Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

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ANNO 2021

 

GLI STATISTI

 

PRIMA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

   

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

GLI STATISTI

PRIMA PARTE

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ricordando Aldo Moro.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ricordando Andreotti.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli amici di Craxi.

Fine Pena Mai. L’Accanimento giudiziario.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Donne e famiglia.

Politica ed affari.

Le Leggi ad Personam.

La Salute.

La Giustizia.

 

SECONDA PARTE

 

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Prima del Nazismo.

La lunga amicizia tra Hitler e Stalin.

Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx.

Al tempo del Nazismo.

Dopo il Nazismo.

Prima del Fascismo.

Comunismo = Fascismo.

Margherita Sarfatti: la donna che creò Benito Mussolini.

Claretta Petacci: l’Hitleriana.

Achille Starace, il regista del fascismo.

Quel fascismo un po' liberale.

Al tempo del Fascismo.

Le cose buone.

Resistenza: la verità sui partigiani comunisti.

Dopo il Fascismo.

Gli eredi di Mussolini.

La Destra omosessuale.

La destra italiana? Parla al femminile.

La Questione Morale.

Antifascisti, siete anticomunisti?  

 

GLI STATISTI

PRIMA PARTE

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Ricordando Aldo Moro.

Generoso Picone per “il Mattino” il 9 dicembre 2021. «Mia figlia la bolscevica», la chiamava così, sorridendo con affetto paterno, asciutto e tenero come da tradizione ed educazione sarde. Perché l’unico cruccio che Francesco Cossiga aveva verso la sua Annamaria era rappresentato dall’abbigliamento, troppo informale e casual per i suoi gusti, tanto che quando le chiese di accompagnarlo da presidente della Repubblica a una manifestazione ufficiale la invitò a indossare un tailleur. 

«Figlia mia, sono persino disposto a comprartelo io», le disse con premura istituzionale.

Annamaria Cossiga è oggi un’accreditata analista delle questioni relative agli estremismi islamici, da anni si occupa di storia e cultura ebraica e in particolare del conflitto arabo-israelo-palestinese, come antropologa culturale ha insegnato presso varie Università e a lungo ha operato all’estero, soprattutto negli Usa e in Inghilterra. Racconta di aver messo piede al Quirinale soltanto una volta, il 3 luglio 1985, il giorno della cerimonia d’insediamento del padre, eletto al primo scrutinio con una maggioranza larga, 752 voti su 977 presenti in aula, il più giovane capo dello Stato a 57 anni succedendo a Sandro Pertini: «Una grande emozione, una bella festa, per lui una soddisfazione intensa. Io avevo 24 anni, immagini l’orgoglio. Lui scelse di non trasferirsi nel Palazzo e la sera tornava a casa in famiglia».

In famiglia di che cosa discutevate?

«In famiglia discutevamo di tutto, a pranzo si svolgevano dibattiti infiniti. Per me e per mio fratello Giuseppe rimaneva “ba’”, alla maniera sarda troncando la parola babbo. A casa ci siamo sempre confrontati apertamente. Anche quando eravamo più grandi, ricordo che lui scherzando chiamava me bolscevica e mio fratello Giuseppe il fascistone, per le sue simpatie di destra. Dopo sarebbe stato un deputato di Forza Italia e quindi avrebbe aderito a Fratelli d’Italia. Mia madre Giuseppa? No, di lei non parlo. Rispetto ancora oggi la sua assoluta riservatezza. Siamo stati educati in un’atmosfera di libertà e democrazia». 

Che ricordo conserva degli anni al Colle?

«Io dal 1987 mi trasferii negli Usa, per studio e lavoro, quindi andai in Inghilterra e tornai in Italia nel 1995. Ci incontravamo a casa quando era possibile e più volte all’estero durante i suoi viaggi. Veniva spesso a trovarmi a Londra e insieme andavamo in Irlanda, il luogo che lui amava per i piccoli villaggi sul mare e per quel ristorantino dalle parti di Dublino. C’era il telefono e mi chiamava spesso. Quando scoppiò la prima guerra del Golfo, nell’estate 1990, io mi trovavo a New York e mio padre mi cercò durante la notte, era molto preoccupato, non riusciva a trattenere l’agitazione. “Figlia mia, sei sicura di voler rimanere lì?”. La II Avenue dove io abitavo era deserta, l’atmosfera pesante e io non mi staccavo dalla Cnn. Lui comprese la mia situazione e allora organizzò l’operazione Biancaneve». 

Cioè?

«Mi disse di prendere l’aereo per Roma, qualcuno mi avrebbe accompagnato però io avrei dovuto far finta di niente. Sul volo mi accorsi della presenza di quattro persone che avevano buste di negozi di elettronica, quelli erano gli anni in cui tanti italiani andavano negli Usa ad acquistare oggetti che costavano meno. Io stetti al gioco e all’arrivo a Roma salutai i quattro. Anni dopo seppi che si era trattato appunto dell’operazione Biancaneve, del recupero della bimba in pericolo con il soccorso dei nani. L’aveva messa a punto lui, era il frutto della sua passione per i servizi segreti. Un’altra volta a New York da presidente mi invitò a raggiungerlo in albergo e io presi la metropolitana da sola. Non aveva avvertito della mia presenza l’ambasciatore il quale, vedendomi arrivare, si allarmò: “Ma come, nessuno mi ha detto niente?”. Del resto, un po’ di abitudine alle scorte l’avevo maturata». 

Durante il periodo del Cossiga con il k, i tempi al ministero degli Interni e alla presidenza del Consiglio, gli anni di piombo?

«A 16 anni è dura vivere con le scorte. Ogni giorno con una macchina diversa e seguendo itinerari mai uguali. In famiglia cercavamo di scherzarci su e sdrammatizzare, con la sventatezza dell’età giovanile. Ma io non potevo uscire il sabato perché a Roma c’erano le manifestazioni in strada, sempre sotto controllo: non era facile».

Il 9 maggio 1978, il giorno in cui venne ritrovato il cadavere di Aldo Moro, era a scuola?

«In classe. “Come mai non ti vengono a prendere?”, si interrogavano inquieti ed io ero in preda al panico. Mio padre fu sconvolto dall’assassinio di Moro, il suo maestro, il suo riferimento. Avevano un alto senso dello Stato e non riuscì mai a perdonarsi di non averlo potuto salvare, si svegliava di notte tormentato. Somatizzò il dolore, i capelli gli diventarono bianchi, la pelle fu macchiata dalla vitiligine».

Ne soffrì fino a farsene una malattia?

«Mio padre non ebbe timori ad ammetterlo. Fui lui a parlare dell’omino nero e dell’omino bianco, della ciclotimia. Per noi non era una tragedia di cui vergognarci: lo consideravamo un disturbo al pari di tanti altri. Comunque fu un dramma che cambiò la sua vita». 

Avrebbe contribuito a mutare anche l’atteggiamento da presidente della Repubblica? Divenne il picconatore.

«Ho vissuto indirettamente quella fase. Sapeva di avere una personalità ambivalente e ne aveva fatto una tecnica di combattimento politico. Certo, tutti noi ne rimanemmo stupiti. Era una persona molto severa e rigorosa. Gli telefonai da Londra domandandogli: “Ba’, che succede?”. E lui: “Nulla di preoccupante, Anna. Cerco di divertirmi e dico tutte le cose che penso, in libertà”. Appresi del suo discorso alle Camere dalla televisione a New York».

Negli Stati Uniti ne registrò l’eco?

«In fondo, era una faccenda italiana e negli Usa l’interesse per queste notizie era limitato. Lui continuò nelle esternazioni anche dopo il Quirinale, da senatore a vita. Io ero con lui e insieme al suo collaboratore, il prefetto Franco Mosino, gli dicevamo: “Non pensi di stare esagerando?”». 

Che cosa vi rispondeva?

«Con il suo sorriso: “Esagero? Beh, allora la smetto”. Ma dopo continuava esattamente come prima». 

Ha mai pensato che avesse un po’ di ragione?

«Considerato quel che è accaduto dopo, non so quanto si sia divertito, ha almeno saputo guardare lontano. Ma questo è il senno di poi».

Le carte che rivelano lo scandalo. Attentato alla Sinagoga di Roma, il governo sapeva ma non fece nulla – I DOCUMENTI SEGRETI. David Romoli su Il Riformista il 9 Dicembre 2021. Una serie di documenti sin qui ignota conferma le gravissime accuse mosse 15 anni fa da dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, sepolte allora sotto una lastra di silenzio generale. Il 3 ottobre 2008 Cossiga rilasciò una lunghissima intervista al quotidiano israeliano Yediot Aharonot, muovendo accuse che in qualsiasi Paese, e probabilmente anche in Italia se provenienti da altra fonte, avrebbero provocato un mezzo terremoto, pur se riferite a eventi già vecchi di quasi tre decenni.

Senza mezzi termini Cossiga accusò l’Italia di aver permesso al terrorismo palestinese di colpire obiettivi ebraici sul territorio italiano, all’interno del cosiddetto lodo Moro. “In cambio di una ‘mano libera’ in Italia, i palestinesi hanno assicurato la sicurezza del nostro Stato e [l’immunità] di obiettivi italiani al di fuori del Paese da attentati terroristici. Fintanto che tali obiettivi non collaborassero con il sionismo e con lo Stato d’Israele”. La clausola, affermava l’ex capo dello Stato, ex primo ministro, ex ministro degli Interni legatissimo ai servizi segreti, equivaleva a una sorta di licenza di uccidere gli ebrei, “fiancheggiatori dei sionisti”, nonostante il lodo Moro. La conclusione di Cossiga era perentoria: “Vi abbiamo venduto”. L’accusa dell’ex capo dello Stato fu completamente ignorata, come erano state lasciate cadere nel vuoto le sue rivelazioni dell’agosto precedente, che confermavano l’esistenza dell’ormai famoso patto segreto tra lo Stato italiano e le organizzazioni palestinesi. Accordo che a tutt’oggi resta un fantasma. Ufficialmente non è mai esistito. Del resto con Cossiga era stata adoperata, fortunatamente senza conseguenze letali, la stessa strategia usata con Aldo Moro nei 55 giorni della prigionia: farlo passare per pazzo e si sa che di quel che dicono i pazzi non ci se deve curare.

Cossiga non era pazzo e i documenti confermano che aveva ragione. Il principale attentato al quale l’ex presidente alludeva era quello contro la sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, nel quale fu ucciso Stefano Gaj Taché, di due anni, e furono ferite 37 persone. La possibilità di un attentato contro la sinagoga era stata segnalata dal Sisde più volte a partire dal 18 giugno 1982. Quel giorno il direttore del Sisde Emanuele De Francesco inviò un telex “riservato e urgente” a Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza e Sismi intitolato “Probabili attentati contro obiettivi israeliani o ebraici in Europa”. Il testo era sintetico e inequivocabile: “Fonte solitamente attendibile ha riferito che i palestinesi residenti in Europa avrebbero ricevuto l’ordine di prepararsi a compiere una serie di attentati contro obiettivi israeliani o ebraici europei”. L’Operazione “Pace in Galilea”, cioè l’attacco israeliano contro le postazioni palestinesi, diretto a sradicare le loro basi in Libano che sarebbe proseguito per mesi, era iniziata da 12 giorni.

Il 27 giugno il Sisde faceva partire un nuovo “Appunto riservato” secondo cui gruppi di studenti palestinesi “avrebbero in animo” attacchi contro obiettivi ebraici a Roma. In testa alla lista dei possibili obiettivi c’era appunto la Sinagoga. In un Appunto del 27 agosto 1982, si afferma chiaramente che l’offensiva terroristica è in fase di ripresa ma che “l’atteggiamento dei fedayn verso l’Italia potrebbe non rivelarsi ostile nel caso di un sollecito riconoscimento dell’O.L.P. e della causa del popolo palestinese”. Secondo l’appunto due organizzazioni interna all’Olp, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina di George Habbash e il Fronte Democratico Popolare per la Liberazione della Palestina di Hawatmeh, stavano facendo entrare clandestinamente in Europa i loro commando.

In tutto, dal 18 giugno al 9 ottobre, furono inviate 16 segnalazioni di possibili attentati in Italia, l’ultima il 2 ottobre, una settimana prima dell’attacco. In tre di queste era esplicitamente indicata la sinagoga come obiettivo. La più esplicita e precisa è del 25 settembre, spedita anche per conoscenza al ministero dell’Interno. Il Sisde affermava che una “fonte abitualmente attendibile” aveva segnalato la possibilità di attacchi del gruppo dissidente palestinese guidato da Abu Nidal “prima, durante o subito dopo lo Yom Kippur, che quest’anno cadrà il 27 settembre”. Anche dall’ambasciata israeliana, peraltro, era arrivato negli stessi mesi un avvertimento specifico: essendo troppo difficile colpire gli obiettivi israeliani, i palestinesi avevano deciso di prendere di mira gli ebrei. Il terrorismo avrebbe cioè colpito obiettivi ebraici, come appunto le sinagoghe, non israeliani o collegati a Israele.

Nonostante gli avvertimenti, la sinagoga non fu presidiata. Non solo non fu aumentata la sorveglianza ma il 9 ottobre non era presente neppure la macchina della polizia che solitamente stazionava lì in occasione di feste o cerimonie religiose. La sorveglianza sulla sinagoga e sul ghetto era stata predisposta solo dalle 19 della sera alle 7 della mattina seguente. Le stesse indagini, subito dopo l’attacco, non furono particolarmente stringenti e non portarono a niente. “Fui interrogato non al commissariato ma una specie di postazione mobile. Mi fecero qualche domanda generica e mi lasciarono andare”, racconta uno dei testimoni, Leonardo Piperno, che aveva visto arrivare due degli attentatori in moto ed è a tutt’oggi convinto, come anche l’allora giudice Rosario Priore, che non tutti i terroristi fossero palestinesi.

Il commando, secondo le ricostruzioni della polizia, era composto da 5 persone, 4 delle quali rimaste sconosciute. Il quinto attentatore, Abdel Osama al-Zomar, ex presidente dell’Associazione studenti palestinesi in Italia, fu arrestato un anno dopo al confine tra Turchia e Grecia, con un carico di 60 kg di tritolo. La sua ex compagna italiana, Anna Spedicato, disse che l’uomo le aveva confessato di essere l’organizzatore dell’attentato. L’Italia chiese l’estradizione fu immediatamente scarcerato dalla Grecia per evitare guai. È stato condannato in contumacia nel 1991. Le rivelazioni di Cossiga sul lodo Moro continuano a essere ignorate. Quel che successe davvero in Italia in quegli anni, strage di Bologna inclusa, non c’è alcun bisogno di chiarirlo… 

BREVE CRONACA DEL 1982

Nel 1982 l’Italia era governata per la prima volta da un governo non a guida democristiana. Il presidente del Consiglio era il capo del partito repubblicano Giovanni Spadolini che era succeduto a Ugo La Malfa, al vertice del partito, dopo la sua morte (nel 1979). Ministro dell’Interno era Virginio Rognoni, democristiano. Presidente della Repubblica il mitico Sandro Pertini. Fu l’anno della clamorosa vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio in Spagna. Vittoria ottenuta battendo le squadre più forti del mondo: Argentina, Brasile, Germania.

Il 1982 è un anno ricco di avvenimenti. In Italia si apre in gennaio con la cattura del capo dell’ala più dura delle Brigate Rosse, Giovanni Senzani. Il colpo è clamoroso ma le Brigate Rosse continueranno la loro azione almeno per altri 4 anni. È anche l’anno di avvio dell’azione stragista della corrente corleonese della mafia, che uccide in aprile il leader comunista Pio La Torre e in settembre il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Nel 1982 scoppia e si conclude in tre mesi la guerra delle Falkland tra Argentina e Gran Bretagna. La sconfitta dell’Argentina determina la fine del regime fascista e golpista di Videla e l’avvio del superamento di tutte le dittature dell’America latina. A fine anno muore Breznev e l’impero sovietico diventa meno granitico. Tra i grandi film quelli di maggior successo sono E.T. e Blade Runner. David Romoli

L'inchiesta sull'attentato alla Sinagoga di Roma. Interrogazioni parlamentari di FdI e Pd sull’inchiesta del Riformista. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 10 Dicembre 2021. Il tempo non cancella la vergogna. Le rivelazioni del nostro giornale sull’attentato terroristico alla Sinagoga di Roma, il 9 ottobre 1982, riportano l’attenzione su una pagina tragica della storia del nostro paese. «Emergono dettagli inquietanti nei documenti riportati da Il Riformista di oggi (ieri per chi legge, ndr) nell’articolo sull’attentato alla Sinagoga del 1982. Il Sisde segnalò il pericolo attentati eppure quella mattinata non c’erano forze dell’ordine a presidiare. È arrivato il momento di fare chiarezza», ha commentato su Twitter la presidente della comunità ebraica romana, Ruth Dureghello.

«Occorre fare la massima chiarezza sul troppo spesso dimenticato attentato del 1982 alla sinagoga di Roma, la più grande d’Europa. Lo si deve non solo alla memoria di Stefano Gaj Taché, che quel giorno fu ucciso all’età di 2 anni e ai quaranta feriti, tra cui diversi gravemente come il fratello Gadiel, ma anche alla sicurezza e al prestigio della nostra nazione. I colpevoli sono rimasti impuniti e ci sono ombre su troppi fatti di quel periodo. Quanto scritto dal Riformista non può essere lasciato cadere ma deve essere occasione per conoscere meglio i fatti, tanto più che il pericolo del terrorismo, nonostante il tanto tempo passato, è purtroppo molto attuale», ha dichiarato ieri il senatore di Fratelli d’Italia, Lucio Malan. Il deputato di FdI Federico Mollicone ha annunciato un’interrogazione alla ministra dell’Interno Lamorgese. Anche i dem Paolo Lattanzio ed Emanuele Fiano hanno fatto sapere che presenteranno un’interrogazione parlamentare. Tutti chiedono che sia fatta chiarezza su esecutori e mandanti di quell’attacco terroristico e anche sulle responsabilità del governo italiano che sapeva e non fece nulla per evitare quell’atto sanguinario.

«L’articolo de Il Riformista ha portato alla luce un quadro sconvolgente», «è mia intenzione portare questa questione all’attenzione del Copasir», ha scritto su Facebook il senatore di Iv e segretario del Copasir Ernesto Magorno. «Ricordando l’attentato al Tempio Maggiore in cui perse la vita il piccolo Stefano Gaj Taché, ricordando quelle ore convulse e drammatiche, ricordando la vergognosa campagna di odio che precedette l’attentato, sottraiamo questa terribile pagina del Novecento italiano da un oblio cui è stata troppo spesso condannata». Così si espresse la presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei), Noemi Di Segni, il 9 ottobre 2016, trentaquattro anni dopo la tentata strage.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Attacco alla sinagoga, Fiano: “Grave e inquietante quanto rivelato dal Riformista, governo ci espose ai terroristi”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista l'11 Dicembre 2021. Il suo impegno politico nella lotta all’antisemitismo s’intreccia indissolubilmente con la storia personale e della sua famiglia. Emanuele Fiano, deputato del Partito democratico, già membro della segreteria nazionale Pd, è il terzo e ultimo figlio (dopo Enzo e Andrea) di Nedo Fiano (1925-2020), ebreo deportato ad ad Auschwitz e unico superstite di tutta la sua famiglia, e della moglie Rina Lattes. Nel gennaio 2021 ha pubblicato il libro Il profumo di mio padre, che racconta della sua vita di sopravvissuto della Shoah e del rapporto con il padre sopravvissuto ad Auschwitz. Tra il 1998 ed il 2001 è stato presidente della Comunità Ebraica milanese, dal 2001 al 2006 è stato invece consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Nel 2017 è stato promotore di un disegno di legge sull’apologia del fascismo. Dal 2005 è segretario nazionale di Sinistra per Israele, associazione politica, che insieme a Piero Fassino e Furio Colombo che la presiede, si propone di sviluppare la conoscenza delle posizioni della sinistra israeliana e contrastare i pregiudizi anti-israeliani, che ritiene albergare anche in una parte consistente della sinistra italiana. In questo modo ha promosso iniziative che riguardano la convivenza interculturale e il confronto, come iniziative per il dialogo tra israeliani e palestinesi.

Le rivelazioni de Il Riformista riattualizzano una vicenda tragica, l’attacco terroristico alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, e riaccendono i riflettori sul “lodo Moro”, quello che lei ha definito il “lodo insanguinato”. Cosa racconta quel lodo?

Racconta la situazione del nostro paese in quegli anni. Quel lodo di cui parliamo è evidentemente un elemento di scambio determinato da chi governava l’Italia, da chi aveva la responsabilità sulla politica estera di questo paese. Un patto non scritto in maniera formale, che prevedeva che le attività terroristiche dei movimenti palestinesi non avrebbero investito l’Italia. Uno scambio che contemplava, contemporaneamente, un appoggio alla politica palestinese. L’Italia sarebbe stata considerata un terreno di passaggio per le forze palestinesi e di converso la politica estera italiana avrebbe tenuto un profilo assolutamente filopalestinese. Questo intendiamo con questo terribile lodo che fece sposare all’Italia una posizione inaccettabile.

In una intervista a questo giornale, Riccardo Pacifici, per anni presidente della Comunità ebraica di Roma, ha rivelato un episodio alquanto emblematico. Alla signora Daniela Gaj, la mamma del piccolo Stefano Taché, il bambino ucciso nell’attacco alla Sinagoga, che si batteva perché anche lui fosse ricordato nella Giornata dedicata alle vittime italiane del terrorismo, fu motivata così l’esclusione del figlio: «È un ebreo, mica un italiano». Cosa c’è dietro questa terrificante affermazione?

C’è una terribile concentrazione di odio che avvenne in quel periodo e il mancato superamento di stereotipi cari alla cultura antisemita sia di matrice cattolica che di matrice politica. Quelli sono gli anni della manifestazione sindacale, a cui partecipava anche la Cgil, che depositò davanti alla Sinagoga di Roma una bara. Quelli sono gli anni della guerra in Libano del 1982 con la strage nei campi palestinesi di Sabra e Chatila, non opera dei militari israeliani ma delle milizie cristiano-maronite. Quella tragica vicenda determinò in Italia una trasposizione dell’odio verso Israele, che era visto come il massacratore dei palestinesi, falsando la realtà storica di quel momento, verso gli ebrei italiani. Quella manifestazione testimonia tutto ciò. E dà conto anche di una sinistra italiana che, a parte alcune lodevoli eccezioni in cui mi colloco assieme ai miei maestri di quegli anni tra i quali Piero Fassino e Giorgio Napolitano, che Riccardo Pacifici cita nella bella intervista al Riformista, e anche altri come Valter Veltroni e Francesco Rutelli, in quell’inizio degli anni ’80 sulla vicenda mediorientale si era schierata unicamente da una parte e questo fu trasfuso in una parte della cultura corrente italiana. Quella risposta che cita Riccardo Pacifici fa gelare il sangue e testimonia di un periodo che però, va detto, fortunatamente è passato. La frase ricordata da Pacifici coglie un particolare dell’epoca quanto al pregiudizio antiebraico, ma è ancora più grave e inquietante quanto ha portato alla luce Il Riformista con le carte ritrovate nell’archivio di Stato.

Perché più grave?

Qui c’è una collusione di apparati dello Stato. Le segnalazioni dei telex che avete pubblicato dicono che ci potrebbero essere attentati a obiettivi israeliani in Italia ma anche a sinagoghe, nell’ambito di qualcosa che organismi dello Stato adesso dovranno scoprire, e nonostante queste segnalazioni, le forze dell’ordine non agiscono. Qui si va oltre l’antisemitismo. Qui c’è un calcolo, che va investigato, di relazioni internazionali.

Cosa può fare oggi la politica perché sia fatta piena luce su quella pagina oscura della storia italiana?

Il Partito democratico ha presentato subito una interrogazione parlamentare a firma mia e di Lattanzio. Io penso che sicuramente se ne debba occupare, in Parlamento, l’organo che si occupa del funzionamento dei servizi segreti di cui ho fatto parte anch’io per diversi anni, che è il Copasir. Questo organismo può chiedere, ne ha le prerogative, la desecretazione di altri atti, per scoperchiare quello che c’è sotto questa spaventosa costruzione che ha portato a quel morto di due anni e a quei 37 feriti. In più mi pare, come è stato scritto, non c’è solo la possibile omissione colposa o addirittura connivenza colposa con chi ha provocato quelle vittime. Bisogna anche capire il ruolo di Abdel Osama al-Zomar, il palestinese che fu arrestato un anno dopo la tentata strage, al confine tra Grecia e Turchia con un carico di 60 kg di tritolo. Come avete ricordato, l’Italia ne chiese l’estradizione ma il terrorista palestinese fu immediatamente scarcerato dalla Grecia forse per evitare ritorsioni. Al-Zomar che era stato arrestato, che era stato multato, che era stato segnalato, che era conosciuto. Bisogna capire se all’interno di quel lodo sanguinoso ci fossero delle collaborazioni con alcuni palestinesi. Questo lo può sapere solo chi può scavare dentro queste carte ulteriormente. Voglio ricordare un altro episodio di quegli anni…

Quale?

Sigonella. Gli assassini di Leon Klinghoffer, sull’Achille Lauro, furono lasciati andare dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi. Gli americani chiedevano che fossero trattenuti a Sigonella, ma Craxi decise di lasciarli ripartire all’interno di un accordo con l’Olp. Stiamo parlando di persone che avevano ucciso a sangue freddo, a colpi di mitragliatrice, un povero anziano ebreo in sedia a rotelle che aveva la sola colpa di essere ebreo. Quel clima va ricostruito tutto. Ma a parte il clima, noi vogliamo sapere chi fece cosa e perché.

Perché quella vicenda di oltre 39 anni fa è ancora attuale?

Perché la difesa della libertà e della democrazia per ognuno che emana dalla nostra Costituzione, non può soggiacere a nessun accordo internazionale, palese o nascosto. Non ci possono essere accordi internazionali con forze terroristiche, come potrebbe essere stato in questo caso. La storia italiana è piena di racconti di omissioni e di segnalazioni a cui non ha corrisposto un’azione delle forze dell’ordine, negli anni bui della nostra Repubblica. Ed è ancora attuale perché la trasparenza deve essere una necessità che oggi più che mai è contemporanea. Tutto questo è contemporaneo, secondo me. Continua ad appartenere al rapporto che deve esserci tra le forze di sicurezza che lavorano nel segreto di un paese, e le sue politiche palesi. Dopodiché c’è una storia dell’antisemitismo e anche dell’antisionismo in Italia che, devo dire, è sicuramente migliorata. Nell’intervista, Pacifici può citare, nel Pci di allora, solo Fassino, Napolitano e Occhetto, e ricorda le parole di Giorgio Napolitano – l’antisionismo come forma moderna dell’antisemitismo -. E Pacifici li cita come una eccezione, perché il Partito comunista italiano dalla Guerra dei sei giorni in poi si era schierato con il blocco sovietico, schierato in quegli anni con l’Egitto di Nasser e con la Siria. Da allora c’è stata una evoluzione assoluta. Basta vedere quando oggi ci sono delle manifestazioni di solidarietà con Israele, perché ci sono attentati o per altre cose del genere, nel ghetto di Roma. Ricordo l’ultimissima, Enrico Letta era stato appena eletto segretario del Pd, c’erano tutti i segretari politici dell’arco parlamentare. Questo senza togliere che io, come Enrico Letta o Piero Fassino, ci batteremo sempre per una soluzione del conflitto israelopalestinese fondata sul principio “due popoli, due Stati”. È cambiato il rapporto della sinistra italiana, per lo meno nella quale mi riconosco io, quella parlamentare, con quella vicenda. In quegli anni purtroppo non era ancora così. Non che questo c’entri con quegli attentatori, ma centra con quella storia che abbiamo raccontato. E con il lodo Moro.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Al di là della retorica. Il peggiore di tutti gli antisemitismi. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 14 Dicembre 2021. Un’aggressione di stampo razzista non è la stessa se avviene nel Paese che non ha mai conosciuto mozioni e normative discriminatorie o, invece, in quello che le ha viste stabilirsi. Non cambia il fatto puro di quella violenza: ma cambia il modo in cui essa ridonda a sfregio della civiltà che vi assiste. In un caso, è l’inedito scandaloso che oltraggia un ambiente civile vergine e attonito; nell’altro, è la riproposizione angosciante di una realtà che, riproponendosi, non può dirsi pregressa. In un caso è possibile dire: “Che questo non si ripeta”. Nell’altro, no: perché si è già ripetuto.

È con questo criterio che la riproposizione della violenza razzista dovrebbe essere considerata nei Paesi che già l’hanno conosciuta, prodotta, o perfino messa nella legge. Ed è quindi con questo criterio che la violenza antisemita dovrebbe essere considerata nel nostro Paese, che quella violenza ha coltivato e reso sistematica, ordinamentale e, letteralmente, nazionale.

L’inchiesta del Riformista sull’attentato antisemita del 1982, e sulle possibili aree oscure dei fatti e delle omissioni che l’hanno preceduto, o che addirittura hanno contribuito a prepararlo, non ha solo il pregio di un’importante opera di illuminazione: ma anche quello di rendere possibile una ricognizione morale sulla società abbastanza noncurante davanti all’oscenità di un attacco antisemita a poca distanza da dove, giusto qualche decennio addietro, furono scritte le leggi razziali, e proprio nei luoghi dove gli ebrei erano rastrellati. Di là dalla retorica corrente, trionfante in qualche commemorazione solitamente stracca o nelle denominazioni altisonanti di certe commissioni parlamentari, l’Italia ha un rapporto disturbato con ciò che è stata in quegli anni non troppo lontani. Deve essere considerato, perché rischia di sfuggire: molti, tra gli uomini e le donne che quel giorno appresero dell’attentato in cui fu ucciso un bambino ebreo, erano senzienti e consapevoli quando, pochi lustri prima, il loro Paese toglieva i diritti agli ebrei e li faceva infilare nei vagoni piombati.

Riconoscere che quell’attentato non è stato diffusamente risentito come un affronto intollerabile proprio perché avvenuto in quel medesimo Paese, e che questa mancanza denuncia il persistere di un gravissimo difetto di maturità civile, costituirebbe il primo passo. Ed è quello che renderebbe dovuto, e non procrastinabile, il secondo: la richiesta che si faccia chiarezza sulle inquietanti ipotesi di cui ha dato notizia questo giornale. Iuri Maria Prado

Il libro nero della Repubblica italiana. “Mario Mori finì nella gogna complottista perché indagò su mafia e appalti”, parla Giovanni Fasanella. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 11 Dicembre 2021. Incontriamo Giovanni Fasanella, tra i più noti speleologi delle cavità nascoste della storia italiana, all’indomani dell’uscita del suo Libro nero della Repubblica italiana, edito da Chiarelettere. Lo storico e giornalista lo firma insieme con Mario José Cereghino e ne anticipa per noi gli argomenti chiave.

Come nasce il “Libro nero della Repubblica italiana”?

È un unico contenitore per i quattro libri pubblicati da Chiarelettere nell’arco di un decennio, dal 2010 al 2020: Intrigo internazionale, Il golpe inglese, Il puzzle Moro e Le menti del Doppio Stato. Un lavoro basato su un metodo investigativo che interfaccia fonti diverse ma che, alla fine, sottopone le informazioni alla prova documentale attraverso la ricerca d’archivio e fa emergere i contesti in cui maturarono la strategia della tensione, il terrorismo di matrice politica e mafiosa. C’è un filo rosso che lega le varie fasi del “ventennio” di sangue che va dalla strage di Piazza Fontana del 1969 alle stragi del 1992-’93.

La desecretazione del 2014 ha permesso di scoprire carte significative per le sue inchieste?

In realtà, a mio avviso, la desecretazione del 2014 ha dato ben poche novità. Le poche cose interessanti emerse dai documenti declassificati sono quelle che confermano l’influenza del contesto mediterraneo, cioè la guerra segreta per il petrolio, sulle nostre vicende interne, anche quelle più sanguinose. Il resto è paccottiglia.

E gli archivi inglesi appena svelati?

Molto più interessanti. Dagli archivi inglesi e americani emergono prove inconfutabili sul nesso, quasi sempre negato, tra contesti politico-sociali interni e contesti geopolitici internazionali. Sin dalla nascita come Stato unitario, l’Italia non è mai stata un’entità staccata da tutto quello che c’era ai suoi confini.

Andreotti diceva: «Ogni paese ha i suoi vicini. A noi sono capitati i peggiori».

E aveva ragione. Voleva dire che, per trovare risposte ai cosiddetti “misteri”, bisognava approfondire i conflitti lungo i confini più caldi del Novecento: Est-Ovest (comunismo-anticomunismo) e Nord-Sud (guerra petrolifera). E l’Italia, per la sua posizione geografica, era proprio lungo quei confini, e al centro di quei conflitti.

Cosa scopriremo dai fondi britannici, in particolare?

C’è più storia italiana negli archivi britannici, americani e francesi di quanta ce ne sia nel nostro Paese. Per la semplice ragione che Gran Bretagna, Francia e Usa hanno avuto un ruolo enorme, con poteri di condizionamento, nelle varie fasi della nostra vicenda unitaria. Gli interrogativi riguardano piuttosto la nostra capacità di elaborazione delle esperienze traumatiche temporalmente più vicine a noi.

Non siamo disposti ad accettare il nesso profondo, inscindibile tra l’Italia e il quadro internazionale?

Ci sono molte sacche di resistenza di varia natura. Ma sono ottimista: qualcosa finalmente si muove. Le cosiddette “primavere arabe”, per esempio, hanno cambiato nella nostra opinione pubblica la percezione dell’importanza del contesto mediterraneo. E certe verità che emergono dagli archivi stranieri cominciano ad essere viste con meno diffidenza.

“Il Riformista” ha rivelato come il Sisde, nel 1982, avesse riferito dei preparativi dell’attentato alla Sinagoga di Roma, con una informativa rimasta lettera morta. Se ne è occupato?

Non ho elementi per esprimere un giudizio fondato. A occhio mi sembra poco credibile che il governo, non gli apparati, pur sapendo dei preparativi in corso, non avesse avvertito gli interessati e non impedito l’attentato. C’è stato un filtro, secondo i documenti pubblicati dal Riformista, è evidente: possiamo pensare che una filiera dei servizi italiani fosse interessata a creare un casus belli. Mi risulta, quanto al lodo Moro, che esisteva un accordo anche sul fronte israeliano.

C’è un segreto intangibile, tra i tanti?

C’è un “indicibile” dell’esperienza italiana. Indicibile, non invisibile. Ma per rispondere alla sua domanda, sa qual è il nostro “segreto” tuttora intangibile? È l’articolo 16 del Trattato di pace del 1946-’47, imposto dalle nazioni vincitrici della seconda guerra alla nazione sconfitta: quello che impone alle autorità italiane la garanzia dell’impunità per molti nostri cittadini che collaborarono con la causa alleata tra il 1940 e il 1947, cioè il periodo che va dall’anno dell’entrata in guerra dell’Italia a quello dell’entrata in vigore del Trattato. Tra gli altri, c’erano anche molti boss mafiosi ed ex republichini passati sotto altre bandiere e utilizzati nel dopoguerra in altre operazioni. Il testo del Trattato si può trovare negli archivi parlamentari e persino su internet. Ma provi a domandare in giro quanti lo conoscono. Eppure, se studiassimo la genesi e gli effetti di quel Trattato, capiremmo le ragioni di tanti depistaggi e deviazioni.

Su Enrico Mattei ha scritto che l’aereo venne manomesso, si è trattato di un omicidio. Perché nessuna Procura riapre il caso?

L’ultima indagine del magistrato Vincenzo Calia ha stabilito che si trattò di un sabotaggio, quindi di un attentato. Un gran risultato. Ma Calia ha dovuto ammettere, con grande onestà intellettuale, di non essere riuscito a trovare le prove per inchiodare esecutori e mandanti. In un recente dibattito con lui all’Università della Calabria mi sono permesso di integrare la sua ammissione aggiungendo che la ragione di quei buchi è che si è trovato contro un articolo di un Trattato di pace. Calia ha annuito. Veda, negli archivi internazionali, e in particolare in quelli britannici, c’è una documentazione sterminata sull’ostilità, per usare una parola leggera, di interessi stranieri nei confronti di Mattei. Ma la magistratura avrebbe potuto scrivere nel registro degli indagati, per esempio, premier e ministri dell’energia dei vari governi inglesi o francesi?

L’Italia ha vissuto ingerenze internazionali anche derivanti dalla condizione di paese sconfitto dalla guerra: come hanno inciso?

In modo profondo sul nostro sistema politico interno e sulla nostra politica estera, in particolare nell’area mediterranea. Avevamo vincoli internazionali molto rigidi e alcuni anche umilianti. Le nostre classi dirigenti del dopoguerra ne erano consapevoli. E tutte le volte che hanno tentato di aggirarli “furbescamente” o di superarli attraverso processi politici, sono sorti problemi molto seri, diciamo così. Forse Mussolini non avrebbe dovuto dichiarare guerra a mezzo mondo, sarebbe stato più saggio. Le classi dirigenti antifasciste hanno pagato per colpe di altri.

In quel ‘difetto di sovranità’ si può leggere in nuce la necessità adottiva, il confronto tra un fronte filo Usa e uno filo Urss che ha tenuto bloccata la democrazia italiana?

Senza alcun dubbio. Se l’Italia non avesse avuto un partito comunista con una forte componente filosovietica al proprio interno e una forte influenza sull’opinione pubblica italiana, se avessimo avuto una sinistra socialista, socialdemocratica o laburista egemone, gli Usa avrebbero favorito la nascita di un sistema democratico basato sull’alternanza alla guida del Paese tra uno schieramento conservatore e uno progressista. Ma questo vale per gli americani. Per francesi e inglesi, il “problema italiano” non era tanto il Pci, ma l’Italia: la sua posizione geografica nel cuore del Mediterraneo, e quindi la sua potenziale minaccia agli interessi petroliferi di Londra e Parigi.

Chi ha permesso alle Br di sequestrare e uccidere Aldo Moro?

A molti, in Italia e all’estero, faceva comodo che le Br esistessero, crescessero ed entro certi limiti potessero fare quello che avevano in mente di fare. Volevano sequestrare Moro, cioè lo stratega, per un lungo periodo, della politica interna ed estera dell’Italia, il “levantino” democristiano che voleva aggirare i vincoli internazionali? Prego, fate pure, ci aiutate a risolvere un problema.

Nelle sue ricostruzioni emerge qualche distrazione di troppo…

Settori degli apparati di sicurezza, della politica, dell’economia e dell’alta burocrazia dello Stato collegati con interessi stranieri “lasciarono fare”. Benché intercettato con largo anticipo dagli apparati di sicurezza italiana e da almeno sette intelligence di rango internazionale, come ha riferito il giudice Rosario Priore, non solo il sequestro non venne sventato, ma non si riuscì a trovare la prigione e a impedire che il leader democristiano fosse assassinato.

Mani Pulite è il momento in cui i magistrati, rottamando la politica, provarono a sostituirla. Si è indagato poco su quel periodo.

Penso che la storia di quel periodo debba essere ancora scritta. Ci sto lavorando con Mario Josè Cereghino e quello che sta emergendo dalle nostre ricerche conferma l’’idea di un attacco in grande stile alle classi dirigenti della Prima Repubblica e alle culture politiche popolari del Novecento. Sia chiaro, quel ceto politico offrì la testa al cappio perché fu incapace di autoriformare il sistema modellato durante la guerra fredda. Ma sul fatto che l’obiettivo della “rivoluzione” fosse la grande industria pubblica che nel secondo dopoguerra aveva contribuito a fare dell’Italia una delle potenze economiche mondiali, non c’è alcun dubbio. E non mi riferisco ai magistrati, che nella maggior parte dei casi facevano il loro mestiere, ma agli interessi interni e internazionali che misero il vento nelle vele di “Mani pulite”.

Otto anni fa aveva dichiarato, a proposito dell’insussistenza della Trattativa Stato-Mafia, che “Il generale Mori è stato neutralizzato perché indagava su Mafia-Appalti”. I fatti si sono incaricati di darle ragione. Perché certe teorie del complotto hanno così ampio successo?

Un ex direttore del Corriere della Sera propose alla Mondadori di pubblicare un libro sul punto di vista del generale Mori, criminalizzato dalla stampa per via delle inchieste in corso a Palermo, mentre il figlio di Vito Ciancimino furoreggiava con un suo volume in tutti i programmi di “approfondimento” televisivo. Chiesero a me e accettai subito: non solo perché ritenevo che fosse giusto concedere anche a Mori la possibilità di dire la sua, ma soprattutto perché ero curioso di conoscere la sua storia: la storia di un servitore dello Stato che per qualche misteriosa ragione era finito in un vero e proprio tritacarne. Avevo già delle idee che mi ero fatto all’inizio dei Novanta, quando ero cronista parlamentare e quirinalista di Panorama, negli anni delle stragi mafiose, della rivoluzione di Mani pulite e del crollo della Prima Repubblica. Poi avevo avuto modo di approfondirle attraverso le conversazioni con Giovanni Pellegrino, il giudice Rosario Priore e molti altri depositari di conoscenze sul “doppiofondo melmoso” della Prima Repubblica, come lo definì Luciano Violante. Cioè, l’apparato del potere occulto costruito in Italia nell’immediato dopoguerra dai servizi americani, inglesi e francesi, di cui la mafia e la Sicilia erano dei pilastri.

Fino a un certo tornante della storia…

Dopo la caduta del Muro, finita la guerra fredda, quell’apparato non si sentiva più protetto. E quando conobbi il generale Mori, leggendo le carte, ormai di dominio pubblico su “mafia e appalti”, raccolte dai suoi uomini per Giovanni Falcone, mi convinsi che quella zona grigia del potere doveva sentirsi minacciata dalle indagini dei Carabinieri. Non so dire se Mori e i suoi uomini ne fossero consapevoli sino in fondo, ma confrontando il loro lavoro con le informazioni che avevo pubblicato in libri precedenti o su Panorama, mi resi conto che con “mafia e appalti” probabilmente erano stati toccati fili sensibilissimi.

E perché le teorie complottiste trovano così largo successo?

Nascono e si affermano per i motivi più svariati. Per una scarsa conoscenza della storia, per esempio. Ma anche, il più delle volte, come reazione all’incapacità (impossibilità) della magistratura e della storiografia di fornire ricostruzioni attendibili e, per quanto è possibile, complete dei fatti, con la loro contestualizzazione e la loro interpretazione.

La magistratura potrebbe aiutare la ricerca storica nella ricostruzione delle verità nascoste, ad esempio rendendo consultabili tutti gli atti di inchiesta dopo la conclusione dell’ultimo grado di giudizio?

Certamente, le inchieste giunte all’ultimo grado del giudizio possono aiutare la ricostruzione storica. Ma sono solo una fonte, non la storia, che deve avvalersi invece di tutte le fonti disponibili. In Italia, purtroppo, spesso si tende a trasformare in storia definitiva addirittura un’indagine preliminare.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Da "Libero quotidiano" il 10 dicembre 2021. Una lettera inedita scritta il 19 settembre 1962 da Aldo Moro ad Enrico Mattei, presidente di Eni, nella quale il segretario della Dc gli chiedeva di dimettersi dalla presidenza della società. Poco più di un mese dopo, il 27 ottobre 1962, il bireattore che portava Mattei da Catania a Milano esplose nel cielo sopra le campagne di Bascape' (Pavia). La lettera, affiorata dall'archivio storico dell'Eni di Castel Gandolfo, è lo scrittore Giovanni Giovannetti, che sta lavorando a un libro su Mattei, sul settimanale della diocesi di Pavia, Il Ticino. «Carissimo (...) Ho ancora meditato sulle cose che ci siamo detti nel nostro ultimo incontro e, naturalmente, sul peso del sacrificio che il partito ti chiede. A mente fredda e sulla base delle più compiute informazioni date fornitemi ho dovuto ancora concludere che è questa ancora la via migliore. Ogni decisione comporta certo uno svantaggio ed in esso, credimi, io metto in primissima linea il tuo disappunto, anzi il tuo evidente e comprensibile dispiacere. Lo noto e mi pesa molto. Ma, credi, nella situazione attuale non c'è di meglio da fare. La tua rinuncia contribuisce a consolidare una situazione assai fragile e spegne una polemica astiosa che ti avrebbe ancor più amareggiato, e con te le tue idee e le tue importanti iniziative. Sembra di perdere ed invece si garantisce e si consolida. Ho l'impressione che non si canterà vittoria. Aggiungi anche questa alle tue benemerenze; alla tua silenziosa fedeltà; al tuo servizio prezioso nell'interesse del paese. Grazie, caro Mattei, con i più affettuosi sentimenti. Aldo Moro».

Il sequestro Moro e quelle illusioni della memoria storica. Paolo Persichetti, ex membro dell’Unione dei Comunisti Combattenti (Br-Ucc), oggi storico e ricercatore, anticipa al Dubbio alcuni capitoli del suo prossimo saggio "La polizia della Storia". Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 27 novembre 2021. Vi ricordate il blitz della polizia nel paese di Gradoli durante i drammatici giorni del sequestro Moro? I blindati della celere, gli elicotteri, le unità cinofile, le perquisizioni “casa per casa”, “cantina per cantina”, gli sguardi attoniti degli abitanti del piccolo centro della Tuscia? Immagini vivide, impresse nella memoria anche di chi scrive. Peccato che quel blitz tanto spettacolare quanto inutile non sia mai avvenuto e le forze dell’ordine non siano mai entrate a Gradoli per cercare il covo dove era prigioniero il presidente della Dc. Una fake news come si dice oggi. Tutta la vicenda, poi era circondata da un fitto mistero; il nome di Gradoli emerge nella famosa seduta spiritica del 2 aprile 1978 tenuta da alcuni professori universitari tra cui Romano Prodi. Una boutade se non fosse che in via Gradoli a Roma ci fosse stata effettivamente una base delle Br che venne poi scoperta fortuitamente a causa di un guasto idraulico nell’appartamento. «La comune convinzione che ci fu una perquisizione di massa nasce dalle immagini di un film di Giuseppe Ferrara sul rapimento Moro, apparso nel 1986, ben otto anni dopo i fatti. Fu proprio Ferrara a mettere in scena la perquisizione di fantasia i cui frames sono fissati nelle menti di molti, persino in quella del presidente della Commissione stragi che ribadì con forza questa sua convinzione: “Ne è stata data notizia su tutte le televisioni, serbo ancora un ricordo preciso, si vedevano gli uomini con il mitra che entravamo e perquisivano un intero paese”». A raccontare con dovizia di particolari questa vera e propria “illusione di memoria” che ci ha colpiti tutti è Paolo Persichetti, ex membro dell’Unione dei Comunisti Combattenti (Br-Ucc), oggi storico e ricercatore che ha anticipato al Dubbio alcuni capitoli del suo prossimo lavoro “La polizia della Storia”, edito da Derive e Approdi. Un’opera complessa di ricostruzione degli eventi come probabilmente nessuno aveva fatto prima, che si scontra inevitabilmente con i miraggi della percezione che offuscano fatti lontani nel tempo, a volte avvolgendoli in una densa cortina di fumo, altre volte operando scambi, sostituzioni, inversioni. Lo storico rigoroso sa che i fatti non corrispondono alla memoria, e che attingere alle fonti seguendo una tesi da dimostrare a priori è uno degli errori più gravi che si possano commettere. Specialmente se la tesi è di natura politica. La narrazione complottista che da oltre quarant’anni avvelena i pozzi e accompagna il sequestro Moro (senza mai aver fornito una prova concreta), adombrando fantomatiche infiltrazioni e manipolazioni da parte di altrettanto fantomatici poteri occulti che avrebbero eterodiretto i brigatisti ha contribuito non poco a traviare la nostra memoria. Anche opere di scarso livello come i libri di Sergio Flamigni o pellicole fantasy come Piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli (di cui Flamigni è stato consulente storico) pur nella loro inverosimiglianza hanno nutrito l’inconscio cospirazionista naqzionale. Che in Italia è una specie di disposizione permanente, un habitus per dirla con Pierre Bordieu. L’allucinazione collettiva del blitz della polizia nel paese di Gradoli è solo un esempio di quanto sia difficile mettere a fuoco gli eventi, anche per chi agisce in buona fede e non ha interessi diretti nella vicenda. Peccato che questi bias cognitivi tracimino nella letteratura ufficiale, nelle aule di giustizia e nelle Commissioni parlamentari facendo a loro modo la “Storia”. «Quando tra il 2014 e il 2015 ho iniziato il lavoro di ascolto delle fonti orali in parallelo alla raccolta dei documenti disponibili per la ricostruzione degli aspetti politici, logistici, e operativi del sequestro Moro ho scoperto che il memoriale Morucci e la ricostruzione effettuata in sede giudiziaria corrispondevano solo in parte a quanto realmente accaduto». Secondo Persichetti le stesse “verità giudiziarie” sottoscritte dai giudici che hanno redatto la sentenza del Moro quater sono piene di approssimazioni, di piccoli grandi errori. Ad esempio sempre secondo i giudici il primo trasbordo del prigioniero dalla Fiat 132 al furgone Fiat 850 sarebbe avvenuto in via Bitossi anziché piazza Madonna del Cenacolo, il che contrasta in modo flagrante con le testimonianze di tutti i membri del commando, da Valerio Morucci a Mario Moretti, a Prospero Gallinari. In realtà i brigatisti nella seconda parte della via di fuga utilizzano un altro mezzo ancora di cui non si sapeva l’esistenza: è la famosa Renault4 rossa dove poi verrà ritrovato il corpo di Moro in via Caetani che venne usata da due membri del commando che dovevano dare appoggio a un secondo trasbordo del prigioniero previsto nel quartiere di Valle Aurelia che alla fine non avvenne. Questa informazione è presente nelle carte del Moro quater ma inquirenti e giudici non l’hanno mai sfruttata probabilmente perché non hanno voluto dare credito al racconto della via di fuga fatto dai brigatisti. Se invece di sequestrare l’archivio di Persichetti per cercare reati alla cieca avessero riletto i documenti dei processi questi elementi sarebbero venuti alla luce. Si tratta di aspetti  secondari del sequestro che non toglie o aggiunge granché al quadro d’insieme, ma la distorsione della memoria si annida anche nei dettagli apparentemente insignificanti, alimentata poi dal mormorio, quello senz’altro in malafede, delle dietrologie. «Nella nostra ricerca ci siamo dovuti misurare costantemente con questa insidia, chi si confronta con la memoria sa che questa può giocare pericolosi tranelli. Per il ricercatore a volte è meglio confrontarsi con testimoni che hanno vuoti di memoria piuttosto che doversi misurare con le illusioni del passato, ricordi distorti e reinvenzioni che stravolgono i fatti».

Gli intrighi che impedirono ad Aldo Moro di diventare Presidente della Repubblica. Nel 1971 il democristiano era il nome forte per il Colle. Ma colpi bassi, tradimenti e pressioni finirono per favorire la destra e Giovanni Leone. Sulla scelta del Capo dello Stato si scrive la storia segreta della Repubblica: è stato così in passato, sarà così anche nel 2022. Come racconta un libro (e un podcast). Marco Damilano su L'Espresso il 17 Novembre 2021. I cavalli di razza della Dc: Amintore Fanfani e Aldo Moro. Nel 1971 Fanfani è il candidato ufficiale del partito per il Quirinale, ma viene azzoppato dai franchi tiratori. Al suo posto dovrebbe toccare a Moro, ma invece spunta Leone. Non ci sono regole, non c’è campagna elettorale, non c’è un programma da presentare e nessun pubblico criterio di valutazione. È un gran bazar, un suq, un mercato parallelo, una borsa nera. Una corsa di cavalli, ma del genere palio, dove conta molto più quello che avviene dietro la linea di partenza, in cui la gara comincia prima della rottura del canapo: i colpi bassi, le provocazioni, le eliminazioni. Per arrivare al traguardo servono tenuta nervosa, resistenza agli attacchi, disponibilità a ricevere gli appoggi più inaspettati, una rete di sostenitori che lavora per la candidatura. La virtù della discrezione, l’ostentazione del distacco, la scomparsa dalla scena al momento giusto. Nella Prima repubblica l’elezione presidenziale era una cerimonia sacrificale dominata da regole oscure (…). Alla fine del 1971 termina il mandato di Giuseppe Saragat e i grandi elettori tornano a riunirsi per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Dopo il laico tocca di nuovo a un democristiano. La Dc può contare sui due cavalli di razza: Amintore Fanfani e Aldo Moro. Tra le elezioni presidenziali è la più lunga, 23 votazioni, la più incerta: il presidente, Giovanni Leone, passò con appena 518 voti su 1008, il 51,4 per cento, la percentuale più bassa della storia. E la più inquinata da influenze esterne. Il primo che prova a inserirsi nella partita è Eugenio Cefis, uno dei personaggi più oscuri e discussi della storia repubblicana, presidente dell’Eni dopo il fondatore Enrico Mattei. Mattei era il finanziatore della corrente di Base, giocò la sua partita per l’elezione di Giovanni Gronchi nel 1955 e avrebbe voluto la sua rielezione nel 1962. Eugenio Cefis, il suo successore alla presidenza dell’Eni, dopo il misterioso incidente aereo di cui Mattei rimase vittima, si era già segretamente speso nel 1964. Di fronte all’impasse della candidatura di Giovanni Leone, Mariano Rumor, segretario della Dc, chiese un incontro diretto al capo dei comunisti Luigi Longo. Per il loro faccia a faccia, di cui mai si seppe nulla, scelsero un luogo riservato e sorprendente: l’abitazione di Cefis. L’incontro avvenne alle diciotto del 22 dicembre e finì in un nulla di fatto: che i leader della Dc e del Pci si incontrassero a casa sua, dice molto sull’influenza del Dottore, com’era stato soprannominato Cefis. Sette anni dopo, il Dottore vuole essere il grande elettore del presidente, e sostiene la candidatura di Fanfani che lo aveva voluto alla guida dell’Eni dopo Mattei. «Cefis è convinto che Fanfani sia l’uomo giusto per il Quirinale, il più adatto a guidare una Seconda repubblica», scrive Giampaolo Pansa in “Comprati e venduti”. «Una volta arrivato su quel Colle potrà tentare di porre rimedio alla disgregazione del sistema parlamentare e avrà certo la forza per richiamare la classe politica ai doveri di operosità e di efficienza da troppo tempo dimenticati. Cefis si dà un gran da fare. Incontra gente. Tenta di convincere, o di far convincere, quel pugno di grandi elettori bianchi che insistono nel rifiutare Fanfani. E forse mette in moto coloro che poi verranno chiamati “i parlamentari-squillo” della Montedison, per colmare i vuoti prodotti nel fronte fanfaniano dai franchi tiratori del partito di maggioranza». Non c’è niente da fare. La candidatura di Fanfani non decolla, anzi, tramonta. E salgono altri nomi. Uno è quello del capo socialista Pietro Nenni. Come andò, me lo racconta Rino Formica, al suo esordio da grande elettore come senatore del Psi: «Ci fu una riunione della direzione socialista alla Camera e si decise di lanciare Nenni. Ero preoccupato, temevo che la manovra potesse spaccare il Parlamento. La sera irruppe nelle nostre stanze una delegazione del Pci guidata da Giorgio Amendola e ci comunicò che i comunisti erano pronti a votare per il nostro capo. Cercammo allora di sondare altri gruppi politici, in tutte le direzioni. Io fui spedito a parlare con gli esponenti missini Ernesto De Marzio e Araldo di Crollalanza, erano entrambi di Bari, li conoscevo da tempo. Parlai prima con Di Marzio, capogruppo alla Camera, mi disse: niente da fare, ho già un accordo con Fanfani. Di Crollalanza lo incontrai di nascosto, in un corridoio laterale. Mi prese di sorpresa: “Ma io Nenni lo sto già votando”, mi rispose. Lo faceva in omaggio alla memoria di Mussolini che il 23 marzo 1945, un mese prima di essere fucilato, a Salò gli aveva affidato un compito: salvare il salvabile, organizzarsi, appoggiare i socialisti e Nenni». «Craxi e io», prosegue Formica, «eravamo gli autonomisti nenniani, una minoranza nel PSI. Prendemmo un ascensore e incontrammo Ugo La Malfa. Anche con lui parlammo di Nenni ma la sua risposta mi colpì, non ci fece neppure parlare, fu tranchant, feroce. “Siete fuori strada”, ci disse. “Dobbiamo votare un candidato Dc qualsiasi, basta che non sia Moro”, proseguì. “Il nostro compito storico è sbarrare a Moro la strada del Quirinale». Sette anni dopo, al momento del rapimento del presidente democristiano, La Malfa sarà così sconvolto da richiedere alla Camera la pena di morte per i terroristi. Ma nel 1971 è determinato a sbarrargli la strada per il Quirinale. Eppure Moro è il nome più forte, il più autorevole e prestigioso. L’unico democristiano che può ottenere i voti anche della sinistra. Già nel mese di ottobre è stato contattato dal vicesegretario del Pci Enrico Berlinguer, designato per succedere alla segreteria a Luigi Longo. Berlinguer non ritiene prudente un incontro diretto e spedisce dal leader democristiano il suo emissario, un uomo di fiducia, il deputato Luciano Barca. «Moro ringrazia Berlinguer di averlo scelto come interlocutore. Manifesta l’imbarazzo di dover dare risposte che possono sembrare dettate dalla necessità di trovare appoggi per la presidenza, ma poiché Berlinguer è stato netto nel chiarire che per ora l’argomento è fuori dal discorso, anch’egli ne prescinde», annota Barca sul suo diario. «Sul piano internazionale Berlinguer ha compiuto scelte importanti, dice Moro, ma occorre che l’abbandono della “scelta di campo” sia percepita chiaramente sia dagli americani che dalle forze moderate italiane». Il leader democristiano ha già cominciato a tessere la lunga tela che nelle sue intenzioni deve portare il Pci nel quadro delle alleanze occidentali dell’Italia. Quando cominciano le votazioni, Berlinguer torna a sondare la Dc. «Forlani insiste in un primo momento perché il Pci indichi una rosa di almeno tre nomi, ma Berlinguer è molto netto», scrive Barca. Spiega al segretario Arnaldo Forlani che l’unico democristiano per cui il Pci sarebbe disposto a votare è Moro. Forlani e il capogruppo alla Camera Giulio Andreotti promettono che in caso di fallimento di Fanfani si impegneranno a fare passare nella Dc la candidatura. E per dare prova di buona volontà i due capi democristiani concordano con i comunisti di lasciare aperta una porta di servizio a Montecitorio, per continuare a tenere i contatti senza essere visti da nessuno, neppure dai commessi. «Attraverso la scala di servizio arrivano a un certo momento, soprattutto da Andreotti, ampie rassicurazioni». Moro si avvicina in modo deciso verso una candidatura votata anche dai comunisti. È in quel preciso momento che torna in azione l’Ombra. L’uomo che ha affiancato Enrico De Nicola al momento della firma della Costituzione, che è stato accanto a Gronchi al Quirinale, che ha scritto il programma del governo Tambroni. L’Ombra è Francesco Cosentino. Ha un ruolo nelle elezioni presidenziali perché affianca silenziosamente il presidente della Camera Sandro Pertini da segretario generale di Montecitorio. Dieci anni dopo, in un appunto consegnato dal presidente della Corte costituzionale Leopoldo Elia a Tina Anselmi all’inizio della Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia P2, tra le piste di indagine si legge: «Influenza della massoneria sui deputati, contro la candidatura di Moro. Influenza sui deputati del Sud (Picella, segretario generale del Quirinale, e Cosentino)». Elia e Anselmi erano tra i pochi morotei, il piccolo gruppo nella Dc sempre considerato nemico della P2. Cosentino era nel 1971 tra gli uomini più vicini al capo della loggia massonica P2 Licio Gelli, il primo che Gelli incontrava alle otto del mattino nella hall dell’hotel Excelsior: «Che c’è di nuovo, Ciccio?» In quelle elezioni presidenziali Cosentino è l’oggetto di uno scambio pericoloso. Per lui si muove un altissimo magistrato, il procuratore generale di Roma Carmelo Spagnuolo che chiede un colloquio con Berlinguer. «Berlinguer ha ritenuto pericoloso accogliere la richiesta, ma anche abbastanza pericoloso respingerla del tutto e ha concordato che il colloquio avvenisse con Paolo Bufalini», testimonia Barca nei suoi appunti di quei giorni. «Paolo - che è ancora turbato e che per questo ha bisogno di sfogarsi con me - è andato e, dopo oscuri accenni alla gravità della situazione, si è sentito fare da Spagnuolo la più incredibile delle proposte: Moro non diverrà mai Presidente, ma un compromesso che tenga conto delle ragioni e delle esigenze del Pci è possibile». Ai comunisti il procuratore propone di votare per il presidente della Camera, il socialista Pertini, e assicura che su di lui arriveranno anche i voti della Dc e del Psi. Ma c’è una condizione. «Che nessuna obiezione sarà mossa alla nomina di Francesco Cosentino a segretario generale della presidenza della Repubblica accanto a Pertini». Pertini è ovviamente ignaro di tutto, la sua candidatura è solo un diversivo per distrarre il Pci da Moro. Nel 1971 la loggia massonica P2 Licio Gelli sta facendo proselitismo ai vertici delle istituzioni: tra i servizi segreti, nei partiti, tra i grand commis. Cosentino e Spagnuolo della P2 sono una specie di ufficio politico. Di Cosentino si arriverà a ipotizzare che sia stato il vero capo della P2, la mente raffinatissima che ha scritto materialmente il Piano di rinascita democratica sbandierato da Gelli negli anni successivi per riscrivere la Costituzione. Spagnuolo era per Gelli l’ideale presidente del Consiglio di un governo tecnico sopra i partiti. Insieme si muovono nel 1971, per bloccare l’ascesa di Moro. Berlinguer rifiuta l’offerta piduista, ma intuisce che la candidatura di Moro sarà bruciata, si stanno muovendo forze troppo potenti. Martedì 21 dicembre 1971, san Tommaso Apostolo, come annota scrupolosamente il notista della Stampa Vittorio Gorresio, quattro ambasciatori della Dc (in ordine alfabetico: Andreotti, Forlani, Spagnolli e Zaccagnini) bussano a casa del senatore a vita Giovanni Leone, malato di bronchite, la voce roca, qualche linea di febbre, per comunicargli che l’assemblea dei grandi elettori democristiani lo ha designato come candidato ufficiale alla presidenza della Repubblica a voto segreto. Poche ore prima i nomi di Leone e di Moro sono stati messi ai voti davanti ai grandi elettori della Dc. Berlinguer aspetta con Barca la fine dell’assemblea democristiana in piazza Montecitorio, nonostante il freddo. La notizia arriva da un cronista amico: c’era una grande maggioranza per Moro, ma Forlani e Andreotti hanno fatto cambiare idea al corpaccione. Leone ha prevalso per pochissimi voti: forse appena dodici, non si saprà mai perché le schede vengono bruciate subito. Berlinguer e Moro si incontreranno per la prima volta, a casa del consigliere Tullio Ancora, soltanto a giochi fatti, il 24 dicembre. Quel giorno Leone viene eletto sesto presidente della storia repubblicana, al ventitreesimo scrutinio, con appena il 51,4 per cento, la percentuale più bassa della storia, e 518 voti, soltanto quattordici in più del quorum necessario, con la destra di origine fascista determinante, il Movimento sociale di Giorgio Almirante. «Andreotti, Cosentino e Spagnuolo e la destra hanno vinto», annota Barca quella sera. Il Paese va a sinistra, il palazzo svolta a destra.

Anticipiamo un brano del libro di Marco Damilano “Il Presidente” (La Nave di Teseo), in uscita il 18 novembre. È in rete la serie podcast di Chora Media “Romanzo Quirinale”, in sei puntate, con le rivelazioni sulle trame più oscure e la voce di testimoni e protagonisti

Controritratto di Moro il bizantino. Marcello Veneziani, 9 maggio 2021 su marcelloveneziani.com. Il 9 maggio del 1978 fu ritrovato il corpo di Aldo Moro nel bagagliaio della Renault. In quel giorno tremendo anche l’Italia antidemocristiana che aveva quasi gioito per il rapimento di Moro, ammutolì sgomenta davanti a quel corpo senza vita. Non dirò dei misteri di via Fani e delle Brigate rosse né della dietrologia interna e internazionale sul suo assassinio, degna dei teoremi morotei. Moro fu la sfinge duttile e contorta della Dc, l’incarnazione di uno stile labirintico, una razza politica e una lingua assiro-politichese. Il suo volto pallido e assorto, le sue labbra improntate a una smorfia di lieve e rattenuto disgusto, i suoi occhi perduti nei cieli levantini della Magna Grecia, la sua mano molle, la sua andatura lenta e la sua mitica frezza bianca che con gli anni si era allargata. Ah, tu con quella frezza bianca, che stai combinando? Gli avrebbe detto una volta Padre Pio rimproverandogli l’apertura a sinistra, come già aveva fatto in una lettera il cardinale Siri. Su quelle parole del frate burbero e santo, nel collegio elettorale di Moro, la circoscrizione Bari-Foggia, puntò la sua campagna elettorale del’76, il sacerdote don Olindo Del Donno, prete dannunziano eletto deputato nel Msi, sospeso a divinis. Moro firmò una stagione politica e forse antropologica del nostro Paese. Fu il leader più autorevole della Dc, dopo la disfatta di Fanfani al referendum sul divorzio. Di indole moderata e conservatrice, di provenienza cattolico-fascista, Moro promosse la stagione degli “equilibri più avanzati” e delle “convergenze parallele”, come diceva nel suo linguaggio degno del barocco leccese, ricco di ossimori levantini e paradossi babilonesi che sfidavano la logica e la geometria. Fu l’epoca bizantina della Dc. Per certi versi Moro fu la versione politica di Paolo VI. Stratega più che statista, intellettuale di elevata cultura giuridico-filosofica, Moro fu il principe della Mediazione. I moderati non lo amavano per i cedimenti a sinistra, per i “patti conciliari”, come in un primo tempo fu chiamato il compromesso storico; ma anche per la sua politica estera ambigua, con le sue concessioni a Tito e a Gheddafi a danno degli italiani in Libia e nelle terre d’Istria e Dalmazia. Viceversa i progressisti lo stimavano ma ne diffidavano perché vedevano in lui il grande ammorbidente della sinistra. Un professore di latino e greco delle sue parti, ricordava che moros nelle zone griche del Salento vuol dire stolto. A Moro rimproverarono di aver corrotto il linguaggio politico, come gli rinfacciarono Pasolini e Sciascia, usando un lessico involuto ed esoterico, paludato e impenetrabile, una specie di latinorum che escludeva la comprensione delle masse; di aver corrotto la sinistra socialista e poi comunista, consociandola al potere, così neutralizzando la sua carica civile e vitale; e di aver giustificato la corruzione politica attraverso il memorabile discorso sull’affare Lockheed circa i costi inevitabili della politica, i finanziamenti illeciti e la non processabilità della Dc. Il potere democristiano subì un triplice processo: prima dagli intellettuali, a partire dal memorabile attacco di Pasolini alla Dc; poi dai brigatisti rossi, e infine dai magistrati. In principio fu il verbo, poi venne il mitra, infine Mani pulite. Si dimenticava però che, a fianco del compromesso storico tra Dc e Pci, stava marciando dalla metà degli anni Settanta un altro compromesso tra comunisti e capitalisti, che culminò nel Patto dei produttori (auspici Amendola, Agnelli e La Malfa) e che dette vita a quella saldatura tra sinistra e potere economico perdurata negli anni (che trovò ne La repubblica uno dei suoi capisaldi politico-editoriali). E se Moro fu il teorico del costo illecito della politica, la corruzione politica era pratica diffusa ormai da anni, in casa Dc e non solo. E la straordinaria congiuntura internazionale, la pressione combinata di Stati Uniti e Urss sul nostro paese, costringeva alle acrobazie per barcamenarsi; quelle in cui Moro eccelleva. I suoi estimatori dicevano che la sua strategia del compromesso storico, quella che lui chiamava la terza fase, era propedeutica a una democrazia bipolare dell’alternanza: prima legittimiamo il Pci, consociandolo gradualmente al governo, così gettiamo le basi per una democrazia compiuta fondata sull’alternanza. In realtà Moro si era posto un altro problema: come conservare il potere alla Dc davanti all’onda lunga della sinistra, le turbolenze della piazza, le lotte sindacali, il terrorismo e l’incalzare di una società laica e libertaria, emersa col divorzio. L’unico modo per sopravvivere era venire a patti con l’avversario, cercando di sterilizzare le spinte antagoniste e rivoluzionarie, ma anche di imbrigliare le tensioni sociali e frenare le tentazioni permissive; considerando il Pci grande forza popolare e morale, alleata in questa battaglia contro il laicismo e l’individualismo della società radicale. Per altri versi era la strategia del pugile che quando rischia di soccombere sotto i colpi dell’avversario lo cinge in un abbraccio. Moro non lasciò eredi: Andreotti proseguì la strategia consociativa ma al di fuori del disegno moroteo, pronto successivamente a varare un’alleanza di altro segno con il cosiddetto CAF, con Craxi; De Mita, anche lui come Moro, intellettuale della Magna Grecia dal linguaggio contorno, proseguì su altre vie il disegno politico bipolare, ma contrapposta a Craxi; e i morotei come il suo fidato Zaccagnini o il successore Martinazzoli, non avevano la sua statura politica. Così Moro si trovò nella solitudine mortale di un portabagagli, rigettato come un corpo estraneo, punito per la pretesa consociativa di narcotizzare i conflitti. L’onda di sangue del ‘900, in cui erano stati uccisi Umberto di Savoia e l’Italia umbertina, Mussolini e l’Italia fascista, travolse anche Moro e l’Italia morotea. MV, 9 maggio 2021

Marcello Veneziani. Giornalista, scrittore, filosofo. Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. Proviene da studi filosofici. Ha fondato e diretto riviste, ha scritto su vari quotidiani e settimanali. È stato commentatore della Rai. Si è occupato di filosofia politica scrivendo vari saggi tra i quali La rivoluzione conservatrice in Italia, Processo all’Occidente, Comunitari o liberal, Di Padre in figlio, Elogio della Tradizione, La cultura della destra e La sconfitta delle idee (editi da Laterza), I vinti, Rovesciare il 68, Dio, Patria e Famiglia, Dopo il declino (editi da Mondadori), Lettere agli italiani. È poi passato a temi esistenziali pubblicando saggi filosofici e letterari come Vita natural durante dedicato a Plotino e La sposa invisibile, e ancora con Mondadori Il segreto del viandante e Amor fati, Vivere non basta, Anima e corpo e Ritorno a sud. Ha poi pubblicato con Marsilio Lettera agli italiani (2015), Alla luce del mito (2016), Imperdonabili. Cento ritratti di autori sconvenienti (2017), Nostalgia degli dei (2019) e Dispera bene (2020). Inoltre Tramonti (Giubilei regnani, 2017) e Dante nostro padre con Vallecchi, 2020.

Sarah Buono per il "Fatto quotidiano" l'8 luglio 2021. Coincidenze, solo quello. Per Adriana Faranda, storica brigatista, non c' è nessun collegamento nell' aver condiviso con i Nar un covo di proprietà dei servizi segreti. L'ex terrorista, condannata per il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro, è stata sentita come testimone assistita dalla Corte d' Assise bolognese nel nuovo processo sulla strage del 2 agosto 1980. Un processo che vede come principale imputato Paolo Bellini, ex di Avanguardia Nazionale, e che sta provando ad approfondire il ruolo dei mandanti e organizzatori dell'attentato, tra cui Licio Gelli e Federico Umberto d' Amato. A interessare i magistrati, il covo di via Gradoli 96, a Roma, usato dalle Br durante i giorni del sequestro Moro, nel 1978, e tre anni più tardi, nel 1981, dai Nar. Dall' inchiesta della Procura generale è emerso che gran parte degli appartamenti a quel civico erano gestiti da società o persone riconducibili ai servizi segreti. "Non ero a conoscenza che in via Gradoli ci fossero appartamenti riconducibili ai servizi segreti e non ho mai neanche avuto il sospetto che ci fossero contatti tra i brigatisti e i servizi". Faranda pagava le bollette a Domenico Catracchia, oggi imputato per false dichiarazioni ai pm. L'ex postina venne arrestata nel maggio 1979 in un appartamento insieme alla proprietaria Giuliana Conforto: figlia di Giorgio, spia del Kgb. Come ha ricordato il sostituto pg Umberto Palma, "Giorgio Conforto faceva anche il doppio gioco Usa e Italia". Sempre Palma ha ricordato all' ex brigatista che l'avvocato di Giuliana Conforto, Alfonso Cascone "era un agente del Viminale", confidente dell'Ufficio affari riservati di Federico D' Amato (uno degli organizzatori della strage secondo l'accusa). Una ulteriore particolarità, evidenziata ancora dai Pg, ma bollata da Faranda come coincidenza, è che lo stabile di via Massimi 91 a Roma, dove trovò rifugio nel '78 il brigatista Prospero Gallinari, ospitava "il cardinal Egidio Vagnozzi, che aveva contatti nei servizi e con Giorgio Di Nunzio", faccendiere oscuro legato a Licio Gelli.

Giustino De Vuono, il calabrese del caso Moro. Quello che non avete mai letto... Luciana De Luca su Il Quotidiano del Sud il 22 agosto 2021. La foto scattata subito dopo il sequestro Moro nella quale gli investigatori riconobbero (nei cerchi) il boss della ‘ndrangheta Antonio Nirta (a destra) e Giustino De Vuono (a sinistra). Riesce ancora a far parlare di sé Giustino De Vuono, “lo scotennato”, l’ex legionario di Scigliano in provincia di Cosenza, indicato addirittura come uno degli assassini di Aldo Moro. Eppure dovrebbe essere morto il lontano 13 novembre del 1994 nel carcere di Caserta, ma più di una persona mette in dubbio questa circostanza, anche se risulta sepolto nel cimitero della cittadina del Savuto, dov’è nato l’8 maggio del 1940. Non più di cinque mesi fa, infatti, alcuni carabinieri, se tali erano, provenienti da fuori regione, sarebbero stati visti attorno alla lapide di De Vuono e sono ancora tanti i giornalisti di tutta Italia, alla perenne ricerca di informazioni sul suo conto. Ciò significa che su Agostino si continua a lavorare e ad indagare ma nessuno sa se è realmente vivo o morto, chi lo sta cercando, quali segreti sul suo conto vanno ancora svelati e quali, invece, conviene custodire gelosamente. Giustino De Vuono, figlio di un barbiere molto severo e dai modi molto autoritari, si arruolò nella legione straniera che era ancora un ragazzo. “Suo padre lo picchiava sempre – ricordano ancora a Scigliano – e lui si rifugiava sui tetti delle case di Diano, la frazione dove abitava, per sfuggire alle percosse del genitore”. Giustino aveva anche due sorelle e lui, fin da piccolo, si fece sempre notare per le bravate che era capace di compiere. Sparì da Scigliano all’improvviso per ricomparire quattro anni dopo. Era cambiato, duro e spavaldo, e si divertiva molto a sbalordire i suoi compaesani con prove di forza che lasciavano tutti senza fiato. “Nella piazza del paese – ricordano – lanciava il rasoio da barba in aria e lo afferrava con i denti. Poi, invitava qualcuno tra i presenti a provare a farlo se ne era capace. Nel bar, invece, un giorno sfidò un ragazzo che si dava le arie da bullo. Lo fece sedere al tavolino e gli chiese di poggiarvi il braccio. Anche lui fece la stessa cosa. La prova a cui voleva sottoporre sé stesso e il malcapitato consisteva nel vedere chi avrebbe sopportato meglio il dolore che provocava una sigaretta accesa sulla carne viva. Mentre il suo avversario dopo pochi secondi tirava via il braccio, lui, con il sorriso sulle labbra, lasciava che la cicca si spegnesse da sola dopo avergli provocato una profonda ustione. Giustino era così. Aveva anche una mira eccezionale. Erano tanti in paese, cacciatori o professori amanti delle armi, che si univano a lui per il piacere di vederlo sparare. Un giorno, in campagna, con una carabina di precisione riuscì a colpire un cerino a venticinque metri. Era impossibile batterlo”. A Scigliano ricordano ancora il giorno in cui vennero a cercarlo degli uomini in elicottero che non parlavano in italiano, ma un’altra lingua, così raccontano gli anziani del paese. Per un periodo fece anche il barbiere al posto del padre e a qualche ragazzino a cui tagliava i capelli, dopo aver finito, gli faceva con il rasoio “na ntacca”, un piccolo taglio, vicino a una basetta. Lasciava la firma Giustino, qualunque attività svolgesse. Le madri di Scigliano raccomandavano ai propri figli di stargli alla larga, di non frequentarlo, ma molti ragazzi erano affascinati dalla sua figura e, quasi adoranti, lo seguivano ovunque andasse. E lui, consapevole del potere che esercitava su di loro, si esibiva nelle sue prodezze e accontentava ogni possibile richiesta. Qualcuno se lo portava a cavallo nella sua proprietà e ad altri consentiva di seguirlo in campagna mentre si esercitava nel tiro a bersaglio. Le ragazze, invece, seppur lo evitassero accuratamente, al suo passaggio sospiravano o lo spiavano dalle finestre attente a non farsi vedere. “Giustino era un gran bel ragazzo – racconta uno dei suoi tanti amici di allora -. Aveva un fisico che sembrava un armadio. Per me e per tanti altri era una gran brava persona. A Scigliano non ha mai fatto del male a nessuno. Certo, mia madre mi diceva sempre di stare attento e una volta mi fece uno scherzo che mi impressionò molto. Eravamo seduti su uno scalino e a un certo punto mi poggiò sul fianco qualcosa di duro. Io pensai che si trattasse della pistola e stavo per svenire. Quando si rese conto del mio pallore, iniziò a ridere e togliendo da dentro il giubbotto una chiave mi disse: “E una chiave riesce a procurarti così tanta paura?”. Poi, qualche tempo dopo, dato che aveva una macchina, una due posti, che non andava molto bene e voleva comprarne una nuova, fece la rapina all’ufficio postale di Motta S. Lucia e lo arrestarono. Anche in quel caso fu la sua abilità con le armi a farlo identificare immediatamente. Sparò un colpo verso un impiegato e il proiettile gli bruciò soltanto la basetta, non lo colpì. Quando i carabinieri videro quel capolavoro di tiro, non ebbero dubbi: era stato Giustino a fare la rapina e andarono a prenderlo. Allora fu condannato a sette anni di carcere. Nel 1974 io ero militare e lui era ricoverato all’ospedale di Cosenza perché aveva problemi di ulcera. Durante una licenza andai a trovarlo e quando mi vide la prima cosa che mi disse fu: “Ma non ti vergogni di indossare questa divisa?”. Lui era fatto così ma io non posso parlare male di lui perché con me e con tanti altri del paese, si è sempre comportato bene”. Di Giustino De Vuono a Scigliano si parla ancora a bassa voce, ma dai racconti traspare ancora affetto e ammirazione nonostante la sua imponente storia criminale. Quando tornava dal carcere, tante donne di Diano preparavano i dolci per lui e lo accoglievano come si fa con un parente stretto che non si vede da molto tempo, così come erano in tanti a inviargli nei vari istituti penitenziari, pacchi con capocolli, salsicce e soppressate fatte in casa. Il suo paese non lo ha mai rinnegato, in quanto membro della comunità, lo ha sempre protetto e accolto con affetto. Giustino ha sempre avuto con sua madre un rapporto di profondo affetto. Era una donna molto dolce e riservata. Quando lei fu ricoverata in ospedale, lui si travestì da suora e andò a trovarla. Molte altre volte l’ex legionario ritornò in gran segreto nella sua Scigliano e utilizzò vari travestimenti per passare inosservato. Pare che di notte poi, si nascondesse in una casupola di pietra che si trovava in aperta campagna, ma è difficile comprendere quanto ci sia di vero e quanto, invece, è frutto della fantasia popolare. Giustino De Vuono a un certo punto svanì nel nulla. La sua storia criminale iniziò dopo essere scappato dalla Legione straniera dove aveva imparato abilmente a colpire i suoi nemici al cuore sparando i colpi a raggiera. Quando tornò in Italia, intorno agli anni ’70, era abbastanza preparato per diventare un killer di professione. E dopo qualche rapina locale, decise di fare il salto di qualità avvicinandosi alla ‘ndrangheta e agli ambienti del terrorismo, sempre alla ricerca di veri professionisti del crimine. Nel 1975 partecipò al sequestro del giovane ingegnere Carlo Saronio ricercatore presso l’Istituto Mario Negri di Milano e figlio del chimico e imprenditore Piero Saronio, con il Fronte armato rivoluzionario comunista per finanziare il gruppo terrorista. Era Giustino a mantenere i rapporti con la famiglia e a farsi dare una parte del riscatto nonostante l’ostaggio morì lo stesso giorno del rapimento a causa di una dose eccessiva di cloroformio usata per stordire l’ingegnere. Qualche mese dopo fu arrestato e portato nel carcere di Mantova dal quale riuscì a fuggire nel 1977. L’anno dopo, e precisamente il 16 marzo del 1978, giorno del rapimento di Aldo Moro, Giustino venne identificato in una foto scattata in via Fani subito dopo l’agguato in cui vennero uccisi i cinque uomini della scorta del presidente della Democrazia cristiana, insieme a una persona molto somigliante al boss della ‘ndrangheta Antonio Nirta di San Luca, nipote di Antonio, detto “Due nasi”. Un particolare di non poco conto: da sette armi diverse furono esplosi 91 colpi e da una soltanto 49 che andarono tutti a segno. De Vuono fu riconosciuto anche da due testimoni come lo spazzino che usciva dal covo di via Gradoli 96, dove fu tenuto in ostaggio Moro. Nello stesso giorno del rapimento delle Br in un comunicato del ministero dell’Interno si fece per la prima volta il nome di Giustino De Vuono definito un elemento estremamente pericoloso. Secondo gli inquirenti fu lui a sparare i 49 colpi che uccisero tutti gli uomini della scorta di Moro, ma è grazie alla testimonianza del brigatista-collaboratore Patrizio Peci e a un rapporto del Sismi, se De Vuono esce fuori dall’inchiesta. Secondo i servizi segreti italiani in quel periodo l’uomo si trovava all’estero tra il Paraguay e il Brasile e quindi non poteva che essere estraneo ai fatti che gli venivano contestati. Eppure ci fu un altro testimone che riconobbe De Vuono a bordo di una Renault 4 rossa insieme a una donna in via Caetani la mattina in cui fu ritrovato il corpo senza vita di Aldo Moro, e sul corpo del presidente della Dc, vicino al cuore, c’erano i famosi colpi sparati a raggiera che era la firma di tutti i suoi omicidi dell’ex legionario. Tutte coincidenze? Nel 1981 Giustino fu arrestato a Lucerna con documenti falsi e il 6 aprile del 1982 venne estradato in Italia, ma una volta consegnato alle autorità giudiziarie, fu inspiegabilmente lasciato andare. L’ex legionario di Scigliano sarebbe morto per cause naturali a Carinola, in provincia di Caserta, nel carcere in cui De Vuono passò gli ultimi anni della sua vita, una vita piena di misteri che neanche le commissioni parlamentari e le valide inchieste giornalistiche, sono riuscite ancora a svelare. A Scigliano nessuno si sente di affermare con certezza che Giustino sia realmente morto e continua a vivere attraverso i racconti fantastici di chi lo ha conosciuto e lo dipinge ancora coraggioso come nessun altro e l’unico capace di colpire un cerino a 25 metri di distanza.

Il caso dopo 43 anni. Caso Moro, mistero senza fine: dopo 43 anni nuova inchiesta a Roma. Frank Cimini su Il Riformista il 14 Giugno 2021. C’è una nuova inchiesta sul caso Moro coordinata dalla procura di Roma in cui si ipotizzano i reati di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo e favoreggiamento di latitanti, dove tutto ruota intorno alla divulgazione di materiale riservato acquisito e/o elaborato dalla commissione parlamentare di inchiesta. L’altro ieri mattina è stato perquisito con sequestro di pc e cellulare Paolo Persichetti, condannato come militante delle Br dopo essere stato estradato dalla Francia, autore di libri cult sulla lotta armata come Il nemico inconfessabile insieme a Oreste Scalzone e Dalle fabbriche alla campagna di primavera con Marco Clementi e Elisa Santalena. L’inchiesta intende accertare in che modo Persichetti è entrato in possesso del materiale riservato proveniente dalla commissione parlamentare che in questa legislatura non è stata ricostituita ma continua a pendere come una spada di Damocle sulla vita del paese in relazione a fatti di oltre 40 anni fa, proponendo tesi dietrologiche e complottarde sposate dai pm. Il decreto di perquisizione emesso nell’ambito dell’indagine rubricata col numero 20086/21 recale le firme del pm Eugenio Albamonte, lo stesso che aveva chiesto e ottenuto dal gip di prendere il DNA dei condannati per via Fani e di altre persone a 43 anni dai fatti, e anche del capo della procura Michele Prestipino. Prestipino può essere considerato una sorta di procuratore abusivo perché sia il Tar sia il Consiglio di stato hanno annullato la sua nomina ritenendola irregolare. Prestipino ha presentato ricorso straordinario in Cassazione lamentando invasione di campo da parte della giustizia amministrativa ai danni del Csm. Insomma siamo al surreale. La decisione della perquisizione nasce dalla lettura di una informativa redatta dalla Digos il 9 febbraio scorso di cui non si conosce il contenuto. La difesa di Persichetti ha presentato ricorso al Riesame anche per poter prendere visione delle carte. La sensazione è proprio quella della procura romana pronta a proseguire l’opera della fu commissione parlamentare. E con lo sguardo rivolto alla vicenda dei nove nonnini di Parigi di cui l’Italia ha chiesto l’estradizione. Il tentativo è quello di far sapere ai cugini d’Oltralpe che l’argomento “terrorismo” in Italia è ancora “caldo” al punto che si continua a indagare. Il materiale “riservato” della commissione è la scusa per tenere sotto scacco chiunque avversi ricostruzioni dietrologiche nonostante queste non abbiano trovato riscontro in tonnellate di atti processuali dove persino dissociati e pentiti sostengono che dietro le Br c’erano solo le Br. Purtroppo in testa alla lista di chi chiede che si trovi “la verità” c’è il Capo dello Stato che è anche presidente del Csm e avrebbe in quella veste temi più attuali di cui occuparsi. “Ungheria”, nel senso di Piero Amara e non di improbabili archivi dell’Est da aprire, in realtà da tempo finiti in mano all’Ovest. E ci fosse stato un nesso con le Br sarebbe finito da tempo immemore in titoli a nove colonne. Frank Cimini

Non c'è reato ma c'è chi si ostina a cercarlo. Delitto Moro, l’archivio Persichetti ancora sotto sequestro. Frank Cimini su Il Riformista il 9 Novembre 2021. Approda domani in Cassazione la patata bollente dell’inchiesta senza reato sull’archivio di Paolo Persichetti che resta sotto sequestro nonostante il Riesame abbia azzerato le accuse di associazione sovversiva e favoreggiamento di latitanti suggerendo quella di violazione del segreto politico e il gip abbia scritto che manca un capo di incolpazione minimamente delineato. Nessuno però si vuole prendere la responsabilità di dissequestrare l’archivio “sigillato” l’8 giugno scorso. Il gip che pure aveva messo nero su bianco ricordando alla procura che la giustizia non ha tempo da perdere né soldi da buttare decideva di non decidere sull’istanza di dissequestro presentata dall’avvocato Francesco Romeo probabilmente anche perché si avvicinava l’udienza in Cassazione. Insomma continua una sorta di caccia al reato nell’ambito dell’ennesimo filone di inchiesta sull’affare Moro. L’indagine romana coordinata dal pm Eugenio Albamonte di Magistratura Democratica è figlia di un’inchiesta nata a Milano su presunti “fiancheggiatori” della latitanza di Cesare Battisti. La Digos del capoluogo lombardo firmava una relazione in cui chiedeva alla procura di perquisire Persichetti. Il procuratore aggiunto Alberto Nobili non certo l’ultimo arrivato in materia di indagini non solo non aderiva alla richiesta della polizia ma chiedeva e otteneva l’archiviazione. Dopodiché scendeva in capo la procura di Roma in relazione alla diffusione da parte di Persichetti di bozze di relazioni della commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro e su contatti con Alvaro Lojacono Baragiola condannato per via Fani ma mai estradato in quanto cittadino svizzero. Ammesso e non concesso che quelle carte della commissione potessero essere considerate segrete va sottolineato lo strano comportamento della procura di Roma che accusa da un lato Persichetti di avere diffuso informazioni riservate ma dall’altro lato ha sempre ignorato le ripetute fughe di notizie che hanno caratterizzato l’attività della commissione parlamentare presieduta da Giuseppe Fioroni. Lo stesso Fioroni che è stato sentito come testimone nell’indagine su Persichetti. C’è un gioco di complicità tra la commissione che non c’è più perché non rinnovata in questa legislatura e la procura di Roma che ne continua l’attività a caccia di misteri inesistenti nell’affare Moro. Sono almeno cinque le fughe di notizie relative a carte della commissione sulle quali la procura si è ben guardata dall’indagare a cominciare dalla deposizione del boss Raffaele Cutolo. Dopo quattro cambi del capo di imputazione spetta alla Cassazione la scelta: o dissequestrare l’archivio azzerando tutto oppure ritenere valido il reato di violazione del segreto politico per far proseguire un’indagine più che zoppa. In realtà il problema è politico. Quello della ricerca storica indipendente dai poteri. Il lavoro di Persichetti dà fastidio perché facente parte dell’attività di un intraneo al tentativo di rivoluzione fallita. Il messaggio è che gli sconfitti non hanno diritto di ricostruire la storia. Paradossalmente però nel caso specifico sono i contenuti della commissione e della procura a essere in contrasto con la verità emersa da ben sei processi: dietro le Br c’erano solo le Br. Ma per ragioni di propaganda non ne vogliono prendere atto e indagano senza neanche riuscire a trovare un reato. Frank Cimini

Archivio Persichetti, la Cassazione si inventa un nuovo reato. Frank Cimini su Il Riformista il 12 Novembre 2021. Con un’ennesima modifica dell’ipotesi di reato, la Cassazione ha confermato il sequestro dell’archivio di Paolo Persichetti. “Rivelazione di notizie riservate” è la nuova accusa che ricade sotto la disciplina del segreto di Stato. Forse tra un mese più o meno in sede di motivazione la Suprema Corte avrà la bontà di spiegare come fa a essere coperta dal segreto di Stato la bozza di una relazione della commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro destinata a essere pubblicata. La procura generale in udienza aveva chiesto il rigetto del ricorso contro il sequestro ritenendo in “re ipsa” la dimostrazione del reato, aggiornandosi, diciamo così, dopo che un gip aveva negato l’incidente probatorio dicendo che mancava un capo di imputazione minimamente delineato e aggiungendo che la giustizia non ha tempo da perdere ne’ soldi da buttare. “Re ipsa” per la procura e per la procura generale evidentemente significa che in materia di terrorismo e soprattutto di Moro non c’è bisogno di indicare reati né tantomeno prove. In udienza il difensore Francesco Romeo spiegava che l’unica figura titolata per legge ad apporre il segreto di Stato è il Presidente del Consiglio e che non esiste alcuna fonte giuridica che apparenti il presidente di una commissione parlamentare alle funzioni proprie del capo del Governo. Neanche quando il presidente della commissione Giuseppe Fioroni viene sentito dalla procura come testimone a carico di Persichetti in un’indagine dove a un certo punto venivano contestate l’associazione sovversiva e il favoreggiamento di latitanti, poi annullate già in sede di Riesame. Inoltre le bozze di relazione non sono assimilabili a documenti giudiziari non possono essere soggette a una classificazione. La richiesta di riservatezza aveva un semplice valore funzionale legato a mere ragioni di opportunità. Non c’era e non c’è omogeneità con quello su cui si può apporre il segreto di Stato. La storia del garage amico di cui avrebbero beneficiato i brigatisti dopo l’azione di via Fani è oggetto di discussione da decenni. Una fake news che diventa segreto di stato in una vicenda sempre più intricata.

Il prossimo 17 dicembre sarà il gip a decidere sul dissequestro. Ma nel caso in cui dovesse dare ragione alla difesa la procura potrebbe risequestrare tutto in omaggio al nuovo reato battezzato dalla Cassazione. Il problema è politico. Su Moro si vuole indagare all’infinito a caccia di misteri inesistenti e di complici non ancora individuati. Il tutto serve per esempio come supporto alle richieste di estradizione inviate in Francia per dimostrare che il terrorismo è materia ancora attuale. Nell’aria poi circolano indicazioni più che autorevoli. Anche dal colle più alto arrivano ogni 16 marzo e 9 maggio inviti a cercare la verità. Come se 6 processi non avessero già detto che di misteri sulle Br e su Moro non ce ne sono. Frank Cimini

Persichetti, i pm non mollano: contestato reato già bocciato…Frank Cimini su Il Riformista il 26 Novembre 2021. La procura di Roma non demorde cambiando di nuovo l’accusa nella vicenda relativa al sequestro dell’archivio informatico di Paolo Persichetti. Siamo approdati al quinto capo di incolpazione dall’8 giugno il giorno del sequestro. Il pm Eugenio Albamonte di Magistratura Democratica torna a contestare il favoreggiamento di latitanti, ipotesi già bocciata lo scorso 2 luglio in sede di riesame insieme all’associazione sovversiva finalizzata al terrorismo. Il pm ha presentato una richiesta di incidente probatorio sulla quale dovrà decidere il giudice delle indagini preliminari che, rigettando analoga richiesta da parte della difesa, aveva bacchettato la procura osservando che non c’era un capo di incolpazione minimamente delineato. Sembra una storia senza fine. L’avvocato Francesco Romeo difensore di Persichetti replica al pm accusandolo di sequestrare per cercare il reato e non, come dovrebbe essere, di sequestrare perché c’è un reato. Il legale insiste anche sull’impossibilità di contestare il favoreggiamento di latitanti in relazione a fatti per i quali Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono sono già stati condannati all’ergastolo tra i responsabili della strage di via Fani e del sequestro dell’onorevole Aldo Moro. Persichetti avrebbe trasmesso per posta elettronica a Casimirri e Lojacono atti della commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro. Questi documenti erano stati etichettati come riservati da Giuseppe Fioroni, presidente della commissione, nonostante fossero destinati alla pubblicazione come parte della relazione a distanza di soli due giorni. Nell’indagine avviata dal pm Albamonte, sotto il coordinamento del procuratore capo Michele Prestipino, Fioroni è stato sentito come testimone di accusa. Tutta questa storia è frutto di un gioco di sponda tra procura, procura generale che aveva riaperto la caccia ai misteri inesistenti del caso Moro e la commissione parlamentare non rinnovata in questa legislatura, ma che continua a far sentire il suo peso. Il problema è politico. Sotto inchiesta in realtà c’è la ricerca storica indipendente e il lavoro della procura, con il sequestro dell’archivio, impedisce di fatto la pubblicazione del secondo volume della storia delle Brigate Rosse Dalle fabbriche alla campagna di primavera di cui Persichetti è coautore insieme a Marco Clementi e Elisa Santalena. Il 17 dicembre è fissata l’udienza in cui il gip dovrà decidere sull’istanza di dissequestro. Va ricordata la recente circolare del Pg di Trento Giovanni Ilarda mandata anche al Pg della Cassazione in cui si chiedono criteri e pratiche uniformi a livello nazionale, nel senso che in caso di sequestro di contenuti di pc e cellulari gli inquirenti, una volta estratta la cosiddetta copia forense, devono restituire tutto. A Persichetti non è stato ridato indietro niente dopo aver preso persino la certificazione medica del figlio diversamente abile. Frank Cimini

Accolta la richiesta della procura di Roma. Archivio Persichetti, il gip dice sì all’incidente probatorio prima di decidere sul dissequestro. Frank Cimini su Il Riformista l'11 Dicembre 2021. Moro per sempre e spreco di soldi pubblici. Sembra proprio questa la caratteristica dell’ennesimo filone di indagine sulla strage di via Fani, annessi e connessi, incentrato sul sequestro ormai sei mesi fa dell’archivio informatico di Paolo Persichetti. L’inchiesta, prima di essere riaperta a Roma, era stata archiviata a Milano dove era nata per individuare eventuali favoreggiatori della latitanza di Cesare Battisti. Almeno 50 mila euro, somma approssimata per difetto, venivano spesi per attività di intercettazioni. La Digos chiedeva alla procura di procedere alla perquisizione di Persichetti, ma il pm Alberto Nobili negava l’ok chiedendo e ottenendo di chiudere il caso. A quel punto il pm romano Eugenio Albamonte passava dalla latitanza di Battisti a quella di Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono, entrambi condannati in via definitiva all’ergastolo per il caso Moro, ai quali Persichetti aveva spedito per posta elettronica atti della commissione parlamentare di inchiesta, etichettati come segreti dal presidente Giuseppe Fioroni, nonostante fossero destinati a diventare pubblici solo due giorni dopo con la pubblicazione della relazione. Associazione sovversiva finalizzata al terrorismo e favoreggiamento di latitanti erano i reati che però non resistevano al Riesame, che proponeva la divulgazione di notizie riservate. Il gip romano Valerio Savio interveniva drasticamente parlando di capo di incolpazione non sufficientemente delineato, aggiungendo che la giustizia non ha tempo da perdere né soldi da buttare. Per non farla troppo lunga era ed è una caccia al reato con cinque cambi del capo di imputazione. E come in una sorta di gioco dell’oca si tornava al favoreggiamento di latitanti. La novità delle ultime ore è che ancora il gip Savio, sciogliendo la riserva, ha accolto la richiesta di incidente probatorio avanzata dalla procura senza attendere l’udienza del 17 dicembre fissata da tempo al fine di decidere sull’istanza di dissequestro dell’archivio presentata dal difensore Francesco Romano. Va detto che l’autorizzazione all’estrazione della copia forense è stata data senza le garanzie chieste dalla difesa al fine di procedere all’assunzione delle prove con le forme del processo. La motivazione appare addirittura stravagante, perché secondo il gip tra i documenti dell’archivio di Persichetti potrebbero emergere nuovi rilievi penali per Lojacono e Casimirri, sia a carico sia a discarico. Questi nuovi rilievi chi indaga avrebbe potuto cercarli direttamente nei vari archivi delle istituzioni frequentati da Persichetti. Invece la scelta è stata quella di criminalizzare l’attività di un ricercatore indipendente bloccando tra l’altro l’uscita del secondo volume della storia delle Br, Dalle fabbriche alla campagna di primavera di cui Persichetti è coautore con Elisa Santalena e Marco Clementi.

Sequestrato l’archivio di Persichetti, mossa della procura per censurare il libro sulle Br?

Il gip sostiene che potrebbero innescarsi giudizi di revisione, ma nell’intera vicenda l’unica questione ‘rivedibile’ era la falsa testimonianza mai contestata al signor Alessandro Marini, il quale sosteneva di aver visto sparare in via Fani da una moto Honda contro il suo scooter. Affermazioni senza riscontri. Marini era costretto alla fine ad ammettere che il parabrezza del suo motorino si era rotto pochi giorni prima per una caduta e non per gli spari di via Fani. Frank Cimini

L’avvocato: accusa senza pilastri. Archivio Persichetti su Moro, per il gip Savio: “Non c’è reato”. Frank Cimini su Il Riformista il 3 Novembre 2021. L’8 giugno scorso la polizia di prevenzione su ordine della procura di Roma sequestrava l’archivio di Paolo Persichetti nell’ambito delle infinite indagini sul caso Moro contestando i reati di associazione sovversiva e favoreggiamento di latitanti. Il 2 luglio il Riesame affermava che al massimo si poteva contestare il reato di violazione di segreto politico in relazione alla diffusione di atti della commissione parlamentare di inchiesta. Oggi il gip Valerio Savio ha negato accertamenti con la formula dell’incidente probatorio sull’archivio perché “manca una formulata incolpazione anche provvisoria”. Cioè non c’è reato. Savio aggiunge che la decisione viene adottata allo scopo di evitare accertamenti non utili e anche costosi per l’erario. Cioè spiega il giudice che la giustizia non ha tempo da perdere e denari da buttare. Si tratta di una bocciatura su tutta la linea dell’indagine coordinata dal pm Eugenio Albamonte esponente di spicco della corrente di Magistratura Democratica e dallo stesso procuratore capo Michele Prestipino la nomina del quale era stata definita irregolare prima dal Tar e poi dal Consiglio di Stato. Il gip boccia in pratica una sorta di caccia ai misteri inesistenti che dura da quarant’anni e che viene praticata ora dalla sola procura di Roma dopo la “sparizione” della commissione parlamentare di inchiesta non rinnovata nella presente legislatura. «Sosteniamo dall’inizio che qui non c’è reato, la decisione del giudice conferma questo assunto – spiega l’avvocato difensore Francesco Romeo – Siamo di fronte alla ricerca del reato impossibile. Stiamo inseguendo dei fantasmi. I contenitori ci sono e li hanno indicati ma non basta citare le norme, la pubblica accusa deve circostanziare le condotte di reato ed è quello che da giugno a oggi non è venuto fuori. Si tratta di un’accusa senza pilastri». L’archivio storico di Persichetti resta però sotto sequestro. La decisione di oggi del gip non basta a liberarlo. Adesso bisognerà aspettare l’esito del ricorso in Cassazione. Dice Persichetti: «Tre anni di indagini estremamente invasive per giunta ancora non concluse attraverso forzature continue, clonazione di telefonini, intercettazioni ambientali e pedinamenti costate migliaia di euro di soldi pubblici sono pervenute all’impossibilità di formulare una contestazione chiara e definita. Questa è la storia iniziata nel gennaio del 2019 da una grottesca indagine della Digos di Milano conclusa con una archiviazione ma subito ripresa dalla procura di Roma. Una caccia ai fantasmi una pesante intromissione nella ricerca storica e nel lavoro giornalistico». Il sequestro dell’archivio tra l’altro ha avuto come conseguenza l’impossibilità di pubblicare il secondo volume della storia delle Brigate Rosse dal titolo “Dalle fabbriche alla campagna di primavera” di cui Paolo Persichetti è coautore con Elisa Santalena e Marco Clementi. Il volume due è dedicato alle fabbriche dove nacquero le Br con buona pace di inquirenti che inseguono dopo 43 anni i misteri di servizi segreti e affini andando a prelevare il Dna delle persone già condannate sperando di individuare “i complici”. Frank Cimini

La perquisizione e il sequestro. Non si può indagare su Aldo Moro: se studiare e ricostruire la storia in Italia è un reato. Paolo Persichetti su Il Riformista il 12 Giugno 2021. La libera ricerca storica è ormai divenuta un reato. Per la procura di Roma sarei colpevole di “divulgazione di materiale riservato acquisito e/o elaborato dalla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio dell’on. Aldo Moro”. Per questa ragione martedì 8 giugno dopo aver lasciato i miei figli a scuola, da poco passate le nove del mattino, sono stato fermato da una pattuglia della Digos e scortato nella mia abitazione dove ad attendermi c’erano altri agenti appartenenti a tre diversi servizi della polizia di Stato: Direzione centrale della Polizia di Prevenzione, Digos e Polizia postale. Ho contato in totale 8 uomini e due donne, ma credo ce ne fossero altri rimasti in strada. Una tale dispiegamento di forze era dovuto alla esecuzione di un mandato di perquisizione e contestuale sequestro di telefoni cellulari e ogni altro tipo di materiale informatico (computers, tablet, notebook, smartphone, hard-disk, pendrive, supporti magnetici, ottici e video, fotocamere e videocamere e zone di cloud storage), con particolare attenzione per il rinvenimento delle conversazioni in chat e caselle di posta elettronica e scambio e diffusione di files, nonché ogni altro tipo di materiale. Decreto disposto dal sostituto procuratore presso il Tribunale di Roma Eugenio Albamonte che ha dato seguito ad una informativa della Polizia di Prevenzione del 9 febbraio scorso. La perquisizione è terminata alle 17 del pomeriggio e ha messo a dura prova lo stesso personale di polizia estenuato dalla quantità di libri e materiale archivistico (scampato pochi mesi fa a un incendio), raccolto dopo anni di paziente e faticosa ricerca. Singolare il fatto che non risultino effettuate perquisizioni in casa di quei giornalisti “confidenti” della Commissione, o direttamente al libro paga, che ricevevano informazioni di prima mano e diffondevano veline di stampo dietrologico. La divulgazione di «materiale riservato» (sic!), secondo la procura della Repubblica si sarebbe concretizzata in due reati ben precisi, il favoreggiamento (378 cp) e l’immancabile 270 bis, l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo, che avrebbero avuto inizio l’8 dicembre 2015. Da cinque anni e mezzo, secondo la procura, sarebbe attiva in questo Paese un’organizzazione sovversiva (capace di sfidare persino il lockdown) di cui nonostante le molte stagioni trascorse non si conoscono ancora il nome, i programmi, i testi e proclami pubblici e soprattutto le azioni concrete (e violente, senza le quali il 270 bis non potrebbe configurarsi). E’ legittimo, a questo punto, chiedersi se il richiamo al 270 bis sia stato un espediente, il classico “reato chiavistello”, che consente un uso più agevolato di strumenti di indagine invasivi (pedinamenti, intercettazioni, perquisizioni e sequestri), in presenza di minori tutele per l’indagato. L’8 dicembre del 2015 era un martedì in cui cadeva la festa dell’immacolata. In quei giorni la commissione parlamentare presieduta da Giuseppe Fioroni discuteva ed emendava la bozza finale della relazione che chiudeva il primo anno di lavori, approvata appena due giorni dopo, il 10 dicembre. Copie di quella bozza finale erano pervenute in tutte le redazioni d’Italia ed io presi parte, per conto di un quotidiano con il quale collaboravo, alla conferenza stampa di presentazione. Cosa abbia giustificato un tale imponente dispositivo poliziesco, il saccheggio della mia vita e della mia famiglia, la perquisizione della casa, la sottrazione di tutto il mio materiale e dei miei strumenti di lavoro e di comunicazione, della documentazione amministrativa e medica di mio figlio disabile di cui mi occupo come caregiver, la spoliazione dei ricordi della mia famiglia, foto, appunti, sogni, dimensioni riservate, la nuda vita insomma, non so ancora dirvelo. Ne sapremo qualcosa di più nei prossimi giorni, quando la procura a seguito della richiesta di riesame avanzata dal mio difensore, avvocato Francesco Romeo, dovrà versare le sue carte. Quello che è chiaro fin da subito è invece l’attacco senza precedenti alla libertà della ricerca storica, alla possibilità di fare storia sugli anni ’70, di considerare quel periodo ormai vecchio di 50 anni non un tabù, intoccabile e indicibile se non nella versione quirinalizia declamata in queste ultime settimane, ma materia da approcciare senza complessi e preconcetti con i molteplici strumenti e discipline delle scienze sociali, non certo penali e forensi. Oggi sono un uomo nudo, non ho più il mio archivio costruito con anni di paziente e duro lavoro, raccolto studiando i fondi presenti presso l’Archivio centrale dello Stato, l’Archivio storico del senato, la Biblioteca della Camera dei deputati, la Biblioteca Caetani, l’Emeroteca di Stato, l’Archivio della Corte d’appello e ancora ricavato da una quotidiana raccolta delle fonti aperte, dei portali istituzionali, arricchito da testimonianze orali, esperienze di vita, percorsi. Mi sono state sottratte le tonnellate di appunti, schemi, note e materiali con i quali stavo preparando diversi libri e progetti. Ho dovuto rinunciare in queste ore a un libro che dovevo consegnare nel corso dell’estate, perché i capitoli sono stati sequestrati. Forse qualcuno ha pensato di ammutolirmi relegandomi alla morte civile. Quel che è avvenuto è dunque una intimidazione gravissima che deve allertare tutti in questo Paese, in modo particolare chi lavora nella ricerca, chi si occupa e ama la storia. Oggi è accaduto a me, domani potrà accadere ad altri se non si organizza una risposta civile ferma, forte e indignata. Paolo Persichetti

Paolo Persichetti e il complottismo eterno delle procure. L’ex membro dell’Unione dei Comunisti Combattenti è indagato per il suo lavoro di ricercatore storico sul caso Moro avrebbe divulgato documenti “riservati” che tutti conoscevano. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 17 giugno 2021. Che il complottismo demenziale animi lo spirito dei tempi non stupisce più di tanto, alimentato e moltiplicato dalla rete, incubatrice di paranoiche visioni e leggende metropolitane, esso offre rifugio e conforto alle frustrazioni di tutti noi fornendo risposte pronte a qualsiasi quesito. Cedere alle lusinghe intellettuali delle sirene cospirazioniste è una tendenza molto umana, incarnata dal cosiddetto “popolo del web”, autore collettivo delle più strampalate teorie su congiure, misteri e diaboliche macchinazioni. Una letteratura “dal basso” che come un telefono senza fili passa di bocca in bocca. Fa però molta più impressione quando il complotto viene agitato e avallato dalle autorità; personaggi politici, ufficiali di polizia, e immaginifici procuratori della repubblica. Ci sono in tal senso pagine della nostra storia costantemente annebbiate dal morboso retropensiero complottista, con la sua fanatica ricerca della “verità”, sempre e immancabilmente diversa da quella ufficiale. Una di queste riguarda la “controstoria” del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro nutrita dalle lisergiche pubblicazioni dell’ex senatore Sergio Flamigni (già membro della Commissione parlamentare d’inchiesta) che da decenni insegue le ipotesi più pittoresche su quella tragedia, evocando trame oscure, intelligence deviate e connivenze politiche nel tentativo di far passare le Brigate Rosse come una succursale dei servizi segreti. Suggestioni che non hanno mai avuto lo straccio di un riscontro nella realtà, ispirando per lo più la schiera dei dietrologi in servizio permanente e filmacci come l’ineffabile Piazza delle cinque lune del sovranista Rrenzo Martinelli, ma evidentemente hanno estimatori anche nel variegato mondo delle toghe. Quel che è accaduto a Paolo Persichetti, ex membro delle Br-Ucc (ha scontato una condanna di 22 anni di reclusione per concorso morale dell’omicidio del generale Licio Giorgieri). Oggi uomo libero e ricercatore storico, è un caso emblematico di questo inesauribile filone. Almeno dieci agenti della Digos della Polizia postale gli sono piombati in casa di prima mattina e, per un’intera giornata, hanno rovistato tra i suoi archivi, sequestrando computer, telefono, tablet, hard disk, pendrive, fotocamere, quaderni, appunti e le bozze di un saggio che avrebbe dovuto essere pubblicato nei prossimi mesi. Si sono portati via persino i certificati e referti medici che appartengono al figlio disabile. Persichetti, che sul caso Moro ha pubblicato diversi libri spesso polemici con le sommarie supposizioni della Commissione d’inchiesta, è ufficialmente indagato per un reato gravissimo: associazione sovversiva finalizzata al terrorismo e favoreggiamento. E per aver diffuso documenti “riservati” «acquisiti e/o elaborati dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro», come recita l’ordinanza del sostituto Eugenio Albamonte. Secondo la procura di Roma farebbe parte di un’organizzazione attiva dal 2015 volta a realizzare un indefinito disegno terrorista di cui «non si conoscono ancora il nome, i programmi, i testi e proclami pubblici e soprattutto le azioni concrete», scrive lo stesso Persichetti in un intervento sul suo sito web Insorgenze, in cui racconta la surreale violenza con cui gli hanno portato via anni di ricerca storica, l’irruzione, brutale nella sua vita privata. «Oggi sono un uomo nudo, non ho più il mio archivio costruito con anni di paziente e duro lavoro, raccolto studiando i fondi presenti presso l’Archivio centrale dello Stato, l’Archivio storico del senato, la Biblioteca della Camera dei deputati, la Biblioteca Caetani, l’Emeroteca di Stato, l’Archivio della Corte d’appello e ancora ricavato da una quotidiana raccolta delle fonti aperte, dei portali istituzionali, arricchito da testimonianze orali, esperienze di vita, percorsi», continua Persichetti, tuonando contro la doppiezza e la malafede dei suoi accusatori. Perché lo scopo dell’indagine non è certo smantellare un’organizzazione criminale che non c’è, quello è soltanto un artificio giuridico per far scattare l’articolo 270 bis del codice penale sull’associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico. Uno strumento “speciale” che autorizza l’impiego di metodi di indagine invasivi figli della legislazione di emergenza che limitano il diritto alla difesa e le tutele degli indagati. L’obiettivo della procura è chiaramente il lavoro storico di Persichetti, tutto incentrato nella minuziosa ricerca sul periodo degli anni 70, anche per contrastare e le sue eterne fake news che regolarmente aleggiano attorno alla vicenda Moro (dal covo di via Gradoli che sarebbe appartenuto al Sisde, alla grottesca circostanza della “scopa nella vasca da bagno” al ruolo ambiguo di Mario Moretti)Ma c’è chi non si rassegna, forse per narcisismo intellettuale, forse per sincere manie di protagonismo e continua a rovistare nel pozzo senza fondo del complottismo. Sempre la procura di Roma, in un’inchiesta parallela, ha fatto prelevare lo scorso marzo un campione di Dna ad una decina di persone tra cui l’ex br Giovanni Senzani e Paolo Baschieri per confrontare il codice genetico con quello presente sui mozziconi di sigarette trovati in una delle auto utilizzate il 16 marzo del 1978 per sequestrare il presidente della Dc.

