotecario per chiudere il primo, e continuare a pagare rate a condizioni migliori. La banca con cortesia glielo ha negato: aveva tanti soldi sì, ma non fissi ogni mese. Non c’erano per l’istituto sufficienti garanzie. L’ha raccontato Bernanke stesso sorridendo e fiero da ex banchiere centrale di essere stato trattato come sarebbe accaduto a chiunque altro americano allo stesso sportello. Una splendida storia. Restata in America. Buon lavoro Franco Bechis - giornalista

L'antidroga va alla Dadone. Scoppia l'ira del centrodestra. Il ministro con idee antiproibizioniste finisce nel mirino. E gli azzurri già la avvertono: "Su questi temi niente sconti". Francesca Galici - Sab, 03/04/2021 - su Il Giornale. Fabiana Dadone, quella che per dimostrare di essere ministro per la Gioventù si è fatta fotografare con la maglietta dei Nirvana e i piedi sulla scrivania, ha risposto alla lettera che è stata inviata da 400 digiunatori per la cannabis a Draghi e Speranza. "Mi è stata attribuita la delega di funzioni in materia di politiche antidroga", ha scritto il ministro per rassicurare sul fatto che, compatibilmente con l'emergenza sanitaria, il processo convocatore dei digiunatori inizierà quanto prima. Ma al di là della risposta fornita da Fabiana Dadone a chi protesta per la legalizzazione della cannabis in Italia, a scatenare le polemiche è la conferma alla delega all'antidroga, data dalla stessa Dadone, che nella lettera sottolinea come le sia stata affidata lo scorso 15 marzo. "Auspicavamo una smentita ma è arrivata una conferma: il premier Draghi ha affidato la delega governativa alle politiche antidroga alla grillina Fabiana Dadone. Per anni FdI ha chiesto l'assegnazione della delega perché era scandaloso che nessuno si occupasse a tempo pieno dell'emergenza droga ma è grave e deludente che per un compito così delicato come la lotta alle dipendenze sia stato scelto un esponente politico firmatario di proposte per legalizzare la cannabis", ha tuonato Giorgia Meloni. Il leader di Fratelli d'Italia è amareggiata dalle scelte di questo governo e non lo nasconde, per poi fare un appello alla coalizione: "Non è questa la discontinuità che ci aspettavamo da Draghi. Rinnovo il mio appello ai partiti di centrodestra che sostengono il governo affinché si facciano sentire con decisione: Fratelli d'Italia lo farà dall'opposizione perché su questi temi non sono accettabili cedimenti e compromessi al ribasso". Categorico anche Matteo Salvini: "La droga, ogni droga, è morte. Nessun regalo agli spacciatori. Viva la Vita e chi non si arrende". Ma dopo la conferma di Fabiana Dadone, l'intero centrodestra ha espresso fortissime perplessità per questa scelta. Tra i più critici Roberto Occhiuto, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati. "È positivo il fatto che il premier Draghi abbia affidato ad un ministro la delega governativa alle politiche antidroga; è curioso, però, il fatto che la scelta sia ricaduta su Fabiana Dadone, titolare delle politiche giovanili e dichiaratamente antiproibizionista", ha detto il deputato sottolineando che "l'esecutivo, attraverso la sua azione, dovrebbe garantire la promozione e l'indirizzo di politiche per prevenire, monitorare e contrastare il diffondersi delle tossicodipendenze e delle alcool-dipendenze". Invece, come sostiene Occhiuto, il ministro Dadone "nel recente passato ha più volte sostenuto pubblicamente la liberalizzazione della cannabis, ed ha sottoscritto proposte di legge per la sua legalizzazione". Roberto Occhiuto, quindi, si domanda retoricamente se nel governo non ci fosse un profilo "meno discutibile", auspicando che "la Dadone chiarisca presto e in modo inequivocabile le linee guida attraverso le quali intenderà portare avanti il suo mandato". Il capogruppo, quindi, ha tracciato la linea del suo partito: "Su questi temi Forza Italia e il centrodestra non faranno sconti: la droga è il male assoluto, non esistono droghe di serie A e di serie B". Dopo le parole di Occhiuto, il M5S si è lamentato di presunte offese nei confronti di Fabiana Dadone. La risposta di Forza Italia è arrivata rapidamente per mezzo di Annaelsa Tartaglione, vice presidente dei deputati di Forza Italia: "Sollevare delle legittime perplessità sull'assegnazione alla Dadone della delega alle politiche antidroga non corrisponde in alcun modo ad una 'offesa' nei confronti del ministro nè, tantomeno, del presidente Draghi. Spiace che la grillina Tripodi utilizzi queste 'armi' dialettiche puerili per derubricare una vicenda che merita attenzione e chiarezza". Prosegue, poi, Annaelsa Tartaglione: "Il M5S dovrebbe sempre tenere a mente che fa parte di un governo di unità nazionale, sostenuto da una maggioranza eterogenea nei valori e nelle culture. Pertanto, è del tutto normale che chi si è sempre battuto contro la legalizzazione delle droghe, preferendo la vita al limbo diabolico nel quale conducono gli stupefacenti, sollevi dei dubbi su certe scelte". Infine, il vicepresidente dei deputati di FI conclude: "Se poi nel corso di questi mesi la ministra Dadone ha cambiato idea sull'uso delle droghe non può che farci piacere, lo palesi e renda pubblici i suoi nuovi convincimenti". Sul tema è intervenuta anche Licia Ronzulli, vicepresidente del gruppo Forza Italia al Senato e responsabile del movimento azzurro per i rapporti con gli alleati. "Conosciamo le idee del Movimento 5 Stelle sulla cannabis e sono assolutamente distanti dalle nostre. In questi tre anni di legislatura abbiamo rispedito al mittente numerosi tentativi dei grillini di legalizzarla e di certo non abbiamo cambiato idea adesso", ha detto la Ronzulli. La vicepresidente di Forza Italia al Senato, quindi, ha ribadito che "siamo e restiamo contro l'uso di qualsiasi droga e non arretreremo di un millimetro sulla necessità di contrastarne l'utilizzo e di prevenirne le dipendenze". Maria Teresa Bellucci, deputato e capogruppo per Fratelli d'Italia in Commissione Affari sociali e bicamerale infanzia e adolescenza, afferma: "L'assegnazione della delega per le politiche antidroga al Ministro grillino Dadone è una brutta sorpresa di Pasqua. Il tanto annunciato Governo dei migliori dal Premier Draghi, assegna una delega così delicata al Ministro peggiore. Per 10 anni le sinistre di Governo non hanno assegnato la delega e hanno abbandonato al disinteresse più completo le politiche di contrasto alle dipendenze patologiche, mentre i 5Stelle, e la stessa Dadone, riservavano la loro cieca attenzione unicamente alla liberalizzazione della cannabis". La Bellucci porta dati concreti a sostegno della sua tesi sull'emergenza drogra in Italia tra i giovani: "Da anni FdI chiede un imponente piano di lotta alla droga, una riforma del sistema dei servizi pubblici e privati per le dipendenze patologiche, oltre al finanziamento del Fondo Nazionale di Lotta alla droga, alla ricostituzione della Consulta degli esperti e alla celebrazione della conferenza nazionale delle politiche antidroga". In difesa di Fabiana Dadone si è schierato Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera e deputato M5S: "La delega alle politiche sulle droghe alla ministra Dadone ha aperto una gara a chi è più oscurantista, con punte di prepotenza notevoli. Sono assolutamente solidale con Fabiana e sono convinto che lavorerà benissimo. Le critiche sono palesemente aprioristiche e strumentali: confondere le azioni di prevenzione e gestione del complesso fenomeno delle droghe con un generico 'liberi tutti' è frutto di prese di posizione antistoriche che speravamo superate". Il deputato grillino ha concluso: "Presto calendarizzerò la proposta di legge per inserire quei principi nel nostro ordinamento, anche per sostenere il diritto dei malati a curarsi con la cannabis". Maurizio Gasparri ha rapidamente reagito senza mezze misure alle parole del presidente della commissione Giustizia della Camera: "Leggo che un tale Perantoni apre alla discussione di legge pro droga alla Camera. Non so cosa deciderà Montecitorio ma a Palazzo Madama una legge del genere non passerà mai. Abbiamo votato per Draghi, non per "droghe". Chi scherza su questi temi vuol mandare il governo a casa". L'indignazione del centrodestra compatto ha scatenato l'ira del Movimento 5 Stelle: "Da Forza Italia arrivano critiche pretestuose e discriminatorie contro la scelta di Draghi che ha affidato la delega per le politiche antidroga alla ministra Fabiana Dadone. Non si comprende la natura di questi attacchi al presidente del Consiglio e alla ministra Dadone che, fra l'altro, ha già annunciato di voler convocare la Conferenza nazionale sulle droghe, che dovrebbe riunirsi ogni anno, ma che non viene convocata da 12 anni. E' palese che ogni forza che siede in Parlamento, a partire dal Movimento 5 Stelle insieme con la ministra Dadone, si batta contro il traffico di stupefacenti portato avanti dalla criminalità organizzata. Quindi questi attacchi appaiono meramente strumentali".