Indagini bislacche e voglia di minculpop. Pm fuori controllo: accusano di terrorismo Persichetti, lo studioso del caso Moro. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Giugno 2021. C’è un signore che studia il caso Moro. Cioè il rapimento, la strage, la fuga, il sequestro. Si chiama Paolo Persichetti. Tra l’altro è l’autore di un libro molto interessante e informatissimo sulla storia delle Brigate Rosse. Paolo è un ex militante delle Brigate rosse. Fu condannato a una lunga pena detentiva, estradato dalla Francia con uno stratagemma e messo in prigione. È uscito dalla detenzione pochi anni fa, dopo aver scontato l’intera condanna. E ha ripreso la sua attività di giornalista e studioso di storia. Ha ricostruito la sua vita, è padre di due bambini piccoli. Io lo conosco bene, ho anche lavorato con lui, e vi giuro che è una persona serissima, affidabile, onesta, impegnata nello studio e nelle sue battaglie ideali. Di gran livello professionale. L’altro giorno è arrivata la polizia a casa sua. Ha messo a soqquadro il suo appartamento sulla base di un ordine di perquisizione. Gli ha sequestrato tutti i computer, i cellulari, gli apparati elettronici. Pure tutta la documentazione medica che riguarda il suo figlioletto. E poi lo ha informato che lui è indagato. Per cosa? Sarebbe in possesso di materiale sul sequestro Moro che invece dovrebbe essere secretato. Non si sa esattamente quale. Probabilmente carte che vengono dalla commissione parlamentare che indaga sul delitto Moro avvenuto quarantatrè anni fa. Le accuse contro Persichetti sono devastanti: associazione sovversiva a fini di terrorismo e favoreggiamento. Gli avvocati di Persichetti sanno pochissimo del merito delle accuse. Si sa soltanto che secondo i magistrati il reato sarebbe iniziato nel 2015. Sei anni fa. In questi sei anni si suppone che questa associazione sovversiva si sia limitata a immaginare azioni clamorose. Senza compierle. Probabilmente si tratta di una associazione sovversiva molto pigra e cauta. Il favoreggiamento nei confronti di chi? Forse di latitanti, intervistati da Persichetti per le sue ricerche storiche. Al momento, tra tutte le persone condannate per il sequestro Moro, solo due sono tecnicamente latitanti. Uno è Alvaro Lojacono e l’altro è Alessio Casimirri. Lojacono è un cittadino svizzero di 67 anni, che in Svizzera ha scontato per intero la pena che gli è stata inflitta dal tribunale svizzero, e ora è pienamente libero. Alessio Casimirri è un anziano cittadino nicaraguense, 70 anni, anche lui perfettamente libero e senza pendenze con la legge del suo paese. Nessuno dei due vive nascosto. Non ne hanno motivo. In cosa poteva consistere il favoreggiamento? Il magistrato che ha deciso perquisizione e indagine su Persichetti è un nome molto noto. Eugenio Albamonte. Particolarmente impegnato, da sempre, nell’attività politica delle correnti della magistratura. È stato il successore di Davigo alla guida dell’Anm e ora è il segretario di Area, cioè della corrente di sinistra, molto forte a Roma. Albamonte è noto per varie vicende, tra le altre il sequestro Shalabayeva (la signora kazaka catturata e rispedita in patria dalle autorità italiane, insieme alla sua figlioletta, in modo spericolato e rischioso per loro) nel quale furono pesantemente coinvolti due alti dirigenti della polizia, condannati a più di cinque anni di prigione per sequestro di persona. Albamonte, che pure aveva autorizzato il rimpatrio forzato (eseguito poi dalla polizia), non fu mai indiziato. Albamonte evidentemente ha aperto una nuova indagine sul sequestro Moro, e cioè su un episodio avvenuto quando lui aveva 11 anni e frequentava la prima media. I motivi di questa indagine non si conoscono. Si può facilmente intuire che l’attività della Procura, talvolta, è abbastanza casuale. Forse esistono situazioni più gravi di quella creata da uno studioso che sta raccogliendo materiale per i suoi studi. Più urgenti. Giustamente, spesso, i magistrati si lamentano della scarsità dei mezzi e del personale a disposizione. Come si fa a dargli torto? Certo, poi, se scopri che uno dei più importanti magistrati italiani è impegnato a indagare sulle ricerche storiche di uno studioso, ti viene il dubbio che invece la procura non sia oberata di lavoro. Magari nei prossimi giorni qualcuno aprirà un’indagine sul caso Montesi, la ragazza uccisa a Torvaianica nel ‘53, o sulle probabili complicità che il Gobbo del Quarticciolo ebbe tra gli abitanti della zona e forse anche nella locale sezione del Pci, alla fine degli anni Quaranta. Poi c’è sempre la vecchia mai risolta questione del caso Girolimoni: siamo sicurissimi che fosse proprio innocente? Forse l’aspetto più inquietante dell’indagine contro Paolo Persichetti è un’altra. Il rischio che passi l’idea che la magistratura, oltre a decidere quali siano le scelte giuste della politica, e a selezionare le liste elettorali, o dei ministri, stabilisca che tra i suoi doveri c’è anche quello di filtrare e orientare la ricerca storica. Se per esempio qualcuno si mette in mente di criticare, o di smontare, sulla base dei documenti, il lavoro della commissione Moro, è bene avviare su di lui una indagine immaginando la possibilità che contesti questo lavoro per organizzare un’associazione terroristica. Non so se questa circostanza solleverà qualche protesta o indignazione tra gli intellettuali. Temo di no. Mi pare che anche gli intellettuali, negli ultimi anni, siano finiti nei girotondi e alla corte delle Procure. Certo quando avvengono cose di questo genere capisci che ormai gran parte della magistratura è del tutto fuori controllo, e che la nostalgia per il minculpop, da parte sua, è sempre più forte. Non sapete cos’è il minculpop? Danno un’occhiata a Wikipedia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Non chiamatelo ex...Chi è Paolo Persichetti, il miglior storico del sequestro Moro. Marco Clementi su Il Riformista il 16 Giugno 2021. Quando il terremoto distrusse Amatrice e gli altri comuni vicini ero lì con la mia famiglia. Paolo Persichetti e la sua erano partiti da qualche giorno e quella mattina avremmo dovuto incontrarci in Umbria. Stavamo lavorando a un libro sul caso Moro e più in generale sugli anni della lotta armata in Italia assieme alla professoressa Elisa Santalena, che vive in Francia, e anche durante il periodo estivo ci si incontrava per consultarci. Paolo aveva fatto un lavoro egregio in Archivio di Stato, a Roma, quartiere Eur, dove era stata depositata una mole enorme di documentazione proveniente dalla polizia di Stato, dai carabinieri, dai servizi (direttive Prodi e Renzi), passando intere settimane a leggere, ordinare e creare un suo inventario di carte che era il primo studioso in Italia a vedere. Il mio archivio, che contiene documenti provenienti un po’ da tutto il mondo e in molte lingue straniere, si trovava a Capricchia, la frazione di Amatrice da dove è originario mio padre, mentre mia nonna era di Accumoli, tanto per non farci mancare nulla quella notte. Saputo della tragedia, Paolo corse con un amico. La casa, che avevamo ristrutturato da pochi anni, aveva tenuto. Entrammo e con calma, nei giorni successivi, nei momenti in cui non dovevamo provvedere all’ennesima emergenza, mettemmo in salvo l’archivio e circa mille libri, che avevo portato per aprire una biblioteca in paese. Pensavo, all’epoca, che la comunità dove ero nato meritasse un luogo di cultura, sebbene fossero rimasti in pochi a vivere stabilmente tra i Monti della Laga. E lo pensava anche Paolo, per quella che è ormai diventata la sua comunità di adozione. Di adozione sua e della sua famiglia, con il piccolo Sirio, un bambino che adesso tutti conoscono come il “capo” dei Tetrabondi, un bambino con una forza e di una intelligenza rare, che sta superando ogni difficoltà che la vita gli ha posto di fronte fin dal ventesimo giorno dalla nascita grazie alle sue qualità e al lavoro instancabile dei suoi genitori. Persichetti è un grande papà. Poco mi importa che sia un docente mancato in Francia a causa della sua estradizione e che abbia passato anni in carcere. Resta tra i migliori ricercatori che abbia mai incontrato in quella che, purtroppo, può oramai definirsi una lunga carriera. Chi mi conosce lo sa: ne stimo pochi, con ancora meno parlo. Paolo Persichetti è un uomo colto, acuto, meticoloso (molto più di me), capace di ragionare da storico, politologo e sociologo (molto meglio di me), instancabile lettore di lavori altrui, con una straordinaria capacità di giudizio critico e in grado di tornare sui propri errori. Il suo italiano, poi, è tra i migliori sulla piazza storica. È un cercatore di risposte a domande storicamente fondate e sarebbe in grado di tenere un ottimo corso sugli anni Sessanta e Settanta in qualunque università del mondo. Qualcuno ha parlato, per la perquisizione della sua casa avvenuta l’8 giugno 2021, di attacco alla ricerca storica. Mica gli storici ufficiali, quelli delle organizzazioni scientifiche e dell’accademia. Quelle e quelli credo non diranno una parola in merito. Li conosco e non mi faccio illusioni. Paolo non è considerato un pari. Tra l’altro la ricerca storica non è una persona. Anzi, non so bene proprio di cosa si tratti. Non so cosa sia la storia, non so cosa sia il passato, il presente, un fatto, un avvenimento. Provate a chiederlo a decine di storiche e di storici. Ognuno darà una risposta differente, spesso vaga, a volte incomprensibile. La questione, allora, riguarda le ricerche proprio di Persichetti. Le sue ricerche, non quelle di chiunque altro. Quelle di uno dei migliori, se non il migliore, studioso del caso Moro. In grado di aprire le contraddizioni e stanare le dietrologie basate sul nulla, di mettere in fila le deduzioni che diventano per miracolo “realtà” e di porre infine il quesito dei quesiti in maniera chiara: se si chiede verità ancora oggi, dopo 40 anni, i processi che hanno condannato decine di persone all’ergastolo o a centinaia di anni di carcere, che cosa hanno detto?

Come se la verità fosse un punto fermo in qualche parte del cosmo e servissero solo le chiavi giuste per aprire la porta che la custodisce. Come se la presenza, ingombrante, di storico o storica non fosse determinante nel maneggio personale e soggettivo delle carte. Come se il soffio che regolarmente passiamo sulla polvere del passato, non scoprisse il nulla che oggi resta e non ci chiedesse, a noi che ci assumiamo la responsabilità di raccontare, di dire esclusivamente la nostra. La verità storica non esiste. Esistono gli uomini e le donne e le loro opere. Paolo è uno di loro. Nelle sue carte e nei computer gli inquirenti troveranno risposte storiografiche solide, ben strutturate, chiare. Troveranno il riflesso di quello che ho potuto osservare in tutti gli anni nei quali abbiamo lavorato insieme e anche se da tempo ho scelto di non occuparmi più di lotta armata in maniera professionale, ci consultiamo, leggo ancora parte delle cose che scrive, continuo a essere una presenza nella sua vita di studioso, oltre che in quella privata. Credo di aver imparato da lui, come lui ha imparato da me. Ma è arrivato il momento che Persichetti sia riconosciuto non come un ex, ma per quello che è: un ottimo storico, il migliore sul caso Moro e la storia delle Br. Per distacco. Marco Clementi

Le assurde accuse allo storico. Caso Persichetti, procura e riesame non pervenuti. Frank Cimini su Il Riformista il 24 Giugno 2021. Dopo il sequestro dell’archivio storico di Paolo Persichetti dove tra l’altro ci sono le carte per un nuovo libro sul caso Moro sembra esserci un gioco delle parti tra il Tribunale del Riesame e la procura. A fronte dell’istanza di dissequestro presentata dall’avvocato Francesco Romeo i giudici non hanno fissato la data dell’udienza perché la procura di Roma non ha depositato atti a supporto del sequestro e delle accuse di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo e favoreggiamento di latitanti, reati per i quali Persichetti appare come l’unico indagato. Insomma chi indaga e chi dovrebbe controllare il lavoro degli inquirenti prendono tempo senza che Persichetti possa avere la possibilità non solo di ribattere alle accuse ma di cercare di riavere a disposizione il principale strumento del suo lavoro di storico. Il procuratore Michele Prestipino, la cui nomina è stata considerata irregolare dal Tribunale amministrativo regionale e dal Consiglio di Stato, e il sostituto Eugenio Albamonte ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati hanno scelto la linea del silenzio, di mantenere le carte coperte puntando sul disinteresse quasi generale per la vicenda appena scalfito a quanto pare dall’appello con 500 firme a tutela della ricerca storica indipendente. Insomma nulla è possibile sapere di questa fantomatica associazione sovversiva che opererebbe secondo le motivazioni scritte nel decreto di perquisizione da almeno sei anni, divulgando molto presunti atti segreti prodotti e/o elaborati dalla commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro. Una commissione che non è stata ricostituita in questa legislatura ma che continua a pendere con una spada di Damocle sulla vita politica e giudiziaria del paese, nonostante le sue teorie dietrologiche e complottarde non abbiano trovato alcun riscontro, a cominciare dalle tonnellate di atti processuali dove persino “pentiti” e “dissociati” affermino che dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse e non pezzi di servizi segreti di mezzo mondo. Persichetti con la sua attività e i suoi libri ha contribuito enormemente a confutare i dietrologi che però continuano a riscuotere le simpatie delle alte cariche dello Stato perché il più attivo a dire che bisogna ancora cercare “la verità” è il presidente della Repubblica il quale come capo supremo del Csm avrebbe ben diverse e altre trame di cui occuparsi. A iniziare dalla famosa loggia Ungheria di cui i giornali hanno smesso praticamente di scrivere. La sensazione è che la magistratura e la politica in questo unite nella lotta abbiano un interesse spasmodico a convincere della caratteristica ancora “calda” dell’argomento anni ‘70, con l’attenzione rivolta soprattutto a Parigi chiamata a decidere sull’estradizione di nove rifugiati, “la banda dei nonni” per fatti di 40 anni fa. Anzi 50 considerando che ieri nella capitale francese c’è stata l’udienza per Giorgio Pietrostefani, condannato per il delitto Calabresi, 17 maggio 1972. Frank Cimini

L'indagine kafkiana su Paolo Persichetti. I gendarmi della memoria e la storia vietata delle Brigate Rosse. Donatella Di Cesare su Il Riformista il 16 Dicembre 2021. Ha appena accompagnato i due figli a scuola quando, sulla strada del ritorno, viene fermato da una pattuglia della Digos che lo scorta fino a casa. Lì ci sono già altri agenti – in tutto una decina – pronti a iniziare la perquisizione. Tutto viene messo sottosopra, perlustrato, ispezionato. Senza troppi riguardi per l’intimità di una famiglia, di cui fa parte anche una persona anziana. Vengono sequestrati computer, cellulari, apparati elettronici, materiali di ogni tipo, compresi quelli privati, foto, appunti, lettere. Finiscono lì anche i documenti che riguardano Sirio, un bambino che il verdetto medico aveva consegnato all’esistenza vegetativa e che invece oggi va a scuola combattendo ogni giorno per la vita e insegnando agli altri a guardare il mondo con gli occhi della disabilità. Nel tardo pomeriggio si conclude la perquisizione. Da allora la vicenda non si è conclusa. Come in una novella kafkiana si aggiungono, anzi, incriminazioni ulteriori.

Quel che importa davvero è l’accusato: Paolo Persichetti. Entrato nel 1986, all’età di 24 anni, in quel che restava della colonna romana delle Br, che nelle periferie poteva contare ancora su un certo appoggio, venne arrestato nel 1987. Persichetti ha scontato una lunga pena detentiva, anni e anni di carcere, dopo essere stato estradato dalla Francia. Ha avuto sempre la passione per la ricerca storica e il giornalismo. Ma sono mestieri che ha potuto esercitare quasi solo da outsider nella sua vita attuale votata all’impegno su tanti fronti. In Italia un ex brigatista non può accedere alla ricerca universitaria. Malgrado ciò Persichetti ha frequentato gli archivi, ha studiato nelle biblioteche, collaborando con Marco Clementi ed Elisa Santalena al primo volume di una storia delle Brigate rosse. Il secondo avrebbe dovuto uscire prima che la polizia sequestrasse tutto il materiale chi lui aveva messo da parte. L’interesse per quel periodo è più che giustificato. Tutti dovremmo essere interessati, perché si tratta della storia da cui proveniamo. All’estero è difficile spiegare quel che accade oggi in Italia, quel veto minaccioso che ostacola chiunque voglia parlare di un periodo rimosso e tabuizzato. Possibile che a decenni di distanza manchi ancora una ricostruzione storica complessiva e condivisa nei suoi tratti essenziali? Possibile che di quell’epoca si possa parlare solo aderendo a una versione in cui molti della mia generazione non riescono a riconoscersi?

Il sequestro dell’archivio personale di Paolo Persichetti è la triste conferma di tutto questo. È il sigillo impresso da un apparato statale che mostra il suo volto più tetro. Esiste in questo paese un organismo che si chiama Polizia di prevenzione, il cui ruolo potrebbe finire pericolosamente per sorvegliare l’indagine storica, se non addirittura per prevenirla, segnando i paletti oltre i quali non è lecito inoltrarsi. Una gendarmeria della memoria che asseconda una concezione poliziesca della storia narrata in bianco e nero – da una parte i buoni, dall’altra i cattivi, da una parte i probi, dall’altra i malvagi. Solo in tale contesto si può tentare di chiarire quel che sta capitando a Paolo Persichetti bersaglio, in questi mesi, di accuse iperboliche che sono andate sommandosi in un crescendo clamoroso che non può non suscitare interrogativi. Si passa dall’associazione sovversiva che, iniziata l’8 dicembre 2015, avrebbe dovuto condurre a chissà quali azioni di cui non c’è nessuna traccia, alla divulgazione di materiali segretati della commissione Moro, che a ben guardare erano destinati a essere pubblicati il 10 dicembre 2015, fino addirittura al favoreggiamento solo perché Persichetti aveva intervistato un ex brigatista, già condannato, per ricostruire i fatti storici. Dove sarebbe il reato?

Mentre si attende l’udienza di domani, in cui potrebbe essere finalmente accolta la richiesta di dissequestro avanzata da Francesco Romeo, difensore di Persichetti, ecco arrivare l’ultimo colpo di scena: il giudice per le indagini preliminari di Roma Valerio Savio ammette la richiesta di copiare il materiale sequestrato avanzata dal procuratore Eugenio Albamonte – una mossa che sembra già un giudizio. Un linguaggio burocratico quasi indecifrabile, ma allusivo quanto basta per insinuare sospetti, stigmatizzare e, in fondo, già condannare. Viene allora da pensare che l’archivio personale di Persichetti, messo insieme con anni di duro lavoro, sia stato sequestrato non a causa di un reato, bensì allo scopo di cercare un reato. Non è accettabile che in un paese democratico la magistratura segua piste complottistiche intervenendo nella ricerca storica. Né è accettabile che un ex brigatista, solo per essere tale, non abbia i diritti degli altri cittadini e venga considerato colpevole in ogni circostanza. Solo una democrazia debole e insicura cerca la rappresaglia andando a caccia di fantasmi. Donatella Di Cesare

L'attualità di Moro «pacificatore d'Italia». Veneziani e Piepoli: «Voleva ricucire le ferite della nazione».  Michele De Feudis  La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 Maggio 2021. Un messaggio di ricucitura delle ferite della comunità nazionale dalle parole, profonde e misurate, di un giovane Aldo Moro, in un discorso pronunciato a Radio Bari nel 1944: di fronte ad un’Italia lacerata dalle divisioni della guerra civile, l’intellettuale e politico pugliese formula un appello alla pacificazione, alla misuratezza e all’equilibrio, in chiara dissonanza con le istanze di giustizia sommaria, epurazione o vendetta presenti in parti della società e della politica. Il testo del radiodiscorso, ritrovato da Angelo Picariello e pubblicato dall’Avvenire, conserva una straordinaria forza e attualità in vista della festa nazionale del 2 giugno, celebrazione dell’unità della Repubblica in giornate in cui la coesione sociale è stata il collante di un paese messo a dura prova dalla pandemia. Marcello Veneziani, filosofo e scrittore, interpreta così il testo dello statista: «Moro aveva una missione da pacificatore, per ricucire le ferite della nazione. Tra il 1943 e il 1946, ma soprattutto dalla caduta del fascismo in poi, assume una posizione moderata, scrivendo sul quotidiano barese La Rassegna chiese di superare sia il fascismo regime che l’antifascismo militante. Ci sono nei suoi scritti anche critiche non troppo velate alla lotta partigiana, alla giustizia sommaria. Ne ho evidenziato la rilevanza in molti articoli e prima di me Giuseppe Tatarella pubblicò un opuscolo su Moro 1 e 2, dove si parlava del politico equilibrato, addirittura vicino all’Uomo qualunque, su posizioni di destra “come realismo e moderazione”, in antitesi all’intransigenza della sinistra». «”Non fate vendette” - chiarisce Veneziani - era la sua posizione, ovvero la linea della prudenza. C’è la sua autobiografia con il suo passato fascista, ma allo stesso c’è il realismo volto a evitare nuove ferite nella comunità nazionale. Nel 1946 entra nella Dc sollecitato dall’arcivescovo Marcello Mimmi e assume posizioni che si vanno stemperando. Allora era vicino al governo Badoglio, si riconosceva nel regno del Sud. La sua fu una scelta di campo pacificatrice. Mimmi lo spingeva in politica per bilanciare la Democrazia cristiana spostata a sinistra da Fanfani». «Contro le epurazioni anticipò Togliatti? Moro - puntualizza il filosofo - puntava alla pacificazione d’Italia, Togliatti puntava a ereditare il fascismo di sinistra e a guidare l’integrazione nel Pci dei grandi movimenti di massa, non erano rotte affini. Nel 1944 la parola pacificazione voleva dire “non spariamoci, siamo italiani”. Oggi la pacificazione assume un altro significato, e forse c’era più sincerità negli anni della guerra e del dopoguerra. Ora significa comprendere le ragioni degli altri, come avvenne negli anni novanta, prima di una nuova profonda demonizzazione dell’avversario politico, spesso coincidente con la destra. Le dicotomie fratricide restano ricorrenti, basta rievocare quella degli ultimi vent’anni con il duello tra garantisti e giustizialisti». Il discorso di Moro ha una chiara visione cristiana contro le epurazioni, ma può anche essere collegata alla testimonianza Gaetano Rasi, economista e parlamentare, poi componente del cda Telecom, che in più incontri pubblici rammentò un particolare storico, ovvero che il padre dello statista, Renato Moro, dopo la nascita della Repubblica Sociale si trasferì a Salò, e lavorò nel Ministero dell’Educazione Nazionale guidato dal giurista e politico Carlo Alberto Biggini. Una interpretazione della sensibilità di Moro anche arriva dal prof. Gaetano Piepoli: «La lezione del discorso giovanile del politico di Maglie è di “inattuale attualità” in tempi nei quali emerge una spinta alla demonizzazione dell’avversario, alla falsificazione della verità e alla strumentalizzazione per scopi di parte, per la tentazione di voler stravincere in tutto». «La distanza dall’idea di vendetta per Moro ha un senso innanzitutto sul crinale della storia del mondo, penso per esempio alla tragedia della Palestina». «La memoria di Renato Moro? Ho rintracciato un necrologio della famiglia per il fratello Alberto, magistrato antifascista e amico di Michele Cifarelli. In quel testo la famiglia richiama la dolorosa assenza del padre, rimasto nell’Italia del Nord, e all’oscuro della morte del proprio figlio», aggiunge Piepoli. «Un 2 giugno con le parole di Moro è una ricorrenza unificante, e il messaggio pacificatore dello statista incontra la sollecitazione operosa svolta in questi mesi dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dal premier Mario Draghi, per costruire un idem sentire “de re-pubblica”», conclude l’accademico barese.

Zanda, il caso Moro e di quelle tre lettere di Cossiga. Le rivelazioni del senatore Pd a Repubblica sono state fortemente criticate da quotidiani come il Fatto e la Verità. Francesco Damato su Il Dubbio il 23 maggio 2021. Del senatore Luigi Zanda, già capogruppo del Pd e tesoriere del partito, è nota come leggendaria la riservatezza. Cui è stato allenato in famiglia dal padre, il mitico prefetto Efisio Zanda Loy, e in politica da Francesco Cossiga. Di cui fu consigliere, portavoce, amico, confidente, quasi un secondo figlio sia a Palazzo Chigi sia al Viminale, peraltro nei lunghi, terribili 55 giorni della prigionia di Aldo Moro, sequestrato dalle brigate rosse la mattina del 16 marzo 1978 fra il sangue della scorta, decimata come in un mattatoio, e ucciso pure lui il 9 maggio, mentre stavano maturando le condizioni per cercare di liberarlo con le buone o le cattive maniere. Non poteva pertanto che fare notizia la decisione presa dal senatore di parlare in questi giorni a Repubblica di quel sequestro, e di altri eventi successivi, come l’attentato a Papa a Roma e quello ad Enrico Berlinguer in Bulgaria, legati da un filo rosso quale può essere considerato il terrorismo nazionale e internazionale di quei tempi. Proprio per effetto di quel filo, per venire a capo del quale giustamente Zanda ha scommesso in qualche modo sugli storici e sui ricercatori degli archivi ancora segreti, si sono levate contro l’intervista voci perplesse e critiche: di chi si aspettava qualcosa di più specifico, magari col sospetto che il senatore abbia voluto trattenere per sé chissà cosa e chissà quanto per coprire chissà quali responsabilità: «Eh no, senatore Zanda, noi non ci stiamo», gli ha gridato dal Fatto Quotidiano l’ex senatrice Sandra Bonsanti, aggiungendo: «Non è che si possa chiudere i conti con il passato senza mai parlare di responsabilità, rinviando la verità solo agli archivi internazionali…… come se le cose in Italia fossero avvenute solo sotto l’influsso magico e mefitico di uno scontro internazionale perenne. La Guerra Fredda è stata terribile, certo, dentro quel quadro si sono dispiegate dinamiche intrigate e ancora in parte oscure, ma stiamo all’Italia e all’assassinio di Aldo Moro: c’era una classe dirigente che ha fatto o non ha fatto delle scelte». Sulle quali, sempre secondo Sandra Bonsanti, ma par di capire anche per un collega del giornale La Verità, non si può calare un velo evocando «una fantomatica pista sovietica». Trovo personalmente queste reazioni alquanto esagerate e ingenerose di fronte allo strappo fatto da Zanda alla sua – ripeto- leggendaria riservatezza parlando, per esempio, proprio della vicenda sulla quale più lo ha tallonato, diciamo così, la mia amica Sandra: la vicenda Moro. A quest’ultimo proposito, vorrei riproporvi un passaggio della lunga intervista di Zanda a Repubblica rispondendo alla domanda su cosa ricordasse di quel sequestro: «Appresi la notizia dell’attentato, ancora molto confusa, appena varcata la soglia del Viminale. Dopo un paio d’ore, verso le 11, mi mandò a chiamare Cossiga, che era già stato in via Fani e dal presidente del Consiglio. “Da questo momento dimenticati della mia vita politica perché politicamente sono finito”. Poi mi avrebbe affidato un documento da conservare in cassaforte. Era la lettera di dimissioni da ministro dell’Interno, ma su alcuni fogli a parte ne variò l’incipit: nel caso in cui Moro fosse stato ucciso, liberato, liberato ma ferito nello scontro finale». Quel “poi” sembra significare non qualche momento o ora successiva al primo incontro con Cossiga reduce da via Fani e dall’ufficio del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, a Palazzo Chigi. Mi sembra riferirsi, piuttosto, ad eventi anche di parecchio successivi, quando ancora Moro era in vita e, per quanti errori, disguidi e altro si fossero verificati nelle indagini e nelle ricerche, si pensava ancora possibile quello che Zanda ha definito “scontro finale”. Che altro non poteva essere evidentemente se non l’assalto alla prigione di Moro che, secondo recentissime rivelazioni dell’allora colonnello dei Carabinieri Antonio Cornacchia, il generale dell’Arma Carlo Alberto dalla Chiesa aveva individuato attendendo inutilmente l’autorizzazione all’assalto con un gruppo specializzato di una trentina di paracadutisti alloggiati in via Aurelia. Di quella rilevazione, riferita su queste colonne, Stefano Andreotti, figlio del compianto presidente del Consiglio chiamato in causa da Cornacchia, si è con me doluto, in comprensibile difesa della memoria del padre, chiedendosi e chiedendomi perché mai l’allora capo dell’ufficio investigativo dei Carabinieri a Roma non avesse parlato quando l’ormai ex capo del governo era ancora in vita, e in grado quindi di replicargli. Ora, Andreotti o non Andreotti, Cornacchia o non Cornacchia, dall’onesto racconto di Zanda si può dedurre che uno “scontro finale” ad un certo punto della vicenda era effettivamente diventato, o quanto meno, apparso possibile. Vi sembra poco? A me no, per niente. E sono grato al senatore Zanda per avermi dato quanto meno un concreto motivo di riflessione. Che sarebbe ancora più utile e produttivo se condiviso, adoperato e quant’altro dai tanti – forse troppi, a questo punto- che scrivono e si occupano della peggiore tragedia della politica italiana.

Miguel Gotor per “la Repubblica” il 24 maggio 2021. L' intervista del senatore Luigi Zanda a Simonetta Fiori su questo giornale ha rilanciato il tema delle eventuali responsabilità dell'Unione Sovietica nella diffusione del terrorismo di sinistra negli anni Settanta. Egli invita ad aprire i principali archivi delle «potenze che allora si occupavano del terrorismo internazionale. Stati Uniti e Unione Sovietica certo, ma anche Germania, Francia, Inghilterra, Israele», cui bisognerebbe aggiungere anche la Libia e le diverse fazioni palestinesi. A questo proposito è difficile nutrire soverchie speranze: nel caso in cui degli Stati stranieri scelgano di servirsi del terrorismo per destabilizzare la realtà interna di un Paese nemico o concorrente lo fanno con cover action o interventi "sotto falsa bandiera" che non trovano riscontro negli archivi perché questo tipo di operazioni è affidata all' oralità per elementari ragioni di sicurezza e di autotutela dei loro promotori. Inoltre, se dei documenti sono sfuggiti all' autocensura e alle continue procedure di distruzione cui sono sottoposti, essi possono riaffiorare, di solito come merce di scambio e di accreditamento, soltanto quando si verifica il collasso di uno Stato a causa di guerre o di eventi rivoluzionari. Non a caso, ciò è avvenuto con l'Unione Sovietica che nel 1991 si è dissolta con una rapidità che nel 1978 nessuno avrebbe potuto immaginare. Da quelle macerie fumanti emerse tra il 1992 e il 1995 il cosiddetto "Dossier Mitrokhin", nell'ambito di un'operazione spionistica condotta dall' intelligence inglese. Questa coincidenza ha consentito di individuare quei «richiami fattuali» di un' ingerenza sovietica negli eventi italiani su cui si sofferma Zanda, che negli anni Settanta è stato uno dei principali collaboratori del ministro degli Interni Cossiga. Vediamo quali, anche se in realtà ruotano tutti intorno a una sola figura, quella di Giorgio Conforto, defunto nel 1986, che il dossier Mitrokhin individuò nel 1995 come uno dei principali agenti di influenza del Kgb in Italia dai tempi del fascismo in poi. Ora, è un dato di fatto che nella casa romana di sua figlia, nel maggio 1979, fu ritrovata la mitraglietta che avrebbe ucciso Moro e vennero arrestati i brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda. Questi avevano trovato rifugio in viale Giulio Cesare su indicazione di Franco Piperno e di Lanfranco Pace, per sfuggire alla vendetta degli ex compagni delle Brigate rosse che nutrivano seri dubbi sulla lealtà della loro condotta durante il sequestro Moro. Conforto fu ascoltato nel luglio 1979 dalla magistratura, ma si guardò bene dal rivelare il suo vero ruolo che era invece già conosciuto dal controspionaggio Sismi, dai vertici della Questura di Roma e dal procuratore capo Achille Gallucci. Nel febbraio 2004 Cossiga, durante un' audizione in Commissione Mitrokhin, ha rivelato di avere appreso dal prefetto Ferdinando Masone che Morucci e Faranda erano stati arrestati per intervento di Conforto che conosceva la vera identità dei due clandestini e li aveva consegnati alle autorità di polizia italiana. Verrebbe fatto di pensare, nell' ambito di una collaborazione dei servizi sovietici con quelli italiani, per impedire che in Italia nascessero nuovi fuochi di guerriglia, una disponibilità non dimostrata negli anni precedenti, quando Conforto già aveva infiltrato gli esponenti di quella magmatica area eversiva. Un altro elemento, infatti, è che la sorella di Conforto, professoressa di Fisica alla Sapienza, possedeva una mansarda in via di Porta Tiburtina, che utilizzava per riposarsi tra una lezione e l'altra. Il caso vuole che sullo stesso pianerottolo la polizia scoprì il 28 aprile 1977 un covo delle Brigate rosse frequentato, tra gli altri, dal marito della Faranda. Tra centinaia di migliaia di case presenti a Roma, proprio lì. Un terzo dato è che la proprietaria del principale covo delle Brigate rosse nella capitale, quello di via Gradoli che ospitò Mario Moretti durante il sequestro di Moro, secondo una nota investigativa del luglio 1979 «conoscerebbe molto bene», sin dal 1969, la figlia di Giorgio Conforto che l' ex ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani ha definito nel suo libro di memorie «una seguace di Pietro Secchia», nell' ambito di un ragionamento più generale riguardante i legami intercorsi fra «i brigatisti e i superstiti secchiani, sparsi qua e là in Italia». Riassumendo: a casa della figlia del più importante riferimento del Kgb in Italia è stata ritrovata l' arma che ha ucciso Moro e sono stati arrestati due brigatisti che parteciparono a quell' operazione. Inoltre, la stessa persona, sempre tramite la figlia, avrebbe potuto avere agevolmente dei rapporti anche con il covo di via Gradoli che ospitò Moretti. Si ammetterà che, se identici elementi fossero stati riscontrati al riguardo di un ipotetico agente di influenza della Cia in Italia, l'opinione pubblica nazionale avrebbe considerato il caso Moro chiuso, attribuendo la sua morte agli Stati Uniti. Su questi temi è necessario evitare due scorciatoie interpretative. La prima è quella che riduce la storia della lotta armata in Italia, che non si esaurisce certo nelle Brigate rosse, a una dimensione meramente criminale. Essa è stata un fenomeno troppo vasto e di lunga durata perché non abbia avuto motivazioni di carattere politico, ideologico, culturale, sociale, economico, che hanno le loro radici nella storia nazionale. Le vicende del Partito armato sono anzitutto e soprattutto una storia italiana ed è con questa verità storica che bisogna avere il coraggio di fare i conti. La seconda è quella che indugia in modelli interpretativi che vorrebbero spiegare quei fatti soltanto attraverso l' eterodirezione dei servizi di spionaggio italiani o stranieri. Una lettura semplificata, in fondo tranquillizzante in quanto autoassolutoria, che finisce paradossalmente per coincidere con la visione cospirativa e ossessionata dei terroristi. Così facendo, infatti, non si rende giustizia alla storia d' Italia, alla difficile, ma sempre ricercata autonomia della sua classe dirigente e dei propri attori politici e sociali (e chi scelse la sciagurata strada della lotta armata questo fu), al suo ruolo storico dentro il nesso nazionale e internazionale, lungo il fronte principale della Guerra fredda ma anche dentro il campo delle tensioni mediorientali decisive per il controllo del mediterraneo, in cui anche la vicenda Moro deve essere collocata.

L'anniversario. Omicidio Moro, a 43 anni di distanza torna il "mistero" della teoria del complotto. David Romoli su Il Riformista l'8 Maggio 2021. Puntuale come solo gli anniversari sanno essere, la richiesta di “arrivare finalmente alla verità” accompagna la quarantatreesima ricorrenza dell’uccisione di Aldo Moro. Il ritornello, stavolta, è stato intonato in anticipo. Agli arresti di Parigi ha fatto subito seguito la succulenta notizia che una di loro, Marina Petrella, potrebbe svelare misteri occulti sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Ma il coro non si è limitato a reclamare una verità che è in realtà già nota. Gli arresti sono stati spiegati e giustificati da quasi tutti anche con la necessità di “sapere la verità”, come ripete uno dei principali magistrati impegnati allora nel contrasto al terrorismo, Armando Spataro. La parola è sempre la stessa. I significati invece divergono. Quando Mario Calabresi, figlio del commissario ucciso nel 1972, insiste perché venga detta la verità sull’uccisione di suo padre non ha in mente oscuri complotti. È convinto che a decidere e a realizzare l’omicidio del padre siano stati quelli che per quel delitto sono già stati condannati: leader e militanti di Lotta continua. Ritiene però che nell’attentato fossero coinvolte con ruoli minori altre persone. Pensa, a ragion veduta, che qualcuno debba aver fatto da palo e che qualcuno debba essersi occupato dell’ “inchiesta” per studiare le abitudini della vittima e preparare il colpo. La “verità” che invoca è di piccolo calibro: si traduce nel mandare alla sbarra un certo numero di imputati minori, a mezzo secolo di distanza dall’omicidio. Questa peraltro è l’accezione di “verità” che impugnano in diverse occasioni, ogni anno, gli eredi della sinistra e della destra radicali di quei tempi. “Verità per Verbano, per Acca Larentia, per Fausto e Iaio, per Zicchieri” vuol dire solo individuazione di colpevoli a proposito dei quali, se fossero davvero scoperti, occorrerebbe poi interrogarsi sul senso di una sanzione che arriva a distanza di tempo talmente vasta da colpire a tutti gli effetti persone diverse da quelle che, nella notte, dei tempi commisero il delitto. Ma in questo caso lo smagliante termine “verità” altro non è che un sinonimo del classico “pentimento”: denunce in cambio di sconti di pena. S’intende tutt’altro quando invece si parla di “verità” sul caso Moro e in generale sulla scia sanguinosa di quegli anni, quando ci si esalta per quel che potrebbe raccontare “Virginia”, all’epoca nome di battaglia di Marina Petrella, una delle arrestate di Parigi. Qui in ballo non c’è più la piccola storia di qualche complicità rimasta impunità ma quella grandissima della parabola storica italiana. Si allude al sospetto, che per molti è una certezza ancorché indimostrata, di una regia occulta che avrebbe condizionato e indirizzato a colpi di pistole e di esplosivo la storia d’Italia. Pur accorpate indebitamente sotto un’unica voce, le due richieste sono molto diverse e vanno considerate in modo distinto. La prima, la richiesta di denunciare colpevoli minori come nel caso dell’omicidio Calabresi, risponde alla logica magistralmente illustrata dall’opinione del dottor Pignatone secondo cui l’ergastolo ostativo dovrebbe essere eliminato solo per chi denunci altri colpevoli. Recupero sociale, cambiamenti di personalità, revisione delle scelte passate, persino, nel caso degli arrestati di Parigi, decenni di vita specchiata diventano irrilevanti a fronte dell’unico passo importante: la denuncia. Così, però, un’intera concezione della civiltà giuridica e della funzione della pena viene scardinata, rovesciata. La “verità” con tutto questo c’entra ben poco. La pretesa di ottenere lumi sulle trame oscure è più significativa e disegna un quadro ben più assurdo. Si parte infatti da due presupposti indimostrati: che ci sia effettivamente un mistero da scoprire e che il soggetto in questione possa svelare in tutto in parte quel mistero. Il caso Moro è esemplare sia perché è il massimo delitto politico nella storia repubblicana, sia perché è quello a proposito del quale è stata ipotizzata un’intera enciclopedia di misteri. Solo che si tratta sempre di ipotesi, per lo più molto fantasiose, mai dimostrate nonostante in quattro decenni sia stata prodotta in materia una bibliografia imponente e oltre tutto in contrasto con la verità processuale accertata. La richiesta paradossale è dunque quella di smentire la verità processuale sulla base di un’opinione diffusa ma tutt’altro che comprovata secondo la quale quella verità è falsa o incompleta. Qualora invece non ci fosse davvero nessun mistero da chiarire la persona a cui si intima di “dire la verità” si troverebbe nella condizione paradossale di non poterla dire, perché agli occhi di chi la chiede suonerebbe come reticenza, oppure di dover mentire. Per non parlare della possibilità che, pur esistendo davvero qualche verità non svelata, la persona a cui si intima di rivelarla non la conosca. Il caso di Marina Petrella è eloquente. Era una delle principali dirigenti della colonna romana delle Br, dunque, nel ragionamento di quanti hanno scritto e detto che potrebbe far luce sui presunti misteri del sequestro Moro, deve per forza essere al corrente di tutto. In realtà se le Br hanno resistito tanto a lungo prima di essere sgominate è in buona parte proprio in virtù del loro sistema molto rigido di compartimentazione e la colonna romana, proprio perché il sequestro avvenne a Roma e nella capitale si trovava la “prigione del popolo” di via Montalcini, era tenuta particolarmente all’oscuro di quel che succedeva in quei 55 giorni. L’ipotesi che “Virginia” sia depositaria di torbidi misteri è del tutto peregrina, come del resto l’esistenza stessa di quei torbidi misteri. E tuttavia il suo non raccontare quel che non è successo o che comunque lei non conosce si tradurrebbe inevitabilmente in colpevole rifiuto di “dire la verità”. La martellante, ossessiva richiesta di una verità che combaci con i propri sospetti e le proprie fantasie gioca però un ruolo essenziale nell’impedire che una fase molto lontana nel tempo venga consegnata alla storia. Proprio il clamore spropositato con cui i media e la politica hanno salutato l’arresto di 9 ultrasessantenni e oltre per crimini di 40 anni fa dimostra che in Italia quel passaggio “naturale” alla storia, al passato, resta come sospeso e congelato. Il terrorismo è un eterno presente soprattutto in virtù della leggenda secondo cui la realtà di quell’epoca violenta non è ancora nota, ed è dunque impossibile consegnarla agli archivi della memoria. È possibile che qualcuno consideri necessario fingere che il terrorismo sia cronaca e storia per evitare che risorga una conflittualità sociale radicale pur se non armata. Più probabilmente agisce solo una cultura ormai diffusa abituata a considerare sempre la realtà evidente come un trompe-l’oeil dietro il quale si nascondono diabolici complotti. Ma, qualunque ne sia l’origine, l’incapacità di considerare una fase storica cruciale come conclusa, e dunque di analizzarla, elaborarla e superarla, è una delle principali ipoteche che tirano a fondo il Paese da decenni. Un problema non per le pochissime persone che rischiano di ritrovarsi in galera a mezzo secolo o giù di lì dai fatti ma per tutti. David Romoli

Agnese Moro: «Ho visto l’uomo dietro il “mostro” e ho scoperto un dolore simile al mio». Agnese Moro, giornalista e figlia di Aldo Moro, a colloquio con Grazia Grena, operatrice sociale ed ex brigatista, in occasione della sessione del Festival della Giustizia Penale dal titolo “La giustizia dell’incontro”. Il Dubbio il 21 maggio 2021. Un incontro che cambia la vita, che permette di superare la dittatura del passato e andare oltre il pregiudizio. Agnese Moro, giornalista e figlia di Aldo Moro, e Grazia Grena, operatrice sociale ed ex brigatista, hanno dialogato nella sessione del Festival della Giustizia Penale “La giustizia dell’incontro”, introdotta dalla presentazione del libro “Il diavolo mi accarezza i capelli. Memorie di un criminologo” da parte dell’autore Adolfo Ceretti. Al centro della sessione virtuale, moderata dal direttore scientifico del Festival Luca Lupária Donati, la giustizia ripartiva come luogo di incontro, capace di cambiare profondamente la vita di vittime e responsabili della lotta armata: «Un’esperienza decisiva, perché ha significato guardare in faccia la realtà – ha spiegato Agnese Moro –. Nella mente di chi ha subito un torto così grave, le persone che l’hanno compiuto sono dei mostri e negli anni questa realtà diventa sempre più spaventosa. Nel viso dell’altro incontri qualcosa di concreto e reale, ti accorgi che sono persone come te, e che il tempo è passato. C’è una sorta di dittatura del passato, che ti porta a rivivere tutti i giorni ciò che è avvenuto anni prima. Invece nell’incontro ti specchi nel volto dell’altro e capisci che qualcosa è cambiato, ti rendi conto che di fronte a te ci sono persone profondamente umane, anche se è mostruoso quello che hanno fatto anni prima. Ti accorgi che erano qualcosa e che adesso sono altro, e che il loro dolore è simile al tuo». Moro parla di disarmo, condizione essenziale per cambiare la prospettiva e non fermarsi al pregiudizio: «Loro si sono presentati a noi totalmente disarmati: persone che hanno scontato le loro pene e che hanno accettato questo faticoso e rischioso confronto con noi. Proprio questo disarmarsi è l’inizio del lasciare andare i pregiudizi, sentimenti feroci che ti hanno abitato per anni, significa poter lasciare questi sentimenti che ti hanno chiuso come un insetto in una goccia d’ambra. Cambiare significa anche accettare il rischio del contagio, qualcosa di loro rimane in noi e viceversa, e si costruisce un legame. Toccare il dolore dell’altro e lasciare che il tuo dolore venga toccato rende un fatto umano un avvenimento irrimediabile come quello che ho vissuto. Rompere quella goccia d’ambra, senza l’incontro con loro, non è possibile». Tra quei loro c’è Grazia Grena, un passato nelle fila delle Brigate Rosse, alla quale l’incontro con le vittime ha lasciato un segno profondissimo: «Sono rimasta spiazzata da questa richiesta, perché significava rimettere tutto in gioco, dopo aver ricostruito una vita ridotta in cocci dopo i processi e il carcere. Riuscirò ad incontrare il volto dell’altro? Riusciranno loro ad accettarmi? Sono domande che mi sono rimaste dentro, fino al momento dell’incontro vero e proprio. Avevo il timore di non essere ascoltata, invece l’altro ti sta aspettando, perché l’altro ha bisogno di te come tu hai bisogno di lui. In quel momento ritorni ad essere te stesso, c’è qualcosa a cui avevi rinunciato nella tua scelta scellerata della lotta armata e incontrare le vittime è stato come rincontrare quella parte così essenziale di te. Tutte le motivazioni che ci eravamo dati si erano sgretolate in un attimo. Loro sono riusciti ad ascoltare delle parole fortissime, che io stessa faticavo ad ascoltare da me e dagli altri. Uno di noi ha detto che le sue scelte le aveva fatte per amore. Ed era vero. Quella verità loro sono riusciti ad accoglierla, seppur senza giustificarla. L’essere ancora insieme è la conferma di quella ricomposizione che siamo riuscite a fare, in una terra di mezzo che ci ha permesso di incontrarci e che ci allontana un po’ dalle nostre appartenenze reciproche». Particolarmente delicato l’ultimo tema toccato da Grena, quello del perdono: «Nel nostro percorso – spiega Grena – questa parola non l’abbiamo mai attraversata fino in fondo. Questa contaminazione non so se si può chiamare perdono, ma è comunque qualcosa di unico. Siamo riusciti a trovare una giusta prossimità. È stato un percorso faticoso, perché ognuno ha dovuto rinunciare a qualcosa di sé. Sembra un paradosso, ma gli unici che ci hanno dato la possibilità di raccontare la nostra verità sono stati loro e questo, per me, è stato un dono impagabile».

Il programma completo del Festival della Giustizia Penale è consultabile sul sito dell’evento e tutte le sessioni saranno gratuite e online sul sito e sul canale Youtube del Festival.

Non è mai troppo tardi, ma che amarezza...Sul rapimento di Moro Veltroni scopre dopo 40 anni che c’è del "marcio nello Stato". Valter Vecellio su Il Riformista il 14 Maggio 2021. Ci sono almeno un paio di cose che colpiscono, nel leggere l’ampia intervista che Walter Veltroni rilascia a Stefano Cappellini, e pubblicata su Repubblica («Sul terrorismo clemenza solo se c’è verità»). Un primo passaggio: Veltroni non nega che «Moro non sia stato cercato. Ma è chiaro che Moro libero faceva più paura di Moro morto. Dopo, lo Stato trattò per Cirillo, persino usando la camorra. Il ministro Cossiga, al Viminale, aveva intorno tutti uomini della P2. Non credo all’epoca si avesse percezione di tutti quei centri di potere occulto, uno Stato che aveva il marcio dentro. Anche quando arrivano i consulenti americani il loro obiettivo, poi persino dichiarato nei libri, era che Moro morisse. Per questo fu costruita la grande menzogna sulle lettere di Moro. Quelle missive non erano scritte sotto dettatura, ma esprimevano, certo nelle condizioni date, il pensiero di Moro, la sua idea dei rapporti tra persone e Stato. Lo si rilegga bene, questo passaggio. Nel 2021 Veltroni dice quello che fin dai primi giorni del sequestro Moro sostiene Leonardo Sciascia; lapidato per averlo detto e scritto; anche dai compagni di Veltroni, dirigenti dell’allora Pci. Si sostiene che Moro è plagiato, drogato, non responsabile; scrive sotto dettatura. Chi ha buona memoria ricorderà il terrificante affidavit di pretesi, sedicenti “amici di Moro”: dichiarano di non riconoscere più il loro amico. Una gara orribile e oscena, “corrono” in tanti: gli amici del partito di Moro, i comunisti nella loro maggioranza (si distinguono Umberto Terracini e Lucio Lombardo Radice, e ne paga qualche conseguenza). Per non parlare di quello che pubblicano i maggiori quotidiani, quello che scrivono commentatori di prestigio, inviati, giornalisti di ogni ordine e grado; per non dire di quello che non vogliono pubblicare (pur avendolo fatto fino al giorno prima): la decisione di “staccare la spina”, interessante osservare chi impartisce quell’ordine. Chi c’era li ricorda senz’altro, quei 55 giorni opprimenti e cupi. Leonardo Sciascia e i pochi che osano dissentire da questa cosiddetta “fermezza” (in realtà, è immobilismo: in attesa del morto, che infine arriva), sono additati come complici conniventi con il terrorismo brigatista. Sciascia si trova incollato lo slogan-programma che non gli appartiene: “Né con lo Stato, né con le Br”. Invano cerca di spiegare che lui è contro le Br e contro “quello” Stato che condanna a morte Moro. Non una parola, su questo, da Veltroni. Il nome di Sciascia non lo pronuncia nemmeno. E sì che tanti dovrebbero chiedergli finalmente scusa, riconoscere che lui aveva ragione e loro torto. Ora, Veltroni riconosce che «c’erano due fermezze. Quella politica, condivisa da quasi tutti i partiti, e quella opaca, il cui scopo era che Moro non tornasse». Ora. Non è mai troppo tardi, s’usa dire; l’amarezza, comunque, quella c’è tutta. Esilarante, non fosse tragico, un altro passaggio dell’intervista. Cappellini chiede: c’è l’incredibile vicenda della seduta spiritica cui parteciparono alcuni illustri professori, tra cui Romano Prodi, e che diede l’indicazione “Gradoli”, poi girata agli inquirenti. Lei ci crede? Edificante risposta: «L’autorevolezza e l’onestà delle persone che hanno partecipato a quella seduta mi porterebbe a pensare che le cose siano andate come hanno raccontato. Ma certo non è facile farlo. E poi comunque le ricerche si fecero nel paesino di Gradoli, anziché nella omonima via di Roma». Dunque, Veltroni, per l’autorevolezza e l’onestà delle persone che hanno partecipato a quella seduta spiritica (Romano Prodi, Mario Baldassarri, Alberto Clò, tra gli altri), pur se non è facile, è portato a credere che le cose siano andate come hanno raccontato. Qui un episodio vissuto in prima persona. La scena ha luogo a Perugia, carcere di Capanne. Si celebra il processo per il delitto di Mino Pecorelli, Giulio Andreotti è imputato quale mandante. In una pausa dell’udienza, i giornalisti chiedono ad Andreotti qualche commento sul processo e il suo svolgimento. L’inviato del “Tg2” (cioè chi scrive), “stecca”, quella mattina è altro che gli preme. Chiede ad Andreotti della seduta spiritica. Imperturbabile, risponde: «Lo sanno tutti che si trattava di un artificio per coprire una fonte di Autonomia di Bologna». L’inviato, insiste: Prodi parla di seduta spiritica… Ineffabile Andreotti: «C’era Prodi? Non me lo ricordavo…». Presidente, devo credere davvero che lei non ricorda? «Lei creda quello che vuole», dice Andreotti con un sorriso. «Questo non mi impedirà di andare tranquillo a pranzo». Intervista finita. Andata in onda un paio di volte, nel corso di notiziari e trasmissioni del “Tg2”. Nessuna reazione. E nessuna significa, letteralmente, nessuna. Ora Veltroni sillaba: «Non credo all’epoca si avesse percezione di tutti quei centri di potere occulto, uno Stato che aveva il marcio dentro». No, caro Veltroni: qualcuno la percezione che ci fosse del “marcio dentro” lo Stato l’ha avuta, l’aveva: Sciascia; i radicali; i socialisti, il giornale Lotta Continua, alcuni vescovi…pochissimi altri. Sono stati silenziati e diffamati. Era contro il “marcio” dentro quello Stato che ci si batteva. Per questo il linciaggio, l’omertoso silenzio, la colpevole inerzia. Valter Vecellio

Aldo Moro e Giuseppe Saragat di fronte alla strage di piazza Fontana. Miguel Gotor su L'Espresso il 12 maggio 2021. Lo statista democristiano e la svolta a destra impedita, il ruolo del Quirinale e dei servizi inglesi: un passaggio drammatico nella storia repubblicana. Aldo Moro nel memoriale scritto durante la prigionia nella primavera 1978 sostenne di essere stato raggiunto dalla notizia della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 mentre si trovata a Parigi e di avere avuto subito la certezza che la pista da indagare fosse quella neo-fascista, funzionale a determinare una svolta reazionaria in Italia. Il prigioniero con la sua testimonianza ai brigatisti parve anticipare una versione della crisi del dicembre 1969 che sarebbe stata divulgata nell’ottobre 1978 dal giornalista Fulvio Bellini, il quale pubblicò il volume “Il segreto della Repubblica. Aldo Moro, l’affare di Piazza Fontana e la strategia del terrore. Il ruolo di Giulio Andreotti”, con lo pseudonimo di Walter Rubini. In base all’interpretazione di Bellini, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e quello del Consiglio Mariano Rumor avrebbero avallato, nel corso dei mesi precedenti la strage, una strategia della tensione a bassa intensità che non prevedeva la realizzazione di stragi con morti, ma una serie di piccoli attentati con lo scopo di fare salire la temperatura politica e sociale nel Paese così da favorire lo scioglimento anticipato delle Camere, nuove elezioni e una forma di governo centrista con l’appoggio della destra. In effetti, nei mesi precedenti la strage di piazza Fontana, si erano registrate in Italia una ventina di esplosioni senza vittime e anche il 12 dicembre, su cinque bombe, soltanto l’ordigno di Milano provocò diciassette morti come se i neo-fascisti di Ordine Nuovo avessero voluto improvvisamente forzare la mano per radicalizzare lo scontro in atto. In base alla versione di Bellini, Moro avrebbe incontrato il presidente della Repubblica Saragat alla vigilia di Natale del 1969. Nel corso dell’acceso colloquio egli avrebbe adombrato un deferimento alla Corte costituzionale del Capo dello Stato, accusandolo di volere promuovere una «svolta presidenzialista». L’incontro si sarebbe concluso con un compromesso istituzionale tra le due personalità per governare gli esiti imprevisti della strage di piazza Fontana: Saragat si sarebbe impegnato a non sciogliere le Camere e avrebbe accettato il sostanziale fallimento del progetto di cambiamento istituzionale e il ritorno di un governo di centro-sinistra al potere; Moro avrebbe concesso la disponibilità sua e del proprio partito a coprire la matrice fascista della strage, avvalorando la pista anarchica, come, di fatto, sarebbe accaduto negli anni seguenti. Saragat e Moro, dunque, avrebbero stabilito un «patto del silenzio», rivelato per la prima volta da Bellini nel suo “Il segreto della Repubblica”. A suggello di questo compromesso il “moroteo” Luigi Gui avrebbe dovuto lasciare il ministero della Difesa e, quindi, il controllo politico dei servizi segreti militari a un esponente socialdemocratico, ossia dello stesso partito di Saragat. Non siamo in grado di stabilire se l’incontro tra Saragat e Moro ebbe realmente questo delicatissimo contenuto e, quindi, dobbiamo limitarci a individuare dei riscontri esterni che lo possano rendere plausibile. Anzitutto occorre registrare che alle ore 18 del 23 dicembre 1969 le due personalità s’incontrarono effettivamente a Castel Porziano come attestato dal diario storico del Quirinale, in una data perciò collimante con quella suggerita da Bellini già nel 1978. Inoltre, nel marzo 1970, in occasione del varo del terzo governo guidato da Rumor, il socialdemocratico Tanassi sostituì per davvero il democristiano Gui alla guida del dicastero della Difesa. Infine, soltanto in modo indiretto possiamo ricostruire il pessimo stato dei rapporti tra Saragat e Moro in quei giorni drammatici grazie al racconto dell’ambasciatore presso la Nato Manlio Brosio che una settimana più tardi, il 30 dicembre 1969, si recò in visita dal presidente della Repubblica riportando la seguente testimonianza: Saragat «ammette che si è riavvicinato a Fanfani contro Moro: “Ma il solo fatto che io mi sia riaccostato a quel cialtrone di Fanfani ti dice quanto grave sia la situazione”. Contro Moro è accanitissimo: “Di una passività assoluta, non è lecito governare così”». Anche dalle considerazioni dei numeri uno e due dei servizi segreti militari della prima metà degli anni Settanta, i generali Vito Miceli e Gianadelio Maletti, si possono ricavare conferme del racconto di Bellini. Ad esempio Miceli, intervistato nel 1975 da Lino Jannuzzi sull’Espresso, affermò in modo allusivo e ricattatorio: «Chiedete a Saragat, chiedete a Moro, domandategli di sciogliermi dal segreto militare, e io vi racconterò che cosa ho ereditato da Henke e che cosa Henke ha fatto come me e prima di me sotto l’ombrello di Saragat al Quirinale e di Moro a Palazzo Chigi». Molti anni più tardi Maletti, dal 1980 rifugiatosi in Sudafrica per sottrarsi al carcere, in un libro intervista del 2010, sostenne che, rispetto alla strage di piazza Fontana, «c’era in atto, in Italia, una precisa strategia americana: sono certo che sia il capo dello Stato [Saragat] sia Andreotti ne fossero al corrente». A proposito di queste impegnative rivelazioni è interessante notare che Bellini, interrogato dal magistrato Guido Salvini nell’aprile 1997, dichiarò di avere scritto il libro grazie alle informazioni ricevute, all’indomani della strage di Milano, da un giornalista inglese che sapeva essere un agente dei servizi britannici. A suo dire in quei mesi «vi era stato un grosso scontro istituzionale in sostanza fra l’area che aveva fatto capo a Saragat, definibile come Partito americano, e l’area che aveva fatto capo a Moro, scontro che aveva avuto il suo epilogo qualche giorno prima di Natale». Il presidente del Consiglio Rumor, «il quale inizialmente faceva parte dell’area del Partito americano», aveva rinunciato a dichiarare lo stato di emergenza e a sciogliere le Camere e si era alleato con Moro contribuendo a fare prevalere «questa seconda linea che aveva dalla sua parte la possibilità di mettere sul tavolo i primi risultati delle indagini delegate dal Ministro della Difesa Gui, molto vicino a Moro, al controspionaggio militare e ai carabinieri e che stavano portando alla evidenziazione della responsabilità di gruppi di estrema destra». Per avvalorare tali informazioni il giornalista inglese gli mostrò un articolo del The Observer del 14 dicembre 1969, in cui si sosteneva la matrice neofascista della strage e si utilizzava per la prima volta l’espressione «strategy of tension». Egli aggiunse che «non era un semplice commento giornalistico, ma una sorta di presa di posizione ufficiale ben comprensibile negli ambienti politico-diplomatici, che intendeva disapprovare la possibile destabilizzazione del nostro Paese a seguito di un eventuale scioglimento delle Camere. Ciò era stato ben compreso ed era per queste ragioni che Saragat, stizzito, aveva indotto il Governo a una protesta diplomatica», effettivamente inoltrata dall’ambasciatore a Londra Raimondo Manzini, il quale costrinse il Foreign Office a una smentita. Uno dei tre autori dell’articolo, Neal Ascherson, ha sostenuto nel 2014 in un’intervista alla giornalista Simona Zecchi che il contenuto del pezzo gli fu suggerito da due colleghi dell’Espresso, Antonio Gambino e Claudio Risé, i quali si sarebbero serviti di lui come cassa di risonanza internazionale per evitare di incorrere in Italia nel reato di calunnia. A questo riguardo, nel 1975, l’ormai ex presidente della Repubblica Saragat, polemizzando proprio con L’Espresso, asserì, evidentemente a ragion veduta, che l’articolo del The Observer fosse stato in realtà scritto nella libreria Feltrinelli di via del Babuino a Roma. In tutta evidenza «l’operazione Bellini» fu alimentata da un gioco di sponda dal sapore spionistico lungo l’asse Roma-Londra. Del resto, lo stesso Bellini nel 1997 affermò che, nel corso della Resistenza, aveva avuto delle esperienze sia con agenti segreti statunitensi sia inglesi, ma che per sua «simpatia nei confronti di questi ultimi, cioè gli inglesi, dopo la guerra aveva rifiutato la Bronze Star americana». A prescindere dalla veridicità dei contenuti propalati, la prolungata azione di Bellini, intrecciata a quella del The Observer, individuò un duplice bersaglio: gli Stati Uniti di Richard Nixon, in carica dal 20 gennaio 1969 al 9 agosto 1974, unico presidente della plurisecolare storia americana costretto alle dimissioni, e l’Italia del capo dello Stato Saragat, in carica fino al dicembre 1971, un politico antifascista di antica e provata fede atlantica. In questo modo si volle avvisare l’opinione pubblica internazionale di quanto stava accadendo nella penisola ma anche distogliere ogni eventuale sospetto da un possibile ruolo britannico e offrire, con l’espressione «strategia della tensione», una chiave di lettura destinata a una duratura e controversa fortuna interpretativa per provare a spiegare l’onda stragista di matrice neo-fascista che colpì l’Italia dal 25 aprile 1969, con l’attentato senza morti della Fiera di Milano, fino al 3 agosto 1974, quando saltò in aria una carrozza del treno «Italicus», provocando dodici vittime.

Maria Antonietta Calabrò per formiche.net l'11 maggio 2021. “Corrado Corghi? Sì, ricordo che questo nome me lo ha fatto Curioni”. Monsignor Fabio Fabbri per molti anni braccio destro del Capo dei cappellani delle carceri, monsignor Cesare Curioni, conferma il ruolo svolto per tentare di liberare Moro da parte di Corghi, una figura di spicco del mondo cattolico, dal Dopoguerra agli anni Ottanta. Corghi era di Reggio Emilia. Di lui si conosceva la propensione al dialogo con brigatisti storici come Alberto Franceschini, Franco Bonisoli, Roberto Ognibene e il carceriere di Moro, Prospero Gallinari. Tutti anche loro originari di Reggio Emilia. Finora, c’erano state ricostruzioni sul fatto che Corghi aveva cercato, arrivando a Roma, di interessare i ministri dell’epoca ad una trattativa. Ma non c’era stato ancora un testimone diretto che affermasse che Corghi poi abbia effettivamente avuto a che fare con la trattativa per Moro, e che questa trattativa gestita da don Curioni e che potremmo chiamare “vaticana” (che chissà perché ancor oggi alcuni esponenti negano), sia andata avanti a lungo, fino al giorno dell’esecuzione dello statista Dc, cioè il 9 maggio di 43 anni fa. Ha dichiarato monsignor Fabbri a chi scrive nell’aprile 2021: “Sì, monsignor Curioni mi disse che Moro stava per essere liberato che per questo era vestito di tutto punto perché dove la visita medica al Policlinico Gemelli avrebbe dovuto andare in Vaticano. Quello che non mi spiego è che cosa c’entrasse il Cile”. Il Cile, all’epoca, già in piena era Pinochet. Ma questo combacia con il contenuto di quanto il presidente del Consiglio Giulio Andreotti affermò il 21 maggio 1978 durante il Consiglio dei ministri e riportato nel verbale pubblicato, a 43 anni di distanza, da Miguel Gotor in una intervista a repubblica.it: “Un’ultima osservazione [intendo fare]: noi abbiamo fatto molto di più di quello che è apparso per liberare Moro (attività Gheddafi-Arafat) anche con trovate particolari con denaro e anche con proposte di scambi in altri Paesi (Cile). Il rimprovero ai socialisti non è quello di avere cercato una strada ma di averla pubblicizzata”. Secondo Andreotti alludeva a uno scambio di prigionieri. “Credo che il riferimento – ha detto nell’intervista – sia al tentativo di liberare un prigioniero politico cileno rinchiuso nelle carceri del regime di Pinochet avviando così uno scambio di ostaggi come avvenne nel 1973 fra Breznev e Pinochet”. Oggi possiamo dire che fu Corghi a intavolare quella trattativa con il Paese Sudamericano. Altra coincidenza è che don Fabio Fabbri ha parlato dell’ultima prigione di Moro solo dopo che Corghi (classe 1920, partigiano bianco) è morto a 96 anni nell’ottobre 2017. È di due mesi dopo, 6 dicembre del 2017, infatti la deposizione di monsignor Fabbri (subito secretata) davanti agli investigatori della Commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni, don Fabio Fabbri afferma: “Voglio riferire un aspetto su cui mi riferì Curioni. Nei risvolti dei pantaloni dell’on. Moro al momento del ritrovamento del suo cadavere, fu rinvenuto del terriccio che io so essere del terriccio riconducibile ad una cantina di un’ambasciata che all’epoca trovava sede nei pressi di via Caetani. Ambasciata attualmente non più attiva”. Secondo la ricostruzione basata su riscontri delle fonti diplomatiche dell’epoca, pubblicata nel libro di cui sono coautore insieme a Giuseppe Fioroni, presidente della Commissione Moro 2, si trattava della cantina dell’allora residenza dell’ambasciatore del Cile, presso la Santa Sede. Corghi era stato da giovane un partigiano bianco e portalettere di fiducia di Dossetti al Cln, nel dopoguerra entra nella direzione nazionale dell’Azione Cattolica per poi impegnarsi nella Dc, partito da cui uscirà nel 1968 su posizioni di contestazione radicale. Amico del cardinal Pignedoli, originario di Felina, conosciuto durante il conflitto, nel 1943. Il porporato, vicinissimo a Giovan Battista Montini, futuro Paolo VI. Con un altro emiliano illustre, Ermanno Gorrieri, Corghi tesse le fila di una rete di resistenza atlantica in chiave anti-sovietica, la base della rete che conosceremo negli anni Novanta con il nome Stay Behind. Maestro di Castagnetti e Bonferroni. Corghi divenne in seguito un esperto di America Latina sulla quale ha scritto numerosi saggi con particolare attenzione ai problemi dello sviluppo post conciliare della Chiesa e delle ribellioni a “sinistra” della Dc. Fu inviato dal Vaticano a Cuba. Fu grazie la lui che venne liberato il regista francese Regis Debray. Ebbe fortissimi rapporti con il Cile di Salvador Allende, a quello che aveva ribattezzato “nuovo Cile”, cui aveva dedicato un libro pubblicato da Feltrinelli nel giugno del 1973, pochi mesi prima del golpe militare di Pinochet. Ma Corghi continuerà a seguire le vicende del Cile anche dopo il golpe e per conto anche dell’ex sindaco di Firenze La Pira che aveva accompagnato nel Paese sudamericano per la cosiddetta “Operazione verità” voluta da Allende. È emerso solo relativamente di recente, dagli archivi della Stasi (il servizio segreto della ex Ddr) nel 2005, che il Cile (con il Sudafrica) era la nazione in cui la Stasi aveva la maggiore penetrazione al mondo, fino agli anni ’90. Così come sappiamo solo oggi sappiamo che Salvator Allende era strettamente supportato ma anche monitorato dalla Stasi. E che la rete di Markus Wolf (“Il Lupo”), che in Europa controllava il terrorismo palestinese e la Rote Armee Frackion, rimase nel Paese, sudamericano anche dopo il golpe militare di Pinochet. Tanto che Erich Honecker, capo della Ddr dal 1971, in fuga da Berlino Est dopo la caduta del Muro (1989), trovò rifugio proprio in Cile, dove lo aveva preceduto la moglie e dove morì nel 1994, con Pinochet ancora al potere. Nelle testimonianze rese alla Commissione Moro 2 il 31 maggio e il 7 giugno 2017 dal professor Gaetano Lettieri, figlio di Nicola Lettieri, sottosegretario al ministero dell’Interno, responsabile dell’unità di crisi per la ricerca di Aldo Moro, ha riferito che nei dialoghi in famiglia, sia pure senza particolari esplicativi, il padre si riferì alla prigione di Moro con questa frase: “Ci stavamo seduti sopra”. E in effetti Palazzo Ruggeri si trova sul corso Vittorio Emanuele vicinissimo a piazza del Gesù, sede della Dc. Via Caetani è una traversa di via delle Botteghe Oscure che si trova in senso opposto rispetto alla direzione che porta a piazza del Gesù e fu scelta perché verosimilmente molto vicina all’ultima prigione e al luogo dell’esecuzione, e immediatamente raggiungibile, senza particolari rischi, per gli assassini. Basta girare l’angolo e percorrere non più di centocinquanta metri. Ma monsignor Fabbri aggiunge oggi anche un altro particolare: “Moro, mi disse Curioni, era stato vestito di tutto punto, perché stava per essere liberato, proprio quel 9 maggio. Così sapevano Curioni e il Vaticano”. Insomma, sembra proprio che il destino di Aldo Moro non fosse stato “predestinato” fin dall’inizio. Cosa sia accaduto alla fine, nelle ultime ore, dipende da chi effettivamente lo ha ucciso. Perché la versione dei fatti rese dai brigatisti anche sull’assassinio è lacunosa e contraddittoria rispetto ai nuovi risultati d’indagine che sono stati possibili grazie ai nuovi metodi della polizia scientifica, agli accertamenti del Ris dei Carabinieri, alla perizia balistica svolta – solo nel 2016 – sull’arma che (dopo i primi colpi della mitraglietta Skorpion) lo fece morire con una lenta agonia (non una morte sul colpo, ma quasi un’ora di lento dissanguamento). La perizia balistica su quell’arma risale solo al 2016, cinque anni fa. Si tratta di una PKK, volgarmente nota come P38.

Quella mancata irruzione nella prigione brigatista che avrebbe salvato Moro. Il racconto sul sequestro Moro, fatto, il 4 maggio scorso, dal generale, Antonio Cornacchia, allora a capo del nucleo investigativo dei Carabinieri di Roma. Francesco Damato su Il Dubbio l'8 maggio 2021. Alla celebrazione dei 43 anni dalla morte di Aldo Moro, ucciso dalle brigate rosse il 9 maggio 1978 dopo 55 giorni di prigionia, ha voluto partecipare anche Walter Veltroni, che allora aveva solo 23 anni e già si prenotava inconsapevolmente alla carica di sindaco d Roma nei panni di consigliere comunale. Lo ha fatto raccogliendo in un libro le interviste raccolte per il Corriere della Sera sul sequestro appunto di Moro in questo suo ritorno al giornalismo propedeutico – secondo i soliti, maliziosi retroscenisti- ad una partecipazione alla prossima edizione della corsa al Quirinale. A introdurre le interviste sono riflessioni molto amare su quel tragico passaggio della storia della Repubblica. «Troppi silenzi e troppi morti in questa, ahimè, classica storia italiana della tanto ingiustamente rimpianta prima Repubblica. Tutto strano, tutto sporco», ha scritto Veltroni, ma senza autocritiche, o non abbastanza avvertibili, per il contributo, quanto meno, fornito dal suo partito all’epilogo di quella tragedia, con tutti i misteri nei quali è ancora avvolto dopo tante inchieste giudiziarie e parlamentari. Alla cui parzialità non certo Veltroni personalmente, per il ruolo che aveva allora, ma di sicuro il suo partito – il Pci- ha contribuito avendo omesso di rilevare, chiarire e quant’altro cose che i suoi dirigenti non potevano ignorare per il peso che avevano dentro l’allora maggioranza di governo. E non certamente dietro le quinte, per quanto Andreotti avesse appena formato il suo quarto governo deludendo le attese che aveva alimentato alle Botteghe Oscure. Dove si aspettavano quanto meno l’esclusione dal monocolore democristiano di due ministri di cui erano state reclamate le teste salvate invece all’ultimo momento proprio da Moro: Antonio Bisaglia e Carlo Donat- Cattin, in ordine rigorosamente alfabetico. Probabilmente Enrico Berlinguer avrebbe disposto non più la fiducia concordata in lunghe trattative ma il ritorno all’astensione se il sequestro del presidente della Dc la mattina del 16 marzo non avesse creato quelle condizioni di eccezionalità in cui la fiducia di entrambe le Camere, non di una sola, fu concessa in 24 ore, come in una sfida ai terroristi mossisi anche per far tornare il Pci all’opposizione e all’obiettivo “tradito” della rivoluzione. Ricordo ancora nitidamente quella sera in cui il comune amico Enzo Bettiza mi raccontò a cena – e avrebbe poi ripetuto in uno dei suoi libri- di essere andato a trovare in mattinata il ministro dell’Interno Francesco Cossiga, al Viminale, e di averlo visto e sentito deferente e quasi intimidito al telefono con Ugo Pecchioli. Che seguiva la gestione del sequestro Moro e delle ricerche per conto del Pci reclamando informazioni sempre più precise. Lo stesso Cossiga, imbarazzato, avrebbe invitato l’ospite e amico a rendersi conto di quanto difficile fosse diventato il suo ruolo. In prossimità del 43.mo anniversario della morte e del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel bagagliaio dell’auto in cui era stato assassinato, e poi posteggiata a metà strada fra le sedi della Dc e del Pci con quella «lingua metà intrisa di sangue, indice di un’agonia non breve», avendo «sofferto dai 15 minuti prima di spirare», secondo chi ne avrebbe poi eseguito l’autopsia- sentite che cosa ha raccontato al Tempo il 4 maggio scorso il generale in pensione Antonio Cornacchia, allora colonnello a capo del nucleo investigativo dei Carabinieri di Roma: «Al Viminale sapevano dov’era la prigione, l’aveva scoperta il generale dalla Chiesa. Lui aveva allestito Unis, un contingente di 30 paracadutisti che aspettavano in via Aurelia, in attesa di avere l’ok per entrare in azione e liberare Moro» nella non lontana, peraltro, via Montalcini. Caspita. Perché l’operazione non fu eseguita? «Fu un’attesa vana. Andreotti – ha raccontato il generale- non diede mai via libera e cercò di occultare la documentazione relativa. Ma gli incartamenti sono stati trovati dal tribunale dei ministri nel 1996, solamente che il Senato», dove Andreotti era approdato nel 1991 col laticlavio concessogli al Quirinale da Cossiga, «non concesse l’autorizzazione a procedere». Sorge a questo punto il sospetto che fossero proprio le carte su quell’operazione così ben preparata ma non eseguita che la mattina del 4 settembre 1982 agenti dei servizi segreti cercarono e portarono via dalla cassaforte dell’alloggio siciliano assegnato al generale dalla Chiesa, ucciso la sera prima dalla mafia nelle sue nuove funzioni di prefetto di Palermo. Dove si sperava che riuscisse a replicare contro la mafia, appunto, i successi conseguiti nella lotta al terrorismo, a parte – ripeto- le mani legategli per l’assalto al covo dove Moro viveva i suoi ultimi giorni, promosso addirittura a “prigione del popolo” dai suoi sequestratori. Neppure se fosse vera la leggenda sentita con le mie orecchie una volta alla Camera di un’operazione ritardata, e poi vanificata dalla morte dell’ostaggio, per la paura dei familiari di Moro di vederlo soccombere nell’assalto, preferendo quindi una liberazione negoziata, quella avrebbe potuto essere una ragione per rinunciarvi. Che razza di linea della fermezza era allora quella gridata ai quattro venti dal governo e giustamente liquidata da Cornacchia, pur partecipe della sua applicazione, come “un’assurdità”, anche perché «decisa e proclamata quando ancora le brigate rosse non avevano rivendicato l’agguato di via Fani»? Non parliamo infine di quel pacco di 10 miliardi di lire che il 6 maggio del 1978 Cornacchia andò a ritirare a Castel Gandolfo, con l’ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, don Cesare Curione, e padre Enrico Zucca, dalle mani del segretario di Papa Paolo VI, monsignor Pasquale Macchi, destinati a pagare il riscatto di Moro. Ma alle 19,35 – ha raccontato il generale- il segretario del Pontefice ricevette una telefonata che gli impedì, pallido in volto, di completare la consegna.

Manuel Fondato per "il Tempo" il 4 maggio 2021. Antonio Cornacchia, generale in congedo dei Carabinieri, nel 1978, da colonnello, comandava il Nucleo investigativo di Roma dell'Arma. Ha indagato sul Caso Moro (fu lui ad aprire la Renault 4 rossa in via Caetani), sul delitto Pecorelli, sulla Banda della Magliana. Su questi argomenti ha pubblicato diversi libri, di cui l'ultimo, Giustizia non fatta, tratta le contraddizioni e i lati oscuri del rapimento e l'uccisione dello statista.

Generale, partiamo dall'arresto in Francia degli ex terroristi. Cosa ha provato a questa notizia?

«"Finalmente", ho pensato e subito dopo alle loro vittime. stata una bella giornata di giustizia, che diventa spesso un miraggio. L'intervento del governo francese smentisce finalmente Mitterand e la sua dottrina. Ora però bisogna andare a fondo e non vanificare questi arresti».

Torniamo a quel 9 maggio 1978, in cui lei è tra i primi a intervenire in via Caetani.

«È stato un giorno molto doloroso, avevo conosciuto Moro personalmente 10 anni prima, il 21 marzo 1968, quando venne a trascorrere la festività di San Benedetto a Norcia, dove ero comandante della Tenenza dei Carabinieri. Mai avrei immaginato che sarebbe toccato a me rinvenirlo cadavere. Mi trovavo a Trastevere, in Piazza Ippolito Nievo, la radio mi cercò chiamando Airone 1, il mio nome in codice. Era il colonnello Gerardo De Don no, che mi avvertiva di una macchina sospetta in via Caetani. La raggiunsi in pochi minuti, a quel tempo non c'erano macchine, abitazioni, c'era solo un passaggio pedonale. Via Caetani era anche la sede della discoteca di Stato, interrogai gli impiegati che lavoravano lì e riuscii a collocare alle 8 meno 6 minuti l'orario esatto in cui i brigatisti parcheggiarono la Renault 4, occupando il posto riservato normalmente all'auto del funzionario. L'abitacolo dell'auto era completamente vuoto, notai un plaid che copriva qualcosa di voluminoso nella parte posteriore. Non toccammo nulla in attesa degli artificieri, che però tardavano ad arrivare. Presi allora un rudimentale piede di porco, aprendo il cofano posteriore notai il presidente. Non dimenticherò mai il suo labbro, la lingua metà intrisa di sangue, indice di un'agonia non breve. Secondo l'autopsia soffrì dai 10 ai 15 minuti prima di spirare».

La linea della fermezza era giusta? Uno Stato può trattare con dei criminali?

«Le linea della fermezza era un'assurdità, ancora più assurdo che fosse stata decisa e proclamata il 16 marzo quando ancora le BR non avevano rivendicato agguato di via Fani».

Le indagini non produssero molto. Si poteva salvare Moro attraverso un utilizzo mi Fiore delle Forze di Polizia?

«Noi Carabinieri navigammo nel buio, le indagini di polizia giudiziaria non avevano le tecnologie moderne, le indagini erano molto basate sull'empirismo, si zappava l'orto sul campo, come dicevamo tra noi. Mi resi presto conto pere) che molti remavano contro di noi e la Digos».

Dove sedevano quelli che remarono contro?

«Al Viminale crearono rapidamente tre comitati di crisi, di cui uno formato da esperti. Tra loro anche il professor Franco Ferracuti. Lui lo conoscevo bene, in quanto criminologo, assistente del professor di Tullio. Entrambi erano insegnanti di antropologia criminale alla Scuola Ufficiali dei Carabinieri. Anni dopo Franco si aprì con me confessandomi che la linea iniziale del Comitato era quella di temporeggiare per poter contattare e scendere a patti con i vertici delle Br. Ma Andreotti e il Partito Stato non furono d'accordo. Il 18 aprile ci fu la certezza che Moro non sarebbe uscito dalla prigione, quel giorno fu un susseguirsi di coincidenze, ma io credo solo a quelle ferroviarie. La mattina si individua il covo di via Gradoli 96 interno 11 residenza di Moretti e Balzerani. Mi chiame) il comandante dei vigili del fuoco Elveno Pastorelli, arrivai per primo, con il collega Antonio Varisco e attendemmo Domenico Spinella capo della Digos, con cui procedemmo alla perquisizione e al ritrovamento di materiale fondamentale per le indagini. Mi chiamarono per recarmi nel lago della Duchessa, ma io lo conoscevo bene e sapevo che era gelato per molti mesi l'anno, quindi scelsi di rimanere a via Gradoli. Segui il finto comunicato, fatto da Chichiarelli, falsario della Banda della Magliana, che gli esperti ritennero vero. Pecorelli su OP disse subito invece che era falso. Andreotti a Tribuna Politica su Rai 2 ribadì ancora la fermezza. Al termine di quella giornata ebbi la consapevolezza che per Moro non c'era più nulla da fare».

Cossiga soffrì particolarmente, anche dal punto di vista fisico, l'impossibilità di salvare Moro. Lei ebbe modo di incontrarlo spesso. Come visse quei 55 giorni, colui che, dopo Andreotti, era l'uomo con più potere in quel momento?

«Cossiga voleva salvare Moro. Al Viminale sapevano dov'era la prigione, l'aveva scoperta il Generale Dalla Chiesa. Lui aveva allestito Unis, un contingente di 30 paracadutisti che aspettavano in via Aurelia, in attesa di avere l'ok per entrare in azione e liberare Moro. Fu un'attesa vana. Andreotti non diede mai il via libera e cercò di occultare la documentazione relativa a questa operazione. Ma gli incartamenti sono stati trovati dal Tribunale dei Ministri nel 1996, solamente che il Senato non concesse l'autorizzazione a procedere».

Chi altro tentò realmente di fare qualcosa di concreto per Moro?

«Sua Santità Paolo VI. Il 6 maggio, tre giorni prima del ritrovamento del corpo, mi recai a Castel Gandolfo con l'ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane don Cesare Curione e padre Enrico Zucca, cappellano anche del Noto Servizio cosiddetto anello, un servizio segreto parallelo: 167 uomini di cui si servirono tre presidenti del consiglio: Andreotti, Forlani e in parte anche Craxi. Incontrammo il segretario di Paolo VI monsignor Pasquale Macchi. Era pronto un involucro con 10 miliardi di lire, che servivano a pagare il riscatto per la liberazione di Moro. Alle 19:35 squillò il telefono, Macchi andò a rispondere, tornò pallido e disse: "Ci hanno precluso di consegnare questo riscatto". Anni dopo seppi che era stato un elemento della loggia di Cristo Re in Paradiso, verosimilmente il dietrofront venne quindi dal Vaticano stesso, che proibì al Papa di salvare Moro. Il presidente non lo seppe mai, infatti scrisse: "Il Papa ha fatto pochino", invece il Papa fece tanto. Andreotti rimprovererà, se pur diplomaticamente, questa ingerenza».

A chi faceva comodo la morte di Moro?

«La morte di Moro faceva comodo a tante persone. L'Italia aveva perso la guerra e ci eravamo illusi di sederci ai tavoli alla pari con gli alleati, invece dovevamo sottostare a certe condizioni, una di queste era che il Pci, il più grande dell'Occidente, stesse fuori dalle stanze dei bottoni. Anche l'Unione Sovietica era contraria al fatto che un partito comunista potesse "democratizzarsi". Moro nel 1974 fu avvisato chiaramente durante il suo viaggio negli Stati Uniti che ci sarebbero state reazioni se avesse continuato ad avvicinarsi al Pci. Un funzionario americano a Roma, si riferì alla moglie di Moro, Eleonora, prefigurandole lo stesso destino di vedova di Jackie Kennedy».

Lei ha indagato anche sull'omicidio Pecorelli. La sua morte è connessa a quello che sapeva su Moro?

«Pecorelli ha pagato con la vita la sua ricerca della verità, toccando anche il partito a cui era vicino, la Dc, toccando chi gli dava informazioni, chi lo aveva sostenuto, OP. Pecorelli non guardava in faccia nessuno. Era andato a fare dichiarazioni in procura, mai rese note, il giorno in cui fu poi assassinato. Ho indagato per 7 mesi, sull'omicidio, ero presente in via Orazio quando trovammo il corpo; grazie alle indicazioni di Varisco, ucciso anche lui poco dopo, ho ricostruito l'identikit del killer che uccise con 4 colpi il giornalista. Sono ancora in attesa che la Procura mi risponda su alcuni temi che posi ai tempi».

Il ruolo della P2 è stato sovrastimato o fu reale?

«La vicenda Moro viene definita sempre come un mistero, ma il mistero appartiene a un'altra categoria, mentre invece si tratta di un punto interrogativo al quale si continua a non voler rispondere. Io sono un avversario della dietrologia, nel caso Moro si usa sempre la dietrologia. Alcuni miei superiori erano iscritti alla P2, ma quello che Posso dire è che nessuno di loro mi ha mai dato indicazioni contrarie al corso corretto delle indagini, non ho mai avuto modo di dubitare di loro. Una volta Gelli mi disse: per sapere la verità su Moro bisognerà aspettare anni, quando saremo tutti morti, compresi io e lei».

Walter Veltroni, il saggio su Moro. L’istante in cui cambiò l’Italia. Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 2 maggio 2021. Pubblichiamo parte dell’introduzione del libro in edicola e in libreria dal 6 maggio per Solferino. Una raccolta di testimonianze sugli eventi degli anni di piombo. La «Fiat 130» berlina su cui viaggiava l’onorevole Aldo Moro subito dopo l’agguato in via Fani, a Roma, il 16 marzo 1978. Quell’automobile traforata di colpi, quei giornali sparsi sul sedile posteriore, quel corpo coperto da un lenzuolo, quel rivolo di sangue che attraversa l’asfalto di via Fani. Immagini, impresse nella nostra memoria, che scandiscono un passaggio d’epoca. Come Jacqueline Kennedy che cerca di afferrare, sul cofano posteriore della Lincoln Continental (un marchio che era un presagio), i brandelli del cervello del marito, come Ceausescu che ascolta sorpreso i fischi giungere dalla folla che lo aveva sempre idolatrato, come l’arrivo del secondo aereo, inquadrato dal basso, che si abbatte contro una delle Torri gemelle. Sequenze di pochi frames nelle quali è racchiuso il farsi del tempo storico, il passaggio da un’epoca all’altra. Come aver assistito in diretta alla Notte dei cristalli o all’assassinio di Francesco Ferdinando a Sarajevo (un luogo che era un presagio). Quel giorno, il più importante della storia italiana del dopoguerra, con la strage della scorta di Aldo Moro e il suo rapimento, il corso della vicenda politica e istituzionale di questo Paese è cambiato. Esiste, come per i grandi passaggi d’epoca, un prima e un dopo. Pochi secondi e tutto cambia, per anni. C’è qualcosa di chirurgico, in azioni come quelle di via Fani. Si colpiscono degli esseri umani, in primo luogo gli agenti di scorta, e quelle pallottole fanno un giro complicato, con traiettorie che sembrano impossibili. Ma arrivano dove devono arrivare. Quei colpi sparati dalle mitragliette dei brigatisti volano fino a piazza del Gesù, dove colpiscono Benigno Zaccagnini e poi sterzano repentinamente verso via delle Botteghe Oscure dove, al secondo piano, lavora nel suo ufficio Enrico Berlinguer. Un intero disegno politico, durato anni, va in frantumi distrutto da quelle pallottole. Doveva essere, nelle intenzioni di Aldo Moro, una seconda fase della storia repubblicana in cui la collaborazione tra i due grandi partiti — che avevano raccolto, alle elezioni del 1976, il 73 per cento dei voti degli italiani — si rendeva obbligatoria, per governare il Paese. Certo, la Dc avrebbe ancora potuto cercare di dar vita a un quadripartito tradizionale, ma il Psi non era disponibile. L’Italia era spaccata a metà e Moro voleva uscire dalle sabbie mobili della fase degenerativa di un centrosinistra che si dibatteva tra instabilità e inefficienza. (...) È tutto strano, tutto sporco, nella vicenda Moro. Nessuno, dopo più di quarant’anni, ha detto una verità risolutiva. In primo luogo i brigatisti che, nel caso migliore, devono difendere la coerenza di una autobiografia e nel caso peggiore rischierebbero molto se dicessero la verità. Non l’hanno detta coloro che hanno avuto la responsabilità delle indagini. Via Gradoli, il Lago della Duchessa, il ruolo della Banda della Magliana, la scelta di non pedinare gli autonomi con i quali i socialisti stavano cercando una soluzione, i consulenti americani che volevano Moro morto e il ruolo dei Servizi dell’Est. Steve Pieczenick, inviato al Viminale dagli Usa su richiesta italiana, non esiterà a dire, in un’intervista a Giovanni Minoli del 2013: «Fino alla fine ho avuto paura che liberassero Moro». Per Sossi si era trattato, per l’assessore Cirillo anche, per il figlio del segretario del Psi De Martino pure. E poi Andreotti che corregge il testo di un appello del papa, il comitato che si occupava delle indagini infestato da uomini della P2, il gioco pericoloso di Mino Pecorelli e la sua uccisione. Troppi silenzi e troppi morti, in questa, ahimè, classica storia italiana della tanto ingiustamente rimpianta Prima Repubblica. Tutto strano, tutto sporco. L’obiettivo del rapimento del 16 marzo era la funzione di cerniera e di innovazione che Moro aveva assunto in quel passaggio delicatissimo della storia nazionale. Alberto Franceschini, uno dei fondatori dell’organizzazione terrorista, in un’intervista mi disse chiaramente che l’obiettivo delle Br, prima e dopo il rapimento dello statista Dc, era far saltare il compromesso storico. L’operazione Moro, da questo punto di vista, era chirurgica. Colpito lui, tolto di mezzo, quella prospettiva sarebbe svanita come neve al sole. Così fu. E persino la Dc, dopo pochi anni, venne travolta dalle sue contraddizioni, confermando una delle previsioni di Moro riguardo a una imminente «rovina» dello scudo crociato. Moro aveva convinto a fatica una recalcitrante Democrazia cristiana a imboccare la via della collaborazione con il Pci. In lui era dichiarata l’intenzione di sperimentare una fase di collaborazione, di legittimare, dal punto di vista democratico e internazionale, lo storico avversario di sempre e poi di conoscere così una democrazia dell’alternanza, senza dover immaginare che una sconfitta elettorale della Dc, che certo lui in questo modo pensava di evitare, significasse un rischio democratico per un Paese occidentale. Era un grande disegno. Diciamoci la verità, il più grande dopo la Resistenza e la Costituzione. Va ricordato il doloroso discorso che Moro tenne, quindici giorni prima di essere rapito, alla decisiva riunione dei gruppi parlamentari della Dc. Partì dal riconoscimento del fatto che «qualche cosa, da anni, è guasto, è arrugginito nel normale meccanismo della vita politica italiana». E poi, riflettendo sul risultato delle elezioni politiche del 1976, disse: «Abbiamo avuto una vittoria, ma non siamo stati soli. Anche altri hanno avuto una vittoria; siamo in due vincitori, e due vincitori in una sola battaglia creano certamente dei problemi». Dopo aver ricordato la «flessibilità» della Democrazia cristiana, che ne ha assicurato l’egemonia nel Paese dal dopoguerra, Moro spiega perché, dopo i passaggi della non sfiducia e dell’accordo di programma che avevano caratterizzato l’avvio della legislatura, ci sia bisogno di fare un passo ulteriore: l’ingresso, a pieno titolo, del Pci nella maggioranza di governo. (...)

Moro sta parlando a tutti, non solo ai deputati scudocrociati che ha di fronte. Parla al Pci, alle cancellerie. Rassicura, garantisce. Vuole evitare una rottura del suo mondo che manderebbe all’aria il suo disegno. Per questo ha voluto Andreotti a capo del governo, per questo la Dc ha sfornato, in quelle ore, una composizione del governo che fa infuriare Botteghe Oscure per la totale continuità con i monocolore precedenti. (...) La mattina del 16 marzo la Camera è riunita per la presentazione del nuovo governo. Non per quell’evento passerà alla storia, il livido e piovoso giovedì di fine inverno del 1978. (...) Berlinguer, come Moro, è angosciato da quello che rischia di sembrare il Comma 22 della politica italiana. Una stagione è finita e un’altra non può cominciare. Un governo di alternativa di sinistra scatenerebbe infatti una reazione violenta. Sul piano interno ma, ancor di più, su quello internazionale. All’amministrazione americana non importava di conoscere Gramsci e la fondazione dell’originalità del Pci della quale, non meno pericolosamente, i sovietici invece erano fin troppo consapevoli. E dunque l’idea che dei comunisti potessero condividere la partecipazione ai segreti della Nato, in un tempo di Guerra fredda ancora dominante, metteva tutti, come abbiamo visto, in grande agitazione. Nulla poteva essere escluso. Per diverse notti, alla metà degli anni Settanta, dirigenti delle organizzazioni democratiche dormirono fuori casa, su indicazione dei rispettivi partiti. Il Pci era cosciente di questo e Berlinguer ebbe il coraggio di riaprire, aggiornandolo, un tema che aveva impegnato già la ricerca di Palmiro Togliatti: la politica delle alleanze. Tema che un partito comunista si pone solo se ha scartato l’idea della «presa del potere». (...) Anche in Berlinguer, come in Moro, la forte discontinuità che viene proposta si accompagna a rassicurazioni verso la propria comunità. Contro la Dc, contro i «forchettoni», contro la politica centrista, il Pci aveva definito per decenni la sua identità. Ora, improvvisamente, si indica la via di una collaborazione, di un «compromesso storico» con gli avversari di sempre. Per questo anche Berlinguer, per di più senza il bagaglio di prestigio e di autorevolezza interna che Moro aveva conquistato nei decenni, nell’avanzare la proposta che gli sta a cuore la inquadra in modo da farla sembrare non una svolta e non certo una rottura, ma qualcosa che si pone in perfetta continuità con una tradizione. Di qui le citazioni di Lenin e della Nep come dimostrazione del valore «della scienza dell’offensiva e della scienza della ritirata». Moro e Berlinguer cercano di muovere i loro mondi, di portarli a incontrarsi, dopo decenni di conflitti asperrimi, ma si preoccupano, ambedue, di recapitare, a questo incontro, le loro grandi comunità non divise, non indebolite. (...) Contro questa linea sparano le Br. Colpendo Moro mandano in frantumi tutto il progetto. E la politica italiana, come nella tensione di un elastico rotto, torna al punto di partenza. Le Brigate rosse volevano il comunismo ma hanno prodotto il pentapartito. Volevano destabilizzare e hanno finito col ripristinare lo statu quo. E loro stesse, per arrivare troppo vicino al sole, si sono bruciate le ali. È il destino drammatico delle api che se pungono, muoiono. Oltre all’introduzione di cui pubblichiamo un estratto, il volume di Walter Veltroni Il caso Moro e la Prima Repubblica (Solferino), in uscita il 6 maggio in edicola e in libreria, contiene una serie di conversazioni con personaggi che forniscono le loro testimonianze. Apre la rassegna un colloquio che Veltroni ebbe in carcere con il terrorista delle Br Prospero Gallinari, uno dei carcerieri di Moro, pubblicato a suo tempo dall’«Unità» il 23 ottobre 1993. Seguono interviste con esponenti politici comparse sul «Corriere della Sera» tra il luglio 2019 e il luglio 2020: l’ex ministro socialista Rino Formica, l’ex dirigente del Pci Aldo Tortorella, l’ex ministro democristiano Virginio Rognoni, l’ex esponente della Dc e ministro dell’Interno di Forza Italia Beppe Pisanu, l’ex parlamentare democristiano Mario Segni, l’ex segretario del Pci e del Pds Achille Occhetto, l’ex ministro socialista Claudio Signorile, l’ex ministra radicale Emma Bonino, l’ex vicepresidente del Consiglio socialista Claudio Martelli.

Il caso. Se dietro le Br c’erano i servizi, perché Moretti dopo 40 anni sta ancora in galera? Frank Cimini su Il Riformista il 6 Aprile 2021. Mario Moretti fu arrestato il 4 aprile del 1981. Quindi sono 40 anni precisi precisi che dorme in galera da molto tempo semilibero ma comunque detenuto notturno. L’anniversario di quelle manette è l’ennesima occasione che il festival della dietrologia non si lascia scappare. Basta sentire le parole che Gennaro Acquaviva all’epoca del sequestro Moro capo della segreteria di Bettino Craxi ha consegnato in questi giorni a Walter Veltroni che sul Corriere della Sera ci prova sempre a rievocare “i misteri”. «Non so chi, non so come, ma sono certo che le Brigate Rosse sono state manovrate presentemente dal Kgb. L’infiltrazione sovietica nell’area della protesta violenta era evidente. Nel gruppo romano non lo so non credo, ma nelle Br in genere penso di sì. Bisognerebbe chiedere a Moretti». Eccoci, un esponente del partito della trattativa insieme a un erede del partito della fermezza per ribadire quello di cui negli atti processuali non si trova traccia. Ma a Mario Moretti tutti o quasi continuano a chiedere la verità quella che lui ha sempre detto a cominciare con il libro intervista a Rossana Rossanda e Carla Mosca che gli chiedevano in che modo lui reagisse al sospetto di ambiguità e trasversalità. «Ah con molta serenità e molta tranquillità nel senso che io mi rendo conto che attraverso questa accusa si vuole colpire l’idea dell’autenticità delle Brigate Rosse. La tesi che siano state manovrate dall’esterno è una tesi cara a chi non può sopportare l’idea che in questo paese si siano svolti dei fatti, delle iniziative, si siano giocati dei progetti politici esterni ai giochi di palazzo. Queste illazioni non meritano alcuna considerazione» è la posizione di Moretti che finora nessuno è stato in grado di scalfire concretamente. Anche se la dietrologia non vuole demordere. Ci sono carriere politiche e giornalistiche costruite sui falsi misteri del caso Moro. Sempre in questi giorni il figlio del capo della scorta di Moro, Domenico Ricci, intervistato da Adnkronos è tornato a intimare a Moretti di “dire la verità”. Non resta che stare ai fatti. Nel caso Moretti avesse intrallazzato con servizi segreti e potenze straniere non dormirebbe ancora dopo 40 anni in una cella del carcere di Opera. Il paese anche dopo così tanto tempo rifiuta di fare i conti con quello che fu un fenomeno squisitamente politico perché evidentemente ha paura della propria storia. Al punto da non voler prendere atto che Moretti condannato a sei ergastoli ha pagato per le sue responsabilità e dovrebbe dopo quarant’anni essere scarcerato. Avrebbe pieno diritto alla liberazione condizionata che lui non chiede perché non vuole evidentemente relazionarsi con chi in pratica con la dietrologia gli nega identità politica. Sentirsi rivolgere sempre lo stesso sospetto per uno che sta dentro dal 1981 è se possibile peggio dei sei ergastoli che gli hanno dato i giudici. In libreria da pochi giorni c’è un saggio “Brigate Rosse: un diario politico” curato dalla ricercatrice Silvia De Bernardinis. Un rendiconto critico e autocritico della storia delle Br a opera di alcuni dirigenti e militanti. Ribadisce il saggio, che dietro le Br c’erano solo le Br.

L’INTERVISTA. Acquaviva: «Vidi Craxi piangere con in mano la lettera che Moro gli scrisse dalla prigionia». Lo storico dirigente socialista Gennaro Acquaviva: «Noi del Psi avevamo l’occasione di cambiare l’Italia, ma non l’abbiamo colta Andreotti era più cinico, Cossiga soffrì tantissimo». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 2 aprile 2021. Gennaro Acquaviva, è stato capo della segreteria politica di Craxi dal 1976 e poi suo consigliere politico a Palazzo Chigi. È quindi uno dei testimoni privilegiati di quell’autentico passaggio d’epoca, il rapimento di Moro e la fine della Prima Repubblica, sul quale si continua a riflettere. È un uomo e un dirigente politico schietto e diretto nelle sue posizioni. Cattolico, socialista, oggi presiede la Fondazione Socialismo e dedica il suo lavoro alla ricostruzione, con preziosi volumi, della vicenda del suo partito in quegli anni cruciali.

Quando inizia per te la fine della Prima Repubblica?

«Dopo Moro, il crollo è la conseguenza quasi obbligata. La Prima Repubblica finisce perché finisce il sistema che l’ha ordinata e che non si riesce a cambiare: sempre al governo un partito di centro e sempre all’opposizione una forza rappresentativa, grande e democratica, ma che non poteva mai andare al governo perché rimaneva comunista; e con i socialisti che non riescono a prendere i voti che gli servono. La realtà che si costruisce nel ‘45-’48, è decisiva. Il Partito comunista rimane condizionato dall’Unione Sovietica con tutti i vincoli e le paure che persino e nonostante Berlinguer permanevano. Era un dato oggettivo: esisteva una parte della classe dirigente comunista del Pci che era in un rapporto di filiazione, di amicizia e di fraternità con il sistema dell’Est. Questa cosa permane, inevitabilmente. La sostanza è che questo rapporto blocca il sistema, nel senso che la democrazia è un sistema complesso che senza alternanza non sta in piedi. Una realtà che alla fine produce anche corruzione, inevitabilmente».

La democrazia dell’alternanza era la vera Seconda Repubblica?

«Secondo me Craxi in qualche maniera è un sostituto-prosecutore dell’opera di Moro indirizzata a favorire l’evoluzione del sistema politico che doveva indirizzarsi verso una democrazia dell’alternanza. Uno dentro e uno fuori, io all’opposizione e tu in maggioranza. Uno schema bilanciato. Non ce la fa il Pci a trasformarsi aiutato da Moro, nella prima metà dei Settanta. Moro viene ucciso anche per questo, per averci provato pur dentro una Guerra fredda che ritorna. E la mano passa a Craxi. Perché Craxi ha la fortuna di incrociare il cambiamento della politica estera americana con gli euromissili. La forza di Craxi nasce nel ’79, con gli americani che scoprono l’Eni-Petromin, per fare fuori Andreotti; con il Preambolo nel febbraio ’80 per far vincere la linea anticomunista nella Democrazia cristiana. Diventa così, un po’ casualmente, ma anche intelligentemente, l’uomo degli americani e di conseguenza l’uomo decisivo per tutti gli anni 80».

Secondo te perché Moro viene rapito? Perché lui e perché quel giorno?

«Perché è l’uomo che può cambiare il sistema “convertendo” i comunisti e portandoli al governo. Lo avevano ammonito duramente a non farlo più volte nel 1975, e poi ancora a giugno del 1976 durante il vertice mondiale a Portorico, quasi nessuno lo ricorda. L’Italia, e personalmente Moro presidente del Consiglio, vengono lasciati fuori della porta mentre i grandi dell’Occidente discutono proprio del “pericolo Italia”».

Schmidt in particolare glielo disse, era un socialista...

«C’è un preannuncio, oggi potremmo dire drammatico. Moro, per gli americani e per gli equilibri del tempo, è un rompiscatole. La Guerra fredda non era uno scherzo, c’erano l’Alleanza Atlantica e il Patto di Varsavia. Il Pci dentro la Nato dava fastidio a tutti. Non so chi, non so come, ma sono certo che le Br sono state manovrate, prevalentemente dal Kgb. L’infiltrazione sovietica nell’area della protesta violenta era evidente. Nel gruppo romano non lo so, non credo. Ma nelle Br in genere penso di sì. Bisognerebbe chiedere a Moretti».

Tu allora cosa facevi?

«Ero il capo segreteria della direzione e lavoravo con Craxi».

Mi racconti del tentativo di Signorile e del Psi?

«Signorile sa le uniche cose serie e le ha raccontate».

Formica e Signorile nelle loro interviste mi hanno detto che avevate avvertito in quei giorni sia Cossiga che Leone.

«Craxi lo disse anche ad Andreotti. Ne sono certo».

Signorile dice di essere rimasto sorpreso dal fatto che nonostante tutti sapessero dei suoi contatti, nessuno fu pedinato. Tu che idea ti sei fatto di quei giorni?

«C’è un episodio che non posso dimenticare. Freato una mattina viene in Direzione e porta a Craxi una lettera di Moro. Mancano quindici giorni alla morte. Io rimango lì perché ero ansioso di sapere. Lo vedo uscire. Mi chiama Craxi e lo trovo che sta piangendo, nella sua stanza, con la lettera in mano. Ha le lacrime agli occhi e quasi butta verso di me questa lettera dicendo: “Adesso arriva quello della polizia e la deve sequestrare. Fai una copia”. Naturalmente non c’erano le fotocopiatrici all’epoca. Chiamiamo un fotografo di corsa e facciamo un’istantanea del testo. Dopo dieci minuti arriva Spinella, che allora era a capo della Digos. Immagina: io con questa lettera in mano, Craxi che piangeva come un cavallo. Consegno il testo come se fosse sangue di Gesù Cristo. Ma rimango basito dalla reazione del capo della Digos: prende la lettera, neanche la guarda e se la mette in tasca. Rimane in piedi nella mia stanza, non vede l’ora di andarsene. Mi dice solo: “Ma che caspita! Ma perché ci state a far perdere tempo! Ma che è sta roba! Insomma è tutto deciso, non c’è niente da fare, smettetela di rompere le scatole, di far perdere tempo a tutti”. Prende e se ne va. Era un bravo poliziotto, sia chiaro. Ma era evidentemente impregnato del clima di quei giorni, del mondo in cui operava. Che probabilmente lo aveva dato per morto il giorno stesso in cui l’hanno preso. Ma come? Tutti sapevano che Signorile incontrava degli emissari dell’autonomia e nessuno segue lui o loro? E Gradoli, il rubinetto dell’acqua, il lago della Duchessa? Quel giorno, con il depistaggio eseguito dalla banda della Magliana, si vede chiaramente che c’è qualche cosa sotto. Andreotti e Cossiga erano oggettivamente nella condizione di chi pensava o era costretto a pensare che la ragion di Stato, ammesso che tale fosse, dovesse prevalere sulla prospettiva della liberazione di Moro. Andreotti, che era più cinico e duro, va avanti come se niente fosse, Cossiga vive una autentica sofferenza. Cossiga assiste alla tragedia, al calvario. Perché avviene questo? Non posso saperlo. Forse perché c’era stato Portorico. C’è la rinascita della Guerra fredda, dietro».

Sia Moro che Berlinguer avevano, come dici tu, rotto le scatole agli americani e ai sovietici.

«Sì, anche Berlinguer era nel mirino dei sovietici. E la storia dell’attentato in Bulgaria è vera. È un tempo di nuove relazioni anche tra Pci e Psi sulla politica estera. A parte Sigonella c’è il dibattito parlamentare nel novembre dell’83 alla Camera sugli euromissili con Craxi che dà quasi ragione a Berlinguer, perché dichiara attenzione all’emendamento per tornare a trattare senza installare automaticamente. Anche se poi il movimento pacifista continua e si accentua. Napolitano in un convegno nostro sulla politica estera del 2002 lo ha ricordato come un grande momento di dialogo. Capisco che Craxi stava sulle scatole a tanta gente, che i socialisti apparivano dei supponenti e antipatici di natura loro, però quando erano in ballo gli interessi superiori, quelli della Nazione, ci si ritrovava».

Che ruolo ebbero i consulenti americani?

«A settembre del ’79 vado negli Stati Uniti su invito del governo americano; mi fanno anche fare il solito giro degli uffici competenti. Il messaggio diretto per Craxi me lo dette un ambasciatore mentre mi salutava sulla porta, prima che partissi. “Dipende tutto da Craxi, glielo riferisca” mi disse. Si chiamava George Vest, è stato un grande ambasciatore, ed allora era il capo dell’ufficio Europa del Dipartimento di Stato. Noi avevamo capito che non c’erano solo dei monoliti a Washington, c’erano dei partiti, nel potere, che prescindevano dalle presidenze democratiche o repubblicane. C’era continuità, comunque, nella gestione del rapporto con l’Urss, con l’Europa, con la Guerra fredda. Cossiga e Andreotti avevano delle entrature storiche di alto lignaggio ed erano visti da lì come interlocutori forti. Ma i loro universi di riferimento erano spesso diversificati. Andreotti stava con un mondo più progressista, sembra assurdo ma era così. Ovviamente a parte Vernon Walters, il suo amico d’infanzia. Cossiga guardava dall’altra parte. E durante la vicenda Moro chiese un aiuto e gli mandarono quel tizio che sembrava preoccupato solo di gestire la morte di Moro, non di liberarlo. Perché?».

Il sacerdote Don Mennini andò da Moro?

«Non ho prove ma probabilmente sì. Il canale vero della Santa Sede era però il cappellano delle carceri attraverso cui si cercò di imbastire una trattativa. E questi gli avevano quasi detto di sì, perché il canale era robusto. Erano più seri, più dentro e più discreti e probabilmente una parte di quelli che tenevano Moro con i soldi ci Èsarebbero stati. Anzi, sicuramente. E i soldi a Castel Gandolfo c’erano. Li hanno visti, non dico che li hanno contati, ma hanno visto la stanza piena».

L’incontro Craxi-Zaccagnini come fu? Tu c’eri?