Estratto dell'articolo di Stefano Vergine per il "Fatto quotidiano" il 10 marzo 2021. L'ultimo appalto milionario porta la data di venerdì 5 marzo 2021. Quel giorno il gigante mondiale della consulenza Ernst & Young - un fatturato di 37,3 miliardi di dollari - ha ricevuto una bella notizia dall' Italia. Una delle sue controllate, EY Advisory Spa, si è aggiudicata la gara numero 7841608: un contratto di consulenza affidatole dalla Agenzia Nazionale per i Giovani, l'ente governativo che gestisce in Italia i programmi europei di istruzione giovanile come l'Erasmus. E proprio di questo si dovrà occupare Ernst & Young, una delle cosiddette Big Four della consulenza insieme a Deloitte, Pwc e Kpmg: aiutare l'istituzione italiana nella "gestione e attuazione dei programmi Erasmus+/Youth in action, European solidarity corps, degli analoghi programmi europei per i giovani del settennato 2021-2027 e delle iniziative proprie dell' Agenzia nazionale per i giovani", si legge nel bando. Il tutto per un valore stimato dall' ente pubblico in 4,2 milioni di euro Iva esclusa. Fin qui niente di strano. […] L'appalto assegnato lo scorso 5 marzo ad Ernst & Young ha una particolarità. È il nome della dirigente al vertice dell'ente statale che ha affidato l'incarico alla multinazionale britannica: Lucia Abbinante. Barese, 33 anni, esperta di educazione, la direttrice generale dell'Agenzia Nazionale per i Giovani fino a poco tempo fa lavorava infatti proprio per Ernst & Young. […] Il fatto di aver affidato un contratto milionario all' azienda che fino a poco tempo fa le pagava lo stipendio deve avere però creato qualche imbarazzo alla stessa Abbinante. Lo suggerisce quello che c' è scritto sul sito internet della Agenzia Nazionale per i Giovani o, per essere più precisi, quello che non c'è più scritto.  […] Di tutte le esperienze citate sulla pagina web ora attiva sul sito dell'Agenzia ne manca una. Proprio quella in Ernst & Young, dove Abbinante ha lavorato a partire dal luglio del 2018 come consulente. […]

Da “il Giornale” il 24 febbraio 2021. Se la pubblica amministrazione non funziona, sarà impossibile spendere i fondi del Pnrr. Ecco perché una fetta importante della partita si gioca a palazzo Vidoni, la sede del ministero della Funzione pubblica dove ieri si è insediata la squadra che dovrà disegnare la Pa del futuro. A coordinarla sarà il capo di gabinetto del ministro Marcella Panucci e l' elenco degli esperti è di spessore, a partire da Bernardo Mattarella, il figlio del presidente della Repubblica che è tra i più noti avvocati amministrativisti. Collaborerà anche il professor Carlo Cottarelli e nel team ci sono anche il segretario generale del Censis Giorgio De Rita, i docente Bocconi Carlo Altomonte e Raffaella Saporito, i dirigenti pubblici Alessandro Bacci e Andrea Tardiola, Antonio Naddeo (Agenzia per la Rappresentanza Negoziale), l' avvocato Germana Panzironi. «Serve una semplificazione chirurgica e investire sul capitale umano», dice il ministro Renato Brunetta.

Luca Telese per tpi.it il 29 gennaio 2021. Matteo Renzi è sfortunato. E lo è così tanto che oggi, forse, anche la sua battaglia per togliere a Giuseppe Conte la delega ai servizi segreti acquista una nuova luce. Renzi è sfortunato perché da ieri – dopo il suo clamoroso discorso sul “nuovo Rinascimento Saudita” – esiste un enorme potenziale conflitto di interessi, per lui. La notizia che arriva dall’America, infatti, è che il nuovo corso di Joe Biden in politica estera è iniziato con una sacrosanta cesura rispetto al passato: gli Stati Uniti decidono di tagliare la vendita della armi all’Arabia Saudita, e l’Italia sta seguendo (per fortuna) questa direttrice. Una decisione, quella americana, annunciata dal nuovo segretario di Stato Antony Blinken, che ha definito questo gesto come “typical” per una nuova amministrazione. La drastica “revisione” è stata motivata dal numero uno della diplomazia americana con l’argomentazione che è resa “necessaria” dall’obiettivo di mettere al sicuro i nuovi “obiettivi strategici degli Stati Uniti”. Bene, adesso fatevi una domanda: in che commissione siede a Palazzo Madama Matteo Renzi? In commissione Difesa. E ora fatevi un’altra domanda: se domani un qualsiasi senatore della maggioranza giallorossa o del centrodestra attento agli interessi nazionali – magari di Fratelli d’Italia – presentasse un nuovo e normalissimo ordine del giorno in Commissione per attuare immediatamente lo stop alla vendita di armi proposto dall’amministrazione Biden sull’Arabia Saudita, come voterebbe Renzi? La domanda non può avere una risposta scontata dopo la scoperta dei rapporti economici fra il leader di Italia Viva e gli enti sovrani sauditi. E soprattutto dopo che sono diventati noti i rapporti economici (e politici) tra il senatore di Pontassieve e la corona saudita. E – soprattutto – dopo l’intervista entusiastica e buffamente apologetica a “my friend, your royal highness” il principe ereditario Mohammad Bin Salman. È mai accaduto che si conoscessero i rapporti così stretti e remunerati di un singolo membro del Parlamento italiano con una potenza straniera? In Italia no. E qui il tema non è più solo quello, pur gravissimo, del rapporto con un Paese che non rispetta i diritti civili, che muove guerre, che non rispetta i diritti dei lavoratori, che si regge su una teocrazia misogina dove sono violati i diritti delle donne. Qui il vero tema è che un leader influente (come stiamo vedendo) sui destini di un governo, ammette alla luce del sole di svolgere una azione di lobbying retribuita da un altro Stato. Fra l’altro, il compenso di Renzi, non è limitato alla sua attività di conferenziere, e quindi ad un singolo evento, come si era pensato in un primo tempo. A Riad l’ex premier è diventato un animatore della cosiddetta “Davos del deserto” (Riad ha preso come modello la città svizzera dove si tiene il Forum economico mondiale) organizzata dalla Future Investment Initiative (Fii). E Renzi siede nel Board di questa organizzazione – pagato (80mila euro l’anno) – che gli garantisce anche un prezioso imprimatur per gestire relazioni in quel Paese. La Fondazione, tuttavia, non è un organismo indipendente (in Arabia Saudita sarebbe impensabile) anche dal punto di vista formale, dal momento che è stata creata con un decreto del re saudita, Salman Bin Abd al-Aziz Al Sau. Fa capo in qualche modo a suo figlio – “our royal highness” – Mohammad Bin Salman. È più che un ente governativo: è una emanazione diretta della famiglia reale. Da pochi giorni (per obbligo legislativo) è diventato noto il reddito di Matteo Renzi, relativo al 2019: l’ex premier dichiara di aver guadagnato un milione 92mila e 131 euro. Se si sottrae il reddito da senatore restano quasi 800mila euro di guadagni che derivano dalle sue attività professionali esterne alla rappresentanza elettiva. E se non fosse scoppiata la crisi (innescata peraltro da lui) invece delle consultazioni si sarebbe votato sul decreto ristori, e probabilmente l’opinione pubblica non avrebbe scoperto che Renzi era a Riad, impegnato nella sua attività professionale del board, e costretto a ritornare precipitosamente a Roma, con un costoso volo (La Verità lo ha definito il “taxi volante”, spiegando che è costato 28mila euro) messo a disposizione dagli stessi sauditi. È corso nella Capitale per partecipare alle consultazioni, malgrado ai comuni cittadini  – e persino ai funzionari dello Stato “non in missione diplomatica” – sia imposta una quarantena fiduciaria di 14 giorni a chi torna da Riad (come può verificare chiunque telefonando al numero verde 1500 del Ministero della Salute). Ecco, alla luce di questa complessa rete di relazioni economiche, politiche e personali, davvero dobbiamo riconsiderare la polemica di Renzi, che sembrava astrusa anche ai più scaltri, sul controllo della delega ai servizi segreti che – non va dimenticato – era uno dei due principali motivi della crisi. Oggi Renzi curiosamente non ne parla più, dopo averne addirittura rivendicato l’ipotesi del controllo per il suo partito. Noi ci chiedevamo come mai Conte non la volesse cedere. Mentre la domanda era mal posta: bisognava domandarsi come mai Renzi desiderasse che non la mantenesse lui. Perché, come è noto, il controllo della sicurezza nazionale è prerogativa di quella istituzione. E in qualsiasi Paese del mondo, una crisi di governo pilotata da un leader che si trova – anche fisicamente – a Riad avrebbe suscitato qualcosa di più di un sentimento di stupore o di inquietudine.