«Ero fuori dalla porta, non sono entrato. Era domenica e Zaccagnini chissà perché venne quel giorno, non c’era nessuno. Craxi lo ricevette al Partito. Dovemmo passare dall’entrata posteriore, usare l’ascensore di riserva, perché non c’era il portiere. Zaccagnini era teso, provato. Parlarono mezz’ora. Craxi illustrò la proposta dello scambio. Questo era il tema. Zaccagnini era andato a sentire, incuriosito e forse desideroso di agire. Quando esce, è commosso, quasi piangente, e quando siamo sulla porta io gli dico: “Tanti auguri e forza, ne usciremo”. Gli do del tu, lui mi guarda: “È difficile, difficile”. C’è due giorni dopo un incontro formale. La Segreteria democristiana e la Segreteria socialista si incontrano a piazza del Gesù, stanno chiusi cinque ore anche perché Craxi vuole far vedere ai giornalisti che li tiene stretti, li tiene al tavolo. Finalmente escono tutti. Ma sono rabbuiati, incazzati, preoccupati. Cipellini, il presidente del gruppo Psi del Senato, quasi mi grida che si è rotto e aggiunge: “Dicevano in continuazione ‘non si tratta, non si tratta’. E allora io gli ho ricordato la grazia a Moranino! Non vogliono assolutamente nessuno scambio”».

Pci e Psi, conflitto perenne ed eterno?

«C’è l’incontro delle Frattocchie nell’83. Fu un’occasione in cui i due partiti forse potevano recuperare un rapporto. Craxi non voleva farsi attaccare troppo in campagna elettorale, era già stato arrestato quello di Genova, Teardo. Il Pci, passato all’alternativa, non voleva litigare con i socialisti. Stanno lì una giornata a discutere, fanno colazione insieme alle Frattocchie e durante la pausa poi si mettono a parlare più liberamente. Fanno un comunicato, alla fine, di rilancio del dialogo in cui si dice addirittura, dopo aver denunciato il concentrarsi di attacchi contro le giunte di sinistra: “Alcune delle iniziative giudiziarie in corso non possono non suscitare, in questo quadro, forti dubbi di strumentalizzazione.”. Craxi prende sottobraccio Reichlin e gli sussurra: “Perché non convinci Berlinguer a venire a Milano a trovarmi e lo porto io in giro un paio di giorni e gli faccio vedere come è davvero l’Italia di oggi? Come la gente sta bene, vive, lavora, sfrutta il prossimo, si arricchisce, stanno tutti come papi”. Leggevano la società italiana in due modi molto diversi».

Quando morì Berlinguer Craxi come reagì?

«Siamo a Londra, una visita ufficiale alla Thatcher. Verso le dieci, dieci e mezzo di sera torniamo in albergo, nella hall ci sono tutti i giornalisti pronti a bloccare Craxi e lui si mette lì a parlare. Da pochi giorni c’è stata la rottura sulla Scala mobile. Io me ne vado a letto perché non mi va di stare lì, ma immagino che abbia criticato duramente Berlinguer. Sono a letto, verso mezzanotte mi telefona con la voce strozzata dicendo: “Vieni qui, corri”. Corro là pensando che stesse male. È ancora vestito e mi dice “Berlinguer sta per morire, ha avuto un malore mentre faceva un comizio, sto parlando col prefetto di Padova, mi sta richiamando per dirmi come sta.”. Era come impazzito, andava in giro per la stanza con le braccia alzate come un matto. Può darsi fosse anche preoccupato per quegli attacchi, ora sgradevoli. Ma era davvero addolorato, era uno come lui, della sua generazione, che se ne stava andando. Uno con cui aveva combattuto ma che stimava, sentiva dalla stessa parte. Craxi con la morte ha avuto sempre un rapporto difficile, si ritraeva nel giudizio. Anche quando doveva fare una commemorazione, per esempio di Nenni, quasi non riusciva a parlare, commosso e teso pensando al dopo».

I fischi a Verona. Condividesti la frase di Craxi che li rivendicò?

«Tecnicamente ha fatto una fesseria. Ha detto una cosa in cui credeva profondamente, anche con ragioni, che però era del tutto inopportuna. Su questo non c’è dubbio, io non l’avrei detta. Stiamo nella fase più brutta dei rapporti a sinistra. C’è lo scontro sulla Scala mobile, che divide anche la Cgil e quindi il Pci. Una cosa oggi incomprensibile perché poi, nel profondo, il Partito comunista era d’accordo sull’abbassare l’inflazione, come si faceva ad andare avanti col venti, venticinque per cento di aumento del costo della vita? Era una situazione del Paese che il loro senso di responsabilità nazionale non poteva tollerare alla lunga e che avrebbe colpito i più poveri. Ma era Craxi a proporlo e Craxi era l’avversario. Craxi non avrebbe voluto mai rompere, fino all’ultimo tenta disperatamente di non rompere, non vuole rompere. Quando, due anni dopo, De Michelis gli porta la legge sulle pensioni, che avrebbe anticipato la riforma di dieci anni dopo, lui non lo aiuta. Sai perché? Perché non vuole tornare a litigare».

Quando è che Craxi capisce con Tangentopoli che è finita?

«Agli inizi degli anni 90 Craxi è sempre meno lucido. I cinque anni dopo il 1987 sono stati per lui anni difficili, soprattutto perché ha scelto di aspettare il suo turno, dopo la Legislatura “riservata” alla Democrazia cristiana. Certo non gli mancavano vitalità, combattività ed anche lucidità ma contemporaneamente aumenta il suo pessimismo “naturaliter”. Lui ha visto il gioco del potere mondiale al di là del sipario: tutto, dentro e fuori, il buono il cattivo. Ed è anche la condizione degli uomini. Allora questa fragilità umana rispetto al potere quasi lo demoralizza, nel senso che lo rende ancora più perplesso, io dico pessimista. Ma dopo il 1992 si sente anche abbandonato e tradito. E questa condizione lo porta a chiudersi ulteriormente; apparentemente è sempre se stesso, il battagliero, il leader che ha capito tutto e tutto domina. Ma dentro di sé ha profonde incertezze. Alla fine perde lucidità di analisi, travolto dagli avvenimenti e anche abbandonato da chi lui credeva più vicino. È la fase finale».

L’autocritica che i socialisti possono fare guardando la loro storia quale è?

«Noi avevamo l’occasione un po’ fortunosamente di cambiare il sistema negli anni 80 e non l’abbiamo colta. Perché c’era una fase di decadenza dei due maggiori partiti, soprattutto i comunisti, e nessuno ci ha veramente aiutato a prendere i loro voti, a partire dai preti. Il campo era potenzialmente sgombro e noi avevamo il leader migliore che c’era sulla piazza. Ed eravamo anche il gruppo dirigente più intelligente e più moderno d’Italia. Ma non avevamo i voti. Alla fine i recinti democristiano e comunista in fondo tengono, anche se ammaccati. Per me il momento decisivo è dopo la crisi del 1987, il punto più alto della confusione democristiana e della autorevolezza di Craxi. Lui allora doveva avere la forza di dire: “Io sono il bene, questi sono il male. Io sono la nuova Repubblica, l’Italia moderna e ve l’ho dimostrato con il buon governo di quattro anni e questi mi vogliono mandare via”. Purtroppo Craxi era innanzitutto un uomo di partito, nato nel partito e incapace di comprendere un’azione, una rivoluzione senza di esso. “Io contro i partiti! E come faccio? È la mia vita il mio partito”». Rinunciò ai voti, ma non a se stesso.

Strage di via Fani, 43 anni dal rapimento Moro: il ricordo di Mattarella e le novità sulle indagini. Il Quotidiano del Sud il 16 marzo 2021. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel 43esimo anniversario del rapimento di Aldo Moro, ha deposto una corona di fiori in via Mario Fani dove le Brigate Rosse sequestrarono l’allora Presidente della Democrazia Cristiana uccidendo cinque agenti della sua scorta.

Il ricordo di Mattarella. Il Presidente Mattarella ha sottolineato il significato di questa data: «Ci separano quarantatré anni dal disumano assassinio in Roma, ad opera dei terroristi delle brigate rosse, di Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino. Difensori dello Stato di diritto, della libertà e della democrazia della Repubblica, pagarono con la vita il mandato loro affidato di proteggere Aldo Moro, statista insigne, presidente della Democrazia Cristiana, il cui calvario – ha proseguito Mattarella – sarebbe durato sino al successivo 9 maggio quando il suo corpo venne fatto ritrovare in via Caetani. Una data, quella del 16 marzo 1978, incancellabile nella coscienza del popolo italiano». Molte le testimonianze e i ricordi da parte di forze politiche e istituzionali, mentre anche il neo segretario del Partito democratico, Enrico Letta, ha deciso di recarsi in via Mario Fani, a Roma.

Le novità dell’indagine. A 43 anni dal rapimento di Aldo Moro, il gip romano Francesco Patrone ha autorizzato la richiesta di prelievo del Dna (avanzata dal pm Eugenio Albamonte) per alcuni brigatisti già condannati per il sequestro del dirigente democristiano, ma anche per alcuni militanti delle Br finora considerati estranei all’agguato di via Fani. Il prelievo del Dna è avvenuto a fine febbraio 2021 nei locali della Questura di Roma, ed è stato coattivo visto che molti brigatisti non avevano voluto sottoporvisi volontariamente. Lo rende noto l’Huffington Post. Si tratta infatti di comparare il loro profilo genetico con quello portato alla luce, nel 2016, sui mozziconi di sigaretta rinvenuti nell’abitacolo della Fiat con targa Corpo Diplomatico che servì a ”bloccare” la vettura di Moro in Via Fani, e sui mozziconi repertati nel covo di via Gradoli (la centrale operativa del sequestro Moro). Fu il capo dell’Antiterrorismo Lamberto Giannini, da pochi giorni nuovo capo della Polizia di Stato, a mettere in evidenza alla seconda Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso, presieduta da Giuseppe Fioroni, la possibilità di procedere con nuove analisi scientifiche che nel 1978 non erano possibili. Ma la prova del Dna è stata possibile solo ora (nell’ambito delle nuove indagini avviate a fine 2018 da Piazzale Clodio dopo aver ricevuto lo stralcio dei documenti di San Macuto), visto che prima non c’era il consenso degli interessati, e si è dovuto procedere con decisione del gip. L’ipotesi investigativa, come si legge nell’articolo dell’Huffington Post, è che ci potrebbero riscontrare presenze diverse da quelle finora conosciute sulla scena del rapimento e in via Gradoli. Visto che ad esempio su 38 tracce biologiche rinvenute, solo 20 sono state attribuite, e con certezza, al proprietario dell’auto (che era stata rubata dalle Br per usarla nel sequestro) e ai suoi familiari, mentre altri 7 profili genetici trovati all’interno dell’abitacolo del Fiat giardinetta, condotta da Mario Moretti e che la mattina del 16 marzo 1978 bloccò allo stop con via Stresa la Fiat 130 su cui viaggiava lo statista democristiano e l’alfetta della scorta, sono ancora sconosciuti. In particolare si cerca di dare un volto e un nome alla presenza di un personaggio che si sarebbe trovato accanto a Moretti al momento dell’agguato, e a chi abbia avuto a che fare con la macchina ( per rubarla, spostarla , nasconderla) e a chi abbia frequentato il covo di via Gradoli. I profili genetici sui mozziconi di sigaretta rinvenuti nell’auto di via Fani, non ancora attribuiti, serviranno a verificare l’identità di persone che sono tutte di sesso maschile. Mentre quelli relativi al covo di Via Gradoli (dove testimonianze recenti hanno messo in evidenza la presenza di un uomo e una donna che non parlavano italiano, che rientravano in quello stabile in moto e sempre con il casco integrale calzato) sono di due donne e di due uomini. Secondo la ricostruzione “ufficiale” del sequestro Moro, via Gradoli sarebbe stata la base logistica frequentata dai soli Mario Moretti e Barbara Balzerani. Le analisi delle impronte digitali ritrovate dopo quarant’anni hanno già messo in evidenza su uno stivale di gomma un’impronta riconducibile a Adriana Faranda. Mentre nessuna impronta digitale è stata ricondotta dalle analisi ad Aldo Moro. In quel covo inoltre sono state trovati i profili biologici misti di due uomini e due donne su cui sono in corso adesso gli accertamenti scientifici.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 22 marzo 2021. Il destino di Aldo Moro non fu segnato il 16 marzo 1978, giorno del suo rapimento, ma quasi. Lo «scambio di prigionieri» ipotizzato dai sequestratori a un mese e più dalla strage di via Fani era «un percorso di difficile percorribilità», come notarono alcuni brigatisti in un documento destinato al dibattito interno: «Quindi la proposta dello scambio fu usata e progettata soprattutto come mezzo per sviluppare contraddizioni nel nemico». Quello scritto, molto lungo e articolato, è una ricostruzione storica dell' esperienza brigatista tra il 1970 e il 1983, fatta dagli stessi militanti; una sorta di autobiografia delle Br pubblicata ora dalla casa editrice DeriveApprodi, a cura di Silvia De Bernardinis, con il titolo Brigate rosse: un diario politico. Riflessioni sull' assalto al cielo , nella quale il sequestro e l' omicidio del leader della Democrazia cristiana rappresenta uno dei punti di svolta. E di successivi dissensi mai ricomposti. Un' azione in cui si contrapposero la capacità (o incapacità) dello Stato di «salvaguardare la propria personalità "insigne", e quella della guerriglia di annientare e catturare il presidente della Dc». Una sfida in cui le Br pianificarono la diffusione delle lettere dell' ostaggio per «sviluppare le contraddizioni nell' ambito politico e istituzionale», e il tragico epilogo dell' esecuzione della condanna a morte servì «a sancire la forza e la determinazione delle forze rivoluzionarie». Tuttavia - sottolineano i cinque brigatisti autori del documento, alcuni dei quali ebbero ruoli di rilievo nell' organizzazione dopo il 1978 - «la gestione del processo a Moro fu praticamente nulla, così come non vennero mai gestiti i contenuti dell' interrogatorio». Sul fronte opposto «Andreotti fu, insieme al Pci, il vero protagonista della gestione politica di quel momento da parte dello Stato» che, una volta sancita la «linea della fermezza», si tradusse nella «scelta obbligata della svalutazione di Moro». Portando alla luce «il massimo delle contraddizioni tra le forze politiche, e tra Moro e lo Stato». Un altro punto a favore delle Br, che però commisero, anche dal loro punto di vista, una serie di errori: «Il più grosso, probabilmente compiuto più a livello teorico che pratico, sta nella sopravvalutazione del movimento armato, e quindi del livello di contraddizioni politiche in atto». Sono valutazioni di «militanti rivoluzionari» in quel momento ancora in piena attività, seppure da detenuti, arrestati uno nel 1975 e gli altri tra il 1982 e il 1983. Che hanno vissuto anche la scissione del Partito guerriglia, responsabile nel 1981 del rapimento dell' assessore democristiano Ciro Cirillo, liberato (a differenza di Moro) dietro pagamento di un riscatto. Un esito sul quale il giudizio è molto duro: «Il fatto che lo scambio sulla vita di un nemico "colpevole di molti misfatti" possa avvenire per denaro è una rappresentazione di corruzione della guerriglia stessa». Il racconto critico e autocritico dell' evoluzione brigatista prende le mosse dalle origini, nel 1970, quando il gruppo compì le prime azioni all' interno delle fabbriche del Nord Italia ispirandosi alla «struttura della guerriglia urbana sudamericana», con l' idea di una organizzazione che «orientasse e dirigesse il movimento di massa». Nel 1974 si avviò l' attacco al «cuore dello Stato» con il sequestro Sossi, poi alla Dc «partito-regime» e tutto quello che ne seguì fino ai dissidi e alle scissioni dei primi anni Ottanta, i «pentimenti» e gli arresti in massa, con la «ritirata strategica» del 1982. Ma già prima ce n' erano state altre due, in altrettanti momenti di crisi, nel 1972 e tra il 1974 e il 1976, quando il Nucleo antiterrorismo del generale Carlo Alberto dalla Chiesa mise a segno i primi colpi contro il «nucleo storico», e poi venne «congelato per una serie di scelte politiche». Nel frattempo cambiò l' atteggiamento del Partito comunista, che nella visione brigatista «partecipa all' offensiva antiguerriglia» prima «tenendosi nascosto», e soltanto nel 1978 «esce allo scoperto». In carcere i brigatisti detenuti compiono anch' essi l' errore di «sopravvalutare il movimento armato rispetto alla realtà», e pretendono di assumere la direzione politica del gruppo, minacciando la rottura poi realizzata dal Partito guerriglia. Animando discussioni interne che non mettono fine alla sequela di morti ammazzati, e continueranno anche nelle prigioni, dopo l' arresto della quasi totalità dei militanti. Che volevano assaltare il cielo, ma sono rimasti sulla terra a fare i conti tra loro.

Sequestro Moro, prelievi dna anche in Toscana per scoprire chi c’era sull’auto di Moretti. Orlando Sacchelli il 17 marzo 2021 su L’Arno-Il Giornale. Ad alcune persone è stato prelevato il dna per fare degli accertamenti legati al caso del sequestro di Aldo Moro. Gli inquirenti vogliono capire chi si trovava a bordo della Fiat 128 targata “Corpo diplomatico” che bloccò la strada all’auto su cui viaggiava Aldo Moro la mattina del 16 marzo 1978. Quarantatre anni dopo gli esami scientifici potrebbero far emergere nuove verità su quei tragici fatti che sconvolsero la politica e le istituzioni, conclusisi dopo 55 giorni dal rapimento con il ritrovamento del cadavere del leader della Democrazia Cristiana. Si sa che quell’auto era stata rubata, e che a bordo c’era Mario Moretti. Ma oltre a lui chi era salito? Qualcun altro l’aveva rubata, spostata e poi nascosta dopo l’attentato? Sono stati trovati dei mozziconi di sigaretta e da questi si potrebbe risalire a uno o più nomi utili all’indagine. Gli inquirenti hanno prelevato il dna a Mario Moretti, Lauro Azzolini, Barbara Balzerani, Franco Bonisoli, Valerio Morucci, Bruno Seghetti, Anna Laura Braghetti, Enrico Triaca, Rita Algranati, Giovanni Senzani e Paolo Baschieri. La richiesta di prelievo del dna è stata autorizzata dal gip di Roma per alcuni esponenti delle Br già condannati per il sequestro Moro ma anche per alcune persone vicine all’eversione o militanti veri e propri che però fino ad ora erano stati ritenuti estranei al caso Moro, come ad esempio il criminologo e docente Giovanni Senzani, di Firenze, ex consulente del ministero della Giustizia, e Paolo Baschieri, ex ricercatore di Fisica al Cnr di Pisa. Né Senzani né Baschieri sono indagati. Cosa cercano di capire gli inquirenti? L’obiettivo è scovare altre persone presenti sulla scena del delitto, rimaste nascoste tutti questi anni. Alcuni profili di dna trovati sull’auto appartengono al proprietario dell’auto e ai suoi familiari, questo è stato appurato, però vi sarebbero almeno sette profili genetici che non sono state identificati. E il ricercato numero uno è l’uomo che si trovava accanto a Moretti durante il blitz.

Quei legami tra Pisa e le Br. Figlio di un noto professore di Medicina, Paolo Baschieri fu un allievo brillante della facoltà di Fisica, ma rimase fin da quegli anni coinvolto nel mondo dell’eversione. Nel dicembre 1978 fu fermato in auto, a Firenze, mentre si stava recando in una città del Nord Italia insieme ad altre due persone, legate all’estrema sinistra. Con lo avevano armi ed esplosivi. Arrestati, furono processati per banda armata. Baschieri si laureò in carcere, a Volterra (Pisa). Tornato in libertà ha lavorato per il Cnr, come ricercatore, fino alla pensione. Come ricorda La Nazione di Pisa a Pisa soggiornò sotto falso nome uno dei capi delle Br, Mario Moretti, nascondendosi nella Casa dello Studente, su lungarno Pacinotti. Era latitante e di certo chi lo accolse (e nascose) non poteva ignorare chi fosse realmente. Sempre a Pisa uno strano furto avvenne pochi mesi prima del rapimento di Aldo Moro: dalla facoltà di Matematica dell’Università fu rubato un lettore elettronico di matrici e la testina rotante di una macchina da scrivere Ibm. Poi si scoprì che alcuni documenti delle Br furono scritti con quel materiale. Altro dettaglio: sulla Renault parcheggiata in via Caetani dove fu trovato il corpo senza vita di Moro furono rinvenuti diversi contrassegni assicurativi che erano stati rubati un mese mese prima in un’agenzia di Pisa.

Il prof ideologo delle Br. Esponente di primo piano dell Br, Giovanni Senzani prese parte al rapimento di Roberto Peci, un giovane la cui “colpa” era quella di essere fratello di Patrizio, il primo brigatista “pentito”. Senzani lo interrogò per settimane e filmò l’esecuzione con undici proiettili. Criminologo e docente, per anni condusse una doppia vita, lavorando per il ministero della Giustizia e operando ai vertici delle Brigate Rosse. Ebbe anche alcuni incarichi universitari a Firenze e Siena. Orlando Sacchelli

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 17 marzo 2021. Il caso Moro, per sempre. A 43 anni dal rapimento dello statista democristiano, il gip romano Francesco Patrone ha autorizzato la richiesta di prelievo del Dna (avanzata dal pm Eugenio Albamonte) per alcuni brigatisti già condannati per il sequestro del dirigente democristiano, ma anche per alcuni militanti delle Br finora considerati estranei all’agguato di via Fani. Il prelievo del Dna è avvenuto a fine febbraio 2021 nei locali della Questura di Roma, ed è stato coattivo visto che molti brigatisti non avevano voluto sottoporvisi volontariamente. Si tratta infatti di comparare il loro profilo genetico con quello portato alla luce, nel 2016, sui mozziconi di sigaretta rinvenuti nell’abitacolo della Fiat con targa Corpo Diplomatico che servì a “bloccare” la vettura di Moro in Via Fani, e sui mozziconi repertati nel covo di via Gradoli (la centrale operativa del sequestro Moro). Fu il capo dell’Antiterrorismo Lamberto Giannini, da pochi giorni nuovo capo della Polizia di Stato, a mettere in evidenza alla seconda Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso, presieduta da Giuseppe Fioroni, la possibilità di procedere con nuove analisi scientifiche che nel 1978 non erano possibili. Ma la prova del DNA è stata possibile solo ora (nell’ambito delle nuove indagini avviate a fine 2018 da Piazzale Clodio dopo aver ricevuto lo stralcio dei documenti di San Macuto), visto che prima non c’era il consenso degli interessati, e si è dovuto procedere con decisione del gip. L’ipotesi investigativa è che ci potrebbero riscontrare presenze diverse da quelle finora conosciute sulla scena del rapimento e in via Gradoli. Visto che ad esempio su 38 tracce biologiche rinvenute, solo 20 sono state attribuite, e con certezza, al proprietario dell’auto (che era stata rubata dalle Br per usarla nel sequestro) e ai suoi familiari, mentre altri 7 profili genetici trovati all’interno dell’abitacolo del Fiat giardinetta, condotta da Mario Moretti e che la mattina del 16 marzo 1978 bloccò allo stop con via Stresa la Fiat 130 su cui viaggiava lo statista democristiano e l’alfetta della scorta, sono ancora sconosciuti. Uomo 4 ha lasciato tre tracce genetiche e così uomo 7, mentre Uomo 1 ne ha lasciare due. Quattro tracce non sono conclusive e due sono miste per Uomo 4 e Uomo 2. Le rimanenti tracce appartengono ad altri quattro uomini rimasti finora ignoti. In particolare si cerca di dare un volto e un nome alla presenza di un personaggio che si sarebbe trovato accanto a Moretti al momento dell’agguato, e a chi abbia avuto a che fare con la macchina ( per rubarla, spostarla , nasconderla) e a chi abbia frequentato il covo di via Gradoli. Secondo quanto ricostruito dalla Commissione Moro2 infatti (in base a testimonianze acquisite solo dopo il 2015 e agli esami balistici della Polizia scientifica sulle traiettorie dei proiettili sparati nel corso dell’agguato) i terroristi in via Fani erano almeno venti, e non dodici come hanno riferito i brigatisti durante i cinque processi Moro. Il 21 marzo 1978, del resto, cioè cinque giorni dopo il sequestro, un testimone oculare (un ragazzo di quindici anni) vide un pulmino Hanomag-Henschel giallo con tetto bianco con targa tedesca e una Mercedes (color caffellatte) risalire la penisola verso il Nord. A bordo, in tutto sette persone: due nel pulmino, quattro uomini ed una donna nell’auto. Il testimone fu ascoltato a più riprese nel corso 1978, ma “la pista tedesca” non fu seguita dagli inquirenti, come ha ammesso davanti alla Commissione il prefetto Ansuino Andreassi (deceduto a gennaio 2021), concentrati sulla ricerca dell’ostaggio. In base a successivi accertamenti dell’Interpol e della polizia tedesca, si è anche accertato che due persone, un uomo e una donna, che avevano avuto a che fare con quel pulmino, erano membri della RAF (le BR tedesche) e la donna era anche in possesso di una carta d’identità italiana falsa, appartenente ad uno stock rubato in bianco, nella disponibilità delle BR in via Gradoli, e nell’appartamento di Giuliana Conforto, figlia di “Dario”, il principale agente del Kgb in Italia già dai tempi del fascismo , in cui trovarono rifugio i due brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci e fu sequestrata anche la mitraglietta Skorpion che uccise Moro, il 9 maggio 1978. Il cosiddetto Memoriale Morucci (scritto da Morucci con la “supervisione“ del servizio segreto interno Sisde, alla base della ricostruzione giudiziaria del sequestro Moro, ritenuta insufficiente dai giudici nelle motivazioni delle sentenze di Corte d’assise) ha “cancellato” dalla scena del sequestro proprio alcuni componenti del commando di via Fani, alcuni certamente di nazionalità tedesca, appartenenti alla Rote Armee Frackion, un gruppo terroristico controllato dalla Stasi (servizio segreto dell’allora Ddr, la Germania dell’Est). Furono invece questi elementi del commando probabilmente a portare sul campo la loro capacità militare e le armi migliori (che subito dopo ripresero la strada per la Germania). I terroristi tedeschi sono stati identificati dagli inquirenti del loro Paese. Abu Bassam Sharif, capo per decenni del FPLP ha testimoniato nel giugno 2017 che “chi ha sparato in via Fani non sono certamente quegli straccioni delle Brigate rosse”, perché “ io che ne capisco di queste cose... vi dico che anche l’umidità incide sulla traiettoria” ed era difficilissimo sparare a via Fani, in quelle circostanze , senza colpire Moro. I profili genetici sui mozziconi di sigaretta rinvenuti nell’auto di via Fani, non ancora attribuiti, serviranno a verificare l’identità di persone che sono tutte di sesso maschile. Mentre quelli relativi al covo di Via Gradoli (dove testimonianze recenti hanno messo in evidenza la presenza di un uomo e una donna che non parlavano italiano, che rientravano in quello stabile in moto e sempre con il casco integrale calzato) sono di due donne e di due uomini. Secondo la ricostruzione “ufficiale” del sequestro Moro, via Gradoli sarebbe stata la base logistica frequentata dai soli Mario Moretti e Barbara Balzerani. Le analisi delle impronte digitali ritrovate dopo quarant’anni hanno già messo in evidenza su uno stivale di gomma un’impronta riconducibile a Adriana Faranda. Mentre nessuna impronta digitale è stata ricondotta dalle analisi ad Aldo Moro. In quel covo inoltre sono state trovati i profili biologici misti di due uomini e due donne su cui sono in corso adesso gli accertamenti scientifici. Dimostrare la “presenza sul campo” di terroristi della RAF, porterebbe una prova in più non tanto e non solo quanto ai collegamenti internazionali delle BR, ma soprattutto l’ intervento decisivo della RAF nella “operazione Fritz” nome dato da Morucci al sequestro Moro (l’appunto intitolato “Fritz “fu trovato in via Gradoli, appartamento di proprietà di un’amica-conoscente di Giuliana Conforto). E quindi, insieme a decine di fatti e testimonianze, potrà sostanziare la ricostruzione del sequestro e l’assassinio dello statista Dc come la più grande operazione mai messa in piedi durante la Guerra Fredda. Al tempo stesso si chiarirebbero i motivi per cui il Muro di Berlino si è trasformato in Italia in un Muro di specchi capace di occultare per oltre quarant’anni la verità sul caso Moro e l‘influenza sovietica all’interno di uno dei più’ importanti paesi della Nato. Tra i brigatisti o parenti di brigatisti che si erano rifiutati di sottoporsi all’esame del Dna, lo stesso Mario Moretti e il fratello dell’unico latitante delle BR per il caso Moro, Alessio Casimirri, figlio dell’ex numero due della Sala stampa vaticana sotto tre Papi, ancor oggi riparato in Nicaragua, sotto la protezione del presidente Ortega, dove arrivò dall’inizio degli anni Ottanta, e che non ha mai scontato un giorno di carcere nonostante la condanna a sei ergastoli. Del resto, Il figlio di Licio Gelli maestro venerabile della Loggia P2 - i cui elenchi furono scoperti dalla magistratura il 17 marzo di quarant’anni fa, e cui appartenevano i vertici dei servizi segreti durante il sequestro Moro - (Maurizio) e suo nipote (Licio jr ), sono stati entrambi ambasciatori del Nicaragua di Ortega, in Sudamerica, in Canada e in Svizzera. L’8 ottobre 2020 una risoluzione del Parlamento europeo ha chiesto per la seconda volta per l’estradizione dal Nicaragua di Casimirri, dopo la prima del 14 marzo 2019, sollecitata anche dell’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini. Una decisione su cui l’attuale ambasciatore italiano in Nicaragua, Amedeo Trambajolo, ha preferito non commentare. Il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, per molti aspetti, si dimostra, insomma, ancora un “cold case”, visto che quello che ne sappiamo è in gran parte frutto di una “verità concordata“ tra brigatisti ed apparati dello Stato, prima della caduta del Muro di Berlino. Una verità “accettabile” che lasciasse fuori dai riflettori dell’opinione pubblica altre verità troppo grandi, in quel determinato contesto geopolitico. Né deve essere di ostacolo a questa ricerca il tempo che è passato. Non si tratta soltanto di permettere una affidabile ricostruzione storica. Il reato di strage (e questo avvenne in via Fani) per il nostro codice penale non si prescrive.

Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" il 14 marzo 2021. È sorprendente il ritratto di Aldo Moro proposto da Evi Crotti e Alberto Magni nel loro saggio Così parlò Aldo Moro. Un calvario dignitoso (Editoriale Delfino, 110 pagine fitte di inediti ritagli, 17). Per due ragioni. Una attiene alla scienza grafologica di cui i due autori sono le cime non solo in Italia: essi hanno letto davvero tutte le 400 lettere spedite dallo statista democristiano durante i suoi 55 giorni di prigionia, molte delle quali - scoperte nel covo delle Brigate rosse di via Monte Nevoso a Milano negli anni 90 - sono rimaste sconosciute o trascurate. Ed ecco, grazie al loro lavoro di anni, le parole scritte sulla carta passano da due dimensioni a tre, acquistano colore, tremano di affetto e di ribellione, di fede e di dolore. Che cosa emerge da questa osservazione della grafia e dalla sua evoluzione durante la prigionia? Crotti e Magni rispondono senza alcun dubbio: «La grandezza d' animo di Moro». Egli era pienamente se stesso. E non è vero che gli importasse solo della propria sorte. Questo si intuisce dalla forma delle lettere, dalla distanza tra i lemmi, dalla chiarezza o oscurità di certi segni. Passano i giorni, e insieme a una immensa stanchezza, in Moro si fa largo «una integrità interiore spirituale che non lo ha mai lasciato». La seconda ragione va al di là della grafia e delle analisi che la riguardano. Crotti e Magni mi hanno costretto a leggere le frasi chiavi delle lettere sia ai politici sia ai familiari riprodotti dall' originale. E i contenuti lì espressi direttamente in bella copia non hanno assolutamente mai alcunché di meschino. Egli davvero vuole aver preservata la vita non per vigliaccheria ma per preservare lo Stato dalla complicità con un delitto e per la sua famiglia. Si preoccupa del nipotino Luca, è turbato dalle difficoltà dei figli. Mentre sta per arrivare la sua ultima ora, di cui era pienamente consapevole, scrive alla "cara Noretta", la moglie: «Cura che il gas sia chiuso la sera». Scrivono Evi e Alberto, coppia nella scienza e nella vita: «L' analisi della scrittura mette a nudo soprattutto l' umanità di Aldo Moro. L' uomo che non può e che non vuole fare l' eroe; non ci sono infatti segni grafici che dimostrino efficienza e forza nel controbattere Moro può essere definito l' antieroe per eccellenza». Non era nella sua natura gonfiare il petto. Non era una questione di temperamento, e tantomeno di cedimento servile ai carnefici, ma di visione della vita. Francesco Cossiga non si perdonò mai di aver considerato le richieste di Moro per la propria liberazione frutto di costrizione. In realtà Moro - secondo Cossiga - era stato coerente con le sue convinzioni di cattolico che rifiuta il valore assoluto dello Stato rispetto alla vita dei singoli e alla famiglia. Per questo Moro aveva trattato con i palestinesi per preservare gli italiani dalle stragi e i nostri soldati in Libano da attentati. Per questo non capiva perché nel suo caso non si agisse allo stesso modo. Cossiga aveva un' altra idea. Anche negli ultimi anni, distrutto interiormente per aver straziato un amico, ammetteva di aver condannato a morte Moro, ma anche di aver fatto il suo dovere da uomo delle istituzioni e da cattolico liberale, che privilegia l' integrità e la dignità dello Stato sugli interessi particolari. Semmai si stupiva perché la famiglia Moro abbia considerato lui e Andreotti gli assassini del loro marito e padre assolvendo invece Berlinguer e i comunisti che - per ragioni loro sì di famiglia: i brigatisti erano di famiglia - posero veti a qualunque forma di trattativa. Non ho nessuna intenzione di aggiungermi alla vasta schiera di chi sa tutto sulla fine di Moro. Si è conclusa nel 2018 un' altra inchiesta parlamentare durata altri cinque anni sui misteri di quei fatti del 1978. Tuttora si cerca di capire quanto abbia pesato la volontà di Mosca attraverso i servizi segreti cecoslovacchi e della Germania Est (la risposta è sì, hanno allungato la loro mano rossa sull' Italia). Restano divergenti i giudizi sull' agguato di via Fani, con l' assassinio della scorta, se cioè la ricostruzione con i suoi uomini tempestati di proiettili e lui prelevato dall' auto corrisponda alla realtà dei fatti (pare sia impossibile che Moro sotto quella gragnola di colpi e raffiche sia rimasto indenne: che sia stato rapito prima?). Su tutto questo nulla so. Ora però so di queste lettere più in profondità, conosco meglio il valore di chi ha guidato il Paese in anni difficili e c'era chi voleva fosse processato in piazza, prima ancora che ci pensassero le Br. Scrivono gli autori: «Pur con l' angoscia della certezza di essere condannato a morte, Aldo Moro non perde mai la lucidità e persino alla propria tragicità riesce a dare un tocco di umanità: da nessuno trova aiuto, ma nella fede e negli affetti più stretti (moglie, figli e nipote) trae la forza per superare le paure e le angosce del funesto momento». A proposito di Evi Crotti. Nel libro ricorda come fui io, da direttore dell' Europeo, a commissionarle dopo la scoperta del malloppo di lettere la prima analisi grafologica. Ho imparato da lei che studiare la scrittura vale più come una Tac nel campo impalpabile della psiche. Ora so che ci aiuta a comprendere le lezioni della storia con meno pregiudizi.

Aldo Moro e quella "seduta spiritica". "Il Paese per anni senza verità". Il 16 marzo 1978, Aldo Moro fu rapito dalle Brigate Rosse che lo segregarono per 55 giorni e infine lo uccisero: un excursus sulla storia, oggi ancora una volta al centro di un libro, "La seduta spiritica" di Antonio Iovane. Angela Leucci - Mar, 09/03/2021 - su Il Giornale. Fin dal 1978, parlare del rapimento e della morte di Aldo Moro ha spesso aperto dibattiti e interrogativi, chiusi solo nel 2017 con la fine della Commissione parlamentare di inchiesta sulla vicenda. L’assassinio di un ex presidente del Consiglio non aveva precedenti nel Belpaese, così come non si sono più verificati casi analoghi: ci sono stati attentati terroristici, massacri e omicidi mirati, ma mai contro qualcuno che aveva rivestito una delle più alte cariche dello Stato. “Il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro - spiega a IlGiornale.it Gero Grassi, membro della stessa Commissione e autore di pubblicazioni sul tema - hanno rappresentato l’interruzione di un processo democratico, hanno rappresentato l’evoluzione dell’Italia, hanno rappresentato lo stop alla creazione dell’Europa dei popoli”.

L’attentato di via Fani. Era il 16 marzo 1978. Come ogni giorno, Moro con la sua scorta iniziava la propria mattinata tra doveri e abitudini. Era però un giorno speciale: sarebbe stata votata la fiducia al governo Andreotti. Casualmente speciale in realtà, perché le Brigate Rosse non avevano programmato con precisione il giorno del rapimento nel giorno della fiducia: il 16 marzo fu scelto in base a una serie di congiunture favorevoli per i terroristi, quali l’essere riusciti a togliere dal paradigma dell’attentato un venditore ambulante che ogni giorno era all’incrocio tra via Fani e via Stresa e che altrimenti sarebbe stato uno scomodo testimone in via Fani. Quel giorno all’ambulante furono tagliate le ruote e in pochi minuti, poco dopo le 9, le Brigate Rosse riuscirono a compiere un massacro. Moro si trovava in auto con la scorta (composta dall’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, il vicebrigadiere di pubblica sicurezza Francesco Zizzi, gli agenti di polizia Giulio Rivera e Raffaele Iozzino), quando la strada fu tagliata loro da membri delle Brigate Rosse su una Fiat 128 con targa del Corpo diplomatico rubata in precedenza. Oltre alla presenza di vari membri dell’organizzazione terroristica in varie postazioni di via Fani e dintorni, quattro brigatisti travestiti da avieri di Alitalia (Valerio Morucci, Raffaele Fiori, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli) iniziarono a sparare sulla scorta, uccidendone tutti i membri. Moro fu accompagnato con la forza su un’altra auto dai brigatisti, che lo condussero, molto probabilmente traumatizzato, nel luogo della sua prigionia. Una delle domande che maggiormente è ricorsa in questi decenni è: come mai la scorta non è riuscita a rispondere efficacemente all’attacco dei terroristi? “Secondo gli studi e le rilevazioni della Commissione Moro approvati dal Parlamento - racconta l’onorevole Grassi - per l’azione fulminea di chi ha sparato: la velocità dell’azione ha impedito che la scorta potesse rispondere. Infatti l’unico che ha risposto, dopo un po’ di tempo, è il poliziotto Iozzino, quello che poi esce dalla macchina e riesce a sparare. Questo è stato accertato. Non è escluso però che la scorta, soprattutto il maresciallo Leonardi e l’appuntato Ricci, conoscesse quelli che hanno sparato. Perché è strano che si siano avvicinati all’auto senza che la scorta stessa abbia avuto un minimo di reazione. C’è il dubbio che qualcuno di quelli che hanno sparato fosse soggetto conosciuto dalla scorta”.

La prigionia: i comunicati e le lettere di Moro. Il primo comunicato delle Br, con cui i terroristi rivendicarono massacro e sequestro, giunse un paio di giorni dopo l’attentato di via Fani. Durante i 55 giorni della prigionia di Moro, furono diffusi 9 comunicati da parte delle Br: l’ultimo risale al 6 maggio 1979 ed è quello in cui si lanciava l’ultimatum per ottenere la liberazione dei brigatisti in carcere e quindi un riconoscimento politico dell’organizzazione.

Così Paolo VI ha provato a salvare Aldo Moro. Moro scrisse moltissimo nella sua “prigione”: un memoriale e ben 86 lettere indirizzate alla sua famiglia, ai colleghi della Democrazia Cristiana, al Papa Paolo VI. All’epoca più di un politico e di un intellettuale sollevarono dubbi in relazione all’autenticità delle missive. Secondo le perplessità di cui si parlò all’epoca, Moro sarebbe stato influenzato in qualche modo a scrivere quelle lettere. “Qualcuno all’epoca - illustra Grassi - tentò di imputare che le lettere di Moro fossero state condizionate e addirittura scritte dai brigatisti. A tal proposito si fece anche un’autopsia particolare a Moro, perché si sosteneva che fosse stato drogato. L’autopsia ha confermato che Moro non aveva mai assunto un milligrammo di sostanze stupefacenti e la storia di Moro e il pensiero di Moro sono tutti nelle lettere. Per cui quelle lettere sono attribuibili solo ad Aldo Moro”.

La seduta spiritica di Zappolino. Uno dei fatti più insoliti in relazione alle ricerche del covo delle Br in cui Moro era segregato riguarda una seduta spiritica. Durante una domenica nella villa di Zappolino di Alberto Clò, poco fuori Bologna, un gruppo di professori universitari con le loro famiglie (tra cui Romano Prodi) per diletto durante una giornata piovosa organizzò il “gioco del piattino”, cioè una seduta spiritica improvvisata per ammazzare il tempo. Mentre intorno a loro giocavano i bambini e loro stessi bevevano Coca Cola, questi docenti evocarono don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira, due colonne portanti della Democrazia Cristiana. La seduta ebbe un riscontro insolito: oltre a tante parole e numeri senza alcun senso, emersero tre indicazioni geografiche, “Gradoli, Viterbo, Bolsena”. Quando due giorni dopo Prodi decise di informare gli inquirenti, le ricerche di questi si indirizzarono, come da suggerimento dei prof, a Gradoli, in provincia di Viterbo. Si tralasciò di controllare invece via Gradoli, a Roma, sulla strada che porta a Viterbo - strada che tra l’altro era stata già perquisita a seguito di strani rumori, segnali Morse in realtà, lamentati dai coinquilini. Le forze dell’ordine sarebbero tornate successivamente in via Gradoli, a causa di una perdita idrica, scoprendo in effetti uno dei covi di un brigatista coinvolto nel sequestro Moro. Sulla seduta spiritica sono state fatte nel tempo numerose congetture e Prodi fu anche attaccato a causa di essa: Zappolino fu talvolta citata dai suoi avversari politici, per esempio se ne accennò durante la Commissione parlamentare sul dossier Mitrohkin. Per comprendere parte di questa storia, una lettura interessante può essere “La seduta spiritica” di Antonio Iovane, che esce l’11 marzo per i tipi di Minimum Fax. “Mescolando finzione e reportage, interviste, memorie e autobiografia - si legge nella sinossi del lavoro di Iovane - [l’autore] ha trasformato in azione tutto quello che è stato raccontato dai protagonisti della seduta spiritica. È una ricostruzione indiziaria, un racconto inchiesta che mette in rilievo gli equivoci e le circostanze ambigue di questa storia. L’Italia è un paese senza verità, se manca la verità si può solo cercare di formulare gli enigmi irrisolti nella maniera più corretta. Ma, come diceva Sciascia che apre e chiude questa indagine, i fatti della vita, una volta scritti, diventano più complessi e oscuri”. La seduta spiritica di Zappolino è in fondo una delle storie meno scandagliate del caso Moro, un po’ perché i suoi protagonisti hanno sostenuto la stessa inattaccabile narrazione per molto tempo, ma anche perché venne inquadrata all’interno di ricerche spasmodiche in cui non si tralasciò nulla, tanto che venne chiamato in causa anche il parapsicologo Gerard Croiset per l’eventuale collocazione di Moro nei 55 giorni del suo rapimento. Tuttavia nel libro viene esposta una teoria molto interessante contenuta nell'estratto che pubblichiamo per gentile concessione di Minimum Fax.

La linea della fermezza e il tragico epilogo. La fine della storia la conoscono tutti: dopo 55 giorni di prigionia, Moro fu trucidato. Il suo corpo venne fatto trovare dal brigatista Valerio Morucci, che telefonò al professor Francesco Tritto, assistente di Moro, per dirgli di recarsi in via Caetani, simbolicamente a metà strada tra la sede della Dc in piazza Del Gesù e quella del Pci in via delle Botteghe Oscure. Il cadavere era in una Renault 4 Rossa e quelle immagini fecero il giro del mondo. Ma come si giunse all’omicidio? In generale, parte dei membri delle Br erano orientati da subito verso il sacrificio dello statista, anche se una minoranza osteggiava questo disegno - tanto che c’è chi ha pensato che le rivelazioni di Zappolino siano giunte proprio da qualche brigatista, che avrebbe voluto la liberazione di Moro, e che avrebbe comunicato il tutto a qualche fido accolito tra le file degli studenti o dei docenti universitari in qualche grado di separazione vicini ai protagonisti della seduta (c'è anche chi pensa che siano stati proprio i gradi di separazione a distorcere il messaggio corretto). Lo Stato italiano perseguì la linea della fermezza: acconsentire alle richieste dei terroristi rossi avrebbe comportato il loro riconoscimento politico. La linea della fermezza non caratterizzò solo la Dc: il Pci cercò di infiltrare dei propri militanti nelle Br, attraverso l’accordo con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e denunciò di fatto vari brigatisti alle forze dell’ordine, come si legge sul saggio “La guerra civile”. Vari soggetti e collettività nel tempo vennero coinvolte, nei fatti o nella narrazione, sia quella poi verificata dalla Commissione, sia quella smentita: dai servizi segreti alla ‘ndrangheta, fino al Psi. La certezza da sempre fu comunque una: le Brigate Rosse uccisero Moro per propria mano. “Alla luce delle indagini compiute - si legge nella relazione della Commissione Moro del 2017 - il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro non appaiono affatto come una pagina puramente interna dell’eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale. Al di là dell’accertamento materiale dei nomi e dei ruoli dei brigatisti impegnati nell’azione di fuoco di via Fani e poi nel sequestro e nell’omicidio di Moro, emerge infatti un più vasto tessuto di forze che, a seconda dei casi, operarono per una conclusione felice o tragica del sequestro, talora interagendo direttamente con i brigatisti, più spesso condizionando la dinamica degli eventi, anche grazie alla presenza di molteplici aree grigie, permeabili alle influenze più diverse”. Quello della Commissione Moro del 2017 è stato un lavoro titanico, che è partito con le audizioni di diversi soggetti, come gli ex appartenenti alle Brigate Rosse, i magistrati e gli ex appartenenti alle forze di Polizia, gli esponenti politici, i periti, gli appartenenti a Servizi di Sicurezza e Reparti speciali.

Le teorie sul sequestro e l’omicidio di Moro. Nel 1973, mentre era in Bulgaria, l’automobile su cui viaggiava Enrico Berlinguer fu investita da un camion militare. C’è chi pensa si sia trattato di un incidente, ma c’è anche chi crede sia stato un attentato fallito. “Non fu un incidente - ha detto l’ex senatore Giovanni Pellegrino, che fu presidente della Commissione stragi, nel libro-intervista con Giovanni Fasanella “La guerra civile” - Con ogni probabilità fu un attentato organizzato dei servizi segreti bulgari su mandato dei servizi sovietico e cecoslovacco”. Berlinguer e Moro furono gli ideatori del cosiddetto compromesso storico, che avrebbe unito le sorti politiche di Dc e Pci. E Berlinguer telefonò a Moro subito dopo l’attentato di piazza Fontana: secondo Pellegrino, entrambi sentivano di essere obiettivi sensibili, ma non necessariamente di un complotto internazionale, anche perché “Moro era un obiettivo naturale per le Brigate Rosse”.

L'inconfessabile verità sul delitto Moro nascosta dietro Mani Pulite e Cinquestelle. Tuttavia diversi gruppi extraparlamentari restarono alla finestra, attendendo un possibile disfacimento della Dc, a seguito del rapimento Moro: tra questi gli ambienti laici e di sinistra “ostili al compromesso storico”, scrive Fasanella, ma anche “ambienti intellettuali di matrice azionista”. “La destra - ha spiegato ancora Pellegrino nel volume - voleva troncare il dialogo tra Dc e Pci. I circoli democratici lavoravano invece per un'evoluzione del sistema politico”. Sono moltissime le pubblicazioni sul caso Moro: una visione su parte delle teorie che scaturirono nel tempo è “Il puzzle Moro”, che è del 2018 a firma dello stesso Fasanella: il giornalista ha inquadrato, anche alla luce dei documenti internazionali desecretati il caso Moro andando alle radici, a ciò che l’Italia della fine della Seconda Guerra Mondiale ha rappresentato in un’ottica europea e oltreoceano. Nel volume viene riportata una citazione dello storico Miguel Gotor (che si occupò della curatela dell’edizione delle epistole di Moro), che ha fatto parte della Commissione del 2017. “La cornice in cui leggere il caso Moro - ha detto - è senza dubbio quella di un paese che ha perso la Seconda Guerra Mondiale, ma ha vinto il dopoguerra, facendosi troppi nemici”.

L’eredità di Moro. Ciò che Moro ha fatto da politico è giunto fino a noi. “Le cose che Aldo Moro ha ideato - chiosa Grassi - la scuola media obbligatoria, l’educazione civica nelle scuole, l’istituzione della Regione Molise, il trattato di Osimo che ha chiuso la vicenda di Trieste - sono state tutte realizzate e sono state positive per il Paese. Per quanto riguarda l’eredità del pensiero, era un pensiero scomodo e la classe politica successiva a Moro non ha voluto e non era forse nemmeno in grado di realizzare il suo pensiero sulla democrazia compiuta e sull’Europa, che poi sono i due motivi principali per i quali è stato ucciso. Nella sua eredità ci sono i valori basilari della Costituzione e l'idea centrale che la persona deve sempre essere al centro di tutto”.

La lezione (dimenticata) del caso Moro. Moro è stato ucciso prima nella finzione e poi nella realtà. Una sua immagine metaforica viene infatti colpita a morte nel finale di “Todo Modo” di Leonardo Sciascia, da cui Elio Petri ha tratto un film interessante e attualissimo - d’altra parte è ambientato durante un’epidemia. Sul sequestro Moro e sulla figura dello statista sono stati girati vari film: in alcuni di essi questa vicenda è centrale, nei più recenti questa figura è al tempo stesso evanescente e cristallizzata non nell’azione politica, ma nella fine della sua esistenza. Il primo film in questo senso fu “Il caso Moro” di Giuseppe Ferrara, abbastanza pedissequo su ciò che si conosceva ai tempi della realizzazione dell’opera nel 1986. Fu seguito da altri lavori più o meno fantasiosi in modi differenti come “Buongiorno, notte” di Marco Bellocchio, “Piazza delle Cinque Lune”di Renzo Martinelli e “L’anno del terrore” di John Frankenheimer. Ma più sullo sfondo c’è il personaggio di Moro o si fa riferimento al suo omicidio anche in “Romanzo di una strage”, “Il Divo” e “Romanzo criminale”. Ci si chiede però se il rischio di questo tipo di narrazione sia appiattire Moro all’interno della vicenda del suo sequestro e del suo omicidio, soprattutto tra le giovani generazioni. “Oggettivamente il rischio c’è - conclude Grassi - Ma se uno abbocca a questo rischio significa che è uno stupido. Moro non viene ucciso perché passa da via Fani, ma viene ucciso per quello che è, per quello che dice e per quello che ha fatto. L’omicidio è la conseguenza di tutto quello che Moro dice, è e fa. È chiaro che se uno si ferma all’omicidio non capisce Moro”.

Dalla "seduta spiritica" al "blitz": ecco la verità sul covo delle Br che rapirono Moro. Un estratto dal libro di Antonio Iovane, "La seduta spiritica" edito da Minimum Fax, che racconta della seduta spiritica di Zappolino durante le ricerche di Aldo Moro. Antonio Iovane - Ven, 12/03/2021 - su Il Giornale. Per gentile concessione dell'editore Minimum Fax pubblichiamo un estratto del libro di Antonio Iovane dal titolo "La seduta spiritica". Il volume scandaglia la storia della seduta spiritica di Zappolino, il 2 aprile 1978, durante la quale un gruppo di professori universitari evocò don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira per scoprire dove fosse tenuto lo statista Aldo Moro, sequestrato dalle Brigate Rosse. E naturalmente si parla anche e soprattutto di quello che accadde dopo la seduta spiritica. Sono a Lecce per parlare del Brigatista al festival Conversazioni sul futuro, e il caso ha voluto che a presentarlo sia Giovanni Pellegrino, in virtù della familiarità col tema e della coincidenza geografica: Pellegrino vive appena fuori Lecce. Ha ottantun anni e ha smesso con la politica, è tornato a essere l’avvocato Pellegrino. Al telefono gli ho chiesto di vederci prima della presentazione del libro, vorrei qualche chiarimento. L’ex presidente della Commissione stragi non mi chiede di cosa si tratti, la sua unica raccomandazione è questa: vediamoci dopo Lecce-Juventus. Ora sediamo all’esterno di un bar in Galleria Mazzini, davanti alla libreria della presentazione. Il Lecce è riuscito a pareggiare 1-1 con la Juve e Pellegrino sembra soddisfatto. Chiede un’acqua brillante. Lo informo che vorrei affrontare l’argomento della seduta spiritica, Pellegrino non sembra sorpreso.

«Cosa vuoi chiedermi?»

«Vengo subito al punto. Nelle audizioni, a proposito della ricerca di Moro nel paesino di Gradoli dopo la soffiata, lei parla di “irruzione militare” o di “blitz militare”».

«Sì».

«Avvocato, lei sa che questa cosiddetta “irruzione militare” non ci fu?»

Mi prendo una piccola pausa teatrale per osservare la sua reazione; Pellegrino è impassibile. Gli dico che il rapporto del vice questore aggiunto di Viterbo, Fabrizio Arelli, si limitò a parlare di un «accurato rastrellamento ispezionando varie case coloniche in stato di apparente abbandono con le relative dipendenze, nonché grotte e ripari naturali».

«Una ventina di carabinieri che perlustrano varie case coloniche, avvocato. Non è la stessa cosa di un’“irruzione militare”».

Pellegrino allunga il collo sui miei appunti.

«Qualcuno ce l’avrà raccontata così. Io lavoravo sulle audizioni, su quello che ci veniva detto nelle audizioni. E qualcuno può averci parlato di irruzione militare».

«Nelle audizioni, avvocato, ne parla solo lei. Ma non è tutto. Nell’audizione di Alberto Clò lei dice: «Il 6 aprile la televisione trasmise le immagini dell’irruzione militare nel paese di Gradoli: serbo un ricordo molto preciso, ricordo ancora le tute mimetiche e questo paesetto con le sue casette dove si vedevano gli uomini che entravano con il mitra e facevano una perquisizione; un intero paese fu perquisito. Se qualche collega ritiene che il mio ricordo sia sbagliato, lo dica». Lei parla quindi di ricordi di immagini trasmesse in televisione, e nessuno dei presenti ebbe da obiettare. Ne parla anche nel suo libro intervista Segreto di Stato. Ma il professor Clò non ricordava nulla di quanto lei andava dicendo, e aveva ragione. Non solo perché l’irruzione militare non ci fu, ma anche perché nessun telegiornale diede in quei giorni la notizia della perlustrazione nel paese di Gradoli. Sa quando uscì la notizia?»

«No».

«Solo il 22 aprile, sull’Unità, quattro giorni dopo la scoperta del covo di via Gradoli grazie al famoso microfono della doccia lasciato aperto, appoggiato su una scopa e puntato su una fessura del muro».

Pellegrino riflette un attimo, un ambulante ci chiede se vogliamo comprare dei fiori. È il momento di chiederglielo.

«Avvocato, lei ha visto Il caso Moro?»

È il primo film sul dramma, 1986: Il caso Moro di Giuseppe Ferrara. È tratto da I giorni dell’ira del giornalista americano Robert Katz. Protagonista è Gian Maria Volonté. Dieci anni prima, quando girava la versione cinematografica di Todo modo, il regista Elio Petri era stato costretto a buttare i primi due giorni di girato: Volonté assomigliava troppo a Moro. Adesso il problema non si pone dal momento che Volonté deve interpretare Moro.

Aldo Moro e quella "seduta spiritica" "Il Paese per anni senza verità"

C’è, nel film, una scena in cui la spagnola Margarita Lozano, che interpreta Eleonora Moro, si rivolge a Pino Ferrara, nella parte di un colonnello dei carabinieri:

«Ho saputo questa mattina di una strana seduta spiritica a Bologna, dove si è fatto il nome di Gradoli, collegato alla prigione di mio marito. L’ha saputo anche lei?»

«Certo, non tralasciamo nessuna pista».

«E che avete fatto?»

«Abbiamo localizzato un paesino nel viterbese che si chiama Gradoli».

«Un paese? Non potrebbe trattarsi di una strada di Roma?» «Oh, no, abbiamo già guardato, non c’è nessuna via Gradoli sulle pagine gialle».

La scena successiva mostra la Porta di Gradoli e il cartello Benvenuti a Gradoli. In alto un elicottero della polizia.

Sirene.

Due auto della polizia precedono tre blindati seguiti da altre due auto. Ne escono poliziotti in mimetica, o tenuta antisommossa, brandiscono pistole e mitra. Ci sono anche unità cinofile. Percorrono le strade del paese, fanno uscire gli abitanti, sfondano a pedate le porte delle cantine.

Il colonnello dei carabinieri arriva su una jeep, si informa sulla perquisizione con un ufficiale della polizia:

«A che punto è l’operazione?» «È in pieno svolgimento».

«State perquisendo le cantine?» «Soprattutto quelle, colonnello».

Terminata l’operazione, un altro ufficiale fa rapporto al colonnello:

«Abbiamo setacciato casa per casa, ma dell’onorevole Moro nessuna traccia».

«Sì», mi risponde Pellegrino, «l’ho visto. Li ho visti tutti, i film su Moro».

«Quello è l’unico documento visivo in cui si può vedere un’irruzione militare nel paese di Gradoli, con tanto di “uomini che entravano con il mitra e facevano una perquisizione”. Non può essere che sia stato semplicemente suggestionato da quel film?»

Pellegrino beve un sorso di acqua brillante.

«Può darsi, potrebbe pure essere. Non ci avevo mai pensato». L’errore di un film potrebbe essere diventato l’errore della realtà. Una grande suggestione collettiva. «Frutto di una nevrosi collettiva. O di una paranoia collettiva. O, per essere più precisi, di un romanzo collettivo».

«Avvocato, c’è qualcos’altro che vorrei chiederle. Mi è venuto un sospetto: ma se davvero si voleva far giungere l’informazione Via Gradoli, perché confondere chi sarebbe potuto intervenire e trovare il covo? Perché - aggiungendo riferimenti geografici come Viterbo, VT, Bolsena – far ricadere l’attenzione non sulla strada romana, ma sul paesino di Gradoli?»

Pellegrino mi osserva, interlocutorio.

«E quindi? Qual è la tua idea?»

Devo procedere con ordine. Parto da un punto: il covo di via Gradoli andava bruciato, probabilmente perché era stato scoperto. Anche il giornalista dell’Espresso, Mario Scialoja, lo dice in un’audizione con lo stesso Pellegrino:

[...] i brigatisti che stavano in via Gradoli (la Balzerani e altri) si erano resi conto che erano stati seguiti o sorvegliati [...]. A mio parere si erano posti questo problema: non bastava abbandonare il covo, perché lì si riunivano le Brigate Rosse che venivano da altre città d’Italia. Dal momento che non potevano telefonarsi per darsi un appuntamento, avevano prefissato delle riunioni secondo certe scadenze (questo lo hanno raccontato tutti); secondo me, uno di quei posti in cui si riunivano in modo prefissato era proprio in via Gradoli. Ebbene, se quel covo era sorvegliato e magari dopo cinque giorni o una settimana là doveva tenersi una riunione prefissata (quindi doveva arrivare gente da Torino, da Milano o da Firenze), come si poteva evitare che la polizia arrestasse tutti quelli che arrivavano senza sapere niente, dal momento che non potevano essere avvertiti?

Era un’epoca senza cellulari e tra le tecniche usate dai brigatisti c’era quella della compartimentazione: i componenti delle singole cellule non si dovevano conoscere tra loro. In questo modo, se catturati, non avrebbero potuto tradire i compagni.

Mi sono convinto che l’informazione Gradoli ̧ unita a Viterbo, VT, Bolsena, non avesse lo scopo di allarmare la polizia, ma le stesse Brigate Rosse. Chi non ne sa nulla, infatti, da quegli indizi non può che pensare al paesino in provincia di Viterbo e sopra il lago di Bolsena. E in questo occorreva dar ragione a Cossiga quando, in audizione, aveva detto a Pellegrino:

[...] se a me parlano di Giovanni Pellegrino, io penso subito a lei, signor presidente; può darsi che nella storia vi sia un Giovanni Pellegrino abate, ma se mi nominano Giovanni Pellegrino, non vado sull’enciclopedia a vedere se è l’abate.

Ma un brigatista che conosce il covo – per esempio Mario Moretti – decifra solo e unicamente la parola Gradoli collegandola alla strada. È quindi sul paesino del viterbese che l’autore della soffiata voleva fosse concentrata l’attenzione, e non su via Gradoli. L’informatore sperava così che la notizia si sarebbe diffusa in tv, raggiungendo coloro che abitavano nel covo. Moretti e gli altri, vedendo dalle immagini che la polizia perlustrava il paesino di Gradoli, avrebbero capito, avrebbero pulito il covo e l’avrebbero abbandonato. Peccato che la risonanza mediatica della perlustrazione di Gradoli fu nulla. A quel punto, e solo a quel punto, si decise di bruciare il covo in un altro modo: col microfono della doccia diretto verso una fessura del muro, cosicché il piano di sotto venisse allagato, gli abitanti chiamassero i vigili del fuoco e così via. Scialoja non esclude che l’infiltrazione d’acqua in via Gradoli possa essere stato davvero un incidente. Ma il suo convincimento è un altro:

[...] bisognava fare scoprire il covo in modo clamoroso, per far sì che si sapesse che era un covo delle Brigate Rosse. Ecco perché hanno provocato la perdita dell’acqua [...]. Il covo fu abbandonato, ma fu lasciato tappezzato di manifesti delle Brigate Rosse (credo avessero lasciato anche una pistola) proprio per far capire che quello era un covo delle br. Il risultato fu ottenuto, perché il giorno dopo tutti i giornali riportavano la notizia che era stato scoperto il covo delle Brigate Rosse di via Gradoli e quindi l’allarme era stato dato.

La seduta spiritica, in pratica, doveva avere la stessa funzione che avrebbe avuto, sedici giorni dopo, il microfono della doccia del covo.

Giovanni Pellegrino resta in silenzio. Riflette.

Beve un altro sorso di acqua brillante. Altri sei secondi di silenzio. «Potrebbe essere possibile».

Riflette ancora.

«È probabile che io non abbia fatto il ministro per questa storia della seduta spiritica».

«Perché?»

«Perché mi misi contro Prodi. Prodi, avendo saputo che in una proposta di relazione intendevo parlare di questo episodio, mi telefonò per chiedermi di cancellarla. Io non mi sentivo di farlo, gli uffici della commissione già conoscevano quel testo, pensai: come faccio a cambiarlo adesso? Ma Prodi non voleva assolutamente che si tornasse su quell’argomento. Da quel momento in poi non fui visto con occhio del tutto amichevole, diciamo così».

«Sta dicendo che Prodi mise il veto sul suo nome?»

«Io tendo sempre a esagerare, ma tutto sommato, se non fosse stato per questo episodio, almeno il sottosegretario in un suo governo avrebbe potuto chiedermi di farlo».

L’avvocato termina la sua acqua brillante: è quasi ora di raggiungere la libreria per la presentazione. Ma prima di andare aggiunge:

«Se fosse vera la tua ipotesi che si trattava di un modo per dare un segnale d’allarme per bruciare il covo, a diffondere la notizia di Gradoli potrebbero essere stati i servizi segreti».

«Che quindi non volevano salvare Moro...»

«Già, e volevano avvertire le br che il covo era stato scoperto».

«Oppure», aggiungo io, «potrebbero essere state le stesse Brigate Rosse a far trapelare l’informazione per avvertire i frequentatori del covo che avrebbero dovuto abbandonarlo».

«Sì, sono tutte ipotesi intriganti».

«Se fosse così, però, vorrebbe dire che i protagonisti della seduta spiritica sono stati strumenti inconsapevoli delle br».

«Temo di sì».

A 43 anni dal rapimento. Caso Moro, 43 anni dopo riparte la caccia alle streghe…Frank Cimini su Il Riformista il 27 Febbraio 2021. Moro senza fine. Ieri mattina a 43 anni dai fatti a Mario Moretti è stato prelevato il Dna per confrontarlo con i mozziconi di sigarette trovati nella Fiat Giardinetta, una delle auto utilizzate il 16 marzo del 1978 per sequestrare Aldo Moro. Il gip romano Francesco Patrone accogliendo la richiesta della procura ha autorizzato il prelievo di reperti biologici per tutti i condannati in relazione al caso Moro e anche per militanti del gruppo estranei ai fatti come Giovanni Senzani e Corrado Alunni. «È dunque necessario procedere alla comparazione dei profili Dna in tal modo acquisiti con quelli delle persone coinvolte nella strage di via Fani allo scopo di consentire l’individuazione di profili appartenenti a persone diverse da quelle di cui ad oggi è nota la partecipazione criminale», scrive il gip nel provvedimento. Nell’elenco ci sono anche Franco Bonisoli, Lauro Azzolini, Barbara Balzerani, Valerio Morucci, Bruno Seghetti, Anna Laura Braghetti, Enrico Triaca, Rita Algranati, Corrado Alunni, Rocco Micaletto e Paolo Baschieri. Lauro Azzolini replica parlando di «strumento pretestuoso e fuorviante che vuole gettare ombre su una realtà che è già stata ampiamente chiarita in ripetute circostanze dentro e fuori i processi e che appartengono alla storia politica e sociale di questo paese. C’è chi ne ha fatto un lucroso mestiere costruendoci sopra carriere politiche e giornalistiche». L’idea dei prelievi era partita dalla commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro affascinata da sempre dalla dietrologia. Gli imputati già condannati per la strage di via Fani ricordano che la procura di Roma nulla ha fatto nei confronti del testimone Alessandro Marini il quale smentito dalle indagini sosteneva che il parabrezza del suo scooter era stato colpito da diversi proiettili sparati dalle Br. Gli imputati sono stati condannati anche per il tentato omicidio del teste Marini, fatto mai avvenuto. Si tratta di un testimone falso mai perseguito. Enrico Triaca ricorda di essere già stato convocato tre anni fa e di essersi al pari di altri rifiutato di partecipare alla “caccia alle streghe”. «Non è forse questo cercare fantasmi inesistenti un tentativo di distrarre l’attenzione dalle vere verità sicuramente molto più scomode per voi?». È la conclusione di Triaca che all’epoca aveva denunciato torture e fu condannato pure per diffamazione. Successivamente il Tribunale di Perugia in sede di revisione pronunciò sentenza di assoluzione. Triaca era stato torturato. La magistratura dunque non demorde sollecitata da una commissione parlamentare di inchiesta sul terrorismo che formalmente non esiste più perché non è stata rinnovata ma che continua a far sentire il suo peso politico e mediatico. C’è una ben precisa fazione erede di un partito che non c’è più pronta a proseguire la campagna dietrologica con una dedizione particolare e degna di miglior causa. E la magistratura asseconda questa “voglia” aumentando i rischi per la sua credibilità già messa a dura prova da avvenimenti recenti e molto lontani dall’essere chiariti.

Caso Moro, non dimentichiamo cosa (non) fece Berlinguer. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 30 Giugno 2020. Sul Corriere della Sera del 20 giugno è comparsa un’intervista di Walter Veltroni a Claudio Signorile sul tentativo socialista di salvare Moro facendo compiere allo Stato “atti autonomi” che mettessero le Br in una condizione di difficoltà politica nell’eseguire la condanna a morte che esse avevano proclamato. L’intervista è molto bella per merito di entrambi, dell’intervistatore e dell’intervistato, e rompe un singolare silenzio dei media che aveva circondato l’azione socialista sulla trattativa. In seguito al valore positivo dell’intervista, interloquiamo con alcune affermazioni fatte da Signorile. Il dato di fondo che Signorile e Veltroni non affrontano è il seguente: Aldo Moro non era uno dei tanti dirigenti della Dc. Aldo Moro, dopo De Gasperi, è stato il più significativo esponente della Dc che ha guidato quel partito a fare unitariamente le sue due scelte politiche più importanti dopo quella centrista, cioè prima il centro-sinistra e poi la strategia dell’attenzione nei confronti del Pci con i governi Andreotti di unità nazionale. A un leader politico di quella caratura è stato riservato dallo Stato, dal governo, dagli apparati un trattamento inusitato: prima, ma, cosa ancor più grave, anche dopo l’uccisione di Moro, non c’è stato governo italiano che non abbia “trattato” in caso di rapimenti. Anche dopo Moro infatti, fino ai giorni nostri, lo Stato italiano ha sempre “trattato” spesso pagando riscatti. Addirittura, per preservare l’Italia da futuri atti terroristici, abbiamo liberato terroristi palestinesi che già avevano fatto azioni sul nostro territorio. Quello che provocò “la pazzia” di Moro durante la sua prigionia è stata la lucida consapevolezza che nel suo caso questo criterio non veniva seguito, anzi veniva rovesciato. Non a caso più volte nelle sue lettere egli chiese che venisse richiamato in Italia il colonnello Giovannone che aveva in diverse occasioni messo in atto l’opzione trattativista e che aveva rapporti con tutti i gruppi palestinesi che, insieme ai servizi cecoslovacchi (ricordiamo la battuta di Pertini), avevano rapporti con i brigatisti anche perché li rifornivano di armi. Moro, poi, non poteva sapere che dopo il suo assassinio questa linea della trattativa sarebbe stata interamente ripristinata in primo luogo dalla Dc, come dimostrò tutto quello che ha fatto per salvare Cirillo, un assessore regionale campano che faceva parte del sistema di potere di Antonio Gava. Sul piano internazionale, poi, molti Stati non seguono una linea rigida, ma sono molto pragmatici, come la Germania e Israele, a seconda delle circostanze e degli interlocutori. I più ipocriti sono tuttora gli Stati Uniti: negano in linea di principio come Stato qualunque trattativa e pagamento di riscatto, poi aggirano questi proclami attraverso le assicurazioni private e i contractor. Ma come mai a Moro, e solo a lui, è stato riservato questo trattamento? Sia Veltroni che Signorile tendono a evitare il nodo: fondamentale fu l’atteggiamento del Pci. Berlinguer e Pecchioli furono molto chiari in primo luogo con Andreotti presidente del Consiglio e con Zaccagnini e Galloni, segretario e vicesegretario della Dc: al primo accenno di trattativa il governo sarebbe saltato. Quindi Andreotti non ebbe l’atteggiamento notarile che Signorile gli attribuisce: no, Andreotti fu attivo nell’impedire o bloccare sul nascere ogni ipotesi di trattativa. Giustamente Veltroni ricorda che egli intervenne anche per infilare due parole nell’appello che Paolo VI rivolse ai brigatisti e che sostanzialmente lo vanificò: le due parole furono «senza condizioni». Invece Paolo VI, che dai tempi della Fuci negli anni ’30 aveva con Aldo Moro un rapporto profondissimo, fece di tutto per salvarlo e, disperato, morì qualche mese dopo. Quindi Andreotti remò contro raccogliendo in modo totale l’ultimatum di Berlinguer-Pecchioli (un autentico tandem in quella vicenda), mentre Cossiga, ha ragione Signorile, si mosse tenendo conto della posizione americana di cui, giorno per giorno, si faceva latore al ministero dell’Interno quell’inquietante professor Steve Pieczenik, ingaggiato come “esperto”: ma era un esperto o un controllore/supervisore forse dello stesso tipo di quello o di quelli che, sull’altro versante, diede ordini decisivi a Moretti? Come ricorda Signorile anche tutto il contesto internazionale era contro Moro, non per ragioni personali (è noto che a Kissinger Moro stava proprio antipatico), ma per il tipo di operazioni che egli stava portando avanti: l’ingresso del Pci nell’area di governo in un paese come l’Italia che allora (non è il caso attuale) rivestiva una grande importanza sia in Europa sia nel Mediterraneo. È agli atti la presenza alle lezioni di Moro di un singolare studente di nome Sokolov che attirò l’attenzione dello stesso Moro e del caposcorta Leonardi. Perché anche questo avvenne: Moro e Leonardi prima dell’attacco erano molto inquieti perché avvertirono pedinamenti e altro. Ma non ottennero (da Andreotti e da Cossiga) un’auto blindata mentre non possiamo non dire che la scorta era tecnicamente e quantitativamente inadeguata. Non a caso l’idea originaria dei brigatisti era quella di rapire Andreotti, ma dalle loro “inchieste” ricavarono il giudizio che il presidente del Consiglio era “blindato” e che invece il presidente della Dc era vulnerabile. La dottrina della fermezza impostata da Berlinguer-Pecchioli si tradusse nella prassi della sciatteria e dell’inerzia. Clamoroso il caso Gradoli. Prodi aveva avuto dal suo “piattino” (che probabilmente era il corrispettivo dell’autonomia bolognese di Piperno e di Pace) la “dritta” giusta: se le forze dell’ordine fossero allora arrivate a via Gradoli comunque il rapimento di Moro sarebbe finito molto prima, visto che lì alloggiavano Moretti e la Balzarani e di tanto in tanto passava anche la Faranda. Comunque, è chiaro che, dal lancio del documento apocrifo del lago della Duchessa, scesero in campo altri soggetti che interloquivano per loro conto con le Br. Ciò detto, sarei più cauto di Signorile nella descrizione dei rapporti di forza all’interno del Psi che allora erano molto bilanciati: nessuno, né Craxi né Signorile, aveva in tasca una maggioranza certa. Direi piuttosto che a influenzare molto la situazione interna del Psi sia stato il comportamento del Pci e quello che poi, nel 1980, accadde nella Dc. Pesò molto lo schematismo e il settarismo di Berlinguer. Non vorrei scandalizzare Veltroni, ma a mio avviso, paradossalmente, vista la linea politica che Berlinguer portava avanti nei confronti della Dc e del mondo cattolico, proprio lui avrebbe dovuto sostenere la linea scelta da Craxi per salvare Moro. Nel momento di maggiore difficoltà della Dc, Berlinguer avrebbe dovuto darle una sponda, non metterle il coltello alla gola come invece fece e come teorizzò nelle sue lettere Tatò. Berlinguer avrebbe dovuto anche fare i conti con un dato elementare: tutta la sua strategia si fondava sulla persona di Moro. Senza Moro, nella Dc non andava avanti nulla, a maggior ragione in una Dc prima costretta a rinchiudersi nella linea della fermezza, poi scioccata dall’uccisione del suo leader. Lo stesso schematismo fu adottato dal Pci nei confronti del Psi a partire dal comportamento sull’incarico di formare il governo dato a Craxi da Pertini nel 1979. Personalmente ho il ricordo nitido di un incontro che con Signorile avemmo con Barca e Chiaromonte: «proprio perché la Dc si sta esprimendo contro il tentativo di Craxi è auspicabile una vostra apertura che avrebbe l’effetto di migliorare i rapporti fra il PSI e il PCI». Non cavammo un ragno dal buco anche perché Berlinguer su Craxi e su tutti noi aveva gli stessi garbati giudizi espressi da Tatò nei suoi appunti. In effetti proprio Berlinguer scelse di piegare la Dc ad una totale subalternità (ma la Dc non era Galloni) e di marcare il suo giudizio sul Psi guidato da Craxi (una banda di avventurieri della politica). In questo modo Berlinguer diede un contributo decisivo alla determinazione della fase politica successiva, quella del pentapartito e della rottura fra il Psi e il Pc.

Trovare Moro si poteva, ma nessuno lo cercò. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 29 Novembre 2019. La seconda edizione del libro di Maria Antonietta Calabrò, nota giornalista, e di Giuseppe Fioroni, presidente della seconda commissione Moro Il caso non è chiuso. La verità non detta aggiunge altri interrogativi assai inquietanti ad una vicenda, quella del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta, che ha segnato l’inizio della crisi della Dc e della Prima Repubblica. «Il mio sangue ricadrà su di voi» scrisse Moro in una delle sue ultime lettere rivolgendosi al gruppo dirigente della Dc.  Partiamo, però, dalle origini della vicenda. Subito dopo il rapimento fu netta la sensazione che il gruppo dirigente del Pci, guidato con mano ferrea da Enrico Berlinguer, riteneva che ormai Moro era un uomo morto. Di rimbalzo, del tutto simile era l’orientamento del gruppo dirigente della Dc (il presidente del Consiglio Andreotti, il ministro degli Interni Cossiga, il segretario formale della Dc Zaccagnini, il segretario sostanziale l’onorevole Galloni). Berlinguer riteneva che le Brigate Rosse con molteplici legami internazionali, dai palestinesi ai cecoslovacchi, si muovevano non solo contro il compromesso storico, ma contro la strategia di fondo del Pci. Di conseguenza, non bisognava in alcun modo trattare con essi dando la sensazione di un qualche riconoscimento del “partito armato”. Berlinguer notificò subito alla Dc che il Pci avrebbe fatto cadere il governo al primo accenno di trattativa. Andreotti, Cossiga, Zaccagnini, Galloni, Gava per i dorotei, si uniformarono a questa scelta per due ragioni: salvare il governo e mantenere in piedi la politica di unità nazionale. Tutto ciò però si tradusse in modo paradossale per ciò che riguardava le indagini e la ricerca del luogo dove Moro era tenuto prigioniero, cioè nell’inerzia. In effetti, né fu fatta la trattativa né furono sviluppate indagini serie e reali, specie dopo le prime e polemiche lettere di Moro. Poi, sui tempi lunghi, dopo quasi due mesi, le Br dovevano chiudere una partita che durava già da troppo e l’unico modo era quello di consegnare Moro cadavere anche perché le Br non gradivano esser messe di fronte a mosse politiche che la complicavano sul piano politico e mediatico. Non a caso fecero trovare il cadavere di Moro a via Caetani quando seppero che alla direzione della Dc Fanfani avrebbe “aperto” sulla trattativa. Ben diversa sarebbe stata la partita se le Br si fossero trovate subito di fronte ad un’iniziativa dello Stato sulla trattativa. Ma lo Stato non agiva in modo incisivo e aggressivo neanche sul terreno delle indagini. Anzi da quel punto di vista avvennero cose incredibili: clamoroso fu l’errore commesso quando Prodi diede l’indicazione di Via Gradoli. Nessuno, anche a distanza di tempo, ha chiesto a Prodi di rivelare quale fu la fonte autentica che gli fece quella rivelazione perché non è credibile la storia della seduta spiritica. Comunque sia se le forze dell’ordine si fossero recate in via Gradoli, il caso Moro avrebbe avuto una svolta dopo pochi giorni: a via Gradoli c’era il covo segreto di Moretti e della Balzarani. Invece le forze dell’ordine ai recarono a Gradoli, un paese del viterbese. Ora, c’è un limite al grottesco anche perché esiste lo stradario. Evidentemente non lo si voleva trovare e di fronte ad una “mossa” esterna imprevista quale fu la rivelazione di Prodi gli apparati e chi li guidava non esitarono ad andare incontro ad una figura ridicola per altro non sottolineata da una stampa succube di un potere che andava dalla Dc al Pci. La seconda vicenda inesplicabile riguardò quello che accadde quando Craxi e il Psi si dichiararono a favore della trattativa. Non è questa l’occasione per riaprire il dibattito politico su quella iniziativa ma invece è interessante ricostruire ciò che accadde e ciò che non accadde. Bettino Craxi incaricò Claudio Signorile e Antonio Landolfi di prendere tutti i contatti possibili per accertare se le Br erano disponibili o meno ad una trattativa e a quali condizioni. Signorile e Landolfi fecero la cosa più ovvia di questo mondo: presero contatto con Lanfranco Pace e Franco Piperno, due personalità che provenivano da Potere Operaio e che erano borderline con il mondo dell’estremismo armato. Fecero subito centro: Pace e Piperno stabilirono il contatto con Valerio Morucci e la Faranda che erano i postini delle Br. Orbene, dei servizi degni di questo nome, avrebbero dovuto seguire da tempo, dall’inizio della vicenda, Pace e Piperno, e a maggior ragione avrebbero dovuto farlo da quando essi furono interpellati da Landolfi e Signorile che tenevano informato il governo di tutti i loro passi.  Terza stranezza: quando Morucci e la Faranda ruppero con le Br perché erano contrari all’assassinio di Moro essi si rifugiarono a casa di Giuliana Conforto che era la figlia del decano degli agenti del Kgb in Italia, Giorgio Conforto che fu presente anche al momento del loro arresto, ma che fu subito “dimenticato”? Altra domanda: perché Giorgio Conforto si fece trovare lì, dove erano anche la scorpion e altre armi? Detto tutto ciò, per mettere ulteriormente in chiaro quello che avvenne nella realtà, bisogna ricordare che invece, in occasione del rapimento del generale Dozier da parte delle Br, gli apparati dello Stato (polizia carabinieri servizi) divennero dei fulmini di guerra. Anche se ciò è stato sempre negato allora fu usata anche la tortura: i brigatisti catturati dissero subito dove era Dozier, i Nocs intervennero e, senza spargimento di sangue, liberarono Dozier e arrestarono i rapitori: una operazione da manuale. Calabrò e Fioroni mettono in evidenza il retroterra di ciò che abbiamo descritto nelle sue manifestazioni più visibili. Questo retroterra era il cosiddetto lodo Moro che, a onor del vero, avrebbe dovuto essere chiamato “lodo Moro e Andreotti”. Dopo che l’Italia era stata colpita alcune volte da attentati, gli apparati italiani, con un dovuto consenso politico (appunto “lodo Moro e Andreotti”) fecero una intesa con le organizzazioni palestinesi (sia l’Olp di Yasser Arafat, sia il Fplp di George Habash) secondo la quale essi avevano libertà di transito (di uomini e armi) sul nostro territorio, ma non avrebbero più fatto attentati. Si è trattata di una sorta di patto con il Diavolo che era gestito dal colonnello Giovannone (il cui intervento non a caso fu invocato da Aldo Moro in una sua lettera). Le Br, però, avevano diretti rapporti con queste organizzazioni che le rifornivano di armi e, stando ad una battuta di Berlinguer a Sciascia, poi da lui smentita, anche coi servizi cecoslovacchi. Di conseguenza il lodo Moro-Andreotti evitò che i palestinesi continuassero a fare attentati sul nostro territorio ma non evitò che essi rifornissero di armi anche le Br che per parte loro sparavano a uomini politici, a magistrati, a esponenti delle forze dell’ordine, a imprenditori, a professori universitari. Cioè, indirettamente, per un tragico paradosso “il lodo Moro” consenti ai brigatisti di attrezzarsi per determinare il “caso Moro”.  Le cose non si fermano qui. Stando a quello che è riportato nel libro di Calabrò e di Fioroni il giudice Armati, in una testimonianza resa davanti alla Commissione, ritenne assai probabile che il colonnello Giovannone rivelò a George Habash che i giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni si stavano recando a Beirut (1980) per indagare sul traffico d’armi fra l’Italia e il Libano. Da allora De Palo e Toni sono scomparsi. Secondo Armati, Giovannone avvertì Habash che la De Palo e Toni andavano a Beirut a rompere le scatole e Habash ne trasse le conseguenze. D’altra parte ricordiamo le proteste e le minacce dei dirigenti palestinesi quando per caso Daniele Pifano e alcuni militanti del Fplp furono arrestati perché su un’auto trasportavano addirittura un missile. Giovannone paventò ritorsioni. Non parliamo poi di tutti gli interrogativi ancora aperti sulla strage di Bologna che potrebbe essere stata determinata dall’esplosione fortuita di ordigni che venivano trasportati in una valigia avendo altra destinazione. Tanti sono gli interrogativi ancora aperti, tra cui quello assolutamente banale sul perché Moro non avesse una macchina blindata: non dimentichiamo che in un primo momento i brigatisti avevano scelto Andreotti come obiettivo, ma poi avevano desistito perché troppo protetto. Altro interrogativo è costituito dal fatto che dopo l’uccisione di Moro e le polemiche sviluppate dalla famiglia Moro. Ci fu una sorta di anticipazione di Mani pulite e Sereno Freato, l’uomo che si occupava dei finanziamenti della corrente morotea, fu colpito sul piano giudiziario e demonizzato. Lo stesso che avvenne a Baffi e a Sarcinelli quando non ottemperarono alle richieste di Andreotti e di Evangelisti per aiutare Sindona. Da tutto ciò emerge che la storia italiana dagli anni Cinquanta in poi è piena di interrogativi ai quali è difficile dare risposta perché quello che è avvenuto “sotto il tavolo” è stato talora più decisivo di quanto non è avvenuto “sopra il tavolo”, cioè alla luce del sole. Oggi solo gli scemi possono pensare che le cose vanno diversamente, solo che c’è una ulteriore modernizzazione tecnologica grazie all’uso del trojan e all’uso politico di internet attraverso il quale Putin sta smontando le democrazie occidentali.

Fake news sui legami tra Sisde e Br, ci casca anche il Manifesto. Redazione su Il Riformista il 20 Agosto 2020. Diversi organi di stampa insistono nel riproporre ai loro lettori finti misteri e ricorrenti fantasie di complotto sul sequestro di Aldo Moro. È successo anche sul Manifesto del 2 agosto. In occasione del quarantennale della strage di Bologna, un articolo di Tommaso di Francesco e un intervento di Saverio Ferrari richiamano l’argomento, benché nulla c’entri con il tema affrontato. Ci riferiamo, in particolare, al seguente passaggio «… Catracchia, l’amministratore per conto del Sisde delle palazzine di via Gradoli, dove al civico 96 si trovava il covo Br affittato dall’ingegner Borghi, alias Mario Moretti, dove Aldo Moro fu inizialmente tenuto prigioniero». È un’affermazione priva di fondamento che induce il lettore a credere accertato un legame occulto tra il Sisde e le Br: legame, in realtà, sempre smentito dalle ricerche storiografiche e dalle risultanze processuali. Al contrario, l’attività giudiziaria e delle diverse commissioni d’inchiesta ha accertato che l’onorevole Moro non è mai stato tenuto sotto sequestro nei locali di via Gradoli, che fungevano invece da base per due brigatisti, Mario Moretti e Barbara Balzerani. L’ultima Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso Moro ha addirittura effettuato un’indagine Dna sui frequentatori dell’appartamento di via Gradoli, constatando l’assenza di tracce genetiche riconducibili ad Aldo Moro.

In ordine all’episodio dell’affitto di via Gradoli, c’è da dire che in più Corti di Assise sono emerse chiare evidenze. Ci sembra doveroso segnalarle, le elenchiamo in queste poche righe:

1. L’ingegner Borghi/Moretti ha affittato i locali di via Gradoli 96 a seguito di normale annuncio pubblicitario nel dicembre del 1975, come risulta agli atti;

2. I locatori erano i signori Giancarlo Ferrerò e Luciana Bozzi, proprietari dell’appartamento dal rogito avvenuto in data 01/07/1974;

3. È accertato che si è trattato di una transazione tra privati, senza coinvolgere la figura dell’amministratore;

4. Il Sisde, il nuovo servizio segreto civile, è stato creato nel 1977, cioè due anni dopo la stipula del contratto di affitto per la base brigatista.

5. È evidente che il contratto d’affitto tra brigatisti e coniugi Ferrerò non poteva perciò essere implicato con il Sisde, del resto inesistente in quel momento.

6. Occorre peraltro ricordare che, com’è noto, la base Br di via Gradoli 96 ha cessato di essere “un covo” nel 1978, proprio durante il sequestro Moro.

7. Per evitare contiguità immotivate e fuorvianti, va sottolineato che la base dei Nar era invece al civico 65 di via Gradoli e comunque il loro soggiorno risale al 1981. Un altro estremista di destra aveva in realtà abitato in via Gradoli 96 – Enrico Tomaselli di Terza Posizione – ma nel 1986, cioè molti anni dopo i fatti in oggetto. Per completezza documentale, va comunque precisato che non si trattava dello stesso vano occupato a suo tempo dalle Br. Infine, risulta che ad affittare il monolocale al Tomaselli non sia stato l’amministratore Catracchia ma un altro estremista di destra figlio di un magistrato di Cassazione: Andrea Insabato, proprietario del piccolo appartamento e peraltro futuro attentatore alla sede del Manifesto nel dicembre 2000.

8. In ogni caso, anche i presunti 24 appartamenti legati a diverse società immobiliari – che in modo sbrigativo e arbitrario vengono attribuite ai Servizi – sono acquisiti negli anni successivi al sequestro Moro.

9. In particolare, sono agli atti le proprietà immobiliari di Vincenzo Parisi, nel 1978 questore di Grosseto, dal 1980 in organico al Sisde (di cui diventa direttore nel 1984) e nel 1987 capo della Polizia.

10. L’intensa attività immobiliarista del dirigente Parisi, con gli appartamenti intestati alle figlie Maria Rosaria e Daniela, non sembra richiamare reconditi misteri. Ad ogni buon conto, sono fatti notarili riguardanti il civico 75 che ricorrono una prima volta un anno e mezzo dopo il rapimento Moro mentre i successivi, inerenti al civico 96, avvengono nel 1986-87: ben quattro e undici-dodici anni dopo la stipula del contratto di affitto del 1975 da parte delle Brigate Rosse.

11. Quando si tratta dell’immobile di via Gradoli queste date abitualmente non vengono segnalate ai lettori. E invece, in questa come in molte altre occasioni, la precisione sui tempi cronologici è necessaria per un’interpretazione ponderata dei fatti ispirata al metodo storico.

Un’analisi corretta dei tempi, delle fonti e del nesso causa-effetto smentisce seccamente ogni possibile coinvolgimento di entità non riconducibili alla lotta armata intrapresa dalle Br nel lontano 1970. Denunciamo pertanto il mancato rispetto dei più elementari criteri di verità e di logica nella ricostruzione di eventi e circostanze, una degenerazione particolarmente grave della e nella stampa italiana.

Matteo Antonio Albanese, Gianremo Armeni, Andrea Brazzoduro, Frank Cimini, Marco Clementi, Andrea Colombo, Silvia De Bernardinis, Christian De Vito, Italo Di Sabato, Eros Francescangeli, Mario Gamba, Marco Grispigni, Davide F. Jabes, Nicola Lofoco, Carla Mosca, Paolo Persichetti, Giovanni Pietrangeli, Francesco Pota, Ilenia Rossini, Elisa Santalena, Vladimiro Satta, Giuliano Spazzali, Davide Steccanella, Ugo Maria Tassinari

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Ricordando Andreotti.

Oriana Fallaci - Storia di un'Italiana. INCIPIT DELL’INTERVISTA A GIULIO ANDREOTTI.

Lui parlava con la sua voce lenta, educata, da confessore che ti impartisce la penitenza di cinque Pater, cinque Salve Regina, dieci Requiem Aeternam, e io avvertivo un disagio cui non riuscivo a dar nome. Poi, d’un tratto, compresi che non era disagio. Era paura. Quest’uomo mi faceva paura. Ma perché? Mi aveva ricevuto con gentilezza squisita: cordiale. Mi aveva fatto ridere a gola spiegata: arguto, e il suo aspetto non era certo minaccioso. Quelle spalle strette quanto le spalle di un bimbo, e curve. Quella mancanza quasi commovente di collo. Quel volto liscio su cui non riesci a immaginare la barba. Quelle mani delicate, dalle dita lunghe e bianche come candele. Quell’atteggiamento di perpetua difesa. Se ne stava tutto inghiottito in se stesso, con la testa affogata dentro la camicia, e sembrava un malatino che si protegge da uno scroscio di pioggia rannicchiandosi sotto l’ombrello, o una tartaruga che si affaccia timidamente dal guscio. A chi fa paura un malatino, a chi fa paura una tartaruga? A chi fanno male? Solo più tardi, molto tardi, realizzai che la paura mi veniva proprio da queste cose: dalla forza che si nascondeva dietro queste cose. Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione che abbaia. Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza. L’intelligenza, perbacco se ne aveva. Al punto di potersi permettere il lusso di non esibirla. A ogni domanda sgusciava via come un pesce, si arrotolava in mille giravolte, spirali, quindi tornava per offrirti un discorso modesto e pieno di concretezza. Il suo humour era sottile, perfido come bucature di spillo. Lì per lì non le sentivi le bucature ma dopo zampillavano sangue e ti facevano male. Lo fissai con rabbia. Sedeva a una scrivania sepolta sotto i fogli e dietro, sulla parete di velluto nocciola, teneva una Madonna con Bambin Gesù. La destra della Madonna scendeva verso il suo capo a benedirlo. No, nessuno lo avrebbe mai distrutto. Sarebbe stato sempre lui a distruggere gli altri. Con la calma, col tempo, con la sicurezza delle sue convinzioni. O dei suoi dogmi? Crede al paradiso e all’inferno. All’alba va a messa e la serve meglio di un chierichetto. Frequenta i papi con la disinvoltura di un segretario di Stato e guai, scommetto, a svegliare la sua ira silenziosa. Quando lo provocai con una domanda maleducata, il suo corpo non si mosse e il suo volto rimase di marmo. Però i suoi occhi s’accesero in un lampo di ghiaccio che ancora oggi mi intirizzisce. Dice che a scuola aveva dieci in condotta. Ma sotto il banco, scommetto tirava pedate che lasciavano lividi blu. Oriana Fallaci 

Laura Cesaretti per "il Giornale" il 9 novembre 2021. Oggi Claudio Velardi è presidente della Fondazione Ottimisti e Razionali, che ha appena compiuto cinque anni e che «nacque nel momento più oscuro della politica italiana, con il populismo, il sovranismo, la guerra alla competenza sulla cresta dell'onda, per cercare di riportare un po' di ragionevolezza nel discorso pubblico». Il tempo (e l'arrivo di Draghi) «ci hanno dato ragione». Ma Velardi, nella sua prima vita da «quadro politico» di alto livello e consigliere di Massimo D'Alema ai tempi d'oro, ha vissuto da dentro molte elezioni per il Colle, e conosce trucchi, regole e segreti di una partita che negli ultimi decenni, ricorda, «la sinistra è riuscita sempre a gestire, pur senza avere la maggioranza». 

Quando iniziò questa egemonia della sinistra?

«Con l'elezione, paradossalmente, del Dc più di destra, in un momento di crisi drammatica: Oscar Luigi Scalfaro. Una candidatura inventata in modo estemporaneo e apparentemente folle da Marco Pannella, che non aveva truppe in Parlamento, e che risultò la carta vincente grazie alle lotte interne alla Dc e all'opportunismo della sinistra, che ottenne in cambio la presidenza della Camera per Giorgio Napolitano». 

Il successore di Scalfaro fu Ciampi, e a quell'epoca lei era dentro tutti i giochi, al fianco di D'Alema premier. Come andò?

«Andò che D'Alema, e con lui Silvio Berlusconi con cui c'era un accordo sul nome di Giuliano Amato, furono fottuti da Walter Veltroni che si mise d'accordo con Gianfranco Fini e propose Ciampi, poi eletto al primo scrutinio. Ricordo che ancora il giorno prima, mentre passavo in Transatlantico, Berlusconi mi prese da parte e mi chiese: "siete sicuri che i vostri non faranno scherzi su Amato?". Lo rassicurai. E poi il giorno dopo Veltroni tirò fuori il nome di Ciampi».

Una mossa abile?

«Da manuale: la carta Ciampi era forte, prestigiosa, era impossibile a D'Alema dirgli di no, e aveva un'allure di modernità e novità che faceva apparire più antichi gli altri aspiranti, da Amato a Marini o Jervolino. E, quel che più conta, venne tenuta coperta fino all'ultimo». 

Una regola aurea, no?

«Certo: quando si deve eleggere un presidente, i primi nomi sono sempre quelli che poi vengono tagliati fuori. Così come vengono impallinati quelli che provano a mettersi in prima fila a fare i registi: da questo punto di vista, l'operazione fatta da Matteo Renzi nel 2015 per eleggere Mattarella fu magistrale. Anche se non gli portò fortuna. In genere comunque le cose si decidono a pochissime ore dal voto, su una carta coperta, mentre la principale attività nelle settimane precedenti è quella di creare cortine di fumo e fake news per occultare le mosse e bruciare le carte altrui». 

Nel 2006 toccò a Napolitano.

«Anche lì ci fu la manina di Veltroni per fregare D’Alema, che ci sperava tanto da essersi messo a fare i conti dei suoi voti potenziali: un errore madornale, nessuno può vincere quella partita in modo muscolare. Il nome venne tenuto fuori fino all'ultimo: ricordo di aver incontrato Napolitano, che all'epoca era un pensionato del Parlamento europeo, ad un matrimonio ad Anacapri. Ero a un tavolo con D'Alema, Bassolino, le nostre mogli e lui si avvicinò sorridendo: "Vedo che avete fatto il tavolo dei potenti". Poche settimane dopo era al Quirinale». 

Nel 2013 fu rieletto dopo il tonfo dei 101 di Prodi. Come andò?

«Sui 101 fu fatta una letteratura ex post: la realtà è che l'elezione di Prodi non era nel novero delle possibilità. Troppo ingombrante, troppo divisivo, troppe antipatie personali maturate negli anni: i numeri non c'erano, e D'Alema avvertì lealmente sia Prodi sia l'allora segretario Bersani che sarebbero andati a sbattere. Poi tutto venne messo in conto al solito uomo nero di Rignano, Matteo Renzi, ma è una leggenda di comodo costruita dopo». 

Generoso Picone per “Il Mattino” il 12 novembre 2021. Ciriaco De Mita quasi si schermisce quando sente parlare del metodo da lui sperimentato nell’elezione del presidente della Repubblica. Il metodo De Mita: che portò al Quirinale il 24 giugno 1985 Francesco Cossiga al primo scrutinio con ben 752 schede a favore su 977, percentuale del 76 e molto superiore alla barriera dei due terzi richiesti per i primi quattro turni. Un esempio di strategia meticolosa sapiente tanto da meritarsi un capitolo di rilievo nella invece tormentata storia delle votazioni per il Quirinale. Soltanto 14 anni dopo si sarebbe ripetuto un esito del genere, Carlo Azeglio Ciampi salì al Colle con l’immediato consenso di 707 adesioni su 1010. Insomma, un brevetto che ha fatto scuola nella letteratura parlamentare. «Usai soltanto il metodo della condivisione delle scelte», dice l’ex premier e segretario della Dc, oggi novantatreenne sindaco della sua Nusco. Dipendesse da lui, si limiterebbe a rievocare la lezione di don Luigi Sturzo, di Alcide De Gasperi e di Aldo Moro per spiegare che è nella tradizione del popolarismo operare una netta distinzione tra la figura del capo dello Stato, «che rappresenta l’unità politica del Paese», e quella della guida dell’esecutivo, «che rappresenta la maggioranza che governa». Ma non sempre, anzi: quasi mai, questo principio si è affermato e allora il racconto di quei giorni può tornare utile a rivisitare un’esperienza di mediazione e una pratica di affermazione politica.

De Mita, come si delineò?

«Nel 1985 ero da tre anni segretario della Dc e, affrontando la questione della successione a Sandro Pertini, recuperai la memoria del 1971, delle elezioni che il 24 dicembre avevano visto prevalere Giovanni Leone». 

Eletto presidente con il sostegno determinante del Msi e dei monarchici?

«Si assistette a un durissimo scontro all’interno della Dc. Arnaldo Forlani, segretario del partito, indicò la candidatura di Amintore Fanfani. Io, che ero vicesegretario, mi opposi non al nome, ma al metodo adottato: sostenni che la forza politica che intende far eleggere presidente della Repubblica un suo esponente non doveva chiedere alle altre di aderire alla sua proposta. Aveva l’obbligo, invece, di creare le condizioni di una scelta condivisa e per la Dc ciò significava porsi come quasi di riferimento tutti i partiti che avevano elaborato e approvato la Costituzione. L’elezione del capo dello Stato non può che essere, sempre e comunque, un momento alto di legittimazione della Repubblica». 

Il Patto costituzionale declinato per il Quirinale?

«Certo. L’avevo teorizzato fin dal 1969 e il Patto non poteva ridursi a una pura enunciazione, bensì doveva diventare il risultato di una riflessione profonda che, senza discriminare il Msi, affidava alle forze politiche artefici della Carta costituzionale il compito della riforma e del riordino delle Istituzioni. In quel periodo il tema cominciava a conquistarsi una sua urgenza: l’avessimo affrontato a tempo debito non ci troveremo dove ora siamo». 

Dunque, il metodo della condivisione democratica.

«Nel 1971 non ero stato ascoltato e ciò che ho definito la fregola dell’intrigo personale prevalse sulla sostanza del pensiero». 

Lei già il 25 dicembre 1964 era stato protagonista di un gesto di dissidenza nei confronti della Dc: si votava per il successore di Antonio Segni e senza un accordo su Giovanni Leone il partito aveva deciso di astenersi per neutralizzare i franchi tiratori. Piazza del Gesù usò il pugno duro contro lei e Carlo Donat-Cattin, franchi tiratori rei confessi e sospesi per due anni.

«Manifestammo la nostra opinione. In realtà ci liberarono subito. Fu la sola volta in cui io e Donat-Cattin ci trovammo d’accordo». 

Nel 1964 prevalse Giuseppe Saragat.

«Nel 1971 a farne le spese fu la candidatura di Aldo Moro, l’interprete delle larghe intese e il fautore del dialogo tra i grandi partiti popolari, la Dc e il Pci. Se proprio vogliamo parlare di metodo De Mita esso consisteva esattamente nel diretto coinvolgimento delle forze politiche più rappresentative, la Dc, il Pci, il Psi, nella scelta del nome da votare». 

E lei indicò quello di Francesco Cossiga.

«Gli altri partiti avevano riconosciuto alla Dc la priorità dell’indicazione. Io presentai una lista di nomi, tra cui quello di Cossiga, sul quale registrai la maggiore convergenza». 

I segretari del Pci e del Psi erano rispettivamente Alessandro Natta e Bettino Craxi. Si dice che per convincere Natta lei gli avrebbe utilizzato questo argomento: il Pci ha già votato Cossiga alla presidenza del Senato, un no per il Quirinale farebbe eleggere Forlani con i voti dei socialisti. Natta voleva evitare che dopo la vittoria al referendum sulla scala mobile Craxi potesse ottenere una nuova affermazione.

«Mah, non faticai molto a promuovere Cossiga. La verità è che su di lui ci fu una larga convergenza. Semmai si trattò di convincere i partiti laici e ciò avvenne facendo immaginare che uno dei loro leader sarebbe stato nominato senatore a vita. Poi Cossiga non lo fece. Fu un gioco di furbizie».

Francesco Cossiga veniva da un periodo assai complicato, era stato ministro dell’Interno quando Moro era stato rapito dalle Br.

«Il Cossiga che io indicai era il mio antico amico dai tempi dell’Azione cattolica, con lui avevo una proficua frequentazione e niente poteva far ipotizzare l’atteggiamento che lui avrebbe mostrato dopo anche nei miei confronti. Non ebbe grande riconoscenza, diciamo così».

Oggi le sembra riproponibile il metodo De Mita?

«C’è una distanza di tre secoli da quegli anni». 

Le farebbe piacere una conferma del suo amico Sergio Mattarella?

«Io ci penso. Eravamo e siamo amici, è il garante della Costituzione e sarebbe la soluzione migliore. Però in politica le operazioni di qualità diventano possibili quando c’è un fondamento comune».

Tommaso Labate per corriere.it il 18 novembre 2021. «Quanto poco ci vuole a far saltare l’elezione di un presidente della Repubblica. Un dettaglio, una fesseria, e la storia del Paese cambia». 

Tipo?

«Ha presente quella specie di catafalco, quella sorta di cabina con le tende scure che viene montata a Montecitorio, in cui i parlamentari si infilano per votare a scrutinio segreto? Ecco, quel coso ha cambiato la storia d’Italia in un giorno di maggio del 1992. Arnaldo Forlani stava per diventare presidente della Repubblica. Al quinto scrutinio aveva preso 469 voti, al sesto era salito a 479, una o massimo altre due votazioni e ce la avrebbe fatta». 

Ma che c’entra la cabina?

«L’accordo era che si procedesse senza usarla. L’accordo era che i parlamentari votassero a scheda aperta, così li vedevi in faccia. Il voto era segreto, certo; ma si poteva intuire quanto era lungo il cognome che scrivevano, capire se avrebbero rispettato gli accordi. Se sulla scheda scrivi “Forlani” o “Spadolini” c’è una differenza che l’occhio attento sa cogliere. Non solo, qualcuno sospettato di essere un libero pensatore poteva discolparsi mostrando la scheda». 

Un franco tiratore intende?

«Io li chiamo liberi pensatori». 

Comunque sia…

«Seguivamo i lavori dell’Aula nella stanza del governo. A un certo punto, dalla tv, Forlani sente che Oscar Luigi Scalfaro e l’ufficio di presidenza hanno appena accolto la proposta di Pannella di continuare le votazioni usando quel confessionale. Arnaldo teme la trappola e ritira la sua candidatura. Una settimana più tardi, dopo la strage di Capaci, il suo biglietto per il Colle l’avrebbe preso proprio Scalfaro». 

Di quell’elezione del presidente della Repubblica, anno 1992, Paolo Cirino Pomicino fu forse il miglior attore non protagonista. Era stato lui, andreottiano di ferro, ad aprire le danze qualche settimana prima, mettendo a sedere allo stesso tavolo i due pretendenti, Andreotti e Forlani. 

La scena che si vede nel Divo di Sorrentino.

«La raccontai io a Sorrentino. “Se c’è la candidatura di Andreotti, la mia non esiste”, disse Forlani; “se c’è la candidatura di Forlani, la mia non esiste”, rispose Andreotti; e io che concludevo dicendo “ho capito, sono candidati tutti e due”». 

Oggi sembra più semplice di allora.

«Al contrario, è molto più difficile. Quando mollano l’ancoraggio alle tradizioni culturali, i partiti perdono il loro peso nella società e questo si riverbera nei gruppi parlamentari, oggi impossibili da controllare. Guardi la Germania: socialisti, popolari, liberali, ambientalisti, destra, tutto molto definito. Solo da noi non lo è».

Lei come si muoverebbe?

«Gli accordi trovati troppo presto o troppo tardi non reggono. Bisogna muoversi otto-dieci giorni prima dell’inizio delle votazioni. Enrico Letta, Matteo Salvini e Luigi di Maio chiusi in una stanza: si potrebbe partire da lì per poi allargare. Sono gli unici tre che hanno l’interesse a non far finire la partita nelle mani di Renzi».

La candidatura di Berlusconi?

«Aritmeticamente adesso è forte. Ma l’aritmetica, sa...».

Draghi?

«Penso che ci sia l’interesse nazionale e internazionale che rimanga a Palazzo Chigi, soprattutto ora che in Europa non ci sarà più la Merkel. Per il Quirinale bisogna cercare una personalità che abbia tanti anni di attività politica, un’importante esperienza di governo alle spalle, un grande prestigio internazionale. Nomi non ne faccio ma non è impossibile».

Nel 1992, con un partito ancora forte, Andreotti e Forlani arrivarono al «game over» prima del traguardo.

«La corsa di Andreotti durò due ore. Dalle 5 alle 7 del pomeriggio. Il giorno prima della riunione decisiva dei gruppi dc, Forlani va da Giulio e gli dice che avrebbe proposto il suo nome. Mi telefona da Palazzo Chigi Nino Cristofori, mi dice “Paolo, è fatta, muoviamoci per trovare altri voti fuori dalla maggioranza”. Andreotti era in Parlamento fin dalla Costituente, di rapporti ne aveva a destra e a sinistra». 

E poi?

«Mi fiondo nello studio di Andreotti e incrocio Mino Martinazzoli. Gli chiedo che cosa ci facesse lì e lui mi risponde che era andato a smentire l’ipotesi di una sua candidatura, a garantire che anche il suo voto sarebbe andato a Giulio». 

Sembra fatta.

«Sono da Andreotti quando ricevo una telefonata da Enzo Scotti, che mi dice che per il gruppo dei dorotei il candidato della Dc deve essere Forlani. “Ma chi ha deciso?”, urlo al telefono. C’era stata una riunione, presenti Gava, Silvio Lega, Leccisi, Prandini, lo stesso Scotti. A quel punto, dico ad Andreotti che deve telefonare a Forlani. E Arnaldo gli conferma che, tornando al partito, aveva trovato la rivoluzione... Si erano fatte le 7 di sera. Due ore prima era un altro mondo».

L’avrebbe spuntata Scalfaro.

«Dopo l’uccisione di Falcone, si trovano tutti a casa di Ciarrapico: Forlani, Andreotti, Gava, Craxi. È Craxi che spinge su Scalfaro, presidente della Camera, convinto che avrebbe potuto “garantirlo” dal Colle, Mani Pulite era già iniziata... Un altro calcolo sbagliato, la storia che cambia. Per dire a quelli di oggi che, alle volte, basta un niente».

Da “La Stampa” il 18 novembre 2021. Esce oggi per La nave di Teseo il nuovo libro di Marco Damilano, Il presidente (pp.352, € 10). In vista delle elezioni per il successore di Sergio Mattarella, il prossimo febbraio, il direttore dell’Espresso racconta i retroscena, gli intrighi e le congiure che hanno segnato la storia dei diversi Capi dello Stato. Nel brano che qui anticipiamo sono riconosciute, con le confidenze di un grande elettore del Pd, le manovre interne al partito tra il 18 e il 19 aprile 2013, quando nel giro di poche ore Romano Prodi (che si trovava in Mali, inviato del segretario generale dell’Onu), vide sfumare la propria ascesa al Colle.

"Mio padre Andreotti, il Colle e Draghi: vi dico tutto". Francesco Boezi il 5 Dicembre 2021 su Il Giornale. Stefano Andreotti ci racconta del rapporto tra il padre Giulio e la presidenza della Repubblica. C'è spazio pure per qualche aneddoto su Mario Draghi. Giulio Andreotti non è mai stato presidente della Repubblica. Eppure, in almeno una circostanza, il principale esponente della Prima Repubblica ci è andato vicino. Attraverso questa intervista, il figlio Stefano racconta il rapporto che il padre ha avuto con l'istituto del capo di Stato ma non solo. Tra "diari segreti", ultime battaglie politiche e retroscena su Mario Draghi, viene fuori un ritratto completo di un uomo che ha fatto la storia d'Italia.

Come mai suo padre non è mai riuscito a diventare presidente della Repubblica?

"Ci sono due aspetti. Una volta - da quello che mi ha raccontato lui e da quello che mi hanno raccontato le persone che gli stavano vicino - il suo staff, per qualche ora, ha pensato che stesse per essere eletto. Era sera: l'entourage di mio padre era convinto che Andreotti stesse per diventare capo di Stato. Un convincimento che non ha avuto la durata di una giornata. Lei saprà della rivalità dell'epoca con Forlani. Le cose poi cambiarono: i socialisti avrebbero deciso di non appoggiarlo. Mi riferisco al 1992, l'anno in cui è stato eletto Oscar Luigi Scalfaro ed in cui c'è stato il tragico attentato al giudice Giovanni Falcone, a sua moglie ed alla sua scorta. Però c'è un'altra questione: il ruolo di presidente della Repubblica, per mio padre, non rappresentava la massima aspirazione di lavoro. Mio padre ha sempre amato il contatto quotidiano con la gente, oltre che un lavoro che lo portasse spessissimo all'estero. Chiudersi in una sorta di casa dorata non era il massimo delle sue aspirazioni. Le volte in cui mio padre si è sentito gratificato combaciano con quelle in cui ha potuto occuparsi di Esteri".

Nel 2006, però, ha tentato un'altra cavalcata: quella per la presidenza del Senato.

"Sì, poi venne eletto Franco Marini. Credo abbia influito un po' di vanità. Aveva già aderito a Democrazia europea di Sergio D'Antoni, un movimento che poi non avrebbe portato da nessuna parte o quasi. Lui voleva sentirsi giovane. Pure perché veniva da un lunghissimo periodo processuale. Dopo tutte le gratificazioni e cariche ottenute nel corso della vita, credo che non abbia pianto per non essere diventato presidente del Senato nel 2006. E lo stesso vale per non essere diventato presidente della Repubblica".

Le faccio quattro nomi: Andreotti, Craxi, Berlusconi e Renzi. Ogni volta che si avvicina l'elezione del capo di Stato, partono i "veleni". Un modus operandi che continua ai giorni nostri.

"Si tratta di una modalità che l'Italia ha imparato a conoscere all'inizio degli anni novanta, con Craxi come esponente maggiore ma, insieme a lui, tutta la schiera delle persone coinvolte in Tangentopoli. E, nello stesso periodo, con mio padre ed i suoi tanti processi. Abbiamo iniziato ai tempi. E mi pare che quel modo di procedere stia continuando anche adesso, con un massacro terribile. Per carità: in alcuni casi ci sarà stato anche qualcosa dietro ma, per la maggior parte delle volte, mi pare che dopo non si sia scoperto niente di che. Vale anche per Berlusconi, con tutta quella storia delle olgettine: mi sembra che la questione sia davvero tirata per i capelli. E mi pare che lo stesso trattamento stiano subendo Renzi e famiglia".

Qual è stato il presidente della Repubblica con cui suo padre ha avuto un rapporto migliore?

"Le dirò... . Il presidente della Repubblica con cui mio padre ha avuto un rapporto migliore è stato Sandro Pertini, nonostante quest'ultimo non fosse democristiano. Pertini era anche di una generazione precedente ma, mentre questi era presidente della Camera, alla fine degli anni sessanta, mio padre era capogruppo a Montecitorio della Dc. Quindi mio padre aveva avuto occasione quotidiana d'interfacciarsi con Pertini. Un rapporto che si è poi cementato negli anni. Quando mio padre, all'inizio degli anni ottanta, è divenuto ministro degli Esteri, Pertini era il capo di Stato. E in quel periodo hanno condiviso tantissime scelte: qualcosa di straordinario. Le sottolineo l'affetto reciproco che provavano queste due figure. Poi mio padre ha avuto rapporti con più o meno tutti gli altri presidenti. Tenga conto che la famiglia è sempre rimasta fuori dalla politica: mio padre voleva che fosse così. Ma tra i pochi politici che ho conosciuto perché veniva a trovarci a casa, anche in quella dove andavamo in montagna, è stato Francesco Cossiga. Poi mio padre aveva una grandissima stima di Mario Segni. Ma Pertini su tutti".

E con il presidente Sergio Mattarella?

"Sa, mio padre aveva avuto rapporti più intensi con il padre e con il fratello: prima con Bernardo e poi con Piersanti. Con il Mattarella presidente della Repubblica ha avuto rapporti normali, buoni. Anche se - lei sa - Mattarella ha fatto parte del novero dei ministri che si dimise per l'approvazione della Mammì. Certo non ha avuto i rapporti intensi che ha avuto con Pertini e con Cossiga".

Insomma, non esistono questi "diari segreti" per cui la Repubblica avrebbe tremato.

"Noi abbiamo pubblicato, io e mia sorella, i "Diari segreti" ed i "Diari degli anni di piombo". Il titolo del primo libro lo avevamo immaginato in un modo molto diverso. Doveva essere tipo: "Mi voglio togliere un sassolino dalla scarpa". Una delle frasi presenti nel testo. Ma l'editore ha scelto "Diari segreti". La cosa giusta sarebbe stata "Diari inediti", perché questo è vero. Bisogna anche pensare che non sono memorie: questi - mi creda - sono le note che mio padre prendeva giorno dopo giorno, perché ha iniziato durante la guerra. Quei diari non sono rielaborazioni, bensì le annotazioni e le impressioni quotidiani. Poi sui "diari segreti": mio padre ha sempre detto che, nel Paese della dietrologia su tutto, il più grande segreto è che questi grandissimi segreti non esistono. Se si leggono i diari senza essere prevenuti, di sicuro si ha una versione molto diversa rispetto a tante storie sono state raccontate. Una questione su tutti: quella dei 55 giorni di Aldo Moro, della strage di via Fani e dunque di tutte le persone che sono cadute in quel modo terribile".

Ci racconti qualcosa

"Io e mia sorella ricordiamo le preoccupazioni, l'angoscia ed il dolore di quel periodo: possiamo testimoniarli anche noi".

Lei ha detto che suo padre ha provato a salvare Aldo Moro sino all'ultimo giorno...

"Gran parte dei partiti, a cominciare dalla Dc, ma pure dal Pci e dal Partito Repubblicano, e anche da Pertini, erano tutti dell'idea che non si dovesse cedere in nulla. Questo non significa che non sia stata cercata una strada. Una strada che non significava riconoscere qualcosa di pubblico ai terroristi: negli anni, mio padre ha preso molte annotazioni, che non erano mai state rese pubbliche. Forse per rispetto di papa Paolo VI e del segretario Don Macchi. Quest'ultimo, verso le 23.30, veniva spesso da mio padre a parlare, a nome pure del pontefice, di quelle che erano le possibilità e di quello che si poteva fare in merito a Moro. C'era una strada, che è stata successivamente resa nota: il rapporto con un cappellano di un carcere milanese. Il cappellano conosceva qualcuno che a sua volta era in contatto con qualcuno tra i brigatisti. Si sarebbe trattato di un pagamento di denaro: dieci miliardi di lire che all'epoca era una cifra considerevole. E mio padre diceva: "O noi o il Vaticano, in qualche modo, li riusciremo a tirare fuori". Quindi il fatto che il Vaticano avesse tirato fuori quei soldi non è del tutto esatto. E poi c'è la descrizione di questi rapporti e di una, non dico certezza perché sarebbe stata una follia, ma di una vena di ottimismo che Aldo Moro potesse essere liberato. Quando il corpo di Moro è stato ritrovato in via Caetani, parlando con don Macchi, si dedusse - c'è la notazione - che tra i brigatisti fossero nati due partiti: uno di Moretti, che avrebbe voluto uccidere Moro in ogni caso, e uno, quello di Morucci e della Faranda, che sarebbero stati per liberarlo. E prevalse quello di Moretti. Altrimenti loro erano quasi sicuri che quella mattina o comunque in quei giorni sarebbe stato liberato. Ci sono notazioni quotidiane in merito e c'è il grande dolore con cui poi mio padre è morto. Questo posso testimoniarlo io, con i miei occhi. Mio padre ha pianto due volte: quando è morta sua mamma, mia nonna, e quando è morto Moro. Io, quel giorno, l'ho visto distrutto".

Senta, se Andreotti fosse vivo e facesse politica, cosa combatterebbe?

"(Ride, ndr). Consideri che sono passati trent'anni. Ma penso che, rispetto alla politica di oggi, due aspetti non gli sarebbero piaciuti. Uno è la violenza verbale tra avversari. Questo elemento, nella prima Repubblica, non c'era. Mio padre ha avuto rapporti di grande cortesia e correttezza con tanti comunisti. Non dico di amicizia, ma quasi: con Pajetta aveva una frequentazione quasi quotidiana. Abbiamo delle lettere in cui sembrano degli amici veri. Si scambiavano di tutto. Con Berlinguer pure ha avuto un rapporto notevole. L'altra cosa che sicuramente non sarebbe piaciuta a mio padre sarebbe stata l'impreparazione: sia la regola del doppio mandato sia "l'uno vale uno" ormai sono naufragati. Forse qualcosa hanno capito. Mio padre studiava ogni giorno e ha iniziato con la gavetta, attaccando i manifesti di notte. Provi a dire oggi ad un giovane politico di attaccare i manifesti... ".

L'ex ministro Mannino ha associato la realpolitik di Mario Draghi a quella di suo padre. Sono due figure accostabili?

"Pensi che Mario Draghi ha avuto il primo incarico in un governo mentre mio padre era presidente del Consiglio. Noi abbiamo una lettera in cui si parla benissimo di Draghi, che poi viene nominato direttore del ministero del Tesoro. E c'è anche una fotografia che abbiamo trovato. Ne abbiamo una valanga d'immagini. Ce n'è una di un Draghi giovanissimo appoggiato alla porta, mentre mio padre incontra Carlo Azeglio Ciampi. Si tratta di una persona che ha dato tanta serenità ad un ambiente pieno di polemiche. Rispetto a mio padre, viene da un mondo molto diverso: mio padre con la finanza non andava proprio d'accordo. Di certo Draghi sta dimostrando di risolvere le cose giorno dopo giorno. Come mio padre, che non volava mai altissimo: era abituato a non fare voli straordinari per affrontare i problemi. Ecco, sotto questo aspetto, vedo delle similitudini. E Draghi si trova a gestire una situazione non facile: da mediatore. Un po' come Giulio Andreotti".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

"L'archivio segreto, Craxi, il Papa: vi racconto la verità su Andreotti". Federico Bini il 16 Novembre 2021 su Il Giornale. Cirino Pomicino racconta la vita, la politica e i rapporti di Giulio Andreotti.

Guardando retrospettivamente, come è stato stare a fianco di uno degli uomini più potenti d’Italia come Giulio Andreotti?

Fu una vicinanza lunga e iniziata in tempi non sospetti, a metà degli anni ’70, rafforzata nel corso del tempo e poi diventata stringente nel periodo in cui siamo stati al governo insieme. Prima nel governo De Mita con Giulio agli Esteri e io alla Funzione Pubblica, poi con Giulio alla presidenza del Consiglio e io al Bilancio. E naturalmente fu un’attività molto forte, personale e con grande libertà di pensiero. Spesso avevamo anche opinioni diverse ma sempre nel massimo rispetto. È stata un’esperienza di grande qualità e ulteriormente formativa.

Andreotti secondo Lei fu più temuto o “venerato”?

Entrambe le cose. Venerato forse il termine è un po’ esagerato, perché quel termine lo si usa per la divinità, però fu molto esaltato, glorificato per la sua capacità politica. Temuto forse anche ma era più il frutto dell’aneddotica (non a caso veniva definito Belzebù) che non da fatti reali. Anzi, spesso nel partito Andreotti fu vittima di accordi che lo escludevano.

Eppure si narra che custodisse un ampio archivio segreto.

Sciocchezze. Queste carte alla lunga si sono dimostrate inesistenti perché l’intero archivio è stato dato all’Istituto Sturzo e naturalmente non c’è nulla di segreto che non possa essere visto, commentato e pubblicato. Anzi, posso anche raccontare un aneddoto per rendere chiara l’idea. Nell’ottobre del 1992 organizzai a casa il celebre ‘caminetto della Democrazia Cristiana’ con Martinazzoli, Forlani, Gava, Andreotti e De Mita. Ciriaco mi continuava a dire riservatamente – mentre spiegavo che con l’attacco che stavamo subendo per i finanziamenti ai partiti non dichiarati la DC sarebbe stata tranquillamente seppellita, – di spingere Andreotti a pubblicare le carte che teneva per colpire il Partito Comunista. Carte inesistenti. Peraltro che il Partito Comunista ricevesse contributi di cui la magistratura faceva finta di non accorgersene questo era noto a tutti, anche a Di Pietro.

Come era strutturata la celebre corrente Primavera? È vero che Lei era uno dei grandi signori di Napoli?

La corrente a Napoli l’abbiamo fondata Pino Amato, un consigliere regionale poi ucciso dalle BR, io e Scotti. Negli anni successivi Scotti che aveva un temperamento inquieto per cui cambio nel corso degli anni tutte le correnti della Democrazia Cristiana, lasciò la componente andreottiana nel 1983 che passò sotto la mia guida esclusiva. Nel 1976 quando entrai in Parlamento la corrente andreottiana da poco aveva cambiato nome ed era al 5%. Andreotti e Moro avevano il 5% e 6%. In quell’anno complesso e difficile in cui cominciò la solidarietà nazionale, la DC chiamo i capi corrente più piccoli, Moro al partito e Andreotti al governo a testimonianza come nella prima repubblica non valeva solo “la forza” ma anche la capacità politica con riguardo all’interesse del paese e dello stesso partito. Dopo quegli anni arrivarono un po’ di giovani deputati da tutta Italia che in qualche maniera fecero col tempo riferimento a me ed alla fine degli anni ’80 eravamo al 20% del partito e avemmo un ruolo decisivo nel pregare De Mita di lasciare la segreteria del partito e mettere Forlani vincendo il congresso del 1989 con un’alleanza tra Andreotti, Forlani e Donat Cattin, la vera sinistra del partito.

Andreotti alla fine non divenne mai segretario della DC.

Andreotti non era un uomo di partito ma di governo. E questa cosa è stata la grande fortuna della DC. Nella Democrazia Cristiana non c’era , come nella Seconda Repubblica, una sola persona che la faceva da padrone facendo contestualmente il segretario del partito e il presidente del Consiglio. Nella nostra esperienza erano ruoli decisamente distinti. Questo avveniva anche nei partiti laici, socialisti… quando Craxi andò a Palazzo Chigi lasciò il partito al reggente Martelli. La DC aveva un folto gruppo dirigente per cui per ogni ruolo c’era la possibilità di scegliere.

Dove risiedeva la capacità o metodo andreottiano nello stare sempre ai vertici del potere?

Questo in parte è legato alla storia della DC, la prima linea del gruppo dirigente ha finito per avere lunghi anni di esperienza governativa. Andreotti, vissuto grazie a Dio a lungo, ha cumulato ani di governo ma non ha mai avuto un ruolo interno al partito. . A 27 anni era già sottosegretario alla presidenza del Consiglio e quando smise di fare il presidente del consiglio aveva già 76 anni. Faccia lei il conto. Andreotti era un uomo delle istituzioni prima ancora che di partito.

Questo potere alla fine lo ha logorato? È stato coinvolto nei maggiori scandali italiani.

Non c’è dubbio che con una lunga esperienza di governo alle spalle gli avversari siano stati spinti a tentare di criminalizzarlo, lui è la stessa DC. Andreotti aveva una vita privata più che normale ed era difficile attaccarlo su quella linea ed allora lentamente si è tentato di mettere in giro presunti suoi rapporti con la mafia siciliana, con logge massoniche deviate e quant’altro. La verità che tutti i grandi poteri, da quelli economico-finanziari alla massoneria non amavano Andreotti e sponsorizzavano altri leader. Scalfari, ad esempio, amo e difese a lungo de Mita proprio contro Andreotti e Craxi.

Alcide De Gasperi disse: “Andreotti è un ragazzo talmente capace a tutto che può diventare capace di tutto”.

Capace di tutto sì. Bisogna vedere come lo si legge… se con malizia o meno. Andreotti ha sventato mille insidie portate alla democrazia italiana a cominciare dal golpe Borghese e a privilegiato la trasparenza. Ricordo ad esempio le critiche subite per aver dato corso alla pubblicazione degli elenchi di Gladio.

I rapporti con la Santa Sede?

Il rapporto tra la Santa Sede e Andreotti fu strettissimo perché in realtà Giulio negli ultimi anni del fascismo era vissuto all’interno del Vaticano. Andreotti era orfano di padre fin dalla giovanissima età, quindi aveva anche problemi di lavoro e nel Vaticano aveva trovato un’opportunità. Inoltre aveva una religiosità molto alta, così come Moro e la grande maggioranza della DC, una religiosità mai ostentata. Andreotti non andava in giro a far vedere il rosario, ma ogni mattina riservatamente andava a messa e faceva la comunione.

Con quale Papa ebbe maggiore intesa?

Paolo VI. Si erano conosciuti ai tempi della FUCI, da giovanissimi. E poi fu molto apprezzato e benedetto pubblicamente da Giovanni Paolo II.

I politici con i quali ebbe maggiore simpatia o antipatia nella DC?

Il politico democristiano con cui non andava molto d’accordo era Fanfani. Ed era ricambiato. Infatti in ogni governo Andreotti non c’era Fanfani e viceversa. Con De Mita ha avuto lunghi periodi di gelo, perché De Mita, come ho già detto, fu catturato per lungo periodo dal gruppo di potere di La Repubblica. Però poi la cosa si risolse positivamente perché quando De Mita divenne presidente del Consiglio nominò Andreotti ministro degli Esteri e gli fu di grandissimo aiuto.

Con Nenni?

Pesò enormemente quel macigno del lungo periodo del frontismo che aveva catturato Nenni. Andreotti come tutta la DC guardò con interesse il famoso incontro di Pralognan tra Saragat e Nenni per favorire la rottura del fronte popolare e lentamente inserire i socialisti nell’area del governo. C’era un punto di diversità sui tempi tra Andreotti da un lato e Moro e Fanfani dall’altro che portò poi Andreotti nel convegno di Napoli del ’61 a votare contro l’apertura ai socialisti perché la riteneva un po’ troppo precipitosa.

E con Craxi?

Un ottimo rapporto. Anche se c’era una sorta di pregiudizio. Infatti Craxi diceva che “Andreotti era una vecchia volpe che prima o poi sarebbe finita in pellicceria”. Ma erano battute che denotavano la differenza di temperamento. Ma poi sotto il profilo dell’azione di governo si rafforzarono reciprocamente. La vicenda di Sigonella sancì il comune senso della sovranità nazionale e dell’autonomia dell’Italia.

Fu dopo Sigonella che gli americani scaricarono Andreotti e Craxi?

La scelta di far circondare i marines dai nostri carabinieri non fu dimenticata dall’intelligence americana e anni dopo Craxi divenne un corrotto e Andreotti un mafioso.

L’attentato a Falcone sbarrò di fatto la strada del Quirinale ad Andreotti?

Questo fu utilizzato dagli avversari per impedire ad Andreotti di fare il presidente della Repubblica. La verità è che nonostante i miei personali tentativi di trovare un intesa per tempo in un incontro a tre tra Forlani, io e Andreotti ognuno diceva che se c’era l’altro lui si ritirava. In realtà erano candidati entrambi e gli errori di metodo fatti da Forlani portarono al disastro. L’attentato – dopo giorni di stallo – costrinse a scegliere tra uno dei due presidenti delle Camere. Sono convinto, però, che se Forlani non si fosse ritirato dopo la seconda votazione in cui mancarono solo 28 voti sarebbe stato lui a essere eletto presidente della Repubblica.

Come definirebbe Andreotti?

Un uomo di governo che aveva l’amore per la battuta anche quando quelle battute potevano creare qualche problema.

Moriremo tutti democristiani?

Il vero problema è che noi abbiamo sempre sostenuto il contrario e cioè che avremmo dovuto vivere tutti come democristiani. Oggi siamo tutti avvolti da una soffocante mediocrità.

Federico Bini. (Bagni di Lucca 1992) maturità classica e laurea in legge. Lavoro nell’azienda di famiglia, Bini srl materie prime dal 1960, come membro del commerciale e delle pubbliche relazioni. Liberale e un po’ conservatore. Lettera 22 sulla scrivania, Straborghese, cultore dell’Italia di provincia. Svolgo da quando avevo quindici anni un’intesa attività pubblicistica e di studio in ambito politico, giornalistico e storico. Collaboro con diverse riviste d’informazione e approfondimento culturale. Tra le mie pubblicazioni si ricorda: Montanelli e il suo Giornale (Albatros editore), Roberto Gervaso. L’ultimo dandy (L’Universale) assieme a Giancarlo Mazzuca, Un passo dietro Craxi (Edizioni We) e Una democrazia difficile. Partiti, leader e governi dell’Italia repubblicana (Albatros editore). Sono stato condirettore del settimanale Il Caffè. 

Massimo Franco per il "Corriere della Sera" l'1 ottobre 2021. «Ho un mancamento, i medici mi aiutano e dopo qualche tempo mi rimettono in piedi». Il trauma di Giulio Andreotti alla notizia del rapimento di Aldo Moro e della strage dei cinque uomini della scorta è incorniciato in queste poche, laconiche parole. Data: 16 marzo 1978. L'accenno è a pagina 592 dei suoi Diari degli anni di piombo , secondo volume di quegli appunti segreti scoperti in uno sgabuzzino di casa, decifrati e curati dai figli Stefano e Serena; e pubblicati adesso da Solferino. Si intuiscono il collasso fisico e nervoso, ma non c'è traccia dei conati di vomito che costrinsero un carabiniere a andare di corsa a casa del presidente incaricato a prendergli un abito da cerimonia pulito, una camicia e una cravatta, perché doveva presentare al Parlamento il suo governo allargato al Pci. È l'ennesimo omaggio alla «freddezza oggettiva», registrata dal giornalista Bruno Vespa nell'Introduzione, con la quale Andreotti racconta questo decennio della storia d'Italia: 1969-1979. Eppure quel rapimento compiuto dalle Brigate rosse, e le ore immediatamente successive, mostrano un animale politico dotato di sangue freddo, certo; ma coinvolto nella tragedia anche dal punto di vista personale, perché sarebbe potuto toccare a lui e «a piangere sarebbero stati Livia e i figli miei», chiosa citando la moglie. Il 16 marzo Andreotti non pianse. Le lacrime sarebbero state poco andreottiane, per uno come lui che si era sempre vantato di avere pianto solo tre volte, e di non avere mai dato neanche un bacio alla madre in tutta la sua esistenza. Ma quel mattino non riuscì a far scattare il suo autocontrollo considerato quasi disumano. Il fisico rifiutò di assecondare il comando cerebrale che gli suggeriva di non piegarsi. Si piegò, eccome: crollò. Anche se nei suoi diari c'è solo quell'«Ebbi un mancamento» che nasconde il rigetto di Andreotti nel mito andreottiano dell'imperturbabilità: mito che ha contribuito lui stesso a costruire. La cronaca delle lunghe settimane del sequestro, prima dell'assassinio di Aldo Moro, presidente della Dc, si sforza di essere asettica. E tuttavia trasmette un senso di smarrimento, disorientamento, trame e tragedia incombente che sono una fotografia spietata dello Stato italiano colpito dal terrorismo brigatista. Giorno dopo giorno, l'allora premier consegna l'immagine di uno Stato disarmato: sguarnito di un'intelligence capace non solo di fermare, ma di trovare gli attentatori. Diviso tra gli imperativi di fermezza doverosi dopo l'omicidio della scorta, e le manovre di chi, per convinzione o per calcolo, teorizzava una trattativa dietro la quale si nascondeva l'obiettivo di far saltare l'alleanza tra la Dc morotea e il Pci di Enrico Berlinguer; e che voleva usare la disperazione di Moro nella «prigione del popolo» per affossare la sua strategia dell'unità nazionale. Ma lo sfondo storico-politico è quello di un Paese che sta archiviando una fase cruciale. Con un Papa, Paolo VI, amico del presidente democristiano dai tempi della Fuci, la federazione degli universitari cattolici, vicino alla fine ma proteso disperatamente e inutilmente a salvarlo. Quasi senza rendersene conto, nella cadenza quotidiana dei suoi diari Andreotti dipinge un formicaio di potenti, di interessi, di interferenze e di depistaggi, che si agitano intorno alla famiglia Moro e al suo senso crescente di isolamento e di abbandono, perché alla fine prevale la logica della ragione di Stato. L'allora premier parla dei funerali dei «cinque (Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Francesco Zizzi) a San Lorenzo», annota il 18 marzo. Accenna alle «famiglie, di poverissima gente». Ricorda che Leonardi, il caposcorta, «era un po' la controfigura di Moro. Anche quando entravano in chiesa gli portava il messalino». E nel riferire quel particolare spunta il politico che osserva, registra mentalmente, e affida ai suoi ricordi scritti qualcosa che altrimenti, ritiene, andrà perso. I Diari , come i precedenti, sono impastati di questa miscela di storia ufficiale e di storia minore, che apre squarci curiosi, a volte sconcertanti sulla teoria sconfinata dei personaggi conosciuti da Andreotti come ministro, premier, deputato, plenipotenziario ufficioso del Vaticano. Senza risparmiare stilettate ai nemici. I Diari cominciano nel novembre del 1969, con l'ombra della legge sul divorzio e con la strage alla Banca nazionale dell'agricoltura in piazza Fontana a Milano del 12 dicembre. Poi c'è il 1970 e a giugno, ai Mondiali di calcio in Messico, l'Italia va in semifinale. «17 giugno. A letto per afonia. Italia-Germania 4-3». Poi: «21 giugno. Fanfani a Città del Messico. Brasile-Italia 4-1», dove la presenza dell'avversario storico Amintore Fanfani induce a pensare che sia stato una delle cause della sconfitta italiana. Spigolature perfide, in un'Italia democristiana che cominciava a fare i conti con un'opinione pubblica sempre più emancipata dal controllo della Chiesa cattolica, anche se le gerarchie ecclesiastiche faticavano a prenderne atto. E insieme immersa in un'Europa che cambiava faccia e si univa sempre di più. Colpisce oggi, negli anni della Brexit, la ricostruzione andreottiana dell'inizio di gennaio del 1973, con l'Europa che «passa da sei a nove (+ Uk, Irlanda, Danimarca)»; e con lui che celebra con un articolo sull'inglese «Daily Mail» «il più decisivo passo avanti nel campo dell'integrazione europea». Preistoria, che si conclude nell'agosto del 1979 con la nascita di un governo senza più il Pci, guidato da Francesco Cossiga, riemerso dalla depressione del caso Moro. E con un «intermezzo tragicomico a piazza del Gesù», allora sede della Dc, scrive Andreotti. «Quella che sembrava una raffica di mitra provoca allarme. Pisanu ordina il tutti a terra e Cossiga si stende sul divano. Zaccagnini rilascia una dichiarazione sul terrorismo anti-Dc. Poi si apprende che, innervosito dal crepitio di un martello pneumatico di vicini lavori, un agente ha fatto partire un colpo, ferendo al piede l'autista di Zaccagnini», l'allora segretario del partito. Humor nero, figlio della psicosi da «anni di piombo».

Generoso Picone per "il Mattino" il 10 novembre 2021. «Senza Andreotti non si va da nessuna parte» ripetono i commensali durante la cena all’aperto organizzata dai fedelissimi per lanciare la sua candidatura alla presidenza della Repubblica. La sequenza è presa dal «Divo», il film che Paolo Sorrentino nel 2008 dedicò alla vita di Giulio Andreotti, decisamente smentita dal protagonista e tratta da una delle poche rappresentazioni di sé che l’abbia fatto arrabbiare da arrivare a definirla «una mascalzonata»: valga quindi come riferimento puramente simbolico, giusto avviare da quest’immagine la narrazione del romanzo del Quirinale, cioè il racconto delle strategie che una volta segnavano settimane e mesi precedenti l’elezione del Capo dello Stato. Nella realtà, andò a finire che nella Dc prevalse il nome di Arnaldo Forlani, Andreotti scelse di compiere il passo indietro «visto che c’è la candidatura del segretario, la mia non esiste più. E chi lavora a sfavore pecca contro lo Spirito Santo». I franchi tiratori peccarono il 16 maggio 1992. Forlani commentò: «Meglio lasciar fare lo Spirito che muove il creato». Al Colle andò il 25 maggio al sedicesimo scrutinio Oscar Luigi Scalfaro. Stefano Andreotti, il secondogenito di Giulio, già manager di lungo corso che assieme alla sorella Serena si sta dedicando alla cura dei diari segreti del padre – editi da Solferino, dopo il primo volume pubblicato l’anno scorso ora è uscito «I diari degli anni di piombo» e altri ne verranno – ricorda bene quell’episodio.

Costituì una delusione?

«Vuole la verità? In fondo non è che mio padre ci tenesse più di tanto ad andare al Quirinale. Uno come lui considerava il Parlamento il centro dell’attività politica che amava vivere in maniera decisamente attiva. La figura del presidente della Repubblica gli doveva apparire più rivestita da una funzione istituzionale e quindi tale da sottrarlo alla partecipazione diretta attraverso incarichi che lo portavano ad avere frequentazioni e contatti costanti a livello anche internazionale. Ecco: preferiva svolgere il ruolo di capo del governo e meglio ancora di ministro per gli Esteri. Esercitato, per altro, con qualità riconosciute da chiunque e in ogni parte del mondo. Del resto, lui aveva cominciato da sottosegretario al fianco di Alcide De Gasperi, misurandosi con questioni e problemi di rilevante importanza. Ha sempre coltivato, fino al 1989, questa passione, consolidando il suo credito. Quante volte grandi esponenti della sinistra europea e sudamericana hanno interrogato i corrispettivi italiani chiedendo: ma perché ce l’avete con Andreotti?». 

Ciò non toglie che abbia svolto funzioni importanti e determinanti nell’individuazione dei capi dello Stato.

«Certo, si può ben dire che abbia impresso il suo segno in tutte le elezioni. Lui è stato un uomo che ha mediato sempre, all’interno della Dc e con gli altri partiti. Ma i suoi anni sono stati caratterizzati da una idea di politica che oggi è lontana e perduta». 

Mediazioni che potevano portare pure a esclusioni e veti.

«Se lei intende dire degli sgambetti, beh, è vero. Se ne facevano, alcuni erano clamorosi, e anche di questo materiale era composta l’azione politica. Ma c’era anche altro, il quadro politico non era formato da blocchi monolitici e in ogni schieramento si potevano individuare interlocutori con i quali confrontarsi, discutere e magari trovare utili intese».

Ora?

«Non mi faccia parlare del presente. La situazione è sotto gli occhi di tutti e a volte verrebbe voglia di consigliare se non la lettura di qualche buon libro di Storia almeno di un buon manuale di Diritto costituzionale». 

Ricorda una elezione per la quale suo padre abbia avuto un ruolo maggiormente decisivo?

«Per l’elezione di Giovanni Leone, avvenuta al ventiduesimo scrutinio il 29 dicembre 1971. Ci furono contrasti duri all’interno della Dc». 

Non passò il nome di Aldo Moro.

«Il vero sconfitto, l’uomo che subì lo sgambetto, fu Amintore Fanfani. Alla fine, comunque, si riusciva a trovare una soluzione». 

Il metodo Andreotti?

«Mio padre ripeteva che “non c’è nessun metodo che garantisca la vittoria, ci sono solo errori da non commettere”. Aggiungeva quindi che “il vero grande segreto è che non esistono grandi segreti”. Era la lotta politica, magari dura e crudele, ma che portava pure ad alimentare rapporti di stima personale, se non di amicizia».

Ne rammenta uno?

«Quello tra mio padre e Sandro Pertini. Fu uno straordinario legame di solidarietà e rispetto. Avevano caratteri diversi, se non proprio opposti, ma ciò non incrinò mai la loro relazione: Pertini da capo dello Stato e mio padre da presidente del Consiglio». 

Neanche quando Sandro Pertini lanciò le sue accuse dopo il terremoto dell’Irpinia?

«Pertini aveva il suo temperamento, all’istante sbottava e poi recuperava l’equilibrio. Ci sono state tante occasioni in cui si può verificare reciprocità di sostegno». 

Oggi l’aria che si respira è un po’ diversa. Come si muoverebbe suo padre in vista dell’elezione al Quirinale?

«Intanto i tempi sono profondamente mutati. Rimane il rischio delle trappole e dei tranelli: l’esperienza suggerisce di aspettare e valutare tutte le circostanze. All’epoca della Dc non si mettevano in campo i grandi nomi che, a parte qualche eccezione, al Colle non ci sono mai andati né forse hanno davvero pensato di puntarci. Alla fine sa come si dice in Vaticano? Al Conclave chi entra da Papa spesso esce cardinale».

LA MEMORIA STORICA. Quando il primo governo di Giulio Andreotti non vide la luce per scelta degli Stati Uniti. Miguel Gotor su L'Espresso il 26 agosto 2021. Nell’estate 1970 Saragat dà l’incarico ad Andreotti, ma il tentativo fallisce. Fu la Cia a decretare il no degli Usa ma, dopo che il leader Dc fece visita a Washington, cadde la riserva su di lui aprendogli le porte di Palazzo Chigi. L’11 luglio 1970 il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat diede l’incarico di formare un nuovo «governo organico quadripartito di centrosinistra» a Giulio Andreotti, che allora rivestiva l’incarico di capogruppo della Dc a Montecitorio. Andreotti aveva già alle spalle una lunga carriera parlamentare e come ministro, ma quella era la prima volta che, all’età di 51 anni, aveva la possibilità di diventare presidente del Consiglio. Secondo la prassi accettò l’incarico con riserva, tentando di varare una maggioranza organica di centrosinistra con un programma riguardante la riforma dell’amministrazione pubblica, il problema abitativo e l’abbassamento del voto a 18 anni di età. Nel giro di consultazioni, però, incontrò su questi temi dei problemi apparentemente insormontabili con i socialdemocratici del Partito socialista unitario, ossia proprio con la forza politica del presidente Saragat che, in cambio del loro sostegno al governo, avanzarono ai socialisti la richiesta impossibile di rompere con i comunisti nelle giunte locali. Andreotti, dunque, fu costretto a rinunciare e, il 25 luglio 1970, Saragat affidò un nuovo incarico a Emilio Colombo, il quale riuscì a diventare facilmente presidente del Consiglio dal momento che i socialdemocratici, questa volta, approvarono il documento programmatico senza battere ciglio. Colombo era stato indicato al secondo posto dopo Andreotti nelle preferenze dello Scudocrociato e apparteneva alla stessa corrente di Andreotti. Secondo la testimonianza diretta del diplomatico Manlio Brosio, allora segretario generale della Nato, il presidente Saragat gli aveva riferito di avere «una certa fiducia in Colombo: “È un prete di provincia, Andreotti è un prete di curia ed è peggio. Il primo crede a qualche cosa, il secondo a nulla”». La soluzione di questa crisi di governo, se ci limitiamo a osservare il proscenio pubblico, aveva offerto una soluzione così enigmatica che pareva fatta apposta per alimentare la solita retorica sull’incomprensibilità della politica italiana e i suoi insopportabili bizantinismi che tanto piaceva agli osservatori esteri e agli “stranieri in patria” nostrani. Anche se, in questa circostanza, il passaggio di consegna tra le due candidature democristiane era stato accompagnato da un tragico fatto di sangue: il 22 luglio 1970, sullo sfondo della cosiddetta rivolta di Reggio Calabria, una bomba di matrice neofascista aveva fatto deragliare un treno a Gioia Tauro provocando sei morti e oltre una sessantina di feriti. Tuttavia, se spostiamo la tenda quanto basta per sbirciare dietro le quinte, la situazione si complica all’improvviso, anche se, per compiere questo semplice atto, è stato necessario attendere quasi cinquant’anni e le ricerche degli storici Umberto Gentiloni Silveri, Lucrezia Cominelli e Luigi Guarna. Rispetto al luglio 1970, bisogna però fare un passo avanti di sei anni. Nell’agosto 1976, infatti, in occasione del dibattito parlamentare sul voto di fiducia al terzo governo Andreotti, che nasceva grazie all’astensione dei comunisti, l’ex capo del Sid Vito Miceli, nel frattempo divenuto deputato missino, gettò una nuova luce sugli autentici motivi che avevano portato al fallimento della candidatura di Andreotti nel luglio 1970. Il generale dichiarò, tra lo stupore generale, di avere espresso in passato un parere negativo sulla sua nomina a presidente del Consiglio in risposta a una sollecitazione ricevuta da Saragat in persona. Nel suo discorso Miceli definì il dirigente democristiano «un maestro di trame» e gli rimproverò una «disinvoltura eccessiva» con i comunisti, ergendosi a megafono di un’ideale società italiana finalmente stanca di essere gestita da «professionisti della politica» come lui. Miceli aveva fondati motivi per essere risentito con Andreotti che, quando era ministro della Difesa, nel luglio 1974, lo aveva rimosso dal suo ruolo di capo del Sid, al quale lo aveva nominato, nell’ottobre 1970, il socialdemocratico Mario Tanassi. Con questa decisione Andreotti aveva costituito le premesse perché Miceli, non più ai vertici del servizio segreto militare, fosse tratto in arresto, già nell’ottobre 1974, con le accuse di falso ideologico e di avere cospirato contro lo Stato e, in seguito, venisse coinvolto anche nell’inchiesta sul golpe dell’Immacolata, ossia un tentativo di colpo di Stato promosso l’8 dicembre 1970 dall’aristocratico fascista Junio Valerio Borghese. Nelle intenzioni dei congiurati quel «colpo d’ordine» avrebbe dovuto prevedere persino la cattura del presidente della Repubblica Saragat, ormai giunto a fine mandato. Miceli finì sotto processo con l’accusa di favoreggiamento da cui sarebbe stato assolto nel luglio 1978, ma occorre notare che in quell’inchiesta l’accusa era stata esercitata dal Pubblico ministero Claudio Vitalone, notoriamente sodale di Andreotti. Il riferimento polemico che Miceli aveva pronunciato in aula rimandava al tentativo abortito di Andreotti del luglio 1970: la sua denuncia suscitò ampie polemiche perché l’ex presidente Saragat si affrettò a negare di avergli mai richiesto un parere sul politico romano, ma l’ex capo del Sid tenne il punto invocando una commissione d’inchiesta. Anche gli uffici del Quirinale lo smentirono, ma Miceli, intervistato dal giornalista Luigi Bisignani, rispose di essere disposto a leggere in aula il suo «testo in nove righe del veto nei confronti dell’onorevole Andreotti» che si trovava conservato «in fascicoli segretissimi degli archivi del Sid». Saragat in una intervista a Massimo Caprara sul Tempo illustrato, poi disconosciuta dall’interessato ma confermata dal giornale, si sarebbe spinto a dire che per «silurare Andreotti non aveva bisogno delle sollecitazioni dei servizi segreti, né del generale Miceli, del resto non ancora capo del Sid, che io dichiaro di non avere mai conosciuto, bastò la mia personale avversione». La precisazione difensiva di Saragat che Miceli allora non fosse ancora a capo del Sid è utile per datare l’episodio al 1970 perché nel luglio di quell’anno il generale rivestiva l’incarico di responsabile del servizio informativo dell’esercito (Sios) e sarebbe asceso alla direzione dei servizi militari soltanto nell’ottobre di quell’anno. Alla luce di queste esplosive dichiarazioni, che rivelavano quanto Saragat avesse ancora il dente avvelenato per i fatti del luglio 1970 e per i rischi personali corsi con il tentato golpe Borghese nel dicembre successivo, la stampa si gettò sulla vicenda. Ad esempio, il giornalista Paolo Guzzanti scrisse sul quotidiano La Repubblica, il 26 agosto 1976, un informato articolo, “La vera storia del veto”, in cui raccontò che, in quel luglio 1970, la candidatura di Andreotti aveva suscitato l’ostilità di una parte della Cia. Infatti, il fascicolo preparato dal generale Miceli per Saragat sarebbe stato consegnato anche a James D. Clavio, “Army attaché” dell’ambasciata americana a Roma, che lo avrebbe integrato per poi passarlo a William Broe, incaricato della Cia in quegli anni per gli affari in Cile e in America meridionale e “Chief of the western hemisphere division” dal 1965 al 1972. Infine, sarebbe ritornato nelle mani dell’italo-americano Carmel Offie, specialista sin dal 1944 di affari italiani, sodale e protettore del socialdemocratico Tanassi e patrocinatore, nell’ottobre 1970, della nomina di Miceli ai vertici del Sid, evidentemente promosso sul campo per i meriti acquisiti agli occhi degli statunitensi nel corso di quei delicati frangenti. Nell’articolo, Guzzanti sottolineava anche che, durante le sue prime consultazioni nel luglio 1970, Andreotti aveva compiuto un gesto che aveva «mandato in bestia tutto il fronte dell’anticomunismo italiano» perché si era intrattenuto per un’ora con la delegazione del Pci, dopo avere incontrato quella dei quattro partiti di governo del centrosinistra organico, come Saragat gli aveva prescritto di fare. È utile rilevare che la versione ricostruita nell’inchiesta giornalistica del 1976 è risultata confermata dopo l’avvenuta desecretazione di un’importante informativa dell’ambasciatore statunitense a Roma Graham Martin, inviata al dipartimento di Stato il 7 agosto 1970, significativamente il giorno dopo l’insediamento del governo Colombo. Logicamente quel documento non poteva che tenere conto delle azioni e dei movimenti di intelligence avvenuti in Italia a luglio, quando la crisi di governo era ancora aperta e Andreotti in predicato di diventare presidente del Consiglio. Nel dispaccio, l’ambasciatore Martin faceva cenno proprio «agli inusuali sforzi» compiuti negli ultimi tempi dal generale Miceli «per entrare in confidenza» con l’addetto militare a Roma Clavio, cui aveva mostrato tre lettere in cui si faceva riferimento a un colpo di Stato imminente promosso dal principe Borghese e previsto già per la seconda settimana di agosto. Nella circostanza, Miceli aveva voluto rassicurare Clavio sulla tenuta democratica delle Forze armate, garantita da lui e dal generale Enzo Marchesi, capo di Stato maggiore della Difesa, e aveva fatto ascoltare un nastro registrato, che gli aveva consegnato un collaboratore del deputato Antonio Cariglia, anche lui come Tanassi e Saragat socialdemocratico, in cui un politico italiano non meglio identificato parlava di un golpe da realizzarsi già nelle prime settimane di agosto. Il dipartimento di Stato americano rispose il 10 agosto 1970 affermando di rimanere scettico «sui reali mezzi di sostentamento di un tentativo di colpo di Stato questa settimana», come se il rischio fosse ancora all’ordine del giorno e meritevole di essere seguito, affinché fosse scongiurato, day by day, come i fatti dell’8 dicembre seguente avrebbero ampiamente dimostrato. Questo secondo documento si concludeva affermando che il ministro della Difesa Tanassi e, tramite lui, il presidente Saragat, erano già stati informati di quanto stava accadendo in Italia nel luglio 1970, facendo dunque riferimento proprio alle due personalità che pochi giorni prima avevano bloccato il tentativo di Andreotti. Secondo questa ricostruzione, dunque, il candidato Andreotti era stato sconfitto nel luglio 1970 su suggerimento di Tanassi che, intervenendo su Saragat, gli aveva fatto mancare improvvisamente il consenso dei socialdemocratici per rispondere alle pressioni giunte oltreoceano su indicazione del generale Miceli, come da egli stesso rivendicato in Parlamento nell’agosto 1976, come già il 27 agosto era anticipato dal quotidiano La Repubblica in un secondo articolo a firma di Guzzanti intitolato “Fu Nixon a bocciare Andreotti”. Agli occhi del fronte interno politico-militare più fedele agli americani, formato dal trio Tanassi-Miceli-Saragat, la figura di Andreotti non era ancora in grado di garantire appieno la parte più oltranzista del fronte atlantico per due ragioni, solo apparentemente opposte: da un lato, a causa della sua precoce disponibilità ad aprire ai comunisti, dall’altro per i suoi rapporti troppo stretti, in virtù del lungo passato al ministero della Difesa, con quelle frange militari reazionarie mobilitate dal principe Borghese e con quegli ambienti della destra extraparlamentare neofascista che si erano messi in movimento proprio nel mese di luglio 1970 come denunciato dal generale Miceli nei suoi incontri con gli americani. Nello stretto passaggio che lo aveva visto sconfitto, in cui si erano scontrati due «atlantismi concorrenti» meritevoli di ulteriori indagini, Andreotti dovette fare tesoro della lezione ricevuta. Prova ne sia che, per non sbagliare di nuovo, nell’agosto 1971, si recò in visita privata negli Stati Uniti chiedendo di potere rendere visita alle più alte cariche dell’amministrazione Nixon, tramite i canali ufficiali delle ambasciate. Gli incontri richiesti non ebbero luogo, ma dagli incartamenti preparatori dei diplomatici affiorava una rinnovata attenzione nei riguardi di Andreotti, destinato a ricoprire «un ruolo di primo piano nella Dc e nella politica nazionale», e considerato «un politico da tenere in considerazione per il domani». In tutta evidenza, infatti, l’oggi italiano era rappresentato da Colombo, visto dagli stessi statunitensi come «l’ultima possibilità» per salvaguardare una formula di centrosinistra ormai agonizzante, anche se, come notato dalla preveggente nota dell’ambasciatore Martin del 7 agosto 1970, «c’era una buona possibilità che un movimento verso il centro potesse comunque essere prodotto all’interno del processo democratico». Se Andreotti fosse riuscito a interpretare questa nuova linea di ritorno al centrismo entro un contesto democratico, il futuro sarebbe stato suo. In effetti, avvenne proprio così perché quell’agognato domani per lui sarebbe giunto prima del previsto, soltanto sei mesi dopo il viaggio americano, quando, per la prima volta, divenne presidente del Consiglio.

(ANSA il 9 agosto 2021) - "Era l'assoluto opposto della severità, era la bonomia fatta persona. Noi siamo nati, praticamente, che Andreotti era Andreotti. Io sono del '52 e lui era da 5 anni il sottosegretario alla presidenza di De Gasperi e dopo di Pella, nel '53". Così in una lunga intervista a 'Il Giorno', Stefano Andreotti racconta il sette volte presidente del Consiglio, Giulio Andreotti. "Mio padre aveva affidato a mamma il compito dell'educazione quotidiana. Questo non toglie che mio padre era ugualmente una presenza attentissima. Poi si è completamente, come dire, rimbambito per i nipoti. Una volta mia sorella Serena aveva la bambina che faceva la raccolta dei Puffi e di questi pupazzetti mia nipote non ne trovava uno. Ebbene, mio padre ha smosso non so chi per riuscire a recuperarlo da un importatore del Nord". Alla domanda su che cos'era per Andreotti il potere lui risponde: "Era qualcosa che in assoluto gli piaceva: questo è chiaro. Ricoprire cariche pubbliche è indubbio che lo appagava e forse, diceva, "ho anche fatto qualche sgambetto a qualcuno" per averle. Come altri cavalli di razza democristiani li facevano a lui. Però il potere per lui non era fine a se stesso, era un mezzo". Nell'intervista, Stefano ricorda anche i momenti difficili delle accuse di mafia. "Quando tutto comincia, dal punto di vista umano, mio padre era un uomo finito: non usciva più di casa, era impasticcato di schifezze che gli avevano dato per dormire e stare tranquillo, non faceva più niente. Una morte fisica e civile. Poi, ha avuto la forza di reagire. Lo ha fatto grazie a persone che gli sono state vicine, a cominciare dalla famiglia, ma anche a persone verso le quali aveva una grande venerazione. Due in particolare: Madre Teresa di Calcutta e Giovanni Paolo II. Ma, oltre le persone e la famiglia, è stata la fede la sua alleata: una fede vera che ha avuto fino alla fine e che lo portava a dire: 'Questo mi accade perché ho avuto tanto dalla vita'".

Patrizio J. Macci per affaritaliani.it - 19 maggio 2021. Il video è su una pagina celebrativa della Prima repubblica, quindi ascrivibile ai primi Anni novanta. Andreotti è in forma smagliante, determinato e deciso; usa un esempio colto come quello del libro di Dino Buzzati per dare una forma palpabile alla platea dei presenti della marea di possibili immigrati che negli anni a venire sarebbero potuti arrivare se non si fossero incentivati gli aiuti nei loro territori, parla di industria, turismo e agricoltura da incentivare immediatamente per scongiurare un dramma simile. Tutte le altre proposte o critiche (“devono aiutarsi tra di loro” -i Paesi del continente africano- “perché abbiamo tanti problemi noi in Italia”) “sono materiale buono per scrivere libri”, conclude Andreotti. E’ un’analisi concreta la sua, certo la situazione geopolitica era profondamente diversa. Le uova erano ancora tutte nel paniere (la Primavera Araba neanche immaginabile) e i conflitti tra stati nazionali africani limitati. Eppure Andreotti antevedeva, o forse aveva capito che sarebbe stato impossibile mantenere un equilibrio simile per sempre. E l’Italia sarebbe stato il primo Paese investito dallo tsumami migratorio. Alcuni commentano il suo intervento a pie’ di pagina sostenendo quanto una simile previsione fosse relativamente semplice da pronunciare, ma sfido chiunque a registrare una testimonianza simile consegnata a un video, quindi scolpita e autografata nella pietra, a sotterrarla nell’ipotalamo di miglia di ore di comizi, interventi in sedi istituzionali, meeting e a rispolverare il contenuto tra venti trent’anni. Forse Andreotti aveva dati e analisi che mancavano ai più, ma -visto come è andata a finire- nessuno ha ascoltato le sue parole. Il tempo c’era tutto per porre rimedio a quello che stava per accadere. Poco o nulla di quanto consiglia nel suo intervento è stato fatto. Forse non sarebbe bastato, ma in parecchi casi nemmeno si è cominciato. Andreotti, come il Tenente Drogo raccontato nel romanzo di Buzzati, era certo che i Tartari sarebbero arrivati dal confine. Sarebbe bastato ascoltare Andreotti o leggere Buzzati. Al momento politici come Andreotti “scarseggiano” e il romanzo è divenuta una tragica e dolorosa realtà. A questo punto ci si accontenterebbe anche solo di politici che abbiano almeno letto Buzzati.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Gli amici di Craxi.

Maria Teresa Meli per il "Corriere della Sera" il 26 novembre 2021. «Intrighi, rivalità, ambizioni personali, lotte intestine allo stesso partito, tutto vero, ma sempre nelle elezioni del capo dello Stato c'è anche la politica». Achille Occhetto, era nella cabina di regia del Pci in diverse votazioni del presidente e da segretario del Pds è stato tra i protagonisti dell'elezione di Oscar Luigi Scalfaro. 

Occhetto, furono giorni complicati convulsi e drammatici, quelli.

«Al centro delle prime votazioni c'erano le ambizioni contrapposte di Forlani e di Andreotti in cui cercò di insinuarsi senza molto successo lo stesso Craxi».

Anche l'allora segretario socialista mirava al Colle?

«Partecipai a molte riunioni con Craxi, quando vide che né Andreotti né Forlani ce l'avrebbero fatta pensò di poterci provare lui anche se continuava a fare nomi di altri socialisti, ma erano tutti ballon d'essai». 

Furono votazioni interminabili: finivano tutte a vuoto.

«Fu un braccio di ferro estenuante dominato dalle schede bianche e dai franchi tiratori. Scalfaro non era assolutamente all'orizzonte, io avevo cominciato ad apprezzarlo per un vibrante discorso che aveva fatto pochi giorni prima alla Camera sulla questione morale: si era all'alba di Mani Pulite. A un certo punto però Scalfaro fu candidato dal più laico dei laici, cioè Pannella, ma nelle prime elezioni prese soltanto sei voti». 

E voi a chi pensavate?

«In questo caos noi non potevamo assolutamente votare per Andreotti ma nemmeno per Forlani che era la personificazione del pentapartito, cioè la cittadella mummificata che si fondava sull'esclusione teorizzata dei comunisti dall'area di governo, e quindi il mio obiettivo era prima di tutto quello di scardinare quella cittadella. Volevo trovare un outsider. Ma ci fu un fatto decisivo, un fatto drammatico, la strage di Capaci. Un giornale intitolò «la Repubblica è finita». Non potevamo continuare a dare lo spettacolo di un Parlamento impotente che non riusciva a eleggere il presidente. Le lotte contrapposte furono archiviate e vennero fuori due ipotesi: quella di votare per il presidente della Camera, cioè Scalfaro, o per il presidente del Senato Giovanni Spadolini. Noi eravamo divisi. Io alla vigilia del voto ebbi forti pressioni da importantissimi personaggi dell'editoria e dell'imprenditorialità italiana perché scegliessi per Spadolini». 

Lei invece...

«Io parlai con Spadolini, gli dissi che sarebbe stato un ottimo presidente, ma aggiunsi: "Temo che se noi puntiamo su di te siamo sconfitti e se siamo sconfitti rafforziamo Andreotti, Forlani e Craxi". Poi la sera delle elezioni, era già buio, mi presentai nello studio di Scalfaro, mi sedetti accanto a lui sul divano e gli dissi senza preamboli: "Sono venuto a dirti che domani noi voteremo per te". Lui mi ringraziò calorosamente pensando che i nostri voti gli garantissero il successo. "Però..",continuai io con un certo imbarazzo. "Però?", mi interruppe Scalfaro preoccupato. Io proseguii: "Devi sapere che nel nostro gruppo c'è una grossa riserva per la tua forte inclinazione religiosa e qualcuno teme che tu possa entrare in conflitto con la necessaria connotazione laica del capo dello Stato". Ma prima che io continuassi, lui alzò la mano destra a mo' di giuramento e disse: "Capisco, ma di' ai tuoi che io sono serenamente degasperiano, la Chiesa è la Chiesa, lo Stato è lo Stato, non ci deve essere e non ci sarà nessuna commistione". Io gli credetti, lo riferii ai gruppi del Pds e per rafforzare la mia posizione riportai anche un altro mio colloquio, quello con Pannella, che aveva avuto da Scalfaro le stesse garanzie». 

E Scalfaro venne eletto.

«Il che dimostra l'imprevedibilità di queste elezioni. Il super cattolico Scalfaro divenne presidente con il sostegno di due super laici, me e Pannella. Già, non è vero quello che leggo in questi giorni che nelle elezioni del presidente c'è una regia unica: ci sono molte regie che si intrecciano e si elidono a vicenda. Direi che l'elezione del capo dello Stato è più simile alla morra cinese: io metto la pietra per spuntare le forbici, poi c'è un altro che mette la carta per coprire la pietra Ci sono elementi imponderabili dentro i quali però c'è sempre il filo rosso della politica».

Occhetto riscrive la storia: "Ecco come andò l'elezione di Scalfaro". Orlando Sacchelli il 26 Novembre 2021 su Il Giornale. L'ex segretario del Pds racconta alcuni retroscena sull'elezione di Scalfaro al Quirinale nel 1992. Nel 1992 Craxi voleva tornare nella stanza dei bottoni, dove era stato dal 1983 al 1987, lasciando poi spazio alla Dc in virtù del famoso "patto della staffetta" deciso con il segretario della Dc Ciriaco De Mita. La maggioranza di governo in quegli anni si reggeva sull'asse Dc-Psi, con il sostegno di altre forze minori (Psdi, Pli e fino al 1991 anche il Pri), dunque a muovere le danze erano i due azionisti principali. Le elezioni del 5 aprile segnarono una lieve battuta di arresto per la maggioranza, che ottenne il 48,85% alla Camera (331 deputati) e il 46,22% al Senato (163). I numeri per governare c'erano ma lo scoppio di Tangentopoli minava le fondamenta della vecchia classe politica, mettendo tutto in discussione, un avviso di garanzia dopo l'altro. E da lì a poco sarebbe partita la "caccia alle streghe" con il refrain del "parlamento delegittimato dalla questione morale". Alle nuove camere appena insediatesi toccò il compito di scegliere il Presidente della Repubblica, dopo le dimissioni di Cossiga. Si venne a creare una grave situazione di stallo tra le forze politiche, che non riuscivano a decidere come sbloccare la situazione individuando l'uomo da far salire sul Colle. Alla fine la spuntò il presidente della Camera, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro. Oggi, a distanza di quasi trent'anni, Achille Occhetto, all'epoca segretario del Pds (nato dalle ceneri del Pci), ci tiene a far sapere la propria versione dei fatti. Dalle colonne del Corriere della sera racconta che Craxi avrebbe voluto accomodarsi sullo scranno più alto del Paese. Nella sua ricostruzione parte da dettaglio letto e riletto migliaia di volte: "Al centro delle prime votazioni c'erano le ambizioni contrapposte di Forlani e di Andreotti in cui cercò di insinuarsi senza molto successo lo stesso Craxi". Che i due leader della Dc avessero quella mira è risaputo. Che l'avesse anche Craxi fino ad ora non era emerso, anche se potrebbe essere vero. Si è sempre saputo che tra i piani del leader del Psi ci fosse il ritorno a Palazzo Chigi. Occhetto dopo quasi trent'anni prova a scrivere un'altra storia, insinuandosi tra i desideri (legittimi) altrui e il normale gioco della politica. "Partecipai a molte riunioni con Craxi - racconta l'ex segretario Pds - quando vide che né Andreotti né Forlani ce l'avrebbero fatta pensò di poterci provare lui, anche se continuava a fare nomi di altri socialisti, ma erano tutti ballon d'essai... Fu un braccio di ferro estenuante dominato dalle scheda bianche e dai franchi tiratori. Scalfaro non era assolutamente all'orizzonte, io avevo cominciato ad apprezzarlo per un vibrante discorso che aveva fatto pochi giorni prima alla Camera sulla questione morale: si era all'alba di Mani Pulite. A un certo punto però Scalfaro fu candidato dal più laico dei laici, cioè Pannella, ma nelle prime elezioni prese soltanto sei voti". Occhetto ha il buon gusto di fare il nome del vero 'king maker' dell'elezione di Scalfaro: il leader dei radicali Marco Pannella, che avrà avuto molti difetti ma sapeva avere grandi intuizioni politiche. L'ex leader della Quercia (simbolo del Pds, ndr) non perde troppo tempo prima di riprendersi il merito di aver sbloccato l'impasse:"In questo caos noi non potevamo assolutamente votare per Andreotti ma nemmeno per Forlani che era la personificazione del pentapartito, cioè la cittadella mummificata che si fondava sull'esclusione teorizzata dei comunisti dall'area di governo, e quindi il mio obiettivo era prima di tutto quello di scardinare quella cittadella. Volevo trovare un outsider". L'attentato al giudice Falcone (23 maggio 1992) accelerò le votazioni. "Fu un fatto decisivo", spiega Occhetto. "Non potevamo continuare a dare lo spettacolo di un Parlamento impotente che non riusciva a eleggere il presidente. Le lotte contrapposte furono archiviate e vennero fuori due ipotesi: quella di votare per il presidente della Camera, cioè Scalfaro, o per il presidente del Senato Giovanni Spadolini". Il Pds pur essendo diviso al proprio interno scelse di convergere sul dc Scalfaro. Occhetto spiega come andarono le cose: "Parlai con Spadolini, gli dissi che sarebbe stato un ottimo presidente, ma aggiunsi: 'Temo che se noi puntiamo su di te siamo sconfitti e se siamo sconfitti rafforziamo Andreotti, Forlani e Craxi'". Il grande pericolo da scongiurare, dunque, manco a dirlo era il Caf (l'asse Craxi, Andreotti, Forlani), che da un decennio decideva le sorti politiche dell'Italia. La scelta cadde sul "supercattolico" Scalfaro, che per farsi sostenere dai post comunisti assicurò a Occhetto di essere fermamente degasperiano: "La Chiesa è la Chiesa, lo Stato è lo Stato, non ci deve essere e non ci sarà nessuna commistione". "L'elezione del Capo dello Stato - conclude Occhetto nel suo racconto - è simile alla morra cinese: io metto la pietra per spuntare le forbici, poi c'è un altro che mette la carta per coprire la pietra. Ci sono elementi imponderabili dentro i quali però c'è sempre il filo rosso della politica". Già, la politica è alla base di tutto. E va persino oltre agli ideali. Altrimenti non si spiegherebbe per quale ragione il Pds appena nato chiese di aderire all'Internazionale Socialista, cosa che avvenne nel settembre 1992 con il beneplacito di Bettino Craxi. Due mesi dopo il Pds partecipò alla costituzione del Partito del Socialismo Europeo. Liquidati i socialisti in Italia, con l'inchiesta che avrebbe spazzato via tutti i partiti della maggioranza, l'obiettivo degli ex comunisti era occupare il loro posto nella storia.

Orlando Sacchelli. Toscano, ho scritto per La Nazione e altri quotidiani. Dal dicembre 2006 lavoro al sito internet de il Giornale. Ho fondato L'Arno.it, per i toscani e chi ama la Toscana

Le ultime tornate presidenziali. Intervista a Margherita Boniver: “Occhetto dice il falso, Craxi non si è mai autocandidato al Quirinale”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 30 Novembre 2021. Margherita Boniver, socialista transitata dal Psi a Forza Italia, è stata tre volte deputata e due senatrice. Ha preso parte a tre voti presidenziali e dopo aver letto la ricostruzione di Achille Occhetto sulla brama quirinalizia di Craxi, puntualizza il suo ricordo delle ultime tornate presidenziali.

Boniver protesta: Occhetto confonderebbe. Ci racconta?

Occhetto, mosso da non so quale risentimento, vuole far passare l’idea che i socialisti erano loschi e scorretti mestatori. E che alle elezioni ponte tra prima e seconda Repubblica, quando venne eletto Scalfaro, Bettino Craxi provò fino all’ultimo a far votare il suo nome. Tutto falso. Craxi non si è mai autocandidato.

E come andò?

Era il 1992, il candidato concordato dal pentapartito era Arnaldo Forlani. Venne impallinato dai veti incrociati dei democristiani. E i socialisti capirono. Dopodiché era estremamente difficile trovare un nome autorevole: quello di Andreotti fu abbandonato sul nascere. Il clima era particolarissimo, c’era l’eco della strage di Capaci. Si votò per una settimana intera, Scalfaro venne eletto al sedicesimo scrutinio.

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Chi lo propose?

Il più laico di tutti: Marco Pannella. Non so per quale ispirazione iniziò a proporre a Bettino Craxi, con una telefonata, di votare il cattolico Scalfaro. Con motivazioni tali da convincere Craxi che mettere un giurista come Scalfaro sullo scranno del massimo garante della Costituzione avrebbe garantito le istituzioni, le avrebbe messe in sicurezza davanti a quel terremoto che avanzava.

E Craxi accettò.

Era stato un valido ministro degli Interni nel governo Craxi. Poi si rivelò terrificante dal punto di vista politico.

Addirittura terrificante?

Furono due anni in cui si concessero alla magistratura tutti gli eccessi che oggi conosciamo, si visse in uno stato di eccezione permanente. Fino allo scioglimento delle Camere nel 1994, benché la maggioranza avesse tutti i numeri. Una forzatura che aprì le porte del Parlamento a quella deriva giudiziaria che portò alla ghigliottina italiana: vennero decapitati tutti i partiti. Con Scalfaro avviene la presa di potere delle toghe che per la prima volta si sostituiscono al potere democraticamente eletto.

C’erano altri candidati nello schieramento laico?

Valiani e Spadolini, tra i grandi nomi di cui si parlava. Ma ci fu una chiusura soprattutto da parte del Pds che aveva capito una cosa: cavalcando sapientemente una certa corrente, si poteva far fuori il pentapartito in blocco. E l’operazione sarebbe meglio riuscita se a far calare il sipario sulla storia fosse stato un democristiano. Naturalmente il più amico dei magistrati tra i democristiani.

Saltiamo Ciampi per andare a Napolitano. Un voto che la vide protagonista di una ribellione.

Sì, perché io votai Napolitano dall’inizio andando contro le indicazioni del mio partito. Perché ero stata responsabile esteri del Psi e lui del Pci. Ci eravamo conosciuti ed avevamo collaborato in tante di quelle occasioni, con un clima di fiducia e di stima reciproche, che non avrei potuto non votarlo. Anche schierandomi apertamente contro l’indicazione di Berlusconi.

Che oggi è ufficialmente candidato.

Penso che alle prime tre chiame gli si rivolgerà un tributo, un omaggio che gli è dovuto. Dalla quarta in poi si cercherà la convergenza su altri nomi. Lui è l’unico candidato ufficiale, ma conosco personalmente una cinquantina di aspiranti quirinalizi. Nei salotti romani, all’ombra dei convegni, è tutto un giocare sul toto nomi, come mai avevo visto fare prima. Un gioco grottesco, destinato più a confondere le acque che a determinare una soluzione. Certo è che non avevo mai visto nel dibattito pubblico una tale attenzione al Quirinale.

Tanto da dare quasi ragione a Giorgetti, siamo al presidenzialismo di fatto?

Può esserci una spinta in questo senso. Ma i riflettori puntati sul Colle sono dovuti all’incertezza, viviamo in un momento emergenziale. Non ci si illuda che il nome che uscirà significherà una chiamata al voto. Io non lo penso, non è così automatico. Chi è che va al Colle e come primo atto scioglie la legislatura?

E l’ipotesi Draghi al Quirinale, magari in ticket con Franco a Palazzo Chigi?

Draghi sta facendo un lavoro prezioso, preciso e puntuale sul Pnrr. E su dossier e riforme cruciali. Chiunque andrà al Quirinale dovrebbe piuttosto chiedergli di rimanere fino a fine legislatura.

E poi dall’anomalia del governo tecnico bisogna tornare alla politica…

Siamo l’unica democrazia commissariata dalla banca centrale: Dini, Ciampi, Draghi. Tutto bene ma adesso si torni alla politica e al gioco democratico, per favore. Oppure si decida di spostare a via Nazionale la sede del governo, direttamente.

Ci vuole quindi al Quirinale un Presidente che sappia consolidare l’asse con Mario Draghi e con l’Europa?

Io un nome ce l’ho. Quello della seconda carica dello Stato, la presidente del Senato Elisabetta Casellati che raccoglie grande stima super partes, ha una grande esperienza ed è una donna di grande equilibrio, una avvocata garantista. E come si vede dai numeri, tocca al centrodestra esprimere un nome su cui convergere.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Retorica e furbizie. Augusto Minzolini il 30 Novembre 2021 su Il Giornale. In quel festival della retorica e della furbizia in cui si trasforma spesso la corsa al Quirinale, c'è un concetto che specie a sinistra viene utilizzato quando fa comodo. In quel festival della retorica e della furbizia in cui si trasforma spesso la corsa al Quirinale, c'è un concetto che specie a sinistra viene utilizzato quando fa comodo: il presidente della Repubblica deve essere espressione di una vasta maggioranza, deve essere un nome condiviso. Naturalmente sarebbe auspicabile che si verificasse una condizione del genere, ci mancherebbe altro. Un capo dello Stato che fosse eletto da almeno tre quarti del Parlamento sarebbe un segnale di unità per il Paese. Solo che poche volte è successo nella storia patria: su 13 presidenti appena 5 hanno avuto più del 70% dei voti dei grandi elettori. Altri sono andati poco sopra il 50% (Antonio Segni, Giovanni Leone e Giorgio Napolitano). Poi com'è giusto, ed è qui il vero messaggio che una classe dirigente dovrebbe offrire alla nazione, il capo dello Stato votato da una parte del Parlamento o da un ampio schieramento, è diventato comunque il presidente di tutti. Senza pregiudizi o condizioni. Ecco perché l'ultima ingegnosa trovata di un Pd senza candidati è nei fatti più strumentale di quanto appaia. Specie se condita da un corollario che rasenta il ridicolo: se il presidente non fosse espressione di una scelta condivisa potrebbe cadere il governo. Ma chi l'ha detto? Quale Pico della Mirandola della politica si è inventato un teorema del genere, indimostrabile quanto campato in aria? Semmai l'unica ipotesi che potrebbe mettere in discussione l'equilibrio emergenziale di oggi è proprio quella di un Mario Draghi che salisse al Quirinale. A quel punto bisognerebbe rimettere in piedi un governo nei primi mesi dell'anno elettorale. Impresa improba se non impossibile: Matteo Salvini, per fare un nome, un attimo dopo uscirebbe dalla maggioranza spiegando che - venuto meno un premier di prestigio e autorevole come Draghi - non sussisterebbero più le condizioni per proseguire in questa esperienza. Ma a parte ciò, quello che più colpisce sul piano del costume è il comportamento della sinistra: il nome condiviso Pd e alleati lo predicano solo quando sono in difficoltà. Nel 2006 il vertice del centrosinistra non ci pensò due volte ad imporre Napolitano, eletto con una manciata di voti in più di quelli che portarono sul Colle Leone (il presidente meno votato). Ma anche Mattarella nel 2015 è arrivato al Quirinale sull'onda di uno scontro tra la sinistra e il centrodestra che portò alla rottura del patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Motivo per cui se anche in questo caso il presidente fosse eletto a maggioranza non ci sarebbe da far drammi. Sarebbe poi suo compito dimostrare che è il garante di tutti. A meno che agitando la tesi preventiva del presidente «condiviso», il Pd o l'intera sinistra non accampino una sorta di potere di veto su qualcuno, arrogandosi il diritto di giudicare chi è presentabile e chi no. Questo sì che in democrazia sarebbe inaccettabile. Per tutti. Augusto Minzolini

Quirinale, Claudio Martelli: «Dalla cena di Gava alla strage di Capaci. Così fallirono i candidati del ’92». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 3 dicembre 2021. «Andreotti cominciò a parlare e disse: “Davanti alla candidatura di Forlani io mi sono fatto doverosamente da parte, ma ora che è tramontata non credo sia ingiustificata la mia”. Io pensai tra me: Ma la candidatura di Forlani l’hai fatta tramontare tu, con i tuoi franchi tiratori…». Fu un dialogo franco ma pieno di «non detti» quello tra Giulio Andreotti e Claudio Martelli, il pomeriggio del 23 maggio 1992, in una stanza del gruppo democristiano a Montecitorio; il primo capo del governo con l’aspirazione di diventare presidente della Repubblica, l’altro vicepresidente del Consiglio e ministro della Giustizia, nonché — in quei giorni — ambasciatore del segretario socialista nelle trattative per l’elezione del nuovo capo dello Stato.

Qualche cecchino contro Forlani c’era stato anche . «È vero, la sinistra di Claudio Signorile e, in misura minore, gli amici di Rino Formica; ma il ruolo preponderante per affossare il segretario della Dc l’avevano giocato proprio gli andreottiani, con la regia di Palo Cirino Pomicino».

Nemmeno questo disse ad Andreotti? «No, andai al merito della questione. Gli spiegai che non eravamo in grado di garantirgli la compattezza dei socialisti, per via di vecchie frizioni risalenti al periodo dell’unità nazionale e al caso Moro».

E Andreotti? «Rispose che non vedeva il motivo di tanta contrarietà, i tempi erano cambiati e lui era stato sempre leale con noi, anche da ministro degli esteri nel governo Craxi, durante la crisi di Sigonella con gli americani e in tante altre occasioni. Fu in quel momento che squillò il telefono, e lui s’interruppe per rispondere».

Chi era? «Non lo so, ma dopo qualche attimo coprì il microfono della cornetta con la mano e mi disse “C’è stato un attentato a Falcone, ma sembra sia incolume”. Io mi alzai immediatamente e lui con lo sguardo mi chiese: “Dove vai?”. Vado a vedere, risposi e Andreotti, dopo un attimo di esitazione, disse “vai, vai”. Cercai il ministro dell’Interno Scotti, e con Gerardo Chiaromonte presidente dell’Antimafia raggiungemmo Palermo».

Il suo ruolo nelle trattative per il Quirinale finì il quel momento? «Sì, come la candidatura di Andreotti che in realtà non aveva sbocchi indipendentemente dalla strage di Capaci».

Aveva inciso l’omicidio del suo referente in Sicilia, , ucciso dalla mafia due mesi prima? «In parte sì, la mafia colpì Lima anche per colpire Andreotti. Ma quando uccisero Falcone i mafiosi erano concentrati su di lui, non su Andreotti; avevano tolto di mezzo l’uomo della mediazione e in campo erano rimasti loro e lo Stato, rappresentato da Falcone, da me che lo avevo chiamato al ministero della Giustizia e da Scotti ministro degli Interni».

Quindi sulla scelta di Scalfaro eletto capo dello Stato all’indomani della lei non mise bocca? «No, ma bocciati Forlani e Andreotti e scartati i laici, restavano due nomi, il suo e quello di Martinazzoli. Scalfaro era appena stato eletto presidente della Camera, dunque aveva già una potenziale maggioranza».

E la precedente bocciatura di Forlani come andò? «La sua candidatura fu decisa in una cena a casa di Antonio Gava (in quel momento senza incarichi ufficiali, ma leader della maggioritaria corrente dorotea, ndr), alla vigilia delle votazioni. Alla cena partecipammo Craxi, Forlani e io. La tv trasmetteva una regata del “Moro di Venezia”, Forlani seguitò a guardarla finché non ci chiamarono per mangiare le orecchiette pugliesi. Forlani era riluttante ad andare al Quirinale, non è mai stato un uomo ambizioso, e disse “Andreotti ci tiene, perché non votiamo lui?”. Gava e Craxi mi invitarono a rispondere e io spiegai che non potevano garantirne l’elezione. Gava fu soddisfatto, e a quel punto Forlani si lasciò convincere. Poi è andata com’è andata».

Non avevate calcolato i franchi tiratori? «Il rischio c’era, ma contavamo di riuscire comunque a raggiungere la maggioranza».

E Craxi? Non voleva salire lui sul Colle? «Questa speranza l’avevo nutrita io quando sembrava si potesse aprire col Pds di Occhetto un “ciclo nuovo”, ma poi D’Alema, che a me aveva detto il contrario in un pranzo al ristorante Antica pesa, sotto casa mia, si mise di traverso. A quel punto Bettino voleva tornare premier con la Dc dunque doveva cedere il Quirinale».

Che non ci fu. «Nella decisione di Scalfaro di non dargli l’incarico ha influito l’inchiesta Mani Pulite che stava montando proprio in quelle settimane e si arrivò a Giuliano Amato».

Si narra che fu lei a proporsi col neo-presidente, insieme al ministro dell’Interno Scotti. «È un falso smentito cento volte. La verità è che sul decreto antimafia varato all’indomani della strage di Capaci erano trapelate perplessità del Quirinale, così con Scotti chiedemmo udienza per chiarirne il contenuto al presidente. Era la prima volta che lo vedevo, e nell’incontro Scalfaro non affrontò proprio l’argomento; parlò solo del governo da affidare ai socialisti, della “campagna diabolica contro Craxi» poi parlò di Amato, di quel simpatico “capellone” di De Michelis e di Martelli. Al momento dei saluti ribadì la sua angoscia e io feci la battuta: “Presidente se proprio non riesce a farlo, lo facciamo noi un governo”. Pochi minuti dopo mi chiama Marco Pannella: “Guarda che Scalfaro ti sta facendo uno scherzo da prete dice che ti sei candidato al posto di Craxi”. Cercai Craxi che se la prese con me, senza capire che la Dc aveva già deciso di non mandarlo a palazzo Chigi e che Scalfaro mi aveva usato come alibi per non dirglielo in faccia».

Piazzapulita, Alessandro Sallusti contro "il comunista Napolitano" al Quirinale: perché non lo hanno mai indagato". Libero Quotidiano il 03 dicembre 2021. Basta balle sul Silvio Berlusconi "divisivo" al Quirinale. "Sarà anche divisivo - commenta Alessandro Sallusti in collegamento con Corrado Formigli a Piazzapulita, su La7 - ma per la sinistra sarebbe divisivo qualsiasi presidente del centrodestra". Come dire, spiega il direttore di Libero: a sinistra contano di mantenere ostinatamente la "golden share" sul Colle, la possibilità cioè di decidere in ultima istanza chi far diventare presidente della Repubblica, nonostante i numeri in Parlamento dicano chiaramente che Pd e Movimento 5 Stelle non hanno la matematica dalla loro parte. "La sinistra e i 5 Stelle ritengono divisivo chiunque non sia della loro parte", sottolinea ancora Sallusti. "Era divisivo anche Mattarella, è stato divisivo Scalfaro, è stato divisivo Giorgio Napoliano...".  "Napolitano è stato un comunista che ha votato a favore della invasione dell'Ungheria da parte dei carri armati sovietici". "Non aveva dei precedenti giudiziari...", ribatte Antonio Padellaro, che con il Fatto quotidiano ha lanciato una petizione contro il Cav al Quirinale. E Sallusti, che ha fatto una petizione di segno opposto, "Non rubateci il Quirinale", gli fa notare un semplice dato di fatto: "Perché non era considerato reato stare dalla parte dell'Urss". "Nei prossimi giorni - ha ricordato Sallusti su LiberoTv - potete aderire alla nostra campagna andando sul sito Change.org o passando attraverso il link sul sito di Libero o mandando una mail all’indirizzo nonrubateilquirinale@gmail.com. Credo che valga la pena non farci mettere i piedi in testa dal Fatto Quotidiano".

La guerra delle "inchieste. " Giacomo Susca il 22 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nel Paese in cui sembra non esserci nulla di più soggettivo della verità dei fatti, passando dalle evidenze scientifiche della lotta al Covid fino ai conti in sospeso con l'eredità del Dopoguerra. Nel Paese in cui sembra non esserci nulla di più soggettivo della verità dei fatti, passando dalle evidenze scientifiche della lotta al Covid fino ai conti in sospeso con l'eredità del Dopoguerra, sussiste un'anomalia che tormenta la vita quotidiana delle istituzioni. Politica e magistratura sperimentano gradi di separazione che vanno ben oltre il principio cardine che regge i poteri di uno Stato repubblicano. Il conflitto non occupa soltanto la vetrina dei quotidiani, ma permea nel profondo i rapporti di forza impedendo un confronto sereno e proficuo tra le parti. Basta leggere le cronache di queste settimane: il «sistema» della giustizia viene additato come l'esatto contrario di imparziale, operando spesso secondo logiche partigiane e seguendo un timing che suscita perplessità, se non autentico sospetto. Dall'altro lato della barricata, i custodi della volontà popolare espressa con il voto sono accusati di volersi sottrarre a qualunque giudizio materiale e morale. Una dimostrazione «plastica» di tale dissidio avviene quando si sente invocare l'urgenza di una «commissione parlamentare d'inchiesta», ormai per le questioni più disparate. Solo nell'ultima settimana ne sono state richieste tre, da forze politiche di diversa estrazione: sulla gestione dell'emergenza pandemica durante il governo Conte II e sullo scandalo mascherine dannose; sull'amministrazione di Alitalia; sullo smaltimento dei rifiuti inquinanti in Toscana. Nella XVII legislatura, quella terminata nel 2018, i disegni di legge per richiedere la costituzione di una commissione d'inchiesta sono stati più di 130. Sui siti internet di Senato e Camera sono riportate le attività delle cinque commissioni bicamerali, più altre sei monocamerali, a oggi istituite. Al di là della legittimità delle singole iniziative, peraltro sancita dall'articolo 82 della Costituzione, colpisce come il Parlamento tenga a difendere uno spazio di conoscenza e di vigilanza «con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria». Nell'Italia delle mille inchieste, delle cause in arretrato, della presunzione di colpevolezza fino a prova contraria e dei fascicoli aperti a tempo indeterminato, il braccio di ferro tra politica e magistratura non accenna ad attenuarsi. La ricerca della verità, a volte persino «alternativa» a quella ufficiale, continua a viaggiare su un doppio binario. Risultato: il Parlamento si occupa di giustizia e le toghe invadono la politica. E se in una guerra la prima vittima è proprio la verità, in questa guerra tra poteri a soccombere è la fiducia dei cittadini in chi li rappresenta, nelle aule del Palazzo come dei tribunali. Anche per questo, le urne deserte sono un segnale che nessuno può permettersi di ignorare. Giacomo Susca

Formidabile la riforma Vassalli. Poi arrivò tangentopoli…Il 24 ottobre 1989 entrò in vigore il nuovo codice e accese una speranza: che il rito di stampo autoritario fosse definitivamente andato in archivio. Beniamino Migliucci (past president UCPI) su Il Dubbio l'1 novembre 2021. Nel 1989, con l’entrata in vigore del codice di procedura penale ispirato a un modello tendenzialmente accusatorio, si sperava che la cultura che aveva generato e sostenuto il rito inquisitorio di stampo autoritario fosse definitivamente abbandonata. Le nuove regole processuali erano, infatti, frutto di una stagione in cui ideali liberali e democratici in materia di giustizia avevano trovato fecondo terreno nella società, nella cultura, nell’accademia e nella politica. Si riteneva superato e dannoso per l’accertamento della verità processuale un sistema che affidava al P.M. o, nella migliore delle ipotesi, al Giudice Istruttore il monopolio della prova che, poi, transitava a dibattimento sostanzialmente immodificabile, senza che la difesa potesse effettivamente incidere su di un prodotto preconfezionato. Il nuovo modello alterava tutto questo: le indagini svolte dal P.M. dovevano essere limitate nel tempo e funzionali alla mera raccolta di elementi – e non prove – per verificare la sostenibilità dell’accusa in un eventuale dibattimento, dove le parti, nel contraddittorio, avrebbero effettivamente partecipato alla formazione della prova. Il contraddittorio, dunque, veniva eletto, a ragione, come il metodo scientifico più affidabile per evitare errori e rendere giustizia. Il sistema portava ad una evidente perdita di potere complessivo della Magistratura che, tra l’altro, non apprezzava intrusioni della difesa nella formazione della prova. Sia chiaro: il codice del 1989 non corrisponde ad un modello accusatorio puro, tanto che, ad esempio, vi sono norme come l’art. 506 che, attribuendo al Giudice la possibilità di indicare alle parti ulteriori temi di prova e porre domande ai testimoni, sottrae alle parti l’esclusiva dell’iniziativa e dell’esame e del controesame, o come l’art. 507 che consente al Giudice di integrare i mezzi di prova delle parti. Nonostante il nuovo codice conservasse tracce inquisitorie era risultato, da subito, indigesto a gran parte della magistratura che aveva iniziato ad avversarlo, evidenziando rischi catastrofici, quanto inesistenti, circa la impossibilità di celebrare alcuni processi, in particolare quelli di criminalità organizzata, pericolo, poi, smentito dai fatti. La totale e continua ostilità della Magistratura, oltre che nella perdita di potere, trovava e trova fondamento anche nella circostanza che, l’adesione ad un modello processuale accusatorio, dovrebbe portare, come inevitabile conseguenza, strutturali riforme ordinamentali, coerenti al nuovo sistema. A sottolineare l’esigenza di un radicale cambiamento, erano stati anche alcuni autorevoli, quanto isolati Magistrati, come Giovanni Falcone che, in un congegno organizzato nel 1988 dalla Camera Penale Veneziana, dal Titolo “Un nuovo codice per una nuova giustizia” rilevò la necessità di confrontarsi con alcuni temi ormai ineludibili come quello della terzietà del Giudice e della obbligatorietà dell’azione penale: «Altri interventi, però, sono necessari sul piano legislativo e di ciò le forze politiche e sociali cominciano ad acquisire piena consapevolezza. Un primo passo è stato mosso con la riforma dell’ordinamento giudiziario nei punti direttamente collegati all’introduzione del nuovo codice, ma altri e più incisivi interventi, prima o poi, occorrerà effettuare e le stesse necessità della prassi le renderanno indispensabili. In primo luogo, bisognerà valutare se e in quali limiti istituti come l’obbligatorietà dell’azione penale, l’unicità delle carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti e la stessa appartenenza del P.M. all’ordine giudiziario siano compatibili con un nuovo sistema. Mi rendo conto di accennare a tempi di grave portata e sui cui ancora l’analisi è appena agli inizi, ma trattasi di questioni aperte che non verranno risolte semplicemente esorcizzandole o, peggio, muovendo da posizioni preconcette o corporative». La minaccia di sgradite quanto ineludibili riforme ordinamentali è risultata intollerabile per una parte consistente della Magistratura che ha, in ogni modo, manifestato il proprio dissenso rispetto al nuovo codice di rito. La politica, all’epoca, pur sempre attratta dall’idea di essere succube della Magistratura, non era stata ancora toccata dal ciclone di mani pulite e sembrò opporre una certa resistenza alla opposizione della Magistratura, resistenza che venne a cessare, per l’appunto, con la crisi della prima repubblica, travolta dagli scandali e dai processi. L’inizio del periodo di mani pulite coincise anche con le sanguinose e dolorose stragi criminali mafiose del 1992 che offrirono spunto per la controriforma e per le note sentenze demolitrici della Corte Costituzionale, con la contestuale introduzione di norme che consacravano il cd. doppio binario per alcuni reati, regole che poi hanno trovato applicazione per ogni tipo di processo. La politica, solo nel 1999 e grazie soprattutto all’UCPI, modificò l’art. 111 della Costituzione, introducendo i principi del giusto processo, finalmente aderendo alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo che già prevedeva all’art. 6 il diritto ad un processo equo. Da allora, sul codice di rito, interventi altalenanti quanto disomogenei, frutto, non di una visione organica di una politica giudiziaria, ma di contingenze, paure e convenienze elettorali, senza che l’art. 111 della Costituzione abbia trovato piena applicazione. Anzi: negli ultimi anni si è registrato un attacco senza precedenti a principi e valori costituzionali quali presunzione di innocenza, diritto di difesa, funzione risocializzante della pena. Il periodo più buio sembra alle spalle. La scellerata, quanto scriteriata riforma Bonafede della prescrizione è stata superata, così come neutralizzate altre norme che avrebbero mortificato non solo il codice di rito, ma anche principi costituzionali. Certo quella che ha preso il nome dell’attuale Ministra della Giustizia, dovuta anche alla inderogabile necessità di presentare in Europa un pacchetto di investimenti e riforme, poteva essere migliore, ma è stata determinata dal compromesso politico tra forze ideologicamente contrapposte, il che, in materia di giustizia, difficilmente produce risultati totalmente soddisfacenti. Quello che si deve evitare è: lo svilimento del contraddittorio dibattimentale; difendere il principio di oralità che è regola del processo penale; evitare che il processo diventi una punizione per chi ritiene di affrontarlo.

Il sistema accusatorio, o quel che resta di esso, deve essere difeso, ed anzi occorre rilanciare, sostenendo con forza i principi costituzionali del giusto processo, ribadendo, come l’UCPI sta facendo, l’ineludibilità della riforma della separazione delle carriere, perché un processo penale governato dalla cultura inquisitoria, il cui scopo improprio sia quello di combattere fenomeni criminali e di creare consenso attorno all’attività di questo o quel Magistrato e di governare, in questo modo, i mutamenti sociali determina, tra l’altro, inevitabilmente, uno squilibrio tra i poteri dello Stato. 

"Non è così": Bianca Berlinguer difende il Pci. Francesca Galici il 3 Novembre 2021 su Il Giornale. Vivace discussione tra Bianca Berlinguer e Maurizio Belpietro sui finanziamenti al Pci da Mosca durante gli anni Ottanta e i primi Novanta. Animi caldi a Cartabianca durante una discussione in cui la conduttrice ha analizzato le ipotesi sul tavolo per l'elezione del prossimo presidente della Repubblica ma anche la posizione di Matteo Renzi, stipendiato dallo Stato in quanto senatore ma consulente in Arabia Saudita, dove si trovava anche il giorno in cui si votava la tagliola al ddl Zan. Con lei in studio a riflettere su quei temi anche Luca Telese, Carlo Calenda e Maurizio Belpietro. Il più duro sul leader di Italia viva è stato l'ex candidato sindaco di Roma, che in tanti danno vicino a Renzi, circostanza fortemente smentita dallo stesso Calenda. Ma lo scontro si è acceso tra il direttore de La verità e Bianca Berlinguer, quando Belpietro ha ricordato un'inchiesta degli anni Novanta sui finanziamenti al Partito comunista da parte della Russia. Tutto nasce dalle parole di Carlo Calenda: "Io penso che come leader politico non puoi far convivere l'attività d'affari, certamente non lo puoi fare quando questa attività è fatta con Stati stranieri. Non c'è un presidente nella storia politica mondiale che, in carica, non può prendere i soldi da uno Stato". Il leader di Azione ha precisato che una legge in tal senso non c'è perché mai nessuno ha agito in quel modo. Ma a Carlo Calenda ha voluto replicare Maurizio Belpietro: "Qualcuno si dimentica la storia di questo Paese. Abbiamo avuto un partito che ha ricevuto i finanziamenti per 40 anni da uno Stato straniero, per altro nemico perché noi appartenevamo al blocco Atlantico e c'era un Paese che stava dall'altra parte. Fra l'altro in questi giorni mi è capitato tra le mani un numero di 30 anni fa di Panorama con un editoriale di Enzo Biagi, che raccontava esattamente i finanziamenti che arrivavano da Mosca. È problema che aveva il Partito comunista". A quel punto Bianca Berlinguer ha ricordato la legge sul finanziamento ai partiti, che ha di fatto ufficialmente interrotto i flussi da Mosca. Ma Maurizio Belpietro ha fatto una precisazione: "Quando cadde il muro (di Berlino, ndr) si scoprì che, fino all'ultimo giorno, il Partito comunista aveva ricevuto i finanziamenti da Mosca". Un'affermazione che ha fatto andare su tutte le furie la conduttrice, figlia di Enrico Berlinguer, che quando cadde il muro di Berlino era già morto. "Non è così Maurizio, questo te lo devo contestare. Si scoprì che era una parte precisa del Partito comunista che faceva capo ad Armando Cossutta. Non era il Partito comunista, anche se mio padre era già morto da molti anni", ha detto Bianca Berlinguer evidentemente innervosita davanti alle parole di Belpietro, che ha ribadito il concetto espresso poco prima, nonostante la conduttrice non abbia gradito. 

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

L’ex Msi Patarino in un libro autobiografico invita all’autocritica: su Craxi e Mani pulite sbagliammo. Riccardo Arbusti domenica 31 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Si può ragionare di politica e suggerire idee per l’attualità anche attraverso la rilettura dell’esperienza degli scorsi decenni. È quello che fa Carmine Patarino, parlamentare di lungo corso nelle file della destra, deputato alla Camera per sei legislature dal 1991 al 2013 (con la sola parentesi da non eletto tra il 1996 e il 2001), rievocando la sua personale storia politica. Pugliese di Castellaneta, tessera della Giovane Italia a quindici anni, poi attività nel Msi, in An, nel Pdl e in Fli. 

Patarino in un libro autobiografico racconta perché ha scelto la destra

Oggi si dichiara vicino alla proposta di Giorgia Meloni e di fratelli d’Italia. In un bel libro autobiografico scritto in prima persona – Fatti veri mai successi… e realmente accaduti (StampaSud, pp. 175, euro 12,00, con tavole grafiche di Egidio Patarino) – dopo aver sottolineato i punti fermi del suo stare a destra (europeismo, politica sociale, rispetto dell’emigrazione e proposte sull’immigrazione che mai debbono scadere a xenofobia, aspirazione alla pacificazione nazionale) e ricordato i suoi maestri, da Pino Rauti, leader della sua giovinezza, a Romualdi e Almirante, sino a Pinuccio Tatarella, spiega che allora come oggi ci sono dei punti fermi per chi intraprende l’impegno politico. “Vocazione, passione, entusiasmo, questi sono gli elementi che fanno da carburante per accendere il motore e partire per l’avventura politica…”. Aggiungendo che per poi essere un buon politico occorrono, primo di tutto: dedizione costante, impegno totale e, soprattutto, rispetto per le idee degli altri.

Basta con i politici motivati solo dall’idea di fare carriera

Da un po’ di tempo a questa parte, confessa più avanti Patarino, tra quelli che decidono di “scendere in campo” solo pochi sembrano spinti dalla passione disinteressata. Buona parte, invece, sembra motivata dalla possibilità di fare carriera o trovare una sistemazione. E da questo punto di vista l’ex parlamentare invita Giorgia Meloni a stare in guardia, facendo estrema attenzione in un momento espansivo per il partito di verificare che gli ingressi e le adesioni non arrivino da “ambulanti della politica” a caccia di nuove sistemazioni: “Ci furono certuni, approdati in An – spiega – proprio quando era al suo massimo splendore che avevano progetti legittimamente ambiziosi ma una fretta assolutamente ingiustificata. E, pur essendo molto modesti di idee e di consensi, pretendevano di ottenere tutto e subito…”.

L’autocritica di Patarino: su Craxi e Mani pulite abbiamo sbagliato

A un certo punto, l’analisi di Patarino riesce a farsi autocritica. È quando, tratteggiando coloro che nella politica italiana del secondo dopoguerra hanno operato per la pacificazione nazionale – dall’accoppiata Almirante-Berlinguer, sino a Craxi, Cossiga, e all’apertura di Violante da presidente della Camera – riesce a dire: “In quella vicenda noi del Msi non ci comportammo come avremmo dovuto”. L’ex parlamentare si riferisce alla vicenda di Craxi e all’inchiesta Mani Pulite. Bettino Craxi era infatti stato, come presidente del Consiglio e segretario del Psi, il primo a rompere le regole non scritte del cosiddetto “arco costituzionale”.

Fu Craxi da avviare lo “sdoganamento”

Aveva avviato la pratica del riconoscimento – quello che poi sarà chiamato “sdoganamento” – di due milioni di italiani che votavano Msi. Aveva infatti instaurato un dialogo politico e istituzionale con la destra, “seminando il panico nei palazzi del potere” targati Dc e Pci: “Cosa sarebbe accaduto dopo lo sdoganamento del Msi, una volta che fossero caduti i veti? Quali effetti avrebbe prodotto la sua immissione nell’ambito delle trattative e degli accordi, a partire da quelli per la formazione dei governi e per la scelta del capo dello Stato?”.

Per ostacolare le riforme fecero fuori il Cinghialone

Ad avviso (postumo) di Patarino il discrimine politico non sarebbe più stato tra fascismo e antifascismo, e neanche tra comunismo e anticomunismo, ma tra proposte alternative di fronte all’unità nazionale: “ma per evitare che ciò accadesse – scrive – misero in moto una potentissima macchina per far fuori il Cinghialone, non solo sul piano politico”.

Il Msi sbagliò a seguire il clima giustizialista

Vale la pena leggersi per intero l’autocritica di un ex missino capace di farla: “Devo, purtroppo, ammettere che in quella vicenda noi del Msi non ci comportammo come avremmo dovuto. Forse perché travolti dal clima giustizialista che stava interessando l’intera penisola; forse perché contagiati, come la stragrande maggioranza degli italiani, dal tifo per Mani Pulite e per Di Pietro; forse perché l’anima garantista di gran parte di noi non ebbe la forza di farsi sentire…”. Fatto sta, conclude, “che commettemmo un imperdonabile errore”. Un modo come un altro che può suggerire, anche, il fatto che quella scelta giustizialista conducesse la destra a fare il gioco di forze avversarie ai suoi progetti di conciliazione nazionale.

Craxi sfidò la sinistra sul finanziamento illecito ai partiti

“Che stessimo sbagliando – ribatte Patarino – avremmo dovuto scoprirlo dopo aver ascoltato l’intervento di Craxi tenuto alla Camera il 29 aprile del 1994, un evento di portata storica”. Craxi infatti, da abile e grande combattente, rileva Patarino, ebbe il coraggio, indirizzando continuamente lo sguardo verso i banchi della sinistra con l’evidente e plateale intenzione di sfidarli, di denunciare la lunga storia del finanziamento illecito ai partiti. “Che stessimo sbagliando la scelta di campo – si legge ancora nel libro – avremmo dovuto ancor più facilmente intuire dal fatto che Craxi, più che rivolgersi alla magistratura per difendersi dalle accuse contestategli, mise in evidenza il tentativo di alcuni partiti di processarlo senza alcuna prova, senza alcuna ragione, ma solo per incastrarlo e fargli pagare il conto per tutti”.

Il Msi doveva mettere sul banco degli accusati Pci e Dc

Il Msi, è ora il suo pensiero, avrebbe dovuto partecipare al dibattito, che metteva sul banco degli accusati il Pci e la Dc, e quindi intervenire per chiedere al Parlamento di dare seguito alla denuncia di Craxi attraverso una commissione d’inchiesta parlamentare. Non si sarebbe partecipato alla fine prematura del leader socialista e del suo progetto di Grande Riforma. “Dimostrando la fondatezza delle accuse di Craxi – conclude Patarino – quell’insopportabile sistema sarebbe crollato, l’Italia avrebbe finalmente voltato pagine e al nostro partito sarebbe stato riconosciuto il merito di aver contribuito all’accertamento della verità. Purtroppo non lo facemmo. Sbagliammo”.

Un’analisi coraggiosa e libera

Un’analisi coraggiosa e libera, quella dell’ex parlamentare. Che ancora oggi spinge a un interrogativo: quanto della politica successiva al 1993 è il risultato di quell’errore storico di prospettiva? E se, invece, potesse nascere proprio da quella decisione un cammino diverso e consapevole per la risoluzione della questione nazionale e per una destra a vocazione maggioritaria?

La commemorazione di Tangentopoli non sarà un pranzo di gala. Mancano ancora 4 mesi all'ora X - i trent’anni esatti dall’arresto del “mariuolo” Mario Chiesa - ma una cosa è già chiara: la commemorazione di Tangentopoli rischia di trasformarsi in una nuova guerra. Davide Varì su Il Dubbio il 22 ottobre 2021. Ieri sera, in un teatro romano a pochi passi dal Parlamento, è iniziata ufficialmente la lunga commemorazione pubblica di Tangentopoli. In realtà siamo leggermente in anticipo: la data ufficiale del trentennale è quella del 17 febbraio 2022, giorno in cui ricorreranno i trent’anni esatti dall’arresto di Mario Chiesa, “il mariuolo”, come lo definì Bettino Craxi, divenuto icona e simbolo dell’inizio di Tangentopoli. Possiamo dire subito una cosa: non sarà una commemorazione come le altre, non sarà un pranzo di gala; sarà invece uno scontro duro, un confronto serrato tra chi pensa che Tangentopoli fu l’inizio del rinascimento italiano e chi invece è convinto che si sia trattato di un golpe messo in atto da un pezzo di magistratura col sostegno di qualche servizio straniero. Ma torniamo a quella sala del teatro Umberto di Roma. Sul palco, a parlare di quella stagione e a commentare il bellissimo libro di Giuseppe Gargani – “In nome dei pubblici ministeri” – , c’era anche Gherardo Colombo. Colombo, come tutti sanno, è stato uno degli attori principali di quella stagione, uno dei pm del pool che insieme a Di Pietro e Davigo, e sotto la guida raffinatissima di Borrelli, ha cambiato i connotati della politica italiana. Gherardo Colombo, a dire il vero, è sempre stato considerato la colomba – nomen omen – di quel gruppo di magistrati molto determinati e convinti che la loro fosse una missione che andava ben al di là della giustizia: molti di loro pensavano di dover cambiare la coscienza stessa del paese, il “precario” senso di legalità degli italiani. Per questo devono aver pensato che qualche piccola forzatura del diritto tutto sommato fosse accettabile, giustificata dall’obiettivo imponente che si erano prefissi. E così l’uso della galera preventiva, degli avvisi di garanzia branditi come condanne e dati in pasto ai giornali prima ancora che il diretto interessato ne fosse informato, erano “effetti collaterali inevitabili”. Ma Colombo, che pure è un raffinato giurista e un uomo devoto al dialogo, non ha ceduto di un millimetro, non ha mai riconosciuto neanche il minimo deragliamento da parte della magistratura italiana. Anzi, ha rivendicato con fermezza, a tratti con durezza, l’assoluta correttezza e trasparenza del lavoro svolto dal pool milanese. Eppure fu un suo collega a dire «noi non li mettiamo in carcere per farli parlare, ma li liberiamo se parlano…». Insomma, il dottor Colombo ha parlato a lungo di pacificazione ma non ha mai messo in discussione l’operato della procura di Milano. La pacificazione è un’intenzione seria ma è anche un processo lungo e doloroso: ognuno deve avere la forza e il coraggio di guardare ai propri errori, ai propri eccessi, senza ipocrisie e liberandosi di qualsiasi tentazione corporativa. E quegli arroccamenti sembrano più le premesse di una nuova guerra. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno…

Milano 1992, sogni e illusioni di una generazione tradita. Venanzio Postiglione su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2021. Goffredo Buccini era un giovane cronista quando scoppiò Mani Pulite. Ora ricostruisce quella stagione in un libro in uscita per Laterza.

Il momento. Un pezzo di storia italiana. Un processo che diventa show e una catarsi che rimane sospesa: perché si entra con la bandiera del bene e si esce con quella del dubbio. La fila per entrare, l’aula strapiena, la diretta televisiva, Di Pietro interroga Craxi in nome di (quasi) tutto il popolo italiano, Bettino allunga i tempi con le pause, la rivoluzione sta uccidendo i vecchi partiti e le macerie porteranno un bel sole o ancora ombre, nessuno può dirlo.

«Il tempo delle mani pulite» di Goffredo Buccini (Editori Laterza, pagine 248, euro 18)

Quel 17 dicembre 1993 la Milano da bere sembra lontana un secolo e appare (appare) come la peste nera, il processo Cusani è la rappresentazione della politica alla sbarra, la capitolazione di Forlani con la bava alla bocca ha seppellito la Dc e forse anche la pietà cristiana. Ma arriva Craxi e lo spartito salta in aria. Di Pietro appare timido, prudente, quasi impaurito, un mistero che resta un mistero, mentre il leader socialista ripete che tutti sapevano, la politica ha un costo, si doveva competere con i democristiani e i comunisti. Forse quel giorno Tonino si immaginò politico e Bettino si vide già esule, noi capimmo che Tangentopoli aveva raggiunto la vetta e imboccava la discesa. È anche un saggio, certo, con il merito della ricerca e il culto dei fatti. Ma è soprattutto il romanzo di una stagione e di una generazione, la biografia di un Paese che ha chiesto la ghigliottina quando colpiva i politici e i manager e poi l’ha rinnegata quando inseguiva le persone comuni. Goffredo Buccini ha scritto Il tempo delle mani pulite (Editori Laterza) perché ha vissuto quell’epoca e poteva raccontarla in modo diretto e appassionato. Perché sono passati già trent’anni e ci fa un certo effetto. Ma anche perché lo doveva a se stesso. Il cronista oggi editorialista del nostro «Corriere della Sera» non è un pentito, non banalizziamo: però ogni passaggio chiave diventa un punto interrogativo e a volte anche un’autocritica. Con l’espressione di pagina 34, «il senso della misura è tra le prime vittime di questa ubriacatura collettiva», che diventa la linea storica e psicologica del saggio-romanzo. I giornalisti ragazzini furono i testimoni ma spesso pure i combattenti di un’epopea: come buona parte del Paese, peraltro. Il tempo delle mani pulite è anche l’età dell’illusione. Una cronaca che intanto è diventata storia. Trent’anni sono tanti, lo stesso tempo che corre dal 1945 al 1975, quando i genitori raccontavano la fine della guerra a noi bambini e sembrava un altro mondo. Nel libro i personaggi sono vivi come a teatro, la scrittura è nitida, sempre piacevole, senza diventare semplicistica, e l’affresco funziona perché è un pezzo di noi tutti. Buccini era in prima fila, anzi tra la prima fila e il palco, ogni tanto nei camerini: il pool dei cronisti a Palazzo di giustizia, le interviste esclusive e dirompenti a Borrelli, la caccia ai latitanti a Santo Domingo, lo scoop dell’avviso di garanzia a Berlusconi con il collega Gianluca Di Feo in una delle notti più difficili e tormentate di via Solferino. «Il telefono squilla presto e troppo», scrive Buccini. È la mattina del 18 febbraio ’92, la sera prima hanno arrestato Mario Chiesa, atto d’inizio. A chiamare è Ettore Botti, capo della cronaca di Milano del «Corriere», talent scout per natura e cultura: fiducia nelle regole e nel giornalismo senza ideologie e pregiudizi, scetticismo sul mito della città splendente, difesa a oltranza della propria squadra di veterani e ragazzi che lavorano assieme. Botti manda Buccini a Palazzo di giustizia e gli cambia la vita: la caduta di Chiesa è l’avvio della voragine, la prima Repubblica finiva e non sappiamo più dire se siamo nella seconda o nella terza, ci siamo persi da qualche parte. Carcere, carcere, carcere. Ogni giorno. «Ecco la dottrina Davigo, l’arresto e la confessione come passaggi necessari a spezzare il vincolo tra tangentisti». Il ’92 italiano è il pool di Mani Pulite, con Borrelli alla guida e Di Pietro che spacca tutto, è la maglietta Tangentopoli con i luoghi delle mazzette, è il cordone di gente comune attorno al Palazzo, è l’avvicinamento delle inchieste a Bettino Craxi, è la fila in Procura di «un popolo di confidenti e flagellanti», è la giustizia sostanziale (tutti i ladri in galera) che forza le procedure e le consuetudini. I pm non sono magistrati ma «i vendicatori per anni di soprusi, di corruzione, di inefficienza». E qui Buccini ci va dritto: «Noi giornalisti sicuramente sposiamo la militanza. E noi ragazzi del pool di cronisti ne siamo l’avanguardia, certi, certissimi, di aver ragione». Non solo. «Siamo eroi del nostro stesso fumetto: se la nostra verità è vera, perché mai cercarne un’altra?». C’era da cambiare l’Italia, come dicono i reduci di Mediterraneo, il film di Salvatores. Il socialista Sergio Moroni, indagato, si uccide. La lettera che lascia è una frustata: «Non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da pogrom nei confronti della classe politica». Craxi dice che «hanno creato un clima infame», Gerardo D’Ambrosio replica che «il clima infame l’hanno creato loro, noi ci limitiamo a perseguire i reati». E i giovani socialisti contro-replicano: «Si è caricata l’inchiesta milanese di un improprio valore morale, attribuendole un ruolo di vendetta popolare». Una guerra civile di parole. Ma si sarebbero suicidati anche Gabriele Cagliari in una cella di San Vittore, Raul Gardini a casa sua, e altri ancora. Il decreto Conso nasce e tramonta subito per l’opposizione del pool. La piazza ribolle, su Craxi piovono le monetine, il leghista Leoni Orsenigo tira fuori il cappio in Parlamento. «La rivoluzione giudiziaria non sembra andare esattamente nel senso di un allargamento dell’area democratica del Paese…». Un labirinto. Il Paese è corrotto (vero), i pm indagano (giusto), ma la nuova epoca comincia a fare spavento. Al di là delle inchieste e delle intenzioni, l’età della pancia nasce in quei giorni, non si è ancora conclusa. Il giorno dei funerali dopo la strage di via Palestro, a Milano, ecco Borrelli, Colombo e Di Pietro che percorrono la Galleria a piedi. La gente li chiama, li segue, li abbraccia, un tripudio di entusiasmo e di rabbia: «La forca, la forca, Di Pietro mettili alla forca!». Borrelli è il più lucido: «Non è giusto che sia così… ma non è colpa nostra». La critica alle manette facili evapora nell’ovazione di una folla che non chiede garanzie ma invoca il patibolo. Sergio Cusani, prima del processo-evento («un’autobiografia nazionale»), si confida con l’autore del libro: «Il Paese dopo Tangentopoli potrebbe essere assai peggio di quello che c’era prima». Il dibattimento consacra il personaggio Di Pietro e chiude cinquant’anni di storia politica italiana, con i suoi partiti, le sue liturgie, il suo sistema proporzionale, il suo stesso linguaggio educato e fumoso. Tocca al «nuovo miracolo italiano», alla nuova protesta del pool (contro il ministro Alfredo Biondi), all’avviso di garanzia a Berlusconi, all’addio di Tonino Di Pietro. Gli aneddoti e i retroscena sono tanti, le battute di Paolo Mieli, allora direttore, sono imperdibili: ma non avrebbe senso bruciare i contenuti del libro. Mani pulite rivoluzione vera o scoperta dell’acqua calda? Svolta sacrosanta o mutilata? Magistrati santi o vendicatori? Il punto, scrive Buccini, è che «tanti ragazzi negli anni Novanta hanno sognato (sbagliando, certo) una palingenesi nazionale». La stiamo ancora aspettando. Trent’anni dopo non ci sono più Borrelli e D’Ambrosio. Di Pietro passa tanto tempo a Montenero di Bisaccia, partenza e ritorno. Greco e Davigo hanno rotto in modo clamoroso: metafora per una stagione e forse una categoria. Colombo gira l’Italia e incontra i ragazzi per parlare di legalità, «perché sa da un pezzo che la risposta non può essere giudiziaria». La mattina dopo le manette a Chiesa, il secolo scorso, Ettore Botti chiamò anche chi sta finendo quest’articolo: «Corri al Trivulzio e racconta come hanno preso l’arresto». La voce roca, decisa, profonda, poche parole. Un comandante temuto e amato: allo stesso tempo. Nell’etimologia di nostalgia c’è la parola dolore.

L’Italia sovrana di Bettino Craxi. Andrea Muratore su Inside Over il 16 ottobre 2021. Nell’Europa degli Anni Ottanta e nell’Italia della Prima Repubblica la figura di Bettino Craxi è tra quelle che hanno attratto giudizi più complessi, in larga misura divisivi e mai definitivi per quanto riguarda l’effettivo giudizio storico sull’uomo e del politico. Vi è però un campo su cui tutte le analisi sullo statista milanese concordano: la natura originale e approfondita della politica estera dell’era in cui Craxi era a capo del governo italiano è giudicata essere alla base di una delle fasi di maggiore dinamismo della diplomazia della Prima Repubblica.

Un'Italia autonoma e responsabile

Craxi raccolse in eredità nel suo quadriennio di governo un posizionamento internazionale che vedeva l’Italia attiva protagonista nel Mediterraneo e in Medio Oriente ma in ogni caso attenta a riaffermare il suo posizionamento nel campo occidentale che il leader del Partito Socialista Italiano riteneva un presupposto irrinunciabile. Nel 1981 Craxi fu decisivo per dare impeto politico in seno al governo del Pentapartito alla scelta del primo Presidente del Consiglio non democristiano del dopoguerra, il repubblicano Giovanni Spadolini, di indicare Comiso, in Sicilia, come base per il dispiegamento di 112 missili BGM-109 “Tomahawk” nel quadro del rilancio della contrapposizione strategica tra Usa e Unione Sovietica dopo l’ascesa alla Casa Bianca di Ronald Reagan. L’assenso di Craxi e del PSI era tuttavia subordinato a una più ampia visione della politica internazionale, in quanto ad essa veniva anteposta la volontà dichiarata di impegnarsi al raggiungimento della cosiddetta “opzione zero”, poi formalizzata nel 1987 dagli Accordi di Ginevra. Secondo quanto affermato dall’ex segretario di Stato di Carter, senza il posizionamento dei missili in Europa “la Guerra Fredda non sarebbe stata vinta”, avendo il Vecchio Continente evitato la finlandizzazione e la sostanziale neutralizzazione cui l’Urss puntava schierando i missili a medio raggio; “senza la decisione di installarli in Italia, quei missili in Europa non ci sarebbero stati; senza il PSI di Craxi la decisione dell’Italia non sarebbe stata presa. Il Partito Socialista italiano è stato dunque un protagonista piccolo, ma assolutamente determinante, in un momento decisivo”. Questa fu l’Italia in cui Craxi seppe agire da presidente del Consiglio negli anni successivi: un’Italia dotata di visione di ampio respiro, attenta a fungere da ponte negoziale tra Occidente e Oriente senza perdere contezza dei limiti operativi e dei margini di manovra a disposizione.

Il Mediterraneo come epicentro della politica di Craxi

Il presidente del Consiglio non mancava di promuovere un’attenta difesa degli interessi nazionali. Craxi, formato nel mito garibaldino del Risorgimento, sentiva con grande enfasi l’idea dell’identità e della sovranità nazionale, da lui coniugati con un’impostazione socialista di profondo afflato riformista. Alla Fiera del Levante, poco dopo l’ascesa al governo nel 1983, Craxi indicò il Mediterraneo come principale spazio d’azione per la politica di Roma. Sottolineando di ritenere chiaro il fatto che “l’Italia, immersa nel Mediterraneo, sente profondamente l’impulso naturale che la spinge a collegarsi con i popoli e i Paesi della regione mediterranea” Craxi promosse quella che sarebbe stata la sua agenda negli anni a venire: integrazione economica, commercio, diplomazia, contrasto al terrorismo, mediazione con il mondo arabo. “Siamo vitalmente interessati alla pace nel Mediterraneo”, aggiunse, e “nessuno potrà considerarci interlocutori estranei, o giudicarci animati da propositi invadenti se ci toccherà di far valere sempre la nostra parola su tutte le questioni rilevanti aperte nella regione”. Questa era la concezione che il governo avrebbe avuto, negli anni a venire, del Mediterraneo: uno spazio aperto, un terreno di incontro diplomatico, un’area geopolitica in cui raffreddare i confliggenti interessi della Guerra Fredda e delle diverse agende internazionali in nome di un interesse comune di matrice economica, politica, culturale, quasi che il saggio dedicato alla storia mediterranea da Fernand Braudel avesse funto da ispirazione “morale” per l’azione di Roma. Tale spinta risoluta prendeva slancio sia dalla spinta del precedente interesse per la regione avviato da figure come Enrico Mattei e Aldo Moro sia dal ruolo “ecumenico” giocato in seno al governo dal ministro degli Esteri, Giulio Andreotti.