Paladino (Hotel Plaza) ristruttura 57 milioni di debiti. Andrea Montanari per “MF” l'11 febbraio 2021. L’assenza di turisti ha avuto colpito il business alberghiero romano e i riflessi sul comparto immobiliare sono stati rilevanti. Così la famiglia di imprenditori del real estate Paladino, composta dal padre Cesare e dalle figlie Cristiana e Olivia (è la compagna del premier Giuseppe Conte), proprietaria dello storico Grand Hotel Plaza (5 stelle lusso e 200 stanze) è dovuta ricorrere a una procedura per risanare i conti del gruppo. In particolare, come emerge dai documenti delle società Immobiliare di Roma Splendido e della controllante Archimede Immobiliare - la capofila della galassia è la Agricola Monastero Santo Stefano Vecchio -, i Paladino hanno definito accordi di ristrutturazione e risanamento del debito con Unicredit, l’unica banca esposta. Nel dettaglio il progetto prevede che le due società, esposte complessivamente per 57,63 milioni (una ventina di milioni il credito vantato dalla banca milanese) definiscano nei prossimi anni la dismissione di asset real estate per un ammontare di 24,8 milioni. Il tutto per saldare il debito con Unicredit ma soprattutto con l’Agenzia delle entrate, gli istituti di previdenza e il Comune di Roma. I due piani (quello di Archimede al 2026 e quello di Immobiliare Roma Splendido al 2030) prevedono l’inte- grale saldo del debito con il Fisco e con la giunta capitolina con pagamenti su base pluriennale. I flussi di cassa per rispettare le scadenze prestabili- te saranno garantiti, oltre che dalle dismissioni di immobili a Roma e di un castello a Torre Sabina (Rieti), dall’incasso del canone d’affitto di 5,5 milioni, che tornerà a versare da giugno la società che gestisce il Plaza e che fa sempre riferimento ai Paladino, proprietari tra l’altro della maison di moda Sorelle Fontana.

Il «suocero» di Conte vende immobili e castello. Fabio Amendolara e Giuseppe China per “La Verità” l'11 febbraio 2021. La famiglia Paladino, padre Cesare in testa e le figlie Cristiana e Olivia (compagna del premier Giuseppe Conte), ha avviato con la banca Unicredit la procedura di ristrutturazione e risanamento del debito del gruppo che amministra. I Paladino sono proprietari dello storico Grand hotel Plaza di Roma (un 5 stelle lusso al momento chiuso per ristrutturazione). Come emerge dai documenti delle società Immobiliare Splendido e della controllante Archimede Immobiliare (la capofila della galassia è la Agricola Monastero Santo Stefano Vecchio), i Paladino, riporta Milano finanza, avrebbero già definito gli accordi. Per la precisione, a essere parte della pratica, per un rimodulazione del debito complessivo di 57,63 milioni di euro, sono le società Immobiliare Splendido e la Archimede immobiliare. Il progetto con la banca milanese, cui spettano circa 20 milioni, prevede la dismissione di asset per un ammontare di 24,8 milioni. Sono quindi stati predisposti due piani, il primo per Archimede e il secondo per Immobiliare Splendido (con scadenze rispettivamente 2026 e 2030), che stabiliscono l'integrale saldo di quanto dovuto al Fisco e alla giunta romana con pagamenti su base pluriennale. Tra i creditori, infatti, ci sono anche l'Agenzia delle entrate, gli istituti di previdenza e il Comune di Roma.

Capitolo fisco: la cosiddetta «rottamazione ter», varata dal Conte uno, ha permesso la rateizzazione senza multe e interessi di 27 milioni di euro. Però quando mancavano ancora 15 milioni da versare, i Paladino hanno smesso di pagare chiedendo che le dieci rate venissero trasformate in 18. Per quanto riguarda l'Inps non bisogna dimenticare che la Procura di Roma ha aperto un'indagine a carico del «suocero» di Conte che non avrebbe pagato i contributi ai dipendenti. Ma c'è anche la più nota vicenda legata al mancato versamento della tassa di soggiorno al Comune di Roma, per un importo di circa due milioni, somma che il proprietario del Plaza avrebbe dovuto bonificare tra il 2014 e il 2019, e che invece aveva trattenuto. Circostanza che si è conclusa prima con il patteggiamento a un anno e due mesi per peculato, poi grazie al Decreto rilancio quel reato è stato depenalizzato. La sentenza è stata poi revocata e Paladino quindi eviterebbe anche la super multa, perché al momento dei fatti la riforma non era ancora in vigore. L'impegno economico per la ristrutturazione del debito è garantito dalla dismissione di immobili a Roma e di un castello a Torre Sabina (Rieti) e anche dall'incasso del canone di affitto di 5,5 milioni che tornerà a essere versata dalla società che gestisce il Plaza. La struttura negli ultimi mesi è stata al centro delle cronache anche per i racconti degli ex dipendenti per il mancato pagamento degli stipendi. E ora arriva l'ennesima stoccata dall'ex chef executive André Evans, il quale sul suo profilo Facebook ha scritto in un italiano sgangherato: «E noi ex dipendente aspettiamo ancora la liquidazione non percepito ma dichiarato nel unico dati falsati, aspettiamo il legge a fare il suo percorso... Bravo Cesare e Olivia della vostra onesta... Sotto le scarpe».