L'asse Craxi-Andreotti

Andreotti, nei sei anni da ministro degli Esteri avviati con i due governi Craxi (1983-1989) fu al centro dell’agenda politica globale. Si interfacciò con gli Usa e l’Unione Sovietica promuovendo una Ostpolitik che aprì ad importanti appalti nel blocco orientale per l’Italia, alla distensione, alla cooperazione industriale e commerciale; fece sponda con Giovanni Paolo II e il cardinale Agostino Casaroli per rafforzare l’effetto-moltiplicatore dei legami italo-vaticani; avviò, in sponda con Palazzo Chigi, un crescente interessamento per l’Africa. L’asse Craxi-Andreotti produsse, in quest’ottica, importanti risultati che seppero valorizzare il posizionamento di Roma nell’agenda internazionale. Il rinnovo del Concordato con la Santa Sede (1984) realizzato dal governo Craxi fu anche l’attestazione di un importante risultato di politica estera; la pacificazione del Mozambico colpito dalla guerra civile e l’espansione della diplomazia italiana verso Libia, Egitto, Etiopia, Tunisia segnalarono l’espansione della strategia africana; in campo mediorientale Craxi legittimò pienamente l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina come interlocutore per ridurre il potere negoziale delle organizzazioni più radicali e ostili a ogni dialogo; il rapporto con gli Usa, nonostante screzi come il famoso episodio di Sigonella, fu di dialogo e mutua fiducia. Ma mai piena subordinazione: ancor più emblematico del caso di Sigonella fu, in un certo senso, il suo discorso di fronte al Congresso Usa del 1985, nel corso del quale dichiarò senza mezzi termini la sua avversione al regime cileno di Augusto Pinochet sostenuto dagli Usa: “Sopra ogni altra sovrasta la richiesta di libertà del popolo cileno e questa richiesta ha bisogno dell’incondizionato appoggio di tutti noi”.

Craxi e il sostegno alla resistenza dei popoli oppressi

Craxi aveva visitato il Cile poco dopo il golpe dell’11 settembre 1973 che portò alla deposizione di Salvator Allende e aveva da allora in avanti preso decisamente a cuore la vicenda del Paese oppresso dalla dittatura militare di Pinochet. Il sostegno alla resistenza cilena non fu mai messo in discussione dal Psi di Craxi, che politicamente seppe dare voce a diverse richieste d’aiuto contro regimi oppressivi o dittatoriali. In nome di un concetto di libertà chiaro e trasversale, Craxi e il suo Psi furono schierati a favore di diversi movimenti di resistenza che si opponevano sia a regimi comunisti che a giunte militari o di estrema destra, e analoga posizione ebbero i suoi governi. Nel corso degli anni ebbero aiuti consistenti Solidarnosc, il sindacato polacco cattolico e anticomunista, cruciale nell’Ostpolitik andreottiana, gli esuli cecoslovacchi, il radicale argentino Alfonsin, incontrato da Craxi dopo la sua ascesa alla presidenza nel 1983 il brasiliano Lula, il peruviano Garcia, l’uruguaiano Sanguinetti, Perez in Venezuela e i movimenti di resistenza di Eritrea, Somalia, Palestina. Craxi intuì in anticipo le problematiche legate al mantenimento di sacche di miseria e oppressione in Paesi abitati da popolazioni giovani o desiderose di un’ascesa sociale, politica, collettiva. E seppe intuire, nelle fasi finali della Guerra Fredda e negli anni che precedettero la sua uscita dalla vita pubblica italiana con Mani Pulite, le altrettanto problematiche conseguenze delle pulsioni disgregatrici della globalizzazione e dell’ascesa delle disuguaglianze su scala mondiale. Nei suoi impegni dopo l’uscita da Palazzo Chigi, da leader del Psi e da inviato Onu, Craxi mise al centro dell’agenda la cooperazione allo sviluppo e l’alleanza tra i popoli più sviluppati e l’ex “Terzo Mondo”. A suo avviso i Paesi europei avrebbero avuto tutto l’interesse nel farsi promotori di un grande piano Marshall per la costruzione di una vasta regione euro-mediterranea e, al tempo stesso, a difendere l’ipotesi di un condono del debito dei Paesi meno sviluppati. Nel settembre 1990, parlando di fronte alla Conferenza di Parigi sul debito del Terzo Mondo, Craxi indicò nella diffusione globale della povertà, nell’accensione di focolai di conflitto e nel degrado ambientale ed ecologico altrettanti fattori di disuguaglianza e anticipiò il tema del “giubileo del debito” che sarebbe entrato nell’agenda delle grandi organizzazioni internazionali, dalla Banca Mondiale al G7, nel decennio successivo, e avrebbe avuto un sostenitore strenuo nel Vaticano globale di Papa Giovanni Paolo II. Tale processo portò all’annullamento di miliardi di dollari di debiti dei Paesi africani e del resto del Terzo Mondo spesso gravanti sulle spalle di nazioni a causa delle politiche cleptocratiche o piratesche di regimi dittatoriali e classi dirigenti corrotte. Craxi individuò nella cooperazione e nell’inclusione l’antidoto migliore contro l’ascesa di sentimenti antioccidentali, la diffusione di estremismi politici e religiosi, l’esplosione di problemi come quello delle migrazioni. Dimostrando una volta di più una chiara e lucida comprensione delle dinamiche strategiche dopo gli anni di Palazzo Chigi.

La diplomazia globale della Prima Repubblica. Andrea Muratore su Inside Over il 16 ottobre 2021. Solo negli ultimi decenni il concetto di globalizzazione è stato pienamente sdoganato nel contesto dell’analisi politologica e strategica, ma di fatto lungo l’intero arco del periodo post Seconda guerra mondiale l’interconnessione tra scenari di diverse aree geografiche è andata rafforzandosi. Fino all’ascesa della globalizzazione commerciale prima e delle nuove tecnologie digitali poi questa percezione è stata però ridotta. L’Italia della Prima Repubblica è stata, in tal senso, un esempio in controtendenza: dopo che Alcide De Gasperi e i suoi governi ebbero plasmato le linee guida del collocamento di Roma nel campo euroatlantico i governi a guida democristiana alternatisi nel primo trentennio dell’era repubblicana hanno promosso, complice il ruolo di apparati lungimiranti, una diplomazia originale in grado di capire anzitempo il valore strategico di scenari lontani dai confini nazionali e di teatri destinati ad essere via via sempre più rilevanti.

Mediterraneo, Medio Oriente, Africa

Amintore Fanfani, segretario della Dc e presidente del Consiglio tra gli Anni Cinquanta e Sessanta, strutturò con la definizione di “neoatlantismo” la dottrina strategica che vedeva l’Italia prendere l’iniziativa in direzione del Mediterraneo e del mondo arabo ed africano pur restando ben incardinata nelle alleanze sorte dal conflitto. L’Italia volle essere il Paese della distensione, del dialogo e del confronto tra mondi politici diversi, un attore del campo occidentale capace di fare della diplomazia economica e dell’azione geopolitica in campo energetico inaugurata dall’Eni di Enrico Mattei una punta di lancia per il rafforzamento dell’interesse nazionale. Sulle rotte del Mediterraneo Roma seppe costruire le basi d’appoggio per guardare oltre. Aldo Moro, fine conoscitore degli scenari mediorientali, seppe costruire un sagace equilibrio tra israeliani e palestinesi ponendo Roma come centro d’intermediazione e relativamente al sicuro dall’escalation dello scontro che dilaniava il Medio Oriente. Mattei costruì basi d’appoggio per la politica nazionale in Iraq, Egitto, Iran che da presidente del Consiglio e ministro degli Esteri un politico come Giulio Andreotti rafforzò. Meno nota, ma inesorabile fu la penetrazione italiana in Africa, ove col soft power economico e una spesso genuina adesione ai principi di autonomia dei popoli postcoloniali Roma seppe sovrapporsi, o spesso sostituirsi, alle storiche potenze coloniali. Il ruolo di Mediobanca come acceleratore del credito allo sviluppo del continente nero e del commercio italiano andò di pari passo con un ruolo da protagonista del Paese nella costruzione delle grandi infrastrutture che i governi locali cercavano per rafforzare la connessione interna (ponti, autostrade, ferrovie, dighe) e che videro spesso impegnate aziende del Belpaese.

La visione ecumenica di Giorgio La Pira

La figura emblematica della vocazione mondiale della diplomazia della Prima Repubblica, in ogni caso, non fu né un presidente del Consiglio né un ministro, ma bensì Giorgio La Pira, il lungimirante sindaco di Firenze, esponente della sinistra democristiana, tra gli autori del Codice di Camaldoli alla base del compromesso sociale, keynesiano e inclusivo che permise la scrittura della Costituzione repubblicana. Cattolico devoto, La Pira immaginava una diplomazia di città e nazioni volta a creare un dialogo comune tra popoli e governi oltre le logiche della Guerra Fredda. Uomo al tempo stesso capace di visioni profondamente ideali e di grandi slanci pragmatici, La Pira unì un obiettivo culturale ad uno politico. Organizzando a Firenze i “Dialoghi mediterranei” con gli esponenti del mondo arabo ed ebraico e delle grandi religioni monoteistiche seppe rafforzare il ruolo dell’Italia come ponte negoziale tra le varie aree del “Grande Mare”; recandosi in Unione Sovietica aprì la strada alla costruzione di un modus vivendi tra Roma e Mosca che grandi aziende come Eni e Fiat avrebbero sostanziato in lucrosi accordi economici; nel 1955, la Firenze amministrata dal democristiano La Pira fu la prima città italiana a invitare il sindaco di Pechino a intervenire in un dibattito pubblico. Prima del riconoscimento da parte di Roma della Repubblica Popolare Cinese come legittima rappresentante della nazione cinese nel 1970, La Pira contribuì assieme al leader socialista Pietro Nenni a tenere aperto con Pechino un dialogo secondo per intensità solo a quello condotto dalla Francia del Generale de Gaulle. La visione cristianamente ispirata della sua azione politica ecumenica permette di capire, al tempo stesso, quanto fondamentale sia stato l’impatto sul Paese di una Santa Sede divenuto attore protagonista sul proscenio mondiale.

Le due Rome

Roma nell’era della Prima Repubblica fu una e duale al contempo. Italia e Vaticano seppero sfruttare i reciproci contatti aprendo a un’azione corale in diversi contesti. Da Giovanni XXIII in avanti, il Vaticano seppe essere un attore globale sempre più attivo e sfruttando le nunziature e i punti d’appoggio della Chiesa cattolica nel mondo aprì un dialogo oltre i blocchi, diretto sia ai Paesi sviluppati che a quelli del “Terzo Mondo”. Per fare alcuni esempi di questo interscambio, il governo italiano seppe essere un braccio operativo importante per la Chiesa per monitorare la situazione dei cristiani nel blocco socialista, il Vaticano aiutò l’Italia nella mediazione per la pacificazione del Mozambico dilaniato dalla guerra civile a partire dagli Anni Settanta. Nel già citato teatro africano la presenza di organismi cattolici italiani impegnati nella cooperazione allo sviluppo (Cuamm, Comunità di Sant’Egidio e via dicendo) ha rappresentato un pivot fondamentale per Roma; al contempo, il Vaticano seppe costruire nella politica romana un rapporto preferenziale con Giulio Andreotti, tanto eminente esponente democristiano quanto vero e proprio cardinale “laico” di Roma, come dimostrato dall’impegno per supportare la Ostpolitik del cardinale Agostino Casaroli, il riavvicinamento tra Usa e Santa Sede mediato da monsignor Pio Laghi e una divulgazione di una visione complessiva del contesto internazionale letta alla luce di un paradigma cattolico con l’attività della rivista Trenta Giorni. La vivace politica estera italiana nell’era della Prima Repubblica è la più importante dimostrazione dell’originalità della visione di una classe dirigente che seppe dare una rotta al Paese. Anticipando i grandi trend che avrebbero guidato il mondo globalizzato, mostrando l’importanza del pensiero complesso nelle relazioni internazionale, sfruttando al massimo i margini di autonomia di cui una media potenza sconfitta nella guerra come Roma poteva beneficiare: una lezione di lungimiranza e praticità per tutti i successori alla guida di un Paese che, nei decenni più recenti, ha preferito la marginalità.

Bettino Craxi fu un grande leader ma dopo il 1989 sbagliò tutto. Roberto Morassut su Il Riformista il 9 Gennaio 2020. È uscito il film Hammamet, sulla figura di Bettino Craxi, per la regia di Gianni Amelio e interpretato magistralmente da Pierfrancesco Favino. La pellicola contribuisce, nel ventennale della scomparsa, all’ormai lungo dibattito sulla figura del leader socialista e agli interrogativi sui torti e le ragioni nel confronto/scontro interno alla sinistra di quegli anni, le cui tracce sono oggi ancora molto presenti. Craxi fu una figura di sinistra riformista ed ebbe meriti e intuizioni innegabili: le più importanti furono, a mio parere, la percezione della necessità di una riforma generale delle istituzioni e le posizioni in politica estera. Colse la necessità di una “democrazia governante”, il valore della decisione come parte del meccanismo stesso della democrazia presupposto della sua costante rigenerazione. Fu un capo di governo capace di costruire un profilo dell’Italia leale con gli alleati atlantici ma non subalterno. Tuttavia, ebbe limiti e responsabilità altrettanto grandi che compromisero, alla resa dei conti, la sua stessa visione del riformismo: egli rimase, alla fine, totalmente dentro i confini politici e morali (morale intesa meramente come “condotta” politica e non come comportamento etico e di vita) di quella prima Repubblica che egli voleva riformare anche immaginando le condizioni di una alternativa. Dopo l’89 e alla vigilia di Mani Pulite, Craxi ebbe infatti la possibilità di imboccare la strada dell’alternativa ma non lo fece e questo mi pare il punto dirimente per un giudizio “da sinistra” sulla sua figura. Il Pci non esisteva più, l’Urss era dissolto ma c’era una nuova forza politica di sinistra che, nata dalla sua trasformazione, poteva essere interlocutore del Psi per una alternativa riformista. Craxi fu invece vinto dalla tentazione di fagocitarla con la proposta della “Unità socialista” piuttosto che stabilirvi un rapporto politico finalizzato ad una “Unità riformista” che andasse oltre i margini delle famiglie socialiste o ex comuniste, magari umiliate dalla sconfitta storica di quegli anni. Questa scelta lo portò all’errore del Congresso di Bari nel riproporre l’accordo con la Dc per ragioni meramente di potere, come ha ricostruito bene, tempo dopo, Claudio Martelli. E poi a sostenere la diserzione dalle urne in occasione del referendum sulle preferenze plurime, scontrandosi con un sentimento popolare che egli – riformista e innovatore – scambiò per una protesta di piazza. Questo dimostra che egli fu pienamente dentro il vecchio mondo pre ‘89 che comprendeva anche certe rivalse socialiste del “dopo Livorno”. Era pienamente figlio del ‘56 e confuse la svolta della Bolognina come un fatto di trasformismo neo comunista senza comprendere fino in fondo il travaglio e la mutazione genetica profonda che gli eredi del Pci stavano attraversando. La sua visione innovativa della Repubblica e del quadro internazionale mancò, insomma, nel momento decisivo. La necessità storica di una “Unità riformista” emerse con chiarezza dopo pochi anni dalla sua uscita di scena con il sorgere dell’Ulivo che peraltro riprese nei suoi programmi anche ispirazioni craxiane. Viceversa, gli eredi del Pci transitarono lo spartiacque dell’89 con minori danni, benché non senza aporìe, perché Berlinguer aveva largamente preparato lo sganciamento politico e morale (sempre nel senso poc’anzi indicato) dal mondo diviso in blocchi e con la “svolta della Bolognina” si resero pronti e spendibili per una nuova possibile pagina repubblicana. Quanto alla cosiddetta “persecuzione giudiziaria”, bisognerebbe stabilire che quelle inchieste che lo riguardarono non avevano ragion d’essere ma così non sembra. Qualcuno sostiene che le inchieste furono un golpe. Affermazioni spericolate. Il tema della corruzione in politica è ancora vivissimo oggi e forse anche più grave di allora. L’impossibilità di un’alternativa politica contribuì purtroppo non poco alla abnorme amplificazione del ruolo della magistratura come estremo fattore risolutivo per determinare un rinnovamento delle classi dirigenti. La rapacità degli ultimi anni della Repubblica, l’enorme debito pubblico (in parte derivato dalla crisi morale dei partiti di governo di allora) è peraltro parte integrante di un giudizio politico. Nessuno può dire (ma forse è giusto domandarselo) se una scelta di Craxi per l’alternativa dopo l’89 non avrebbe potuto mutare i termini stessi della vicenda Mani Pulite. Ecco perché oggi la figura di Craxi resta una figura contraddittoria e per certi versi drammatica; ma la complessità del giudizio sulla sua figura non può tradursi nel facile gioco della riabilitazione o della condanna imperitura. Luci e ombre devono restare ben chiare per non sbagliare ancora e per crescere una classe dirigente che sappia sempre promuovere il rinnovamento anche rischiando se stessa per un interesse generale e soprattutto per tutelare, in nuovi contesti, i propri valori di fondo. E questa mi pare anche la lezione che oggi si può trarre, parlando di Craxi, anche per questa complessa fase della vita della Repubblica e anche per il futuro prossimo del Pd. Per non disperdere un patrimonio storico di valori e ideali occorre, in certi momenti, mettere in discussione se stessi, rischiare se stessi. È il tema del Pd in questo preciso momento storico. Roberto Morassut

Quell’ammissione tardiva di D’Alema. I rapporti tempestosi col Psi. Francesco Damato su Il Dubbio il 30 maggio 2021. La partecipazione ad uno degli eventi celebrativi dei 50 anni del manifesto, il “quotidiano comunista” orgogliosamente sopravvissuto sia all’espulsione dei suoi promotori dal Pci sia alla fine dello stesso Pci dopo il crollo del muro di Berlino, ha dato a Massimo D’Alema l’occasione di una tardiva ma pur sempre significativa ammissione autocritica sul versante dei rapporti col Psi. Che fu uno dei temi del dissenso a sinistra di cui viveva il giornale degli “eretici”. I quali non condividevano la supponenza – chiamiamola come meritava- del Pci verso il Psi persino ai tempi di Francesco De Martino, prima che arrivasse a guidarlo col garofano in mano quell’”intruso” come veniva considerato Bettino Craxi. Di cui infastidì i comunisti anche il fatto che fosse riuscito a strappare alla Dc nei rapporti di alleanza politica ciò che De Martino ammise poi di non avere osato neppure immaginare di poter chiedere: la guida socialista di un governo di coalizione. Alla buonanima di Luigi Pintor che nel 1983, scrivendo della voglia di chi militava a sinistra di “non morire democristiani”, esortava i comunisti a cambiare musica col Psi da 7 anni ormai a direzione craxiana, D’Alema ha riconosciuto di avere ragione, e torto lui a “indignarsi” nel leggerlo. Ma ciò avvenne anche più avanti, in quelli che Andrea Carugati, sempre sul manifesto, ha definito “gli anni della transizione post- Pci”. Che furono intossicati dai propositi di annessione intravisti, a torto o a ragione, dai comunisti nella prospettiva dell’” unità socialista” lanciata da Craxi dopo il crollo del muro di Berlino e dalla voglia irrefrenabile, persino scomposta, di difendersene cavalcando le difficoltà giudiziarie, a dir poco, del Psi alle prese con Tangentopoli. Di cui il sindaco non poteva che essere socialista, vista la direzione preferenziale assunta dalle indagini giudiziarie. Nei rapporti estremamente conflittuali fra i due partiti maggiori della sinistra, in cui Achille Occhetto usò come una clava la “questione morale”, D’Alema ha riconosciuto con gli amici o compagni del manifesto che “i torti non erano tutti di una sola parte”. Ma lui, obiettivamente, quando decise di sostituire Occhetto alla segreteria del Pds- ex Pci non fece gran che per migliorare le cose. Gli venne addirittura attribuita una volta, a commento di uno dei tanti tentativi dei socialisti di tornare con le proprie forze in Parlamento, la battuta che non bisognasse fargliene tornare la voglia o l’abitudine. Magari non sarà stata vera, come tante altre battute al vetriolo attribuite a D’Alema e da lui smentite, a cominciare dalla liquidazione di Romano Prodi e Walter Veltroni come “flaccidi imbroglioni”, ma molti la presero almeno per verosimile conoscendo gli umori dell’uomo. Il fatto è che, a parte gli “eretici” del manifesto all’esterno, per molto tempo gli unici fra i comunisti e post- comunisti a consentirsi un linguaggio e uno stile non esasperato nei rapporti con i socialisti furono i cosiddetti “miglioristi”. Che anche per questo erano considerati la minoranza d’obbligo del partito, non qualificata a guidarlo neppure quando, caduto il comunismo, furono cambiati nome e simbolo della formazione politica. Lo stesso arrivo del migliorista Giorgio Napolitano al Quirinale nel 2006 avvenne per decisione più esterna che interna ai democratici di sinistra, per impedire che vi giungesse proprio D’Alema, al quale sembrò ad un certo punto che fosse disposto a dare una mano persino Silvio Berlusconi, consigliato in quella direzione da Giuliano Ferrara ma sottrattosi alla tentazione all’ultimo momento con una telefonata di spiegazione al “caro Massimo”. Tuttavia – un po’ diversamente da come l’ha appena raccontata lo stesso D’Alema in una intervista a Tommaso Labate per il supplemento 7 del Corriere della Sera- a impedirne la candidatura fu di fatto l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini muovendosi fra i moderati per spianare la strada appunto a Napolitano. Che da presidente della Repubblica non smentì quella specie di sensibilità diversa nei riguardi dei socialisti manifestata già nel 1976, quando si avviò l’esperienza della cosiddetta solidarietà nazionale e lui non condivise la condizione posta dal Pci per aderirvi: che il governo da appoggiare, senza potervi partecipare, fosse “monocolore” democristiano, per escludervi i socialisti prima di tutti gli altri ex alleati dello scudo crociato. Fu con Napolitano che nel decimo anniversario della morte di Bettino Craxi ad Hammamet partì dal Quirinale alla vedova Anna la lettera in cui si riconosceva che l’azione anche giudiziaria contro il leader socialista per la pratica generalizzata del finanziamento illegale della politica fu di una durezza “senza uguali”. D’Alema poco più di dieci anni prima si era limitato a incoraggiare telegraficamente un Craxi appena operato in condizioni disperate firmandosi impersonalmente, con la sola qualifica di presidente del Consiglio.

Francesco Specchia per "Libero Quotidiano" il 26 maggio 2021. Lo strano caso dei magistrati italiani: da eroi della rivoluzione a funzionari ebbri del dissesto della politica e «ubriachi di potere». C'è un documento di quindici paginette, oggi desecretato dagli archivi del Dipartimento di Stato americano, attraverso il quale la Storia riscrive completamente il rapporto tra il governo Usa e gli anni di manette e palingenesi della Tangentopoli italiana. Il documento, inedito, è presente nel contributo del craxiano Andrea Spiri inserito nel saggio collettaneo La seconda Repubblica. Origini e aporie dell'Italia bipolare (Rubettino, a cura di Francesco Bonini, Lorenzo Ornaghi e dello Spiri stesso); ed è solo uno delle centinaia di rapporti, pareri, dispacci che l'ambasciata e il consolato Usa inviavano periodicamente a Washington in quegli anni infiammati. Ogni documento contrassegnato dalla dicitura «from U.S. Consulate General Milan to Secretary of State» cadenza la fitta corrispondenza e fotografa quei giorni turbolenti, tra il 1992 e il '94 con titoli legati alla cronaca: Milan scandal - Further arrests, further; Public Administration and corruption- Factors leading to the success of the Investigations; The Party System's voracious appetite; What are the Implications of Craxi's demise?; Former Eni President's Suicide. Possible political and judicial Effects, ecc…Tutta la documentazione disegna due strategie d'approccio americano alla seconda repubblica. La prima è di completo sostegno ai giudici di Mani Pulite. «Il feudo craxiano si sgretola», avverte il console Usa Peter Semler in un dispaccio trasmesso il 4 maggio del '92 al segretario di Stato James Baker, dando conto dell'arresto di Mario Chiesa a cui seguono tutti gli altri, nello scoperchiarsi di un grande sistema corruttivo «inimmaginabile per un paese del G7»; pure se «Much more is yet to come», il meglio - per i diplomatici - deve ancora venire ancora venire. E qui i magistrati sono identificati come impavidi eroi del west: il Procuratore capo Francesco Saverio Borrelli «fa in modo che le indagini siano condotte nel rigoroso rispetto della legge», Di Pietro «ha un talento nello sviluppare rapporti eccezionali con le persone che interroga»; e «i martelletti delle loro decisioni sono risultati efficaci come pistole». Ad un tratto, però, cambia la strategia di approccio. Tra la primavera e l'estate del '93, qualcosa di rompe. Alla Casa Bianca s'insedia Bill Clinton che manda in Italia un raffinato ambasciatore di lungo corso, Reginald Bartholomew. Il quale si ritrova immerso in uno scenario inedito, tra gli ultimi fuochi di Dc, Psi, Psdi e Pli; con Oscar Luigi Scalfaro arrivato al Quirinale sulla scia della strage di Capaci; il Pds di Occhetto in ascesa e Berlusconi pronto a scendere in campo. E qua, il sospetto della ripetuta «violazione dei diritti di difesa un pericolo per la democrazia», il nuovo ambasciatore ce l'ha, riportando ai superiori la frase, appunto «magistrati ubriachi di potere». E la stima nell'operato dei pm italiani s'incrina assai col suicidio a San Vittore dell'ex presidente dell'Eni Gabriele Cagliari. Scrive Spiri: «I diplomatici americani iniziano quindi a dare conto con sempre maggiore frequenza delle opinioni di fonti anonime che "accusano la magistratura di voler riempire il vuoto di potere creato dal collasso dei partiti e dalla delegittimazione del Parlamento", e raccolgono al contempo duri giudizi sull'"abuso della carcerazione preventiva" e sul "mancato rispetto dei princìpi del garantismo"». Ad impressionare è soprattutto il famigerato avviso di garanzia recapitato al premier Berlusconi a Napoli. Commenta Bartholomew: «In passato non siamo riusciti a raccogliere sufficienti elementi di prova che confermassero l'accusa rivolta ai giudici di agire per fini politici, ma in questo frangente, in concomitanza con l'avviso a comparire recapitato al presidente Berlusconi mentre presiedeva a Napoli un vertice internazionale sulla criminalità organizzata, cresce fra i cittadini la preoccupazione che l'operato dei magistrati risponda a scopi di natura politica». Il diplomatico è infatti il primo ad accorgersi del vuoto di potere politico che si va colmando, a cominciare dal blocco del decreto Consolo, attraverso le azioni di molti magistrati. E smantella il sistema di rapporti istituzionali del predecessore Peter Secchia che aveva consentito al Consolato di Milano di gestire legami diretti col pool Mani Pulite; «d'ora in poi tutto ciò con me cessò», avrebbe detto Bartholomew in un'intervista all'allora corrispondente Usa della Stampa Maurizio Molinari. «Molti di essi (i magistrati, ndr), impegnati nelle indagini di Tangentopoli e nella lotta alla mafia, hanno acquisito uno status di quasi santità che li ha sottratti alla possibilità di critica da parte della classe politica», afferma sempre Bartholomew nel dispaccio The "Clean Hands" Magistrates: A Stocktaking constatando prima di altri un insolito vulnus della democrazia. «Ci vorranno probabilmente diversi anni prima che si stabilisca un nuovo equilibrio tra i poteri dello Stato e che i rappresentanti eletti riacquistino più forza». E, dopo quasi trent'anni, morto Bartholomew, alla vigilia di una tanto decantata riforma della giustizia, be', siamo ancora qui.

Mario Ajello per "il Messaggero" il 19 maggio 2021. Oscar Luigi Scalfaro il manovratore. Non l' arbitro ma il giocatore politico. Non l' imparziale ma un presidente che entra a gamba tesa nelle dinamiche interne dei partiti, e in particolare del Psi nella sua fase finale, quella che portò - sotto i colpi dei pm di Mani Pulite, gli avvisi di garanzia e l' indignazione popolare contro la partitocrazia corrotta di cui il partito socialista divenne il massimo simbolo agli occhi della «ggente» - alle dimissioni di Bettino da segretario dopo 16 anni di comando. Ecco il ritratto che viene fatto di Scalfaro, cablogrammi dell' ambasciata americana a Roma diretti al Dipartimento di Stato di Washington negli anni cruciali 1992-1993 mentre crollava la Prima Repubblica. Scalfaro suggerì ai socialisti: isolate Craxi. E lo fece così, secondo i «confidential report» finora inediti firmati dall' ambasciatore Peter Secchia e da altri diplomatici degli Stati Uniti.

I DISPACCI Da Via Veneto s' informa puntualmente il governo americano delle battaglie interne al Psi mentre Craxi stava politicamente agonizzando. «I compagni di partito lo attaccano» - si legge in queste carte ora spulciate e rese note dallo storico Andrea Spiri, docente alla Luiss - e lui ormai indebolito combatte per mantenere il posto». Arriva il primo avviso di garanzia nel novembre del 92, ma Bettino - scrive l' ambasciatore Secchia - «non nutre alcun desiderio di farsi da parte» e «manovra per neutralizzare il suo principale avversario interno nel Psi, Claudio Martelli». Ma ormai è un leader braccato, «ferito a morte» lo descrive il console Peter Semler, e dalla sede diplomatica di Via Veneto dove evidentemente non lo amano affatto lo vedono così: «Si atteggia a capro espiatorio cercando di addebitare i suoi problemi agli Stati Uniti che, a suo giudizio, agiscono dietro le quinte e sono il vero motore dell' inchiesta sulla corruzione condotta dal pm Di Pietro». E Scalfaro che cosa c' entra? In un dispaccio al Dipartimento di Stato, l' incaricato d' Affari dell' ambasciata a Roma, Daniel Serwer, parla di un «insolito suggerimento del presidente della Repubblica». Scalfaro avrebbe rivolto nel 93 al capo del governo, il socialista Amato, questo «consiglio»: «È opportuno non prendere parte alla riunione della segreteria del Psi in programma il prossimo 1 febbraio per evitare che l' esecutivo venga danneggiato dalle lotte interne al partito». Ovvero: lasciate da solo Craxi, mollatelo e almeno vi salverete voi! E appare come minimo inopportuno, da parte di un Capo di Stato, ingerire così direttamente nelle vicende interne di un partito, per facilitarne l' eliminazione del segretario. Tra le tante storture di quel periodo drammatico, eccone un' altra come emerge da questi report finora sconosciuti e che Spiri ha estratto dagli archivi del Dipartimento di Stato americano, per illustrarli nel volume che esce domani - da lui curato insieme a Francesco Bonini e a Lorenzo Ornaghi - intitolato La Seconda Repubblica. Origini e aporie dell' Italia bipolare (Rubbettino editore). Giuliano Amato a quella riunione della segreteria socialista non andò. E la sua decisione, sollecitata da Scalfaro, viene letta in chiave americana come «opportuna»: una «presa distanza pubblica» nei confronti di Craxi la cui fine politica e le manovre di Scalfaro per propiziarle vengono apprezzate in questi dispacci a conferma di quello che pensava Craxi, ovvero che da Oltreoceano si faceva il tifo contro di lui.

LE DIMISSIONI Pochi giorni dopo il dispaccio in cui si cita Scalfaro, l' 11 febbraio 93, Craxi isolato e bersagliato si dimise da segretario del Psi dopo 16 anni e 7 mesi di comando. Lo fa «in maniera tardiva», si legge in uno di questi cablogrammi, e dopo «aver fortemente danneggiato il suo partito» fino a farne «il simbolo della partitocrazia corrotta». Da Via Veneto informano: «Il leader socialista si è dimesso ma si è rifiutato di lasciare il suo vecchio ufficio di Via del Corso, costringendo il nuovo segretario, Giorgio Benvenuto, ad accomodarsi in un' altra stanza, a conferma del desiderio di Craxi di mantenere una certa influenza sull' attività del partito». Ma non gli sarebbe riuscito perché ormai isolato dai suoi e nell' isolamento rispetto al suo partito il Capo dello Stato, a leggere questi dispacci, avrebbe avuto un ruolo attivo. Svolse un esercizio di intromissione che non gli sarebbe dovuto competere.

L' IDOLO E comunque, piacque così tanto agli americani l' interventismo anti-craxiano di Scalfaro che, in altri report rintracciati dallo storico Spiri, l' allora Capo dello Stato viene definito dal diplomatico Serwer: «Un' autentica Rocca di Gibilterra» («A veritable Rock of Gibraltar»), posta a guardia della transizione politica italiana. E ancora: «È un uomo imparziale, integro, di esperienza, onesto e capace, con il suo discreto interventismo, di mantenere la barra dritta» in quegli anni tempestosi di Tangentopoli. In cui a Washington si tifa per Di Pietro e si gioisce per l' isolamento di Craxi e poi per la sua caduta. Nella quale una spinta sarebbe arrivata anche dal Colle, e Oltreoceano la registrarono benevolmente.

Quando il pool sconfisse la politica (e la legalità). Quando la politica consegnò lo scettro alle procure. David Romoli su Il Riformista il 31 Luglio 2021. La sfida tra magistratura e governo a cui assistiamo da giorni non riguarda solo la materia del contendere, la riforma Cartabia e in particolare le nuove norme sulla prescrizione. Il braccio di ferro ha valenza più complessiva: riguarda la divisione dei poteri e la facoltà o meno dell’esecutivo e del legislativo di legiferare in materia di giustizia senza veti da parte del potere giudiziario. Di scontri tra politica e magistratura, a partire dalla metà degli anni ‘80, ce ne sono stati innumerevoli, ma c’è una vicenda precisa che segna lo spartiacque, a partire dal quale quel potere di veto è stato informalmente riconosciuto e rigorosamente rispettato per 25 anni: quelle del decreto Biondi del 1994, ribattezzato subito – col classico linguaggio squadrista dell’epoca, che è molto simile al linguaggio squadrista di oggi – e poi passato alla storia come “decreto salva-ladri”. Il 13 luglio 1994 l’Italia era impegnata nella semifinale dei mondiali calcio, al Giant Stadium di New York, contro la Bulgaria. Secondo i malpensanti proprio per quella coincidenza, destinata negli auspici a distrarre l’attenzione del grande pubblico, il governo Berlusconi scelse proprio quella data per tentare l’affondo contro i magistrati che indagavano sulla corruzione, al primissimo posto quelli del pool Mani pulite di Milano e contro il metodo con cui l’inchiesta veniva condotta da oltre due anni: l’uso molto disinvolto della carcerazione cautelare finalizzato a estorcere confessioni e denunce. Il governo varò un decreto firmato dal ministro della Giustizia Alfredo Biondi, già leader liberale universalmente rispettato e importante avvocato, ma secondo le voci dell’epoca ispirato dal ministro della Difesa e discusso avvocato di Berlusconi Cesare Previti. Al momento di formare il suo primo governo Berlusconi avrebbe in effetti voluto Previti come guardasigilli, salvo poi sostituirlo con Biondi in seguito al diluvio di critiche. È dunque plausibile che almeno in parte lo zampino dell’avvocato romano nel decreto Biondi ci fosse davvero. Il dl, oltre a secretare l’avviso di garanzia, limitava fortemente la possibilità di disporre la custodia cautelare per tutte le fattispecie di reato connesse con tangentopoli, sostituendola con gli arresti domiciliari. Il governo interveniva così sugli anelli nevralgici delle inchieste che da oltre due anni terremotavano la politica italiana e lo faceva seguendo una strada semplice: procedere all’attuazione, almeno parziale, della Costituzione. L’arresto era infatti adoperato quasi alla luce del sole non per evitare il rischio di fuga o di inquinamento delle prove ma per costringere alla confessione e alla chiamata di correo. Senza quell’abuso della carcerazione preventiva le inchieste non sarebbero mai state in grado decollare. Nelle rare occasioni in cui l’arrestato tenne duro, come nel caso allora notissimo di Primo Greganti, ex Pci poi Pds, l’inchiesta si arenò. Era un azzardo, anche perché nel mirino di Mani pulite in quel momento c’erano proprio i rapporti tra Fininvest e la guardia di finanza. Biondi era dubbioso. Riteneva che fosse consigliabile procedere con una legge invece che con un decreto. Ma Berlusconi si sentiva fortissimo dopo aver vinto le elezioni politiche di marzo con una sorta di doppia coalizione, con la Lega al nord e con An al sud, e dopo essere balzato, nelle europee del 12 giugno, oltre il 30%. Insistette per il decreto. A botta calda la strategia della distrazione a mezzo Mondiali di calcio sembrò funzionare: non ci furono reazioni immediate al varo del decreto. Ma già il giorno dopo il pool si riunì e decise la contromossa, ad alto effetto scenico. Antonio Di Pietro, l’uomo di punta del pool e allora forse il più amato in assoluto dagli italiani, apparve in diretta tv. Intorno a lui l’intero pool: Gherado Colombo, Piercamillo Davigo, Francesco Greco. Di Pietro esordì con la voce rotta: “Scusate se sono un po’ emozionato”. Poi lesse un breve comunicato del pool: “L’odierno decreto non consente più di affrontare efficacemente i delitti sui quali abbiamo finora investigato. Quando la legge contrasta con i sentimenti di giustizia e di equità diventa molto difficile compiere il proprio dovere. Abbiamo pertanto informato il Procuratore della nostra determinazione di chiedere al più presto l’assegnazione ad altro e diverso incarico”. Poi, di fronte alle telecamere, i magistrati che da due anni e passa occupavano in pianta stabile le prime pagine dei giornali ed erano agli occhi di milioni di italiani veri e propri eroi, si abbracciarono commossi. Era un pronunciamento in piena regola ed era anche una mossa mediatica abilissima, che sfidava e metteva all’angolo Berlusconi, il grande comunicatore, sul suo stesso terreno. Il Cavaliere scoprì di aver sbagliato i conti. Il pool era troppo forte e troppo popolare per poter essere sfidato. I partiti alleati di Fi, Lega e An, avevano sempre appoggiato Mani pulite, avevano sventolato cappi nelle aule del Parlamento, dovevano buona parte dei loro consensi proprio agli strepiti contro la corruzione e i “politici ladri”. I loro elettori non avrebbero perdonato il voltafaccia. La stampa fece muro insieme ai Pm. In una concitata conferenza stampa Giovanna Pajetta, figlia di Giancarlo (icona del Pci), e cronista del manifesto arrivò a uno scontro senza precedenti col premier, che abbandonò a metà la conferenza, inseguìto dagli urli della giornalista, dopo averla definita “un’agit-prop”. Il colpo di grazia lo diedero le scarcerazioni. Grazie al decreto uscirono dal carcere il 16 luglio (tre giorni dopo il varo del decreto) 472 persone, destinate a superare quota 1100 due giorni dopo. Tra queste alcuni imputati eccellentissimi di tangentopoli incluso l’ex ministro della Sanità De Lorenzo, il più detestato di tutti dall’opinione pubblica. Berlusconi provò a difendere il decreto ma gli alleati presero le distanze. Il leghista Maroni, ministro degli Interni, disse di aver firmato solo perché ingannato da Berlusconi e Biondi: “Mi avevano garantito che non ci sarebbero state scarcerazioni”. Il premier reclamò scuse immediate. Biondi, ex pugile dilettante, propose a Bobo Maroni di risolvere la faccenda sul ring, nonostante la cospicua differenza d’età. Fini chiese al premier di ripensarci. Bossi fu più sintetico: “Se mette la fiducia se la vota da solo”. La borsa calò a picco. La stampa internazionale mitragliò. Una parte di Fi, guidata dal ministro per i Rapporti per il Parlamento Giuliano Ferrara, insisteva perché Berlusconi portasse lo scontro alle estreme conseguenze dimettendosi e affrontando nuove elezioni. Forse sarebbe stata la mossa giusta ma non era nel carattere del leader azzurro. Preferì la resa. Il 19 luglio la commissione Affari costituzionali della Camera negò al decreto i presupposti di costituzionalità, e la destra al governo votò contro se stessa: 29 voti contro 2 e 7 astenuti. La scena si ripeté due giorni dopo in aula: 418 voti contro il dl, 33 a favore, 41 astenuti. Il dl fu sepolto. Non fu solo la sconfitta del governo Berlusconi, che imboccò la china che lo avrebbe portato a cadere meno di 6 mesi più tardi. Fu la battaglia campale che sancì di fatto la possibilità per il potere giudiziario di decidere sulle leggi che riguardavano la giustizia. Tre anni dopo il solo tentativo serio mai fatto di riformare la Costituzione sbatté e fallì proprio per quel veto della magistratura. Il 21 luglio del 1994, con il decreto Biondi fu sepolta la separazione dei poteri e un pezzetto dello Stato di diritto. Fu riconosciuta la prevalenza del potere giudiziario sugli altri poteri e sulla società. Più di un quarto di secolo dopo è giunto il momento di chiudere questa fase buia della storia italiana? Riuscirà questa impresa a Marta Cartabia? Vedremo. David Romoli

Una risposta all'arroganza dei procuratori. Lo schiaffo dei Pm ai mandarini Salvi e Greco. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 27 Luglio 2021. L’arroganza è sempre una cattiva consigliera, figurarsi nella gestione dei rapporti gerarchici tra magistrati. A maggior ragione se ad adottarla sono due figure apicali come il procuratore generale della Cassazione Salvi e il procuratore capo di Milano Greco. Esse si muovono in un contesto nel quale sono già avvenuti terremoti sia a livello di Anm e di Csm sia per ciò che riguarda Milano, che è nell’occhio del ciclone per una serie di questioni. Ma innanzitutto per una: siccome i pm De Pasquale e Spadaro hanno puntato tutte le loro energie per distruggere il gruppo dirigente dell’Eni, l’assoluzione, accompagnata da una durissima motivazione, già aveva rappresentato una sconfitta bruciante per la procura nel suo complesso con code processuali visto che De Pasquale e Sergio Spadaro sono sottoposti ad un procedimento presso la procura di Brescia. A monte di tutto ciò c’è il preteso caso Palamara, preteso perché esso coinvolge tutto il funzionamento interno della magistratura per ciò che riguarda l’assegnazione delle cariche. Palamara infatti era una ruota dell’ingranaggio e non si è inventato lui la permanente trattativa fra le correnti indipendentemente dai curricula e dai meriti. Se non che ad un certo punto Palamara, leader della corrente di centro, ha commesso l’errore di rovesciare le alleanze passando da una alleanza di centrosinistra ad una di centrodestra. Così è partito non un proiettile, ma un missile a più stadi, cioè il trojan. Attraverso le intercettazioni del trojan, è stato messo in piazza il sistema, appunto, non le malefatte di Palamara. A quel punto, per salvare la magistratura ed il suo prestigio, occorreva una sorta di Rivoluzione Culturale con l’azzeramento di tutto, con le dimissioni del Csm, del suo vicepresidente Ermini, con la messa in questione anche della nomina – peraltro derivata da una dimissione – del pg della Cassazione Salvi, perché tutto derivava non da Palamara, ma dal Sistema nel quale Palamara era uno dei dirigenti del traffico. Invece, con un misto di arroganza e cecità, si è pensato di mantenere in piedi l’impianto, operando un assassinio mirato (il medesimo Palamara appunto, addirittura espulso dalla magistratura) con qualche mezzo suicidio selezionato (dimissioni talora sollecitate dalle correnti di riferimento anche di soggetti poi risultati innocenti). Già l’operazione era asfittica di per sé, poi è avvenuta in un contesto nel quale la contestazione di questo sistema giustizia era crescente: bastava solo che qualcuno accendesse un cerino. Il libro di Palamara e Sallusti è stato questo cerino che ha dato fuoco alla prateria. Neppure questo segnale è bastato. Questo è il retroterra utile a spiegare ciò che è avvenuto in questi giorni: un caso di straordinaria arroganza, posto in essere dal Procuratore di Cassazione Salvi in stretta connessione con il Procuratore di Milano Greco. Per raggiungere l’obiettivo di radere al suolo il gruppo dirigente dell’Eni, due avvocati in rottura con quella azienda, cioè Amara e Armanna, risultavano per i pm molto utili. Il primo aveva addirittura fatto oblique affermazioni secondo le quali il dottore Tremolada che guidava il processo, un magistrato da tutti stimato, “era avvicinabile dalla difesa dell’Eni” (questa affermazione se raccolta poteva far saltare il processo), in secondo luogo i due pm Di Pasquale e Spadaro sono in giudizio a Brescia per non aver inserito negli atti del processo delle prove favorevoli alla difesa (come è noto il pm esercita la pubblica accusa non per i fatti propri ma a nome del popolo italiano e quindi deve raccogliere anche eventuali prove favorevoli agli accusati): è quello che ai tempi di Mani pulite fece il vice di Borrelli dottor Dambrosio, quando raccolse prove a favore di Greganti e quindi del PCI – PDS). In un contesto già di per sé così ambiguo ed inquietante, Amara ha riferito al pm Storari che egli faceva parte di una loggia segreta, la Hungaria, insieme a personalità di grande rilievo (e ha fatto i nomi di alcune di esse che manipolavano i processi e contribuivano a costruire carriere nella magistratura). Non è affatto detto che Amara abbia raccontato la verità, però quello che egli ha messo a verbale andava accertato seguendo il meccanismo classico: avvisi di garanzia, indagini, perquisizioni, intercettazioni, magari anche con il trojan. Se non che Storari ha verificato che il suo procuratore capo Greco non si muoveva e allora si è rivolto ad una personalità rilevante del Csm cioè Davigo per suonare un campanello d’allarme. Ieri Davigo ha fornito sul Corriere della Sera un imbarazzante resoconto di tutte le personalità da lui interpellate, fino a lambire la presidenza della Repubblica. Quello che è avvenuto dimostra due cose: la prima è che si sono inceppati alcuni meccanismi procedurali nel sistema. La seconda è che, come ha affermato Sabino Cassese, la magistratura non può esercitare i meccanismi disciplinari su se stessa, perché, anche per l’esistenza delle correnti, ciò può produrre incredibili disastri. Comunque, come se in questi mesi non fosse successo niente, come se il Sistema fosse solidissimo, il procuratore capo della Cassazione Salvi, anch’egli contestabile perché espresso proprio da quel Sistema, ha deciso di prendere la scimitarra e di tagliare la testa di Storari, del solo Storari, addirittura allontanato da Milano per ridare serenità a quella procura e privato per il futuro di poter esercitare ancora il ruolo di pubblico ministero. Parliamoci chiaro: l’obiettivo di questo attacco frontale del Procuratore Salvi nei confronti di Storari ha come retroterra filosofico un motto tipico degli anni Settanta: colpiscine uno per educarne cento. E si fonda sulla forza del principio di autorità, in questo caso sostenuto anche dal procuratore capo di Milano Greco. L’iniziativa dei due potentissimi procuratori avrebbe dovuto mettere in riga tutti. Ma Salvi e Greco non hanno fatto i conti con la situazione attuale: essi sono gli ultimi dei “mandarini” di un sistema in crisi dalle fondamenta. Così, invece di andare a baciare la pantofola dei due procuratori, c’è stata l’iniziativa di un documento eterodosso sostenuto da un Pm di grande prestigio come Alberto Nobili che ha ottenuto più di cento firme, fra cui 56 su 64 fra i componenti della Procura. Il documento è assai calibrato, ma colpisce al cuore, anzi ridicolizza, le esagitate esternazioni di Salvi nel punto cruciale: «La loro serenità non è turbata dalla permanenza del collega nell’esercizio delle sue funzioni presso la procura della Repubblica di Milano». Se qualcuno voleva risolvere con una operazione disciplinare il problema Storari, che non è più tale ma è quello della Procura di Milano, si è sbagliato di grosso. Che poi la sezione disciplinare di questo Csm delegittimato sia a sua volta in grado di affrontare a colpi di scimitarra una questione di questo spessore ci sembra del tutto impossibile. Passando dalla magistratura alla politica, è come se qualcuno pensasse di risolvere i tanti problemi politici che ha il Pd con la stessa metodologia autoritaria usata a suo tempo dal gruppo dirigente del Pci nei confronti del manifesto. Se Salvi pensa di trattare Storari come a suo tempo Longo, Amendola, Natta trattarono Pintor fa un errore colossale. La crisi è di sistema. Comunque bisogna dare atto si magistrati inquirenti di Milano di aver dato la prova di avere la schiena dritta. Il documento apre però problemi enormi per ciò che riguarda, al di là dell’episodio in oggetto, proprio il funzionamento della magistratura. Fabrizio Cicchitto

Da Borrelli alla debacle di Greco, gli ultimi 40 anni della procura di Milano tra scandali e misteri. Frank Cimini su Il Riformista il 6 Agosto 2021.  Alla vigilia, ma in realtà ci vorranno mesi, di quello che potrebbe essere un avvenimento epocale come l’arrivo del cosiddetto “papa straniero” a capo della procura di Milano vale la pena di ricordare cosa è accaduto negli ultimi quarant’anni e passa.

Nel 1977, quando chi scrive queste povere righe iniziò a frequentare il palazzo di giustizia come collaboratore abusivo e non pagato (diciamo per militanza) del manifesto, il capo dei pm era Mauro Gresti passato alla storia per aver dato, e non avrebbe dovuto farlo, l’ok per il passaporto al banchiere Roberto Calvi. Di Gresti si racconta pure che la moglie fosse solita rimproverarlo quando portava fuori il cane “perché per ammazzare te mi ammazzano anche lui”.

Il successore di Gresti fu Francesco Saverio Borrelli il santo procuratore della farsa di Mani pulite targato Magistratura democratica dalla quale però a un certo punto prese le distanze. Un giudice di quei tempi era solito etichettare Borrelli come “quello che fa proclami al popolo”. Borrelli al termine del mandato scese al terzo piano a fare il procuratore generale cioè il superiore gerarchico e il controllore dello stesso ufficio inquirente che aveva diretto per anni. Ma si tratta di “dettagli” di cui il Csm, che di solito fa cose anche peggiori, non si è mai voluto interessare.

Del resto anche Manlio Minale fece lo stesso percorso scendendo di piano senza che la cosa suscitasse attenzione. Minale quando aveva già fatto la domanda per diventare pm era il giudice che in corte d’Assise condannò Sofri. Avrebbe mai potuto smentire l’ufficio in cui stava per entrare?

Ma prima di Minale il capo era stato Gerardo D’Ambrosio, lo zio Gerry, colui che da giudice istruttore aveva cercato di salvare l’onore e l’immagine della questura ricorrendo al “malore attivo” dell’anarchico Pinelli. D’Ambrosio in Mani pulite salvava il Pci Pds spiegando che Primo Greganti aveva usato i soldi non per il partito ma per comprare una casa. Ma da Montedison Greganti aveva incassato 621 milioni di lire, esattamente la stessa cifra data agli emissari di Psi e Dc. Misteri di Mani pulite.

Dopo D’Ambrosio arrivò Edmondo Bruti Liberati uno dei fondatori di Md il quale, contrariamente a quelli che erano stati i valori e lo spirito originario della corrente, fece fino in fondo “il padrone” del quarto piano cacciando Robledo che voleva indagare su Expo, ma per salvare la patria dell’evento non si poteva.

Francesco Greco, suo ex delfino, ha continuato l’opera di Bruti incagliandosi alla fine nel caso Eni Nigeria.

Siamo alla storia di questi giorni. Greco era stato sempre “coperto” dal Csm. Ricordiamo che poco tempo prima di essere nominato procuratore aveva chiesto una serie di archiviazioni in procedimenti di tipo fiscale. Il gip a ragione gettava le richieste e a quel punto interveniva la procura generale della Repubblica avocando a sé i fascicoli.

In alcuni di questi casi si arrivava alla condanna attraverso il patteggiamento. Insomma veniva completamente ribaltato quello che Greco aveva prospettato. In casi del genere il Csm è chiamato ad andare a verificare. Non accadeva nulla.

Greco insieme al pg della Cassazione Salvi evidentemente pensava di risolvere la questione Eni-Amara facendo trasferire Storari. Stavolta non ha centrato l’obiettivo. Frank Cimini

La lettera di 150 toghe in difesa di Storari. Valanga sulla procura di Milano, dopo 30 anni sotto accusa il metodo Mani Pulite. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Una valanga. È ormai una valanga quella che si sta abbattendo sulla Magistratopoli milanese, sul capo della procura Francesco Greco e il suo asse che pareva inattaccabile con il pg della Cassazione Giovanni Salvi e i vertici di Magistratura democratica, la corrente sindacale che sostenne trent’anni fa la roccaforte di Mani Pulite e i loro metodi che oggi sono sul banco degli imputati. Una piccola ricompensa per le tante vittime di quel sistema, e soprattutto per i 41 che proprio per quello si tolsero la vita. Una valanga che oggi porta le firme di 58 pm milanesi su 64, e poi gip e giudici di tribunale e corte d’appello, e l’intera procura di Busto Arsizio, fino a superare il numero di 150 toghe che, dietro le righe di una solidarietà al collega Paolo Storari che Salvi vuole cacciare da Milano e da qualunque procura, dicono “basta” alla Magistratopoli lombarda. Il pg della cassazione (e con lui il capo della procura di Milano) ritiene che i magistrati milanesi non siano sereni, se Storari rimane lì. Siamo molto sereni qui con lui, rispondono in coro i colleghi. Quasi dicendogli “stai sereno” tu. Non è importante stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina, per capire le ragioni di quel che sta succedendo. È stato il libro di Palamara e Sallusti a far rotolare il primo sassolino che diventerà valanga o è il caso Storari-Davigo con la maledizione del processo Eni a disvelare che ormai da tempo al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano si dice che “il re è nudo”? Nessuno pensava che un giovane sostituto fosse così importante, e probabilmente non lo è. Ma in tanti tra quelli più anziani negli uffici hanno la memoria lunga. E qualcuno sicuramente ricorderà le aspettative di chi avrebbe potuto diventare nel 2016 il capo della procura quando invece la scelta del Csm –quello in cui spopolava il sistema Palamara- era caduta su Francesco Greco, esponente di Magistratura democratica come gli altri candidati (a Milano finora è sempre andata così) ma soprattutto ex componente di quel gruppo che si arrogò il diritto di definirsi di Mani Pulite. Non è un caso che il leader dei giovani di procura che hanno steso il documento che, difendendo Storari, colpisce al cuore l’asse Salvi-Greco, si chiami Alberto Nobili e che sia, a quanto pare, il primo firmatario dello scritto di solidarietà al giovane pm che osò ribellarsi, pur con procedure sgrammaticate, al proprio capo. Chi ha la memoria più che lunga, addirittura lunghissima, tanto da saper andare, senza errori, fino all’indietro di trent’anni, potrà constatare che il Metodo, il Sistema, di certi procuratori, quello criticato con fermezza dal tribunale che ha assolto i vertici Eni nonostante la procura avesse esercitato pressioni di ogni tipo per arrivare alla condanna, non sono mai cambiati. Sono stati inventati allora e vengono messi in pratica ancora. Quando il procuratore Borrelli diceva come non fosse vero che loro tenevano le persone in carcere per farle confessare, ma che li scarceravano solo dopo che avevano parlato. Quando colui che allora era un semplice sostituto, Francesco Greco, al collega romano che era anche stato suo mentore Francesco Misiani che gli contestava la costante violazione della competenza territoriale, rispondeva come non fosse importante quale procura facesse le inchieste, ma “chi” potesse permettersi di farle. Cioè loro, gli alfieri con le Mani Pulite. Quel che è successo al processo Eni, e nei filoni complementari, ne è la plateale dimostrazione. Non è un caso che, proprio nei giorni scorsi, il procuratore Greco si sia rifiutato di consegnare ai colleghi bresciani una rogatoria fatta nel 2019 in Nigeria dalla collega e fedelissima Laura Pedio, che indagava insieme al collega Storari, su un filone parallelo rispetto al processo principale e che veniva chiamato del “falso complotto”. Anche senza entrare troppo nel merito, appare palese il fatto che la mentalità di allora si rispecchi nell’oggi: non è importante di chi è la competenza, ma “chi” è il predestinato a svolgere certe indagini. E Milano non dà le carte al procuratore di Brescia Francesco Prete, che è costretto a rivolgersi al governo. Così la procura di Milano, già all’attenzione del ministero (che ha mandato gli ispettori), del Csm (che sta ascoltando tutti, e proprio ieri Fabio Tremolada, che ha presieduto il processo Eni) e dei pubblici ministeri di Brescia (che indagano sia su Storari e Davigo per la diffusione di atti segreti, che su De Pasquale e Spadaro perché avrebbero nascosto al processo Eni importanti atti a discarico degli imputati) è decisamente sul banco degli imputati. Lo è per il metodo, e per l’arroganza. Come definire diversamente quel che è accaduto al processo Eni? Basta dare un’occhiata alle motivazioni della sentenza che ha assolto i vertici dell’azienda petrolifera per restare allibiti. Che i protagonisti dell’accusa si spendano per ottenere la condanna degli imputati è logico. Pur se si dovrebbe sempre ricordare che il pm è obbligato anche a portare in causa eventuali elementi a discarico. Se i due pm, come pare, non l’hanno fatto, nascondendo al processo una serie di prove che avrebbero dimostrato l’inattendibilità di un loro teste-accusatore, saranno sicuramente rinviati a giudizio dalla magistratura bresciana, competente a giudicare i colleghi milanesi. Ma il fatto più inquietante è un altro, anche perché ha una coda che riguarda personalmente il procuratore capo Greco e l’aggiunto Pedio. A un certo punto del dibattimento Eni, i pubblici ministeri avevano tentato di far entrare nel processo un verbale dell’avvocato Piero Amara (quello che aveva parlato della famosa “Loggia Ungheria”) in cui si metteva in dubbio l’integrità del presidente del tribunale Fabio Tremolada, definito come uno “avvicinabile”. Un tipo di testimonianza, soprattutto se resa da un personaggio discutibile come Amara, che in genere dovrebbe prendere la strada del cestino e essere trattato come carta straccia. Invece no. I due pm De Pasquale e Spadaro ci hanno provato, pur non potendo ignorare che un atto di quel tipo avrebbe potuto portare il presidente all’astensione e il blocco dell’intero processo. Ma la cosa ancora più grave è il fatto che il procuratore Francesco Greco e la fidata Laura Pedio inviarono quel pezzo di carta straccia alla procura di Brescia. A tutela del presidente Tremolada? Certamente. Quando mai ci si fanno gli sgambetti tra colleghi? Soprattutto quando un processo molto “politico” e molto mediatico sta andando male per la procura? Ora si vedrà se il Csm, se questo Csm che non ha avuto la forza di dare veri segnali di cambiamento dopo il “caso Palamara”, tenterà o meno di chiudere tutta la faccenda usando il pm Paolo Storari come capro espiatorio, come del resto ha chiesto il pg Giovanni Salvi, cacciandolo da Milano. Sarebbe un passo indietro, inaccettabile per la valanga delle firme che chiede il contrario. Ma se il procuratore della Cassazione, che forse ha a sua volta il problema di qualche cena di troppo e di qualche dichiarazione assolutoria nei confronti dei colleghi che si fanno raccomandare per fare carriera (ma non si chiama “traffico di influenze” se lo fa un politico?) da farsi perdonare, venisse sconfessato, dovrebbe dimettersi. E forse sarebbe ora di una svolta che rompesse anche la tradizione milanese quando a novembre Francesco Greco andrà in pensione.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

Vittorio Sgarbi batte Piercamillo Davigo in Tribunale: "Suicidio Cagliari, è il suo metodo". Per il giudice si può dire. Libero Quotidiano il 12 maggio 2021. Non è un bel momento per Piercamillo Davigo: l'ex toga di Mani pulite è stato sconfitto da Vittorio Sgarbi in Tribunale, e già questa è una notizia. Il giudice di Bologna ha assolto il deputato e critico d'arte nella causa per diffamazione intentata da Davigo in merito a un articolo del 10 marzo 2017 sul sito web Quotidiano.net. Si tratta in realtà del primo "match", perché come spiega il Giornale l'ex pm di querele ne ha presentate 4, tutte relative ad altrettante versioni dello stesso articolo. Il tema è quello delle carcerazioni preventive, contro cui Sgarbi si batte fin dai tempi di Tangentopoli. Nello specifico, il suicidio di Gabriele Cagliari, allora presidente di Eni, avvenuto nel 1993 dopo 134 giorni passati a San Vittore. Un dramma, accusava Sgarbi, frutto del "metodo Davigo". "Prima di scrivere l'articolo - ha spiegato il critico - avevo visto, il giorno prima, la trasmissione su Rai3 Agorà nella quale Davigo affermava: 'Non ho mai riconosciuto alcun eccesso nell'uso della misura cautelare in Tangentopoli. Se abbiamo esagerato, è stato con le scarcerazioni'; e ancora 'Non ce ne doveva essere uno a piede libero perché questi erano vent'anni che facevano così'". Nel suo articolo Sgarbi parla di "disgustoso cinismo" e riprende le parole del gip di Mani Pulite, Italo Ghitti, secondo cui "il vero reato di quei magistrati è di corruzione di immagine". Davigo si ritiene estraneo alla vicenda (il sostituto procuratore era Fabio De Pasquale) ma Sgarbi rivendica: "Si è attribuito la paternità di quel metodo". Una critica "feroce e aspra", ma legittima secondo il Tribunale di Bologna.

Il "metodo Davigo" e il suicidio di Cagliari. Sgarbi assolto dopo la querela dell'ex pm. Manila Alfano il 12 Maggio 2021 su Il Giornale. Il tribunale di Bologna: critiche feroci e aspre ma legittime, non c'è reato. Sgarbi vs capre. Già il titolo della rubrica non prometteva niente di buono, eppure per il Tribunale di Bologna, quell'articolo scritto da Vittorio Sbarbi il 10 marzo 2017 sul sito web «Quotidiano.net» non conteneva niente di male: assolto dal reato di diffamazione contro Piercamillo Davigo, il «Dottor Sottile» di Mani Pulite, perché il fatto non sussiste. Si è chiuso ieri a favore di Sgarbi dunque il primo match innescato da una sequenza di quattro querele presentate dal magistrato relative ad altrettante versioni on line e cartacee dello stesso articolo. «Ieri il verdetto che mi ha dato ragione. Sono molto sollevato», ha raccontato soddisfatto Vittorio Sgarbi che ormai ha perso il conto di quante volte ha dovuto rispondere sul reato di diffamazione. In mezzo c'è ancora una volta il tema delle carcerazioni preventive, gli anni di Tangentopoli, l'ingegner Cagliari e il suicidio dopo 134 giorni passati in carcere a San Vittore; un metodo che ha creato dibattiti e fratture mai ricomposte, a distanza di oltre vent'anni. «Prima di scrivere l'articolo - ha spiegato Sgarbi - avevo visto, il giorno prima, la trasmissione su Rai3 Agorà nella quale Davigo affermava: Non ho mai riconosciuto alcun eccesso nell'uso della misura cautelare in Tangentopoli. Se abbiamo esagerato, è stato con le scarcerazioni; e ancora Non ce ne doveva essere uno a piede libero perché questi erano vent'anni che facevano così». Parole pesanti che diventano macigni se ad ascoltarli dall'altra parte c'è qualcuno come Sgarbi che quel metodo utilizzato dal pool di Milano lo ha sempre criticato. L'impulso è subito quello di scrivere, e lo fa il giorno dopo nella rubrica Sgarbi vs capre. Riprende le parole strazianti di Gabriele Cagliari dal carcere ai familiari prima di suicidarsi nel 1993, e scrive «Piercamillo Davigo ora, con disgustoso cinismo, si assume la responsabilità di quel crimine non riconoscendo eccessi nell'uso della misura cautelare, se non nelle scarcerazioni (sic!), Cagliari se lo erano dimenticato. Come mi disse, all'epoca, il gip di Mani Pulite, Italo Ghitti, il vero reato di quei magistrati è di corruzione di immagine». L'ex pm ormai in pensione non ci sta e querela, anche perché in quella storia lui non c'entra direttamente, (il sostituto procuratore era Fabio De Pasquale). «Eppure Davigo si è attribuito la paternità di quel metodo - risponde Sgarbi - io mi sono limitato a riprendere un fatto vero che il magistrato aveva asserito, cioè di non avere mai riconosciuto eccessi nell'impiego delle misure cautelari, se non nelle scarcerazioni. Perciò, ho replicato, in senso critico e motivatamente polemico che rilasciando tali dichiarazioni si era anche assunto la responsabilità per il suicidio dell'Ing Cagliari, ristretto in via cautelare negli anni di Tangentopoli». Insomma una legittima critica, alla Sgarbi appunto, «feroce ed aspra» ma per il Tribunale non c'è reato.

Filippo Facci, quello che è rimasto del pool di Mani Pulite: "Mancava solo Pierbirillo Davigo". Libero Quotidiano l'11 maggio 2021. In effetti mancava solo «Pierbirillo Davigo» (lo chiamavano così) per guardare con mestizia definitiva a ciò che un tempo era il mitico «pool» di Mani pulite, quello che a suo tempo demolì una Repubblica ma oggi ci costringe di continuo a revisionismi storico/giudiziari. A reggere lo scettro del duro e puro resisteva appunto Piercamillo Davigo, mentre Antonio Di Pietro è leggermente sputtanato e fa contadino, Gerardo D'Ambrosio è diventato senatore di sinistra e poi è morto, Francesco Saverio Borrelli è morto anche lui (pronunciando frasi inquietanti che vedremo) mentre Gherardo Colombo è andato in pensione dopo una trascurabile parentesi in Rai e da rassegnato educatore civico. Davigo come non vorrebbe essere ricordato? Non certo come uno che comunicava notizie riservate a un parlamentare dei Cinque Stelle in un sottoscala del Csm. Né come uno che ignorasse o violasse procedure, come l'hanno accusato d'aver fatto due suoi ex colleghi, non da soli. Come uno che dice di aver consegnato qualcosa a qualcuno, tipo il vicepresidente del Csm David Ermini, col vicepresidente Ermini poi a smentire tutto. Come uno la cui segretaria - proprio la sua, guarda caso - finisce indagata per aver passato materiale istruttorio a un giornale - guarda caso, un giornale molto amico- come Il Fatto Quotidiano. Già: ma per che cosa vorrebbe essere ricordato, uno come lui? Non possiamo saperlo. Non certo per esser stato cresciuto da una zia che si chiamava Benita e che è stata indicata come «rigida e autoritaria». Non certo per leggende, tipo una scritta da un collega del Messaggero, Fabrizio Rizzi, secondo la quale un Piercamillo 13enne alla stazione di Mortara «sfidò la morte e bloccò un treno sui binari». E forse neppure per certe frasi che ha pronunciato o per altre che non ha neppure pronunciato. Per molti resta quello che dopo il suicidio del parlamentare Sergio Moroni disse che «le conseguenze dei delitti devono ricadere su chi li ha commessi, non su chi li ha scoperti». Poi c'è tutta una serie di frasi tipo «gli innocenti sono tutti colpevoli non ancora scoperti», ma è tutta schiuma. Come lo è il suo aver detto «rivolteremo l'Italia come un calzino» anche se quella frase non in realtà non la disse mai: si limitò a riprendere una frase pronunciata da Giuliano Ferrara. Ma che l'avesse detta lui, per qualche ragione, continua a risultare credibile a tutti. Ne ha pronunciate altre di frasi, forse più emblematiche. La presunzione d'innocenza: «I politici che delinquono vanno mandati a casa senza il bisogno di attendere il giudizio definitivo». La corruzione: «Abbiamo preso le prede più lente e quelle più veloci l'hanno fatta franca». I magistrati scansafatiche: «Quelli italiani sono quelli che lavorano di più in Europa». I loro errori e negligenze: «Dipendono da carichi di lavoro che non hanno equivalenti negli altri Paesi». Per che cosa vuole essere ricordato? Il problema è la memoria, anzi «il vizio della memoria» titolava un libro di Gherardo Colombo. Ma il tormentato Colombo è il primo a sapere come funzionava Mani Pulite: c'era Di Pietro che martellava ma la situazione si è modificata nel corso del 1994 quando le collaborazioni - usiamo parole testuali di un altro parziale ex di Mani pulite, Francesco Greco - «diminuirono fino a cessare fu lo stesso Di Pietro a dire che non arrivava più acqua al suo mulino». E l'acqua, a dirla tutta, arrivava al mulino direttamente dal carcere. Era il carcere, irrogato o temuto, che stimolava le collaborazioni. Era il carcere, coi suoi effetti, che era venuto a mancare durante quel cambio di stagione. E che cosa ha detto Gherardo Colombo nel maggio dell'anno scorso? «Il carcere è da abolire. La prigione oggi è disumana e incoerente con la Costituzione, ed educa a ubbidire e non a ragionare». Quel gran signore Francesco Saverio Borrelli, ancora da lucidissimo, ebbe momenti di resipiscenza che molti hanno cercato di rimuovere. Nel 2011 disse pubblicamente: «Se fossi un uomo pubblico di qualche Paese asiatico, dove come in Giappone è costume chiedere scusa per i propri sbagli, vi chiederei scusa: scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all'aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale». Qualche anno prima aveva detto che alla fine di Mani pulite «apparve chiaro che il problema della corruzione non riguardava solo la politica, ma larghe fasce della società, insomma investiva gli alti livelli proprio in quanto partiva dal basso». Parole simili ad altre messe per iscritto da Piercamillo Davigo: «Le vicende che mi hanno più impressionato non sono state quelle delle grandi tangenti... Sono le piccole vicende a deprimermi. Mi sono capitati due o tre processi dove centinaia di persone hanno pagato per non fare il servizio militare. Eppure tutti i giovani venivano da buone famiglie che li finanziavano Questo la dice molto lunga sulla diffusione di certi comportamenti». Chiudiamola qui. È inutile raccontare il piano inclinato di Antonio Di Pietro: basta guardarlo, ha somatizzato tutto, la sua faccia non mente e non ha mai mentito. È rimasto il personaggio incespicante e tristanzuolo che ha lamentato «la desolazione dell'opinione pubblica che non crede più che possa cambiare qualcosa». Non grazie a Mani Pulite, almeno: che ha fatto piazza pulita di partiti, istituzioni, simboli, reputazioni, rispetto dei ruoli, soprattutto ha smembrato quel poco di tessuto civico che la nostra giovane democrazia aveva faticosamente ordito, e che il detersivo rivoluzionario ci ha restituito bianco e pulito come un cencio inservibile. E sul Pool di Mani pulite, sipario.

Tangentopoli e quelle leggi sbagliate che diedero vita allo strapotere delle toghe. Giuseppe Gargani, già sottosegretario alla Giustizia nella cosiddetta prima Repubblica, ha appena aggiornato e riproposto per Lastaria Edizioni il suo fortunato libro del 1998 “In nome dei Pubblici Ministeri. Dalla Costituente a Tangentopoli: storia di leggi sbagliate”.  Francesco Damato su Il Dubbio il 27 maggio 2021. Giuseppe Gargani, Peppino per gli amici, democristiano di origine controllata e mai davvero rassegnato alla fine della Dc, 86 anni da poco compiuti e meravigliosamente portati, dei quali 37 trascorsi da deputato fra la Camera e il Parlamento europeo, già sottosegretario alla Giustizia nella cosiddetta prima Repubblica, presidente di commissioni e commissario dell’Autorità di Garanzia nelle comunicazioni, purtroppo non quelle giudiziarie, di cui da garantista com’è sempre stato avrebbe fatto strage; Peppino, dicevo, ha appena aggiornato e riproposto per Lastaria Edizioni il suo fortunato libro del 1998  “In nome dei Pubblici Ministeri. Dalla Costituente a Tangentopoli: storia di leggi sbagliate”. Sbagliate dalle maggioranze di turno in Parlamento non sapendo l’abuso cui si potevano prestare per fare uscire l’amministrazione della Giustizia dai binari voluti dai costituenti. Temo tuttavia che qualcuno abbia giocato davvero sporco, legiferando male proprio perché avvenisse quello che è accaduto, cioè lo sconfinamento delle toghe e i danni inevitabili della loro autoreferenzialità o onnipotenza. Che si sta peraltro ritorcendo contro la stessa magistratura per il crescente discredito o – se preferite – per la decrescente credibilità e per un carrierismo che si è rivelato peggiore di ogni cattiva previsione. Giustamente Gargani ha riproposto già nella presentazione del suo libro – aggiornato con la prefazione di Mattia Feltri e con altri suoi interventi successivi al 1998, compresi alcuni articoli scritti per Il Dubbio – il fastidio avvertito nell’esplosione della cosiddetta Tangentopoli da “uno dei magistrati più intelligenti del pool di Milano”, Gherardo Colombo. Il quale si dolse del “ruolo politico di supplenza” assegnato alla magistratura con leggi malfatte, appunto, delegando “al magistrato la soluzione di questioni che non spettano alla giurisdizione” perché “politiche”. In una prateria così spianata le toghe più politicizzate, a volte persino inconsapevolmente, tanto erano convinte di avere una missione purificatrice da svolgere, hanno potuto produrre una situazione dalla quale temo che non si possa uscire con la speranza ancora nutrita da Gargani di “un’autocritica fatta dai partiti di opposizione e da una magistratura che vuole essere “indipendente” per una pacificazione nazionale, per un chiarimento necessario alla giurisdizione: questo sì capace – ha scritto l’autore – di far prevalere la questione morale su quella penale”. Temo che non verrà mai il momento considerato opportuno da tutte le parti in campo per procedere ad una riforma tanto condivisa quanto efficace. Se la politica non ritroverà il coraggio di riappropriarsi delle proprie competenze, con le buone o con le cattive, con nuove leggi o con l’abrogazione referendaria di quelle sbagliate, come sembra avere capito adesso anche la Lega di Matteo Salvini dopo avere partecipato con quel famoso cappio a Montecitorio all’ondata giustizialista e manettara dei primi anni Novanta, non se ne uscirà mai. E’ purtroppo accaduto proprio alla sinistra, anche a quella democristiana da cui proviene Gargani, di partecipare con sofferenza o di assistere con impotenza, come per una maledizione, alla degenerazione dei rapporti fra la magistratura e la politica. Ricordo il compianto Giovanni Galloni, amico e collega di partito e corrente di Gargani, alla vice presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura mentre a Milano si faceva uso assai disinvolto, per esempio, delle manette sino a provocare suicidi, che venivano cinicamente liquidati come incidenti di percorso o, peggio ancora, come ammissioni finalmente di colpe. Proprio contro quel fenomeno che grida ancora vendetta Gargani si mosse come presidente della Commissione Giustizia della Camera per rimediarvi con norme condivise “anche da parte del Pci”, come ha ricordato. Ma non si riuscì a concludere nulla perché -ricordo ancora fisicamente il malumore in Transatlantico del compianto deputato del Pds-ex Pci Giovanni Correnti- il capogruppo Massimo D’Alema non trovò quello il momento opportuno per intervenire, vista evidentemente la popolarità delle manette. Con sarcasmo di stile manzoniano Gargani ha scritto che “abbiamo dovuto subire l’epidemia del coronavirus per ottenere un richiamo formale del Procuratore generale presso la Cassazione ai magistrati ad applicare la legge, e cioè arrestare solo se necessario”. Il Covid insomma è arrivato con una trentina d’anni di ritardo: un’osservazione tanto paradossale quanto tragica, al pari della speranza che possano essere almeno i cosiddetti vincoli derivanti dall’integrazione europea a quella riforma della giustizia che da soli non siamo riusciti a realizzare: una prospettiva che non a caso ha indotto il giustizialismo politico e mediatico italiano a collocarsi in questi giorni su posizioni di vecchio e svillaneggiato sovranismo.

LA PARABOLA DEI “SANTI INQUISITORI”: DA EROI DI MANI PULITE A TUTTI CONTRO TUTTI. GHERARDO COLOMBO - ANTONIO DI PIETRO - PIERCAMILLO DAVIGO. DAGONOTA il 10 maggio 2021. Il Puffo della Lomellina che voleva rivoltare l’Italia come un calzino, è finito nelle maglie (bucherellate) della giustizia. Anche se Piercamillo Davigo ha sempre negato di aver proferito quella frase che transita ancora su web, ma resta ormai solo una (tragica) boutade dei tempi (drammatici) di Mani pulite: “Non esistono innocenti; esistono solo colpevoli non ancora scoperti”. L’ultimo dei mohicani di quel pool che aveva fatto sognare gli italiani nell’anno della “rivoluzione italiana”. Con l’annunciato arrivo della seconda Repubblica. Mai nata e senza alcun fondamento istituzionale nonostante continui a impregnare – grazie soprattutto all’uso indiscriminato dei media -, la nostra vita politico-istituzionale. In realtà, secondo i politologi Nadia Urbinati e David Ragazzoni, si tratta di “una imago sine re, un guscio vuoto (…) una giustificazione ideologica per intervenire nel modello istituzionale…”. Una “macchina” trasversale a tutte le forze politiche, manovrata dai giornaloni dei poteri marci posseduti ai tempi dalla premiata ditta Agnelli&De Benedetti che aveva il monopolio dell’informazione su carta. I due quotidiani-corazzata, allora diretti da Eugenio Scalfari (“la Repubblica”) e da Paolino Mieli (prima “La Stampa” poi il “Corriere della Sera”) il cui declino di copie vendute collima con la rivoluzione (mancata) e l’attacco indiscriminato alla Casta (ovviamente spregevole). Esclusi ovviamente i cosiddetti poteri vili: magistrati e giornalisti. Entrambi mai pentiti della balla giornalistica più rozza dell’ultimo mezzo secolo. Con l’Avvocato e l’Ingegnere (in scia si mise pure Berlusconi con le sue tv d’assalto) che truccavano i conti delle loro aziende e speravano di farla franca nei tribunali in quanto concussi dai tangentari e non parteci della corruzione (miliardaria), come ben presto fu dimostrato in alcune aule di tribunale lontane da quel palazzaccio di Milano assurto a simbolo di Mani pulite. Cesare Romiti fu inquisito (e condannato) a Torino; Carlo De Benedetti fermato e rilasciato a Roma. Nella prima fase di Tangentopoli, però, nessun proprietario di giornali fu sfiorato dal grande ripulisti manettaro. Senza il consenso dei media – un consenso senza se e senza ma, l’operazione Mani pulite non avrebbe avuto la sua vergognosa spettacolarizzazione da circo Barnum con gli imputati fatti sfilare ammanettati (caso Enzo Carra) e messi alla berlina anche dentro le aule del tribunale. E poi i politologi à la carte continuano a domandarsi dove nasce un certo populismo. “Ma non è Tangentopoli a creare il falso in bilancio, sono i bilanci falsi a creare Tangentopoli”, aveva aggiustato il tiro nel 1996 il professor Guido Rossi facendo strame dell’azione storta di bonifica intrapresa nel paese dal pool guidato da Saverio Borrelli. Per aggiungere: “L’urgenza non è tanto uscire da Tangentopoli, l’Italia deve prima uscire da una situazione in cui truccare i bilanci è un costume diffuso. La mancanza di trasparenza nel sistema economico – concludeva – è ancora più grave, per i danni che arreca al paese, della corruzione politica”. Il teorema romitiano (non soltanto il suo) delle grandi imprese vittime della concussione crollò in una procura (Torino) mentre a Milano la Fiat trattava sotto banco con il pool di mani pulite per avere un lasciapassare che salvasse gli interessi dell’azienda e al fine di evitare l’arresto dei suoi massimi dirigenti (compreso il suo). Romiti andò a cercare conforto anche presso il cardinale Martini e al cappellano di San Vittore dov’era rinchiuso il manager della Cogefar, Enzo Papi, pronto a confessare le tangenti del gruppo dopo una lunga carcerazione preventiva. E nelle stanze culturali del “Corriere della Sera”, diretto dallo storico (senza storia) Mieli, fu redatto un suo memoriale-pentimento (due paginoni) che gli consentì di lasciare la prigione. “Ho moltissima stima del dottor Di Pietro e gli auguro di procedere fino alla fine con la sua decisione con cui ha cominciato la sua opera”, dichiarava l’Avvocato nella primavera del 1992 “scudato” dalle procure con la sua nomina a senatore a vita ricevuta (per grazia ricevuta) nel 1991 da Francesco Cossiga, che già allora aveva intuito quel devastante ciclone giudiziario. E al ristorante milanese “Savini”, Cesare Romiti apparecchiava una colazione con l’intero establishment economico-finanziario con il capo del pool, Saverio Borrelli, convitato d’onore. ‘’Sembrava un generale che passa in rassegna le truppe, salutò tutti con un cenno di capo e con un militaresco colpo di tacco”, ha ricordato l’ex vice direttore del “Corriere”, Giulio Anselmi a Marco Damilano in “Eutanasia di un potere” (Laterza). La “spallata” dei poteri marci ai partiti aveva avuto un prologo nel 1991 (referendum Segni in primis), ma questa è una storia ancora tutta da raccontare senza evocare golpe giudiziari o trame internazionali. A trent’anni da Mani pulite ancora non s’è sciolto il nodo su quella slavina (primo obiettivo abbattere Bettino Craxi) che dopo averla promossa finì per travolgerli. E senza nemmeno estirpare la malapianta della corruzione, che, a sentire il professor Guido Rossi, aveva radici profonde nei loro bilanci taroccati. La stessa magistratura di Milano, incoraggiata a svolgere il lavoro sporco con il concorso codino dei media, dopo aver fallito l’operazione di bonifica è finita anch’essa - dopo gli applausi -, nel pozzo nero del discredito (o della vergogna). Nelle procure, nel Csm e nell’associazione magistrati (Anm) i membri togati da anni si scannano al loro interno come i vecchi partiti correntizi a suo tempo decapitati dalla mannaia giustizialista. A narrarlo sono oggi le tragicomiche vicende della coppia di togati Palamara & Davigo. Già, il Puffo della Lomellina coccolato dai grillini. All’inizio della sua carriera aveva preso per buona la favoletta degli imprenditori (buoni) concussi dai tangentari (cattivi), adesso è costretto a sedersi, sia pure da pensionato accidioso, dall’altra parte della barricata. Cioè tra i sospettati dai suoi ex colleghi di aver diffuso carte secretate sull’avvocato Piero Amara. Lui il Javier della bassa nella parte del Corvo che farebbe uscire anche ai giornali considerati amici (il Fatto e la Repubblica) - grazie alla manina della sua segretaria, Marcella Contrafatto, (nomen omen?) -, il dossier che il procuratore capo Greco, da amico trasformato in nemico, avrebbe lasciato a bagnomaria nei suoi forzieri. Tutto, ovviamente, è ancora da provare. Un incartamento riservato (e avvelenato), che puzza tanto di vendetta proprio nei confronti di Greco e con l’unico scopo di alzare un polverone su quel che resta del pool una volta.  Il più amato dagli italiani come recitava lo slogan di una cucina. Insomma, una sorta di muoia Sansone con tutti i filistei gridato da Davigo, l’ultimo dei mohicani del pool. Proprio lui, il grande inquisitore che col suo decalogo giustizialista sciorinato in tv negli anni ha voluto compilare, dissimulandosi in una sorta di Daniel Defoe alle anguille, il suo personale Inno alla Gogna. Ma quella lirica lo scrittore inglese la stese dopo aver ricevuto una ingiusta condanna dal tribunale per aver scritto un “sedizioso pamphlet”. E non amministrando giustizia in quella tonnara giudiziaria guidata da Saverio Borrelli - e garantita pure dal Quirinale di Scalfaro -, in cui si contano 4.526 persone arrestate prima del giudizio, 25.400 avvisi di garanzia, oltre mille tra parlamentari, consiglieri e politici coinvolti in Mani pulite e decapitati ben prima di un processo degno. Senza lasciare nell’oblio i suicidi eccellenti di Moroni, Gardini e Cagliari. “I suicidi? Ho imparato che le sue conseguenze, come per i delitti, ricadono su quelli che li commettono non su quelli che li scoprono”, ha tagliato corto più o meno così, Davigo in una delle sue ultime comparsate televisive. Piercamillo Davigo, i cui meriti passati non vengono negati al di là degli eccessi procedurali, sembra uscito dalle pagine del mistery di Durrenmatt “La promessa”. Qui il protagonista, il commissario Matthai, gelido e inflessibile, “crede nell’innocenza di un colpevole e cerca un assassino che non può esistere”. È la storia di una ossessione che si conclude con l’Amara (Piero) considerazione finale dell’autore che “niente è più crudele di un genio che inciampa in qualcosa di idiota”. E tale appare la “pratica” sospetta che rivela l’esistenza pure di una fantomatica Loggia Ungheria. Dopo la P2, P3 e P4 non potevamo privarci della setta magiara! “Punire senza legge, senza verità, senza colpa”, è il sottotitolo di un volumetto scritto a tesi dal giurista Filippo Sgubbi (“Il diritto penale”, il Mulino) in cui l’autore mette sott’accusa, in pratica, l’intera architettura dell’operato del pool milanese (carcerazione per far confessare gli accusati), pur meritevoli di aver scoperchiato il vaso di Pandora della corruzione dilagante da anni e sotto i loro occhi: “I giudici sono chiamati a decidere (…) senza una verità oggettiva e sicura (…) Ma l’incuranza per la verità e la mancanza di criteri oggettivi sui cui fondare  le decisioni accentua  i conflitti e la rinuncia alla verità trasforma la decisione in una questione di mero potere”. E cosa ci raccontano le ultime vicende che toccano anche i piani alti dell’istituzione giudiziaria (leggi Csm, Anm e il capo dello Stato Mattarella) con protagonisti gli attori maldestri di una commedia all’italiana dal titolo “La parabola dei Santi Inquisitori” con protagonisti “Bud” Palamara e “Danny” Davigo? Del resto i miti, osservò Albert Camus, sono fatti e resistono solo se l’immaginazione li anima.  Per dirla con le parole del politologo Otto Kirchheimer: “la giustizia politica è la forma che la politica assume nei momenti di passaggio (…) E, comunque, anche chi vince non può sfuggire a certi limiti (…) deve procurarsi sempre, attraverso la legalità, una legittimazione”. Quel riconoscimento che oggi non può essergli (ri)accordato senza che non rinunci al potere (o alla supplenza) che ha conquistato nell’ultimo trentennio. Tocca allora ai partiti e al premier Draghi rioccupare un ruolo di garanzia tra i due poteri autonomi. In cui il primo, il diritto penale “totale”, come osserva ancora il giurista Filippo Sgubbi, è spesso “invocato in ogni situazione come intervento salvifico e, soprattutto, quale preteso rimedio - politicamente e mediaticamente remunerativo - a vari mali sociali”. Giusto, come chiede il presidente Mattarella, di fare piena luce sugli anni di piombo, ma anche sulla stagione di Mani pulite che ha decapitato il sistema dei partiti andrebbe acceso un lumino per rivisitare un periodo che, abusivamente, avrebbe segnato addirittura la fine della prima Repubblica”.   

Ascesa e caduta di un mito. Tangentopoli, storia di come è andata veramente l’inchiesta Mani Pulite. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'11 Maggio 2021. Hanno fatto il bello e il cattivo tempo per trent’anni, sono stati gli eroi, gli intoccabili, i padroni della vita degli italiani. Ma siamo così sicuri che coloro che ebbero la vanità e la presunzione di definire se stessi come quelli con le “Mani Pulite” fossero così geniali, così professionalmente capaci da meritare rispetto e ammirazione da gran parte dell’opinione pubblica oltre alla totale subalternità servile dei politici, degli imprenditori e dei giornalisti? Il dubbio si fonda prima di tutto su quel che sta succedendo da un po’ di tempo a questa parte. Da quando uno di quelli con le mani pulite, Piercamillo Davigo, ha prima ingaggiato una furibonda battaglia per rimanere nelle stanze del Consiglio superiore della magistratura mentre era già in pensione. Pretesa stravagante, per noi ignoranti, ma anche per qualche tribunale, che ha addirittura rimproverato all’ex magistrato di aver sbagliato la buca delle lettere dove depositare il proprio ricorso. Ma come, ci siamo domandati noi che non sappiamo di pandette, ma questo non era il “Dottor sottile”, il più intelligente di quelli di Mani Pulite? Il secondo dubbio è arrivato nei giorni scorsi, quando ancora Davigo ha cercato di convincerci come fosse normale e ovvio ricevere da un ex collega carte di indagine secretate e poi trattenerle e parlarne con una serie di persone, tra cui anche con i vertici del Csm ma sempre e solo in via informale. E infine non sapere di come e perché quelle carte (o file) siano volate verso le redazioni di due quotidiani e anche le mani del consigliere Di Matteo forse per colpa della sua segretaria. È successo poi che gli stessi vertici del Csm e poi tutti i magistrati e i giuristi dell’orbe terraquaeo hanno detto che lui ha sbagliato. E questo è stupefacente, perché stiamo parlando del Dottor Sottile. Dobbiamo quindi dedurre che quell’altro suo soprannome “Piercavillo” gli fosse stato attribuito più per quelle astuzie da azzeccagarbugli che lui ha sempre attribuito agli odiati avvocati, che non per la sua genialità negli studi giuridici? Ecco perché, mentre in tanti (comprendendo anche alcuni vigliacchi ex laudatores) stanno ritoccando al ribasso l’immagine dell’ormai ex Dottor Sottile, le nostre menti spaziose sono state attraversate dall’atroce dubbio: e se gli altri delle Mani Pulite, quelli che non erano sottili, fossero qualche gradino sotto rispetto a Davigo? E se per trent’anni fossero stati ammirati e venerati dei semplici quaquaraquà? Sulla professionalità in realtà gli uomini di Mani Pulite una brutta figura l’avevano già fatta in quel luglio del 1994, quando si erano presentati in tv un po’ discinti e con la barba lunga a dire con chiarezza di non poter proseguire le indagini sui reati di tangentopoli se si impediva loro di arrestare gli indagati. Erano i giorni successivi al famoso Decreto Biondi del primo governo Berlusconi, che divideva in tre parti il trattamento cui sottoporre l’indagato nell’attesa del processo, stabilendo, a seconda della gravità del reato, la custodia cautelare in carcere o ai domiciliari, ovvero la libertà. Sulla base di questa nuova norma in quei giorni erano state scarcerate 2.750 persone in attesa di giudizio, 43 delle quali detenute per reati contro la pubblica amministrazione. Quelli di tangentopoli, insomma. Ma erano quelli che interessavano gli Uomini del Pool. E non solo loro. L’esercito dei laudatores della comunicazione, soprattutto televisiva -non c’erano ancora i social- fece il lavoro più sporco che si sia mai visto. Artistiche immagini in bianco e nero, da una parte Di Pietro che legge il foglietto delle dimissioni collettive con voce tremante, insieme a Davigo, Colombo e Greco, dall’altra l’uscita da San Vittore dell’ex ministro De Lorenzo, uno dei più odiati perché sospettato (ingiustamente) di aver lucrato sui farmaci. Inutile ricordare che dopo il putiferio suscitato, in un clima furibondamente pre-grillino, da quelle immagini, il decreto fu ritirato. Ma anche che, coloro che dichiaravano di non poter svolgere indagini senza manette, di quei 2750 scarcerati ne riportarono dentro non più del dieci per cento, e quasi nessuno degli indagati per reati di tangentopoli. Se l’esame per entrare in magistratura non premiasse i secchioni più che i capaci, al gruppone guidato dal procuratore capo Borrelli e dal suo vice D’Ambrosio dovremmo dare un bel quattro in professionalità anche solo per quell’episodio del 1994. Potremmo forse avvicinare alla sufficienza il solo Di Pietro. Intanto perché alla fine fu proprio lui, che era il proletario in un gruppo di professorini, a essere scaricato per primo proprio da Borrelli (il più aristocratico, cavalli e musica classica), quando gli fu pubblicamente attribuita quella battutaccia che stava a significare la sua volontà di “sfasciare” Silvio Berlusconi. Ma soprattutto perché, da ex (ex?) poliziotto, ha interpretato il ruolo del pm un po’ all’americana, una specie di detective Bosch di Michael Connelly in toga. Anche se negli interrogatori non dava schiaffoni ma offriva Moncherie, ogni tanto congiungeva in alto i polsi a indicare il rischio manette per gli afasici, i sordomuti, quelli che non confessavano, insomma. Un piccolo encomio a parte possiamo concedere a Di Pietro anche in quanto fu l’unico a mostrare un po’ di commozione dopo i suicidi di Raul Gardini e Gabriele Cagliari. Ma della foto di famiglia di quelli con le Mani Pulite ha fatto parte a pieno titolo. Immagini plastiche, discorsi inequivocabili, mentre il suo capo Borrelli, a proposito dell’uso della custodia cautelare, in modo educato affermava: non è che noi li arrestiamo per farli parlare, semplicemente non li scarceriamo finché non parlano. Così, una volta bocciati sulla professionalità, cerchiamo di vedere se possiamo promuovere qualche Mano Pulita per la cultura così come si è manifestata con le dichiarazioni, con la comunicazione. Saverio Borrelli viene ricordato per altri due concetti. Tutti e due rimandano all’odiato Berlusconi, cui lui stesso aveva inviato un vero avvertimento preventivo (chi ha scheletri nell’armadio non si candidi) e poi una convocazione del presidente del consiglio a mezzo Corriere a nove colonne per un reato che in seguito sarà archiviato. Di lui restano famosi il suo “resistere resistere” e poi il rammarico di aver tanto combattuto gli uomini della prima repubblica per poi piombare nel “disastro” della seconda, quella di Berlusconi. Un concetto erroneamente interpretato come autocritica, anche di recente, ma che autocritica non fu. Fu discorso da capo politico sconfitto elettoralmente. Fu ammissione di colpa. Scarsa professionalità, anche in questo. Non fu da meno il vice di Borrelli, Gerardo D’Ambrosio, non tanto e non solo perché, dopo aver bloccato la giovane pm Tiziana Parenti per le indagini sul Pds, finì poi in Parlamento proprio con quel partito. Non tanto e non solo, appunto. Ma anche perché, usando argomenti e ricostruzioni rocambolesche di viaggi Roma-Milano in tempi che avrebbero dato la birra a Nuvolari, si esibì nel salvataggio di Primo Greganti adducendo la propria bravura nel trovare, come invano (visto che nessun pm applica questa norma) prescrive il codice, anche le prove a favore dell’indagato. Strumentale politicamente, proprio come quando inneggiava all’immagine di Di Pietro, contadino perfetto con quella mamma con il fazzoletto nero sulla testa. Anche lui bocciato. Se vogliamo escludere la cucciolata dei più giovani o di quelli che sono venuti dopo e hanno comunque respirato l’aria e il profumo di Mani Pulite, di quella foto in bianco e nero dell’album di famiglia restano Gherardo Colombo e Francesco Greco. Del primo c’è solo da dire che, da uomo delle due Chiese, quella cattolica e quella comunista, è stato uno dei più feroci sostenitori dell’uso del carcere preventivo ai tempi di tangentopoli. Ma stiano un po’ in galera, quelli lì, diceva, quasi come se avesse un problema di rivendicazione di classe, lui di ottima famiglia, nei confronti dei politici borghesi. Con altrettanta convinzione –e non possiamo che rallegrarcene- Colombo è oggi uno dei più fervidi sostenitori della totale inutilità del carcere. Non solo della custodia cautelare, ma proprio della detenzione. Non gli si conoscono dichiarazioni di autocritica sul suo periodo di Mani Pulite, ma noi non siamo gente da autodafé, e ci basta e avanza il fatto che lui abbia capito. Francesco Greco, infine, è quello che ha fatto carriera, diventando il numero uno della procura milanese. E pensare che si diceva fosse il più pigro. Le cose peggiori, e le più tristi, su di lui, le ha scritte il suo ex maestro e amico Ciccio Misiani nel libro con Carlo Bonini Toga rossa. Possiamo ricordarne una, la meno personale. Di fronte alla sacrosanta lamentela del magistrato romano sul fatto che i milanesi, quelli delle mani pulite, scippassero i procedimenti alle altre città e a Roma in particolare, Greco aveva risposto che il problema non era a chi spettasse la competenza territoriale secondo le regole, ma chi era in grado di fare quei processi. Alludeva al consenso popolare, ovviamente. Chi, e in quale modo, possiamo aggiungere. E possiamo citare, per fare un esempio non solo di competenza territoriale scippata, ma anche di ingiusta detenzione di innocenti, i casi di Clelio Darida e di Franco Nobili, un ex ministro di giustizia e un ex presidente dell’Iri. Sbattuti in galera e poi assolti, quando finalmente l’inchiesta finì nell’alveo naturale della competenza per territorio. Erano bravi? Erano professionali? O solo fortunati perché i politici e gli imprenditori (soprattutto quelli proprietari di giornali) erano terrorizzati dal loro uso delle manette?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Quel giorno tutto cominciò, anzi finì. Da Mario Chiesa alle assoluzioni e ai 45 suicidi: Mani pulite e la scomparsa dei partiti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 18 Febbraio 2020. Quella sera a Milano. “Hanno arrestato Mario Chiesa”. “E chi è?”. E’ il 17 febbraio del 1992, il consiglio comunale è riunito – da un mese è caduta la giunta “rossa” e gli eredi del Pci non torneranno più a Palazzo Marino fino al 2011 – e la tensione è molto alta perché il Tar ha annullato 400 nomine sia di municipalizzate che di società per azioni quali Sea (aeroporti), Mm (metropolitane) e Sogemi (mercati generali). La situazione è paradossale perché il ricorso al Tar era stato presentato dai democristiani quando erano all’opposizione e oggi sono in imbarazzo per aver innescato una slavina che danneggia la giunta di cui loro ormai fanno parte. Mentre la sinistra del Pci-Pds che era stata compartecipe di quelle nomine è agitata perché non vorrebbe perderle. Quattrocento “clientes” disoccupati all’improvviso sarebbero una bella pugnalata. Per questo quella sera a Milano il clima politico era caldo, quando d’improvviso qualcuno lanciò la bomba in mezzo al consiglio comunale. Toccò a un uomo dell’opposizione, Tomaso Staiti di Cuddia, parlamentare del Msi, chiedere la parola sull’ordine dei lavori e dire a voce alta quel che si stava già bisbigliando tra i banchi e nei capannelli dei corridoi intorno all’aula: era vero che era stato arrestato Mario Chiesa, beccato con una mazzetta di sette milioni di lire che aveva tentato di buttare nel cesso? Il neo-sindaco di Milano Piero Borghini, moderato ex vice direttore dell’Unità, voluto personalmente da Craxi alla guida della città al posto di Paolo Pillitteri, ebbe un moto di orgoglio. Proprio come Aldo Moro quando in Parlamento aveva detto “non permetterò che si processi la DC né qui né nelle piazze”, liquidò la domanda con un “Non sono a conoscenza di nessuna notizia che riguardi il dottor Chiesa né permetterò processi senza imputati né imputazioni”. Prese allora la parola un preoccupatissimo Carlo Smuraglia, consigliere del Pci-Pds e famoso avvocato che pochi mesi dopo siederà in Senato per tre legislature: “Nessun processo – disse – ma la cosa ci riguarda da vicino. Chiesa è stato nominato da noi alla guida di un ente comunale, il Pio Alberto Trivulzio”. Nel parlamentino milanese per tutta la sera le facce rimasero corrusche. E che facce, in quello che fu l’ultimo consiglio comunale della prima repubblica! C’erano due ministri, il dc Virginio Rognoni, titolare della Difesa e il liberale Egidio Sterpa, ministro dei rapporti con il Parlamento. Poi c’era il dc Andrea Borruso, sottosegretario agli esteri, il repubblicano Antonio Del Pennino, capogruppo del suo partito alla Camera dei deputati. Il Pci-Pds aveva messo in campo il deputato Franco Bassanini, Barbara Pollastrini e Chicco Testa, futuro presidente dell’Enel. Il drappello della Lega, che cominciava a farsi sentire come movimento anti-sistema, era guidato da Umberto Bossi. E c’ero anch’io, unica rappresentante antiproibizionista del Partito radicale. Ero all’opposizione sia della giunta di sinistra che di quella moderata e non conoscevo Mario Chiesa. Ma gli altri sì, lo conoscevano bene. Sedeva in quell’aula una classe politica di tutto rispetto, che nel giro di pochi giorni fu resa debolissima perché a Milano, come nel resto del Paese, erano ormai altri i Poteri che contavano. Il capoluogo lombardo è una città piccola, anche per estensione. Niente a che vedere con le grandi capitali del mondo e con la stessa Roma, che ha anche il triplo dei suoi abitanti. Ma mai come in quei giorni fu importante il perimetro che congiungeva nel centro di Milano il Palazzo di Giustizia con la sede di Assolombarda e quella dell’Arcivescovado. E i palazzi dei grandi giornali. E il carcere di San Vittore. Palazzo Marino era nella penombra di piazza della Scala, a poche centinaia di metri dai luoghi del potere e mai come allora da questi lontano. L’Arcivescovado parlò idealmente quella sera con le parole di un giovane consigliere comunale dell’Aziona cattolica, Giovanni Colombo, considerato vicino al cardinal Martini, arcivescovo di Milano, che si scontrò con il sottosegretario Borruso, esponente di Comunione e Liberazione e prendendo le distanze dal proprio partito disse: “Io vi propongo oggi l’onestà come valore politico”. E si capì bene chi fosse stato il suo ispiratore quando qualche tempo dopo, a un convegno organizzato dall’Anm, il sindacato dei magistrati, lo stesso cardinal Martini, sommerso dagli applausi, disse che “ce n’era bisogno e bisognava fare pulizia”. La sentenza morale era arrivata prima di quella dei tribunali. Era tramontato in quei giorni il partito unico dei cattolici. A poche centinaia di metri da Palazzo Marino e dall’Arcivescovado svetta il Palazzo di giustizia costruito nel ventennio fascista dall’architetto Piacentini. Poco più in là, in via Pantano, c’è la sede di Assolombarda, l’associazione degli imprenditori della regione “locomotiva d’Italia”. Nei corridoi del tribunale succedono cose strane, in quei giorni. Il procuratore capo della repubblica Francesco Saverio Borrelli pare favorevole ad accettare un patteggiamento di Mario Chiesa con confessione per la tangente e venti mesi di carcere. Anche perché è da poco entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che favorisce i riti alternativi. Non la pensa così il giovane sostituto Antonio Di Pietro, che da bravo ex poliziotto preferisce l’inquisizione e le tecniche poliziesche di interrogatorio e, a quanto pare, ha qualche carta nascosta che potrebbe portarlo alla caccia grossa. Di Pietro riesce a stoppare Borrelli, fa parlare Chiesa e lo libera dopo 45 giorni, alla vigilia delle elezioni politiche, le ultime della prima repubblica. Quel giorno chi doveva capire, capì. Capirono subito gli imprenditori. Soprattutto dopo la retata del 21 aprile, quando l’arresto dei primi otto di loro si trasformerà in una slavina. Gli otto capirono al volo, nominarono i difensori giusti (i famosi “accompagnatori”) e dissero di esser stati obbligati dalla politica a pagare. Erano concussi, non corruttori. Ringraziavano Di Pietro, che arrestava e scarcerava con un turnover vorticoso, ma molti di loro poi furono costretti a tirar giù le serrande delle loro aziende. Non si salvarono i Torno e i Lodigiani, mentre ne uscivano con il vento in poppa i Romiti e i De Benedetti, con i loro solidi studi legali. Un bel memoriale, qualche mezza verità e un bell’accordo stipulato negli uffici della procura della repubblica. Quel che non fu consentito a Raul Gardini. E i loro giornali si inchinarono. Nacquero i pool dei giornalisti (quelli che tempo dopo brindavano in sala stampa per la prima informazione di garanzia nei confronti di Bettino Craxi) e gli accordi tra i direttori dei principali quotidiani per sostenere la lotta del Bene contro il Male. Una storia che iniziò quella sera e che potrebbe anche esser raccontata così. All’inizio degli anni novanta un gruppo di pubblici ministeri di Milano ha sferrato un colpo micidiale alla classe politica di governo con la complicità di una parte del mondo produttivo proprietaria di grandi quotidiani, della Chiesa e del principale partito dell’opposizione, al lo scopo di attuare un ricambio politico. Ci fu anche l’aiuto di un qualche “papa straniero”? Molti dicono di si. Sicuramente ci fu il sostegno di giornalisti e avvocati “accompagnatori” che abdicarono al proprio ruolo e contribuirono ad aizzare le piazze. Il grido di “onestà, onestà” nacque allora. E non ha portato fortuna ai partiti che, prima della nascita del Movimento 5 stelle, si sono incoronati come “partito degli onesti”, cioè la Rete di Leoluca Orlando e L’Italia dei valori di Antonio Di Pietro. Che non sia stata costruita nessuna società politica degli onesti dopo di allora, è sotto gli occhi di tutti. Ma un lascito la stagione di Mani Pulite ci ha regalato. Alcune regole processuali e dello Stato di diritto sono saltate: la tutela della libertà personale e del diritto di difesa, la predeterminazione del giudice naturale, la presunzione di non colpevolezza dell’imputato, il giusto processo, il principio che la responsabilità penale è personale e che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Ci ha lasciato anche il ricordo dei 43 suicidi, le lacrime a Montecitorio del presidente Napolitano mentre leggeva le parole di Sergio Moroni. Il sacchetto di plastica che segnò la fine di Gabriele Cagliari, le assoluzioni di Darida e Nobili dopo il martirio e la gogna. Quella sera a Milano era caldo, il clima politico. E oggi, nel triste anniversario dell’arresto di Mario Chiesa, non c’è proprio nulla da festeggiare.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana.

L'ex capo della procura milanese. Francesco Greco: “Vedo molto revisionismo su Mani pulite”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Dicembre 2021. Ripristinare l’autorizzazione a procedere. Perché no? Se ne parla, e lo auspica uno studio molto serio. Guardate chi c’era, una sera a Milano. Rilassato, fuori dalla mischia del Palazzo di giustizia e di una procura covo di vipere come non mai, abbiamo ritrovato Francesco Greco impegnato a discutere di un tema decisamente più alto di quelli che lo avevano visto coinvolto nelle ultime settimane che hanno preceduto il suo pensionamento. Immunità parlamentare, check and balance, equilibrio tra i poteri: aria pura, o almeno così dovrebbe essere. L’occasione è data dalla presentazione milanese del libro dell’avvocato Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Einaudi, “L’eutanasia della democrazia. Il colpo di Mani Pulite” (Rubbettino, 14 euro), prefazione di Sabino Cassese. Cento pagine da distillare, concetti da assaporare uno a uno, perché c’è proprio tutto. Il quadro comparato tra i sistemi anglosassoni di common law e quelli europei di civil law. Il dibattito sull’articolo 68 dei padri costituenti tra il 1946 e il 1948, e poi quello in Parlamento tra il 1992 e il 1993. I primi cercavano di ricostruire l’equilibrio tra i poteri dopo gli anni sanguinosi, anche per il diritto, del fascismo. I secondi, terrorizzati durante la stagione di Mani Pulite, mostrarono di preferire alla fine la repubblica giudiziaria rispetto a una democrazia liberale. Francesco Greco ha il tono e la giovialità ritrovata di chi si è veramente tolto un peso. Anche se gli costa un po’ dirlo. Preferisce pizzicare, non senza una certa allegria, un paio di testate giornalistiche che non si sono fatte coinvolgere dal momento bello del suo commiato. Ho offerto champagne francese, quello vero, rivendica, e Repubblica il giorno dopo ha titolato “Greco lascia, brindisi al veleno”. E sul Riformista ..(fa il nome di una giornalista che conosce da molti anni) mi voleva in pensione sei mesi prima del tempo, e diceva “ma quando se ne va?”. Ma, champagne a parte, il veleno tra toghe, quello che ha portato la procura di Brescia a sottoporre a indagine diversi magistrati milanesi, non è arrivato dall’esterno della casta. Non dai giornalisti. Men che meno dalla politica. Hanno fatto tutto da soli. Sull’equilibrio tra i poteri e sul rapporto, in Italia decisamente malato, tra politica e giustizia, il procuratore Greco non cede di un millimetro. Rispetto al libro, la cui tesi sul tragico errore del Parlamento sull’articolo 68 è molto chiara, ma anche molto documentata e motivata, anche con il supporto e l’autorevolezza di Sabino Cassese, butta lì subito “Ritenevo assorbito il problema dal ‘93”. Il suo ragionamento è elementare: non siamo stati noi di Mani Pulite a distruggere i partiti della prima repubblica, i partiti si sono distrutti da soli, perché la politica costa e in Italia si commettono troppi reati. Problema assorbito dalla cultura del Paese, dunque? E’ stata solo una giusta punizione nei confronti della classe politica, e quindi del Parlamento, l’eliminazione dell’autorizzazione a procedere, che aveva il compito di impedire iniziative politiche da parte della magistratura? L’ avvocato Benedetto spiega con chiarezza perché, in un sistema in cui la magistratura è totalmente autonoma e nominata in modo burocratico, dove non c’è la separazione delle carriere e oltre a tutto esiste l’obbligatorietà dell’azione penale, è indispensabile un contrappeso che difenda le prerogative del Parlamento. Ma non c’è verso di comprendersi. Perché ogni richiamo ai principi sacrosanti di ogni società liberale, quelle in cui l’immunità dei parlamentari fa parte dell’equilibrio dei poteri, viene considerata come un attentato a quelle inchieste che furono, ai tempi di Tangentopoli. Non a caso Greco recita più volte “il revisionismo non mi è mai piaciuto”. Vasto programma, vien da dire. Ma lui lo precisa: “Su Mani Pulite vedo molto revisionismo”. E non è un caso il fatto che lui stesso ricordi come, avendo conosciuto, nel suo ruolo di capo della procura più famosa d’Italia, pubblici ministeri di tutto il mondo, si sia sempre sentito “un privilegiato”. Infatti il caso italiano è unico al mondo. Ma per la carenza di democraticità, andrebbe aggiunto. E per la protezione assoluta della casta dei magistrati, in particolare dei pubblici ministeri che non rispondono a nessuno. I suoi colleghi inglesi e americani infatti, e soprattutto i pm, nelle patrie del principio dell’habeas corpus, hanno uno stretto rapporto con il potere politico. Il quale non necessita quindi di essere protetto da particolari guarentigie, al contrario dei Paesi europei del civil law dove esiste il giudice burocrate, una figura impensabile sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito. Ma anche nella stessa Europa l’Italia rappresenta una “stranezza”. Perché il pubblico ministero è un soggetto potentissimo e irresponsabile (in altri Paesi risponde al guardasigilli), ma anche perché, al contrario di quel che accade in Francia, in Germania e in Spagna , con la controriforma del 1993, il parlamentare è un cittadino in balia di qualunque anomalia politico-giudiziaria, senza protezione alcuna. E non è che manchino gli esempi di quel che è accaduto, dal 1992 in avanti. Un argomento molto in uso è quello che dell’immunità parlamentare e dell’autorizzazione a procedere si era abusato nel passato. Verissimo. Ma altrettanto vero è che, prima di tutto proprio negli anni di Tangentopoli il Parlamento aveva cambiato registro, con esami più oculati di ogni singolo caso e concessioni più frequenti alla magistratura di indagare. E comunque, perché eliminare le guarentigie solo perché erano state mal applicate? Il cibo può essere buono anche se qualcuno ha fatto indigestione. Tra l’altro, nel corso del dibattito che tenne impegnati a lungo Camera e Senato, si era arrivati a una buona mediazione, spostando il momento della richiesta di autorizzazione alle Camere dall’inizio delle indagini a quello dell’esercizio effettivo dell’azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio da parte del pm. Ma non ci fu nulla da fare. Spirava in quel periodo un’ariaccia fetida in cui il ruolo di moralizzatore dei costumi se lo era assunto la Lega Nord, un po’ come più di recente i seguaci di Beppe Grillo. Il Parlamento era pieno di politici indagati, la gran parte dei quali anni dopo verrà assolta. Inutilmente Marco Pannella, uno dei pochi ad avere a cuore la sacralità del Parlamento, radunava tutti alle sette del mattino. Ma era in gran parte gente terrorizzata, che cercava solo il modo di non finire in galera. Avrebbero votato qualunque cosa. E così fu, purtroppo. E inutilmente un giorno lo stesso Pannella nell’aula gridò contro la demagogia e il populismo: “ Il nostro compito, per non essere antipopolari, è di essere semmai impopolari in alcuni momenti. Viva la Costituzione repubblicana! Viva l’articolo 68! Viva il Parlamento che saprà difenderlo!”. Andò diversamente. Il revisionismo non piace ai procuratori? Un motivo di più per riformare l’articolo 68 della Costituzione e rendere l’Italia un Paese più liberale e più libero.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Davigo, Di Pietro e gli "arresti facili"? Parla il giudice Salvini: "Ecco come facevano", bomba sulla Procura di Milano. Libero Quotidiano l'11 dicembre 2021. Con Mani Pulite le regole di assegnazione dei fascicoli nel tribunale di Milano venivano assegnati sempre ad un unico giudice, pronto ad accogliere con rapidità fulminea tutte le richieste di cattura spiccate dal pool. Scrive il giudice Guido Salvini, tuttora gip a Milano: "Era comodo per la Procura avere un unico gip già sperimentato, per alcuni già "direzionato", e non doversi confrontare con una varietà di posizioni e di scelte che potevano incontrare all'interno dell'ufficio gip, formato da una ventina di magistrati. Andava evitata e prevenuta una possibile variabilità di decisioni dei giudici che potesse in qualche modo creare "difficoltà" alle indagini (...) così il pool escogitò un semplice ma efficace trucco costituendo, a partire dall'arresto di Mario Chiesa, un fascicolo che in realtà non era tale ma era un "registro" che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse unificate solo dall'essere da gestite dal pool". Titolare del mega-fascicolo era il giudice Italo Ghitti. "Questo espediente dell'unico numero - scrive Salvini - impediva la rotazione e consentiva di mantenere quell'unico gip iniziale, Italo Ghitti, che evidentemente soddisfaceva le aspettative del pool". Una sola volta, rivela il Giornale, una richiesta di manette firmata dal pool arrivò sulla scrivania di Salvini. "Ma nel giro di pochi giorni, prima ancora che potessi decidere, il fascicolo mi fu sottratto senza tanti complimenti e passò al gip Ghitti. Bisognava evitare che qualsiasi altro gip dell'ufficio "interferisse" nella macchina di Mani pulite", ricorda Salvini. "Questa abnormità fu più che tollerata, e tollerata forse è dir poco, dai capi dell'ufficio". Contro la sottrazione del fascicolo, Salvini scrisse invano al suo capo, Mario Blandini. Ma l'inchiesta Mani Pulite continuò a macinare arresti. "Blandini venne promosso procuratore generale. Ghitti venne eletto al Consiglio superiore della magistratura", conclude il Giornale.