André Evans, lo chef contro Olivia Paladino e papà: "Onestà sotto i piedi, aspetto la legge". Imbarazzo per Giuseppe Conte. Libero Quotidiano il 09 febbraio 2021. André Evans, per circa sei anni è stato chef executive al Grand Hotel Plaza di Roma, di proprietà del suocero di Conte, Cesare Paladino. A marzo 2019 ha lasciato ed è andato a dirigere il ristorante della Banca d'Italia. L'addio a Paladino non è stato dei migliori. Sulla pagina Facebook di Evans, lo scorso 23 gennaio, infatti, si è sfogato contro il suo ex datore di lavoro e la figlia Olivia, compagna di Giuseppe Conte: "Aspettiamo che la legge faccia il suo corso La vostra onestà... sotto i piedi". Andre Evans ha lavorato al Grand Hotel Plaza dal 2013 al 2019 e ha scoperto tramite il Tempo che il suocero del premier abbia usufruito degli ammortizzatori sociali, istituiti per l'emergenza Coronavirus, per indennizzare la sorella della fidanzata di Conte. "E noi ex dipendente aspettiamo ancora la liquidazione non percepito, ma dichiarato nel unico dati falsati, aspettiamo il legge a fare il suo percorso... Bravo Cesare e Olivia della vostra onesta... Sotto le scarpe", lo sfogo dello chef. Al cuoco non sarebbe stata versata la liquidazione. "Confermo, ma sono stato ingannato alla grande! Non credo che sarà così facile, ma non perdo speranza". Eppure  sul profilo Instagram del Plaza i Paladino parlavano molto bene dei piatti di Evans e del suo curriculum: "Il nostro executive chef si è laureato in Francia e vanta prestigiose esperienze in tutta Europa". Ora Evans è passato al gruppo Pellegrini che, gestisce anche la ristorazione per i dipendenti di Palazzo Koch, la sede della Banca d'Italia dove è cresciuto professionalmente Mario Draghi. Una coincidenza curiosa in questi giorni in cui il passaggio di consegne tra Conte e l'ex governatore della Bce è sempre più vicina. Corsi e ricorsi che non sembrano portare bene al premier dimissionario che vede perdere il suo posto a Palazzo Chigi, e vede il suo ex cuoco lavorare nella "casa" professionale di chi gli toglierà il posto.

Da iltempo.it il 9 febbraio 2021. Prima ancora di Sergio Mattarella c’era qualcuno che già aveva capito quanto fosse opportuno liberarsi di Giuseppe Conte per affidarsi a Mario Draghi. Si tratta del maestro dei fornelli André Evans. Che per circa sei anni è stato «chef executive» al Grand Hotel Plaza di Roma, di proprietà del suocero di Conte, Cesare Paladino. E poi, a marzo 2019, ha trasferito la sua arte culinaria nel ristorante della Banca d’Italia. Un ambiente che più «draghiano» non si potrebbe. Il «divorzio» dai Paladino, però, dev’essere avvenuto in maniera piuttosto turbolenta. Lo si capisce scorrendo la pagina Facebook di Evans. Il 23 gennaio, infatti, lo chef posta sulla sua bacheca lo scoop del Tempo che racconta come il gruppo fondato dal suocero del premier abbia sfruttato gli ammortizzatori sociali varati a causa dell’emergenza Coronavirus per indennizzare la sorella della fidanzata di Conte. Che, però, oltre a essere dipendente, è anche proprietaria dello stesso gruppo. La notizia manda su tutte le furie Evans, che «condisce» il post con parole di sdegno: «E noi ex dipendente aspettiamo ancora la liquidazione non percepito ma dichiarato nel unico dati falsati, aspettiamo il legge a fare il suo percorso... Bravo Cesare e Olivia della vostra onesta... Sotto le scarpe». Nonostante l’italiano non perfetto (Evans è di origini londinesi), il senso del messaggio è abbastanza chiaro: al momento del divorzio professionale, al cuoco non sarebbe stata versata la liquidazione. E la vicenda avrebbe tuttora una coda legale. Anche se lo chef non sembra essere molto ottimista in proposito. Un amico gli scrive: «Spero tu ti sia già rivolto ad un legale». E André risponde: «Confermo, ma sono stato ingannato alla grande! Non credo che sarà così facile ma non perdo speranza». Per non citare altri commenti in cui quelli che sembrerebbero a loro volta ex dipendenti del gruppo rimproverano a Evans di essersi mosso troppo tardi perché «conoscevi il soggetto». Una storia d’amore e di fornelli finita piuttosto male, dunque. Eppure, quando lo chef cucinava per i Paladino, i datori di lavoro sembravano soddisfatti del suo operato. Sul profilo Instagram del Plaza spendevano parole al miele per i suoi piatti e ne magnificavano il curriculum: «Il nostro executive chef si è laureato in Francia e vanta prestigiose esperienze in tutta Europa». Poi qualcosa si è rotto. E così Evans è passato al gruppo Pellegrini che, tra le altre cose, si occupa della ristorazione per i dipendenti di Palazzo Koch. Una sistemazione economicamente molto più sicura rispetto alla precedente, visto che le difficoltà contabili dei Paladino sono ormai cronaca quotidiana in rassegna stampa. Sempre a fine gennaio, Il Tempo raccontava come, tra Imu e Tasi non pagate, la famiglia acquisita di Conte sia debitrice del Comune di Roma per la bellezza di 11 milioni e mezzo di euro. A tal proposito, i Paladino hanno proposto all’amministrazione Raggi un piano di rientro della durata di sei anni.

Franco Bechis per “il Tempo” il 25 gennaio 2021. C’è una inchiesta della procura di Roma sui bilanci del gruppo guidato da Cesare Paladino, il suocero di Giuseppe Conte, papà di Olivia, la compagna del premier. L'indagine ha il numero di registro 34401/20 e le ipotesi di reato sono quelle previste dalla legge 74 del 2000, a iniziare da quelle contenute nell'articolo 10 bis, sull'omesso versamento di ritenute dovute e certificate. Il reato ipotizzato è ai danni dell'Inps, a cui non sarebbero stati versati né in tempo né in ritardo contenuto i versamenti dovuti per i dipendenti di alcune società. Al centro dell'inchiesta c'l'Immobiliare di Roma splendido srl di cui oggi è amministratore unico proprio il suocero del premier. È la società che oltre a numerosi altri cespiti è proprietaria anche delle mura dell'Hotel Plaza, il cinque stelle gestito dalla stessa famiglia Paladino attraverso una altra società controllata. L'indagine della procura ha ad oggetto proprio i debiti con l'Inps riportati nel piano di risanamento del gruppo sottoposto dai Paladino al principale creditore bancario, Unicredit, per ottenere quello sconto da 15,5 a 4,5 milioni di euro svelato giorno proprio da Tempo. In quel documento si ipotizzava una rateizzazione del dovuto all'Inps in sei anni a partire dal 2021 per 871.307 euro complessivi. Cifra minore rispetto ad altri debiti tributari, ma non versare i contributi all'Inps fa scattare il reato penale (con pena possibile compresa fra 6 mesi e due anni) al di sopra dell'omissione di 150 mila euro da versare. Ed è quel che contesta la procura agli amministratori del gruppo. Conferma attraverso il suo avvocato di avere ricevuto la notizia dell'indagine con la richiesta di elezione di domicilio il cognato del premier Shawn Jhon Shadow, figlio di primo letto di Ewa Aulin, la mamma della fidanzata del premier e dell'altra sorella Cristiana. Shawn Jhon infatti era stato amministratore dell'Immobiliare splendido fino al 2017, in un periodo in cui quella immobiliare aveva assunto la forma giuridica della sas. Ma l'indagine riguarda anche il bilancio di quell'anno e sicuramente quello dell'anno successivo. Al momento nella Immobiliare Roma Splendido risulta ancora un debito residuo con Inps di 50.380 euro relativi al 2017, di 163.380 euro relativi al 2018 e di 171.542,99 euro relativi all'anno 2019, oltre a quelli in essere del 2020. Il suocero di Conte per altro era stato messo sull'avviso dal sindaco e revisore unico, Barbara Piconi, nella sua relazione pubblicata in calce al bilancio 2018 dell'immobiliare, avvertendo «che la situazione debitoria verso il fisco potrebbe attenuarsi nel caso di conclusione positiva e dunque con il pagamento dell'ultima rata nel piano del le adesioni alle cd "rottamazione bis e ter" ma ciò non toglie la responsabilità penale connessa alle soglie di punibilità che la scrivente ha rammentato all'amministratore nel corso delle verifiche trimestrali esortandolo ad adempiere entro i termini prestabiliti». Non bastava quindi aderire alle rottamazioni, anche a quelle varate dal governo Conte, per cancellare la responsabilità penale dei mancati versamenti. E ora i nodi vengono al pettine davanti alla procura di Roma, che a questo punto ha acceso un faro su tutto il gruppo. Nonostante i mancati versamenti all'Inps dei contributi dovuti la società, come svelato da il Tempo, ha chiesto ed ottenuto all'istituto di previdenza l'accesso alla cassa integrazione Covid per i nove dipendenti, fra cui figurano la figlia di Paladino, Cristiana e appunto Shawn Jhon Shadow. Proprio lui ci ha tenuto a fare sapere con la lettera del suo legale Angelo di Silvio che pubblichiamo integrale di avere rice vuto effettivamente la cassa Covid, per altro pagata con grande ritardo come sanno bene tutti i dipendenti italiani (il 18 gennaio sono stati accreditati 851,95 euro relativi al periodo 22 giugno- 18 luglio e certo non è un record di tempestività). Il fratellastro della fidanzata di Conte ci tiene però a fare sapere di non essere affatto un riccone, perché quello stipendio ora ridotto a cassa Covid la sua unica entrata, e il trattamento ricevuto in famiglia non è quello di chi ritiene che i figli siano tutti uguali. Da quel che viene scritto sembra che non si vada così d'amore e d'accordo in quella famiglia. E c'è da aspettarsi che la saga familiare non finisca affatto qui. Ma prima bisogna affrontare la procura di Roma.