Mani pulite, ecco il trucco dei pm del pool di Milano per arrestare più indagati. Luca Fazzo l'11 Dicembre 2021 su Il Giornale. Durante l'inchiesta Mani Pulite, le regole di assegnazione dei fascicoli nel tribunale di Milano vennero sistematicamente aggirate per garantire alla Procura di poter contare sempre e soltanto su un unico giudice. Durante l'inchiesta Mani Pulite, le regole di assegnazione dei fascicoli nel tribunale di Milano vennero sistematicamente aggirate per garantire alla Procura di poter contare sempre e soltanto su un unico giudice, pronto ad accogliere con rapidità fulminea tutte le richieste di cattura spiccate dal pool: un sistema che ora viene descritto con dovizia di particolari da un magistrato che nei mesi ruggenti del 1992 lavorava nell'ufficio da cui gli ordini di arresto venivano sfornati quotidianamente.

Settimo piano del Palazzo di giustizia, ufficio del giudice per le indagini preliminari, quello cui tocca firmare o negare gli arresti. Per garantire l'imparzialità dei gip, la norma prevede l'assegnazione automatica dei fascicoli in base ai turni prestabiliti. Cosa accadeva, invece, durante Mani Pulite? Scrive il giudice Guido Salvini, tuttora gip a Milano: «Era comodo per la Procura avere un unico gip già sperimentato, per alcuni già direzionato, e non doversi confrontare con una varietà di posizioni e di scelte che potevano incontrare all'interno dell'ufficio gip, formato da una ventina di magistrati. Andava evitata e prevenuta una possibile variabilità di decisioni dei giudici che potesse in qualche modo creare difficoltà alle indagini (...) così il pool escogitò un semplice ma efficace trucco costituendo, a partire dall'arresto di Mario Chiesa, un fascicolo che in realtà non era tale ma era un registro che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse unificate solo dall'essere da gestite dal pool».

Titolare del mega-fascicolo, che portava il numero 8566/92, era il giudice Italo Ghitti. Tutte, nessuna esclusa, le richieste del pool Mani Pulite arrivavano così a Ghitti, con la certezza di venire accolte nel giro di poche ore, alimentando la spirale delle confessioni a catena. «Questo espediente dell'unico numero - scrive Salvini - impediva la rotazione e consentiva di mantenere quell'unico gip iniziale, Italo Ghitti, che evidentemente soddisfaceva le aspettative del pool». Una sola volta, per una sorta di svista, una richiesta di manette firmata dal pool arrivò sulla scrivania di Salvini, che era il giudice competente per turno. Ma «nel giro di pochi giorni, prima ancora che potessi decidere, il fascicolo mi fu sottratto senza tanti complimenti e passò al gip Ghitti». Bisognava evitare che «qualsiasi altro gip dell'ufficio interferisse nella macchina di Mani pulite. Questa abnormità fu più che tollerata, e tollerata forse è dir poco, dai capi dell'ufficio». Contro la sottrazione del fascicolo, Salvini scrisse invano al suo capo, Mario Blandini. Mani Pulite continuò a macinare arresti. Blandini venne promosso procuratore generale. Ghitti venne eletto al Consiglio superiore della magistratura.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

"Io, travolto dal trucco del pool Mani pulite per arrestare più gente". Luca Fazzo il 13 Dicembre 2021 su Il Giornale. L'ex braccio destro di Mammì arrestato 30 anni fa: "Quel gip soddisfaceva i pm". «Ah, dunque è così che andò....». Sono passati quasi trent'anni dalla mattina in cui lo vennero ad arrestare su ordine del pool Mani Pulite, e a Davide Giacalone tocca oggi scoprire che dietro il suo mandato di cattura c'era una manovra di gravità sconcertante messa in atto negli uffici giudiziari milanesi, e rivelata solo ora da un testimone dell'epoca.

È sull'inchiesta che travolse Giacalone, allora giovane e brillante braccio destro del ministro repubblicano Oscar Mammì, che si consuma l'episodio raccontato nei giorni scorsi dal giudice milanese Guido Salvini con un articolo sul Dubbio: il fascicolo con le richieste di arresto che arriva sul tavolo di Salvini, ma che gli viene sottratto dal capo dell'ufficio del giudice preliminare Mario Blandini. E assegnato a Italo Ghitti, il gip che monopolizzava tutte le richieste di cattura del pool e le accoglieva tutte istantaneamente. Il trucco: un unico fascicolo con un numero unico, divenuto - scrive Salvini - «un registro che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse». Titolare, Italo Ghitti, «che evidentemente soddisfaceva le aspettative del pool». Ghitti quando seppe che l'inchiesta contro Giacalone era finita a Salvini fece fuoco e fiamme per farsela ridare. Appena la ottenne ordinò la cattura del 34enne politico.

Che effetto le fa scoprire che per arrestarla dovettero persino portare via il fascicolo a un giudice?

«Il sistema della Procura di Milano di scegliersi i giudici delle indagini preliminari, studiando anche le ore e i minuti migliori per inviare le richieste di cattura, era noto già ai tempi. Ma che si fosse arrivati al punto rivelato dall'articolo del giudice Salvini allora non ebbi alcuna contezza, né la ebbero i miei avvocati».

Perché era così importante che a gestire tutto fosse Ghitti? Secondo Salvini, col sistema del fascicolo unico il pool milanese poteva indagare anche su vicende lontane dalla sua competenza territoriale.

«Come nel mio caso: alla fine venne stabilito che la competenza era di Roma e non di Milano. Ma arrivarci non fu una passeggiata. A Milano dopo dieci giorni di carcere mi diedero i domiciliari, ma a quel punto intervenne la Procura di Roma che mi rispedì in prigione. In cella mi arrivavano a giorni alterni gli ordini di custodia dalle due città, sembrava una gara tra Procure a chi me ne mandava di più per rimarcare la propria competenza. Anche gli agenti di custodia erano impietositi».

Salvini dice che il collega Ghitti era «direzionato» a favore della Procura, per questo bisognava impedire che qualunque altro gip «interferisse» con le indagini su Tangentopoli.

«La storia di Mani Pulite la conosciamo tutti. Per quanto riguarda il mio caso personale, posso solo ricordare che le accuse per cui il dottor Ghitti ordinò il mio arresto ritenendole gravi precise e concordanti si rivelarono talmente infondate che alla fine venni assolto in udienza preliminare senza neanche venire rinviato a giudizio».

Beh, è finita bene.

«In Italia la giustizia di merito, quella che arriva all'esito dei processi, funziona abbastanza bene, al netto degli inevitabili errori giudiziari. Il dramma è quanto accade prima, durante le indagini, quando a garantire i diritti del cittadino sotto inchiesta dovrebbe essere il giudice delle indagini preliminari, una figura da barzelletta, costretto a decidere solo sulla base delle carte che gli vengono sottoposte dai pm, e che dovrebbe prendersi la briga di dire ai pm vi siete sbagliati. Quando mai? Al massimo assistiamo a qualche teatrino, invece del carcere lo mando ai domiciliari. Poi arriva la sentenza che dice che l'imputato è innocente. Ma che te ne fai dopo dieci anni?»

Con lei quanti anni sono serviti?

«Dodici».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

«La forzatura sul gip Ghitti dimostra che Mani pulite fu un’operazione politica». Lo storico dirigente del Psi parla del trucco, rivelato sul Dubbio, dal giudice Salvini, relativamente all'inchiesta "Mani pulite", coordinata dal famoso pool di Milano. Errico Novi su Il Dubbio il 14 dicembre 2021. «È un artifizio tecnico, che però svela il senso politico di Mani pulite». Ugo Intini è stato direttore dell’Avanti, portavoce del Psi craxiano, dirigente combattivo in un partito travolto dalla “rivoluzione” del ’ 92. Riflette sull’espediente inventato dal Pool di Milano per consegnare sempre a un unico gip, Italo Ghitti, tutte le richieste di misure cautelari.

Un “trucco” rivelato, in un articolo sul Dubbio, dal giudice Guido Salvini: venne creato un «registro», utilizzato impropriamente come un «fascicolo» unitario per tutti i filoni d’inchiesta, e dotato di un «numero con cui iscriveva qualsiasi novità riguardasse tangenti», ha raccontato Salvini, oggi come allora in servizio all’ufficio gip di Milano. «Salvini contribuisce ad avvalorare una tesi ormai inconfutabile: Mani pulite fu un’operazione politica, ispirata», dice Intini, «all’idea che della politica si potesse fare a meno, e che perciò fosse necessario e opportuno radere al suolo i partiti della Prima Repubblica».

Nell’intervento sul Dubbio, Salvini non esita a notare come il «gip iniziale, quello dell’indagine sul Trivulzio, Italo Ghitti, evidentemente soddisfaceva le aspettative del Pool». Diversi altri quotidiani hanno ripreso in questi giorni l’intervento del magistrato milanese.

Ieri, per esempio, il Giornale lo ha ricollegato alla vicenda di Davide Giacalone, allora braccio destro di Oscar Mammì: Giacalone fu arrestato su richiesta del Pool, subito accolta da Ghitti, e poi prosciolto addirittura in udienza preliminare «Il sistema della Procura di Milano di scegliersi i giudici delle indagini preliminari», ha raccontato Giacalone al Giornale, «era noto già ai tempi. Ma che si fosse arrivati al punto rivelato dall’articolo del giudice Salvini allora non ebbi alcuna contezza, né la ebbero i miei avvocati».

C’era un sistema scientifico, Intini, ma nessun giornale si sforzò di scoprirlo. Ha dovuto parlarne un giudice coraggioso a trent’anni da Mani pulite.

Non mi meraviglio. Il silenzio sulle forzature tecniche compiute dal Pool si spiega con l’assoluto sostegno assicurato, a quei pm, dai giornali, ridotti a ufficio stampa della Procura. Rientra appieno nella logica da golpe strisciante in cui si inserì l’inchiesta del ’ 92.

Perché golpe strisciante?

Vede, se un ufficio inquirente arriva a forzare le regole organizzative interne alle Procure pur di consegnare sempre allo stesso gip, evidentemente in sintonia coi pm, le richieste cautelari, è chiaro che c’è una determinazione politica rispetto a quell’iniziativa giudiziaria. Una determinazione chiara nel perseguire non ipotesi di reato ma un preciso obiettivo: annientare i partiti della Prima Repubblica. Ed è un disegno, ritenuto giusto dai pm milanesi di allora, che si inserisce perfettamente nel disegno più generale di annichilimento della politica, emerso all’epoca non solo in Italia ma in tutto l’Occidente.

Dietro l’onda giudiziaria del ’ 92 ci fu la regìa di altri poteri?

Fukuyama, politologo americano, teorizzò che con la caduta del comunismo si fosse arrivati alla fine della storia, dunque all’esaurirsi delle funzioni proprie della politica. Se la politica è inservibile, restano solo i poteri economici, indisturbati. Ci si doveva sbarazzare dei partiti. Avvenne anche in altri Paesi, ma in nessuno si verificò, come da noi, una vicenda giudiziaria oggettivamente rivoluzionaria, in un quadro generale da golpe strisciante. La giustizia non funzionò in modo imparziale: fu condizionata da quell’obiettivo.

Ma a suo giudizio i pm del Pool di Milano puntavano consapevolmente a uno svuotamento della politica?

È più corretto dire che dopo i primi successi, dopo il clamore suscitato dai primi passi dell’inchiesta, i magistrati della Procura di Milano si sentirono spinti ad andare avanti lungo quella strada, a perseguire l’obiettivo dell’annichilimento. Mi riferisco al favore dell’opinione pubblica, ma anche dei grandi giornali. La grande stampa condivideva certo non a caso uno schema in cui i vecchi partiti avrebbero lasciato posto al dominio del mercato.

Quanto influì, su quella stagione, la crisi economica?

Moltissimo. Una cosa era chiara a tutti: gli equilibri precedenti, basati sul rapporto fra politica e sistema produttivo, non reggevano più. Gli stessi imprenditori si convinsero che della politica ci si potesse liberare. Ne ho fatto un libro, nel 2001: La privatizzazione della politica. Fu un ’ 68 rovesciato.

In che senso?

Il ’ 68 fu ispirato a solidarismo e comunitarismo. Nel ’ 92 si impose una rivoluzione dell’individualismo e del liberismo. Con una rottura, com’era avvenuto un quarto di secolo prima. Ma di segno del tutto diverso.

Senza il “trucco” del gip, chissà se Mani pulite sarebbe andata in quel modo.

C’erano forzature tecniche anche di altra natura, a cominciare dall’upgrading del finanziamento pubblico trasformato in corruzione, e della corruzione elevata a concussione.

Guido Salvini ha avuto il merito di chiarire come andarono le cose.

È un magistrato già noto per il coraggio, per la capacità di assumere posizioni controcorrente rispetto al resto della magistratura. Penso a quanto disse a proposito delle trame nere o dell’assassinio Tobagi. Ma fra i magistrati la maggioranza, a mio giudizio, condivide la critica all’esercizio autoreferenziale della funzione requirente. Peccato questa maggioranza sia ostaggio di un’agguerrita minoranza, tuttora dominante nell’Anm e, in generale, nell’ordine giudiziario.

Buccini presenta “Il tempo delle Mani Pulite”. Il procuratore Ielo: “Indagine? Tentativo di legge uguale per tutti, non si voleva la rivoluzione”. Alberto Sofia il 18 novembre 2021 su Il Fatto Quotidiano. Nella cornice della Sala Valdese a Roma, Goffredo Buccini, giornalista ed editorialista del Corriere della Sera, ha presentato con la collega Fiorenza Sarzanini e il procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo, il suo ultimo libro “Il tempo delle Mani pulite”, edito da Laterza. “Mani pulite non è stata soltanto un’inchiesta che ha rivoluzionato la politica in Italia, ma è stata soprattutto una stagione di grandi illusioni: l’illusione della fine della corruzione, quella secondo cui i magistrati erano i vendicatori della società civile contro una politica marcia, l’idea che un Paese potesse cambiare attraverso un processo. Ma ciò non è vero, i cambiamenti sono più lenti e questo volume racconta questa delusione e questa illusione, quella di un’intera generazione”, ha rivendicato Buccini. Il giornalista ha precisato di “non essere un pentito”: “Non credo sia stato un golpe giudiziario, anzi abbiamo assistito a un suicidio politico. Ma questa idea ha poi permeato una certa destra italiana, nella sua contestazione aperta alla magistratura. Ma allo stesso tempo non credo nemmeno al mito dell’inchiesta mutilata, secondo cui non fu permesso ai magistrati di continuare a indagare”. Oggi, continua Buccini, “paghiamo ancora le conseguenze dopo 30 anni, con una frattura tanto grande”. “Mani Pulite‘? Non voglio parlare di inchiesta mutilata, credo sia stata espressione di una contingenza, di un periodo storico, va contestualizzata. Forse poi mancavano le condizioni. Ma quando provavamo a fare processi con le regole che esistevano e dovevano valere per tutti, indipendentemente se fossero buone o sbagliate, queste non andavano più bene e venivano cambiate”, ha invece precisato il procuratore Paolo Ielo. E ancora: “Se abbiamo mai pensato di voler cambiare il mondo? Ma no, questa idea di un gruppo di persone che dietro a un tavolo decideva di fare la rivoluzione e di mettere questo o quello non c’era“, ha affermato nel corso della presentazione a Roma del volume. Lo stesso procuratore ha infine spiegato di non ritenere che la corruzione sia rimasta identica: “Il segno tangibile era l’ammontare delle tangenti: oggi abbiamo corruzioni che avvengono per poco o nulla, 5 o 10 mila euro”, ha aggiunto Ielo.

Buccini, invece, ha poi concluso come il nostro Paese abbia “la capacità di rialzarsi nei momenti più complessi, come fu quel momento nel ’92”. Per questo, ha aggiunto, la speranza è che si possa ancora “migliorare l’Italia”, ha concluso Ielo. 

Mani pulite, una rilettura istruttiva di Goffredo Buccini. Cesare Zapperi il 21 Novembre 2021 su socialbg.it. “Il tempo delle Mani pulite” è un libro che merita di essere letto. Perché il racconto del drammatico passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, attraverso l’inchiesta dei magistrati milanesi, affidato alla penna di Goffredo Buccini, inviato speciale del Corriere della Sera a quel tempo cronista di punta a palazzo di giustizia (suoi molti scoop), parla di loro (i politici e le toghe) ma anche di noi (cittadini), facili a passare dal giustizialismo al garantismo come foglie che cambiano colore al mutare delle stagioni.

Buccini ripercorre quasi giorno per giorno i due anni (1992-1994) che sconvolsero il Paese raccontando fatti e retroscena, rievocando atmosfere e umori, riproponendo ad uso di chi li visse ma soprattutto di chi è nato o cresciuto dopo fatti e misfatti di quella vicenda giudiziaria. Lo fa con un esercizio di profonda autocritica non comune e tantomeno scontato (prima di lui lo ha fatto con il suo “Novantatré. L’anno del terrore di Mani pulite” Mattia Feltri) che lo porta ad ammettere che nello scrivere di avvisi di garanzia, arresti e interrogatori, fu spinto anche dalla passione politica che in quegli anni giovanili gli faceva credere di poter cambiare il mondo.

Chi ha vissuto quella stagione, seppur da lontano, ricorda il clima rivoluzionario, la voglia di veder cadere nella polvere tanti potenti, la sete di giustizia. Gli eccessi c’erano, anche abbastanza evidenti come annota lo stesso Buccini, ma su tutto prevalevano la sostanza (il sistema, politico ed economico, era marcio) e il desiderio di pulizia e di onestà. Il libro racconta tutto, anche il desiderio di affermarsi di un cronista di razza (che oggi ammette di essersi ritrovato a comportarsi in modo tale da non riconoscersi) autore di interviste che sono entrate nello storia patria, oltre che del giornalismo. Ci descrive la parabola di magistrati prima osannati come eroi e diventati via via sempre più ingombranti fino ad assurgere, per alcuni, al ruolo contro natura di antagonisti politici.

E poi naturalmente ci sono loro, i politici. Scorrono sotto i nostri occhi tante storie: il suicidio di Sergio Moroni e la sua profetica lettera d’addio, il bombardamento di avvisi di garanzia al bergamasco Severino Citaristi, il coinvolgimento e la battaglia senza esclusione di colpi di Bettino Craxi, l’avviso a comparire a Silvio Berlusconi (il grande colpo giornalistico di Buccini con il collega Gianluca Di Feo). Noi (i cittadini) rimaniamo sullo sfondo, come spettatori che prima fanno un tifo forsennato per i magistrati e poi, non appena dagli squali si scende ai pesci piccoli (il commercialista, l’avvocato, l’impiegato) cominciano a diventare insofferenti fino a spingersi dalla parte opposta, secondo la legge del pendolo che da sempre regola la vita pubblica italiana. Guarda caso quello che stiamo vivendo proprio di questi tempi. “Il tempo delle Mani pulite” è quindi a suo modo una piccola storia dell’Italia e degli italiani. Leggerla aiuta a conoscere e a capire. Il passato ma anche, o soprattutto, il presente. 

Trent’anni dopo Mani Pulite è tempo che la guerra finisca. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 19 novembre 2021. A breve saranno tre decenni dall’arresto di Mario Chiesa, il boiardo socialista dalle cui confessioni promanò la slavina, poi diventata valanga processuale, che travolse la Prima Repubblica: e la questione giudiziaria continua a spaccare il Paese in due segmenti contrapposti. Alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, le piazze italiane erano infiammate da giovani persuasi che fosse ragionevole uccidere i propri coetanei a causa dell’avversa appartenenza politica. Erano passati tre decenni dalla fine della guerra di liberazione. Ma era come se fascismo e antifascismo (l’antifascismo militante, di matrice comunista) non avessero smesso nemmeno per un momento di combattersi. Non pochi genitori di quei ragazzi, del resto, divisi tra la paura del golpe nero e il timore dell’esproprio rosso, ne assecondavano l’aberrazione ottica e ideologica, finendo di fatto per regolare conti in sospeso per interposta persona. Si osserverà che trent’anni sono forse pochi per tramutare in storia i drammi quotidiani. Eppure, potrebbero essere sufficienti almeno a un ripensamento, a una prima analisi critica o, se non altro, a un raffreddamento degli animi. Così non fu, ci dicemmo, perché l’Italia d’allora era debole quanto a condivisione dei valori. 

Nonostante la successiva, lunga e faticosa ricerca di valori condivisi, così non pare essere neppure ora, con riguardo alla stagione più tumultuosa della nostra Repubblica, quella segnata dallo spartiacque di Mani pulite. Anche questa fase sembra sottomettersi alla ripetitività della guerra dei Trent’anni, del passato che non passa. A breve saranno tre decenni dall’arresto di Mario Chiesa, il boiardo socialista dalle cui confessioni promanò la slavina, poi diventata valanga processuale, che travolse la Prima Repubblica: e la questione giudiziaria continua a spaccare il Paese in due segmenti contrapposti per fede ma assai simili per scarsa o nulla propensione a riconoscere dignità all’avversario. 

Senza neppure il bisogno di scorrere l’emeroteca delle passate e infelici stagioni, basta uno sguardo alle cronache recenti per avere un’idea del tasso di avvelenamento del discorso pubblico: la battaglia mai sopita attorno al finanziamento della politica, ora incarnata dall’inchiesta sulla fondazione Open col suo strascico di ovvietà miste a rivelazioni più o meno riservate, o l’intemerata televisiva di un procuratore di primo piano contro talune scelte della ministra Guardasigilli sono soltanto le ultime stazioni della via crucis inflitta a giustizia e politica ove vengano incrociate in un chiacchiericcio astioso che disorienta il Paese. 

Due sono i miti fondanti, ma del tutto infondati, di questo nuovo trentennio tossico: ed entrambi hanno radici nell’inchiesta dei magistrati di Milano tra il 1992, l’anno del principio, e il 1994, quello dell’invito a comparire a Silvio Berlusconi e dell’addio di Antonio Di Pietro alla toga. 

Il primo è il mito del golpe giudiziario. Nato negli ambienti politici più duramente colpiti dall’inchiesta (segnatamente i socialisti meneghini) e da essi propalato durante gli anni successivi, riconduce il lavoro del pool dei magistrati a un’unica trama, magari eterodiretta, volta a distruggere la nostra democrazia parlamentare. La realtà è ben diversa. Non a un golpe giudiziario assistemmo, quanto piuttosto al dissennato suicidio di partiti che durante gli anni Ottanta avevano scambiato consenso elettorale con debito pubblico e appalti truccati con finanziamenti illeciti: fu il loro prestigio ridotto al rango di barzellette da bar che li consegnò, indifesi, ai magistrati. 

Il secondo mito è, per converso, quello della Mani pulite mutilata, dell’inchiesta interrotta bruscamente a causa del ricompattamento del sistema, travasato nella cosiddetta Seconda Repubblica. Questo mito («non ci hanno fatto finire il lavoro!») promana direttamente dai dipietristi ed è servito a giustificare l’inopinata uscita di scena del pubblico ministero più popolare d’Italia appena prima di dover interrogare Silvio Berlusconi. Anche in questo caso, la realtà è tutt’altra. Innanzitutto, perché, come ha ricordato Paolo Ielo (allora giovane sostituto del pool milanese e oggi procuratore aggiunto a Roma) Mani pulite non finì nel 1994 ma proseguì per anni con altri protagonisti. Certo, aveva perso consenso: ma ciò dipese dalla stanchezza popolare per l’assai discutibile uso della galera e dal timore nato in molti italiani che, scendendo l’indagine di livello, quella galera toccasse a loro stessi. 

Accade però che questi falsi miti abbiano figliato, nel frattempo. In una parte della destra, generando una aprioristica avversione contro la magistratura fino ad atteggiamenti corrivi con i reati dei colletti bianchi (se la giustizia è ingiusta, del resto, vale il «tana libera tutti»). E, sul fronte opposto, in una certa sinistra a lungo persuasa di poter prevalere sugli avversari per via giudiziaria, e soprattutto nel primo grillismo, che ha immaginato di «completare l’opera» in piazza, magari con un lacerto di intercettazione usato come ghigliottina sui social. La magistratura stessa ha finito per assumere i vizi della cattiva politica anziché perseguirli: a riprova del fatto che non c’è toga abbastanza elastica da coprire lo strappo tra moralità e moralismo. 

È tempo che la guerra dei Trent’anni finisca. Che i ragazzi di oggi, pur in buona misura ignari di chi fossero i protagonisti di Mani pulite, non subiscano di quella stagione i miasmi politici e il cinismo antistituzionale. La ricerca di valori condivisi è mera retorica se non si superano garantismo peloso e giustizialismo giacobino, se non si esce da uno schema binario (con noi o contro di noi) recuperando il senso delle posizioni dialoganti. È difficile immaginare scorciatoie. Tuttavia, un personaggio pubblico in grado di migliorare di molto il clima sarebbe ancora in campo. 

Per paradossale che appaia, si tratta proprio di Berlusconi: il quale, senza abiure né confessioni, certo, ma solo dismettendo con un gesto, una frase, un messaggio, i panni da perseguitato della giustizia nei quali si è blindato (anche) per ragioni difensive, potrebbe aprire una nuova stagione smontando i miti fasulli della precedente. Tutto contraddice quest’ipotesi fantapolitica: rancori cristallizzati, diffidenze reciproche, la divisione in due del Paese tra berlusconiani e antiberlusconiani. Tutto, tranne il senso di una missione perfino più appassionante del miraggio del Colle: aiutare gli italiani di domani a entrare nel futuro senza inutili fardelli. 

"Noi cronisti di Mani Pulite eravamo supereroi del nostro fumetto". Chiacchierata con Goffredo Buccini, autore de "Il tempo delle mani pulite" (Laterza). Sui pm: "L'autonomia va garantita ma col pool ci fu abuso industriale degli arresti". Su Craxi e Di Pietro: "Il 1992 ha illuso una generazione e prodotto il grillismo". Stefano Baldolini su huffingtonpost.it il 22/10/2021.  “Noi cronisti di Mani Pulite eravamo supereroi del nostro fumetto”. Non ha mezzi termini Goffredo Buccini, inviato speciale ed editorialista del Corriere della Sera, nel suo “Il tempo delle mani pulite” (Laterza), libro di ricostruzioni, di memoria e di forte autocritica. Testimone dei fatti del 1992-1994, dall’escalation “industriale” degli arresti all’avviso di garanzia all’“uomo nuovo” Berlusconi. Un biennio drammatico che ha lasciato eredità complesse e non ancora risolte. 

Domanda di prammatica: perché è nata Mani Pulite?

“Per una serie di concause, anche internazionali. Dopo la caduta del muro di Berlino gli italiani avevano ripreso a votare liberamente senza ‘doversi turare il naso’, per citare Montanelli. Ma soprattutto perché i soldi erano finiti. Questo è un punto dirimente. I soldi erano il centro dell’accordo fondamentale tra impresa e politica che prevedeva da una parte il finanziamento illecito e dall’altra l’accesso agevolato agli appalti. Era un intero sistema ammalato che a un certo punto si è spezzato, in un momento di grande debolezza della politica. E questo ha fatto sì che la magistratura fosse chiamata a esercitare un ruolo di supplenza che in una città viva ed eticamente reattiva come Milano è diventata l’inchiesta Mani Pulite.”

Quindi il sistema non si è ammalato con Mani Pulite?

“Certamente no. Lo era da un pezzo e produceva consenso politico. Non è un caso che negli anni ’80 abbiamo avuto l’impennata del debito pubblico. Il sistema comprava consenso pompando debito. Comprava il nostro consenso a nostre spese. Dalla fine degli anni ’70 è andato via via avvitandosi su se stesso.”

Mani Pulite inizia il 18 febbraio 1992 con l’arresto dell’ingegner Mario Chiesa. Ma in realtà il presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano non parla per cinque settimane. Poi arriva la parola chiave -“mariuolo” - pronunciata da Bettino Craxi. 

“La vulgata vuole che Chiesa si sia sentito schiaffeggiato da Craxi in pubblico. In realtà penso che l’interpretazione più corretta sia che in quel preciso momento Chiesa percepì il senso di debolezza del leader socialista. Dobbiamo confrontare questa situazione con l’arresto negli anni ’80 di Antonio Natali, presidente della Metropolitana milanese, snodo della circolazione delle tangenti. E soprattutto padre politico di Craxi, che lo andò a trovare in carcere da presidente del Consiglio. Poi lo fece senatore, e l’autorizzazione a procedere venne negata. Fu una manifestazione di forza del sistema straordinaria. Chiesa invece, che non è scemo, capisce che è stato lasciato solo, ha grandi problemi, anche personali, da risolvere e a quel punto comincia a parlare.”

E la slavina ha inizio. Nell’aprile successivo vengono arrestati otto imprenditori. Però a differenza di Chiesa che venne preso, citando Antonio Di Pietro, “con le mani nella marmellata”, i colletti bianchi milanesi non erano in ‘flagranza di reato’. È corretto dire che quello è stato il primo cambio di fase?

“Sì, ed è un cambio di fase clamoroso. L’idea di arrestare degli imprenditori, a Milano, non in flagranza di reato è un salto decisivo. Anche perché deriva sostanzialmente dalle confessioni di Chiesa e quindi apre un meccanismo esponenziale che nel giro di qualche settimana porterà alla grande serie di arresti veri e solo minacciati e alla grande fila di confessioni davanti alla porta di Di Pietro. Ognuno di quegli otto parla di altri otto. In una gigantesca catena di Sant’Antonio, e non è una facile battuta. Non era mai successo.” 

Ma perché si era creata la corsa a confessare?

“Bisogna essere onesti, la paura di essere arrestati è molto forte. E non stiamo parlando di persone della mala milanese, ma di borghesi abituati a una certa rispettabilità, che viene compromessa. Questa cosa peraltro si riverbererà nei suicidi degli indagati. Dopo di che, da un certo punto in poi c’è una sorta di condizionamento ambientale, di una grande bolla dentro cui tutti ci troviamo. Opinione pubblica, indagati, magistrati, giornalisti. È brutto dirlo, ma come in un rito catartico collettivo.

Poi un ruolo decisivo l’hanno giocato i cosiddetti avvocati “accompagnatori” degli indagati alla stanza 254 di Di Pietro, anticipando le istanze dello stesso pm. Lo racconta bene Gherardo Colombo che parla di fila di questi “penitenti” e del problema per il pool di Mani Pulite, siamo nell’estate ’92, di star dietro a questa messe di confessioni, ammissioni, chiamate di correo...”

Il pool si è già formato?

“Il pool nasce verso maggio-giugno per affiancare a Di Pietro, lui stesso non si è mai ritenuto un giurista raffinato, due magistrati di maggiore spessore dal punto di vista giuridico, strutturatissimi, di orientamento politico opposto, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Com’è noto, a coordinare il nucleo storico c’era il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, e l’esperto di reati finanziari, Francesco Greco.”

Un gruppo composito.

“Borrelli era una grande alchimista, grande conoscitore dei suoi pm e dell’animo umano. Bisogna tener conto però che all’inizio a parte Di Pietro nessuno ci credeva, a questa inchiesta. Ed è una delle ragioni per cui i giornalisti che la seguono sono le seconda file della giudiziaria e della cronaca, non le grandi firme. Non ci credeva nemmeno Borrelli che caricava Di Pietro di ‘processetti’. E una delle ragioni per cui lo stesso Di Pietro comincia ad avere relazioni con noi giornalisti è per avere un rapporto strumentale a suo favore.”

Addirittura.

“L’uomo è molto sveglio. Fa uscire piccoli brandelli di notizie, per spaventare questo o quell’indagato, ma soprattutto per mantenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica. E il suo obiettivo era tenere alta l’attenzione per tutto il tempo necessario per produrre effetti ulteriori. Fino alla grande svolta mediatica che arriva il primo maggio ’92 con il sindaco e l’ex sindaco di Milano, Tognoli e Pillitteri, indagati. Quando si capisce per la prima volta dove si stava andando a parare.”

“Solo chi confessa spezza il vincolo associativo: non può delinquere, quindi può uscire di galera”. Il metodo del ‘dottor sottile’ Davigo è efficace. 

“Intendiamoci su Davigo che nonostante si sia perso nelle sue reiterate iperboli per ‘épater le bourgeois’, da piccolo borghese lombardo che ama stupire, ha una fortissima cultura giuridica. Tuttavia, quel metodo era odioso e oggi provocherebbe reazioni molto forti. Ma non era un metodo illegale, com’è stato ampiamente riconosciuto, concorrendo nel manager o nel politico le note ragioni per cui puoi arrestarlo: il pericolo inquinamento prove, di reiterazione di reato e pericolo di fuga. Il problema semmai è l’abuso, è l’uso industriale. Ma questo diventa possibile proprio in virtù della debolezza della politica, del sistema, che non fu in grado di reagire in modo credibile e anzi si divise, e iniziò a scappare da tutte le parti. Anche con una certa miopia, e qui arrivo al discorso di Craxi del luglio del ’92. Alla chiamata di correità, a cui si reagisce o col silenzio o pensando di trarne vantaggio, senza capire che stava saltando tutto.” 

Per parlare di responsabilità, però neanche voi giornalisti che raccontavate Tangentopoli dagli albori avete colto che qualcosa non andava. Che c’erano delle storture, a partire dal metodo, dallì‘abuso ‘industriale’ degli arresti?

“Detto con una battuta, perché in parte su di noi aveva ragione Berlusconi.”

In che senso?

“Quando si è lamentato che i giornalisti sono tutti comunisti, ci è andato vicino. È indubbio che la mia generazione si è formata a sinistra. Il gruppo di ragazzini che seguivamo i fatti di Palazzo di Giustizia di Milano, tutti tra i 28 e i 32-33 anni, a parte rare eccezioni, era fortemente orientato a sinistra. Cresciuto in ambienti politici, universitari, liceali, di sinistra. Un grande brodo di coltura dove più o meno si pensava che Craxi fosse un manigoldo, Ligresti fosse un imprenditore della Piovra, che gli andreottiani fossero tutti marci. Così quando ti trovi a seguire un’inchiesta che ti racconta esattamente questo, tu pensi ‘hai visto, hai trovato la verità, non c’è altra verità da cercare’. Nel libro uso l’espressione: ‘Eravamo gli eroi del nostro stesso fumetto’.”

Sintesi notevole.

“Allora, io ho sempre pensato che uno che ha vent’anni e vuole fare il giornalista e non vuole cambiare il mondo, a cinquanta fa una brutta fine, perché è un mascalzone. A vent’anni devi avere dei sogni, delle utopie. Il problema è che quando ti sembra si stiano realizzando, devi essere pronto anche a guardare altrove. A non accontentarti di dire ‘è fatta’. Almeno questo è stato il mio sbaglio, la mia responsabilità. Poi ognuno si assuma le proprie.”

Quindi è stato un errore di visione politica?

“Direi di visione culturale. Eviterei di associare l’idea del Minculpop rosso al nostro pool. Che peraltro durò un anno e che nacque per le stessa esigenze del pool di Borrelli. Noi avevamo dieci arresti e venti avvisi di garanzia al giorno. Non aveva senso farsi concorrenza tra testate, anzi il tuo unico problema era verificare che fossero tutte vere, non polpette avvelenate, che pure giravano, perché erano in molti a voler inquinare l’inchiesta. Tant’è che il pool dei giornalisti è finito, si è spaccato, quando è entrato in ballo il Pds e la Fininvest, le grandi questioni divisive, e quando le notizie sono diventate di meno. Quando la spinta di Mani Pulite iniziò ad affievolirsi e il consenso generale scemare perché - come racconta Gherardo Colombo - dagli intoccabili si iniziava a scender per li rami, a sfiorare la gente comune.” 

Quanti eravate prima di dividervi?

“Una decina, e non abbiamo guardato in tutte le direzioni perché quella direzione corrispondeva a una nostra formazione culturale. Errore gravissimo. Sto dicendo che altrimenti avremmo scoperto una Spectre dietro Mani Pulite? No, perché non lo penso nemmeno oggi. Ma avremmo scoperto che gli eroi non sono tutti giovani e forti ma sono anche dei personaggi con una vita con dei compromessi. Avremmo potuto tingere di chiaroscuro il nostro quadro per permettere ai lettori di averne uno più vero. E in secondo luogo avremmo dovuto avere più attenzione ai diritti individuali. Dietro a ognuno di quegli indagati c’era una persona, e io, parlo per me ovviamente, questo non lo coglievo molto chiaramente.”

Un’autocritica forte.

“Assolutamente. Per dire, il primo indagato che ho visto come persona è stato Sergio Cusani. Di Sergio Moroni, ho scritto due righe quando è stato indagato e l’ho ritrovato a settembre quando si è suicidato. Non l’ho mai visto. Ma il punto era proprio quello. Quando tu scrivi della gente dovresti guardarla in faccia. Non era semplicissimo allora ma avremmo dovuto farlo. Quando ho guardato in faccia Cusani ho visto una persona estremamente più complessa, comprensibile e persino giustificabile, rispetto a quello che era stato tratteggiato semplicisticamente come ‘il Marchesino rosso’ dal chiacchiericcio della procura.” 

Se ho capito bene si è trattato di una fase molto disumanizzante.

“Non c’è dubbio e questa è una responsabilità che ci portiamo dietro. Certo, abbiamo attenuanti, bisognava starci per capire quanto il contesto fosse complicato per mantenere la barra dritta.”

Traspare un po’ di senso di colpa.

“Il senso di colpa è una categoria che non mi piace mettere dentro un dibattito pubblico. Eventualmente faccio i conti con me stesso. Sicuramente, dopo i primi suicidi avremmo dovuto lavorare diversamente. La lettera di Moroni - premesso che tutte le accuse a suo carico saranno confermate e i coimputati tutti condannati - ha una forza che viene colta dall’opinione pubblica, dai giornali, ma archiviata troppo in fretta. Avrebbe dovuto accompagnarci nel lavoro dei mesi successivi, invece fummo subito presi dalla rincorsa ‘alla prossima cosa’. Al vero bersaglio di quella stagione, il ‘toro’, Bettino Craxi. Il cui avviso di garanzia arrivò dopo tre mesi. Inoltre c’era una retorica odiosa, autoassolutoria e un po’ ipocrita, per cui la colpa dei suicidi era del sistema a cui apparteneva il suicida. Sicuramente abbiamo fatto, e ho fatto, errori importanti.”

Non per discolparti, e prendendo spunto dallo straordinario spaccato del giornalismo italiano di quegli anni che si trova nel libro, c’è da dire che le responsabilità non erano solo di chi come te stava in procura, o per strada, ma anche dei vostri superiori...

“Non c’è dubbio. Ma i giornalisti italiani, capiredattori, direttori... non erano scesi da Marte, ma appunto erano italiani e stavano in un Paese dove la selezione, le scelte erano fortemente condizionati. Si sono mescolati il senso di appartenenza, che poi diventava colpa, a senso di opportunismo. Non c’è bisogno di citare Flaiano per parlare degli italiani, della capacità di passare dalla parte dei vincenti.”

Come vincente fu l’irruzione di Berlusconi, nel momento più duro per il ‘toro’ ferito Craxi.

“Questo è il paradosso di tutta la storia. Berlusconi era un uomo con i colori della Prima Repubblica eppure viene percepito come nuovo. Gli stessi italiani che, nel giorno dei funerali per le vittime della bomba di via Palestro, inneggiano a Borrelli, Di Pietro e co., una sorta di corteo spontaneo e forcaiolo, sono gli stessi che neanche un anno dopo plebiscitano l’imprenditore più assistito dal sistema della Prima Repubblica. Questo è un popolo che cerca sempre una palingenesi ma non si guarda mai dentro. E non è un gran popolo.”

Non salvi né Craxi né Di Pietro. 

“Perché ciascuno dei due ha compiuto mosse che hanno condizionato gli italiani nel non credere ulteriormente nell’Italia. E non parlo delle vicende strettamente giudiziarie. Ma se un uomo di Stato a fronte di due condanne definitive comminate da sei collegi di magistrati se ne va all’estero, cosa sta dicendo agli italiani? Che non si può credere al Paese che pur si ama.

Prendiamo poi Di Pietro, che esce dalla magistratura in modo ambiguo e inspiegabile, e due anni dopo aver interrogato duramente Prodi come testimone diventa suo ministro. Per non parlare della candidatura al Mugello sostenuta dallo stesso Pds che la vulgata dice essere stato graziato dalle sue inchieste. Il combinato disposto delle due cose produce il messaggio che non si può credere alla magistratura. Se il moralizzatore passa alla politica che non è riuscito a moralizzare, non c’è nulla di vero. L’esito finale di queste due vicende personali è, molti anni, dopo il grillismo, l’onda selvaggia, la fine della credibilità delle istituzioni. Tu deludi e uccidi i sogni di un’intera generazione, i ragazzi degli anni ’90.” 

Siamo arrivati alla ‘rivoluzione interrotta’.

“Sì, anche se non penso affatto che quella fosse una rivoluzione. I Paesi non cambiano così. La scelta giusta, di medio e lungo periodo, l’ha fatta invece Gherardo Colombo, che ha lasciato la magistratura e ha iniziato a insegnare. Con l’idea che si debba ripartire non dai processi, ma dalla formazione di una classe dirigente, di una cittadinanza. La via giudiziaria non è risolutiva.” 

Concludendo, in occasione del trentennale di Mani Pulite, anche grazie al tuo libro, non c’è un rischio revisionismo? Senza parlare di criminalizzazione dei magistrati, che comunque ce la stanno mettendo tutta per perdere di consenso, non si corre il pericolo opposto, che non debba salvarsi proprio nulla del ’92? 

“Assolutamente. Di quel periodo va invece salvata la spinta di molta gente in perfetta buona fede. Va salvata in parte l’autonomia della magistratura, da rivedere ma non da cancellare completamente col rischio di uno scenario ungherese o polacco, di asservimento all’esecutivo. È stata una stagione di grande speranza, che non va buttata via. Però dopo trent’anni credo che se ne possa parlare diversamente, abbandonando i radicalismi, senza vedere l’altra parte necessariamente come un nemico. Basta con la storia della ‘rivoluzione’ contro i ‘manigoldi’. Troviamo una medietà e una compostezza che dobbiamo anche ai nostri figli. Ecco, io vorrei poter parlare con i ragazzi dell’età di mia figlia di quella storia, e del nostro mestiere. Perché quella è stata anche la storia del nostro mestiere. E di come questo si possa fare con più autonomia, con più coraggio, e forse con più attenzione.”

Mani Pulite? Ha fatto meno errori di quelli che vede Buccini. Tano Grasso su L'Espresso il 4 dicembre 2021. Goffredo Buccini, "Il tempo delle mani pulite. 1992-94", Laterza, euro 18. Avevo appena finito di scrivere la recensione del libro dell’inviato del Corriere della Sera Goffredo Buccini che racconta i due anni di “Mani pulite”, dall’arresto di Mario Chiesa alle dimissioni dalla magistratura di Antonio Di Pietro, quando sono stato costretto a rivederla dopo che era apparso sul Corriere un editoriale dello stesso Buccini con il titolo “Trent’anni dopo ‘Mani pulite’: è tempo che la guerra finisca” (20.11.21). Lo si interpreti come un lungo post scriptum o un capitolo-bis di quello conclusivo del libro (“Trent’anni dopo”), l’articolo affronta problemi con un’accentuazione che non si era percepita nelle 232 pagine del libro. 

Nell’articolo Buccini interviene con più nettezza rispetto alla conclusione del libro dove auspica «la riconciliazione e il riconoscimento reciproco» come condizione per superare il «moto pendolare inesausto tra un giustizialismo fazioso e un garantismo peloso» (p. 231). Il problema è, prima ancora, intendersi su questa “guerra dei Trent’anni”, sui suoi protagonisti e se e in che modo è stata combattuta. È innegabile l’esistenza di quelle due correnti in settori di opinione pubblica, ma la loro dimensione varia nel tempo, a  volte si estende a beneficio dell’una e si restringe in danno dall’altra e viceversa.

Probabilmente continueranno a permeare il dibattito pubblico: per fare un esempio, il populismo ha sempre attraversato un pezzo di storia politica, per molto tempo è stato marginale, qualche volta è stato al Governo. La soluzione non si trova tra giacobini e garantisti.  La palla è nelle mani di chi non ha condiviso quei due miti o ha iniziato ad allontanarsene, un’area trasversale che deve essere ulteriormente estesa e, soprattutto, deve trovare voce autorevole per propugnare una normalità fondata sulla difesa dell’indipendenza e dell’autonomia dei giudici. Prima ciò avviene, prima andranno incontro ad un destino residuale.

Quindi, quando si parla di “guerra” è indispensabile distinguere lo scontro tra correnti d’opinione dall’aggressione di una parte politica contro la magistratura. Si tratta di grandezze tra loro incommensurabili. Bene ha fatto Buccini in tutte le pagine del suo libro a raccontare una storia che non ha avuto nulla di golpe giudiziario. Esiste un problema tra magistratura e politica e di tutela di un equilibrio istituzionale? Bene, si discuta di questo; ma non di una guerra che una parte politica (Berlusconi e dintorni) ha sferrato all’indipendenza della magistratura, una guerra dichiarata unilateralmente.

Vero è che negli ultimi anni si sono sommati errori, eccessi, degenerazioni all’interno di settori della magistratura italiana, ma questo non giustifica il riferimento ad una guerra combattuta tra due parti contrapposte. Né tanto meno la questione si può risolvere con un beau geste di Berlusconi. Altro serve, altri devono agire. Infine, temo che la tesi di una guerra a cui porre termine possa diventare un’idea consolatoria, idonea ad offrire nuovi alibi, rimandando tutto al punto di partenza in un disperato e ripetitivo gioco dell’oca.

Buccini offre varie possibilità di lettura del libro (come sottotitolo potrebbe avere “Col senno di poi”, un’espressione usata dall’autore in più luoghi). Spiega Primo Levi: «I fatti storici acquistano il loro chiaroscuro e la loro prospettiva solo a qualche decennio dalla loro conclusione». Può essere svolta una rigorosa valutazione storica su fatti e persone di 30 anni fa senza per questo mettere in discussione il valore di quella esperienza? Decisivo è non perdere il senso della storia: il senno di poi non può significare guardare con gli occhi di oggi, ma con il rispetto di quel contesto e di quel momento. Ciò non esclude di interrogarci sulla possibilità, per diversi attori (politica, magistratura, informazione), di alternative credibili. Erano possibili altre scelte? A partire dalla politica.

In questi anni è prevalsa una vulgata secondo cui le indagini dei giudici di Milano hanno determinato la fine della prima Repubblica. Non è così: la Repubblica dei partiti è deceduta per suicidio. Mani pulite è stata semplicemente la goccia che ha fatto traboccare il vaso di un sistema già da tempo agonizzante, come ha dimostrato la totale assenza di lucidità politica dei partiti negli anni 1992-93, sia nell’interpretazione degli avvenimenti che nella loro gestione: era come vedere pugili suonati in attesa della spugna sul ring.

Questa disfunzione ha continuato a caratterizzare in buona parte la vita politica negli anni successivi come se una forza oscura impedisse alla Seconda repubblica di crescere ed affermarsi. Buccini offre due importanti sollecitazioni. In primo luogo, emerge l’assenza cronica del principio di responsabilità politica, l’incapacità di esercitare una autovalutazione sui comportamenti dei propri dirigenti indipendentemente dagli esiti dell’azione penale. Una abnormità che continua a permanere ancora oggi nella vita delle organizzazioni politiche costituendo un gravissimo vulnus alla loro autorevolezza.

Quando Borrelli alla vigilia di Natale del 1993 a pochi mesi dalle elezioni politiche invita «chi farà politica domani», «chi sa di avere scheletri nell’armadio, vergogne del passato, apra l’armadio e si tiri da parte» (p.1 39), di fatto, pone la necessità di ricondurre l’azione penale alla sua fisiologica funzione e, dall’altro, sollecita i partiti a riappropriarsi del principio di responsabilità.

Naturalmente le esortazioni non sortiscono alcun effetto e, così, la storia continua a girare a vuoto. Se si consegna ai pubblici ministeri la selezione della propria classe dirigente ogni procedimento penale è destinato a diventare terreno di scontro politico. È da qui che nasce la stagione del populismo giudiziario, l’attribuzione di una funzione diversa dalla giurisdizione ai magistrati in quanto tali, chiamati ad assumere il ruolo di interprete delle reali esigenze di giustizia del popolo e a cercarne il consenso. Tutto è regolato dalla proporzionalità inversa: meno credibile e certa è l’assunzione di responsabilità politica, maggiore sarà la forza della delega alla magistratura. Il principio della responsabilità politica è la principale premessa per il recupero dell’autonomia della politica e, quindi, della sua autorevolezza, con conseguente ridefinizione del ruolo della magistratura secondo la sua funzione originaria.

Nel commentare l’esibizione di un cappio alla Camera dei deputati nella seduta del 16 marzo 1993, scrive Buccini: «La rivoluzione giudiziaria non sembra andare esattamente nel senso di un allargamento dell’area democratica del Paese» (p. 92). Ecco la seconda sollecitazione del libro. Solo la politica contro altra politica può determinare cambiamenti duraturi e non effimeri. Si è assistito in quel biennio a una situazione paradossale: tanto l’opposizione di destra che l’opposizione di sinistra, anche se questa con esitazioni e non sempre con compattezza, si sono trovati a cavalcare l’onda delle indagini milanesi, nel frattempo estese ad altre regioni (quasi in ogni procura italiana emerge un “dipietro”). Con un’inesorabile nemesi storica.

Tre decenni di storia politica hanno dimostrato che l’unico esito politico possibile della “rivoluzione giudiziaria” è il populismo politico e gli unici beneficiari, non a caso, sono stati la Lega, in quella fase politica, e il Movimento 5 Stelle negli ultimi anni. La Lega non ha tenuto conto che quella rivoluzione giudiziaria, prima o poi, sarebbe scesa dai gradini più alti per raggiungere quei settori, le cosiddette partite Iva, la cui ricchezza si fonda su margini, più o meno ampi,  di illegalità, a partire dall’evasione fiscale.

Buccini fa parlare Gherardo Colombo: «All’inizio delle indagini, le prove coinvolgono persone molto in alto, con cui quasi nessuno si può identificare […] Via via che l’inchiesta prosegue, però, le prove ci portano a scoprire la corruzione di persone comuni […] La disponibilità si trasforma in chiusura e i canali di afflusso delle prove progressivamente si inaridiscono» (p. 155). Per la sinistra il discorso è diverso: la lotta politica per via giudiziaria, estranea alla sua tradizione, si ritorce come un boomerang con il successo di Berlusconi alle elezioni del 1994; per poi ritorcersi anche contro il tycoon che con le sue televisioni aveva esaltato quei due anni di indagini. Già in questa fase inizia ad avverarsi la profezia di Sergio Cusani: «Il Paese dopo Tangentopoli potrebbe essere assai peggio di quello che c’era prima» (p. 130).

Veniamo alla magistratura. Le indagini da subito rendono evidente che non si tratta solo di finanziamento illecito dei partiti, secondo la tesi craxiana. Le imprese «pagando quei soldi truccavano a loro vantaggio le gare d’appalto e facevano fuori la concorrenza in modo sleale» (p. 90). Rispetto ai politici e ai giornalisti l’ambito per scelte alternative da parte dei magistrati nell’esercizio dell’azione penale è particolarmente ristretto: da un lato questa è disciplinata da norme precise, dall’altro ogni atto è sottoposto alla verifica dei meccanismi di controllo interni sino alle sentenze delle varie corti.

Se sul merito delle indagini, pur di fronte agli inevitabili errori e a certe forzature, si può tenere un giudizio moderatamente critico, le cose cambiano quando ci si riferisce all’approvazione popolare, un discorso che, scrive Buccini, «ha un retrogusto inquietante» (p. 128). È quello che avviene con il decreto Conso e quello Biondi. Nel 1993 Borrelli legge un comunicato per denunciare «la paralisi delle indagini» e la fine «di qualunque forma di collaborazione» (p. 92); l’anno successivo sono i quattro pubblici ministeri del pool a presentarsi davanti alle telecamere per accusare con la voce di Di Pietro quel provvedimento che «non consente più di investigare efficacemente i delitti su cui abbiamo finora investigato» (p. 177).

Oggi, di fronte a interventi di questo tipo, si avrebbe una quasi corale reazione di rigetto, nel mondo politico e nell’informazione; ma oggi quanto accaduto con il decreto Biondi non potrebbe accadere, anche perché il prestigio di cui gode l’ordine giudiziario non è per nulla paragonabile a quello di quegli anni. E nel 1993 e nel 1994? Nel primo caso, a parte alcuni esponenti dell’ex pentapartito, pochi sono quelli che mettono in discussione l’intervento del pool; nel 1994, in una situazione completamente diversa per il successo elettorale di Berlusconi, sull’iniziativa del pool si divide la nuova maggioranza costringendo il Governo ad un passo indietro.

La parte più interessante e originale del libro è quella con il diretto coinvolgimento personale dell’autore quando esamina il ruolo dell’informazione. Ed è come assistere ad una seduta di autocoscienza (e, ovviamente, anche di autocritica).  Intanto si apprende che il “pool dei giornalisti  ragazzini” che seguono le vicende di Mario Chiesa sono divenuti organo di polizia giudiziaria: «Le prime fughe di notizie pilotate seguono insomma questa doppia strategia: spaventare il detenuto che continua a tacere e fomentare l’opinione pubblica o, almeno, cercare di tenerla desta» (p. 19).

A proposito della tragedia di Sergio Moroni, il deputato socialista indagato e suicida, Buccini descrive bene il clima e i sentimenti prevalenti in una parte del mondo dell’informazione: «Dovremmo fermarci? Smettere di sparare ogni nome sul giornale? Impossibile mi dico […] Forse dovremmo fermarci a pensare, dovrei, forse dovremmo staccare, stoppare la macchina, discutere qualche giorno […] Ma il giorno dopo l’inchiesta ricomincia, altri arresti, altri avvisi, altri blocchi da cinquanta o sessanta nomi, sta cambiando il mondo, forse lo stiamo cambiando anche noi, sotto a chi tocca» (p. 67).

E, ancora, altri interrogativi a proposito dell’avviso di garanzia a Craxi, “il Cinghialone”: «Dovremmo chiederci se sia normale che un’inchiesta abbia un bersaglio, peraltro marchiato con un nomignolo così feroce. O se sia opportuno che i cronisti che la seguono vi partecipino con tanta foga da considerare un successo l’atto di accusa contro un indagato» (p. 74).

Quando poi maldestramente viene messo in discussione Di Pietro, Buccini è ancora più netto con la sua professione: «Abbiamo perso qualcosa di essenziale della nostra funzione, guardando troppo spesso in una sola direzione e non consentendo a tanti lettori moderati e non militanti di formarsi un’opinione davvero indipendente» (p. 127).

Tutte riflessioni che meritano di essere seriamente valutate ancora oggi: il potere dei media è immenso, incide sull’onore e la dignità delle persone, è un grande potere («Se il titolo è grande la notizia diventa subito importante», spiega seccamente il signor Kane in “Quarto potere”) che richiede grande responsabilità nel praticarlo. E, soprattutto, deve essere indipendente dagli altri poteri se vuole esercitare bene il proprio, offrendo, quando occorre, anche una valutazione critica sugli atti giudiziari.

“Una notte di luglio a Milano”, sicuramente il capitolo più bello e più coinvolgente del libro (la strage del 27 luglio 1993 in via Palestro a Milano), aiuta a capire cosa fosse diventata l’Italia in quegli anni: «Lo sbandamento è generale», scrive Buccini. «Forse il luglio ’93 è il mese più buio della Prima Repubblica, forse siamo già nella cosiddetta Seconda, noi non ce ne siamo accorti ancora ma i criminali sì e ci hanno anticipato» (p. 111). Anni terribili quelli, da Capaci a via d’Amelio, a Firenze, Roma, Milano e ognuno di noi da quegli eventi è stato indelebilmente segnato.

Mani pulite è una pagina positiva scritta da una magistratura finalmente indipendente: viene abbattuto il tabù dell’impunità dei colletti bianchi; politici, imprenditori, professionisti, funzionari rispondono davanti alla legge. Indubbiamente vi sono stati errori e forzature, ma non tali da alterare il giudizio d’insieme (neanche su Di Pietro: l’analisi del personaggio delineata dall’autore non mi ha convinto).

Nel tempo, e c’è ne è stato tanto, a quegli errori si sarebbe dovuto porre rimedio. Anche se non ho condiviso alcune affermazioni di Buccini, mi trovo d’accordo quando afferma che bisogna «smettere di chiedere ai magistrati di supplire alle nostre carenze, invocandone l’intervento salvifico dove non siamo capaci di riformarci come corpo sociale e politico, per poi dolerci delle loro invasioni di campo» (p. 231).

E ritorniamo alla politica: da un lato ha continuato a vivere con soggezione e subalternità il rapporto con la magistratura (una parte importante della sinistra) e, da un altro lato, si è scatenata in brutali campagne di delegittimazione e di attacco frontale all’indipendenza dei giudici offrendo quelle nefaste leggi ad personam (Berlusconi e dintorni). Tuttavia, neanche la magistratura ha dimostrato la capacità di porre rimedio a quegli errori, sino alle degenerazioni a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Ma sarebbe una grave mistificazione della Storia far risalire il “sistema” emerso con il caso Palamara all’esperienza positiva di Mani pulite.

"Il Tempo delle Mani pulite". La storia la scrissero i magistrati segnando la morte della politica. Francesco Storace su Il Tempo il 12 dicembre 2021. Un libro che riavvolge il nastro sulla politica italiana. Come eravamo, potremmo dire leggendo tutte le pagina de “Il Tempo delle mani pulite”, scritte da Goffredo Buccini – penna brillante del Corriere della Sera – edito da Laterza. Buccini è uno dei protagonisti di una storia trentennale: fu sua la notizia – diventata storia – che nel ’94 informò gli italiani dalla prima del Corrierone dell’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi. Era appena diventato premier, presiedeva un’importante riunione internazionale contro il crimine. I magistrati di Milano non lo perdonarono.

Per quanto tempo sei stato orgoglioso di aver dato per primo notizia di quell’avviso di garanzia a Berlusconi?

“Orgoglio non è la parola giusta. Pensavo di star facendo il mio mestiere e ancora penso di averlo fatto. Allora ero un cronista e il lavoro di un cronista è trovare notizie: quella era una signora notizia e, una volta accertato che fosse vera, andava data, senza se e senza ma. Naturalmente si poteva e si può discutere (e molto si è discusso) sull’opportunità che la Procura mandasse un invito a comparire a Berlusconi nei giorni di un vertice mondiale sulla criminalità che proprio Berlusconi presiedeva quale premier italiano. La Procura ha sempre sostenuto che la scelta di tempo fosse obbligata dall’indagine. Io ho sempre pensato che la scelta di tempo fosse infelice.”  

E immaginavi che sarebbe accaduto il finimondo?

“Certo che sì. Ed ero anche molto preoccupato. Nel libro racconto anche di quelle ore, dell’ansia, della notte insonne prima che la notizia fosse confermata. Eravamo certi di ciò che pubblicavamo sul Corriere della Sera, ma in un caso così delicato la certezza non è mai abbastanza. Poi ho impiegato anni per togliermi di dosso lo stigma di quella notizia. Ci sono notizie che possono schiacciare un giovane giornalista: e io ero giovane”. 

Quanto ha influito il giornalismo di mani pulite nell’azione dei giudici?

“Certamente l’azione di sostegno che il giornalismo fece in quegli anni è stata molto importante nella creazione di una certa mitologia sull’indagine e sugli inquirenti. Ed è stata anche responsabile di omissioni. Nel libro spiego chiaramente che avremmo dovuto guardare di più e meglio la vicenda e i suoi protagonisti. Eravamo, noi cronisti, giovani e quasi tutti formati a sinistra da ragazzi. Dunque, con un’idea precisa e preconcetta di verità riguardo alla moralità di certi socialisti autonomisti “traditori” della causa, a quella di certi imprenditori che parevano la caricatura della Piovra. Se per strada incontri un’inchiesta che ti dimostra proprio quelle cose, ti convinci che la verità sia tutta lì e non ci sia bisogno di guardarla da altre angolazioni. Sbagliato. E te lo spiego con un esempio. Sergio Moroni, il deputato socialista che si uccise a settembre 1992 dopo un avviso di garanzia, era colpevole, sì, di finanziamento illecito (lui stesso lo ammetteva nella lettera d’addio): ma non era un ladro, non s’era mai messo in tasca un soldo; la verità è una ma ci sono molti modi per spiegarla. Mettere tutti nello stesso calderone è stato uno sbaglio”.     

La politica è cambiata o è rimasta la stessa?

“La politica è morta. Le culture politiche non si sono mai riprese da allora. Trent’anni dopo il sistema è ancora in grave fibrillazione e in piena transizione, non è chiaro verso dove. Va però detto che la politica aveva fatto harakiri. La storia del golpe giudiziario è una balla. Durante tutti gli anni Ottanta i partiti avevano comprato consenso in cambio di debito pubblico e finanziamenti illegali in cambio di appalti truccati. Quando la crisi economica fa scarseggiare i soldi, salta il patto con gli imprenditori. Mani pulite nasce così, altro che golpe”.

Craxi, Berlusconi: trent’anni dopo li rileggi con lo stesso giudizio di allora?

“Craxi è luci e ombre. Ha avuto grandi intuizioni e grandi colpe: l’errore principale è che sei uno statista (e lui lo era) non puoi restare in latitanza con due condanne definitive addosso, stai dicendo agli italiani che dell’Italia non ci si può fidare. Al netto della vicenda giudiziaria, Berlusconi è ancora oggi parte della questione. Trent’anni dopo il Paese continua a dividersi tra berlusconiani e antiberlusconiani. È ora di smetterla e lui dovrebbe fare un passo verso la pacificazione: è l’unico che può farlo oggi tra i protagonisti di allora”.   

Perché la sinistra fu salvata?

“Intanto il Pds milanese fu investito pesantemente dall’inchiesta. Quanto al livello nazionale, penso che abbia fatto molta differenza lo schermo delle cooperative: quelli erano comunisti, non parlavano al primo tintinnio di manette, Greganti lo dimostra. E comunque il Pds fu miope, perché nessuno si è salvato. Una simile frana ammazza tutta la politica, senza superstiti”. 

E la magistratura? Davvero siamo tutti colpevoli e se assolti l’abbiamo semplicemente fatta franca?

“Quella è una (infelice) iperbole di Davigo che molti citano in modo strumentale. Direi però che la magistratura ha seguito lo smottamento della politica. È diventata pura lotta per il potere, le sue correnti stanno disorientando l’opinione pubblica, creando sfiducia tra la gente. E questo è molto pericoloso in termini di tenuta sociale”.  

Vedere Piercamillo Davigo sotto indagine che effetto ti fa?

“Premetto che considero Davigo un servitore dello Stato. Perciò provo tristezza. Citerei Aznavour: il faut savoir, devi sapere quando alzarti dal tavolo con grazia. Lui non ci è riuscito a tempo debito e gli stanno mettendo in conto trent’anni, non merita una demonizzazione ad opera per lo più di carneadi. Eviterei di cercare un altro capro espiatorio nella storia”.

Ogni anno mille innocenti - lo dicono i processi con le sentenze - vengono assolti. Il tempo non sembra cambiare mai 

“Il tema è ancora tutto sul tavolo da trent’anni (anzi da prima, se pensi al caso Tortora), in attesa di una revisione complessiva. Però la politica è troppo debole per affrontarlo, ha paura della gente: quindi passa ancora da eccessi di giustizialismo feroce a forme di garantismo peloso, si invoca tolleranza zero ma solo contro chi non ci sta simpatico. Occorre equilibrio, una dote che nel panorama politico contemporaneo sembra quasi del tutto assente”.

Il cittadino comune che assiste allo spettacolo che rivoluzione deve ancora attendere?

“Il cittadino potrebbe imparare prima o poi a non delegare la rivoluzione a qualche mallevadore cui poi attribuire tutte le colpe dei fallimenti nell’arco di una stagione. Per ricondurre la magistratura nel suo alveo forse basterebbe smettere di invocarla quale supplente quando non riusciamo a riformarci per via politica per poi demonizzarla a causa delle sue invasioni di campo. Lo Stato siamo noi non è uno slogan, è un programma per un domani migliore”.

L'impossibile memoria condivisa su Mani Pulite. Fu l’ultimo Berlinguer che rese giustizialista il Pci: nacque così il partito delle procure. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 5 Dicembre 2021. Sulla vicenda di Mani Pulite il dibattito è sempre aperto e probabilmente non si chiuderà mai, malgrado gli appelli melensi ad una impossibile “memoria condivisa”: e poi “condivisa” fra chi? Fra chi ha fatto un autentico colpo di mano mediatico-giudiziario e chi lo ha subìto? Dopo un’autentica, anche se atipica guerra civile (gli avvisi di garanzia, gli arresti, i titoli dei giornali, i telegiornali, Samarcanda, gli editti in diretta del pool dei pm di Milano che sono stati il corrispettivo dei carri armati e dei paracadutisti per cui Curzio Malaparte potrebbe scrivere una nuova edizione del suo libro: Tecnica di un colpo di Stato) la memoria condivisa è impossibile, a meno che la storia non sia scritta solo dai vincitori. Ma su questo terreno invece i vinti si sono fatti sentire e continueranno a farlo. Gli ultimi significativi contributi sull’argomento sono costituiti da due saggi sul Foglio, uno di Luciano Violante (Casellario dei veleni che hanno intossicato la giustizia), l’altro di Paolo Cirino Pomicino (Le conversioni di Violante), da un libro assai vivace, con intenti giustificazionisti, di Goffredo Buccini (Il tempo delle Mani Pulite) e un altro di Pier Camillo Davigo, L’occasione mancata (ma la principale occasione mancata è costituita proprio dal libro di Davigo che invece di impegnarsi in una riflessione critica porta avanti, fra minacce e rinnovate condanne, una esaltazione di tutti gli atti del pool e dei suoi protagonisti ). I due saggi sul Foglio si pongono su piani totalmente diversi. Luciano Violante colloca il suo saggio in una dimensione che, per usare una espressione cara a Gramsci, è “fur ewig”, quasi che negli anni cruciali dal 1970 al 2000 egli sia stato uno studioso indipendente. Invece dagli anni ’70 agli anni ’90 Violante è stato uno dei fondatori del giustizialismo sostanziale, ha operato a monte del Parlamento nella costruzione di un rapporto profondo fra il Pci e alcune procure, e poi dalla presidenza della Commissione Antimafia ha contribuito ad elaborare testi assai importanti.

Invece Paolo Pomicino ha scritto il suo saggio con il cervello, con la memoria storica, e anche con la partecipazione di chi da un certo uso politico della giustizia è stato colpito in modo molto duro. Alla luce di tutto ciò Pomicino, nel suo saggio assai polemico, finisce con l’attribuire a Violante il ruolo di deus ex machina di tutto quello che è accaduto. Invece, a nostro avviso, se si vuole andare davvero al fondo della questione, bisogna fare i conti con la storia del Pci dal 1979 in poi. Se li facciamo vediamo che è “l’ultimo Berlinguer” ad essere alle origini di tutto, compresa l’involuzione giustizialista dal Pds. L’azione politica sviluppata dal gruppo dirigente che ha cambiato nome al Pci e ha fondato il Pds (Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino e, appunto, Violante) è in assoluta continuità con quel lascito berlingueriano. “L’ultimo Berlinguer” (descritto in modo magistrale in un saggio di Piero Craveri sulla rivista XXI secolo – marzo 2002) ha prodotto due guasti. In primo luogo ha accentuato, non ridotto, le divisioni verificatesi fra il Pci e il Psi dai tempi dell’invasione sovietica dell’Ungheria: certamente Togliatti era un sofisticato stalinista e anche dopo il XX Congresso lavorò per ricostruire su nuove basi il legame di ferro con l’Urss. Però Togliatti non fu mai un giustizialista (la sua scelta per l’amnistia ebbe un significato profondo) e dal 1944 al 1964 mantenne sempre ferma la scelta strategica fatta dall’Internazionale comunista nel VII Congresso (I fronti popolari, il rapporto preferenziale con i partiti socialisti, la linea gradualista in Europa) e quindi non regredì mai verso il settarismo del VI Congresso (1928) fondato appunto “sul socialfascismo”. In secondo luogo Berlinguer con la sua enfatizzazione della questione morale e con la sua damnatio degli “altri partiti” (quasi che il Pci fosse davvero “diverso” da essi sul terreno del finanziamento irregolare) ha rappresentato una delle fondamentali scuole di pensiero (quella di sinistra), che hanno ispirato la successiva affermazione della demonizzazione dei partiti e dell’antipolitica.

Le altre scuole su questo terreno sono state tutte di destra o di ispirazione confindustriale e poi sono state anche quelle che hanno drenato più consensi. Di fronte all’ascesa di Craxi alla presidenza del Consiglio Berlinguer scartò nettamente la proposta del segretario della Cgil Luciano Lama che era quella di dare una sponda politica e sindacale alla novità costituita dal fatto che per la prima volta un socialista diventava presidente del Consiglio. Anzi Berlinguer fece la scelta del tutto opposta, quella della contrapposizione frontale. Ciò derivava da un’analisi totalmente negativa su Craxi e sul gruppo dirigente socialista sviluppata nel ristretto laboratorio cattocomunista che assisteva Berlinguer nella definizione della politica interna (invece in politica estera egli aveva una autonomia assoluta e faceva tutto di testa sua). In una lettera del 18 luglio 1978 Antonio Tatò, uno dei due consiglieri di Berlinguer in politica interna, scriveva “Craxi è un avventuriero, anzi un avventurista, un abile maneggione e ricattatore, un nemico dell’unità operaia e sindacale, un nemico nostro e della Cgil, un bandito politico di alto livello”.

Di lettere su questa falsa riga ce ne stanno altre. Partendo da un’analisi siffatta in una riunione della direzione Berlinguer sostenne che il Psi puntava ad acquisire la direzione del paese con la presidenza del Consiglio addirittura “sulla base di uno spostamento a destra” dell’asse politico. Berlinguer ammonì “di non dimenticare il periodo del cosiddetto “socialfascismo” in cui le socialdemocrazie avevano aperto la strada alla reazione e al nazismo con le loro posizioni antipopolari e antioperaie (attorno agli anni ‘30) per cui si potevano controllare i toni della polemica ma sarebbe stato un errore non mettere in chiaro la pericolosità della posizione del Psi”. Per chi conosce il valore di certe espressioni “simboliche” del linguaggio comunista la frase usata da Berlinguer a proposito di Craxi sul “socialfascismo” aveva un significato profondo. Da qui una scelta politica di fondo: il nemico da battere era il Psi di Craxi. Per altro verso l’alternativa lanciata a Salerno era contro tutto e tutti. Gli unici alleati possibili erano la sinistra cattolica e quella democristiana. Arriviamo così al 1989.

Cossiga capì subito che il crollo del comunismo avrebbe avuto conseguenze non solo per il Pci ma anche per la Dc, per il Psi e per i partiti laici. Egli sostenne l’esigenza di una profonda autocritica da parte di entrambi gli schieramenti contrapposti che duranti gli anni della guerra fredda avevano messo in atto molte illegalità. Questo invito fu nettamente respinto prima dal Pci di Berlinguer poi dal Pds e anzi Cossiga fu addirittura criminalizzato. A quel punto i cosiddetti poteri forti (dalla Confindustria a Mediobanca alla Fiat alla Cir, ad altri grandi gruppi) ritirarono la loro delega alla Dc e al Psi e anzi manifestarono forti propensioni per l’antipolitica e ancor di più una netta repulsione per la “repubblica dei partiti” e per le imprese pubbliche. Di conseguenza il Pds fu di fronte ad una scelta di fondo.

I miglioristi proposero di rispondere a tutto ciò con la formazione di un grande partito socialdemocratico e riformista e comunque con l’unità fra il Psi e il Pds. Invece sulla base dell’analisi e della linea politica di Berlinguer la risposta di coloro che Folena appellò in un suo libro I ragazzi di Berlinguer fu di segno opposto e fu espressa in modo lucido da Massimo D’Alema: “Che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo cambiare nome. Volevamo entrare nell’Internazionale socialista, dunque non potevamo continuare a chiamarci comunisti. Craxi aveva un indubbio vantaggio su di noi, era il capo dei socialisti in un paese occidentale, quindi rappresentava la sinistra giusta per l’Italia, solo che aveva lo svantaggio di essere Craxi.

Mi spiego. I socialisti erano storicamente dalla parte giusta, ma si erano trasformati in un gruppo affarista avvinghiato al potere democristiano. Allora avevamo una sola scelta: diventare noi il partito socialista” (Fasanella-Martini: D’Alema). Qui è il punto cruciale. Quando in seguito alla presa di distanza dai partiti tradizionali da parte dei poteri forti decollò il cosiddetto circo mediatico-giudiziario alle origini il Pds non ne faceva parte, tant’è che tremò sapendo bene di essere inserito a suo modo nel sistema del finanziamento irregolare dei partiti. Questa fu la ragione per cui Occhetto si recò per la seconda volta alla Bolognina per chiedere scusa agli italiani.

A sua volta per una fase Borrelli accarezzò l’idea che a un certo punto “il presidente della Repubblica come supremo tutore” avrebbe “chiamato a raccolta gli uomini della legge e soltanto in quel caso noi potremmo rispondere. Non basterebbe certo una folla oceanica sotto i nostri balconi, ma un appello di questo genere del capo dello Stato”. Quando fu chiaro che ciò non sarebbe avvenuto il vice procuratore capo Gerardo D’Ambrosio, da sempre militante del Pci, ebbe buon gioco a convincere Borrelli e gli altri che il pool aveva bisogno di un partito di riferimento e che esso avrebbe potuto benissimo essere il Pds, visti gli ottimi rapporti che il Pci aveva avuto con alcune procure strategiche (Milano, Torino, Palermo). Ecco che così il Pds ebbe un rapporto speciale con il pool di Milano e attraverso di esso poté procedere alla occupazione dello spazio storicamente coperto dal PSI distruggendolo per via mediatico-giudiziaria. In una prima fase questo disegno non fu contrastato dalla Dd perché Antonio Gava si illuse che consegnando Craxi e il Psi “ad bestias” tutta la DC si sarebbe salvata.

Le cose non andarono così: quando la ghigliottina si mette in moto essa non si arresta facilmente: in quel caso essa fu interrotta solo per la sinistra democristiana. A proposito di tutto ciò valgono le osservazioni fatte da un personaggio al di sopra di ogni sospetto come Giovanni Pellegrino, del Pds, già presidente della Commissione Stragi: “l’innesto di alcuni magistrati come Luciano Violante nel gruppo dirigente aveva finito col cambiarne (del Pds, n.d.r.) la cultura. Comincia a nascere un “partito delle procure” e si forma una corrente di pensiero secondo cui i problemi politici si risolvono con i processi. Il gruppo dirigente del partito era convinto che cavalcando la protesta popolare e con una riforma elettorale maggioritaria un partito del 17%, quale era allora il Pds, avrebbe conquistato la maggioranza assoluta dei seggi […]. Occhetto e parte del gruppo dirigente pensavano di avere il monopolio della astuzia […]. La nostra astuzia era al servizio di un disegno fragile che alla fine ha prodotto Berlusconi. Berlusconi è nato perché a sinistra in tanti erano convinti che la magistratura poteva essere la leva per arrivare al governo” (in G. Fasanella, G. Pellegrino, La guerra civile, Bur). Questi a nostro avviso sono gli elementi fondamentali di una vicenda che ha segnato in modo profondo la storia del nostro paese.

Comunque fra i protagonisti di quella stagione Violante è l’unico che negli anni 2000 ha portato avanti una riflessione critica e sostanzialmente autocritica. A parte il suo lungo articolo sul Foglio Luciano Violante ha il merito di aver fatto una battuta fulminante per commentare la situazione in cui si trova attualmente la magistratura italiana: “la prima riforma della giustizia da fare è quella della divisione delle carriere fra pm e cronisti giudiziari”. Quella battuta ci porta direttamente al libro di Goffredo Buccini. Nel 1992 Buccini era un giovanissimo giornalista del Corriere della Sera. Egli ricostruisce dal lato dei cronisti giudiziari quella che non fu una rivoluzione, ma una confusa guerra civile. Le rivoluzioni sono cose serie e producono anche una nuova classe dirigente di livello, una nuova cultura, nuovi valori. Le cose invece con Mani Pulite non sono andate così: sul mucchio selvaggio dai giovani cronisti descritti da Buccini, sugli avvocati accompagnatori, sugli imprenditori e su alcuni politici presi dalla sindrome di Stoccolma, si innestò una operazione politica fondata sulla scelta di due pesi e di due misure, uno adottato a favore del Pci-Pds e della sinistra democristiana, l’altro per colpire Craxi, i segretari dei partiti laici e l’area di centro-destra della Dc.

Ciò è avvenuto, come abbiamo già visto, perché i poteri forti dopo il 1989 hanno ritenuto di interrompere il loro rapporto globale (compresi i finanziamenti) con i tradizionali partiti di governo (Dc, Psi, partiti laici) per cui hanno dato licenza di uccidere agli organi di stampa da loro condizionati anche andando incontro nell’immediato ad alcune difficoltà di immagine e anche a vicende giudiziarie risolte come fecero Romiti e De Benedetti con alcune confessioni-genuflessioni fatte al pool dei pm di Milano. Di conseguenza un nucleo ben assortito di pm della procura di Milano non ha avuto più alcun condizionamento e si è scatenato “sulla politica”. A quel punto però se la razionalità e specialmente l’equanimità avessero prevalso sarebbero stati ipotizzabili due grandi operazioni. Una ipotesi era quella della grande e reciproca confessione (visto che il Pci era finanziato in modo ancor più irregolare della Dc e del Psi) come sostennero in modo diverso da un lato Cossiga, dall’altro lato Craxi nel suo discorso in parlamento del luglio 1992. Ciò avrebbe dato luogo a nuove procedure, a nuove regole, a una vera amnistia (non quella del 1989 che servì solo a mettere a riparo il Pci da conseguenze penali per il finanziamento del Kgb) e a un nuovo sistema politico di stampo europeo.

L’altra ipotesi sul terreno della equanimità era invece quella di una totale rottura per una ipotetica palingenesi con i magistrati assunti al ruolo di “angeli sterminatori” nei confronti di tutti i peccatori, vale a dire i partiti senza eccezione alcuna e i grandi gruppi imprenditoriali privati e pubblici. Avvenne esattamente il contrario, Mani Pulite fu gestita in modo del tutto unilaterale con i due pesi e le due misure a cui ci siamo riferiti precedentemente. Il libro di Buccini costituisce una straordinaria conferma di questa unilateralità. Tutti i cronisti giudiziari erano di sinistra e nessuno di essi ha mai contestato la grande mistificazione su cui si è fondata Mani Pulite. I segretari della Dc, del Psi, dei partiti laici “non potevano non sapere” e invece, per non far nomi, Occhetto, D’Alema, Veltroni “potevano non sapere” anche quando Gardini si recava a via delle Botteghe Oscure per incontrare uno o due di loro portando con sé una valigetta con dentro un miliardo. Buccini rimane all’interno del paradigma su cui si è fondato Mani Pulite quando sottovaluta il discorso di Craxi alla Camera del 1992, liquidandolo con la battuta: “tutti colpevoli, quindi nessun colpevole”: la sostanza era proprio quella; il finanziamento irregolare riguardava tutti da tempo immemorabile e a loro volta magistrati e giornalisti sapevano tutto benissimo. Solo che, indubbiamente in seguito a un fatto storico come il 1989, ad un certo punto qualcuno (in primo luogo i poteri forti) decise che le regole del gioco all’improvviso cambiavano.

Parliamoci chiaro: con i metodi adottati dalla procura di Milano Togliatti, Secchia, Amendola, Longo, lo stesso Berlinguer per interposti amministratori del partito, De Gasperi, Fanfani, i dorotei, Marcora, De Mita e Donat-Cattin si sarebbero venuti a trovare in condizioni analoghe a quelle di Bettino Craxi, di Forlani, di Altissimo e di Giorgio La Malfa. Buccini descrive anche quali erano i rapporti reali dei cronisti con il nucleo leninista dei pm: “Davigo mi ha preso a ben volere – riservatissimo e un po’ misantropo mi lascia intravedere a volte uno spiraglio di amicizia […] passeggiandomi accanto fra le file di uffici semideserti a quell’ora mi dice che quando nasceranno le Commissioni di epurazione dei giornalisti io dovrei proprio farne parte perché sono un ragazzo perbene: lo guardo e naturalmente deve stare scherzando” (Buccini, Il tempo delle Mani Pulite, pag. 145). “È un pezzo che mi sto curando Borrelli, Alfonso, suo segretario, mi guarda con il compatimento di uno zio affettuoso […]. La scena è abbastanza umiliante, devo ammetterlo, ma nel mestiere la sostanza conta più del talento” (idem, pag. 166) e “Borrelli mi dice […] in un’ennesima intervista, i colleghi in sala stampa mi sfottono acidi definendomi la penna preferita del procuratore, ma starebbero volentieri al mio posto” (idem, pag. 186). Infine, ma questa è invece un’osservazione assai seria perché va al fondo della questione: “l’indagine si è avvalsa e nutrita dell’uso smisurato delle manette” (idem, pag. 178).

A ciò va aggiunto che ci fu un unico Gip, cioè Ghitti, del tutto allineato, che addirittura parlò della liquidazione di un intero “sistema”. Infine, quanto al libro di Davigo, c’è un punto fondamentale che per molti aspetti è sorprendente e disarmante perché tratta con argomenti puramente giuridici una decisiva questione politica: “le successive indagini fecero emergere l’esistenza di un sistema nazionale in cui le principali imprese che avevano rapporti prevalenti con la pubblica amministrazione pagavano imponenti somme di danaro ai segretari amministrativi dei partiti di maggioranza mentre le cooperative rosse pagavano il Pci (dal 1991 Pds). La questione è stata oggetto di polemiche infinite sull’assunto che il Pci-Pds non sarebbe stato perseguito con la stessa energia con cui sarebbero state svolte le indagini nei confronti degli altri partiti, per poi trarvene l’accusa di politicizzazione agli inquirenti”.

In queste poche righe Davigo liquida una questione fondamentale perché dietro questo pretesto (quello che i segretari del Pci-Pds ignoravano l’apporto delle cooperative rosse mentre a loro volta i pm hanno volutamente ignorato che ad esempio la percentuale fra il 20 e il 30% riservata alle cooperative in sede Italstat, dove tutti gli appalti erano manipolati, era il modo con cui al Pci in quanto tale erano indirizzate enormi tangenti) è stata realizzata la manipolazione che ha portato a un uso politico della giustizia molto mirato. Se poi a questo si aggiunge che quando è stato provato che Gardini si era recato in via delle Botteghe Oscure per vedere i massimi dirigenti del Pds portando con sé una valigetta con dentro un miliardo si è trovato il pretesto per evitare di inviare ad essi un avviso di garanzia e in sede di processo Enimont il presidente Tarantola addirittura ha rifiutato di accogliere la richiesta dell’avvocato Spazzali di sentire Occhetto e D’Alema come testimoni perché quello era un processo totalmente dedicato a sputtanare i segretari dei partiti di governo, ecco che la misura è colma e l’unilateralità della operazione Mani Pulite è assolutamente evidente.

Infine non bisogna mai dimenticare che per due volte il pool fece una sorta di “pronunciamiento” contro proposte di legge del governo. Addirittura una volta, dopo aver fatto saltare il decreto Biondi, a Cernobbio il pool presentò una propria proposta di legge per la sistemazione di tutta la vicenda. Infine, ben due esponenti del pool, cioè il vice procuratore D’Ambrosio e il protagonista dell’operazione di “sfondamento” cioè Antonio Di Pietro sono stati eletti per più legislature nelle liste del Pds. Dopodiché oggi il risultato finale di un colpo di mano senza rivoluzione è del tutto evidente: leaders effimeri, che durano lo spazio di un mattino, partiti liquidi e movimenti privi di spessore politico e culturale. La conseguenza è netta. Nel momento più drammatico del nostro paese dal 1945 il destino dell’Italia dipende da due persone: Sergio Mattarella e Mario Draghi. Fabrizio Cicchitto

Il vuoto identitario e la ricomposizione della sinistra. Cicchitto sbaglia, Enrico Berlinguer non era un giustizialista. Michele Prospero su Il Riformista il 9 Dicembre 2021. Nella sua riflessione (uscita sabato sul Riformista) Fabrizio Cicchitto si interroga sulle ragioni della conversione al giustizialismo da parte dei comunisti. Ne indica due. La prima conduce alle relazioni intessute da Violante con alcune grandi procure, viste come il motivo che spiegherebbe una certa benevolenza dei magistrati verso le pratiche illecite di reperimento di denaro compiute anche dai vertici di Botteghe Oscure. Più interessante, rispetto a questo tasto polemico nel quale si avverte ancora la ferita aperta per la incidenza delle manette nella uccisione del Psi, è l’altro che coglie l’impatto di alcuni mutamenti intercorsi nella cultura politica del Pci già ai tempi di Berlinguer.

Non c’è dubbio che una distanza si avverte tra il primo Berlinguer, regista di una clamorosa espansione elettorale del Pci, e il leader che nei primi anni ’80 deve gestire una ritirata strategica che non riguardava solo la sinistra italiana. Uno dei punti più elevati della cultura politica di Berlinguer si può rintracciare nell’importante comitato centrale del giugno 1974, nel corso del quale egli riservò alcune bacchettate a Terracini, Longo, Spriano (su questo snodo ha richiamato l’attenzione G. Crainz, Il paese mancato, Roma, 2003, p. 495). In discussione era la recente legge sul finanziamento pubblico dei partiti e Umberto Terracini pronunciò un intervento durissimo nel quale (era ancora fresca la strage di Brescia) chiedeva lo scioglimento per decreto del Msi, senza attendere alcuna pronuncia dei tribunali. Inoltre egli si scagliava contro i soldi statali alle organizzazioni politiche. «Non c’è giustificazione che valga a tacitare lo stupore esterrefatto popolare», disse, dinanzi a «un provvedimento in sé impopolare» come quello della destinazione dei fondi del contribuente ai movimenti politici (comprese le formazioni neofasciste).

Anche Paolo Spriano concesse qualcosa alle istanze anti-partito dell’epoca asserendo che «se è vero che il termine classe politica è un termine di confusione e di mistificazione» occorreva tuttavia delineare una partecipazione di massa che andasse ben oltre «le rappresentanze tradizionali di partiti». Di altro segno erano le parole di Napolitano che, come risposta alle degenerazioni della politica, anticipò il tema delle «modifiche istituzionali che possono essere necessarie per superare la crisi di funzionalità del regime democratico». La replica di Berlinguer stigmatizzò come «puramente demagogica» l’ostilità di Terracini al finanziamento pubblico dei partiti. Molto nitide furono le sue connessioni tra autonomia della politica dai poteri privati (anche grazie alla copertura finanziaria pubblica dei costi della politica) ed effettiva moralizzazione della vita democratica. «Al di là della cortina fumogena di tutte le ipocrite prediche moraleggianti sulla classe politica», Berlinguer invitava a valorizzare, anche con i riconoscimenti economici necessari, la funzione democratica e costituzionale dei partiti.

Tra queste drastiche censure alla demagogia antipolitica e le parole, quasi da precursore di Travaglio, riportate nell’intervista a Scalfari sette anni dopo c’è un abisso. Forse aveva ragione Ferrara ad avanzare qualche dubbio sulla fedeltà della trascrizione. Comunque non era giustizialista il senso ultimo della diversità berlingueriana. Si trattava di un retaggio terzinternazionalista, presente anche in Togliatti o in Amendola, che lo coniugava con il rigorismo etico della destra storica, e che coincideva con il mito del partito, con l’intransigenza morale della militanza rivoluzionaria (“una scelta di vita”). E, più che ai tribunali, l’ultimo Berlinguer guardava alla fabbrica. Con un solco scavato rispetto al realismo totus politicus togliattiano, scendeva sul piano del sociale ed evocava «un movimento di massa che spontaneamente esprime l’animo popolare e la coscienza di classe».

È solo con la caduta dell’identità comunista che la diversità assumerà i colori del nuovismo e del giustizialismo raccattati nel mercato delle idee come surrogati dell’ideologia archiviata. Occhetto fece la scalata alla leadership con un impianto neocomunista che alludeva «ai vari salti qualitativi e non alle semplici correzioni miglioriste». Caduto il Muro, il vuoto identitario venne riempito con una tattica movimentista che collocava la Quercia vicino alle toghe e ai gruppi referendari. Scartata la via della ricomposizione della sinistra storica italiana, il modo di sopravvivere fu trovato dal Pds (come ha testimoniato Piero Sansonetti in un libro di alcuni anni fa, La sinistra è di destra, Milano, 2013) nella sintonia totale con i grandi giornali padronali rapiti dinanzi al fascino del tintinnio delle manette.

Più che in trattamenti di favore ricevuti nelle inchieste o in un condizionamento dei risultati dell’azione penale, il giustizialismo del Pds si può misurare nel rigetto di ogni soluzione politica a Tangentopoli.

La sua ostilità ad ogni risposta di sistema alle consuetudini di illecito finanziamento dei partiti pare riconducibile alla subalternità culturale rispetto alle forme dell’antipolitica che nei primi anni ’90 risultarono egemoni nella fase fondativa della seconda Repubblica. Si tratta di una manifestazione di giustizialismo ancora più pesante di quello “darwiniano” che lamenta Cicchitto, perché esso ha una radice culturale e ha scavato un fossato mai più riempito dai post-partiti che vagano impotenti nel tempo storico del populismo. Michele Prospero

Il dibattito. Su Berlinguer avevo ragione, la teoria del socialfascismo fu riesumata e applicata contro Craxi. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 12 Dicembre 2021. Fra il primo Berlinguer, quello che nel contempo teorizzò il compromesso storico e portò avanti la politica di unità nazionale (appoggio subalterno al governo Andreotti), e “l’ultimo Berlinguer” – quello dell’alternativa di Salerno, della questione morale e dell’intervista a Scalfari – c’è senza alcun dubbio una grande differenza. Mi sono limitato, testi alla mano, a rilevare che nell’ultimo Berlinguer c’è anche una riesumazione della teoria del socialfascismo applicata sul piano politico nei confronti di Craxi, che è la fondazione teorica e politica del successivo “giustizialismo” di coloro che non a caso Folena appellò, da nessuno contestato, come “i ragazzi di Berlinguer”.

Giustamente Michele Prospero parla di un retaggio terzinternazionalista, ma, a mio avviso, sbaglia a mettere nello stesso mazzo anche su quel piano Togliatti e Amendola da un lato e Berlinguer dall’altro. Come è noto fra Togliatti e Amendola esplose un duro dibattito in un famoso Comitato Centrale del Pci a proposito del XX e del XXII Congresso, tuttavia sempre il riferimento di entrambi al VII Congresso dell’Internazionale, con tutto quello che essa comportava (i fronti popolari, l’intesa prioritaria con i partiti socialisti, un certo gradualismo). Invece nella discussione su Craxi, anche nelle direzioni del Pci, a un certo punto il riferimento di Berlinguer che, come tutti i dirigenti comunisti, era molto rigoroso nell’uso di certe espressioni, il termine socialfascismo fu usato come consapevole riferimento al VI Congresso dell’Internazionale (quello appunto che segnò “la svolta” perché la situazione generale era prerivoluzionaria e che considerò i partiti socialdemocratici obiettivamente alleati del fascismo).

Fra la prima e la seconda fase ci fu anche un cambio di alleanze interne al Pci, come Michele Prospero e Piero Sansonetti sanno molto meglio di me: Berlinguer gestì la fase della politica di unità nazionale da un lato con la sua cerchia stretta (Luciano Barca, Fernando Di Giulio, Tonino Tatò, Ugo Pecchioli) e un’alleanza con la “destra comunista”, cioè con Gerardo Chiaromonte (che se non sbaglio era il suo secondo), con Giorgio Napolitano, con Paolo Bufalini e con Gianni Cervetti responsabile dell’amministrazione. Nella seconda fase le alleanza interne furono del tutto rovesciate, furono recuperati gli ingraiani, in primis Alfredo Reichlin, e oltre a Pecchioli svolse un ruolo assai importante Minucci. Ho fondato la mia lettura dell’ultimo Berlinguer sulla base di una serie di citazioni incontestabili. Francamente a proposito dell’intervista assai importante a Scalfari è molto debole il richiamo di Prospero a Giuliano Ferrara, che “avanzò qualche dubbio sulla fedeltà della trascrizione”: ma scherziamo?

Per chi conosce (ovviamente non io direttamente, ma c’è chi me ne ha parlato diffusamente, in primo luogo Luciano Barca del quale sono stato molto amico, come testimoniano anche le sue cronache) la pignoleria con cui Berlinguer e Tatò leggevano e rileggevano le interviste figurarsi se avrebbero concesso, fosse anche Eugenio Scalfari, una “forzatura” qualora essa non avesse espresso il pensiero reale del segretario del Pci. Siccome Michele Prospero cita Crainz, lo seguo utilizzando lo stesso storico nella rievocazione assai significativa di una discussione avvenuta a suo tempo nella direzione del Pci proprio a proposito del dibattito sull’accettazione del finanziamento pubblico, una discussione che mette in evidenza come in nessun momento su quel piano (quello del finanziamento irregolare, anzi, per usare la fraseologia adottata, del ricorso all’amministrazione straordinaria) Berlinguer avrebbe potuto parlare di un partito diverso dalle mani pulite.

“E’ uno squarcio illuminante il confronto che si svolge nella direzione del Pci nel 1974 quando è all’esame la legge del finanziamento pubblico dei partiti. La discussione prende avvio dalla esistenza di un fenomeno enorme di corruzione dei partiti di governo, ma affronta al tempo stesso con grande preoccupazione il pur periferico emergere di imbarazzanti compromissioni venute al nostro partito da certe pratiche. L’approvazione della legge è esplicitamente giustificata con la necessità di garantirsi una duplice autonomia […], autonomia internazionale, ma anche da condizionamenti di carattere interno […]. Non possiamo nasconderci fra noi il peso di condizionamenti subiti anche ai fini della nostra linea di sviluppo economica pur giusta per qualcosa di estremamente meschino (Napolitano). Nel dibattito non mancando ammissioni di rilievo molte entrate straordinarie dice il segretario regionale della Lombardia derivano da attività malsane. Nelle amministrazioni pubbliche prendiamo soldi per far passare certe cose. In questi passaggi qualcuno resta con le mani sporche e qualche elemento di degenerazione finisce per toccare anche il nostro partito (Elio Quercioli). È possibile cogliere in diversi interventi quasi un allarmato senso di impotenza di fronte al generale dilagare del fenomeno; la decisione di utilizzare la legge per porre fine ad ogni degenerazione del partito. Si deve sapere, dice Cossutta, che in alcune regioni ci sono entrate che non sono lecite legittimamente, moralmente, politicamente.

Questo sarà il modo per liberare il partito da certe mediazioni. Non chiudere gli occhi di fronte alla realtà, ma fare intendere agli altri che certe operazioni non le accetteremo più in alcun modo. Punto di riferimento deve essere l’interesse della collettività e faremo scandalo politico e una battaglia contro queste cose più di prima. È illuminante questa sofferta discussione del 1974. Rileva rovelli e al tempo stesso processi a cui il partito non è più interamente estraneo” (Guido Crainz, Il paese reale, pag. 32-32). Anche i miei riferimenti ai “ragazzi di Berlinguer” e al ruolo fra essi svolto da Luciano Violante (di cui ho colto le successive importanti e positive riflessioni) sono basati su fonti provenienti dal Pci-Pds, come quella offerta da Giovanni Pellegrino nel suo libro (con Fasanella) dall’emblematico titolo di La guerra civile. Concludo. Fra il “socialfascista” Craxi descritto da Tatò e accusato da Berlinguer in una riunione della direzione del Pci di lavorare addirittura per realizzare “una svolta a destra” attraverso la sua presidenza del Consiglio e quello successivamente attaccato come “ladro”, insieme ai miglioristi, da Occhetto e dagli altri “ragazzi” c’è di conseguenza un nesso assai stretto, quello che nella fisica lega la causa all’effetto. Fabrizio Cicchitto

Cicchitto: «Quel gip a disposizione dei pm era parte del sistema orchestrato dal pool». Intervista a Fabrizio Cicchitto dopo le rivelazioni di Guido Salvini: «Borrelli credeva che un nucleo di magistrati possa avere l'incarico dal Quirinale. L’idea tramonta ed è D’Ambrosio a spiegare al pool che serviva un punto di riferimento politico e tanto valeva guardare al Pds». Rocco Vazzana su Il Dubbio il 17 dicembre 2021.

«È incredibile che i grandi giornali italiani non abbiano ripreso una testimonianza così importante come quella che il giudice Salvini ha consegnato al Dubbio». Fabrizio Cicchitto – ex dirigente socialista, ex berlusconiano di ferro e oggi presidente di Riformismo e Libertà – non si capacita di come il racconto del giudice milanese sugli anni di Tangentopoli sia stato notato solo da Libero e dal Foglio. Salvini, allora come oggi in servizio all’ufficio gip di Milano, ha svelato infatti il “trucco” con cui il pool di Mani Pulite faceva in modo che qualsiasi richiesta di misura cautelare finisse sempre nelle mani dello stesso Gip: Italo Ghitti. «Era comodo per la procura avere un unico gip già sperimentato che per alcuni era già direzionato e non doversi confrontare con una varietà di posizioni di scelte che potevano incontrare all’interno dell’ufficio del gip», ha scritto Salvini su questo giornale.

«Così il pool escogitò un semplice ma efficace trucco, costruendo a partire dall’arresto di Mario Chiesa un fascicolo che in realtà non era tale, ma era un registro che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro, completamente diversi, unificati solo per essere gestite dal pol». Bastava dunque iscrivere qualsiasi reato con lo stesso numero (8655/92) e il goco era fatto. Una novità storica che oggi fa dire a Cicchitto: «È stata un’incredibile forzatura. Il pool aveva scelto un unico gip che poi, guarda caso, verrà promosso al Csm».

Cicchitto, perché ritiene la testimonianza di Salvini così importante?

Perché è quasi decisiva. Perché se unita ad altri elementi già emersi diventa evidente che le carcerazioni preventive facilissime venivano usate per le confessioni. La minaccia stessa del carcere veniva usata come ricatto per persuadere alcuni imprenditori a parlare in modo da colpire alcuni uomini politici, a partire da Bettino Craxi. Il racconto di Salvini inoltre rivela l’evidente unilateralità di tutta l’operazione: il sistema Tangentopoli riguardava tutto e tutti, ma Mani Pulite ha colpito in madiera discriminata, nel senso che non ha mai nemmeno sfiorato il nucleo dirigente ristretto del Pds.

Intende dire che c’era un progetto preciso di salvare il Pds?

È lo stesso Antonio Di Pietro a raccontarlo in qualche modo, quando parla un episodio cardine: la procura sapeva che Raul Gardini si era presentato con una valigetta contenente un miliardo di lire a Via delle Botteghe Oscure per incontrare Achille Occhetto e Massimo D’Alema. Ma non è mai saltata fuori la prova di questo fatto, nonostante Sergio Cusani e Carlo Sama siano poi stati condannati come corruttori.

Ma perché la procura avrebbe dovuto “coprire” solo una parte politica?

A un certo punto, in quella fase di tracollo politico, Francesco Saverio Borrelli crede che un nucleo di magistrati possa avere l’incarico dal Presidente della Repubblica. E quando questa idea tramonta è Gerardo D’Ambrosio a spiegare al pool che bisognava comunque avere un punto di riferimento politico e tanto valeva guardare al Pds col quale anche in passato, ai tempi del Pci, alcune procure avevano avuto rapporti profondi per la lotta al terrorismo e alle mafie.

Esistono altri elementi per sostenere una tesi del genere?

Esistono altri esempi: quando Giuliano Spazzali, avvocato di Cusani, chiese che venissero escussi come testimoni Occhetto e D’Alema in un processo specificatamente dedicato a mettere alla gogna i segretari di partito, il presidente Giuseppe Tarantola non lo consentì.

Quindi la magistratura, secondo questa analisi, avrebbe agito in maniera autonoma per distruggere il sistema dei partiti, salvo gli ex comunisti?

Secondo me alle origini di tutto quel terremoto non c’è la magistratura. Cossiga capì prima degli altri che nel momento in cui crollava il muro di Berlino le conseguenze avrebbero riguardato tutti, non solo il Pci. Anzi, sarebbero stati travolti anche tutti i partiti laici che godevano di una rendita di posizione data dal fatto che bisognava impedire che il Partito comunista più forte d’Occidente andasse il potere in Italia. Così quando lo spauracchio sovietico viene meno, un bel pezzo di mondo industriale ed editoriale, i poteri forti diremmo oggi, decidono di togliere la delega alla Dc e al Psi, proprietari atipici del sistema delle partecipazioni statali che doveva essere smantellato.

A colpi di avvisi di garanzia…

Il momento chiave arrivò quando Enrico Cuccia, tramite Salvatore Ligresti, inviò un messaggio a Craxi dicendo: «Cavalca la tigre, hai la personalità per intestarti un’operazione neogollista che mandi al diavolo il sistema partitocratico e prenditi come ministro dell’Economia Giorgio La Malfa». Craxi sottovalutò del tutto questo messaggio, convinto che il sistema dei partiti fosse più solido di quanto non fosse. La risposta di Cuccia fu: «Peccato, era la sua ultima occasione». A quel punto Craxi diventò il “cinghialone” e fu data “licenza di uccidere” a un pezzo del mondo editoriale e a un pezzo di magistratura.

Ma i finanziamenti illeciti esistevano davvero…

Che ci fosse un sistema irregolare di finanziamento ai partiti lo sapevano tutti in Italia, ma c’era un vincolo di sistema che teneva insieme tutto. Venendo meno quel vincolo, ovvero il comunismo, è venuto giù tutto, per cui la procura di Milano e il mondo dell’informazione hanno proceduto in quel modo. Pensi che ogni sera, alle 19, c’era una riunione tra i direttori di Repubblica, del Corriere e dell’Unità in cui venivano concertati anche i titoli sulla base delle soffiate dei pm. Questo meccanismo era infernale. Se capitavi in un gorgo di questo tipo e ti consegnavano un avviso di garanzia che veniva sparato su tutti i giornali e le televisioni la sentenza era praticamente già stata emessa.

Eppure il pool godeva di un immenso consenso popolare. Era tutto un abbaglio?

Quello che dice Salvini spiega come il circo mediatico-giudiziario rendesse impossibile la dialettica all’interno dello stesso mondo della magistratura: c’e un gip che approva qualsiasi richiesta della Procura, i tre o quattro grandi giornali che rilanciano, le tv, comprese quelle di Berlusconi, che fanno da gran cassa e il gioco è fatto. È facile trascinare la gente così. Ovviamente i partiti tradizionali erano usurati, ma non ci fu un’occasione per rinnovarli, ci fu un’occasione per distruggerli.

Tangentopoli è finita, il legame tra procure e informazione no. È l’eredità di quella stagione?

Quel sistema è rimasto assolutamente in piedi ma si è parcellizzato, come si è parcellizzato tutto, compresa la corruzione che non è più sistemica ma avviene per reti, con singole catene.

Mani Pulite fu una pagina cupa della giustizia italiana. I magistrati del pool di Mani Pulite celebrano il collega Francesco Greco, esaltando senza alcun rimpianto quella terribile stagione. Francesco Damato Il Dubbio l'11 novembre 2021. Delle cronache sulla festa celebrata in suo onore dai colleghi di Francesco Greco arrivato all’epilogo della carriera di magistrato come capo della Procura della Repubblica di Milano, al netto dei brindisi, della solita goliardia di Antonio Di Pietro corso dalla sua campagna molisana interrompendo la raccolta delle olive, e delle immancabili voci e allusioni sugli assenti, in questo caso dai nomi altisonanti di Pier Camillo Davigo e di Ilda Boccassini, ciò che mi ha colpito di più è l’occasione che non ha voluto lasciarsi scappare Gherardo Colombo per retrodatare l’epopea di cui un po’ tutti si consideravano i fortunati superstiti. Più che il 17 febbraio del 1992, quando l’allora presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa fu arrestato in flagranza di tangenti, diciamo così, cercando di buttare nello scarico del bagno una parte dei soldi che Di Pietro aveva contrassegnato come corpo del reato; più che questa scena non po’ tragica e un po’ anche comica di una tangente fra le tante che sporcavano non certo dal giorno prima la politica ambrosiana, al pari di tutta quella praticata nel resto del territorio italiano, e anche oltre; Gherardo Colombo ha voluto ricordare la circostanza tutta drammatica del suo approccio col tribunale di Milano. Gli era capitato, in particolare, di prendere praticamente servizio da magistrato il 29 gennaio 1979, quando il suo collega Emilio Alessandrini, di soli quattro anni meno giovane di lui, fu ucciso in auto da un commando di terroristi di “Prima Linea” mentre si dirigeva al tribunale. Ecco. Questa è la vera, epica storia della Procura di Milano che personalmente preferisco ricordare anch’io, riconoscendomi tutto e per intero nella parte dei magistrati, senza il cui sacrificio, senza la cui totalizzante fedeltà allo Stato temo che la democrazia non sarebbe sopravvissuta, Dell’altra epopea, invece, quella che prese il nome delle indagini “Mani pulite” contro il finanziamento illegale della politica e la corruzione spesso collegata, non sempre, come alcune sentenze avrebbero riconosciuto nella indifferenza generale, non mi sento per niente nostalgico, a dispetto dei tanti che invece la celebrano con puntualità: specie quelli che le debbono le loro fortune professionali di magistrati, politici e giornalisti. Sono passati gli anni e non ancora riesco a dimenticare, o a ricordare senza raccapriccio, le retate previste o preannunciate da quel cronista televisivo del Biscione, non della Rai, che parlava come un invasato mentre scorreva alle sue spalle il tram proveniente o diretto al tribunale. Né riesco a ricordare senza lo stesso raccapriccio le telecamere puntualmente appostate di notte davanti al portone da cui sarebbe uscito ammanettato il tangentaro vero o presunto di turno. Né riesco a togliermi dalla testa senza fastidio la faccia di quel magistrato ancora in servizio, ora chissà alla scalata di quale postazione giudiziaria, che dopo avere interrogato in carcere il povero, ormai ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari se andò in ferie così poco interessato, diciamo così, alla liberazione che ormai il suo imputato attendeva, da lasciarlo precipitare nella disperazione del suicidio. «Siamo stati sconfitti», si lasciò scappare pressappoco Di Pietro senza farsi minimamente tentare con quel plurale generoso, visto che a quel passaggio non aveva partecipato, ad un gesto riparatorio di dimissioni. Non riesco neppure a dimenticare lo sgomento del povero Giovanni Galloni, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, quando scoprì di avere fra i consiglieri, regolarmente eletto dai colleghi, un giudice di “Mani pulite” che, non potendo disporre l’arresto di un indagato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica a corto di competenza, indicava a matita sul foglio il diverso reato, con relativo articolo del codice, cui doversi richiamare per garantirsi l’assenso. Potrei continuare a lungo con questi ricordi non risparmiando nessuno, ma proprio nessuno dei tanti magistrati morti dicendo di avere fatto allora solo il loro dovere, inchiodati – senza avere peraltro tutti i torti in questo paradosso- alle leggi scritte e approvate dalla Camere come peggio non si potesse. Potrei continuare, dicevo, se non me ne avesse esonerato in qualche modo prima di morire Francesco Saverio Borrelli in persona, il capo carismatico di quella Procura. Che era cosi esaltato all’inizio della sua opera rigeneratrice da chiedere all’amico giurista Giovanni Maria Flick – come Il Dubbio ha appena riprodotto- se fosse proprio necessario celebrare i processi e scrivere le sentenze di condanna dopo tante confessioni spontanee di imputati. Ebbene, dopo una più lunga e proficua riflessione, ma soprattutto vedendo il mondo della politica e degli affari prodotto dall’epopea di “Mani pulite”, il povero Borrelli si chiese se fosse stato giusto davvero demolire tutto quello che era stato demolito della cosiddetta prima Repubblica, e se non fosse opportuno scusarsi con gli italiani per averli affidati in mani ancora peggiori. Le scuse, per quanto lo riguardavano, furono subito accordate in un libro autobiografico da Claudio Martelli, che peraltro era grato del riconoscimento ricevuto da Borrelli di essere stato se non il migliore, almeno fra i migliori ministri della Giustizia succedutisi fra la prima e la seconda Repubblica. Contro di lui, in effetti, diversamente da Giovanni Conso, da Alfredo Biondi, da Roberto Castelli, non apprezzato neppure come ingegnere acustico, Borrelli e i suoi emuli non si erano mai spesi in proteste e minacciosi annunci di dimissioni. 

Da ansa.it il 10 novembre 2021. Folla per la cerimonia di addio alla magistratura di Francesco Greco, il procuratore della Repubblica di Milano che sabato andrà in pensione. L'aula magna del palazzo di giustizia, che in genere viene usata per l'inaugurazione dell'anno giudiziario e per altre occasioni speciali, è gremita di persone, a partire dai vertici della magistratura e dell'avvocatura milanese e delle forze dell'ordine ma anche gli ex pm del pool di Mani pulite che hanno affiancato Greco durante Tangentopoli, e cioè Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo. Nell'aula è stato allestito un grande schermo su cui scorrono le foto più significative della carriera di Greco. "Le regole devono essere rispettate in primis dai magistrati", ha detto il procuratore di Milano Francesco Greco nel suo discorso commosso di saluto nell'aula magna, facendo anche riferimenti espliciti e impliciti alla bufera che si è abbattuta sulla Procura milanese e allo scontro col pm Paolo Storari, ovviamente non presente al commiato, come anche alcuni altri sostituti procuratori. "Non è la prima e non sarà l'ultima tempesta che l'Ufficio si troverà ad affrontare". "Al di là di tante chiacchiere e strumentalizzazioni - ha detto ancora Greco - lascio una procura organizzata ed efficace. Tra qualche giorno verrà presentato il bilancio sociale e i numeri lo dimostreranno". "Al di là dei dissapori, quando si saluta una persona, la si saluta perchè si è passata una vita insieme. Grazie per lo spirito di squadra che mi hai insegnato quando sono venuto qui a Milano. Vorrei tanto che ci fossimo tutti": sono le parole di Antonio Di Pietro, ex pm di Mani Pulite intervenuto a Milano alla cerimonia per il pensionamento di Francesco Greco. "Non si può dimenticare quello che abbiamo passato - ha aggiunto - Qui abbiamo fatto il nostro dovere e ne abbiamo anche pagato le conseguenze. Sono venuto qua a dirti grazie, quel grazie che non sono riuscito a dirti e ho avuto il coraggio di dirti allora", quando Di Pietro ha lasciato la magistratura. "Si può essere d'accordo o non d'accordo con le decisioni prese - ha concluso - ma quello che abbiamo fatto non era per sovvertire lo Stato ma per assicurare alla giustizia dei delinquenti". Nell'aula magna, è intervenuto anche Gherardo Colombo che ha ricordato che, a partire dal 1992, "abbiamo fatto tante cose e ce ne hanno fatte tante. Abbiamo condiviso momenti drammatici", ha affermato ricordando i suicidi di Raul Gardini e Gabriele Cagliari. "Abbiamo cercato di fare quello che ci diceva il codice con tante difficoltà e dolori". "Sono contento di essere qui a ricordare il passato - ha concluso - ma proiettati verso il futuro perché c'è una vita fuori, si può fare molto anche fuori", ha concluso Colombo che da 14 anni ha lasciato la toga.

La cerimonia di congedo. Greco ai saluti, l’Amara uscita di scena del Procuratore di Milano: “Magistrati in primis devono rispettare le regole”. Redazione su Il Riformista il 10 Novembre 2021. “Lascio una procura organizzata ed efficace i numeri e i risultati sono ben rappresentati al di là di tante chiacchiere e strumentalizzazioni”, ha detto Francesco Greco, procuratore capo di Milano, alla cerimonia di addio. Greco il 13 novembre compirà 70 anni e lascerà la magistratura. “Fra qualche giorno verrà presentato l’ultimo bilancio sociale che abbiamo stilato e i numeri e i risultati lo dimostrano”. Greco era diventato Procuratore nel 2016, da 43 anni nello stesso Palazzo di Giustizia. Arrivava da Roma (dove ha fatto da uditore in una breve parentesi) la sua città, anche se è nato a Napoli nel 1951. Cinque lunghi e complicati anni quelli a capo della Procura ambrosiana. Restano due procuratori aggiunti e diversi pm indagati dalla Procura di Brescia per la gestione dei casi più delicati nell’ultimo periodo, come la vicenda Eni Nigeria e il caso Amara. Successore da lunedì sarà Riccardo Targetti, ora procuratore aggiunto responsabile dei reati d’impresa, anche lui alla soglia dei 70 anni (andrà in pensione ad aprile). Nessun accenno al Processo Eni, al caso della presunta Loggia Ungheria, ai 56 su 64 pm che si sono opposti al trasferimento di urgenza del collega Paolo Storari. Non era aria oggi, non era il giorno. L’attenzione mediatica degli ultimi mesi aveva fatto urlare il Procuratore all’accerchiamento. In un’intervista a Il Corriere della Sera dal sapore del congedo, a inizio settembre, aveva sottolineato con enfasi “il tentativo di decapitare la Procura di Milano”, “un simbolo che deve essere abbattuto”. La giornalista Milena Gabanelli gli chiedeva se ci fosse un disegno più ampio dietro tutto ciò: “Veda lei. Se stiamo ai fatti la Procura di Milano rappresenta da decenni un’anomalia, per la capacità di svolgere un ruolo cruciale e sempre innovativo sia sul fronte della legalità politica ed economica nazionale e internazionale, che nei fenomeni criminali che accompagnano il costume sociale”. E quindi chiosava: “Sono certo che questa Procura non cambierà pelle … almeno me lo auguro”. Il Procuratore descriveva come “una coltellata alla schiena” il comportamento di Piercamillo Davigo nell’ambito del caso sulla Loggia Ungheria. Proprio Davigo era assente oggi alla cerimonia molto partecipata, come riporta Lapresse, con un’aula magna gremita per Greco. Assente anche Ilda Boccasssini. Presente invece Antonio Di Pietro. “Io sono venuto perché volevo ringraziare Francesco Greco e dirgli delle cose importanti che non avevo avuto modo di dirgli quando ho lasciato la magistratura”, ha detto Di Pietro mandando i suoi saluti proprio a Davigo. “Per me oggi era un momento così importante che ci sarebbero dovuti essere tutti” coloro che hanno fatto parte del pool di Mani Pulite, ha aggiunto Di Pietro, precisando però che per lui “c’erano tutti, o di persona o nel cuore”. L’introduzione nella cerimonia del pm Elio Ramondini sui “43 anni, 10 mesi, 9 giorni, 14 ore e 10 minuti, ossia tutti il tempo che hai consumato a fare il magistrato qua”, ovvero lui che “ci hai protetto all’inizio della pandemia, hai colto subito che era una cosa seria”. Presente anche Gherardo Colombo e l’ex procuratore di Torino Sergio Spadaro. “All’inizio non ci azzeccavo molto con questa procura – ha aggiunto ancora Di Pietro – e non ci azzeccavo molto nemmeno con Milano. Vorrei ringraziare Francesco Greco perché” all’interno del pool di Mani Pulite “mi ha insegnato a fare squadra” e “a stare bene con gli altri” e quindi “abbiamo fatto quello che abbiamo fatto perché volevamo fare bene il nostro lavoro, arrestare dei delinquenti al di là dei risvolti politici”. Colombo ha ricordato il giorno in cui con Greco appresero la notizia “del secondo suicidio in pochi giorni”, quello di Raul Gardini, dopo quello di Cagliari, e gli anni passati insieme, fatti anche “di tante sofferenze e tanti dolori. Sono contento di essere qui a ricordare il passato, ma proiettati verso il futuro perché c’è una vita fuori, si può fare molto anche fuori”. Greco, esperto di reati economico-finanziari, ha ricordato che quando ha preso le redini dell’ufficio da Edmondo Bruti Liberati, anche lui presente, “avevamo una giacenza di 130 mila processi, e noi l’abbiamo abbattuto a 80mila”. E che quindi “lascio una Procura che è in grado di affrontare le sfide nuove e complesse che derivano dal cambiamento del mondo e che proiettano il nostro lavoro in una dimensione sempre più globale, se è vero come è vero che la corruzione non ha confini. Io vedo sempre più un lavoro proiettato nel controllo del web” e nel “contrasto a cybercrime”. Nei suoi 5 anni da procuratore ha coordinato anche le indagini ‘Mensa dei Poveri’, quella sulla Lombardia Film Commission, l’inchiesta sullo sfruttamento dei rider e il caso di Dj Fabo. “Serve un profondo rispetto delle regole che devono essere rispettate in primis proprio dai magistrati – ha aggiunto ancora Greco – Non è la prima e non sarà l’ultima tempesta che questo ufficio dovrà affrontare”. Certo senza la loggia Ungheria, senza le dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara che hanno portato a un polverone e a un caso ancora tutto da decifrare e all’iscrizione nel registro degli indagati dello stesso Greco (per omissione d’atti d’ufficio, posizione comunque archiviata) l’addio sarebbe stato senz’altro più dolce.

Compie 70 anni e lascia la toga. Ritratto di Francesco Greco, il procuratore di Milano che va in pensione dopo 43 anni nello stesso Palazzo di Giustizia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Novembre 2021. Quarantatré anni nello stesso corridoio del quarto piano al Palazzo di giustizia di Milano, porta dopo porta, fino all’ultima in fondo, quella dell’ufficio più prestigioso, quando nel 2016 Francesco Greco è diventato procuratore capo. E oggi siamo all’epilogo, con il compimento di settant’anni fra tre giorni e la pensione. Una scadenza in genere non gradita, considerata come una mannaia sul collo da quei magistrati come Piercamillo Davigo affezionati alla professione e anche al ruolo di potere come il suo ultimo al Csm. Per Francesco Greco, che era arrivato giovane e scanzonato e rivoluzionario nel 1979 dopo l’uditorato a Roma, la sua città, potrebbe essere una liberazione. Da una storia che è stata un vero ottovolante: successi, vertigini di potere prima, angosce e pugnalate alle spalle dopo. Persino l’umiliazione di essere indagato dalla Procura di Brescia guidata da un suo ex sostituto. Che lo ha poi archiviato, un gesto amichevole e di pacificazione, pur se evidentemente dovuto. I sorrisi, le pacche sulle spalle, le ipocrisie si sprecheranno, all’aperitivo che gli è stato organizzato nel “suo” Palazzo che lo ha visto giovane incendiario e lo congeda anziano triste, forse. Sollevato per il distacco, magari. Certo, il fardello è pesante. E per fortuna che Francesco Greco non se ne va da indagato, le mani restano “pulite”. Del Csm, una volta lasciata la toga, può anche infischiarsi. Il bilancio del suo lavoro, che considera positivo senza falsa modestia, l’ha già consegnato in settembre ai lettori del Corriere nelle mani di Milena Gabanelli, un vero testamento politico. Con una pesante amputazione, però, la storia di Mani Pulite, accantonata con noncuranza e straniamento: non è la cosa più importante che ho fatto, ha stabilito. Se il dottor Greco fosse ancora quello degli anni settanta-ottanta, quello del “gruppo del mercoledi” che sognava di fare la rivoluzione anche attraverso le battaglie sul garantismo e contro la sinistra ufficiale, si potrebbe sperare in un ripensamento. È capitato ad altri suoi ex colleghi come Gherardo Colombo e in parte Tonino Di Pietro. Ma rimarrebbe comunque qualche ombra, come la ferocia con cui si è rivoltato al suo ex mentore Francesco Misiani, addirittura deferendolo al Csm. E poi la teorizzazione di un metodo, che verrà definito “ambrosiano”, quello del potersi tutto concedere. Non sono quisquilie, cavilli, formalismi. Violare costantemente la regola della competenza territoriale, nella presunzione di essere gli unici in grado di incastrare i potenti, non è solo arroganza, è violazione delle regole. Usare la custodia cautelare per strappare confessioni, soprattutto nei confronti di persone che alla vista o anche solo alla prospettiva del carcere avevano gravi crisi psicologiche, è stato violenza e sadismo. Giocare con gli indagati al gatto e il topo –come qualcuno ha fatto- e poi dire, come qualcuno ha detto, che i quarantun suicidi significavano solo che c’erano ancora uomini con il senso dell’onore. Tutto questo non si può cancellare come se la storia di questi quarant’anni fosse solo quella più recente in cui, oltre a tutto, si tende a giustificare più che rivedere, magari anche con gli occhi degli altri. Magari ricordando, quando si parla del processo Eni, che non c’è stato solo un gup che ha rinviato a giudizio, visto che poi c’è stato il dibattimento con tutti i problemi per cui i due pm d’aula sono indagati a Brescia per rifiuto di atti d’ufficio. E poi, visto che Francesco Greco, come sappiamo, in quella procura era presente anche ai tempi dell’inchiesta Enimont, potrebbe fare uno sforzo di memoria per ricordare che quella tra il colosso idrocarburi e la procura di Milano è storia maledetta e anche l’ossessione di qualcuno fin da allora. Potrebbe ricordare la maxitangente e spiegarci il perché di quell’arretramento di Di Pietro davanti al portone di Botteghe Oscure e dei suicidi di Cagliari e Gardini. Potrebbe aiutarci a capire l’ossessione nei confronti della creatura di Mattei, prima di precisare che la sentenza di assoluzione è solo quella di primo grado. Non si può continuare a dire che la Procura di Milano diretta da Francesco Greco è riuscita a portare a casa molto denaro facendo pagare le tasse ad alcune multinazionali e nello stesso tempo vantarsene sul piano internazionale sollecitando l’Ocse (la lettera dei quindici di cui abbiamo parlato ieri era la conseguenza dell’intervista di Greco al Corriere) a sanzionare l’Italia perché i poteri forti avrebbero preso di mira il suo ufficio. «Questa procura –aveva detto nella famosa intervista testamento politico- ha sempre rappresentato l’indipendenza e la libertà dei magistrati. È questo simbolo che deve essere abbattuto. Io non ho mai visto una campagna mediatica quotidiana così compatta e violenta come quella che è in corso in questi mesi, utilizzando la vicenda Storari e l’assoluzione in primo grado dell’Eni». Sorvoliamo sulla nemesi che colpisce anche chi fa uso di campagne mediatiche. Ma è difficile continuare a difendere un ufficio dove il capo non è riconosciuto come tale se non da quei pochi che sono stati promossi come aggiunti. Il piano triennale di riorganizzazione del procuratore Greco di due anni fa era stato bocciato, prima ancora che dal Csm, da tutti i sostituti, insofferenti, magari a torto, del giogo che il capo dell’ufficio aveva posto sul loro collo quando li aveva obbligati a consultare l’aggiunto di riferimento prima di assumere iniziative importanti. C’era stata una vera ribellione. Ma ancora niente rispetto al maremoto dei mesi scorsi, quando 59 su 64 si erano schierati, con una lettera inviata al Csm, con il pm Paolo Storari in seguito alle note vicende dei verbali passati a Davigo. Ma la cosa forse più grave, la manifestazione di una vera insofferenza nei confronti del capo era stata la presa di posizione di ventisette pm rispetto proprio all’investimento fatto da Francesco Greco sul pool per indagare sulla corruzione internazionale. Perché tutto sarebbe stato ricondotto, dicevano in sintesi i ventisette, all’ossessione dell’Eni. Con il sospetto che la creazione nel 2017 di questo dipartimento “Affari internazionali e reati economici transnazionali” affidata all’aggiunto Fabio De Pasquale, titolare dell’inchiesta sulla tangente da 1,1 miliardi e finita con l’assoluzione di tutti gli imputati, fosse legata soprattutto alla speranza di vincere quel processo e incastrare Eni proprio come negli anni novanta. Quanto è costato quel processo inutile e sbagliato? Forse anche questi conti vanno messi nel bilancio dei cinque anni in cui Greco ha guidato la procura di Milano. Insieme ai risultati positivi, che sono un po’ pochini, come la richiesta di assoluzione di Marco Cappato per il suicidio assistito di DJ Fabo o l’inchiesta sullo sfruttamento dei rider. Poi c’è l’inchiesta “Mensa dei poveri”, con ipotesi di corruzione politica locale, di cui sono però ancora in corso i processi. E se si considera che i dati su quelli per reati contro la pubblica amministrazione ci dicono che finisce con condanne definitive non più di un quarto, questa indagine, nel libro del bilancio tra i risultati positivi non può ancora essere inserita. Che voto dare a questi quarantatré anni, infine, procuratore Greco, nel giorno del suo saluto al Palazzo di giustizia? Per ora un “non classificato”. Perché mancano le sue risposte su quella terra di mezzo, tra quel ragazzo rivoluzionario che ci piaceva e quello di oggi che è un po’ carnefice ma anche un po’ vittima. Ma sulla terra di mezzo, quella in cui Milano fu definita Tangentopoli, città delle tangenti, e un gruppo di pm, di cui lei era il più giovane, osò definire come “pulite” le proprie mani (e sporche quelle di tutti gli altri), su quello non ha niente da dire?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” l'11 novembre 2021. Quando prendono la parola Gherardo Colombo, Armando Spataro, Antonio Di Pietro ed Edmondo Bruti Liberati per salutare l'ultimo della loro generazione ad andare in pensione, la sensazione è che con il collocamento a riposo di Francesco Greco si chiuda definitivamente non una pagina, ma un intero capitolo della storia giudiziaria italiana. Lo stesso che dalla fine degli Anni 60 ad oggi ha visto la Procura di Milano baluardo dell'indipendenza della magistratura tutta con indagini-simbolo coraggiose, come quelle su Piazza Fontana, P2, Tangentopoli, scalate bancarie, Toghe sporche e, in ultimo, sui giganti del web. In molte di queste inchieste, praticamente in tutte quelle sul mondo dell'economia, Greco è stato protagonista dalla parte dell'accusa, sin da quando per la prima volta, il 29 gennaio 1979, entrò, fresco di concorso, in un Palazzo di giustizia sconvolto dall'assassinio del magistrato Emilio Alessandrini poche ore prima. Come tutti i luoghi di lavoro, anche la Procura di Milano è stata attraversata nella sua storia da tensioni più o meno forti. L'ultima in ordine di tempo quella sulla vicenda della presunta loggia segreta Ungheria, che, con le inchieste disciplinari e penali che ne sono scaturite, ha lambito anche Greco, per il quale la Procura di Brescia ha chiesto l'archiviazione dall'accusa di aver ritardato l'iscrizione di personaggi ipoteticamente appartenenti alla stessa loggia. Una vicenda dolorosa che per Francesco Greco è arrivata al termine di una carriera lunga quasi 44 anni ed il cui retrogusto amaro si percepisce sullo sfondo della cerimonia di addio organizzata da alcuni suoi sostituti in un'aula magna che, affollata nonostante le limitazioni anti-Covid, deve però registrare l'assenza di altri due pensionati di spicco: Piercamillo Davigo, componente dello storico pool Mani pulite, coinvolto su fronte opposto nella vicenda Ungheria, e Ilda Boccassini. «Al di là di tante chiacchiere e strumentalizzazioni, lascio una Procura organizzata ed efficace in grado di affrontare le sfide nuove e complesse che derivano dal cambiamento del mondo», rivendica Greco guardando al minaccioso panorama del cybercrime mentre vengono proiettate le immagini più significative della sua carriera. «Abbiamo sempre fatto il nostro dovere», aggiunge, invitando i magistrati più giovani a non chiudersi «in una torre d'avorio», ma a seguire la vita del Paese consapevoli che «le doti di un servitore dello Stato devono essere la conoscenza, il coraggio e l'umiltà». Antonio Di Pietro vorrebbe che «al di là dei dissapori» i componenti del pool tornino a rivedersi da pensionati. «Non si può dimenticare quello che abbiamo passato facendo il nostro dovere, anche pagandone le conseguenze» in «un periodo di intensità disumana», afferma l'ex simbolo di Mani pulite prima di porgere a Greco, riferendosi a quando nel '94 lasciò bruscamente la magistratura in piena inchiesta, quel «grazie che non ho avuto il coraggio di dirti allora». A ricordare anche i «momenti drammatici», come i suicidi di Gabriele Cagliari e Raul Gardini, è Gherardo Colombo: «Abbiamo fatto tante cose e ce ne hanno fatte tante» quando «cercavamo di fare ciò che ci diceva il codice con tante difficoltà e tanto dolore». Per Armando Spataro, che ha concluso la carriera guidando la Procura di Torino, l'ufficio di Milano, dove ha lavorato decenni, è «una casa e anche una famiglia». Greco «ha dato corpo alla continuità del suo spirito».

Greco dice addio ma alla sua festa Davigo non c’è. «Abbiamo fatto quello che abbiamo fatto con coscienza, non per scopi politici, non per rompere l’ordinamento dello Stato, ma per assicurare alla giustizia dei delinquenti», è il saluto di Antonio Di Pietro alla cerimonia per il congedo del procuratore di Milano. Assenti Davigo e Boccassini. Il Dubbio l'11 novembre 2021. «All’inizio non ci azzeccavo molto con questa procura e non ci azzeccavo molto nemmeno con Milano. Sono venuto qui a dire grazie a Francesco perché nel frastuono di quei giorni, di quei momenti, non l’ho fatto, non ne ho avuto il coraggio. Grazie per quello spirito di squadra che è riuscito a darmi». Sono le parole di un collega di sempre, Antonio Di Pietro, ad accompagnare Francesco Greco al passo d’addio. Il procuratore di Milano andrà in pensione il 23 novembre, a 70 anni compiuti, lasciando dietro di sé le macerie di un ufficio che ora, a trent’anni da Mani pulite, rischia di finire a processo. Arrivato con una procura spezzata dalla contesa tra il predecessore, Edmondo Bruti Liberati, e il suo vice, Alfredo Robledo, Greco è il penultimo ancora in toga del pool di cui resta solo il più giovane del gruppo, Paolo Ielo, procuratore aggiunto a Roma. A investirlo il giorno della presentazione fu Francesco Saverio Borrelli, la guida dai magistrati di Tangentopoli: «Sono certo – disse – che sarà capace di pilotare la navicella puntando sulla coesione e l’armonia dell’ufficio». Di certo non avrebbe potuto immaginare che Greco avrebbe chiuso i suoi cinque anni a Milano nel mezzo di una guerra intestina. Una «tempesta» – quella seguita alla vicenda dei verbali di Amara e al caso Eni – che la procura è però in grado di superare «come tante altre», assicura Greco nell’aula gremita del tribunale dove oggi si è tenuta la cerimonia d’addio. «La mia speranza era che oggi ci fossimo tutti noi» magistrati del pool, dice Di Pietro puntando il faro su due assenze ingombranti: Piercamillo Davigo e Ilda Boccassini. «Abbiamo fatto quello che abbiamo fatto con coscienza, non per scopi politici, non per rompere l’ordinamento dello Stato, ma per assicurare alla giustizia dei delinquenti», chiosa l’ex pm. A ricordare quella «dolorosa» stagione è anche Gherardo Colombo, l’ex magistrato del pool che non manca all’appello e per l’occasione rimette piede nel Tribunale di Milano a distanza di 16 anni. Da parte sua, Greco molla il timone con la convinzione di lasciare una procura «ben organizzata ed effice». Al di là, sottolinea, «di tante chiacchiere e strumentalizzazioni». «Fra qualche giorno – spiega – verrà presentato l’ultimo bilancio sociale che abbiamo stilato e i numeri e i risultati lo dimostrano». Quindi il saluto commosso: «È difficile fare un bilancio di una storia durata quasi mezzo secolo e iniziata il 29 gennaio 1979 – racconta – il giorno in cui è stato ucciso Emilio Alessandrini, un magistrato che non mai conosciuto ma uno dei simbolo che mi hanno convinto a entrare in magistratura». «La storia degli uffici giudiziari di Milano – conclude Greco – ha accompagnato la storia di questo paese» dagli Anni di piombo alla connessione globale, «elencare la storia di questi anni è come un grande libro che attraversa le grandi questioni di questo Paese. Abbiamo sempre fatto il nostro dovere, si sono dette tante cose, ma da quel 29 gennaio a oggi sempre qui dentro sono stato. Non abbiamo fatto sacrifici, abbiamo compiuto il nostro dovere con responsabilità».

L'amaro brindisi del procuratore Greco. Lascia l'ultimo pm del pool di Tangentopoli. Luca Fazzo l'11 Novembre 2021 su Il Giornale. Il "capo" di Milano in pensione da indagato per il caso dei verbali di Amara. «Quarantatre anni, nove mesi, dieci giorni, nove ore e dieci minuti»: Elio Ramondini, che era insieme a Paolo Ielo uno dei ragazzi di bottega del pool Mani Pulite e oggi ha i capelli bianchi, calcola così il tempo trascorso da quando Francesco Greco ha indossato per la prima volta la toga di magistrato, nella grande aula del Palazzo di giustizia di Milano dove ieri si celebra l'addio di Greco, che domenica va in pensione.

Era l'ultimo ancora in pista di quella testuggine romana che era il pool, tutti diversi, ma inattaccabili sotto lo scudo compatto. Da lunedì, nel palazzaccio milanese di quella stagione gloriosa e terribile non resta neppure un protagonista. Greco se ne va dopo cinque anni alla guida della Procura: per celebrare la sua investitura, nel 2016, venne in tribunale Francesco Saverio Borrelli, che non nascose la commozione per l'approdo al posto che era stato suo, di uno dei «pulcini» del pool.

Della squadra che diede l'attacco a Tangentopoli, Greco - che veniva dall'indagine sui fondi neri Eni - era la mente economica, sponda ideale per l'irruenza di Di Pietro, le sottigliezze di Davigo, le analisi di Gherardo Colombo. Ieri ci sono sia Di Pietro che Colombo. Non c'è Davigo, e Di Pietro, nel suo intervento, non manca di notarlo: «Vorrei tanto che ci fossimo qui tutti, quelli di quei giorni. Perché abbiamo fatto un pezzo di vita insieme, e abbiamo fatto il nostro dovere con coscienza per assicurare alla giustizia dei delinquenti».

Ma Davigo non c'è, non può esserci, perché l'addio di Greco arriva nel pieno della tempesta che ha investito la Procura, e di cui Davigo - facendosi consegnare dei verbali segreti dal pm ribelle Paolo Storari - è stato uno dei motori. È finita che ora sono tutti sotto inchiesta, e a Greco toccherà andare in pensione da indagato perché il suo proscioglimento, già chiesto dalla Procura di Brescia, non è ancora arrivato. E l'ombra lunga di quella brutta storia si allunga inevitabilmente anche sulla cerimonia di ieri, si traduce negli sguardi per capire chi c'è e chi manca. C'è lo stato maggiore, ci sono (quasi tutti) i vice. Ma scarseggiano la base, i peones della Procura che nello scontro interno si sono schierati con Storari e contro il capo.

Greco, quando tocca a lui parlare, all'enorme pasticcio accenna appena: «Non è la prima né l'ultima tempesta che la Procura di Milano dovrà affrontare», dice. E non fa cenno al tema della sua successione, della gara ancora incerta che potrebbe per la prima volta portare alla guida della Procura ambrosiana un magistrato cresciuto lontano da questo palazzo, dalle sue tradizioni, dai suoi cerchi di amicizie e di ideologie. Di tutto questo Greco non parla. Ma nei giorni scorsi, chiacchierando con un vecchio amico, aveva mostrato tutte le sue preoccupazioni: «Chi oggi - aveva detto - invoca per questa Procura un papa straniero temo che in realtà abbia in mente solo la normalizzazione della Procura di Milano, ridurla a occuparsi di inchieste da cronaca locale». Perché, piaccia o non piaccia, questa è la Procura che negli ultimi trent'anni ha battuto per prima nuove strade, ha cercato orizzonti nuovi nei nuovi crimini dell'economia digitale, dello sfruttamento postindustriale, della corruzione internazionale.

Già, la corruzione internazionale: già fiore all'occhiello e ora croce della Procura milanese, con il naufragio delle inchieste contro Eni per le tangenti in Africa. Tutti assolti. «Ma al popolo nigeriano - diceva Greco l'altro giorno - in cambio di quei giacimenti enormi devo ancora capire cosa sia stato dato».

(Oltre a Davigo, ieri mancava anche Ilda Boccassini: ma dopo quello che ha scritto nel suo libro forse è stato meglio così).

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Roberto D’Agostino per “Vanity Fair” il 12 dicembre 2021. Tenetevi saldi. Trattenete il respiro. Governate lo shock. Di più: allontanate pure i pupi e i deboli di cuore. Il Gran Banana di Arcore, giunto alla tenera età di 85 anni, è più vispo che mai. E lotta insieme a noi. A ripeterlo, sono in tanti, giornali e telegiornali in prima fila: “Berlusconi rinfocola il suo sogno di diventare presidente della Repubblica”. Ci crede talmente tanto l’antico Caimano da contattare personalmente deputati e senatori a cui spiega il senso della sua candidatura al Colle elargendo consigli, battute, promesse. Lo stregone del Bunga Bunga è arrivato al punto di chiedere al fidato Gianni Letta di organizzare un incontro con il nipote Enrico Letta per discutere della sua elezione al Colle.

Al volto basito dell'Eminenza azzurrina, Berlusconi ha risposto con lo slancio messianico di chi è convinto di poter arrivare dove vuole: "Sono sicuro che se gli parlo, lo convinco". A rinforzare le ambizioni del Sire di Hardcore (lasciando tutti noi attoniti), è arrivato il sondaggione di Izi sul gradimento degli italiani al toto-nomi per il Quirinale.  

Al primo posto c'è Mario Draghi con il 23,4% delle preferenze seguito proprio da Berlusconi (20,6%) che ha superato in classifica il povero Mattarella con il 19,3% delle simpatie. Segue Pier Luigi Bersani con il 12%. Al quinto posto Emma Bonino con il 10,1% delle preferenze. Marta Cartabia si ferma al 5,2%. Seguono Paolo Gentiloni (4,1%), Pierferdinando Casini (2,4%), Paola Severino (1,9%). Chiude Giuliano Amato all'1,1%.

Certo che è dura. Durissima dover ammettere che un Peron con i tacchetti, un fabbricante di miliardi che ha svuotato il cervello degli italiani con quiz e indovinelli, un bigné in doppiopetto sempre truccato, con cinque figli e due mogli, sgradevolmente donnaiolo, che ne ha combinate di cotte e di crude. Come quella volta che, giovane editore in ascesa, firmò di venerdì un accordo per dividersi gli spazi pubblicitari con la concorrenza che sarebbe scattato dal lunedì successivo. Subito dopo riunì in ufficio i suoi agenti: “Avete sabato e domenica per acchiappare tutta la pubblicità che potete”. E quando il lunedì l’accordo entrò in vigore, non c’era più niente su cui accordarsi.

Verità o leggenda? Con Berlusconi la verità è leggenda e viceversa, lui stesso non è che le distingua sempre bene. Squisitezze del Silvio-pensiero in formato mignon. “Da giovane dicevo: pensa quante donne al mondo vorrebbero venire a letto con me e non lo sanno. La vita è un problema di comunicazione”. Ancora: “E’ importantissimo la mattina guardarsi allo specchio e piacersi, piacersi, piacersi”. Avanti: “Ricordiamoci che il nostro pubblico ha fatto la terza media e non era neanche fra i primi della classe”. La mejo, da incorniciare: “Gli sfigati non esistono. Esistono solo dei diseducati al benessere”.

Quando l’11 novembre del 2011 Berluscon de' Berlusconi fu costretto a girare i doppi-tacchi e abbandonare a furor di popolo e di spread Palazzo Chigi, il giudizio di politologi e intellettuali fu secco come un cassetto chiuso con una ginocchiata, un de profundis che si può così sintetizzare: “Berlusconi non ha un presente, né un passato e nemmeno un futuro. Possiede solo l'imperfetto di scopare”. Sic transit gloria mundi? Macché! Dopo una litania narcisate, fidanzate, badanti, olgettine, trapianti, processi, condanna ai servizi sociali compresa, cucù!, il Divino Cavaliere è tornato e si sbatte come un Moulinex per ascendere alla più alta carica dello Stato.

Oggi la grande Natalia Aspesi non si fa troppi problemi ad ammetterlo: "Sono terrorizzata dagli italiani. Più il Paese corre verso l'autodistruzione, più loro adorano i propri carnefici - tuona la giornalista - è come se si fossero trasformati in tanti piccoli lemuri che si precipitano entusiasti in fondo al burrone". 

Ma la domanda, a questo punto di non ritorno, è un’altra ed è terribile: come mai una tale moltitudine di italiani, tra Destra e Sinistra, preferisce gettarsi sul "Centro-frivolo" del berlusconismo senza limitismo? Perché un paese che si sbatte dalla mattina alla sera per arrivare alla fine del mese, da oltre vent’anni ha perso la testa per un miliardario donnaiolo che all’etica delle istituzioni ha sempre preferita la cotica dei propri affari?

Perché dentro di noi c’è il folle e sovente inconfessabile desiderio di essere un Berlusconi. Come Silvio Bellico, ogni italiano sembra essere tutto e il contrario di tutto: furbo e fesso, mammone e maschilista, drammatico e melodrammatico, geniale e pasticcione, coraggioso e vigliacco, razzista e tollerante, credente e miscredente, colto e ignorante, vitale e cialtrone, di destra e di sinistra. Un tipo che, quando gli chiedono qual è il complimento più bello che abbia mai ricevuto, risponde radioso: “La volta che, all’uscita da San Siro, un ultrà si gettò contro il parabrezza della mia auto gridando: sei una bella figa!”.

Vittorio Feltri contro Marco Travaglio: "Perché Berlusconi sarebbe meno affidabile del partigiano da salotto Napolitano?"  Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 13 dicembre 2021. Da qualche tempo in qua Calenda, nonostante tutto, mi è simpatico perché dice cose spiritose che contengono verità illuminanti. Recentemente, interrogato sulla prossima elezione del Capo dello Stato, ha detto che gli piacerebbe che venisse scelto Silvio Berlusconi, ma non per motivi ideologici, bensì per vedere la faccia di Marco Travaglio di fronte a quella che per costui sarebbe una immane tragedia. Per lo stesso motivo, sarei contento anche io se il Cavaliere entrasse al Quirinale, specialmente se portasse con sé nelle auguste stanze qualche bella pupa in grado di rallegrare il palazzo che fu reale.  Indubbiamente osservare l'espressione del direttore del Fatto quotidiano davanti alla notizia che il dominus di Arcore è diventato addirittura presidente della Repubblica, sarebbe uno spettacolo memorabile. Un divertimento ineguagliabile. Per non parlare degli articoli fantastici che il giornale di Marco, uomo a suo modo geniale, dedicherebbe per sette anni al cosiddetto garante della costituzione già leader di Forza Italia. Indubbiamente, con la sua stravagante uscita, Calenda ha rallegrato il mio pomeriggio domenicale a prescindere delle prestazioni dell'Atalanta.

Per parlare più seriamente, vorrei ricordare a Travaglio che sul Colle in un passato non remoto salirono personaggi ben più imbarazzanti di Silvio senza che nessuno si sia scandalizzato. Mi riferisco per esempio a Giorgio Napolitano, un comunista inossidabile, per altro ex fascista, la cui storia politica collide con le tradizioni democratiche. Un uomo di potere sicuramente astuto ma con la falce e martello ben stampato in testa, con cui non poteva osservare serenamente le regole imposte dalla nostra Carta.

In effetti gestì il baraccone repubblicano come fosse un negozio di frutta e verdura, a proprio piacimento, infischiandosene dei partiti poco amici della sinistra. Siccome si continua a ripetere fino alla nausea che il capo dello Stato deve essere un uomo al di sopra delle parti, il che appunto non succede mai, Travaglio dovrebbe dirci perché Berlusconi dovrebbe essere meno affidabile del partigiano da salotto di nome Napolitano. Senza contare che al Quirinale alloggiò perfino Scalfaro, brava persona, ma non certo simpatizzante per il centrodestra, come tutti ricordano quando manovrò per togliere il Cavaliere da Palazzo Chigi con l'aiuto di Bossi e D'Alema. E allora nessuno ci scocci con discorsi retorici sulle qualità richieste al prossimo numero uno della Repubblica. 

Giampiero Mughini per huffingtonpost.it il 10 dicembre 2021. Leggo sul “Fatto” di venerdì 10 dicembre la lettera di una lettrice, Susanna di Ronzo, entusiasta della loro petizione volta a dannare la candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale: “Ho firmato la vostra petizione con la soddisfazione di aver sostenuto una causa importante: impedire, se si riuscirà, l’evento più nefasto della storia repubblicana. Se avesse potuto, anche Mirtillo (il mio gatto, qui accanto nella foto) avrebbe firmato”. E dunque, con tutto il rispetto per il gatto Mirtillo e per i lettori del “Fatto” (un quotidiano che anch’io leggo ogni mattina), la domanda è la seguente. La candidatura di Berlusconi al Quirinale è in linea di principio davvero insopportabile per una “brava persona” com’è certamente la signora di Ronzo ma come certamente lo sono anch’io? Ho detto in linea di principio, per il resto ognuno sceglierà come vorrà. Quanto a me, se io fossi un parlamentare della Repubblica, su cento volte che si votasse per scegliere il Presidente della Repubblica cento volte apporrei sulla scheda elettorale il nome di Giuliano Amato. Se ne sto scrivendo, avrete capito che nel mio giudizio quella candidatura è del tutto legittima e questo perché Berlusconi appartiene in toto alla nostra storia repubblicana recente la più vera e la più profonda. Se è vero che la borghesia imprenditoriale e produttiva è un nervo centrale di una moderna società industriale, pochi altri borghesi italiani si sono fatti valere quanto Berlusconi. E’ sotto gli occhi di tutti, e purché non siano dei forsennati a dire la loro. Creare aziende, produrre, intraprendere, farsi strada a colpi di gomito nel mercato del denaro (la Mondadori era sulle soglie del burrone dopo il suo tentativo fallito di creare un canale televisivo privato) non è uno sport olimpico, e vorrei che qualcuno mi si presentasse a dimostrarmi il contrario. Malgrado le accuse e le sentenze a danno di Berlusconi, di quella storia lui non ne è un frutto marcio e basta. Tutt’altro. Ne è un protagonista assoluto nel bene e nel male, due valori che nella storia degli uomini non sono sempre separabili al modo delle due metà di una mela come credono o fingono di credere i beoti. Certo che Berlusconi è stato condannato per un’evasione fiscale che ammontava non ricordo più se a sette/otto milioni di euro, solo che in quello stesso anno la centrale televisiva da lui creata dal nulla di tasse ne aveva pagate allo Stato qualcosa di vicino a 750 milioni di euro. Se mettiamo le due cifre sulla bilancia, quale conta di più ai fini di un giudizio storico che guardi all’assieme dei fatti e al loro intreccio? O siamo ancora alla puttanata che Massimo D’Alema si lasciò scappare durante la campagna elettorale del 1994, quella in cui Berlusconi debuttò quale leader politico di centro-destra, e cioè all’augurio che Berlusconi si riducesse a dover chiedere l’elemosina a Parigi dopo essere stato bandito dall’Italia. Quanto ai miei rapporti con Berlusconi, metto le mani avanti. Fu lui a telefonarmi all’indomani di una trasmissione televisiva del 1992 di casa Mediaset dove un giornalista aveva pronunziato che Berlusconi aveva appena vinto un Oscar cinematografico e io gli avevo ribattuto che non era così, che era stato il regista italiano Gabriele Salvatores ad avere vinto l’Oscar per il miglior film in lingua straniera (“Mediterraneo”), un film prodotto dalla Medusa, la casa cinematografica di proprietà di Berlusconi. Ebbene lui mi aveva telefonato a ringraziarmi del fatto che io avessi parato quell’eccesso di lingua adulatrice. Qualche tempo dopo Berlusconi mi invitò ad Arcore, a dirmi che avrebbe voluto che io conducessi una trasmissione made by Mediaset. Non se ne fece nulla, niente di grave. Ho continuato a lavorare per Mediaset, ma non era lui il mio interlocutore. Non gli devo un euro o per averlo incensato a ora di pranzo nel maledire i magistrati d’accusa, o perché vendessero un fottìo di copie miei eventuali libri che lo infangavano dalla prima all’ultima pagina. Sto parlando di Vittorio Sgarbi e di Marco Travaglio? Sì, sì. Se mi piacessero quelle sue serate romane o milanesi dove di puttanelle a cena con Berlusconi ce n’erano gruzzoli? In linea di massima non metto becco nelle cose private degli uomini pubblici. Ho imparato a fare questo mestiere a un tempo in cui nessuno di noi avrebbe messo becco su quali fossero i nomi e i cognomi delle signore romane che andavano a far visita a Bettino Craxi all’ultimo piano dell’albergo Raphael di proprietà di un ex comunista. Una di loro, la mia indimenticabile amica Marina Ripa di Meana, me ne raccontava qualcosa. Erano fattacci di Craxi, e basta. Certo, a dire di un altro grande leader politico europeo che stravedeva per le donne, il francese François Mitterrand, ero contento che alle sue cene ci fosse Françoise Giroud, la direttrice dell’ “Express” che non mi ricordo più in quale anno venne indicata come il migliore giornalista di Francia. Fattacci loro, di cui terrei conto se dovessi scrivere una biografia dell’uno o dell’altro. Per il resto conta l’essenziale, e cioè che nel caso italiano e dopo che la magistratura d’accusa aveva distrutto i cinque partiti che avevano guidato la Ricostruzione italiana del secondo dopoguerra, non c’era in campo alcun altro leader politico a rappresentare il versante borghese e liberale del nostro Paese. Nessun altro se non Berlusconi. Tutto il resto è fuffa. 

La guerra dei trent'anni fra Rosy Bindi e Silvio Berlusconi: la pasionaria non sopporta il Cavaliere al Colle. Francesco Storace su Il Tempo il 26 novembre 2021. Sembra di tornare dieci, venti o trent’anni indietro, al tempo in cui Rosy Bindi e Silvio Berlusconi se le suonavano di santa ragione. Il capo azzurro arrivò ad etichettare la pasionaria bianca come “più bella che intelligente”, scatenando ovviamente la reazione piccata di tutta la sinistra. Ora, per via del Colle, nuova puntata con frecciatina televisiva da parte della Bindi. C’è una parte della sinistra – quella più estremista – che la vedrebbe volentieri al Quirinale, mettendo assieme due esigenze: una donna presidente della Repubblica e mettere all’angolo lo spauracchio di Silvio Berlusconi. Una sinistra che non sa chi diavolo candidare per la successione di Sergio Mattarella senza passare per Draghi sta in crisi di nervi. Ma la Bindi è andata da Lilli Gruber a dire che non ci pensa per niente a correre per la suprema carica dello Stato. Da antica democristiana, Rosy sa che i franchi tiratori da quelle parti sono sempre in agguato e non vuole certo andare al massacro. Ancora non è rimarginata la ferita di Romano Prodi fucilato sul campo, ad un passo dal Quirinale. E lei non vuole correre lo stesso rischio. Per questo, davanti alle telecamere di otto e mezzo su La7 è stata abbastanza precisa, si potrebbe dire definitiva. Oppure sibillina, dipende dai punti di vista, perché magari vorrebbe pure farsi pregare: “Io non sono candidata al Quirinale e sono abituata a rispondere alle domande importanti nelle sede proprie, non in televisione”. Come se non si parlasse d’altro in questo paese: presidenza della Repubblica e Covid. Poi, Berlusconi, che dalla Gruber non poteva certo mancare, sia pure come convitato di pietra: “Se facciamo il profilo del nostro Presidente della Repubblica, basandosi sulla Costituzione, quello di Silvio Berlusconi non è adeguato”. E magari, di fronte a giornalisti senza timore reverenziale, avrebbe dovuto rispondere anche a qualche altra domanda sul tema: inadeguato per il chiacchiericcio senza costrutto? Per una sentenza contestata da molti fatti? Perché è in politica dal 1994, ovvero da molto tempo dopo la Bindi? Perché è stato presidente del Consiglio? Perché è deputato europeo? Oppure, semplicemente perché Silvio Berlusconi non è di sinistra e anzi l’ha sconfitta diverse volte? La stroncatura della Bindi sa di vendetta personale, di astio e non ha nulla di politico. Il che non è il massimo parlando della più importante carica istituzionale della Repubblica. Ma così si dimostra lei inadeguata al ruolo. Rinunci a farsi pregare dalla sinistra con il suo rifiuto un po’ sì un po’ no, madame Bindi.

"Berlusconi al Colle? Mi vergognerei di essere italiano": le parole choc di Davigo. Marco Leardi il 16 Novembre 2021 su Il Giornale. L'ipotesi di vedere Silvio Berlusconi al Quirinale fa innervosire l'ex magistato di Mani Pulite, che in un dibattito su La7 si lascia andare a un fragoroso commento sul tema. A sinistra non si danno pace. Il solo fatto che il nome di Silvio Berlusconi circoli per la corsa al Quirinale crea, da quelle parti, isterismi, mancamenti, reazioni impetuose. E attacchi gratuiti. Come quello formulato a diMartedì da Piercamillo Davigo. All'ex magistrato di Mani Pulite è bastato considerare l’ipotesi di ritrovarsi il Cavaliere alla presidenza della Repubblica per perdere il controllo e sparare la dichiarazione fragorosa a favore di telecamera. Durante il dibattito su La7, era stato il conduttore Giovanni Floris a stuzzicare Davigo sull'argomento, andando a toccare le corde giuste per provocare l'ospite. "Se si trovasse presidente della Repubblica Berlusconi, tra qualche mese?", ha domandato il giornalista all'ex magistrato. E lui, d'istinto: "Comincerei a vergognarmi ancora di più di essere italiano". Una frase roboante e non troppo democratica, che lì per lì ha creato un momento di gelo, prima che il confronto ripartisse. Non è certo la prima volta che Davigo esprime la propria ostilità verso Silvio Berlusconi; lo aveva fatto anche in un suo libro di recente pubblicazione. In esso, aveva addirittura riletto a modo suo le sentenze dei processi Sme e Mondadori, per i quali il Cavaliere era stato assolto con formula piena. Secondo l'ex magistrato, tuttavia, il leader di Forza Italia non è da considerarsi un innocente ma un colpevole "che l'ha fatta franca". Sicché, il tenore delle odierne uscite di Davigo sull'ipotetica elezione al Quirinale di Berlusconi non stupisce affatto e anzi, si aggiunge solo a quello che si può considerare un variegato repertorio. Nella medesima puntata di diMartedì, l'ex magistrato ha anche commentato l'indagine che lo vede coinvolto a Brescia con l'accusa di rivelazione di segreto d'ufficio. "Non è un cerchio che si chiude", ha commentato Davigo in riferimento a chi fa notare che ora è lui a vivere la giustizia dall’altra parte del tavolo. Poi ha aggiunto: "Ho già detto che è una imputazione che io trovo sconclusionata, non sono preoccupato. Non me la prendo con la Procura, mi difenderò nelle sedi opportune".

Marco Leardi. Classe 1989. Vivo a Crema dove sono nato. Ho una Laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d'impresa, sono giornalista. Da oltre 10 anni racconto la tv dietro le quinte, ma seguo anche la politica e la cronaca. Amo il mare e Capri, la mia isola del cuore. Detesto invece il politicamente corretto. Cattolico praticante, incorreggibile interista.

Il solito vizio di Davigo: "Berlusconi? Colpevole che l'ha fatta franca". Luca Fazzo il 12 Novembre 2021 su Il Giornale. L'ex pm di Milano riscrive le sentenze Sme e Mondadori: "Graziato da toghe benevole". Lui non c'era. Quando si trattò di andare all'attacco, sferrando quello che doveva essere il colpo finale a Silvio Berlusconi, Piercamillo Davigo si tirò da parte. A raccontarlo è la collega che dei processi negli anni Novanta per il «caso Ariosto» fu la protagonista indiscussa, Ilda Boccassini: che nel suo libro uscito da poco, La stanza numero 30, scrive: «Il peso delle indagini gravava su di me e Gherardo Colombo. Davigo era contrario, disse che se lo costringevano ad andare in aula avrebbe intentato causa civile per astenersi». Ora anche Davigo ha scritto un libro, L'occasione mancata. Dove di quella battaglia combattuta da altri si riappropria, rivendicandola come se l'inchiesta e il processo li avesse fatti lui. La battaglia, come è noto, finì per il pool con una sconfitta sonora, con Berlusconi assolto con formula piena sia nel processo Sme che in quello per il Lodo Mondadori, scaturiti entrambi dalle dichiarazioni di Stefania Ariosto, la «teste Omega» dei rapporti tra i legali del Cavaliere e alcuni giudici romani. Ma nel suo libro Davigo liquida quelle assoluzioni come una dimostrazione di «grande benevolenza» da parte dei giudici che in udienza preliminare, in appello e in Cassazione si occuparono delle accuse a Berlusconi e ritennero che non ci fossero le prove di un suo coinvolgimento negli episodi contestati: per i quali secondo Davigo c'erano invece «fatti inoppugnabili», «ampiamente riscontrati e integrati da prove documentali». Berlusconi per Davigo non è un innocente ma un colpevole «che l'ha fatta franca»: categoria cui, come è noto, per il «Dottor Sottile» appartengono quasi per intero gli imputati che (magari dopo anni, magari dopo essersi fatta la galera) vedono riconosciuta la propria estraneità. Le assoluzioni sono di solito degli errori giudiziari. E l'assoluzione, tutte le assoluzioni del leader di Forza Italia sono errori anche loro: il caso Sme, la Mondadori, e prima ancora quella per le tangenti alla Guardia di finanza, l'accusa che portò al famoso avviso di garanzia del novembre 1994 durante il summit di Napoli. Secondo Davigo la Cassazione per assolvere Berlusconi si sarebbe rimangiata la sua stessa «giurisprudenza consolidata» sui criteri di valutazione delle prove: quisquilie giuridiche, insomma. Peccato che l'assoluzione di Berlusconi nel 2001 sia tranchant, e parli dell'assenza di «prove dirette né orali né documentali»; e che nel 2009 la Cassazione assolse anche due collaboratori di Berlusconi, Marinella Brambilla e Nicolò Querci, e anche in quella sede la ricostruzione degli stessi fatti su cui ora si basa in buona parte il libro di Davigo venne liquidata come «una serie di congetture del tutto opinabili, rimaste prive di alcun riscontro». Tutto ciò non conta. Se l'occasione di far fuori Berlusconi per via giudiziaria fu, come dice il titolo del libro di Davigo, L'occasione mancata la colpa secondo l'ex pm milanese non fu dell'innocenza dell'imputato o della mancanza di prove: ma dei giudici che pur «alla luce delle prove raccolte» e «a fronte delle condotte volte a impedire o rallentare i processi» e «della straordinaria gravità dei fatti» dimostrarono «grande benevolenza». Comunque per Davigo non è detta l'ultima parola: «su questo si pronunceranno gli storici quando le passioni saranno spente». Nell'attesa che gli storici dicano la loro, resta una curiosità: se le cose andarono come dice la Boccassini, perché Davigo di occuparsi del processo a Berlusconi non voleva neanche sentire parlare?

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Il libro "L'occasione mancata" dedicato al Cav. Le assoluzioni di Berlusconi? Per Davigo sono colpa dei giudici. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Novembre 2021. Non ha fatto neppure in tempo a fare una scappata al Palazzo di giustizia, pur abitando a due passi, per partecipare al commiato del suo “caro amico” Francesco Greco. Piercamillo Davigo era troppo impegnato con un altro “caro amico”, Silvio Berlusconi, cui ha dedicato il lancio in anteprima del suo libro, L’occasione mancata, edito dal Fatto e pubblicato sul Fatto. Quando si dice la fedeltà. Bisogna dire che l’ex “dottor Sottile”, piercavillo o pieranguillo che sia, non delude mai per originalità. La sua tesi è che Silvio Berlusconi non solo non è stato mai perseguitato dalla magistratura, ma addirittura è stato privilegiato e protetto. Da chi? Niente di meno che dai giudici. Cioè da coloro che emettono le sentenze, quelli che dividono i colpevoli dagli innocenti, insomma. Per Davigo quel che conta è il parere del pubblico ministero, l’ipotesi da cui partono le indagini. Questa è l’unica verità, mica il risultato di quel che succede nei tribunali al termine dei processi. Le sentenze, insomma. Va riconosciuto all’ex pm milanese ora pensionato, di non usare nei confronti del leader di Forza Italia la solita tiritera delle “leggi ad personam” (su cui nessuno spiega mai se fossero norme giuste o sbagliate per il “signor chiunque”, l’unico nominato dal codice penale) piuttosto che delle prescrizioni. No, lui cita, in un caso anche con dovizia di particolari, tre famose inchieste che si sono concluse con l’assoluzione di Berlusconi. Tre esempi che gli servono per concludere che «l’atteggiamento dei giudici, all’esito dei vari gradi di giudizio… non può che essere definito di grande benevolenza». Speriamo non intenda alludere a qualche forma di corruzione nei confronti dei suoi ex colleghi del settore giudicante. Sembra invece piuttosto l’eco di quei film e filmetti che suonavano più o meno così: la polizia arresta e la magistratura scarcera. Inni alla custodia cautelare. E si può supporre che in quei casi uno come Davigo starebbe dalla parte dei carcerieri. È un finto arreso, gli va dato atto di mostrarsi sempre indomito, anche quando aveva fatto una figura meschinella nel non volersi scollare dal ruolo di consigliere del Csm. Anche quando, come ieri nello scritto sull’organo di famiglia delle toghe requirenti, cita malamente l’ “habent sua sidera lites” (ogni controversia segue il suo fato), di Piero Calamandrei, come se davvero pensasse che la giustizia è una sorta di gioco da non prendere troppo sul serio. Ma Calamandrei nel suo Elogio dei giudici scritto da un avvocato del 1935, mette proprio in guardia, con parole di grande incoraggiamento, i giovani legali dall’arrendersi alla sorte dell’amministrazione della giustizia: «Ma tu, o giovine avvocato, non affezionarti a questo motto di rassegnazione imbelle, snervante come un narcotico… mettiti fervidamente al lavoro colla sicurezza che chi ha fede nella giustizia riesce in ogni caso, anche a dispetto degli astrologi, a fare cambiare il corso delle stelle». La causa può perderla l’avvocato difensore, ma anche il rappresentante dell’accusa. Ed è questo che Piercamillo Davigo non accetta. Non solo perché vorrebbe sempre vincere, ma perché pare per lui inconcepibile che dei giudici abbiano osato ribellarsi all’ipotesi accusatoria. Possiamo azzardare anche che l’orgoglio ferito frigga ancor di più se gli sconfitti sono un pm elogiato per la sua competenza e insieme la procura di quelli bravi, i Migliori, quelli di Milano? Aggiungiamo maliziosamente che se quello che ha vinto i processi si chiama Silvio Berlusconi, sono chili quelli del sale sparso sulle ferite. Il processo che rode di più è quello delle tangenti alla guardia di finanza. Davigo ne descrive minuziosamente i passaggi, e più si legge più si capisce (anche per chi non è avvocato né magistrato) quanto inconsistenti fossero quelle “prove” a carico dell’allora presidente del Consiglio, come rilevato dalla Cassazione che lo assolse “per non aver commesso il fatto”. Stiamo parlando dell’inizio della persecuzione giudiziaria – parola che a Davigo non piace, ma a molti sì, si rassegni- con il famoso invito a comparire mentre Berlusconi presiedeva un incontro internazionale sulla criminalità a Napoli e lo scoop del Correre della sera che ne diede notizia. C’è poco da scherzare e da invocare il fato e le stelle, caro dottor Davigo. Non c’era alcuna prova che Berlusconi avesse commesso un reato, e quel fatto, scoop del Corriere compreso, ebbe un rilievo notevole nella caduta del primo governo guidato dal leader di Forza Italia. Conseguenza politica di indagini infondate. Si rammarica ancora l’ex pm di Mani Pulite, delle assoluzioni nei processi Mondadori e Mills. Cita minuziosamente i nomi delle persone condannate e poi butta lì il suo “Berlusconi assolto”. E poi ancora nell’inchiesta “Sme-Ariosto”, in cui, secondo l’accusa, avrebbero dovuto bastare le testimonianze della ex fidanzata di Vittorio Dotti e di un’altra persona per far condannare Berlusconi. Ma, dice con sincerità Davigo, «La cosa che più mi ha sorpreso nelle vicende riguardanti Silvio Berlusconi e i suoi coimputati è stata la continua lamentela di una persecuzione giudiziaria». Lei come si sentirebbe, cittadino Davigo, se dopo centinaia di perquisizioni e processi sopra processi avesse già portato a casa una sessantina di assoluzioni (a fronte di una discutibile sola condanna)? Penserebbe di esser un colpevole che l’ha fatta franca grazie alla benevolenza dei giudici?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La procura dei veleni. Greco lascia la toga, e Storari se la gode: è sua l’inchiesta sul reddito di cittadinanza. Frank Cimini su Il Riformista il 12 Novembre 2021. Francesco Greco nel giorno in cui ha dato l’addio alla mitica procura di Milano per andare in pensione ha finito per prendere in giro tutti, e a cominciare da se stesso. «Lascio una procura organizzata e efficace» in effetti è l’ultima cosa che poteva dire. Greco non può non sapere di lasciare un ufficio allo sbando dopo che 59 sostituti lo avevano mandato letteralmente a quel paese firmando un documento che con l’occasione della solidarietà a Paolo Storari era soprattutto un esplicito disaccordo per il modo in cui negli ultimi cinque anni è stata gestita la procura. E paradossalmente come se dovesse per forza piovere sul bagnato il giorno dopo le parole del procuratore nell’aula magna del triplice resistere di Borrelli campeggia sui siti dei giornaloni l’inchiesta coordinata proprio da Storari. In sintesi una banda di italiani e di romeni con una facilità impressionante accedevano al reddito di cittadinanza, truffando una ventina di milioni di euro e con la prospettiva di arrivare irrisoriamente a sessanta se non fosse intervenuta la guardia di finanza di Cremona. Ennesima dimostrazione che la legge sul reddito di cittadinanza era stata fatta senza prevedere anticorpi e controlli. Però Storari si gode il trionfo dopo aver evitato per il rotto della cuffia, il capo dell’ufficio stava sulle balle a quasi tutti i pm, il trasferimento in altra sede per aver consegnato a Piercamillo Davigo i verbali dell’avvocato Piero Amara. E qui stiamo a parlare della goccia che ha fatto traboccare il vaso. Si illude non poco chi dice che il procuratore Greco non può essere giudicato solo per gli ultimi mesi del suo mandato e per il processo Eni dove l’ufficio dell’accusa aveva cercato di vincere puntando sulle dichiarazioni di Amara e Armanna cavalli più che azzoppati. I processi si possono anche perdere, è fisiologico, ma nel caso specifico c’era il veleno di aver mandato le carte a Brescia con l’obiettivo di indurre il presidente del collegio Marco Tremolada a astenersi perché Amara sosteneva che sarebbe stato “avvicinabile” da due avvocati della difesa, Nerio Diodà e l’ex ministro Paola Severino. Manovra sporca. Greco comunque continua a godere di buona stampa. Viene incensato per aver recuperato un sacco di soldi a favore dell’orario dai colossi del web, ma senza spiegare che il magistrato si era sostituito all’Agenzia delle entrate trattando al suo posto. E ottenendo il versamento di somme largamente inferiori a quelle che sarebbero arrivate alla fine di un processo. Perché il compito dei procuratori resta quello di portare le persone davanti ai giudici non quello di recuperare denari per lo Stato. Il Corriere della Sera ribadisce che la procura di Milano è stata un baluardo dell’indipendenza della magistratura, facendo riferimento soprattutto a Mani pulite. I padroni del Corriere allora sotto schiaffo del pool per altre loro attività appoggiarono l’inchiesta ottenendo in cambio di farla franca, tanto per usare un concetto caro a Davigo. Che nell’aula magna a sentire l’autoincensamento di Greco non c’era. I due se le sono date di santa ragione sui giornali e a verbale davanti ai pm di Brescia. Si sono minacciati a vicenda di querela. Greco ha detto che Davigo prendeva i verbali di Amara dalle mani di Storari perché voglioso di vendicarsi dell’ex alleato al Csm Ardita. Davigo ha ribadito le accuse a Greco di non aver proceduto con le iscrizioni tra gli indagati delle persone chiamate in causa da Amara. Probabilmente hanno ragione entrambi. Ma non sono i risvolti penali della vicenda gli aspetti più interessanti. Finisce un’epoca mentre a grandi passi si avvicina il trentesimo compleanno di Mani pulite. Nell’aula magna Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo hanno affermato che allora si limitarono a fare il loro dovere, “pagandone le conseguenze” “e quante ce ne hanno fatte”. Fu una una guerra tra le classi dirigenti del paese. La magistratura saltava al collo di una politica indebolita per riscuotere il credito acquisito ai tempi della madre di tutte le emergenze. Quando Greco giovanissimo sostituto faceva parte di una pattuglia minoritaria ma combattiva che dall’interno di Md si opponeva alle leggi e alla pratica dell’emergenza mentre il suo ufficio ignorava l’allarme dei giovani del collettivo autonomo della Barona che sostenevano di aver subito torture in questura. Poi l’emergenza diventava infinita oltre che prassi normale di governo. E Francesco Greco uomo di potere. Con un fine carriera “un po’ così” diciamo eufemisticamente. Frank Cimini

Storia e congiure. Così è nato l’uso politico della giustizia: da D’Artagnan e l’arresto di Fouquet ai giorni nostri. Alessandra Necci su Il Riformista il 13 Aprile 2021. “Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini e vi troverò materiale sufficiente a farlo impiccare”. Questa frase, pronunciata dal cardinale Richelieu, riassume il senso della giustizia politica. O meglio, dell’uso politico e strumentale che il potere può fare della giustizia. Non a caso descrive un’attitudine valida sotto ogni regime e in ogni epoca. Compresa quella attuale, come ben sa chi conosce le vicende che hanno accompagnato gli ultimi trent’anni della nostra storia nazionale. Certo oggi la pena di morte non esiste più, ma ci sono molti modi di infliggere una condanna alla morte civile, a una forma di ostracismo in patria o addirittura alla damnatio memoriae. Bastano quelle poche righe estrapolate di cui parlava Richelieu. Poiché, come diceva Benedetto Croce, “la storia è sempre storia contemporanea”, nel passato si trovano esempi indiscutibili di una tendenza che attraversa i secoli e ha qualcosa a che fare con una forma di assolutismo, di potere che rifiuta ogni controllo, respingendo quella bilancia che garantisce equilibrio alla democrazia. E per la quale strumento irrinunciabile è – o dovrebbe essere – una stampa libera e coraggiosa, mossa dal desiderio di cercare la verità e non la semplice conferma di pretestuosi teoremi. Né tanto meno dalla vocazione interessata a sostenere gruppi più o meno forti. Un archetipo in tal senso è Nicolas Fouquet, Sovrintendente delle Finanze di Mazzarino e Luigi XIV. Nato a Parigi nel 1615, proviene dalla noblesse de robe, la “nobiltà di toga” che si è arricchita con il commercio e poi ha acquistato per i propri rampolli delle cariche pubbliche. Laureato in diritto alla Sorbona, viene nominato grazie a Richelieu consigliere al Parlamento di Metz, quindi “relatore ai ricorsi”. Nel 1642 il “gran cardinale” muore e Giulio Mazzarino prende il suo posto come Primo ministro. Ė lui, insieme ad Anna d’Austria, a governare la Francia in nome del piccolo Luigi XIV. Durante la reggenza, però, i Grandi si fanno più facinorosi; il Parlamento di Parigi (composto da magistrati, non da parlamentari), che amministra la giustizia per conto del sovrano, diviene più potente e geloso delle proprie prerogative. Dopo poco, inizia la ribellione conosciuta come “Fronda”. Uno dei problemi maggiori, per la corona, è trovare denaro, necessario per fare la guerra, difendersi, pagare amici e nemici, distribuire prebende, mantenere il re e la corte. Il sistema finanziario è anacronistico, incapace di “una previsione di spesa”, ovvero quella che chiameremmo una finanziaria. Non esiste una Banca di Francia, né un vero ministero del Tesoro: le entrate non sono sufficienti, per cui il sovrano è spesso costretto a ricorrere ai banchieri, che gli prestano i soldi a tassi elevati. Può succedere che la monarchia non sia considerata affidabile; allora i banchieri concedono il prestito a colui che offre maggiori garanzie ed è quest’ultimo a dare i soldi al re, correndo grandi rischi ma ricavandone ampi utili. In questa “finanza creativa”, dove non mancano neppure i “titoli spazzatura”, le tasse vengono mangiate con anni di anticipo ed è necessaria un’abilità da prestigiatore perché il sistema non collassi. Mentre la guerra civile impazza, Mazzarino è costretto due volte all’esilio; la regina e il re bambino alla fuga da Parigi. Fra colpi di scena ben descritti da Alexandre Dumas, un uomo si impone, rendendosi insostituibile nel reperire le risorse necessarie allo Stato e poi nel porre le condizioni per la sconfitta del Parlamento: Nicolas Fouquet. Sempre lui aiuta il cardinale ad ammassare un’immensa fortuna. Per premio, nel febbraio 1653 viene nominato Sovrintendente delle Finanze. Inizia la fase di apogeo dello “Scoiattolo”: l’emblema dei Fouquet, infatti, è uno scoiattolo insieme alla divisa Quo non ascendet, “Fino a dove non salirà”? Un motto imprudente, ma che si addice al proteiforme, intelligente, abilissimo Nicolas, ovvero Monsieur le Surintendent. Fastoso, brillante, generoso, visionario, gran signore, colto, protettore delle arti, estimatore delle belle donne, capace di geniali intuizioni, Fouquet “il Magnifico” costruisce in quegli anni il castello di Vaux-le-Vicomte. In giro si dice che “ospiti il Perù a casa sua”: risponde solo al re, le spese di questi passano per lui. Ė Fouquet che firma per autorizzare le ordinanze di pagamento, sempre lui quello a cui i banchieri prestano i soldi. Inoltre, è procuratore generale del Parlamento. C’è però un rovescio della medaglia: tanta luce, tanto consenso gli attirano invidie feroci. Fra coloro che lo detestano c’è un oscuro commesso di Mazzarino, Jean-Baptiste Colbert, che vuole prenderne il posto. Nemmeno il cardinale, che gli deve tutto, lo ama davvero ma si guarda bene dal palesarlo. Si limita a porre le premesse per la caduta successiva, diffamandolo presso il re. Lo spartiacque è quel 9 marzo 1661 in cui “l’italiano” muore. Per Luigi XIV, ancora lontano dall’essere il re Sole, è il momento della “presa di potere”. Come dice lui stesso, “la faccia del teatro cambia”. Fouquet non se ne rende conto, anzi spera di essere nominato Primo ministro e non ascolta le voci allarmanti. Nella manciata di mesi in cui si consuma la sua perdita, Colbert riesce a “contaminare” il re con il suo odio feroce, convincendolo che il Sovrintendente è troppo potente, sa troppe cose e va eliminato. Luigi XIV, dal canto suo, ha dimenticato le prove di lealtà che questi gli ha dato e ne patisce la superiorità, i talenti. Inoltre, l’illecito arricchimento di Mazzarino necessita un capro espiatorio: non si può fare un processo al cardinale defunto, ma a Fouquet sì. La carica in Parlamento resta uno dei pochi “scudi di protezione”, poiché equivale a una “immunità”, tuttavia Colbert convince Fouquet a venderla, con la scusa che il sovrano ha bisogno di soldi. L’ingenuo cade nella trappola, manda il ricavato a Luigi XIV e questi, fregandosi le mani, esclama: “Si è messo in trappola da solo!”. L’ultima pennellata viene data quando il re va alla meravigliosa festa che il 17 agosto 1661 il Sovrintendente offre in suo onore a Vaux-le-Vicomte. Commenterà Voltaire: “Alle sei di pomeriggio Fouquet era il re di Francia, alle due del mattino non era più nulla”. Il 5 settembre viene arrestato a Nantes dal luogotenente dei moschettieri d’Artagnan. Inizia così un lunghissimo calvario giudiziario, che lo porta a peregrinare per anni in diverse carceri – “carcerazione preventiva” – senza nemmeno sapere di cosa sia accusato. Nel frattempo Colbert falsifica le prove, assiste senza averne diritto alle perquisizioni, avalla le peggiori nefandezze. Quando finalmente comincia il processo, la “Camera di giustizia” scelta per giudicare l’ex Sovrintendente è stata composta dai suoi nemici, i testimoni vengono corrotti o intimiditi, sui giudici si esercita una forte pressione, l’opinione pubblica viene montata con articoli scandalistici, false rivelazioni e delazioni ad arte. I capi di imputazione sono tantissimi ma alla fine si riducono a peculato e lesa maestà. Gli abusi commessi dalla corona sono tali che alla fine l’opinione pubblica e persino i giudici si convincono del fatto che Fouquet è soprattutto un capro espiatorio. E così, invece di condannarlo a morte come vorrebbe Luigi XIV, i magistrati optano per il bando a vita, dichiarandolo colpevole di peculato. Folle di rabbia, il re avoca a sé la sentenza, smentendo i giudici scelti da lui stesso, e la muta nel carcere a vita e nel sequestro dei beni. La sua vendetta si abbatte su quei magistrati che non sono stati abbastanza compiacenti e che cadono in disgrazia. Lo Scoiattolo viene lasciato in carcere a Pinerolo per circa vent’anni, nonostante le infinite pressioni dei letterati e di molti importanti personaggi perché venga liberato. Lì morirà, nel 1680. Commenta Saint-Simon: “Monsieur Fouquet… pagò i milioni che il cardinale Mazzarino aveva preso, l’invidia di Le Tellier e Colbert, un po’ troppa galanteria e splendore con 34 anni di carcere a Pinerolo, perché non avevano potuto fargli di peggio”. (In realtà gli anni di carcere erano 19, ndr). Nulla di nuovo sotto il sole, del resto. Era già capitato, sarebbe capitato ancora.

DAGONOTA il 17 maggio 2021. “Se facevi notare che l’anomalia Berlusconi era a sua volta il frutto di un’altra anomalia, ossia la distruzione violenta, per via giudiziaria, di un’intera classe politica (quella della Prima Repubblica), ti davano subito del berlusconiano. C’era insomma un clima di evidente isteria”. A quasi trent’anni dalla tonnara di Tangentopoli, sul “Corriere della Sera” si può leggere, a firma di Angelo Panebianco, un editoriale che - questo sì fa davvero giustizia dopo averlo taciuto per anni ai suoi lettori -, su cosa è stata la “rivoluzione italiana” di cui il giornale manettaro dei Poteri marci è stato uno dei portabandiera. La rivoluzione fallita, che dai giornali sappiamo quando è iniziata ma non quando è stata chiusa. Una rivolta mancata, anche per il giudice Gherardo Colombo. Uno degli “eroi” di carta del pool di Mani pulite insieme a Davigo che ammette: “A 25 anni di Mani pulite, l’Italia è ancora più corrotta”. Bontà sua. L’onesto politologo del “Mulino”, da lunghi anni stimato collaboratore del Corriere, sollecita, “per il bene del Paese”, di sciogliere i nodi del grande “imbroglio e della truffa” (animati dall’odio politico) - vittime prima Craxi e poi Berlusconi che “incarnavano il Male”. Ma l’oblio non può calare, voltandosi dall’altra parte, neppure sul ruolo parziale, disumano e di supplenza ai giudici - tutto in nome e per conto dei Poteri marci, ovviamente -, sulla parte in commedia avuto dai media nel linciaggio senza uno straccio di processo di una intera classe politica (e dirigenziale). Come ciò sia potuto accadere grazie ai teoremi dei giudici di Mani pulite tenta di spiegarlo nel suo saggio “Il diritto penale totale” (il Mulino) il giurista Filippo Sgubbi. “Con il processo volto non ad accertare un fatto storico da ricondurre a una norma di legge, bensì a creare il fatto-reato”, osserva lo studioso. E ancora: “Una giustizia che si avvale dell’apparato provvedimentale tipico dell’efficace decision making della magistratura per mirare a precisi scopi”. Quanto alla gogna che ha seguito i teoremi del pool, essa non ha precedenti in nessun Paese democratico. E nell’innalzare forche, in primis c’è il quotidiano dove Panebianco tiene cattedra. Cioè il “Corriere della Sera” diretto allora da Paolo Mieli. Già, lo storico (senza storia), pentitosi (a babbo morto) di aver firmato l’appello contro il commissario Mario Calabresi assassinato dai terroristi rossi. Di ben altro dovrebbe cospargersi le ceneri sulla testa il nostro Paolino Mieli. Negli stessi Anni di Piombo, andrebbe riesaminato anche il ruolo di Mieli (ex Potere operaio) e della redazione dell’”Espresso” che ha combattuto degnamente tutte le sue battaglie sul fronte laico e di sinistra. Un ruolo, appunto, sul quale andrebbero sfoltite tutte le ombre che ancora permangono. Pur convinti che, alla fine, l’Espresso abbia operato correttamente su quel crinale pericoloso. Già. Qual è stato il limite considerato invalicabile tra prassi professionale corretta e una larga zona grigia - contiguità con l’Autonomia e il brigatismo rosso assai diffusa - da parte del settimanale di Caracciolo & Scalfari? E, soprattutto, se nel corso della trattativa sottobanco per la liberazione di Moro non si è andati oltre quel confine: dagli incontri al buio tra il socialista Signorile e Piperno nella redazione di via Po e in via del Babuino. Racconta Enzo Forcella in un volumetto edito dall’Espresso su trent’anni di terrorismo: “Tutto partì da una conversazione tra Signorile e il direttore Zanetti (contrario alla trattativa): “Non potresti mettermi in contatto con uno di quelli dell’Autonomia che ogni tanto intervistate? Zanetti girò la richiesta a Mario Scialoja, che seguiva per il settimanale il settore del terrorismo (…)”. L’incontro Signorile-Piperno-Scialoja si svolse nella casa di Zanetti: “Quasi subito – annota Forcella -, la conversazione scivolò su Moro. “Dimmi Piperno, hai un’entratura nelle Br?”, chiede Signorile. Piperno rispose di no, “comunque - aggiunse -, non dovrebbe essere impossibile far loro arrivare qualche messaggio basta mettere in moto un tam tam attraverso il quale il messaggio arriva dove deve arrivare…”. Senza mai mettere in discussione l’etica professionale dei suoi eccellenti redattori, rimane nell’ombra pure la presenza all’Espresso dell’editore Carlo Caracciolo di Federico Umberto D’Amato.  Il capo dell’Ufficio affari riservati dal Viminale che dal 1977 al 1995 occupò, con lo pseudonimo Federico Godio, la rubrica di cucina. Si occupò di solo di mettere le stellette ai ristoranti? Nel suo scrupoloso libro “La spia intoccabile” (Einaudi) dedicato al maestro del depistaggio, Giacomo Pacini si pone anche lui la domanda sul perché “Caracciolo ritenne di affidare incarichi di questo tipo proprio a D’Amato (che non era uno chef) non è dato sapere. Appare tuttavia legittimo chiedersi – aggiunge - se fu solo un caso che a far emergere lo scandalo Piano Solo (che portò alla delegittimazione del Sifar, con di fatto l’ascesa di D’Amato ai vertici degli apparati di sicurezza) fosse stato proprio quel settimanale”. E quale contributo ha dato il Re degli spioni nello scandalo Lockheed con la caccia all’Antilope Cobbler che sfiorò Aldo Moro e portò alle dimissioni del presidente della Repubblica, Giovanni Leone? Ah saperlo. Dell’affaire Moro forse non ci libereremo mai se a truccare la verità sono i suoi stessi testimoni immemori. Il libricino di Walter Veltroni sul sequestro Moro attraverso alcuni testimoni, sembra più il tentativo di chiudere una finestra anziché spalancarla per far entrare aria fresca. Si tratta di un chiaro esempio, secondo il professor Panebianco, del nemico che diventa amico. Così, nel tentativo postumo di santificare il leader Dc delle “convergenze parallele”, il Letta-Letta di Urbano Cairo dimentica che in parlamento sia Moro sia Ugo La Malfa difesero i propri partiti dalle accuse sul finanziamento illecito ai partiti rivoltegli dai banchi dell’opposizione di sinistra. E davvero Moro pagò con la vita, come si narra non senza ragione e logica politica (magari complice la Cia) per la sua idea di portare i comunisti a governo dopo averlo messa alla berlina in parlamento? O, come sostengono i socialisti di fede craxiana, fu la linea della fermezza imposta dall’asse Dc-Pci a segnare la fine di Moro? Quel Pci di Berlinguer, va ricordato ancora, legato a doppio filo all’Urss guidata da Breznev con la sua ferrea dottrina anti atlantica, che un anno prima, appunto, aveva crocifisso Moro alle Camere per aver difeso (perdendo al momento della conta in aula) i ministri Gui e Tanassi dall’accusa di aver beneficiato di tangenti nello scandalo Lockheed. E Moro, accusato di essere Antilope Cobler da una fonte Usa, rivolto ai suoi avversari – quelli storici sì -, gridò: “Non ci faremo processare nelle piazze”. E se nel 1977 i giudici (già a conoscenza dei finanziamenti illegali ma resilienti) avessero raccolto il j’accuse di Berlinguer sulla “questione morale” che toccava i partiti, Aldo Moro sarebbero finito davanti a un tribunale un anno prima della sua uccisione. E se Veltroni andasse a sfogliare le collezioni del suo ex quotidiano, l’Unità, scoprirà che per il Pci Moro diventerà uno statista soltanto dopo il suo martirio nella prigione delle Br. Tre date segnano in profondità il rapporto all’epoca a dir poco conflittuale tra lo statista Dc - che nel partito occupava il posto ritenuto quasi rappresentativo di presidente del Consiglio nazionale della Dc (come i suoi predecessori) -, e il Pci. Un anno marcato dallo scandalo Lockheed che alla fine vide - stavolta sì - la convergenza parallela (e perversa) tra Dc e Pci per far dimettere il capo dello Stato. Un’intentona supportata dalla violenta e martellante campagna dell’Espresso-Repubblica che punta dritto all’onorabilità dell’inquilino Quirinale. Ecco le date memorabili: 3 marzo 1978 la Corte costituzionale archivia le accuse contro Moro; 16 marzo 1978 sequestro Moro e uccisione della scorta da parte delle Br; 9 maggio 1978 ritrovamento del cadavere di Moro in via Caetani; 15 giugno 1978 dimissioni di Giovanni Leone. Sulla versione veltroniana del caso Moro, l’ex diccì Paolo Pomicino ha osservato su il Foglio: “Affidare ai vinti la storia di questo Paese più che un errore è una tragica comicità”. Com’è accaduto per gli Anni di Piombo, anche sulla stagione di Mani pulite poco (o nulla) e con rare eccezioni, è stato esplorato sulla parte in commedia avuta dalla stampa in questi due passaggi controversi della nostra storia. Sugli anni del terrorismo basta ricordare, a titolo di esempio il diktat delle Rizzoli-P2, con la decisione del “Corriere” di non pubblicare i messaggi dei terroristi e il licenziamento di Giuliano Zincone dal “Lavoro” di Genova che non si piegò a quella scelta del gruppo. Avevano ragione Di Bella-Barbiellini Amidei o Zincone? E da chi arrivava l’ordine di togliere la parola alle Br? Senza evocare golpe e manine degli apparati deviati. Certe verità si ritrovano facilmente nelle stesse redazioni dei giornali. Due momenti della storia recente entro i quali Paolo Mieli (e non soltanto lui) avrebbe molto da spiegare per averla vissuta da testimone privilegiato con scaltrezza e capacità professionali. A proposito dell’Uomo Nero evocato da Panebianco e della sua demonizzazione, si potrebbe partire dall’avviso di garanzia al premier Berlusconi nel novembre 1994 alla vigilia di un convegno promosso a Napoli dall’Onu sulla criminalità organizzata. Una accusa grave di corruzione di finanzieri da cui il Cavaliere uscirà assolto nel 2001. Chi passò al “Corriere” le carte del Cavaliere indagato? Quale era la fonte di quello scoop che provocò la caduta del governo e che oggi nessuno rivendica pur avendoci guadagnato i galloni d’inviato o di corrispondente all’estero. In America al cronista Mieli avrebbero dato il premio Pulitzer (o quantomeno un Premiolino meneghino) e un suo libro di memorie avrebbe scalato le classifiche in libreria. Ma in realtà il suo non era stato un nuovo Watergate per passare alla storia del giornalismo d’inchiesta, ma soltanto un Watercloset per nascondere le sue vergogne da cui tenersi poi lontano per le puzze che emanava. È stato il capo dello Stato dell’epoca, Oscar Luigi Scalfaro – magari via Gianni Agnelli -, che a dare ascolto al ministro dell’Interno Roberto Maroni sapeva da giorni dell’avviso? Oppure, come appare più credibile, Mieli e il giornale di via Solferino si sono resi complici (o partecipi) della “trappola” ordita dal pool di Mani pulite che - facendo uscire la notizia sul Corriere -, avrebbero conservato la competenza territoriale sul procedimento a carico di Berlusconi. Cioè a Milano e non a Roma. Dunque, come suggerisce Panebianco, “è meglio sforzarsi di ricordare” senza che sia “il nemico diventato amico”, riferendosi indirettamente all’ultima conversione di Michele (chi?) Santoro su Berlusconi. Un agit-prop dei media impegnato a recitare tutte le parti nel commedione tragico e cinico di quest’ultimo quarto di secolo. Con il boia che abbandona la garrota per raccogliere la testa del mozzato da esporre in tempi di pace e di rivoluzioni mancate. Un gran brutto spettacolo. Intanto, dopo otto anni la Corte europea dei diritti di Strasburgo chiede all’Italia se il Cavaliere abbia avuto un processo equo nel giudizio della Cassazione per frode fiscale che costò la sua decadenza dalla carica di senatore. Non è tempo di necrologi per l’Uomo nero Berlusconi al quale auguriamo resista-resista-resista alle intemperie della vita. Ma siamo curiosi di leggere cosa sarà consegnato di lui dalla stampa dopo una lunga gogna mediatica. Nel suo “Giustizia politica”, il saggista Otto Kirchheimer, non a caso, dedica il suo lavoro proprio “alle vittime passate, presenti e future della giustizia politica”. Anche perché non vorremmo, come ammonisce lo storico Jean Tulard paventando una “nazione amnesica”, che “a forza di voler cancellare le macchie della storia, verrà un giorno in cui non sapremo più perché il ponte si chiama Austerlitz e il viale Jena”. 

Alessandro Gnocchi per "il Giornale" il 20 aprile 2021. Quante volte abbiamo visto le immagini di Bettino Craxi bersagliato dalle monetine all' uscita dall' Hotel Raphaël, sua residenza privata a Roma, quel 30 aprile 1993? Moltissime. Al punto che siamo convinti di sapere o ricordare tutto quello che avvenne nell' occasione. Ma forse non è vero. Quanto mai opportuno e interessante è quindi il saggio di Filippo Facci 30 aprile 1993. Bettino Craxi. L' ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica (Marsilio, pagg. 224, euro 18; in libreria dal 22 aprile). Quel giorno, il 30 aprile 1993, una folla inferocita si trovò davanti all' albergo per protestare contro la decisione, presa dal Parlamento il giorno precedente, di negare l' autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi. Il leader si era da poco dimesso dal ruolo di segretario del Partito socialista e aveva già pronunciato a Montecitorio un aspro discorso sulla portata storica del finanziamento illecito alle forze politiche, che avrebbe dovuto far pensare gli ultras di Tangentopoli (non accadde). Craxi, quella sera, doveva uscire e lo fece a testa alta, dalla porta principale, già sicuro di incappare nella contestazione. Si prese una pioggia di monetine scagliata da militanti del Pds, appena venuti via da un comizio nell' attigua Piazza Navona, da ex missini e da passanti catturati dall' odore selvatico del linciaggio. L' indomani, e questo è un dettaglio che forse molti hanno dimenticato, non c'era quasi notizia sui quotidiani dell' episodio tanto violento quanto significativo. Ci sono un prima e un dopo il 30 aprile 1993. Facci mette in fila i fatti di quei giorni con grande bravura, intervallando la cruda narrazione con i suoi ricordi. Negli anni di Mani pulite, l'autore si trovò a seguire le inchieste milanesi all' Avanti!, il quotidiano del Psi. Entrò in contatto con Craxi e ne fu amico fino all' esilio tunisino e alla morte, accelerata dalla mancanza di cure adeguate. Risultato: un libro che cattura l'attenzione in ogni pagina. «Ripassare» il prima lascia sgomenti. I partiti, indubbiamente, si erano abbandonati al malcostume, approfittando del finanziamento illecito. Ma è inutile fare gli struzzi e fingere di non sapere ciò che disse proprio Craxi nel già ricordato discorso. Il finanziamento lecito e illecito era il nodo da sciogliere della Prima Repubblica: tutti sapevano, tutti vi avevano fatto ricorso, con modalità diverse. Democrazia cristiana (forse) e Partito comunista (senza ombra di dubbio) avevano risorse provenienti dall' estero, da inquadrarsi come diretta conseguenza della Guerra fredda combattuta anche in Italia da Stati Uniti e Unione sovietica. Comunque dalle vicende di Mario Chiesa e del Pio Albergo Trivulzio in poi fu un crescendo di giustizialismo, che montava grazie a una alleanza di fatto tra magistratura, media e sinistra «miracolata». I giudici occupano il proscenio e finiscono col mettere in discussione la nozione stessa di diritto, riducendo le garanzie dell' imputato soprattutto a causa di un abuso della carcerazione preventiva. I media, banalmente, si occupano di assecondare i pregiudizi dei propri lettori, e se bisogna dimenticare intere parti dei codici, non importa, si dimenticano (la rassegna stampa di Facci non lascia alibi a nessuno: tra le grandi testate non ce n' è una che possa vantare una difesa a spada tratta del diritto). La sinistra post comunista è tranquilla. La disciplina di partito è ancora forte e il flusso di denaro da Mosca si è ormai arrestato. Berlinguer aveva agitato la questione morale ma i suoi eredi la trasformano nel centro della loro nuova identità, visto che dopo il Muro di Berlino il socialismo reale non è proponibile. Con quali titolo di merito? Nessuno. La superiorità morale è una questione antropologica che prescinde dalla realtà dei fatti. È un mito fondativo, che ha fatto danni forse irrimediabili, dividendo il Paese in buoni e cattivi. La cronaca del 30 aprile è sconcertante. È un osceno susseguirsi di dichiarazioni sopra le righe, di moralismi esasperati, di rabbia male indirizzata, di opportunismo svergognato; un osceno susseguirsi che trova il suo apice e il suo sfogo nel tiro a Bettino Craxi. Un uomo che, al netto di tutto, lascia una eredità politica enorme, come Facci mostra egregiamente. Per fare uno solo tra gli esempi possibili, ecco cosa disse in un video di 37 secondi girato ad Hammamet: «Si presenta l' Europa come una sorta di paradiso terrestre...L' Europa, per noi, come ho già avuto modo di dire, nella migliore delle ipotesi sarà un limbo. Nella peggiore delle ipotesi, l'Europa sarà un inferno». Nel suo libro Io parlo, e continuerò a parlare, Craxi chiedeva di rinegoziare i parametri di Maastricht e notava come si parlasse molto di banche centrali e poco di Parlamento europeo. Quindi ipotizzava un futuro di disoccupazione e conflittualità sociale...Abbiamo visto il prima e il durante. Ma c'è anche un dopo 30 aprile 1993 che giunge fino a noi. La gogna in piazza, il popolo che emette sentenze con le monetine, i movimenti che entrano in Parlamento (la Lega ma anche la Rete) sono tratti di un' Italia in preda alla demagogia e alla tensione: non solo per Mani pulite, sono anche gli anni della morte di Falcone e Borsellino o del prelievo notturno del governo Amato dai conti correnti dei cittadini. Che Italia era? Facci: «Bene o male è l' Italia di oggi, che da allora ha fatto piazza pulita di partiti, istituzioni, simboli, reputazioni, rispetto dei ruoli, soprattutto ha smembrato quel poco di tessuto civico che la nostra giovane democrazia aveva faticosamente ordito». Ciò che è venuto dopo non è politica: «La tecnocrazia. L'illusione della società civile. La pan-penalizzazione integrale del vivere quotidiano. Il neopopulismo. Persino una medicalizzazione coattiva della società, con un netto restringimento delle libertà costituzionali». Le piazze sono diventate virtuali, il debito pubblico è triplicato, il ceto medio sconfina nel proletariato, la crescita economica è un sogno, le aziende più importanti hanno delocalizzato o sono state vendute, la classe politica è drasticamente peggiorata, l' Italia è l' unico Paese a non avere più «un partito liberale, socialista, verde o democratico-cristiano». Tutto questo già prima della pandemia... Se il 30 aprile 1993 è stato un giorno di rivoluzione, beh, è stata una rivoluzione finita male. 

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 30 aprile 2021. La scena dell'Hotel Raphaël e delle monetine contro Bettino Craxi la conoscono anche i più giovani, ma a loro sembra una protesta come tante, non conoscono il nesso tra un prima e un dopo, è come se fosse il trailer di un film che non hanno visto. Non si trova documentario su quel periodo che abbia quelle immagini come epicentro: ma quanti - vi è da chiedersi - sanno che la notizia del tentato linciaggio non fu neppure pubblicata sulle prime pagine dei giornali? Né il giorno dopo né i successivi. Il simbolo di quegli anni: ma neanche una riga. Anche l'unica foto, poi vista e rivista negli anni a venire, fu scattata da un freelance che si era arrampicato sulla pedana del ristorante Santa Lucia, affianco all' hotel. Dobbiamo tutto al Tg4 e alle telecamere Rai di Mixer, immagini sgangherate e sbollate come ad anticipare youtube. Un salto verso il futuro come lo furono la trascrizione di centinaia di telefonate o telegrammi giunti nelle redazioni dei giornali e pubblicati senza filtri, futuro popolo di internet. Non era mai capitato che la residenza privata di un personaggio pubblico (Craxi abitava all' Hotel) fosse cinta d' assedio per una decisione votata dal Parlamento. Quel giorno finì la politica e iniziarono le forme della sua assenza: la tecnocrazia, l'illusione della società civile, la pan-penalizzazione della società italiana, il neopopulismo, il declino, l'impoverimento del Paese; le piazze diventarono virtuali e l'odio e l'invidia sociale nascosero la mano nella solitudine domestica: la famosa folla solitaria. Doveva comunque succedere, probabilmente: è cambiato tutto, ma solo da noi è cambiato in questo modo.

L' ANNO ZERO Spariti interi partiti, istituzioni, simboli, reputazioni, rispetto dei ruoli, soprattutto si è smembrato quel poco di tessuto civico che la nostra giovane democrazia aveva faticosamente ordito, e che il detersivo rivoluzionario ci ha restituito bianco e pulito come un cencio inservibile. Siamo tornati a un misterioso anno zero. Chissà, magari andrà meglio. Nell' attesa, sappiamo che il nostro è l'unico Paese europeo che non ha (più) un partito liberale, socialista, verde o democratico cristiano. Il debito pubblico si è più che triplicato, il ceto medio si è proletarizzato, la crescita economica è all' ultimo posto d' Europa, le aziende più importanti sono espatriate o sono state vendute, quelle rimaste sono state maltrattate da una classe dirigente a dir poco neofita. Mancano i politici mentre «politica» e «politici» continuano a essere termini dispregiativi. Spesso si incolpa un recente passato per giustificare il presente. Spesso, per esempio, si incolpa Craxi. Sul quando e sul dove ebbe inizio il piano inclinato dal quale cominciammo a rotolare si possono avere idee diverse, ma non su una cosa: la scena del Raphaël fu un linciaggio «simbolico» solo perché non riuscì. Fabrizio Rondolino, al tempo giornalista dell'«Unità», era lì fuori: «Il clima cambiò di colpo, ero spaventato, cominciai a indietreggiare, c' era sempre più gente. Vedevo i fascisti, tanta gente mai vista, senz' altro anche tanti militanti che venivano dal comizio di Occhetto Io avevo militato nei giovani comunisti, di manifestazioni ne avevamo fatte tante anche contro Craxi, ma quella era una cosa completamente diversa». Un agente della scorta: «C'era una tensione fortissima nell' aria. Noi sotto al Raphaël ad aspettare che il Presidente scendesse; d' un tratto iniziarono ad arrivare persone provenienti da Piazza Navona e da altre viuzze del centro, poco dopo è sopraggiunto il dirigente del commissariato di zona seguito da altri colleghi. La gente iniziava ad essere veramente tanta e in un attimo alcuni di loro cominciarono ad urlare, altri a sputare e inveire verso di noi». I gruppi furono tre: una maggioranza pidiessina proveniente dal vicino comizio di Achille Occhetto, una minoranza di missini sopraggiunti dalla vicina via della Scrofa, infine una minoranza di gente di passaggio, mentre i leghisti furono bloccati in piazza Zanardelli. Il missino Teodoro Buontempo reggeva due sacchettini cambiati nella tabaccheria di un camerata: 10 mila lire, 100 monete, poca roba rispetto alle 250mila lire che rimasero infine per terra. E intanto nessuno riusciva a dissuadere Craxi: «Io da dietro non esco». «La macchina è pronta?». «Sì».«Bene». Una pausa. «Allora andiamo». Craxi caricò la giacca blu sulla spalla e diede alla porta un calcione tipo saloon, ed era fuori. Alle 20:05 fu un boato, un'esplosione, un unico grido ininterrotto, tre poliziotti in borghese anticiparono di corsa Craxi che uscì subito dopo mentre volavano sassi, sampietrini, monetine, accendini, pezzi di vetro, bottiglie di plastica, un ombrello: «Eccolo, eccolo», urla la cronista di Mixer, «tirano di tutto, stanno tirando di tutto». Tre faretti di telecamere illuminano la scena, Craxi sale in auto per primo, dietro, sulla destra, poi segue l'autista Nicola alla guida con a fianco Cicconi - che ha la testa sanguinante - e ancora dietro, sulla sinistra, c' è il fido Luca Josi, che si è preso qualcosa in un occhio. I poliziotti in borghese si muovono qua e là e fermano degli esagitati che cercano di arrivare alla macchina, si lanciano in avanti, poi la Thema parte, sgomma e fa partire incalza la sirena, e poi sono pugni sul vetro, calci, colpi di casco e sassi sulla carrozzeria, d' un tratto non c' è più nessun filtro tra l'auto e i dimostranti, i poliziotti sono spersi, travolti, impegnati a bloccare la pressione dei dimostranti a destra e a sinistra, Craxi sorride rivolto al finestrino. «Tiratori di rubli», mormora. «Dopo di questo», si chiede. «Che cosa c'è ? Oltre questo, che cosa c' è?». La folla tentò in tutti i modi di bloccare le macchine in fuga, molti le hanno rincorse, ma questo nei filmati non si vede, perché le immagini si interrompono prima.

LE DICHIARAZIONI Secondo l'autista Nicola Mansi, invece, «la polizia non fece nulla». Stando a un'agente della scorta: «Ci buttarono addosso monetine, sampietrini, mattoni, sassi, bottiglie, sputi e tutto ciò che trovavano nelle tasche o ai loro piedi». Ancora Rondolino: «Quella sera davanti al Raphaël capii che cosa effettivamente fosse il giustizialismo, che cosa fosse Mani pulite, che cosa fosse l'anticraxismo che Berlinguer ci aveva insegnato e che Occhetto andava coltivando: nient' altro che una folla inferocita che tenta il linciaggio». Anche Pino Ciocioli di «Avvenire»: era lì: «Fu una cosa violenta, molto violenta. Probabilmente quella sera qualcosa è finito, e qualcos' altro è cominciato. Ancora Rondolino: «I poliziotti erano pochi, troppo pochi. Io non avevo temuto per Craxi, ma per me. Fossimo stati in America, dove le armi circolano più facilmente, forse qualcuno gli avrebbe sparato. Io non l'avevo mai visto, un linciaggio». Tra la folla c'era anche uno dei pochi testimoni che ha avuto il coraggio di ammetterlo anche molti anni dopo: fu persa l'occasione storica di uccidere Craxi. Costui, Piero Vereni, nel 1993 era uno studente neolaureato, ma oggi è professore di antropologia all' Università di Tor Vergata: «Le monetine sono state evidentemente troppo poche, e gli insulti pure. Dovevamo fare di più. L' uccisione rituale del sovrano è una pratica comune a tutte le culture, di tutti i tempi Quella sera, per parlare spiccio, stavamo facendo fuori il re, e in questo non c' è nulla di male o di sbagliato. Ma vorrei andare oltre e mi chiedo: cosa sarebbe successo se ci fossimo veramente impossessati del corpo di Bettino? Se lo avessimo fatto a pezzi sul serio, se l'avessimo magari mangiato a brani (era grande e grosso, ce n' era per tutti)? Io dico che alcuni di noi sarebbero morti negli scontri, altri andati in galera, ergastolani, ma il paese ne avrebbe beneficiato: avremmo dichiarato, scrivendolo sul corpo del potere, l'irrevocabilità di quello che stava succedendo Mani Pulite non fu quel Terrore che stanno spacciando la nostra controreazione doveva essere altrettanto simbolica: tu vuoi fregartene ma io ti sdereno, ti smantello, ti annullo. Quella sera, insomma, non stavamo facendo altro che il nostro dovere di italiani Il nostro vero errore è stato quello di non andare fino in fondo. Dovevamo sbranare Craxi, avremmo dovuto farlo fuori a pezzi, gettare le sue (mi immagino lunghissime) budella sulla porta del Raphaël e trascinarle fino al Parlamento. Poi la polizia avrebbe (giustamente) fatto il suo dovere, ammazzato i più assatanati direttamente sul posto, e portato via un bel po' d' altri Avremmo quindi dovuto andare fino in fondo. Sacrificare Craxi e qualcuno di noi in nome del paese, per far capire a tutti che era finita Io c' ero. E come tutti quelli che fanno la storia, non ho capito che occasione avevo per le mani».

Pensieri sul libro di Filippo Facci. Il linciaggio di Bettino Craxi all’hotel Raphael fu come un colpo di Stato. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 21 Maggio 2021. Sto leggendo – ormai sono arrivato alla fine – il saggio di Filippo Facci 30 Aprile 1993 (Marsilio), nel quale si raccontano gli eventi che precedettero e seguirono il giorno in cui, uscendo dall’Hotel Raphael, Bettino Craxi, allora ex segretario del Psi, fu sottoposto a una durissima contestazione, con lancio di monete, sampietrini e ogni tipo di oggetto come non era mai avvenuto nella storia della Repubblica. Non è il solo libro uscito di recente che ha rammentato quel fatto che caratterizzò il 1993, l’anno in cui “finì la politica”. Ho letto e apprezzato, nei mesi scorsi, i saggi di Fabio Martini e di Mattia Feltri. Ma il libro di Facci – forse perché è il più recente – mi ha impressionato in modo particolare per la minuziosa descrizione di tanti episodi connessi a quell’evento in ogni parte del Paese, come reazione a un libero voto della Camera dei Deputati che, il 29 aprile, aveva respinto, con una solida maggioranza, ben 4 su 6 autorizzazioni a procedere per l’allora segretario del Psi su richiesta della Procura di Milano, nell’inchiesta a cui era stato dato il nome di “Mani pulite”. A leggere delle ricostruzioni tanto puntuali trova sempre elementi prima ignorati, anche chi – come il sottoscritto – ha vissuto quella fase della vita politica italiana molto da vicino. Ma su quel periodo mi ero fatto delle opinioni da tempo e mi ero reso conto di taluni errori di analisi che avevo compiuto, aprendo completamente gli occhi su di un’operazione golpista, contrabbandata come una rivoluzione civile. Del resto nei trent’anni trascorsi da allora ho avuto tante occasioni di ravvedermi e di passare dalla parte giusta. Ma il saggio di Facci ha evocato un clima di fanatismo, da “pensiero unico”, di giudizi inappellabili, di ragioni indiscutibili che contraddistinsero quegli anni e che trasformarono Bettino Craxi nell’ uomo “da bruciare”. Non era la prima volta che l’opinione pubblica pretendeva un giudizio sommario. Anni prima, nel 1976, quando, a seguito di una campagna giornalistica, scoppiò il caso Lockheed, sulla graticola era finita la Dc. Anche allora veniva invocato il giudizio della storia: i ministri indagati e sottoposti alla autorizzazione a procedere erano colpevoli perché democristiani. E la Dc doveva pagare per il male fatto agli italiani, per espiare una sorta di “peccato originale”. Aldo Moro ebbe il coraggio di alzarsi alla Camera ed affermare che la Dc non si sarebbe fatta processare nelle piazze. In quel caso, Craxi divenuto segretario da pochi mesi, dopo la riunione del Midas, non si prestò a questo autodafé e i socialisti alla Camera differenziarono il voto per ciascun caso. Forse c’era anche un calcolo politico. Ma Craxi non si lasciò coinvolgere, nonostante che tra la base socialista serpeggiasse un desiderio di vendetta per la recente sconfitta elettorale, attribuita alle malefiche frequentazioni di centro sinistra. Craxi andò in giro per le federazioni a spiegare la posizione del Partito. Ricordo ancora quando venne a Bologna; per strada, aveva reagito a calci nel sedere conto un passante che lo aveva offeso (Facci ricorda due sganassoni che Craxi sferrò, a Milano dopo l’affronto di Roma, a due ragazzotti che inseguivano l’auto sulla quale viaggiava coprendolo di insulti). Allora, la plebe ebbe una testa mozzata. Il presidente della Repubblica, Giovanni Leone (anni dopo i suoi accusatori ammisero che non era coinvolto nel giro di tangenti) fu costretto a dimettersi. Il Pci pose questa precisa condizione alla Dc per proseguire nell’esperienza della “solidarietà nazionale”. Ai tempi di “Antelope Kobbler” (il nome in codice dato al corrotto che restò sempre ignoto) l’Italia era ancora un Paese civile, i partiti erano forti. Nel 1993 Craxi si trovò a combattere da solo. Oggi, chi legge – in buona fede – il discorso che il leader socialista pronunciò alla Camera il 29 aprile non può non riconoscerne l’onestà e il rigore. Un discorso che passerà alla storia, allora sembrò una provocazione, un atto di arroganza, un’evasione dalle proprie responsabilità chiamando in causa altre forze politiche, come gli ex comunisti, autoproclamatisi di specchiata onestà, quando era assolutamente evidente che il sistema delle tangenti o comunque dei finanziamenti illeciti coinvolgeva, più o meno, tutti i partiti. Il giro delle “mazzette” era un soggetto ricorrente nella commedia all’italiana; gli spettatori al cinema ci ridevano sopra. Bastava guardarsi attorno, fare un po’ di conti sulle spese dei partiti durante le campagne elettorali per accorgersi che i contributi degli iscritti e il finanziamento pubblico non potevano bastare. I bilanci dei partiti erano depositati e pubblici. Ma il punto non è questo. A leggere il libro di Facci è tornata a perseguitarmi una domanda: come ho potuto, io stesso, essere coinvolto – sia pure conservando molti dubbi – da quel clima di caccia alle streghe? Quando Giorgio Benvenuto fu eletto segretario del Psi nel febbraio del 1993 mi chiese di far parte della sua segreteria. In Cgil io avevo dei problemi; ora riconosco che era colpa mia, perché non si può essere dirigente di una organizzazione e non condividerne pubblicamente la linea. Da tempo, ho ammesso che la Cgil fu assai tollerante con me. Però, la mia posizione era imbarazzante e scomoda. Pertanto, quella proposta (che si concretizzò tra fine marzo e inizio di aprile) mi sembrò una via d’uscita onorevole. Ricordo ancora che, alla notizia della mia elezione, fui ricoperto di telegrammi di congratulazioni, come non mi era mai capitato in precedenza: ciò a dimostrazione che il crollo del partito non era ancora avvenuto del tutto come sarebbe, poi, capitato in poche settimane. Benvenuto (Gino Giugni venne eletto presidente) rappresentava il “nuovo”, il socialista onesto, l’ex sindacalista che tentava di salvare un glorioso partito dal vecchio gruppo dirigente; tanto che il massimo di consenso il nuovo corso l’ottenne con la decisione detta “fuori i corrotti” in applicazione della quale gli inquisiti erano sospesi dagli organi dirigenti. Ricordo ancora la folta selva di giornalisti e telecamere che attendeva l’esito di quella discussione. Giorgio Benvenuto aveva formato un gruppo di “seconde linee” (io e soprattutto Enzo Mattina eravamo i suoi più stretti collaboratori). Ad ogni riunione veniva a mancare qualcuno perché raggiunto da un avviso di garanzia. Ma l’aspetto più grave era la mancanza di risorse e l’ammontare dei debiti, riguardanti anche spese banali come l’affitto, le bollette e i fornitori. Mi resi conto che, prima della disgrazia, il partito (probabilmente tutti) non era sollecitato ad onorare le scadenze, gli impegni e quant’altro. Quando la situazione stava precipitando tutti si presentarono a battere cassa e a pretendere gli arretrati. In via del Corso il personale non veniva pagato, così anche i dirigenti. Io mi insediai nell’ufficio che era appartenuto a Gennaro Acquaviva. Lo studio di Craxi fu chiuso come la stanza della prima moglie Rebecca. Benvenuto non volle mai prenderne possesso. Ricordo che, a quel piano, c’era uno splendido giardino pensile. Giorgio non se la sentì di addossarsi la gestione della situazione finanziaria e non volle mai servirsi delle risorse “imboscate”. È comprensibile che tra i due gruppi (il “nuovo” che avanza e il “vecchio” sotto scacco) ci fossero degli screzi e che il nucleo storico (di ex ministri e parlamentari di lungo corso) si sentisse ingiustamente emarginato da quei parvenu; mentre noi non esitavamo ad avvalerci delle loro difficoltà per legittimarci. È gratificante svolgere il ruolo dei “buoni” quando sono identificati i “cattivi”. Il partito era frastornato e ci seguiva con fiducia, anche perché avevano l’appoggio dei media nella misura in cui servivamo a combattere i craxiani. A un certo punto furono fatte circolare le notizie sulle “spese pazze” della precedente gestione del Partito; i conti in rosso persuasero Giorgio Benvenuto a ritenere insostenibile la situazione e a uscire di scena, fondando un nuovo movimento col nome di Rinascita socialista. Lo seguii fuori dal partito senza aderire alla nuova formazione. Per fortuna tutto era precipitato così in fretta che mi accorsi di essere ancora dipendente della Cgil. Mi rifiutai di fare il parroco dove ero stato cardinale e chiesi di lavorare nella casa editrice Ediesse occupandomi delle sue pubblicazioni. Poi la vita mi aprì fortunatamente altre opportunità. Ciò che rimaneva del partito si affidò a Ottaviano Del Turco e al suo prestigio di dirigente sindacale. Ma quanto successe in seguito è noto. Mi sono domandato più volte se in quell’occasione io non mi fossi trovato quasi per caso dalla parte sbagliata. A mia giustificazione posso addurre delle referenze: tante volte ho deciso di sostenere posizioni scomode con grande determinazione. Anni dopo le mie convinzioni mi portarono – come gran parte dell’elettorato socialista e tanti ex dirigenti – vicino a Forza Italia e a essere eletto, nel 2008, nelle liste del Pdl, mantenendo, tuttavia, buoni rapporti anche con quei socialisti che restarono nell’area di sinistra (sono onorato della mia collaborazione a Mondoperaio). Se mi è permesso di rendere noti gli esiti della mia ultradecennale autoanalisi, credo di poter affermare che, in quei pochi mesi e in quelli immediatamente successivi, esplose un clima di imbarbarimento a cui era arduo sottrarsi. Un transfert collettivo che costituisce un monito perenne di come è facile cadere vittime delle suggestioni che nella storia hanno portato l’opinione pubblica a confondere i peggiori misfatti con il “fare giustizia”. I paragoni sono sempre rischiosi; ma non è un azzardo – mutatis mutandis – parlare di Craxi come di un Dreyfus italiano. Certo, Bettino non finì all’Isola del Diavolo; ma non venne neppure riabilitato da quelle istituzioni che aveva servito con dignità e onore. Gli fu rifiutato persino un salvacondotto per gravi motivi di salute. Soprattutto non trovò un Emile Zola che scrivesse, a sua difesa, il “j’accuse”. Giuliano Cazzola

30 aprile 1993. All’hotel Raphael quella sera morì la politica. Sono passati 28 anni dal lancio delle monetine contro Craxi. Fu l'inizio della fine della prima Repubblica e il nostro paese deve ancora fare i conti con quei fatti. Il Dubbio il 28 aprile 2021. Più si legge il libro di Paolo Facci appena pubblicato da Marsilio sul 30 aprile 1993, la giornata delle monetine, e di tutto il resto, lanciate contro Bettino Craxi per un linciaggio per niente improvvisato, visto il contesto ben ricostruito dall’autore, ben al di là degli spiccioli metallici forniti per una ventesima parte dal missino Teodoro Buontempo, e più sconcerta quell’ondata di odio che attraversò il Paese. E che in parte continua ancora a imprigionarlo, a 28 anni di distanza. E a ventuno dalla morte del leader socialista che aveva osato sfidare, più che le leggi sul finanziamento dei partiti, peraltro in buona compagnia, l’onnipotente autoreferenzialità del Pci neppure del già defunto Palmiro Togliatti, ma di Enrico Berlinguer e dei suoi epigoni come Massimo D’Alema e Achille Occhetto.  Mi chiedo ancora come avesse mai potuto tanta gente tutta insieme e per tanto tempo perdere letteralmente la testa per pentirsene solo in parte e dopo molto, a livelli anche altissimi. Come fu quello istituzionale di Giorgio Napolitano: il presidente della Camera che gestì con freddezza burocratica le famose sei votazioni sulle autorizzazioni a procedere contro il leader socialista, di risultati alterni, e attese dieci anni dopo la morte di Bettino per scrivere una lettera su carta intestata del presidente della Repubblica in cui certificare, diciamo così, la “durezza senza uguali” del trattamento riservato giudiziariamente, politicamente e mediaticamente a Craxi. Quelle monetine e tutto il resto della serata del 30 aprile, dopo un’intera giornata contrassegnata in varie parti d’Italia dalla intossicazione del dibattito politico e persino dei rapporti sociali, e un comizio di Occhetto a Piazza Navona  come in un avamposto quasi con vista sull’albergo-residenza romana del leader socialista, furono solo l’aspetto più fotografato o ripreso televisivamente, e curiosamente non ritrovato -come ha osservato e documentato Facci- sulla generalità delle prime pagine dei giornali della mattina seguente. Perché quella omissione, reticenza, autocensura e simili? In un attimo di generosità immeritata dai miei colleghi ho pensato ad un disagio per avere così abbondantemente e incivilmente partecipato alla creazione del clima necessario a quel monumento al linciaggio che fu metaforicamente innalzato la sera del 30 aprile davanti all’hotel Raphael.Facci ha scritto, fra l’altro, che quella sera “morì la politica”, al minuscolo e non a torto, perché essa aveva già perduto molta della sua lucentezza da tempo: almeno dal 1978 con la gestione del sequestro di Aldo Moro. In difesa della cui vita non a caso quella di Bettino Craxi era stata la sola o la voce più alta levatasi: persino più di Papa Montini. Che aveva pregato “in ginocchio” quei macellai delle brigate rosse di rinunciare all’epilogo tragico del sequestro “senza condizioni”, come forse gli aveva suggerito il presidente del Consiglio Giulio Andreotti e avrebbe desolatamente commentato lo stesso Moro in una delle ultime lettere dal covo in cui era rinchiuso. La politica sopravvisse per 15 anni, sino al 1993, solo grazie a Craxi. Che l’anno dopo la morte di Moro, scongelando il Psi dal freezer in cui l’aveva rinchiuso nel 1976 Francesco De Martino, liberò la Dc dalla catena del rapporto col Pci diventato asfissiante proprio con la tragedia Moro. E tornò a garantire in qualche modo la governabilità del Paese, guidandolo personalmente per quattro, faticosissimi anni, dal 1983 al 1987. La fermezza lui l’adottò non per lasciare uccidere un leader indifeso, anzi così mal difeso da poter essere rapito e diventare ostaggio delle brigate rosse, ma per difendere -per esempio- il valore reale dei salari dall’inflazione galoppante che li divorava fra l’indifferenza dei tutori a parole della classe operaia o. più in generale, delle classi più deboli. L’Italia impazzita del 1993 era quella, fra l’altro, con larghissimo anticipo rispetto ai tempi di Beppe Grillo, che lasciava dire impunemente ad un professore dell’Università Cattolica e “ideologo” della Lega come il senatore Gianfranco Miglio che “il linciaggio è la forma di giustizia nel senso più alto della parola”. E il suicidio di un indagato o di un imputato -in sintonia con un magistrato come Gerardo D’Ambrosio- la forma quasi più alta di pentimento, o rimorso. Aldo Moro nel 1959 aveva trovato Miglio nell’elenco dei consulenti del suo predecessore alla segreteria della Dc, Amintore Fanfani. Egli volle pertanto conoscerlo e rimase tanto scioccato dalle sue proposte di modifica della Costituzione in vigore da soli 11 anni, con tutti i suoi meccanismi di garanzia, che rinunciò ad avere con lui altri incontri. Immagino che nei giorni del sequestro del leader democristiano anche Miglio fosse per la linea della fermezza contestata dal segretario socialista. Moro e Craxi, come vedete, ancora una volta abbinati, come Facci nel suo libro fa riferendo di quando il premier inglese Blair chiese a Marcello Sorgi perché mai in Italia avessero lasciato morire in quel modo Craxi all’estero, senza permettergli di curarsi libero in Italia. L’ex direttore della Stampa gli rispose che i governi italiani avevano trattato su tutti e con tutto “fuorchè con le brigate rosse per Moro e con la magistratura per Craxi”. E’ vero.