LA PROCURA DI ROMA INDAGA SUI BILANCI DEL GRUPPO GUIDATO DA CESARE PALADINO SUOCERO ACQUISITO DI “GIUSEPPI” CONTE. Il Corriere del Giorno il 5 Febbraio 2021. IL REATO IPOTIZZATO È OMESSO VERSAMENTO DI RITENUTE DOVUTE E CERTIFICATE. AL CENTRO DELL’INCHIESTA C’È LA SOCIETÀ “IMMOBILIARE DI ROMA SPLENDIDO SRL” , PROPRIETARIA DELL’HOTEL PLAZA GESTITO DALLA STESSA FAMIGLIA PALADINO.. Fra i faldoni delle inchieste su cui sta lavorando la Procura di Roma compare quella che ha il numero di registro 34401/20 sui bilanci del gruppo societario guidato da Cesare Paladino, il cosiddetto suocero di Giuseppe Conte, padre di Olivia, la compagna dell’ormai ex-premier, per la quale ha lasciato moglie e figlio. Le ipotesi di reato per cui si procede sono quelle previste dalla legge 74 del 2000, a iniziare da quelle contenute nell’articolo 10 bis, sull’omesso versamento di ritenute dovute e certificate. Il reato ipotizzato dai magistrati è di danni economici all’Inps, procurati dalla società Immobiliare Roma Splendido con sede a Roma di cui oggi è amministratore unico proprio Cesare Paladino neo-suocero “acquisito” dell’ ex premier Conte, che non avrebbe versato né nei termini previsti tempo né tantomeno in un ritardo contenuto i versamenti previdenziali dovuti per i dipendenti di alcune società della famiglia Paladino. La società Immobiliare Splendido srl è proprietaria anche delle mura dell’Hotel Plaza di Roma, il cinque stelle gestito dalla stessa famiglia Paladino attraverso una altra società controllata, oltre a numerosi altri cespiti. L’indagine della procura capitolina verte sui debiti con l’Inps riportati nel piano di risanamento del gruppo presentato dalla famiglia Paladino al principale creditore bancario, Unicredit, per ottenere il considerevole sconto da 15,5 a 4,5 milioni di euro, svelato alcuni giorni fa dal quotidiano romano Il Tempo diretto da Franco Bechis. In quel piano di risanamento si proponeva una rateizzazione dell’ esposizione nei confronti dell’Inps , dilazionata in sei anni a partire dal 2021 per una somma complessiva di 871.307 euro. Una esposizione minore rispetto ad altri debiti tributari in essere, solo che non versare i contributi all’Inps fa scattare il reato penale che prevede una pena compresa fra 6 mesi e 2 anni di carcere, al di sopra dell’omissione di 150 mila euro da versare. E’ questa la contestazione della procura romana agli amministratori del gruppo Paladino. La conferma come scrive Il Tempo arriva da Shawn Jhon Shadow, figlio di primo letto di Ewa Aulin, la mamma della fidanzata del premier e dell’altra sorella Cristiana, che è diventato cognato acquisito dell’ex-premier Conte. Shawn Jhon Shadow attraverso il suo avvocato ha confermato di avere ricevuto la notizia dell’indagine con la formale notifica di elezione di domicilio, in quanto era stato fino al 2017 amministratore dell’Immobiliare Splendido, in un periodo nel quale la società aveva assunto la forma giuridica della S.a.s. (società in accomandita semplice). Ma l’indagine in corso riguarda non solo il bilancio di quell’anno, ma certamente anche quello dell’anno successivo. Attualmente nei bilanci della Immobiliare Roma Splendido risulta ancora un debito residuo con Inps di 50.380 euro relativi al 2017, di 163.380 euro relativi al 2018 e di 171.542,99 euro relativi all’anno 2019, oltre a quelli in essere del 2020. Cesare Paladino era stato messo sull’avviso dal sindaco e revisore unico della società , Barbara Piconi, nella sua relazione pubblicata in calce al bilancio 2018 dell’immobiliare, dove segnalava “che la situazione debitoria verso il fisco potrebbe attenuarsi nel caso di conclusione positiva e dunque con il pagamento dell’ultima rata nel piano del le adesioni alle cd “rottamazione bis e ter” ma ciò non toglie la responsabilità penale connessa alle soglie di punibilità che la scrivente ha rammentato all’amministratore nel corso delle verifiche trimestrali esortandolo ad adempiere entro i termini prestabiliti“. Pertanto non era sufficiente aderire alle rottamazioni, anche a quelle varate dal governo Conte, per annullare la responsabilità penale dei mancati versamenti, su cui indaga la Guardia di Finanza delegata dalla Procura di Roma, che a questo punto ha acceso un faro su tutto il gruppo. Ma c’è dell’incredibile. Infatti nonostante i mancati versamenti all’Inps dei contributi dovuti la società Immobiliare Roma Splendido, ha chiesto ed ottenuto all’istituto di previdenza l’accesso alla cassa integrazione Covid per i nove dipendenti, fra cui figurano la figlia di Paladino, Cristiana e appunto Shawn Jhon Shadow. Proprio Shawn Jhon Shadow attraverso la lettera del suo legale Angelo di Silvio ha reso noto di avere ricevuto effettivamente la cassa integrazione Covid, per altro pagata con grande ritardo come sanno bene tutti i dipendenti italiani (il 18 gennaio sono stati accreditati 851,95 euro relativi al periodo 22 giugno- 18 luglio e certo non è un record di tempestività). Il fratellastro di Olivia Paladino, fidanzata di Giuseppe Conte, ha tenuto di fare sapere di non essere affatto un benestante, perché quello stipendio ora ridotto a cassa Covid è la sua unica entrata economica, e il trattamento ricevuto dalla famiglia di Cesare Paladino non è quello di chi ritiene che i figli siano tutti uguali. Ma c’è da aspettarsi che la “faida” familiare non finisca qui. Ma prima di ogni caso la famiglia Paladino deve affrontare la Procura di Roma. Dove il caro “Giuseppi” ormai non può più fare nulla…

Contributi non pagati, indagati i «Paladinos». Francesco Bonazzi per "La Verità" il 26 gennaio 2021. Lo spettro dei Renzi, famiglia dalle inesauribili disavventure giudiziarie, inizia ad agitare anche il già traballante Giuseppe Conte. Saranno forse gli storici a stabilire se a Palazzo Chigi possa salire solo gente con famiglie problematiche, oppure se vi sia una sorta di maledizione nelle tappezzerie cinquecentesche che colpisce i familiari di chi diventa presidente del Consiglio senza passare dalle urne. Ma intanto, alla vigilia della relazione annuale sullo stato della giustizia del ministro Alfonso Bonafede, la giustizia stessa si occupa dei bilanci della famiglia di Olivia Paladino, la biondissima e silenziosa compagna quarantenne del premier. Come ha riferito ieri Il Tempo, c' è un' inchiesta della Procura di Roma, guidata da Michele Prestipino, sui bilanci del gruppo immobiliare e alberghiero guidato da Cesare Paladino, che in quanto papà di Olivia è il suocero di fatto di Giuseppe Conte. L' indagine ha il numero di registro 34401/20 e le ipotesi di reato per le quali i pm procedono sono quelle previste dalla legge 74 del 2000, sull' omesso versamento di ritenute previdenziali dovute e certificate. Il reato ipotizzato è ai danni dell' Inps, a cui non sarebbero stati versati in tempo, o almeno in un ritardo contenuto, una serie di contributi per i dipendenti. L' inchiesta ha come perno centrale i conti della «Immobiliare di Roma Splendido srl», società amministrata da Cesare Paladino che, tra le sue varie partecipazioni, annovera le mura dell' Hotel Plaza di Roma, albergo di lusso gestito da un' altra società dei Paladino. Gli importi contestati sono superiori alla soglia di punibilità dei 150.000 euro e sarebbero pari a oltre 850.000 euro. Il reato ha pene relativamente lievi, comprese tra i sei mesi e i due anni, e va detto che in tempi di crisi economica è spesso messo in discussione. Tuttavia, in base alle carte della transazione tra la famiglia Paladino e Unicredit, che nei mesi scorsi ha concesso un robusto sconto sulla posizione debitoria (da 15 milioni e mezzo a soli quattro e mezzo), sembra di capire che i contributi non versati siano relativi ad anni precedenti alla crisi Covid. Sono così finiti nel mirino della Procura romana Cesare Paladino e il figliastro Shawn John Shadow, figlio di primo letto dell' attrice svedese Ewa Aulin. Le indagini riguardano i bilanci del 2017 e del 2018 e non è chiaro se coinvolgano anche Olivia Paladino e la sorella Cristiana. Come riporta il quotidiano romano, l' indagine penale non è esattamente un fulmine a ciel sereno, almeno per il suocero del premier. Il sindaco e revisore unico Barbara Piconi, nella relazione di accompagnamento al bilancio del 2018, osservava che «la situazione debitoria verso il fisco potrebbe attenuarsi nel caso di conclusione positiva e dunque con il pagamento dell' ultima rata prevista nel piano delle adesioni alle cd «rottamazione bis e ter» ma ciò non toglie la responsabilità penale connessa alle soglie di punibilità che la scrivente ha rammentato all' amministratore nel corso delle verifiche trimestrali esortandolo ad adempiere entro i termini prestabiliti». Significa che anche approfittando delle provvidenziali rottamazioni disposte dal genero Giuseppi, la famiglia Paladino aveva di fronte un rischio penale. Ma la crisi deve avere avuto un impatto pesante anche su questa famiglia dell' alta borghesia romana, che oltre a essere esposta su settori a rischio come l' alberghiero e l' immobiliare, aveva evidentemente già una profonda situazione debitoria con le banche, sulla quale si sono abbattute la pandemia cinese e i lockdown decisi dal governo. Altro segnale di difficoltà, come raccontato domenica, è il fatto che sorella e fratellastro della first fidanzata hanno chiesto e ottenuto la cassa integrazione Covid come due barman qualsiasi. Per altro, pare che Shawn non se la passi benissimo, o almeno non tanto bene come le sorellastre, e questo sarebbe causa di qualche incomprensione in famiglia. È una piccola divaricazione che si coglie anche nella lettera del suo avvocato viterbese, Angelo Di Silvio, nella quale si conferma che il giovane ha preso la cassa integrazione, ma si spiega che l' ha chiesta perché non ha altri redditi. Ora, sperando che Conte non inizi proprio da qui per lo snellimento della giustizia e le depenalizzazioni dei reati finanziari prossimi venturi, la famiglia della sua Olivia rischia di collezionare avvisi di garanzia. Soprattutto per via di papà Cesare, già graziato nei mesi scorsi, quando un patteggiamento a un anno e due mesi per l' evasione milionaria della tassa di soggiorno, dovuta dai suoi alberghi al Comune di Roma, si è sciolta come neve al sole grazie a una depenalizzazione varata dal genero. Buono per i Paladinos, ma va detto che se simili fortune fossero capitate a un Berlusconi avremmo probabilmente assistito ai girotondi intorno a Palazzo Chigi. O sotto il vicino Plaza. E però il grande nemico del momento di Conte, Matteo Renzi, ha a sua volta a che fare con una famiglia che gli procura fastidi a raffica. Il papà Tiziano rischia il processo per lo scandalo Consip e con le società di famiglia ha combinato pasticci di ogni genere, talvolta insieme alla moglie Laura Bovoli. Da notare, che la prima disavventura giudiziaria dei coniugi Renzi è del 1998 e riguardava contributi Inps non pagati per i dipendenti della loro società di distribuzione di giornali. Un' eventuale riappacificazione politica di Renzi e Conte potrebbe partire proprio da qui: o l' abolizione della famiglia, o l' abolizione dei contributi Inps.

Franco Bechis per iltempo.it il 22 gennaio 2021. Sono brutti tempi davvero per tutti. Pensate che perfino la famiglia acquisita del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, quella della fidanzata Olivia, è finita in cassa integrazione in deroga fino allo scorso mese di novembre. Messi in cassa Covid concessa proprio dal governo per l'emergenza coronavirus per buona parte dell'anno scorso sia la sorella della fidanzata del premier, Cristiana Paladino, che il fratellastro Shawn John Shadow, figlio di primo letto della suocera del premier, Ewa Aulin. Entrambi erano infatti dipendenti di una delle società del gruppo fondato dallo suocero di Conte, Cesare Paladino. Assunti dalla società proprietaria- fra l'altro- delle mura del celebre Hotel Plaza di via del Corso: la Immobiliare di Roma Splendido srl. Cristiana impiegata a tempo indeterminato dal primo luglio 2017 come segretaria di direzione a 62.621 euro l'anno, e John assunto sei mesi dopo con la stessa identica qualifica a 59.473 l'anno. E' arrivata la batosta del virus e la società amministrata proprio dal suocero non ha potuto fare altro che ricorrere agli ammortizzatori sociali messi a disposizione da Conte prima con il decreto Cura Italia e poi con il Rilancio Italia. Legittimo, e i poveretti hanno dovuto tirare un po' la cinghia perché la Cassa Covid interamente a carico dello Stato italiano non è che eroghi grandi mensili, inferiori ai mille euro mensili. Ne hanno usufruito tutti i dipendenti della Immobiliare Roma splendido (sono 9 in tutto), e quindi anche i due cognati di Conte. Che però non sono dipendenti come tutti gli altri, perché insieme alla terza sorella, la fidanzata del premier, sono i reali proprietari del gruppo Paladino, visto che è interamente in mano ai tre figli il capitale della società holding che controlla tutto il gruppo: la Agricola Monastero Santo Stefano Vecchio srl. Il 47,5% della proprietà del gruppo è in mano proprio ad Olivia, una quota identica è in mano alla sorella Cristiana e il 5% a John, che è figlio acquisito per Cesare Paladino. Dunque è stata concessa la cassa Covid dal governo a dipendenti che però erano anche imprenditori con partecipazioni che valgono milioni e milioni di euro. Ed è assai meno comune che gli ammortizzatori vengano concessi a lavori dipendenti che sono anche proprietari milionari. Ma è stata data, come è certificato nelle corpose carte del piano di risanamento della società presentato ai creditori (in primis Unicredit) e asseverato da un professionista di primo ordine come il professore Pierpaolo Singer. Non è noto se nella Cassa Covid nella famiglia acquisita dal premier sia finita anche la sola che manca: Olivia. Lei non è dipendente della società che possiede le mura del Plaza, ma di quella che gestisce l'albergo di lusso, che si chiama Unione esercizi alberghi di lusso (Uneal), dove risulta inquadrata come “general manager” e formalmente come “quadro” della società. Non facendo parte direttamente dei piani di ristrutturazione del debito del gruppo Paladino, non ci sono documenti dettagliati se non l'ultimo bilancio a disposizione. Lì si spiega che i dipendenti sono in tutto 67, e si spiega che da marzo avendo dovuto chiudere l'albergo per i dipendenti si è pensato alla Cassa Covid concessa dal governo. Ma le notizie all'interno dello stesso bilancio sono contraddittorie. Nella nota integrativa è scritto: “a causa della chiusura delle attività prevista dalla emergenza Covid 19, a partire dal mese di marzo 2020, aderendo alle norme del cd Decreto Cura Italia e del successivo Decreto Rilancio, tutti i dipendenti della società sono stati messi in CIG in deroga: ciò comporterà una riduzione dei costi fissi ad essi legati che si rifletterà nel bilancio 2020”. Se tutti in cassa Covid, allora anche Olivia. Ma nella relazione sulla gestione degli amministratori si scrive che “il 90% dei dipendenti della società è stato messo in Cig in deroga legata all'emergenza Covid”, quindi non proprio tutti e forse Olivia se l'è risparmiata a differenza dei due fratelli. Qualche problema non da poco nel gruppo Paladino c'è, perché i debiti erano veramente colossali. Di una parte si è venuti a capo grazie a una generosa transizione accordata dalla banca creditrice, quella Unicredit di cui da ottobre è designato presidente l'ex ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan. La Immobiliare di Roma splendido aveva un debito di 15,5 milioni con Unicredit, in parte derivante dallo stesso mutuo con cui sono state acquistate le mura del Plaza. La banca accetta di essere pagata solo per 4,5 milioni di euro (condonandone 11 milioni) in tre rate annuali da 1, 1,5 e 2 milioni di euro da pagare entro il 30 giugno fra il 2021 e il 2023. Stesso accordo in un'altra società, la Archimede immobiliare, dove il debito residuo era intorno ai 6 milioni di euro ma è stato ricontrattato in 2 milioni di euro pagati però subito. Con l'accordo bancario quindi parte dei guai sono stati risolti. Ne restano altri 27 milioni di euro da pagare invece al fisco solo con la Roma splendido: in parte all'Agenzia dell'Entrate, qualcosina all'Inps ma quasi la metà al Comune di Roma. Perché salta fuori che la famiglia Paladino non solo non ha pagato alle casse comunali se non quando il fondatore è finito a processo per anni la tassa di soggiorno riscossa ai clienti del Plaza. Ma non ha nemmeno versato nelle casse del Comune guidato da Virginia Raggi per anni gran parte dell'Imu e della Tasi dovuta. Ci sono in bilancio 2,6 milioni di debiti Imu 2012-2013, altri 2,6 milioni di debiti Imu 2014-2015, poi 116 mila euro non versati della Tasi 2014-2015,  un debito da saldare di 1,093 milioni di euro per Imu-Tasi in ciascuno degli anni 2016, 2017, 2018 e 2019 e 728 mila euro da pagare alla stessa voce per il 2020. Ora si propone al comune di Roma di saldare il dovuto per circa 11,5 milioni di euro da rateizzare fra il 2021 e il 2026, mentre i debiti con il fisco vengono rateizzati fino al 2030. Naturalmente tutto questo è sulla carta (e il dettaglio lo trovate negli articoli in queste pagine), ma per potere restituire davvero quelle somme bisogna che sia che il Plaza torni a fatturare come prima della pandemia pagando l'affitto delle mura, sia vendere un numero non indifferente di proprietà immobiliari della famiglia di cassintegrati in deroga. E qui c'è la brutta notizia per Conte: fra i cespiti in vendita c'è anche l'alloggio dove spesso concede parte del suo prezioso tempo all'amata Olivia. Bisognerà presto cambiare casa. E con il clima politico che si sente in queste ore, Giuseppi rischia davvero l'ein plein dei traslochi...

La battaglia di Giovanni Toti per Esselunga e quei 50mila euro donati al governatore. Vittorio Malagutti e Mauro Munafò su L'Espresso il 19 gennaio 2021. A dicembre la catena dei Caprotti è sbarcata a Genova, anche grazie all’impegno personale del presidente della Liguria. Tre mesi prima il suo movimento politico ha ricevuto una donazione dal costruttore del supermercato. Lo stesso che aveva già finanziato Fratelli d'Italia. Giovanni Toti ne ha fatta quasi una questione personale. Per anni e in ogni sede, dal consiglio regionale fino ai post su Facebook, il presidente della Liguria ha ribadito il suo impegno per portare l'Esselunga a Genova, piazza da sempre dominata da Coop, marchio rivale dei supermercati della famiglia Caprotti. Così, quando il 16 dicembre scorso, dopo anni di tentativi a vuoto, Esselunga ha finalmente acceso le sue insegne anche nel capoluogo ligure, Toti ha dato fiato alle trombe della propaganda. «Una grande vittoria per il libero mercato», ha esultato il governatore. Insomma, una battaglia ideale, la sua. Una battaglia con il marchio Esselunga ma nel nome della concorrenza. E allora sarà forse per difendere gli stessi nobili principi che il 14 settembre dell'anno scorso la società Aep costruzioni ha versato 50 mila euro nelle casse del Comitato Giovanni Toti, da cui dipende il movimento politico “Cambiamo”, fondato dall’ex giornalista Mediaset. L’Espresso ha verificato che Aep costruzioni condivide con Toti la passione e l’interesse per lo sbarco di Esselunga a Genova. Motivo? Semplice, il gruppo Aep, che controlla Aep costruzioni, ha realizzato il grande supermercato appena ultimato ad Albaro, elegante quartiere della città portuale. Toti è stato quindi finanziato dall’azienda che ha costruito la struttura commerciale da lui promossa con tanto impegno in questi anni. Già nel febbraio del 2016, da pochi mesi alla guida della Regione, il governatore aveva annunciato una nuova legge sulla programmazione commerciale in Liguria, dicendosi certo che «Esselunga aprirà a Genova». Detto, fatto. Il cantiere è stato affidato dal gruppo Caprotti ad Aep costruzioni, che vanta una lunga esperienza nella realizzazione di grandi strutture commerciali. A settembre, poche settimane prima dell’inaugurazione del nuovo supermercato, l’azienda ha girato il bonifico da 50 mila euro al movimento di Toti. Come prevede la legge, l’operazione è stata registrata nel lungo elenco di società e privati cittadini che nel corso del 2020 hanno finanziato i partiti. In questo stesso elenco, che è depositato alla camera dei Deputati, l’impresa di costruzioni amica del governatore ligure compare una seconda volta. Infatti, come l'Espresso ha rivelato in un articolo di mese fa , Aep ha dato un contributo anche a Fratelli d'Italia con due versamenti dell'importo totale di 50mila euro. Le donazioni al partito di Giorgia Meloni, eseguite tra settembre e ottobre 2020, sono riconducibili a un altro grosso affare in cui Aep è coinvolta insieme a Esselunga: la cessione di un terreno e la successiva costruzione di un ipermercato del gruppo Caprotti in pieno centro a Lodi. Il copione sembra lo stesso già andato in scena a Genova. Esselunga sbarca in una città prima presidiata dalla concorrenza, e ci riesce grazie a un’operazione edilizia difesa a spada tratta dalla locale amministrazione di centrodestra. Nella giunta di Lodi, guida dalla sindaca leghista Sara Casanova, siede infatti anche Fratelli d'Italia che, per convincere la cittadinanza della bontà del progetto Esselunga / Aep, ha addirittura promosso una raccolta firme dal poco equivocabile titolo “Firma per il sì all'Esselunga a Lodi”. Senza l'ok del comune l'operazione non sarebbe mai potuta andare avanti: il supermercato dovrebbe nascere infatti in un'area dell'ex consorzio agricolo in cui, per poter costruire, è stato necessario approvare un Piano Integrato di Intervento, in variante del Pgt. Aep, sede in provincia di Pavia, controllata dalla famiglia Dallera, negli ultimi anni ha costruito supermercati e ipermercati per conto di Esselunga in molte città del Nord: Milano, Varese, Bologna, in Brianza e nel Pavese. Appalti per un valore complessivo di decine di milioni di euro. A Lodi però il progetto del nuovo centro commerciale ha sollevato critiche e proteste, a cui presto potrebbero aggiungersi ricorsi al Tar e anche un esposto penale. Le forze di opposizione (Pd, Movimento 5 Stelle e liste civiche), affiancate da diverse associazioni e comitati cittadini, da mesi stanno facendo pressioni sulla giunta chiedendo maggiore trasparenza su un progetto che finora è stato portato avanti in consiglio comunale a colpi di votazioni a maggioranza e senza confronto. Dopo lo scoop dell'Espresso sul finanziamento di Aep a Fratelli d'Italia, le proteste sono salite di tono insieme alla richiesta di chiarire le motivazioni di questa donazione. Niente da fare: bisogna correre. E negli scorsi giorni, si è scoperto anche perché. Il contratto con cui il terreno viene venduto da Aep a Esselunga per la cifra di 13 milioni e 700mila euro (terreno che Aep aveva acquistato all'asta per 9 milioni e 450mila euro) include infatti una serie di clausole capestro. Il documento datato 29 giugno 2019, consultato dall'Espresso, prevede infatti la nullità dell'atto se entro 18 mesi non fosse stata approvata la variante del Pgt con l'ok a costruire il supermercato di Esselunga. Di più: nel contratto sono precisati nel dettaglio gli spazi, i servizi e le cubature che dovrà avere il supermercato. In altre parole, la giunta di Lodi si è limitata a dare l'ok in tutto e per tutto al progetto speculativo studiato e proposto dalle due aziende. Superata nel dicembre scorso la scadenza dei 18 mesi è probabile che Esselunga e Aep abbiano trovato un’intesa per una dilazione. Questione di poche settimane. Entro i primi giorni di febbraio la giunta conta di completare l’iter per il via libera definitivo del progetto. E così anche Lodi potrebbe presto avere la sua Esselunga. Proprio come Genova. Dove regna Toti finanziato da Aep, il costruttore di fiducia dei Caprotti.

Aggiornamento del 20 gennaio 2021. La precisazione di Esselunga e la nostra risposta.

Gentile direttore, l’articolo “La battaglia di Giovanni Toti per Esselunga e quei 50mila euro donati al governatore” pubblicato sul sito de L’Espresso nella giornata di ieri a firma di Vittorio Malagutti e Mauro Munafò è, fin dal titolo fuorviante ed appare fortemente decettivo ai danni della nostra Società. Premesso che Esselunga nulla ha a che vedere con iniziative autonome di altre società, ci preme evidenziare che non è certo grazie ad operazioni edilizie “difese a spada tratta dalle locali amministrazioni” che la scrivente apre i suoi punti vendita. Purtroppo è vero il contrario tanto è vero che proprio a Genova ci sono voluti 36 anni per riuscire ad aprire un nostro punto vendita. La preghiamo, pertanto, di tenere conto di questa nostra precisazione e ci riserviamo di agire nelle sedi competenti a tutela della nostra reputazione. Cordiali saluti. Ufficio Stampa Esselunga S.p.A.

L’articolo dell’Espresso dà conto della campagna di Giovanni Toti per l’apertura di Esselunga a Genova. Nient’altro. La donazione al movimento politico del governatore, come segnalato nel testo, proviene dall’azienda costruttrice del supermercato.

SOLDI E POLITICA. Il costruttore dona 50mila euro al partito di Giorgia Meloni. E FdI si batte per il suo appalto. Un'enorme area dismessa in centro a Lodi ospiterà un ipermercato Esselunga: un affare milionario approvato dall'amministrazione di centrodestra e contestato da opposizioni e comitati cittadini. L'Espresso ha scoperto i bonifici dell'azienda a favore di Fratelli d'Italia. Che ha organizzato anche una raccolta firme. Mauro Munafò su L'Espresso il 21 dicembre 2020. Trovare un donatore così generoso in questi tempi di crisi per quasi tutte le aziende è davvero una rarità. È quindi facile immaginare la felicità di Fratelli d'Italia, il partito guidato da Giorgia Meloni, che nel giro di poco più di un mese ha visto il versamento sul proprio conto di due bonifici dall'importo totale di quasi 50mila euro. Versamenti perfettamente legali e, come tali, registrati e segnalati agli uffici competenti. Il generoso donatore non è un'azienda qualunque e, a giudicare dagli affari al momento in sospeso, non sembra neanche del tutto disinteressato. Si tratta infatti della società “Attività edilizie pavesi”, ditta di costruzioni di Pieve del Cairo in provincia di Pavia, controllata dalla Bucaneve Spa della famiglia di costruttori Dallera. Secondo i documenti della Camera dei Deputati, la Attività edilizie pavesi Spa ha versato 25mila euro a Fratelli d'Italia il 21 settembre del 2020, a cui ne ha aggiunti altri 24mila e 500 il 23 ottobre. Per un totale di 49.500 euro.

Le donazioni di AEP a Fratelli d'Italia. Una cifra degna di nota che il partito di Giorgia Meloni sta facendo di tutto per meritarsi. Per capire i collegamenti tra la formazione di destra e l'azienda edile serve però andare in Lombardia e per la precisione a Lodi. Nel comune di 46mila abitanti infatti è in corso una grossa operazione edilizia che, guarda il caso, vede coinvolta proprio la Attività edilizie pavesi (da ora in poi Aep). Una grossa area del centro, con un'estensione di 27mila metri quadri, un tempo usata dal Consorzio Agrario di Lodi è da alcuni anni in stato di abbandono e i suoi terreni e gli edifici costruiti sopra sono stati acquistati dalla Aep per 9 milioni e 450mila euro. Secondo il bilancio della Aep, il terreno è stato venduto alla catena di supermercati Esselunga a metà 2019 per la cifra di 13 milioni e 700mila euro. «Successivamente è prevista la realizzazione di uno Store commerciale Esselunga, in Lodi. Il valore complessivo di tale operazione ammonta a circa euro 30 milioni», si legge nell'ultimo bilancio Aep. Come spiegato nel piano presentato proprio dalla Aep, l'area dell'ex Consorzio ospiterà presto un ipermercato Esselunga, i relativi parcheggi e altre opere collegate. Un'operazione che stravolgerà il centro di Lodi e la sua mobilità. Il progetto dell'ipermercato Esselunga è da mesi al centro del confronto politico nella cittadina lombarda. Sostenuto a spada tratta dall'amministrazione di centrodestra guidata dalla sindaca leghista Sara Casanova, con in maggioranza anche Fratelli d'Italia, l'operazione è contestata dalle opposizioni e dai comitati cittadini che per quell'area chiedevano un confronto pubblico mai avvenuto e progetti alternativi che non si riducessero al solito centro commerciale. Niente da fare: dopo una seduta fiume di 12 ore, il consiglio comunale ha approvato il Piano Integrato di Intervento, cioè la variante del Pgt che permetterà di costruire un supermercato nelle aree del Consorzio.

La campagna di FdI per il supermercato a Lodi. Per difendere la bontà del progetto Esselunga, Fratelli d'Italia ha anche promosso una raccolta firme con tanto di banchetti in piena seconda ondata di Covid-19. Una raccolta con una sua declinazione anche online , che non può certo essere definita un successo: 11 firme pervenute in totale. “L'ambizioso progetto di riqualificazione dell'area abbandonata ex-Consorzio porterà grandi benefici alla nostra Città di Lodi”, spiega la raccolta promossa da Fdi. Che poi indica i punti forti del piano: nuovi posti di lavoro, riqualificazione dell'area degradata, nuove opere per migliorare la viabilità”. Dei 50mila euro versati dal costruttore al partito, nessun accenno.