Quella sera di fronte al Raphael la lotta politica si trasformò in linciaggio da bar e ora social. Dopo quella manifestazione violenta di fronte all'Hotel Raphael il bersaglio non fu più il capo politico ma l'uomo o la donna: la persona. Paolo Delgado su Il Dubbio l'1 maggio 2021. Due giorni non come gli altri: 29 e 30 aprile 1993. Il Paese in cui viviamo, la sua parabola politica da allora, la cultura e gli umori diffusi in questi decenni, nascono in quei due giorni, tra i cazzotti che si scambiarono deputati leghisti e socialisti dopo il voto della Camera che aveva negato l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi e la pioggia di monetine che sommerse il segretario del Psi il giorno dopo, di fronte alla sua abitazione privata romana, l’Hotel Rapahel, in una messa in scena del linciaggio che senza il cordone di polizia avrebbe potuto travalicare i confini del simbolico ma fu comunque devastante. Dieci giorni prima il referendum sulla legge elettorale aveva inflitto il colpo di grazia a una prima Repubblica già agonizzante, ferita a morte dalla tempesta di tangentopoli, e prima ancora dall’avanzata che pareva inarrestabile della Lega del nord. Sepolta sotto i calcinacci del Muro crollato nel 1989. Nella mattinata di quello stesso 29 aprile si formava il governo che avrebbe dovuto accompagnare il Paese a nuove elezioni, dopo il varo di una legge elettorale coerente con l’esito del referendum. Lo presiedeva l’ex governatore di Bankitalia Ciampi, contava anche tre ministri del Pds, erede del Pci, e uno dei Verdi. Con il clima montato nel Paese negli ultimi mesi e anni, al confronto del quale quello che oggi si definisce "populismo" appare come compassato e austero, i rischi collegati alle nuove elezioni erano evidenti. Per questo la folta area dissidente del Psi guidata dall’ex delfino di Craxi Claudio Martelli, aveva proposto al Pds, in una serie di incontri segreti, una strategia comune. Passava per il prolungare di anni, possibilmente sino alla scadenza della legislatura il governo Ciampi e usare quel tempo per far sbollire la furia popolare derivata da tangentopoli, disinnescare la Lega e varare una legge elettorale tale da frenare l’arrembaggio delle forze "populiste". Almeno stando ai racconti di quegli esponenti socialisti, l’intesa era già stata raggiunta. Il progetto definito e concordato. Qualcosa di quella manovra era arrivato alle orecchie della Lega che si organizzò per parare il colpo in anticipo. Nel pomeriggio la Camera doveva approvare, a voto segreto, le autorizzazioni a procedere contro Craxi, il pesce più grosso nella retata di tangentopoli, diventato agli occhi dell’opinione pubblica il simbolo stesso di quello scandalo. Craxi si difese in un’aula strapiena e ammutolita. Ricordò a tutti, per la seconda volta in Parlamento, che al sistema di finanziamento illecito della politica avevano partecipato tutti e tutti, proprio tutti, sapevano. Ma l’esito del voto sembrava scontato in partenza. Gli stessi socialisti dissidenti erano decisi a votare per l’autorizzazione, rendendosi conto che il Paese, in quel momento e con i media schierati compatti ‘ contro il sistema’, non avrebbe tollerato un diverso verdetto. Se ne rendeva conto anche Bossi. Quindi diede ai suoi l’ordine di votare in segreto contro le autorizzazioni a procedere. Furono respinte e l’aula letteralmente esplose. I deputati del Psi ingaggiarono una serie di corpo a corpo con i colleghi leghisti, accusandoli, probabilmente a ragione, di aver ordito il tranello. Vinti, persino i commessi gettarono la spugna. In quel tardo pomeriggio qualche cronista parlamentare entrò impunemente in aula metaforicamente ridotta in macerie senza che la sorveglianza si peritasse di fermarlo. Il Pds dichiarò subito che ‘ non c’è più il governo Ciampi’. Poi Occhetto frenò. Limitò la reazione al ritiro dei ministri e il verde Rutelli seguì a ruota. Il governo restò in vita ma a quel punto senza più altra ambizione se non quella di un governo traghetto di corto respiro. Alla corte di re Bettino, o Bokassa come lo chiamavano allora, a festeggiare, la sera del 29, rimasero solo i fedelissimi. Unico a presentarsi tra i tantissimi che nel decennio precedente erano montati sul carro di Craxi e avevano sgomitato per restarci, l’amico imprenditore milanese: Silvio Berlusconi. Il giorno dopo i giornali fecero fuoco e fiamme. ‘ Vergogna’, come titolò Repubblica era il commento più lieve. Occhetto, con Rutelli, partecipò nel pomeriggio a un comizio in piazza Navona, a due passi dal Raphael. A manifestazione conclusa, e molti anche prima, i manifestanti si spostarono lì. Era la prima volta che una manifestazione assediava l’abitazione privata di un politico. Prendeva di mira l’uomo, non il leader. La persona, non il simbolo. Alle 8 il leader socialista aveva in programma un’intervista. Gli suggerirono di svignarsela dalla porta sul retro. Ma Craxi, torreggiante com’era, non era un pavido. Uscì dalla porta principale e fu sommerso dalle monetine lanciate dagli assedianti, dagli insulti, dagli sputi, dalle banconote agitate sotto il naso. La folla iniziò a premere sul cordone di poliziotti inviati all’ultimo momento dal capo della polizia Parisi. Fisicamente il cordone resistette e probabilmente non era neppure nelle intenzioni della folla travolgerlo davvero. Dai punti di vista simbolico, culturale e politico invece fu spianato. Da quel momento il bersaglio non fu più il capo politico ma l’uomo o la donna: la persona. Non lo si combattè più come nemico politico ma come ladrone, corrotto, colpevole di comportamenti sessuali scorretti, infamone. L’arma non fu più la contrapposizione nelle aule del Parlamento ma il discredito e l’invito al linciaggio metaforico, nei bar e poi sui social. È l’Italia degli ultimi decenni, quella che ha visto lo svilimento progressivo e finale della politica e della competizione politica. È nata in una sera di 18 anni fa, di fronte all’ Hotel Raphael.

Gianmarco Aimi per mowmag.com il 30 aprile 2021. “Bettino Craxi. L’ultimo giorno della Repubblica e la fine della politica”. Basterebbe il titolo per rendere il nuovo saggio di Filippo Facci degno di nota, perché infatti in queste 224 pagine appena uscite per Marsilio viene spiegata molto di più della cronaca dettagliata del 30 aprile del 1993, quando il politico più influente degli anni '80 venne contestato da una folla all’uscita dell’hotel Raphael, sua residenza romana, in protesta contro la decisione del Parlamento di negare quattro delle sei autorizzazioni a procedere per corruzione e ricettazione che la magistratura aveva richiesto contro di lui. Dopo dieci mesi a seguire le vicende dell’inchiesta Tangentopoli, ormai parte degli italiani lo consideravano il simbolo del malcostume e della corruzione diffusa in tutto il paese. Per comprendere meglio quanto descritto dal giornalista, allora cronista sul campo, ci siamo affidati a chi ha vissuto ancor più da vicino quei drammatici momenti. Ci riferiamo a Bobo Craxi, figlio dell’allora leader socialista. Il 30 aprile ricorrono i 28 anni da quel 30 aprile 1993.

A lei cosa evoca quel giorno?

Lo squadrismo politico. Ci fu una convergenza di fascisti e comunisti che diedero vita a una gazzarra di stampo squadristico. Era la prima volta che succedeva nel mondo democratico che venisse aggredito un uomo politico sotto la sua abitazione.

Nel libro viene fatto notare un particolare: Bettino Craxi decise di uscire dall’ingresso principale e non, come avrebbe potuto, da quello secondario. Questione di orgoglio?

La definirei una scelta di libertà. In quel momento andava reso esplicito cosa già stava avvenendo da mesi. Cioè che presto o tardi le aggressioni verbali si sarebbero trasformate in intimidazione fisica. Il passo successivo era un atto terroristico. Dopo le monetine si attendevano le pallottole. Quello era il clima politico alimentato dai magistrati milanesi.

Come fu possibile arrivare a quel momento, senza che si prendessero delle precauzioni?

Perché le forze politiche estreme, eredi di culture totalitarie, si accodarono a quel clima. I mandanti morali, bisogna dirlo, cioè i veri responsabili furono gli allora segretari del Pds e dell’Msi. Non ci fu nessuno spontaneismo da parte della gente. Non c’era il popolo. Poi si può sempre ricamare sul lavacro popolare che abbatte il potente, ma si trattava di una esigua minoranza di stampo squadristico che colpiva un uomo politico caduto nella polvere. Per cui, qualificabile ancor di più come un gesto vigliacco. Va poi sottolineato il senso democratico dei compagni che erano convenuti in quella piazza e che facevano servizio d’ordine del sindacato, che avrebbero potuto scatenare una rissa, cosa che non fecero. Diciamo che gli squadristi vennero risparmiati quella sera.

Il libro di Facci ricostruisce dettagliatamente quel giorno ora per ora, arrivando alla conclusione che in quelle monetine lanciate a suo padre si nasconda la fine della politica.

Di un periodo politico della storia del nostro paese certamente. Ma la politica non finisce mai, su questo sarei meno tranchant. Sicuramente fu un elemento simbolico, che però non rigenerò la politica, ma la confinò in una lunga ed eterna transizione, per dirla con le parole di Chico Buarque.

Ultimamente, nel commentare il blocco del vitalizio a Ottaviano Del Turco – ex presidente della regione Abruzzo – lei ha parlato di “persecuzione nei confronti dei socialisti”. Dopo tanti anni, pensa che essere socialista in Italia sia ancora uno stigma?

Diciamo che c’è un pregiudizio anti-socialista che permane. Che non si declina solo nella vicenda odiosa di Del Turco, fortunatamente risolta. Ma è un pregiudizio che ha generato negli anni il tentativo, peraltro riuscito, di emarginarci dalla politica italiana. D’altronde, il permetterci di fare politica in modo attivo riqualificherebbe il loro fallimento. Cioè di chi si è mosso su certe posizioni e poi ha dovuto nascondersi, camuffarsi, mutare pelle. Sono i mutanti della seconda e terza repubblica che hanno dovuto cambiare opinione, posizione, schieramento. Ne è seguita una stagione di trasformismo, che non ha rigenerato né la sinistra né la politica italiana. In fondo non si sono mai fatti i conti con quella storia.

Come mai?

L’anomalia italiana è che vivevamo in un Paese nel quale esisteva il più rande partito comunista dell’Occidente, una contraddizione che ha finito per danneggiare la sinistra italiana che non ha fatto i conti con la propria esperienza, la propria tradizione e la contiguità verso il sistema totalitario sovietico. Di questo bisogna rendersene conto e prenderne atto. Fortunatamente, le nuove generazioni hanno tutto il tempo e la possibilità di farlo, perché scevre  da un rapporto con quanto avvenuto nella storia che hanno ormai alle spalle.

Eppure, a parte l’Italia, in Europa e nel mondo esistono partiti socialisti in buona salute e in alcuni casi sono anche al governo.

La socialdemocrazia, intesa come movimento, dottrina sociale, esperienza politica, ha subito il trauma del passaggio epocale. Dalla fase del capitalismo che poteva essere temperato dalle politiche socialdemocratiche allo sviluppo di un liberismo senza freni. La globalizzazione ha impresso un rallentamento, un affievolimento nella capacità dei socialdemocratici di spiegare la propria forza. E così, alcune istanze sono venute meno. La stessa presenza dello stato nelle economie si è fatta più fragile. Ci sono esperienze che sopravvivono perché più giovani, come quella spagnola e portoghese perché provengono dalla cupa stagione dei totalitarismi, dal franchismo al regime di Salazar. Ma se osserviamo la socialdemocrazia tedesca e il socialismo francese, cioè nelle più grandi nazioni europee, siamo in presenza di una vera e propria crisi.

E in Italia?

È stata sostituita da accenti e miasmi populistici, oppure come in Germania con la più fragile e compatibile politica dei Verdi, che hanno una lunga tradizione. In Italia non c’è un modello. L’unico della sinistra in questi anni ha preso le mosse dall’esperienza anglosassone, perché il Partito Democratico è una “cosa” americana.

L’ultima volta che si è sentito parlare di Psi è stato quando si è utilizzato il simbolo per permettere la creazione del gruppo al Senato di Italia Viva. Una circostanza che lei, da quanto ho letto, non ha apprezzato. Come mai?

Non è stato un giudizio sul fatto in sé, che per me è solo tecnico. Di Italia Viva ci sono cose che mi piacciono e altre meno. Non sopporto l’arroganza dei professorini della Leopolda, però mi piace come si battono alcune figure. Come Maria Elena Boschi per l’emancipazione femminile, o Giachetti per la sua “tensione democratica”, la definirei così. Sono però allergico al fatto che ci sia qualcuno che occupa il tuo spazio e poi finisce per sottrarti sovranità. Penso che i socialisti siano stati obbligati, per sopravvivere, a cedere la propria sovranità. Mi rendo conto che a volte avvenga per l’obbligo legato alla struttura dei sistemi elettorali con sbarramenti molto alti. Detto questo, è una formazione di minoranza in cui non mi rispecchio. Non posso apprezzare che la mia sopravvivenza dipenda da altri e quindi diventi subalterna.

Di Matteo Renzi che giudizio ha? In questi mesi è tornato al centro delle cronache per il suo rapporto con Mohammed bin Salman e il Governo saudita.

Sono stato un oppositore di Matteo Renzi quando era primo ministro. Sia sul referendum che su alcune sue politiche che non mi piacevano, in particolare rispetto al suo pessimo rapporto con i sindacati e il mondo del lavoro. Ma ho avviato un rapporto con Renzi quando era nella polvere, non quando era al potere. Verso di lui, per così dire, oggi il mio giudizio è variegato. Ha molti pregi e a volte dei difetti che sono devastanti. Però non intendo unirmi al coro dei detrattori. Non mi accodo alla polemica verso Ultimamente, ho preferito apprezzarlo nella transizione dal governo Conte a quello Draghi.

«Se in Cina sono tutti socialisti a chi rubano?». È la storica battuta di Beppe Grillo su Bettino Craxi durante Fantastico 7 del 1986. Allora suo padre era presidente del Consiglio. Oggi Grillo è contestato da più parti per il video in cui tenta di difendere il figlio accusato di stupro. Lei come lo vive, come una sorta di legge del contrappasso?

Non associo quello che avvenne 40 anni fa a quello che avviene oggi. Non provo quindi nessuna soddisfazione. Certo, spesso la nemesi mi pare che sia uno degli elementi ricorrenti nel Movimento 5 Stelle, perché a furia di cambiare pelle e mutare la loro natura vanno incontro a contraddizioni che rischiano di renderli non credibili agli occhi dell’opinione pubblica. Sul fatto specifico del video, la penso come tanti: che sia stato un errore, che le cose che abbiamo sentito non fanno piacere a nessuno e che ha fatto un danno anche a sé stesso. Beppe Grillo mi pare un uomo politico al capolinea. Anzi, sta già in deposito…

Tornando a Bettino Craxi, dopo quel 30 aprile del 1993 e tutto quel che ne seguì, dall’esilio ad Hammamet alla morte lontano dall’Italia, da chi è stato più deluso?

Di certo, chi nel partito socialista si mise all’opposizione in quel frangente commise un errore politico di prospettiva. Infatti, molti di coloro che assunsero posizioni di ostilità hanno avuto modo di ravvedersi. Ma gli errori fanno parte delle possibilità di un uomo politico. Dal punto di vista umano, considero quello che è avvenuto alla stregua di una guerra. E in guerra non puoi chiedere il coraggio a chi non riesce a darselo, specie se considerava quella battaglia non propria. Ma non aver capito che sulla difesa di Craxi si basava anche la propria difesa è stato un errore che hanno commesso in molti.

In questa particolare fase politica, quali dei progetti di Bettino Craxi sarebbe ancora attuale?

La pandemia ha scoperchiato i limiti, le arretratezze e i vincoli di un sistema istituzionale logorato e imperfetto. Dalla materia democratica stessa al rapporto tra Stato e Europa, tra Stato e Regioni, tra Regioni e Comuni in assenza di Province. E abbiamo capito che il populismo non è l’antidoto delle democrazie. Questa situazione ci ha dimostrato, quindi, la necessità che si debba porre mano a riforme di carattere istituzionale. Che sono, dal mio punto di vista, un elemento decisivo nelle società Occidentali moderne che vogliono mantenere alto il profilo democratico e garantire un robusto grado di efficienza nella celerità delle decisioni. Tutto questo era costitutivo del nuovo corso socialista, che avvertì prima di altri che si andava verso una società profondamente diversa. C’era già allora la necessità di svecchiare la classe politica, di un maggiore dinamismo, di avere una capacità di governare i processi e non di subirli. Oggi siamo ancora lì, al punto di partenza.

Andreotti, Cossiga e i summit segreti: quei report Usa sulla crisi italiana. Il biennio ’92-’93 nei dossier riservati dell’ambasciata americana a Roma e del consolato di Milano. I documenti raccolti nel libro «La seconda repubblica – Origini e aporie dell’Italia bipolare». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 27 aprile 2021. Il 30 aprile del 1993, qualche ora prima che a Roma Bettino Craxi diventi oggetto del drammatico lancio di monetine, «il numero due dei giudici milanesi», il cui nome è coperto da omissis, incontra a Milano il console statunitense Peter Semler. È contrariato rispetto alla decisione del Partito democratico della sinistra, presa il giorno prima dal segretario Achille Occhetto, di ritirare la delegazione degli ex comunisti dal neonato governo Ciampi, in segno di protesta contro le sei autorizzazioni a procedere contro Craxi che la Camera ha appena respinto. «È una decisione assunta sull’onda dell’emotività, che destabilizza l’esecutivo e rischia di trascinare il Paese verso elezioni anticipate», confida il magistrato al rappresentante degli Usa nel capoluogo lombardo, sottolineando come «il Pci di Berlinguer non avrebbe mai commesso un errore del genere». La prospettiva delle urne prima dell’approvazione della riforma elettorale, a quanto pare, spaventa i magistrati di Tangentopoli o quantomeno il loro «numero due»; preoccupato — annoterà il console — dalla possibilità che il voto con due leggi per Camera e Senato generi «un disastro», con Craxi che «verrebbe financo rieletto». Il report riservato inviato a Washington si conclude così: «Una manifestazione promossa della Lega e dalla Rete (il movimento di Leoluca Orlando, ndr) contro il voto (di Montecitorio su Craxi, ndr) è in corso in piazza Duomo». Qualche ora dopo a Roma, davanti al Raphael, sarebbe scoccata l’ora tragica delle monetine al leader socialista.  Il libro. È quanto emerge da uno dei tanti cablogrammi declassificati dal Dipartimento di Stato Usa che lo storico Andrea Spiri ha scoperto e raccolto in un saggio contenuto in un libro di prossima uscita («La seconda repubblica – Origini e aporie dell’Italia bipolare», curato insieme a Francesco Bonini e Lorenzo Ornaghi, edito da Rubbettino). Una sequenza di «confidential report» che inizia nel 1992, e che mostra uno spaccato inedito della transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica vista da Washington con gli «occhi» e le «orecchie» dell’ambasciata Usa di via Veneto e del consolato di Milano.

Il «partito» di Cossiga. «Il vecchio ceto politico in Italia si accorge del collasso di un sistema che ha edificato e gestito per decenni», scrive l’ambasciatore statunitense in Italia Peter Secchia in un report riservato trasmesso a Washington il 15 ottobre 1992. Mani Pulite procede senza sosta ma c’è chi pensa che la Prima repubblica si possa ancora salvare su un’Arca e individua anche il Noè: il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, che dal Quirinale aveva «picconato» anche la Dc, incassando un significativo dividendo in termini di popolarità.

Vertice al Grand Hotel. Una «fonte ben introdotta» avverte l’ambasciata Usa dei «movimenti» in corso a Palazzo. E riferisce di una «cena segreta» al Grand Hotel, organizzata il 12 ottobre 1992 dal segretario del Partito liberale Renato Altissimo. Seduti allo stesso tavolo ci sono «il magnate dei media Silvio Berlusconi, il petroliere Gian Marco Moratti, l’industriale Giovanni Rossignolo», più il giornalista Paolo Guzzanti. Tutti individuano in Cossiga, «anch’egli presente all’incontro (…), l’uomo dal profilo giusto per guidare un’operazione di rinnovamento». La storia andrà diversamente e il protagonista della nuova fase — un anno e mezzo dopo — sarà un altro dei commensali, Berlusconi. La cui partecipazione a quella cena, nell’ambasciata Usa, non era passata inosservata. «La presenza di Berlusconi», annota Secchia, «è particolarmente significativa in ragione della sua vicinanza a Craxi». E ancora: «Il Pli aderirebbe a questo gruppo (di Cossiga,ndr) e Berlusconi si presenterebbe come candidato. La prossima riunione del gruppo si dovrebbe tenere il 4 novembre».

L’incontro nascosto. Nella primavera successiva, anno 1993, i resoconti della diplomazia Usa si arricchiscono di un nuovo filone: quello relativo a Giulio Andreotti. Quando l’ex presidente del Consiglio viene chiamato in causa da alcuni pentiti di mafia e iscritto nel registro degli indagati della Procura di Palermo, la linea telefonica Roma-Washington si fa rovente. Clinton si è insediato alla Casa Bianca, l’ambasciatore Secchia ha lasciato via Veneto e, nell’attesa che il neo presidente Usa mandi il suo uomo in Italia (Richard Bartholomew), a presidiare la sede diplomatica c’è l’incaricato d’affari Daniel Serwer. È lui che il primo luglio 1993 accoglie in gran segreto Andreotti, che aveva chiesto di essere ricevuto. La visita, è la regola d’ingaggio degli americani, deve essere «riservata» e «non prestarsi ad alcuna strumentalizzazione politica». Traduzione: Andreotti ha la consegna del silenzio assoluto, gli Usa non vogliono che si sappia che il senatore a vita, indagato per mafia, è stato ricevuto. Di fronte a Serwer, il leader democristiano si difende dalle accuse. E l’incaricato d’affari scrive nel suo report: «Andreotti ha puntualizzato che negli anni ’70, nelle vesti di presidente del Consiglio, ha fatto trasferire i principali detenuti per mafia (incluso il pentito Buscetta, uno dei suoi attuali accusatori) da Palermo in un carcere di massima sicurezza. Egli presiedeva il governo anche nel momento in cui il giudice Falcone fu portato a Roma come funzionario del ministero della Giustizia (…) La mafia — ha detto Andreotti — si sta vendicando di lui». Non mancano i momenti di tensione, durante il faccia a faccia. Il senatore a vita sospetta che dietro i suoi guai giudiziari ci siano «mafiosi americani», «spezzoni deviati dei servizi segreti italiani» e pure dello «United States Marshall Service», l’agenzia federale e penitenziaria alle dipendenze del Dipartimento di Stato Usa. Gli interlocutori di via Veneto, a quel punto, gli chiedono se stia pensando «a un coinvolgimento del governo statunitense in questo disegno». E Andreotti risponde di no.

La fine di Craxi e il potere dei pm. Dal lancio delle monetine all’Hotel Raphael al potere dei Pm: Filippo Facci e il suo 30 aprile 1993. Frank Cimini su Il Riformista il 21 Aprile 2021. «Il linciaggio di un uomo politico come Bettino Craxi suonò da autoassoluzione di massa per milioni di mandanti che per generazioni avevano potuto votare, accettare, legittimare e che ora volevano bruciare anche i loro vizi nazionali le elargizioni a pioggia il debito morale e pubblico poi attribuito a Craxi e insomma ciò che l’Italietta aveva accumulato nei decenni. Vogliono il rogo non un processo dirà Craxi». 30 aprile 1993, Bettino Craxi l’ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica è il titolo del racconto con cui Filippo Facci, all’epoca cronista del quotidiano socialista Avanti ricostruisce la sera del lancio di monetine a Craxi davanti all’hotel Raphael che fu il suo quartier generale. Sono 220 pagine editore Marsilio. Invitato da amici, compagni, polizia ad uscire dal retro Craxi non volle sentire ragioni. Decise di affrontare la folla vociante e rumorosa che si era radunata, reduce da un comizio di Achille Occhetto ma si erano aggiunti anche un po’ di missini. Insomma un cocktail micidiale a sostegno della falsa rivoluzione di Mani pulite. Per Facci quell’episodio fu centrale in tutta la vicenda. Anche se il giorno dopo e pure in quelli successivi i quotidiani non ne fecero cenno. «I poliziotti in borghese si muovono qua e là e fermano degli esagitati che vogliono arrivare alla macchina e che si lanciano. Sono pugni sul vetro, calci, colpi di casco e sassi sulla carrozzeria, d’un tratto non c’è più nessun filtro tra l’auto e i dimostranti, i poliziotti sono spersi, travolti, impegnati a bloccare la pressione a destra e a sinistra, Craxi sorride rivolto al finestrino. Tiratori di rubli, mormora. Che cosa c’è, dopo di questo che cosa c’è?». «Ciò che venne dopo non fu più politica, ne furono le forme della assenza – chiosa l’autore – la tecnocrazia, l’illusione della società civile, la panpenalizzazione integrale del vivere quotidiano, il neo populismo, persino una medicalizzazione coattiva della cittadinanza con un netto restringimento delle libertà costituzionali, qualcosa che è bel lungi dal vedere la fine mentre scriviamo ma che ha messo ancor più fuori gioco se possibile i partiti intesi come rappresentanti della fisiologia democratica. Le piazze in futuro non avrebbero più avuto nemmeno le monetine da tirare e non solo per un indubbio impoverimento del paese ma perché le piazze sarebbero diventate virtuali. Il mondo è cambiato ovunque ma solo da noi con una cosiddetta rivoluzione a fare da abbrivio». Così si arriva ai giorni nostri ripensando in pratica a quello che accadde ormai quasi trent’anni fa. Il paese ha avuto sempre bisogno di un capro espiatorio e non è cambiato. Basta vedere quanto sta avvenendo adesso con il caso magistratura che la casta togata – imbrogliando, utilizzando carte false e nascondendo quelle vere – cerca di veicolare come caso Palamara: circoscrive a un solo responsabile che però aveva piazzato almeno 85 colleghi in ruoli apicali in posti di potere vero. Bettino Craxi aveva fatto quello di cui anche altri si erano resi responsabili. Disse papale papale in pieno Parlamento che tutto il finanziamento della politica era irregolare, invitando chi non fosse d’accordo ad alzarsi e a dirlo. Non si alzò nessuno. Erano tutti imbarazzati, come i magistrati oggi davanti alle accuse e autoaccuse di Palamara che chiama in causa un’intera categoria, un sistema. Quella magistratura che 30 anni fa si era proposta per salvare il paese, appoggiata dai giornaloni oni-oni di proprietà di editori con altre attività e per questo sotto lo schiaffo del mitico pool. Facci ricorda le telefonate con cui i direttori la sera concordavano i titoli. Erano i megafoni del pool. Chi scrive questa breve recensione era lì al quarto piano a cercare di raccontare una storia diversa. Mi toccò la medaglia del primo giornalista al mondo al quale il pool fece causa. Avevo scritto che gli imprenditori prima si mettono d’accordo con i politici per fare i soldi e poi con i giudici per non andare in galera. Scrissi che il mitico pool aveva invitato i colleghi bresciani a non andare ad Hammamet per sentire nell’inchiesta su Di Pietro un latitante, Craxi. Quel viaggio poi non si fece. Il “latitante” per telefono mi disse che ero uno dei pochi ad aver capito e di aver invitato i suoi a seguirmi a leggere quanto scrivevo sul Mattino. E lì capii definitivamente che l’uomo che aveva avuto in mano l’Italia era messo male. Ma proprio male. Frank Cimini

Melania Rizzoli per "Libero quotidiano" il 22 aprile 2021. Quel giorno, giovedì 30 aprile 1993, c'ero anch' io con Filippo Facci fuori dall'Hotel Raphaël ad assistere al famoso lancio delle monetine contro Bettino Craxi, ad ascoltare i cori rabbiosi, le ingiurie e gli insulti urlati contro di lui con i pugni levati, a percepire la tensione fortissima che vibrava nell' aria e il disprezzo esibito con violenza dalla folla presente, che ondeggiava compatta come un'armata militare, sventolando banconote da mille lire cantando: «Vuoi pure queste/ Bettino vuoi pure queste» sull' aria e al ritmo di Guantanamera, in un clima sempre più esplosivo verso l' uomo che era stato fino a pochi mesi prima il politico più influente negli anni '80. E in quei pochi secondi di sconcerto e di pena, perché l' episodio lapidatorio durò poco meno di mezzo minuto, io e Facci, che allora non ci conoscevamo, eravamo entrambi presenti, vicini e stretti come sardine, attoniti e inconsapevoli che quel momento drammatico che stavamo vivendo in mezzo al popolo furioso sarebbe diventato il simbolo per eccellenza di Tangentopoli e di Mani Pulite, un evento filmato da un solo giornalista del Tg4 (Fabrizio Falconi) con il suo operatore, arrivati di corsa da piazza Navona, i quali registrarono quei pochi minuti consegnando alla storia un servizio che certificava l' esatto inizio del collasso rovinoso della Prima Repubblica. L'ultimo discorso di Bettino Craxi in Parlamento nel 1993 ( Ho letto il nuovo libro di Filippo Facci 30 aprile 1993 con sottotitolo: Bettino Craxi. L'ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica ( Marsilio Specchi ed, 224 pagine, euro 18) in treno in viaggio da Milano a Roma, ma verso Firenze lo avevo già terminato, presa com' ero dalla prosa tumultuosa, appassionata, documentata, tragica e accuratissima, delle giornate drammatiche che precedettero la fine politica del leader socialista che io conoscevo bene, essendo stata il suo medico a Roma dal 1985 e che ho continuato ad assistere fino alla sua morte il 19 gennaio 2000 ad Hammamet, in Tunisia.

TERAPIE DIMENTICATE Quel giovedì 30 aprile 1993 io mi trovavo al Raphaël per caso, per ragioni professionali, ero andata a visitare Bettino nel pomeriggio, lui mi aveva chiamato perché lamentava disturbi, molti dei quali erano causati dalla drammaticità di quelle giornate politiche che lo distraevano dal rigore terapeutico che gli era stato imposto quotidianamente da mesi, e che non sempre rispettava. E dal giorno prima, quello del famoso voto segreto alla Camera, che negò l' autorizzazione a procedere nei confronti del leader socialista, lui si era "dimenticato" di assumere qualunque terapia, come mi confessò candidamente, preso com' era dalle ore convulse narrate con dovizia di particolari, cronologicamente perfetti e insieme terribili nel libro di Facci. E quelle pagine mi hanno fatto rivivere quei momenti con grande emozione, perché raccontati da dentro, ovvero da quello che accadeva all' interno del Raphaël, e da fuori, dove si preparava l' assalto di una folla inferocita e carica di bile, che si ingrossava ogni minuto che passava, arginata faticosamente da pochi e sparuti celerini, folla che sognava Piazzale Loreto tentando il linciaggio mediatico, politico e fisico di Craxi, dei suoi fedelissimi e finanche delle auto di scorta prese ripetutamente a calci. Bettino, quel pomeriggio, nel suo appartamento al 5° piano del Raphaël, da me accettò frettolosamente di farsi controllare soltanto la glicemia, che era alta: «A pranzo ho mangiato pure il gelato» si giustificò guardandomi di traverso e, nonostante le mie insistenze, non ne volle sapere di ingoiare pillole o farsi una iniezione di insulina, poiché era più preoccupato dalle grida crescenti della piazza che arrivavano fino all' ultimo piano dell' albergo. Come racconta Filippo a nulla sono valse le sollecitazioni degli agenti di sicurezza e degli amici socialisti presenti che di alternavano davanti a lui per convincere Craxi ad uscire dalla porta posteriore dell' hotel, come se nessuno di loro conoscesse l' uomo, il suo piglio, il suo orgoglio ed il suo coraggio, che mai avrebbe accettato di non affrontare la folla che lo invocava malamente scomparendo dentro una qualunque porta di servizio.

«DA DIETRO NON ESCO» «Qui, a casa mia, nessuno mi può impedire di uscire dalla porta principale. Io da dietro non esco» disse Craxi infastidito dalle pressioni dei suoi, diritto in piedi con tutta la sua mole nella hall dove nel frattempo eravamo scesi, e lo disse sovrastando tutti con la sua stazza, alzando il mento, stringendo le mascelle e mugugnando, nel suo tipico atteggiamento di quando era contrariato, e quello «non era un gesto di sfida ma la reazione di uno come lui che trovava assurdo e impensabile che gli si potesse andar sotto casa per manifestare e insultarlo». Da quella porta di sicurezza invece Craxi fece uscire me, che ero ancora in piedi nel trambusto della hall stringendo la mia borsa da medico, tra gruppetti di amici, giornalisti e clienti dell' albergo, per prudenza mi disse, spingendomi da una spalla, in realtà per proteggermi dall' ira del popolo urlante, che insultava chiunque osasse mettere il naso fuori dall' ingresso principale, in via largo Febo, che raggiunsi però dopo un minuto, facendo semplicemente il giro del palazzetto, per assistere all' uscita a testa alta del fiero «cinghialone» (copyright Vittorio Feltri) che schivava le monete prima di infilarsi in auto e per memorizzare una scena indimenticabile e dolorosa, che Facci descrive da dio, secondo per secondo , dedicandole un intero capitolo, e che resterà impressa indelebile nella memoria storica e nella coscienza di questo Paese. Invidio Filippo per la sua abilità ad aver scritto fatti e cronache di quei giorni senza filtri e ipocrisie, vergando sconcerti e oscenità senza opportunismi, e invidio la sua narrazione tumultuosa capace di far letteralmente "vedere" gli eventi che racconta tra le righe come in un film, fotogramma per fotogramma, come se tu fossi lì a viverli e guardarli sul palcoscenico della vita insieme agli attori, inondandoti di emozioni positive e negative, di soddisfazione e di disgusto, di sdegno e di amarezza, in una corsa impetuosa verso il baratro che attanaglia le budella e ti mozza il respiro, aspettando la fine liberatoria dal dramma, con il calo del sipario. Invidio Filippo per la sua memoria prodigiosa, per la ricerca accuratissima dei particolari, per il racconto fedele di tutti i protagonisti di quella stagione politica, magistrati, parlamentari, giornalisti, che lui ha conosciuto bene, con i quali si è confrontato, ha riso e litigato, riportando commenti e stralci di editoriali, di interviste e di articoli che pure critica senza sconti, come fa sempre nella vita, senza risparmiare nessuno, inclusi i suoi colleghi più amici.

MOMENTO CHIAVE Scrive Facci: «Ciò che venne dopo quel periodo non fu più politica: furono le forme della sua assenza. Un vecchio modo di governare le nazioni, di cui Craxi era il perno, è stato spazzato via: non è accaduto in un giorno solo, ma se dovessimo sceglierne uno non avremmo dubbi. È il giorno in cui morì la politica». In realtà, anche la morte politica di Craxi ebbe inizio quel giovedì 30 aprile 1993, all' ingresso del Raphaël in largo Febo, dietro piazza Navona, verso le sette di sera, all' imbrunire di una giornata lunga e disgraziata. Quello che racconta Facci nel suo libro è un documento storico imperdibile e insieme spietato, che schianta gli animi, scuote le coscienze, non lascia alibi a nessuno, anzi, lascia allibiti e fa riflettere, a distanza di oltre 20 anni sui fatti e sui protagonisti di un' epoca che ha definitivamente cambiato la percezione della politica nel nostro Paese, e per non dimenticare quei fatti, quei commenti, quelle dichiarazioni e quei ricordi dei mesi drammatici di Mani Pulite, con il loro corteo di giudici, di indagati, di arrestati, di morti e di suicidi che Filippo aggiunge al pezzo di storia d' Italia che ha vissuto da protagonista

"Toghe, Salvini, migranti e Pd: vi racconto tutto…" Francesco Curridori il 21 Giugno 2021 su Il Giornale. L'ex ministro socialista Claudio Martelli ripercorre i suoi esordi politici e spiega perché il Pd, in materia di immigrazione, sbagli a proporre lo ius soli. Magistratura, immigrazione ed errori del Pd. L'ex ministro socialista Claudio Martelli si racconta in questa lunga intervista in cui ci offre una lucida analisi dell'attuale situazione politica.

Quando e perché ha iniziato a far politica e perché aderì al Psi?

“Mi ricordo che a 13 anni, nell'ottobre del 1956, mentre ascoltavo insieme alla mia famiglia le notizie dell'invasione sovietica a Budapest, mio fratello maggiore, giovane repubblicano, si mise a piangere. Sentire che la rivolta di un piccolo Paese veniva schiacciata dai carri armati coinvolse emotivamente anche me. Due anni dopo, ebbi difficoltà col latino e un amico di mio fratello, il professor Tramarollo, mi diede ripetizione e mi invitò anche a partecipare a un concorso dell'associazione mazziniana italiana di cui era presidente e io lo vinsi. Negli anni '60 mi appassionai all'unificazione socialista come del resto La Malfa che aveva detto:' Se i socialisti dessero vita a un new deal di tipo americano dovremmo partecipare anche noi, l'Italia ha bisogno di una sinistra democratica'. Quelle parole mi si sono stampate nell'animo e nella testa e da allora ho sempre studiato e lottato per creare anche in Italia una sinistra liberale e democratica capace di sfidare quella sinistra comunista”.

Com'è nata la sua amicizia con Bettino Craxi?

“Avevo 19 anni quando De Pennino, capo dei repubblicani milanesi, mi chiese di aiutarlo nella campagna elettorale e mi fece conoscere Craxi che di anni ne aveva 29. Era alto, grosso fumava di continuo. Mi chiese di me e dei miei studi con un’aria di superiorità che divenne sarcasmo di fronte ai miei giudizi politici e lui, mentre commentavamo i risultati elettorali, notando che mi stavo distraendo, si spazientì: ' hai letto troppo Cesare Pavese e troppo poco Gian Burrasca'. A 21 anni gli chiesi di celebrare il mio matrimonio, ma poi dal '64 al '67 non lo vidi più. Quando, insieme ad altri repubblicani e ai giovani amendoliani della destra comunista, aderimmo al Psi e conobbi meglio Craxi, giovane segretario della federazione di Milano, è iniziata la nostra amicizia e da lui ho imparato a fare politica. Bettino mi ha fatto una cura di 'pragmatismo' ma anche di storia reale vera e concreta. Voleva che 'i suoi quadri' si formassero anche nell'esperienza amministrativa però rimase molto colpito quando fui eletto vicepresidente della gioventù socialista mondiale. Una volta diventato segretario di partito, mi chiese di raggiungerlo a Roma e così inizia la mia esperienza politica nazionale”

Lei è stato il primo a scrivere una legge sull'immigrazione. Perché Dal 1991 ad oggi l'Italia non è ancora riuscita a governare questa emergenza?

“Con la mia legge poteva entrare in Italia solo chi aveva un lavoro e un alloggio e, quindi, decidevamo noi chi poteva entrare e chi no. Fu approvata con il 92% di voti a favore perché si capiva che era una legge severa, ma giusta che conteneva anche i respingimenti. Nel 1991, dopo lo sbarco di 24mila albanesi, sono andato in Puglia, li ho fatti censire uno per uno dalla commissione ministeriale e ne ho rimpatriati 20.000 accogliendo solo quelli che avevano diritto all’asilo. Nella mia legge, a differenza della Bossi-Fini, le espulsioni erano una materia amministrativa. Era la polizia che fermava subito lo straniero alla frontiera e lo rimandava nell'ultimo Paese da cui era arrivato accompagnandolo alla frontiera. Finché è stata in vigore, gli immigrati sono aumentati di 45mila unità per dieci anni, mentre nei successivi dieci anni ne sono entrati 3 milioni. Siccome i flussi venivano programmati d'accordo con le Regioni, è stata preferita un'immigrazione dall'Est Europa, dal Sudamerica e dalle Filippine, mentre è stata contenuta quella proveniente dai Paesi del Maghreb perché l'integrazione era più difficile. Nel governo Andreotti, ho creato il ministero dell'Immigrazione, l'ho affidato a Margherita Boniver e, insieme a lei, abbiamo fatto anche la legge sulla cittadinanza”.

La sinistra ha sempre avuto difficoltà a coniugare integrazione e accoglienze e, oggi, il Pd vorrebbe approvare lo ius soli. Lei cosa ne pensa?

“Sono molto critico nei confronti del Pd, dire: 'porti aperti' e non occuparsi di chi entra non è una politica seria. All'inizio Renzi e Alfano hanno fatto i furbi: facevano entrare tutti e, poi, li spingevano fino ai valichi di frontiera di Francia, Svizzera e Austria. Alla fine, francesi, svizzeri e austriaci hanno capito che gli italiani facevano gli umanitari a loro spese, si sono rotti e hanno chiuso le frontiere. Una delle cose più ridicole della sinistra più vecchia era la contrarietà a Schengen. “L'Europa deve essere aperta e accogliente, non una fortezza chiusa” e poi sono diventati i più strenui difensori di Schengen perché hanno capito che, per avere la libera circolazione in Europa, devi regolamentare gli ingressi dagli altri Paesi. Se possibile si devono scegliere quali immigrati accogliere anche con canali umanitari e, per questo, sono andato a fare negoziati e trattati in Tunisia e Marocco. Dicevo: 'Quanti concittadini volete che accogliamo? 20-25mila si può fare, gli altri però dovete fermarli voi: in mare aperto sarebbe un assassinio'. Invece è stata la sinistra a cambiare posizione. Io ancora mi ricordo Napolitano che diceva: 'Fermo contrasto all'immigrazione clandestina'. Poi se lo sono dimenticati e, quando Minniti ha riprovato a governare il fenomeno, lo hanno preso a sassate. Così la Lega è passata dal 4 al 17%. Ora, l'ultima trovata è quella dello ius soli proposto da Letta che, forse, non sa che lo ius soli c'è già dal 1990 con la Legge Martelli dove c'è scritto che, per ottenerlo, servono 10 anni di residenza nel nostro Paese. Loro chiamano ius soli un qualcosa che con lo ius soli non c'entra niente. Quello che intendono approvare loro è la cittadinanza per diritto di nascita che esiste solo negli Usa, che era un Paese di immigrazione, e serviva per distinguere gli immigrati che erano nati e già presenti in America da quelli che arrivavano. I primi avevano il diritto di voto, i secondi no. Era una legge che serviva anche per garantire il diritto di voto agli afroamericani, ma quelli del Pd, come Salvini e la Meloni, queste cose non le sanno perché non studiano e pensano di sapere già tutto. Non dovrebbero chiamare ius soli una cosa che c'è già intendendo tutt’altro: così si genera solo confusione”.

Vedo che è molto critico nei confronti del Pd...

“Ho sperato che il Pd diventasse quel partito di sinistra democratica cui ambivo da giovane. Il Pd non è un'esperienza di grande successo. Per fare una cosa nuova bisogna partire con cambiamenti sostanziali. La novità non può consistere nel battezzare con un nome nuovo due cose vecchie che si uniscono. Una cosa nuova sarebbe stato un partito nuovo che avesse una visione del mondo, dell'Italia, della società, insomma una cultura diversa, più moderna e aggiornata interprete delle classi medie e popolari. E, invece, come dicono loro stessi, è stata una fusione a freddo tra la sinistra democristiana e il grosso del Partito Comunista. Letta evoca Prodi e la carovana dell'Ulivo ma allora sfioravano il 50% ora arrivano appena al 20%. Per non dire che, anche mettendo insieme tutte le tribù, da Mastella a Bertinotti, Prodi ha vinto di un soffio ma entrambe le volte è durato solo due anni”.

Lei rimpiange la Prima Repubblica?

“Non sono un uomo da rimpianti. Mi piace vivere il presente e cercare il futuro del mio paese. Allora ero molto critico dei difetti della Prima Repubblica. Se però parliamo della qualità del personale politico, è ovvio che c'è un abisso perché all'epoca c'era formazione politica, economica, culturale e sì, anche ideologica non priva di pesantezza. La prima repubblica ha guidato l’Italia attraverso una lunga crescita e enormi contraddizioni basti pensare al terrorismo e alla mafia, ma siamo riusciti a vincere entrambe e credo di avere qualche merito anch'io in queste vittorie”.

Lei, da Guardasigilli, ha vissuto la stagione delle stragi. Cos'ha provato vedendo la scarcerazione di Giovanni Brusca?

“A caldo ho reagito malissimo, è stato un pugno nello stomaco. Questo non vuol dire che sono contrario alla legge sui pentiti che, tra l'altro, ho fatto io. Che, poi, sono collaboratori di giustizia, di pentiti al massimo ce n’è il 5-10% . Tutti gli altri hanno fatto i loro conti: da soli rischiavano di essere fatti fuori dalla mafia, mentre se passavano con lo Stato potevano ottenere qualche beneficio e qualche sconto di pena. Falcone mi ha insegnato che, con i collaboratori, non bisogna instaurare dei rapporti personali, intimistici, d'amicizia e di scambio. Bisogna valutare le loro informazioni e verificarle. Invece, nel passato, questi collaboratori sono diventati dei jukebox e bastava che un pm inserisse la monetina e questi parlavano. Questa non è collaborazione, è manipolazione del diritto e della giustizia. Ora io non so quale sia stata l'entità dell'aiuto di Brusca, ma a occhio vedo una sproporzione tra i delitti che ha commesso - 150 omicidi, varie stragi e l'assassinio di un bambino sciolto nell'acido - e la pena che gli è stata inflitta. Avrebbe dovuto meritare 7-8-10 ergastoli o 40 anni. Mi sembra un po' poco 25 anni. Cosa ci ha rivelato? Il terzo segreto di Fatima? Ho dei seri dubbi”.

Cosa pensa del governo Draghi?

"Draghi è un uomo della Prima Repubblica e, non a caso, è il migliore in pista. Del suo governo penso bene, anche se qualche ministro non è adeguato – in particolare un paio di fifoni e di opportunisti. Craxi, diceva un governo è buono se i ministri sono buoni. C'è chi sta facendo benissimo come il mio amico Brunetta e chi fa meno bene”.

Da Tangentoli si è passato al sistema Palamara. Com'è possibile che la giustizia sia entrata così in crisi?

“Perché si è lasciato che si sviluppasse come una metastasi il cancro che c'è dentro la magistratura? Parlo dell'Associazione nazionale magistrati, così definita da un magistrato come Cantone e in termini non dissimili da Nordio, da Di Matteo e tanti altri. Ora fanno tutti a gara, tutti indignati e arrabbiatissimi col correntismo, ma questa è ipocrisia! Dove vivono e prosperano le correnti? E’ nell'Anm che si riuniscono, complottano e si spartiscono gli incarichi. È l’Anm che sequestra il Csm, eleggendo i 2/3 dei membri ha in pugno la maggioranza, fa e disfa, concede e nega come vuole promozioni, carriere, trasferimenti, incarichi esterni. È anticostituzionale che un'associazione privata come l'Anm si impadronisca delle elezioni e delle nomine e mi stupisco che Mattarella che stimo assai sia così muto di fronte a uno scandalo di tali proporzioni”.

Cosa pensa dei leader del centrodestra?

“La scena è occupata da Salvini e Meloni. Il primo è diventato più sobrio, ma anche molto furbetto e opportunista e non è detto che gli giovi. La Meloni più formata e più coerente è l’unica opposizione e se ne avvale sottraendo voti a Salvini. Se, però, guardiamo cosa è successo dal 2018 a oggi, vediamo che Lega, FdI e M5S insieme raccolgono ancora più di metà dell’elettorato, solo che milioni di voti 5 Stelle sono passati prima alla Lega poi dalla Lega quasi altrettanti sono passati a FdI. Sono vasi comunicanti, voti di un'area vasta che c'è nel Paese in parte legalitaria e conservatrice, in parte populista e nazionalista, qualunquista ed estremista. Questa seconda parte richiama i fenomeni Brexit e Trump, Le Pen e Melenchon, Podemos, Ciudadanos e Vox in Spagna. Successi precari destinati, prima o poi, a svuotarsi o a riversarsi in altri contenitori. All’origine di questa transumanza c’è stata la crisi della sinistra storica, del comunismo ma anche del socialismo. Salvini sa bene che una parte dei suoi elettori viene dal Pci, come Berlusconi sapeva bene che una parte importante dei suoi voti era socialista. Il Psi - come la Dc, il Psdi, il Pli, il Pri - è stato distrutto da Mani Pulite. Il Pci invece ha scelto di suicidarsi. Rimuovendo la sua storia antisistema ha perso il suo retroterra sociale ed è diventato una piccola ditta per una piccola Dc".

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”.  Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano ‘Pubblico’ diretto da Luca Telese. Dal 2014 collaboro con ilgiornale.it, testata per la quale ho prodotto numerosi reportage di cronaca dalla Capitale, articoli di politica interna e rumors provenienti direttamente dalle stanze del “Palazzo”.

Giovanni Terzi per "Libero quotidiano" il 6 aprile 2021. «Credo che conoscere il passato sia fondamentale per la nostra cultura personale ma di sicuro non ci fa prevedere ciò che accadrà nel futuro. Le analogie tendo a non sopravvalutarle, è facile scivolare su un terreno insidioso». L'intervista con Claudio Martelli, politico e filosofo, giornalista, scrittore e direttore del resuscitato giornale "Avanti", inizia così, parlando di quanto si possa prefigurare il futuro leggendo eventi storici e culturali del passato. La fluidità della chiacchierata con Claudio Martelli è scandita dai temi che in modo naturale si manifestano, facendomi chiedere spiegazioni.

Da Jaques Attali ed il suo libro "Breve storia sul futuro" a George Orwell ed il suo "1984", diventano terreni di confronto per cercare di comprendere se ciò che sta accadendo può avere radici in un passato prossimo.

«Sono cresciuto avendo come punto di riferimento filosofico l' Illuminismo e Pierre Bayle, che ha teorizzato e dato vita alla figura dell' ateo virtuoso, considerando la vita morale indipendente dai principi religiosi che si professano».

In buona sostanza, chiunque può vivere in modo onesto e virtuoso semplicemente seguendo ragione e buon senso, a prescindere dall' ammettere o meno l' esistenza di un Dio e delle sue leggi?

«È uno dei principi cardine dell' Illuminismo, un riferimento personale e intellettuale. Nella sostanza è la capacità dell' uomo di illuminare la propria mente ottenebrata dall' ignoranza e, a volte, dalla superstizione servendosi semplicemente della ragione».

E che periodo storico è questo che da più di un anno stiamo vivendo a causa della pandemia? Come l' ha vissuto?

«Ognuno di noi sta ripensando il futuro, sia il proprio che quello della società in cui vive. Personalmente ho vissuto momenti differenti; l' anno scorso mio figlio si è ammalato di Covid, ma per fortuna non è stato nulla di drammatico. Io, come tutti noi, ci siamo dovuti proteggere e per far questo abbiamo perso delle libertà costituzionali».

E lei cosa ha fatto?

«Oltre a leggere e a lavorare, visto che "l' Avanti" è tornato in edicola in piena pandemia, mi sono dedicato alla ricerca di film del passato da riguardare».

Ama il cinema?

«Da sempre, ed è una delle cose che più mi è mancata, insieme al teatro, in questo periodo. Ho riguardato tutti i film di Humphrey Bogart, Cary Grant e Katharine Hepburn, oltre che cercare la cinematografia francese come quella con Gerard Philipe».

E come vede il futuro?

«Personalmente comprendo l' emozione di andare su Marte e di colonizzare il pianeta e difenderò sempre la libertà della scienza ma, sinceramente, mi piacerebbe una maggiore attenzione verso la nostra Terra».

Cosa vuol dire?

"Voglio dire che la libertà è vita, ma la vita della specie umana è più importante della libertà di distruggerla. Chi obietta che la Terra, come è sopravvissuta a terremoti e catastrofi, così può sopravvivere a qualunque dose di Co2, fa confusione: a essere minacciata non è la Terra ma la sua vivibilità per noi. Elon Musk, precursore delle auto elettriche, teme che prima o poi un asteroide distruggerà la Terra, e perciò vuol rendere Marte un' abitabile seconda casa per gli umani. Penso che preservare la vita qui, dove è stata creata dalla natura, non è in contraddizione con l' esportarla altrove, ma sembra più a portata di mano».

E la politica oggi?

«Il culmine della politica è l' arte di governo: chiunque la eserciti fa politica. Ha fatto politica Mattarella, intervenendo per porre fine alla paralisi e all' inconcludenza dei partiti in piena pandemia. E fa politica Mario Draghi».

C' è però una politica fatta da tecnici?

«Chiunque chiamato a svolgere un compito istituzionale assume, di fatto, un ruolo politico, diventa un politico a tutti gli effetti».

E nella politica di oggi non esiste nessun elemento negativo?

«Almeno due gravissimi: il primo difetto è un difetto di cultura media, gran parte della società sta sotto una cappa di ignorantamento e così anche le culture dei partiti, ma il guaio più deteriore è che siamo una partitocrazia senza partiti. Ci sono dei simulacri ma non più le fondamenta democratiche, le strutture e le reti umane dei partiti. La partecipazione della base è inesistente o scarsa, tutto è affidato alla comunicazione tv o via social media, i capi non discutono, tengono monologhi».

Però ci sono partiti che raccolgono milioni di voti.

«Anche di più ne raccoglievano Mussolini, Stalin o Hitler...».

Quindi per lei è stata uccisa la democrazia?

«Possiamo dire che traballa, perché sono state recise le basi della della democrazia rappresentativa: il rapporto tra gli elettori e gli eletti che solo partiti veri e i collegi uninominali o, in subordine, le preferenze possono garantire. Questo nodo gordiano va tagliato una buona volta: sarebbe necessario un movimento di progresso, politico, democratico e civile che instaurasse una forma di rappresentanza veramente democratica per ricucire il rapporto tra politica e società».

Negli anni Novanta però la politica dei partiti ha prodotto risultati non sempre positivi.

«Quando c' era la Prima Repubblica sono sempre stato critico verso i tesseramenti gonfiati o le clientele che si aggiravano nelle varie segreterie dei partiti, e ho tentato invano le strade di un' autoriforma».

Uno dei temi centrali, così come trent' anni fa: il nodo giustizia. Cosa è cambiato dagli anni Ottanta, data del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, ad oggi?

«Il referendum del 1986 era nato sulla scia del caso Tortora. In quel periodo nella magistratura esistevano ideologie settarie e corporazioni di interessi, ma restavano anche tratti dignitosi nella giustizia. Lei consideri che l' 84 per cento degli italiani scelse per la responsabilità civile dei magistrati, ed il Parlamento approvava (13 aprile 1988) la legge n.117 sul "Risarcimento dei danni cagionati nell' esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati", nota come "legge Vassalli" (votata da Dc, Pci e Psi), il cui disposto, secondo i radicali e socialisti, si allontanava però decisamente dalla decisione presa dagli italiani nel referendum, facendo ricadere la responsabilità di eventuali errori non sul magistrato ma sullo Stato, che successivamente poteva rivalersi sullo stesso, entro il limite di un terzo di annualità dello stipendio. Cosa che non accadde mai».

Un referendum disatteso?

«Totalmente, e fu un peccato».

Lei, che assieme a Giovanni Falcone cercò di costituire la super procura antimafia...

«L' Associazione Nazionale Magistrati indisse uno sciopero generale contro di me. Il suo presidente, Raffaele Bertone, osò dire che la super procura con Falcone a capo era un' altra cupola mafiosa».

E oggi cosa si dovrebbe fare?

«Sciogliere l' Associazione Nazionale Magistrati, un' associazione privata che minaccia l' autonomia di ogni singolo magistrato, sequestra l' indipendenza di un organo costituzionale come il Csm, dispone delle nomine dei capi degli uffici secondo un sistema spartitorio e ricattatorio tra correnti di potere che è il cancro della magistratura italiana».

E come si dovrebbe nominare i componenti del Csm?

«Per sorteggio, come nell' antica Atene alcune magistrature. Abbiamo bisogno di credere in una giustizia imparziale».

Tornando agli anni Ottanta, con la vicenda di Sigonella (il governo Craxi si oppose a un intervento unilaterale degli Usa in territorio italiano nella vicenda dei terroristi palestinesi che avevano dirottato la nave Achille Lauro e ucciso un cittadino americano, ndr) si ruppe il rapporto tra Italia e Stati Uniti. Pensa che da lì sia iniziata la fine della Prima Repubblica?

«I rapporti non si ruppero mai: ci fu tensione, si sfiorò la crisi, ma non ci fu rottura. E più che a Sigonella, i rapporti si guastarono per un' altra vicenda. Nel 1986 i caccia americani attaccarono la Libia su ordine del presidente Ronald Reagan. Uno degli obiettivi era la residenza del colonnello Gheddafi e famiglia di Bab al Azizya, nel centro di Tripoli. Gheddafi si salvò all' ultimo minuto, avvertito dall' allora premier Bettino Craxi che lo informò del bombardamento incombente. Sotto le macerie della sua residenza-bunker rimase uccisa, secondo la versione ufficiale, la piccola Hana, di soli sedici mesi. Una delle due figlie adottive del Colonnello. La moglie di Gheddafi si presentò alle telecamere, sorreggendosi ad una stampella, sulle macerie di Bab al Azizya e minacciò vendetta. Al suo fianco aveva un figlio maschio, forse Seif el Islam, e in braccio una bambina, probabilmente Aisha Hana, la più piccola del clan, pianta come una martire. Sì, qualcosa si ruppe in un'alleanza storica e, forse, cominciò a morire la Prima Repubblica».

Un mese fa è morto Carlo Tognoli. Ha un ricordo di lui, sindaco di Milano?

«Di ricordi ne ho tanti. È stato un grande sindaco e un grande socialista turatiano, nenniano e craxiano. Laborioso e un po' burbero, io lo ricordo anche molto affettuoso, fu lui a introdurmi nel Psi milanese, sezione Monforte. Certe giornate della bella stagione a pranzo prendevamo un panino e andavamo in un campetto da soli a tirare calci al pallone. Aveva un tratto dolce del carattere, e anche quando il merito era suo, gli piaceva attribuirlo a un altro per farlo felice, come fa un uomo generoso e un politico vero. Tra le tante cose, nel 1979 promosse una splendida mostra sugli anni Trenta e le creazioni artistiche di quel decennio. Erano gli anni del fascismo imperante e ci furono polemiche stonate. L'arte, come la scienza, non ha confini, barriere, non sopporta steccati politici e ideologici. La mostra ebbe un grande successo e si risolse in una celebrazione dell'autonomia dell'arte e dell'ingegno».

Lettera di Luca Josi a Dagospia il 3 aprile 2021. Caro Dago, ringraziandoti sempre per la sconclusionata libertà che dal tuo sito hai regalato a questo bizzarro Paese ti chiedo ospitalità per riflettere su un ritratto pubblicato stamane, con grande enfasi, intorno alla figura di Craxi. Craxi non ha mai letto Dagospia, è mancato pochi mesi prima della sua fondazione, ma sospetto che ne sarebbe stato, insieme a Cossiga, una colonna di scrittura e ispirazione. Lo strillo di quest’oggi era su uno squarcio mal rimarginato di una ferita della nostra storia: il delitto Moro. Passa il tempo e, via via, anche quel momento andrà a sbiadirsi unendosi a tante epoche che nel club sandwich di una città stratificata nella storia non ha nemmeno spazio sui muri per ricordare tutte le sue età e quindi, per sopravvivenza, le dimentica (o le inscatola in qualche altrove, che poi non saprà più dov’è; a cento metri in linea d’aria da lì, da via Caetani, prima di Moro, assassinarono Giulio Cesare; oggi, quel luogo, non lo ricorda nemmeno una targa o una fermata dell’autobus). Ho simpatia per entrambi i protagonisti della pagina: intervistatore e intervistato. Ti scrivo perché, rispetto alla storia socialista, c’ho capito poco in quel molto di parole e ho provato a mettermi nei panni di un giovane lettore - sperando ce ne siano ancora - che di Craxi avrà sentito parlare nel chiacchiericcio come di qualcuno forse capace e di talento, ma responsabile di vari mali del mondo (e si ritrova oggi in un tempo che, ancora una volta, proclamava l’arrivo dell’irrimandabile era dell’onestà e si è impantanata, invece, in una verifica degli scontrini). Potrei scriverti per giorni di quei fatti narrati in ragione di conversazioni solitarie nella sospensione che l’esilio regala (una forma di lockdown con vista sulla memoria spalmato su anni e anni). Ho passato più tempo con quell’uomo negli ultimi due lustri della sua vita di tutti coloro che con diverse modalità oggi lo raccontano e da alcuni anni assisto allo strazio delle diverse rielaborazioni del lutto, che vedono riletture di fatti ed eventi messe in scene nelle forme più grottesche e funzionali al proprio sé. Una cosa banale è rotonda che vorrei riportare, anche sulla drammatica vicenda Moro, è questa: noi socialisti eravamo e siamo “Montaliani”; ci definiamo per “cosa non siamo, per cosa non sappiamo”. Sappiamo che le nostre idee sono fallaci, in quanto prodotte da uomini fallaci. Così ogni idea, ogni costruzione ideologica, è corrotta e in logica di ciò appare un assassinio di Stato il condannare la vita di un uomo, Moro, in ragione della tutela di uno Stato che è il parto, la costruzione mentale e formale, di un’idea prodotta e generata da uomini. Erronei. Ogni cosa deve essere fatta perché lo Stato salvi gli uomini e non viceversa, perché mentre gli uomini sono reali lo Stato è una creazione della loro goffa, imprecisa, razionalità. Se poi si procedesse per questa vertigine di avvitamento ideologico si sarebbe concepito che lo Stato avrebbe dato luogo all’eutanasia di Stato: ovvero la morte di un proprio cittadino per la difesa della sua idea di sé. E lo Stato, l’eutanasia non la riconosce nemmeno alle libertà del cittadino verso la propria vita. Tutto qui. C’è chi crede in Dio, chi in sè stesso, chi in un rubinetto. Tutti liberi. Poi nelle sue riflessioni – di Craxi - c’erano infiniti ragionamenti, dicibili e meno, ma che non avendoli resi pubblici lui, con lui devono rimanere. Continuo, invece, a incontrare persone che lo avrebbero conosciuto “lucido”, mentre nei miei anni sarebbe stato “opaco”. Sarà, boh. Alla sua morte è seguita la fase, postuma, degli interpreti; quelli che non c’erano, non hanno ascoltato, visto, letto, trascritto o archiviato, ma a posteriori raccontano. Facendone strazio. L’intervista si chiude con una chiusa confessionale: “Un’autocritica che i socialisti possono fare guardando la loro storia quale è?”. Mmmhh … ma possibile che ci tocchi pure l’autocritica? Finale? A babbo morto? E allora sì, non auto, ma una critica: il non avere vinto e avere regalato a questo Paese qualcosa di diverso da questa mortifera cultura cattocomunista che ci ha trascinato fin qui. Se il rivoluzionario Gesù, messo in croce e ben inchiodato alle pareti perché non cammini tra noi, fosse davvero in giro, li avrebbe cacciati dal tempio e dal tempo.

Giovanni Terzi per “il Tempo” il 3 magio 2021. La discrezione è il pudore della verità» così scriveva Roberto Gervaso qualche tempo fa. Oggi chi ha fatto della discrezione un proprio manifesto di comportamento è Ania Pieroni, bellissima donna, attrice e, negli anni ottanta e novanta, potente produttrice televisiva. Da lì in poi Ania si è ritirata a vita privata coltivando pochi e importanti amici. L'ho cercata per un anno proponendole una chiacchierata da scrivere sul giornale e solo dopo la telefonata della mia fidanzata Simona Ventura si è concessa.

Innanzitutto come stai e come hai vissuto questo anno di pandemia?

«Dal punto di vista fisico sto bene ma ho inevitabilmente il pensiero ai tanti morti in questo anno di pandemia che non sono riusciti ad avere aiuto e assistenza. In salute fisica ma con il pensiero ai tanti morti senza aiuto e assistenza».

Dici questo perché anche tu hai avuto lutti in questo anno perdendo qualche amico?

«Una su tutti se ne è andata Fiorella Mancini una mia carissima, una grande donna, una meravigliosa arnica; con lei se ne va un pezzo della mia storia».

Credi che questo anno porterà a dei cambiamenti futuri nelle relazioni tra le persone? Se si quali?

«Credo che siano cambiate le persone, sono più impaurite e questo fa aumentare le distanze».

E nel lavoro?

«La digitalizzazione, lo smartworking, può essere una opportunità ma a volte nasconde delle criticità. Non dimentichiamoci che smart significa anche furbo».

Nasci da una famiglia borghese romana e ti diplomi al liceo classico come sei entrata nel mondo del cinema?

«Mi sono anche iscritta a scienze politiche perché mio padre sognava per me una carriera diplomatica e, forse, aveva ragione. Io so soltanto che sognavo le stelle ed ho cercato di afferrarle».

Che esperienza è stata per te fare cinema?

«Mi ha fatto crescere, maturare in quanto è un mondo difficile. Ho avuto la fortuna di interpretare ruoli in alcuni film importanti come "Tenebre","Inferno", "Così come sei", "Conte Tacchia", "Fracchia contro Dracula" e molti altri ma erano più quelli che rifiutavo che quelli che accettavo. Posso dire con certezza che allora non era il mio ambiente».

Ad un certo punto diventasti direttore di una televisione locale GBR dal 1985 al 1991. Una emittente divenuta famosa per lo scoop del ritrovamento del corpo di Aldo Moro. In GBR hai fatto esordire importanti personaggi televisivi...

«C'era tanto tanto talento. Ricordo Liorni, Papi, Maria Rita Parsi nella trasmissione notturna "parlami di te". Io li ascoltavo, li guardavo negli occhi credo di aver avuto intuito! Ma con loro anche programmi innovativi come la Telecronaca allo stadio con in studio la mitica Simona Ventura, grande Simo, o Monica Leofreddi. C'erano tante donne, tanta femminilità e tanta dolcezza. Trovavo in ognuna di loro grande solidarietà unita alla caparbietà».

Che televisione era?

«Era una Tv di tutti, elegante e piena di armonia».

Qualche aneddoto divertente?

«Beppe Viola, che adorava invitarmi con lui allo stadio pensando che io fossi pazza del calcio, quando in realtà non ne capivo e non ne capisco niente perché me il calcio non è mai piaciuto. Però fingevo con rispetto! Oppure Adelina Tattilo che buttata in trasmissione dalla sottoscritta, da sola, davanti alle telecamere in diretta nella attesa delle telefonate che ancora non arrivavano disperata non sapendo che dire e che fare si mise a parlare dei fatti personali dei suoi figli dai quali chiaramente dopo venne linciata. Un altro aneddoto è quando feci fare il salotto a Marta Marzotto che invitó i ragazzi dell'Accademia Silvio D'Amico e, sbagliando, li presentò come Silvio Pellico!».

Fece una trasmissione con l'allora sindaco di Roma Franco Carraro.

«Ricordo benissimo perché mi inventai un programma giornaliero chiamato "il sindaco risponde" riempiendogli la scrivania di sponsor lui con il volto teso rigido tra mille fiori. Come sempre si comportò da signore. Mi ricordo quando Fiorella Mancini mi propose di fare una trasmissione sui morti e i funerali in versione pop. Oggi sarebbe impossibile; c'è meno libertà oggi di allora».

Hai avuto a che fare con la giustizia, sia nei tribunali (sei stata assolta con formula plena) che mediatica, dagli anni 90 ad oggi pensi sia cambiato qualcosa?

«Volevano attribuirmi a tutti i costi la proprietà della televisione GBR che è sempre appartenuta al Psi. Alla fine comunque sono riusciti a distruggere una bella realtà».

Sempre sulla giustizia credi sia necessaria una riforma? E se si di che tipo?

«Il PSI di Craxi voleva il presidenzialismo, la riforma costituzionale. Sono passati tanti anni. Il tempo lascia il segno».

Parliamo d'amore: ad un certo momento ti sei innamorata del giornalista Osman Mancini, e poi ti sei sposata con Gennaro Moccia, che ruolo ha avuto nella tua vita l'amore.

«Sono stata una donna molto amata ho avuto lunghi matrimoni nel senso di relazioni importanti e di tanti anni. Mi copro di ridicolo se dico ancora oggi che 1 amore deve rimanere dove batte il cuore?»

Assolutamente no anzi. Un altro sentimento importante è la riconoscenza, chi ti è sempre stato accanto?

«Della GBR Fabio Alescio e da allora nella mia vita Osman Mancini vicino a me per sempre».

Chi ti ha voltato le spalle?

«Tutti quelli che hanno voltato le spalle a Craxi».

Sei una persona riconoscente con chi ti ha sostenuto?

«Certamente. Molta gente ha il complesso della riconoscenza perché a molti pesa dover dire grazie mentre a me no. È importante, che qualcuno riconosca il tuo valore e ti offra un’opportunità per tirarlo fuori credendo in te. Sono momenti decisivi e come puoi non essere grata ...».

Hai vissuto la «prima repubblica» ed oggi sei un'attenta osservatrice di ciò che sta accadendo nel nostro paese. Quali sono le tue valutazioni sulla politica attuale italiana?

 «Tra giustizialismo e qualunquismo la classe politica è impaurita e impoverita. Come l'Italia stessa. Gli italiani dovranno avere ancora molta pazienza. Altro che digitalizzazione e super bonus secondo me stiamo inseguendo le nostre arretratezze. Dobbiamo cambiare pagina, oggi il grande dramma dell'Italia è il corto circuito istituzionale tra Stato e Regioni emerso nella pandemia».

Cosa servirebbe?

«Convocare un'assemblea costituente che sia capace di ridisegnare il profilo politico ed istituzionale del paese. Sarebbe anche necessario puntare sulla ricerca scientifica, soprattutto quella pubblica, che è sempre stata all'ultimo posto nella nostra scala di valori».

C'è un leader che le place più di altri?

«Credo che Giorgia Meloni meriti la chance di governo. l'unica donna politica che negli ultimi anni è cresciuta e maturata. Occorre però che dia un giudizio storico di largo respiro sul ventennio fascista e sulla seconda guerra mondiale. Se oggi ci fossero le elezioni voterei per lei».

E sulla politica internazionale?

«Il nostro paese non regge il passo della globalizzazione soprattutto dal punto di vista tecnologico. Abbiamo tanto lavoro da fare. Inoltre sul piano internazionale sono molto dispiaciuta per la leader della Birmania costretta agli arresti e per la situazione di vita ad Hong Kong. Sono decenni che l'Occidente non risolve, o forse non vuole risolvere, il problema con i paesi dittatoriali»

A parte Giorgia Meloni, a chi affideresti il nostro paese?

«A chi ha memoria del nostro passato».

Morto ex sindaco di Milano e ministro Carlo Tognoli. (ANSA il 5 marzo 2021) L'ex sindaco di Milano e due volte ministro Carlo Tognoli è morto questa mattina nel capoluogo lombardo. Lo annuncia Bobo Craxi: "Carlo Tognoli, un pezzo della storia milanese, della Storia Socialista e anche della nostra vita che se ne va. Un grande dolore", ha scritto su Twitter. Tognoli aveva 82 anni e a novembre era stato colpito dal covid, mentre si trovava ricoverato all'ospedale Gaetano Pini per la frattura del femore. Da sempre iscritto al Psi, Tognoli è stato sindaco di Milano per 10 anni, dal 1976 al 1986, per poi diventare prima europarlamentare e poi deputato. E' stato poi ministro per i Problemi delle Aree Urbane del Turismo e dello Spettacolo fino al 1992, per poi lasciare ogni carica politica.

BIOGRAFIA DI CARLO TOGNOLI. Da cinquantamila.it – La storia raccontata da Giorgio Dell'arti.

Milano 16 giugno 1938. Dirigente di Mediobanca. Politico. Ex sindaco di Milano (1976-1986, il più giovane nella storia della città). Ministro per le Aree urbane nei governi Goria (1987-1988) e De Mita (1988-1989), per il Turismo nell’Andreotti VI (1989-1991) e nell’Andreotti VII (1991-1992).

Iscritto al Psi nel 1958, eletto sindaco di Milano «quando Bettino Craxi non era ancora segretario», precisa. Si definisce socialista liberale. Carriera stroncata da Tangentopoli (tangenti Atm, processo finito con l’assoluzione). Dal 2005 presidente della Fondazione Policlinico di Milano.

Perito chimico, frequentò la Bocconi da lavoratore senza mai laurearsi per l’incombente impegno nelle file del Psi. Dal 1958 al 1962 fu dirigente del movimento giovanile, dal 1960 al 1970 consigliere comunale a Cormano, dal 1969 al 1970 segretario cittadino del Psi. Assessore dal 1970 al 1976, deputato europeo dall’84 all’87.

Dal 2005 al 2009, su richiesta dell’allora presidente di Regione Lombardia Roberto Formigoni, è stato eletto a presidente della Fondazione Ospedale Maggiore di Milano.

«Craxi, come molti di noi che hanno cominciato a fare politica con lui, adesso non starebbe né in una coalizione né nell’altra» (da un’intervista di Gian Guido Vecchi).

Da "liberoquotidiano.it" il 26 ottobre 2021. "Lui era una persona fantastica ma anche molto ingombrante": Patrizia Caselli, ospite di Serena Bortone a Oggi è un altro giorno su Rai 1, ha parlato per la prima volta in tv della sua relazione con Bettino Craxi. In particolare, ha rivelato di aver vissuto un grande amore. Un amore che l'ha spinta a stare accanto a lui anche nei suoi ultimi anni di vita ad Hammamet in Tunisia. Anche se molti la considerano l'amante dell'ex presidente del Consiglio, allora sposato con Anna Craxi, alla Casella questa definizione sta stretta: "Io ero lì nel pieno rispetto di altre figure, ma abbiamo condiviso una grande tragedia, con tanto sentimento, e non è quello che mi immagino io come amante". La loro relazione, come da lei raccontato, iniziò negli anni '90, poco prima di Tangentopoli: "Di lui mi colpì il fatto che sembrava essere sempre appartenuto alla mia storia, era come una persona ritrovata". Dopo la caduta in disgrazia di Bettino, Patrizia - che faceva e fa l'attrice - decise di lasciare tutto e di seguirlo: "Il sentimento era autentico, non avrei potuto fare altro. Io avevo il mio lavoro, ma ho rifiutato tutto". La vita ad Hammamet, comunque, era condivisa con la moglie: "Anna sapeva di me, come i figli. Credo che tutti abbiamo avuto molta attenzione. Abbiamo voluto tutti bene allo stesso uomo, ma con Anna non mi sono mai vista". La Caselli ha confessato anche di non aver mai voluto che Craxi lasciasse la moglie per lei: "Quando tornava da Anna a me stava anche bene, non va beatificato, una convivenza h 24 mi avrebbe vampirizzato". Parlando del decesso di Craxi, invece, ha raccontato: "Quando è morto, ero a Milano, ricordo che mi chiamò due ore prima, ero dal parrucchiere e decisi di richiamarlo dopo, ma il telefono squillava a vuoto, così capii".

Da "leggo.it" il 26 ottobre 2021. Patrizia Caselli a Oggi è un altro giorno racconta la sua carriera e i suoi amori. A Serena Bortone parla della sua relazione con Walter Chiari e quella con Bettino Craxi, che affronta per la prima volta in un'intervista televisiva. Di Walter ricorda la grande passionalità mentre con Craxi spiega che è stato un grande amore. Patrizia definisce la relazione appassionata e turbolente: «C'era una passione che andava oltre noi e turbolenta perché sembrava di stare sempre in guerra. Lui era più ligio al copione in teatro che nella vita. Uscivi per andare a cena e ti trovavi a Cortina». In collegamento c'è Simone Annicchiato, figlio di Walter Chiari che ricorda con amore Patrizia e la saluta. Poi Serena parla di Bettino Craxi chiedendole se ha mai visto il film Hammamet. Spiega di non averlo voluto vedere di proposito: «Ci sono luoghi che io frequento ancora e sono ricordi molto privati». Poi spiega: «Io e Bettino abbiamo condiviso un bel destino ad Hammamet, io sono stata diversi anni lì, da quando si è trasferito alla sua morte e poi sono rimasta anche dopo». Patrizia dice la sua e afferma che le stava stretto il ruolo di amante: «Io ero lì nel pieno rispetto di altre figure che c'erano e ci sono nella vita di Craxi, ma abbiamo condiviso una grande tragedia, con tanto sentimento, e non è quello che mi immagino io come amante». Quando conobbe Craxi lui era presidente e lei recitava a teatro: «Io vengo convocata nel suo ufficio perché Anna Craxi, la moglie, riceve una lettera anonima in cui si diceva che fossimo amanti. La lettera in realtà era tutt'altro che anonima si pensava fosse stata scritta da Walter Chiari con cui non stavo più. Bettino mi chiese di parlare con Walter per sedare queste voci. Così ci siamo conosciuti. Capendo il mio disagio Craxi disse che ci avrebbe pensato lui». Molti anni dopo inizia la loro relazione, negli anni '90, poco prima di Tangentopoli. «Di lui mi colpì il fatto che sembrava essere sempre appartenuto alla mia storia, era come una persona ritrovata». Ricorda che era geloso e che non voleva che lavorassi in televisione ma confessa: «Anche io ero gelosa di lui, ma il nostro rapporto non si è neanche potuto permettere questo, noi abbiamo fatto un grande patto di onestà». Poi dopo Tangentopoli Patrizia decise di seguire Craxi nella caduta: «Il sentimento era autentico, non avrei potuto fare altro. Io avevo il mio lavoro, ma ho rifiutato tutto». La Vita a Hammamet era condivisa con la moglie: «Anna sapeva di me, come i figli. Credo che tutti abbiamo avuto molta attenzione. Abbiamo voluto tutti bene allo stesso uomo, ma con Anna non mi sono mai vista. Eravamo tutti intorno allo stesso uomo che amavamo per farlo sentire amato e in una dimensione di famiglia. Io penso che questo lo abbia capito più la moglie dei figli». Confessa poi di non aver mai desiderato che lasciasse la moglie per lei: «Lui era una persona fantastica ma anche molto ingombrante, quando tornava da Anna a me stava anche bene, non va beatificato, una convivenza h 24 mi avrebbe vampirizzato». Conclude dicendo di aver deciso di parlarne ora, dopo anni di silenzio perché le vengano riconosciute le scelte di cuore che ha fatto: «Quando è morto, ero a Milano, ricordo che mi chiamò due ore prima, ero dal parrucchiere e decisi di richiamarlo dopo, ma il telefono squillava a vuoto, così capii».

Il ricordo dell'ex sindaco di Milano. Carlo Tognoli rese grande Milano ed è stato ripagato col fango. Bobo Craxi su Il Riformista il 6 Marzo 2021. Con Carlo Tognoli scompare un esemplare personalità della generazione dei politici nati dopo la seconda guerra mondiale: un ragazzo che aveva dovuto costruire la sua formazione pressoché in solitudine, era rimasto orfano in tenera età, ed aveva aderito giovanissimo al partito socialista che a Milano rappresentava la più longeva e feconda tradizione politica e amministrativa.
Fu in quella temperie che incontrò l’area politica che nel Psi era restata fedele alle radici storiche più antiche, che era rappresentata dagli eredi riformisti della tradizione turatiana: gli autonomisti che avevano in Mazzali, mitico segretario della federazione a metà-tempo con la sua attività di pubblicitario, e in Antonio Natali i leader storici. In quel gruppo si fece presto strada quello che divenne in seguito il pupillo di Pietro Nenni ovvero mio padre Bettino Craxi. Craxi aveva il fiuto politico e soprattutto l’anima del talent-scout, non gli fu difficile attrarre attorno a sé dei giovani brillanti che costituirono in seguito l’ossatura di una vera e propria squadra politica che restò unita politicamente ed umanamente sino a che è stato possibile. Giorgio Gangi, Paolo Pillitteri, Giovanni Manzi, Ugo Finetti, ai quali si unì il brillante Claudio Martelli che conquistò l’ammirazione e la considerazione di mio padre. Carlo Tognoli era lì, e iniziò nel suo ruolo di ufficio stampa alla federazione mostrando le sue metodiche politiche ed organizzative che trasferì in seguito nella sua carriera amministrativa che iniziò nella provincia di Milano, a Cormano, dove fu inviato a farsi le ossa; prima come consigliere comunale poi come assessore. Ritornò nel Capoluogo dove ricoprì la carica di Assessore ai Servizi sociali, al patrimonio ed infine ai lavori pubblici. Un cursus honorum tutto politico e partitico che gli conferì, sebbene giovanissimo, il titolo per poter succedere ad un Sindaco di Milano, anch’egli socialista, particolarmente apprezzato in città: Aldo Aniasi. Quella che apparve un’imposizione ed una prepotenza di Bettino Craxi (Giorgio Bocca perfidamente liquidò la sua nomina con un odioso elzeviro sull’Espresso: “A Milano ci mettono il povero orfanello…”) si rivelò un grande investimento politico ed un grande ringiovanimento della classe dirigente dell’epoca. Un trentottenne per la prima volta ascese al più alto scranno di Palazzo Marino (era il 1975) dove rimase per undici anni, forse gli anni più importanti e decisivi della rinascita della Città. Carlo aveva scuola e tempra, conosceva a menadito non soltanto i codici ed i regolamenti amministrativi ma conosceva a fondo la Città, la sua crescita smisurata negli anni del boom che portarono in fretta le contraddizioni della diseguaglianza sociale; l’immigrazione interna degli anni sessanta che aveva così ben descritto nel docu-film, lo chiameremmo ora, che aveva dato alla luce assieme al suo sodale-rivale di tutta la vita: Paolo Pillitteri. Tognoli non si perse mai d’animo e cercò di offrire speranza ad una città ripiegata su se stessa negli anni della contestazione che sfociarono successivamente nel terrorismo, fu lui ad accorrere al capezzale di Walter Tobagi suo grande amico trucidato da un gruppo di fanatici criminali politici. Assieme alla città che richiedeva solidarietà e assistenza egli seppe accompagnare il rilancio delle attività del terziario avanzato per le quali l’amministrazione preparò il terreno ideale affinché la Città gradualmente da industriale si trasformasse in una grande metropoli dove prevalessero i servizi per la produzione, un grande piano per i trasporti, un immenso investimento sul giacimento culturale di Milano, una riscoperta dei tanti tesori nascosti. Da un lato Carlo aveva conservato la sua devozione per Turati e per i grandi sindaci milanesi, come Caldara, Filippetti e Greppi, dall’altro il suo cuore batteva per Maria Teresa d’Austria di cui ogni milanese conservava una gratitudine storica per aver saputo dotare la Città di una sua fisionomia “regale” ma attenta alle evoluzioni sociali della grande città che domina la pianura padana. Gli anni ottanta sono quindi un fiorire di iniziative che portano l’impulso di un Sindaco che poco a poco incontra il favore generalizzato della sua Città, è un uomo della amministrazione pubblica prima ancora che un uomo di partito; tuttavia la sua guida si trova a coincidere con la stagione più felice dei socialisti italiani che occupano le istituzioni più prestigiose del paese: la Presidenza della Repubblica e la Presidenza del Consiglio. È a Milano che nel 1986 viene firmato l’atto unico che sancisce il Consiglio Europeo, ed è Tognoli a fare il padrone di casa al Castello Sforzesco, Milano sta riconquistando il blasone internazionale che merita ed ha un primo amministratore di tutto rispetto. Sapeva unire la sua capacità organizzativa all’intuito per la valorizzazione delle cose forse considerate superflue ma che soddisfavano e rendevano il cittadino certo e sicuro di avere una guida salda alle redini della città. Fu innovatore perché per la prima volta nella storia si sottoponeva ai microfoni aperti in una televisione privata ogni lunedì. I milanesi avevano preso in simpatia Tognoli perché il suo garbo, la sua bonomìa, il suo acume non destavano alcuna reazione di repulsione. Era rispettato da amici e da avversari, era persino benvoluto dalla stampa di tendenza comunista radicale che non risparmiava critiche al PSI ed alla sua guida, e che volentieri sottraeva Tognoli dal mazzo delle persone cui rivolgere atti di ostilità. Nel partito era benvoluto ma anche temuto; Il Psi a Milano era rimasto di tendenza autonomista e certamente legato alla sua guida nazionale, ma in città era identificato innanzitutto con lui. Il cambio di alleanze imposta per un breve periodo dalla necessità di trasferire anche a Milano l’alleanza di centro-sinistra non lo trovò pienamente soddisfatto, in parte s’incrinò anche la sua volontà di restare troppo a lungo sulla poltrona di Sindaco dopo tre mandati. Fu eletto al Parlamento e ricoprì la prestigiosa carica di ministro in due occasioni. Nell’interregno fra queste due esperienze Craxi lo volle a Via del Corso, cioè nella sede centrale del Psi, fu vice-segretario, ma in realtà la sua vera vocazione restava quella del grande amministratore che seppe trasferire all’interno dei due governi di pentapartito: gli ultimi. Il 1° Maggio del 1992, dopo la sua rielezione in Parlamento, ricevendo il primo avviso di garanzia assieme a Paolo Pillitteri, simbolicamente la sua carriera politica finì. Aveva solo 54 anni. Furono quelli che seguirono gli anni peggiori che segnarono lui come un’intera generazione di socialisti. L’uomo più amato a Milano, nella incredulità generale, era rimasto invischiato nel gorgo di Tangentopoli, improvvisamente nella polvere lui assieme alla squadra dei socialisti con la quale aveva costruito non soltanto una alternativa politica ed una prospettiva in città e nell’intero paese, ma aveva costituito un nucleo comunitario che poteva considerarsi una vera e propria famiglia allargata. La passione per gli studi storici sulla città e sul socialismo milanese costituirono per lui un’alternativa di vita, il suo prestigio lo riportò a ricoprire ruoli onorari in fondazioni prestigiose, tuttavia l’orologio della sua vita che era la politica si era rotto per sempre. Non volle mai stare in prima fila nei nostri tentativi di ricostruzione, ci ha sempre guardato con affetto e ammirazione, riteneva che il suo tempo fosse finito. Ed è quella tristezza in fondo al cuore che ha segnato quella generazione. Quando a Londra, in un meeting di progressisti europei, incontrai l’ex sindaco socialista di Barcellona, Maragall, mi disse che all’esperienza dei socialisti milanesi si era ispirato per il rilancio di Barcellona, si raccomandò che gli salutassi “Carlo”. Era apprezzato anche al di là delle mura spagnole che cingono la città. Ho visto per l’ultima volta nella mia vita Carlo Tognoli ad Hammamet, giusto un anno fa al fianco della sua amata Dorina. Erano per me figure famigliari, ero devoto a Carlo come lui lo fu lungamente verso mio Padre Bettino. Lo tormentava una malattia, ed il Covid ha finito per indebolirlo portandolo via. Io sono convinto che egli verrà ricordato come merita : un grande sindaco, un grande socialista, Un uomo profondamente buono.

Piero Colaprico per la Repubblica il 6 marzo 2021. Era un politico innamorato perso di Milano. Della sua, della nostra, di tutte le Milano possibili e anche, se così si può dire, delle visioni della Milano che verrà. Se ieri il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, scrive che «La notizia della scomparsa di Carlo Tognoli mi rattrista profondamente » e se anche Silvio Berlusconi dice che «se ne va un sindaco stimato nel mondo e amato dai milanesi, dotato di una grande passione per la sua città», significa anche che Carletto, anzi "il Carletto", o anche "il Tognolino", ha lasciato il segno. Di lui si diceva che «è uno che c' è sempre». Socialista che s' ispirava a Filippo Turati e primo cittadino per dieci anni, dal 1976 al 1986, forse ha calpestato ogni metro quadro della metropoli più internazionale d' Italia. Lo si trovava non solo nelle occasioni della Milano che, attraversando i fiumi di sangue degli Anni di piombo, aveva guidato sino all' approdo luccicante della cosiddetta "Milano da bere", della Borsa che tirava e del made in Italy della moda. "Tognolino" spuntava nelle serate all' osteria della Briosca, dove ancora si esibivano i cantanti della ligera, la vecchia mala. Poteva a pranzo sedersi a tavola con qualche industriale o banchiere, o con i grandi palazzinari, ma a cena alzare il bicchiere di barbera con gli operai della periferia più lontana. Aveva un credo: poter medicare ogni ferita con la cultura e con il «ritrovarsi». Concerti a prezzi popolari, investimenti nei teatri, il sodalizio con Giorgio Strehler e con il Piccolo, la Scala che apre a studenti e lavoratori e non più e non solo alla borghesia dei danèe. Aveva visto lontano anche sui temi dello smog: si deve a lui e all' assessore al Traffico Attilio Schemmari se Milano, sulla spinta dei movimenti verdi e dei comitati dei cittadini, nel 1985 bloccò al traffico delle auto private il centro, dal Duomo all' intera Cerchia dei Navigli. Non alto, spesso in elegante gessato, occhi simpatici e sgranati dietro gli occhiali, era nato in viale Romagna, papà morto in guerra in Russia. Finché ha potuto, gli spuntava un mezzo toscano in bocca. E non gli dispiaceva andare in Galleria - quando in piazza Duomo c' era al 19 l' ufficio dell' immanente segretario politico del Psi Bettino Craxi - e partecipare al rito del drink: un Americano, o uno Sbagliato, una piccola pausa, ampiamente meritata, dopo giornate da stacanovista. Dentro Palazzo Marino, Tognoli diventò un po' "robotico", come scrisse Giorgio Bocca, nel senso che aveva tutto sotto controllo ed elargiva cifre, dati, analisi su qualunque argomento che avvalorasse l'efficienza meneghina. Aveva studiato da perito, lavorato in aziende chimiche e a vent' anni s' era iscritto al Psi di Pietro Nenni. Nell' anno della «madre di tutte le stragi», quella di piazza Fontana - 1969 - era lui il segretario cittadino del Psi e Aldo Aniasi, l' ex partigiano Iso, il sindaco. Poi, sette anni dopo, dopo essersi fatto le ossa come assessore, entrò lui nell' ufficio del primo piano, affacciato su piazza San Fedele, il sancta sactorum, sostituendo Aniasi. Ci arrivò a soli 38 anni, un enfant prodige per i nostrani standard gerontocratici. Numero uno di una giunta rossa, sostenuta dal Pci, il più giovane sindaco di Milano sembrava destinato a una lunga carriera. Eurodeputato e ministro, non apparteneva però al gruppo dei craxiani ortodossi. Nella vera stanza dei bottoni non riuscì a entrare. Il Primo Maggio del 1992 lui e il suo successore, Paolo Pillitteri, organizzarono una conferenza stampa per respingere le accuse di mazzette che aveva portato in carcere - era l' inizio di Tangentopoli - alcuni portaborse del Psi. Là finì la stagione di "Tognolino" che, poco dopo, ricevette da Enrico Cuccia, il super banchiere della Grandi Famiglie italiane, un incarico in Mediobanca. Ieri s' è spento a 82 anni, a casa sua, con la consapevolezza di aver vissuto sino in fondo l' amore per Milano, ricambiato da chi, ancora nei mesi scorsi, incontrandolo gli diceva «Ciao sindaco». Ogni tanto arrivava ai vecchi amici, e anche ai giornalisti, la sua telefonata, con un' idea, un educato rimbrotto, un complimento. Erano stati una brutta caduta, e il femore rotto, e poi il Covid contratto in ospedale a togliergli di mano il telefonino e la voglia di intervenire. Sua moglie Dorina l' ha portato a casa, una settimana fa, dall' inutile riabilitazione. Lascia due figli, Filippo e Anna, chiamati così in onore dei socialisti Turati e Kuliscioff, che avevano casa, oltre un secolo fa, proprio in quella Galleria dove «Carletto» amava fermarsi a guardare la prospettiva di piazza del Duomo. Come dice il suo ultimo successore, Beppe Sala, «Milano piange un uomo politico concreto e aperto alle riforme, un milanese vero». E si sa che, come cantava Lucio Dalla, Milano quando piange, piange davvero.

Lettera di Stefania Craxi a Dagospia il 6 marzo 2021. Caro Dago, ho letto grazie a “Dagospia” la ricostruzione che “La Repubblica”, a firma del bravo Piero Colaprico, fa della parabola umane e politica di Carlo Tognoli. Nel tentativo di riscrivere la storia, dividendo i socialisti buoni da quelli cattivi, si scrive di lui che non faceva parte della cerchia dei craxiani ortodossi. Tognoli è stata una delle persone più vicine a Craxi, un “giovane” che con lui condivise i momenti più difficili dell’autonomismo milanese, quando ciò significava essere minoranza nel partito prima ancora che nella sinistra. Fu proprio grazie alla volontà di Bettino – allora assai discussa - che lo volle fortemente come successore di Aldo Aniasi, che Carlo divenne uno dei più grandi sindaci di Milano. Proseguirà poi la sua carriera politica ed istituzionale a Roma, dove, sempre su indicazione del leader socialista, ricoprì incarichi di governo. Carlo, inoltre, faceva parte della cerchia ristretta di compagni che mai mancavano ai “pranzi del lunedì”, quando quel gruppo di giovani, con il tempo divenuti protagonisti del “nuovo corso” socialista, disegnavano la Milano riformista del futuro e gettavano le basi per una sinistra moderna, riformista e liberale. Tognoli, non di rado, era anche presente in quelle serate, dopo un comizio in Piazza Duomo o una riunione in federazione, amici, famigliari e compagni si ritrovavano davanti ad una “casseaula” ed un bicchiere di vino a cantare le canzoni della “mala” e quelle nel “bel dialet”. Certo, il PSI, a differenza di altri partiti, non era una caserma e Carlo era una intelligenza viva e vivace che da riformista coltivava l’eresia del dubbio e la critica. Ma mai abiurò alla sua storia e, soprattutto, mai prese le distanze da Craxi, di cui fu sempre amico e compagno leale e sincero, ragion per la quale ebbe a pagare tra i primi il fio della gogna mediatica e giudiziaria. Non so pertanto cosa Repubblica intenda o voglia intere per “craxiano” o per cerchia ristretta. Ma sarebbe interessante saperlo, poiché se non lo era Tognoli non saprei dire chi lo fosse! So per certo che Carlo era, prima ancora che un fidato compagno di partito, uno di famiglia e tale è stato anche in tutti questi anni dopo la morte di mio padre. Conservo ancora il biglietto che mi inviò alla nascita del mio primogenito, nel quale ricordava che quanto nacqui io, era in Consiglio comunale al fianco, guarda un po’, di un certo Craxi.

Carlo Tognoli, il socialista riformista che cambiò Milano. Paolo Guzzanti il 22 Settembre 2021 su Il Giornale. In un decennio difficilissimo traghettò la città dal terrorismo all'innovazione. Nella scena primaria di Sigmund Freud, la bambina vede dal buco della serratura il groviglio dei genitori e ne ode i gemiti facendosi idee sbagliatissime su quel che accade. Nella scena primaria della politica italiana, si vede la crepa che diventa la spaccatura e poi una voragine fra socialisti e comunisti, figli insieme ai fascisti di una stessa madre consanguinea a tutti, quella socialista. E l'occhio di Michelangelo da cui cogliere la prospettiva è Milano. La Milano degli anni Ottanta, quando ancora l'impero sovietico traballava ma dava colpi di coda (l'Afghanistan fu invaso nel 1979) e in Italia era fallito il compromesso storico, mentre regnava come elemento del tutto nuovo la Pax socialista. Con Bettino Craxi a Palazzo Chigi per quattro anni e Sandro Pertini al Quirinale per sette. La Fondazione Craxi pubblica un libro straordinariamente fresco, limpido, autentico e frutto di una intelligenza onesta, quella del sindaco di Milano Carlo Tognoli (lo fu per dieci anni, dal 1976 al 1986), caduto fra le vittime del Covid (è morto il 5 marzo di quest'anno) e che tutti ricordiamo per quella composta mitezza da non confondere con arrendevolezza: Carlo Tognoli, Senza promettere la luna. Scritti di un riformista milanese (Baldini+Castoldi, pagg. 384, euro 19; a cura della Fondazione Bettino Craxi). Come amministratore, Tognoli riportò la capitale morale ai fasti dell'antica e poi persa e poi ritrovata dignità. Come storico - il libro raccoglie in forma ordinata una miscellanea di scritti in buona sequenza - Carlo Tognoli si rivela ottimo, riportando al centro la palla. Ricordiamo i contorni del campo: il terrorismo rosso, in buona parte eterodiretto dal Kgb e dal Gru sovietici che riuscirono a far abortire l'ingresso del Pci nel campo occidentale, benché Berlinguer avesse dichiarato a Giampaolo Pansa di sentirsi più protetto dalla Nato che dai sovietici. Fu anche a seguito di questo fallimento che i rapporti fra socialisti e comunisti erano diventati una rissa e poi una guerra. Bettino Craxi era apertamente trattato come la riedizione di Mussolini (le vignette di Giorgio Forattini con Craxi in fez e stivaloni) e soltanto una pattuglia di «miglioristi» nel Pci guardava a un futuro socialdemocratico e dunque anche al Psi di Craxi, ma sempre con livore, invidia e gelosia. Il motto «Milano da bere» fu coniato e riprodotto come uno slogan rafforzato dall'«edonismo reaganiano» di Roberto D'Agostino, allora arruolato nella banda di Renzo Arbore, il quale era ed è un liberale. Milano aveva ripreso a produrre ricchezza. La ricchezza produceva bellezza e anche lusso, voglia di chiudere il capitolo dell'Italia grigia e sottomessa dalla paura dei fantocci del terrorismo nazionale e internazionale. Quando l'ultima impresa dei terroristi, il rapimento del generale americano Dozier, fallì, fu dichiarata la vittoria e la pace dell'Italia che aveva ben resistito. E fu festa. E furono le televisioni di lustrini, l'elogio dell'eros, l'elogio del futile che è molto più necessario del necessario, l'elogio della normalità. Bettino Craxi aveva rimosso le ferraglie dei simboli sovietici che avevano appesantito il partito che non era della falce e martello, ma del Sol dell'avvenir oltre un grande libro aperto per significare che la cultura è rivoluzione e la verità è libertà. I comunisti stridevano molto e del resto era all'orizzonte il colpo di coda delle Ardenne: l'operazione «Clean Hands», «Mani pulite», maturata negli Stati Uniti con l'aiuto di molti procuratori italiani onesti come Falcone, anche se lo scopo dell'operazione non l'aveva ancora capito nessuno: ci volle la lucida follia di Francesco Cossiga per lanciare l'allarme e subito vedersi trattato come un pazzo furioso. Il messaggio di Cossiga era stato chiaro: l'Italia durante la Guerra fredda fra il 1947 e il 1989 era stato un «Paese cerniera» fra Est ed Ovest e la sua classe dirigente, per lo più democristiana, aveva usato quella posizione di privilegio per andare a letto col nemico, trescare con i sovietici alle spalle degli americani, fare una politica pro-palestinese ma anche filo-israeliana e quanto agli americani aveva seguito gli istinti. Americani, inglesi, francesi e tedeschi della Repubblica federale non vedevano l'ora di fare piazza pulita dei dirigenti italiani e aspettavano che i comunisti di Berlinguer si decidessero a varcare il guado, rompendo con Mosca, cosa che non avvenne mai. In più, Enrico Berlinguer aveva preso le distanze dalla rivoluzione bolscevica di cui vedeva l'esaurimento della spinta iniziale, si era gettato nella politica degli «ariani del bene», sostenendo che «soltanto i comunisti hanno le mani pulite». Cosa che poi si rivelò del tutto falsa, e anche impunita. Tutti i partiti salirono sul palco del carnefice ma non il Pci, riciclato in fretta e furia in Pds e destinato a vivere con la sua gioiosa macchina da guerra, sconfitta dall'ardimento dell'imprenditore Silvio Berlusconi che batté tutti in creatività e rottura degli schemi, facendo fallire il piano dei comunisti «buoni» che erano attesi al governo dopo anni di corruzione, eccetera. Di lì, aggiungiamo noi, vengono anche i populismi, quello dei Cinque stelle per primo e in parte della Lega. Milano fu il terreno di quell'aspra battaglia in cui la Giustizia si mosse con passi da dinosauro infuriato e in particolare la Procura di Milano diventò il tempio delle gesta di un pool di magistrati il cui membro più visibile fu l'ex poliziotto Antonio Di Pietro, capace di destreggiarsi come pochi nell'uso in aula di grandi computer Macintosh. Fu tutto a Milano. Ma Carlo Tognoli parte dal bandolo della matassa: da Filippo Turati che aveva colto l'unica strada che produce buona amministrazione ed evita massacri: il riformismo. Essere riformista diventò un marchio d'infamia che - quando i comunisti con Stalin si allearono con i nazisti di Hitler iniziando la guerra dalla stessa parte finché il tedesco non pugnalò il georgiano - assunse la nuova mostruosa sembianza: quella del social-fascismo. I socialisti che ambivano a governare nelle democrazie «borghesi» (altro aggettivo da evitare) furono liquidati come social-fascisti, mentre i comunisti di tutto il mondo, dal settembre 1939 al giugno 1941, non facevano che esaltare le vittorie proletarie del nazionalsocialismo tedesco. Poi ci fu il capovolgimento di fronte, perché arrivò la parola d'ordine di tornare alla politica dei «Fronti popolari». Tognoli li passa in rassegna tutti, quei protagonisti socialisti anticomunisti e - quelli che vissero - antifascisti, da Leonida Bissolati a Filippo Turati, da Anna Kuliscioff a tutti coloro che insorsero nel Psi di fronte alla repressione sovietica della rivoluzione anticomunista degli operai e degli studenti di Budapest. Sono appunti ragionati e calmi, ma anche caldi. Sono assolutamente attuali per chi ha meno di cinquant'anni per capire e a chi ne ha di più per ricordare. Paolo Guzzanti

La ricorrenza. Chi era Gianni De Michelis, visionario oltremisura ma concreto. Biagio Marzo su Il Riformista il 28 Novembre 2021. Gli amici di sempre hanno ricordato Gianni De Michelis, nel giorno del suo compleanno – 26 novembre 1940 – con la proiezione di un film, presso il Circolo dei Socialisti della Garbatella, grazie alla collaborazione dell’Associazione culturale Forum Terzo Millennio e dell’XI Municipio di Roma. De Michelis è stato un grande personaggio della politica italiana ed estera, un dirigente socialista e uno statista, il che «è dimostrato – scrive Giuliano Amato – da tutto ciò che venne facendo nei diversi incarichi di governo assolti nel corso della sua carriera politica». Quale fu il suo “assalto al cielo”? Il riformismo tout court. Visionario oltremisura, ma, al contrario dei comunardi, concreto e per uno Stato moderno. Mi riferisco soprattutto alla vicenda del taglio dei tre punti della scala mobile nel periodo in cui, da ministro del Lavoro, si trovò di fronte a una inflazione sudamericana a due cifre che determinava una situazione in cui si era innescata una spirale prezzi-salari-prezzi che danneggiava fortemente i lavoratori dipendenti. D’altronde, il campanello d’allarme fu suonato, anni prima, dal Centro studi della Cgil, presieduto allora da Giuliano Amato e Bruno Trentin, che mise in luce la seconda vittima della scala mobile: il potere negoziale del sindacato. Nel momento in cui l’aumento automatico dei salari si era mangiato tutto e per le Organizzazioni sindacali non c’era più alcun margine di trattativa, De Michelis intese portare in porto la politica dei redditi, a quei tempi molto divisiva a sinistra e non solo. Ragion per cui, far scendere l’inflazione a una cifra era un passaggio cruciale per realizzarla. La politica dei redditi, in quegli anni, veniva vista in modo ostile e stupido e interpretata come azione di controllo e di blocco dei salari. Al contrario, De Michelis la interpretava come una sorta di via di sviluppo economico. Non fu solo e soltanto il Ministro del taglio dei punti della scala mobile, fu il Ministro delle Partecipazioni statali che scrisse il “Libro bianco” in cui sottopose il sistema in un inedito check up. Ebbe il coraggio di parlare senza peli sulla lingua agli operai: le imprese decotte non c’era alcuna ragione tenerle in vita. A Bagnoli, nello stupore dei lavoratori, chiese la chiusura dell’obsoleta acciaieria. Scoppiò un putiferio, alla lunga, ebbe ragione, lo stabilimento fu smobilitato. Fu un ostinato sostenitore della sprovincializzazione della politica, tant’è che portò dagli USA in Italia l’Aspen Istitute. Sognò senza successo l’Expo a Venezia e i Pink Floyd a Piazza San Marco. Il Mose, per fermare l’acqua alta, nella città lagunare, fu una sua idea e il tempo fu galantuomo. In politica estera, fu per la via danubiana in cui Venezia diventava il centro motore di quella politica. Ma veniamo al dunque: fu per la politically incorrect e un ostinato ottimista: i riformisti hanno un atteggiamento sia contrario al pessimismo rinunciatario dei conservatori sia contrario all’ottimismo facilone dei massimalisti. Chiaramente, era consapevole che il modo di essere dei riformisti non realizza una società perfetta perché solo Dio, direbbero i cristiani, è perfetto. Grazie anche al suo contributo, il riformismo adesso è di grande attualità, avendo una concezione tesa a far vivere meglio e diversamente la gente in carne e ossa. Consapevole che l’effetto riformista porta a restringere la forbice delle diseguaglianze con l’idea di cambiare in modo gradualista la società tenendo unite le libertà, lo Stato di diritto, i meriti e la giustizia sociale. Tuttavia, per De Michelis, il riformismo, con il suo tratto diacritico della sinistra di governo, non permette salti dialettici della realtà esistente e, in tal senso, va per gradi senza fare salti nel vuoto. Infatti, “natura non facit saltus”. Partendo da questo “spirito”, nella sua azione di governo mise in campo degli “elementi” migliorativi. Scontato che i riformisti preferiscono il poco al tutto, il realizzabile alle chiacchiere da bottega, il gradualismo al tanto peggio tanto meglio. Di fronte al muro delle ideologie dogmatiche, solo a sentirle gli veniva l’orticaria, il miglior antidoto era il revisionismo che si staglia nel riformismo. Già, negli anni Ottanta, vedeva nel rinsavimento della sinistra di governo, l’epurazione dal massimalismo e dal populismo, i mali endemici di questi tempi malvagi. Ciò detto, non significa che i riformisti possano essere considerati dei rammendatori del sistema, e aggiungeva a questa definizione, la derisione a cui questi venivano sottoposti dalla destra mercatista, la quale ritiene che il “mercato miracoloso” risolva tutto. Di conseguenza, per Gianni De Michelis non erano da meno “i riformisti da lotta di classe”, di fatto un ossimoro, che hanno come obiettivo la costruzione di una società in una ottica diciamo comunista per via parlamentare, rispetto al discorso rivoluzionario classico. Insomma, un mix di Eduard Bernstein e Karl Marx. Beninteso, l’idea forte del leader veneziano è che il riformismo si conquista con il consenso dei cittadini. Il contrario di quello visto, negli ultimi decenni di governi di centrosinistra. Insomma, le riforme approvate sono una sorta di reformatio in peius, calate dall’alto o di tipo tecnocratico. Nell’accezione storica e politica più nobile e pragmatica, il riformismo non era altro che – per Gianni De Michelis – il sinonimo di socialismo. In questo solco si mosse, contribuendo anche lui a fare degli anni Ottanta, “ il decennio della modernità italiana”. Biagio Marzo

·        Fine Pena Mai. L’Accanimento giudiziario.

Psi: Bobo Craxi, "Rai rinuncia a proiezione Hammamet, censura sovietica e franchista". Notizie.it l'1 ottobre 2021. "Raitre aveva annunciato la proiezione di 'Hammamet'. Il film-romanzo di Amelio. Hanno rinunciato alla proiezione. Paura persino di uno sceneggiato”. Lo scrive su Twitter Bobo Craxi. “Dottor Franco Di Mare -aggiunge il figlio del leader socialista- lei sa che la censura è una prassi da regime sovietico e franchista? Ci rivolgeremo alla commissione di Vigilanza Rai, per capire le ragioni di questa censura”.

La Rai blocca la messa in onda del film "Hammamet". Polemiche dei socialisti. Il Quotidiano del Sud il 2 ottobre 2021. Erano molti i socialisti e gli appassionati di Gianni Amelio e Pierfrancesco Favino che venerdì sera si pregustavano di vedere o rivedere il film “Hammamet” programmato in prima serata su Raitre. Ma senza preavviso, e all’ultimo secondo, la Rai ha deciso di trasmettere il film “Arrivano i prof” con Claudio Bisio. Si sono registrate polemiche sui social, soprattutto da parte di Bobo Craxi, che ha polemizzato con il direttore di RaiTre, scrivendo: “Di Mare, lei sa che la censura è una prassi da regime sovietico o franchista?”. Il senatore Nencini ha preannunciato un intervento in Commissione di vigilanza. La Rai solo oggi pomeriggio ha diramato una nota in cui si legge: “A proposito della messa in onda del film Hammamet, originariamente prevista venerdì scorso, Rai3 informa che nell’ambito di una normale attività di modulazione del palinsesto l’opera di Gianni Amelio verrà trasmessa il 26 novembre”. Bettino Craxi, anche da morto e personaggio cinematografico continua ad essere ingombrante e divisivo.

Vittorio Feltri, la Rai censura il film su Bettino Craxi? "Perché è una scelta ridicola. E paghiamo pure il canone..." Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 04 ottobre 2021. Conosciamo tutti le debolezze e le storture della Rai. Ma stavolta non parliamo dei milioni che sperpera prelevandoli poi dalle tasche degli abbonati, costretti addirittura a pagare il canone sulle bollette della luce. Certe polemiche ormai hanno rotto le scatole più dei programmi inflitti agli italiani da tempo immemorabile. Il problema che vorremmo segnalare stavolta riguarda una certa stupidità che influenza il palinsesto. Raitre ha un direttore, Franco Di Mare, piuttosto bravo a prescindere dalle sue idee politiche, ammesso che abbia una. Costui aveva deciso di mandare in onda in questi giorni un film importante e ben fatto dal titolo Hammamet, girato nel 2020 da Gianni Amelio che narra gli ultimi sei mesi della tribolata vita di Bettino Craxi. Niente di più normale vista la caratura del personaggio che, nel bene e nel male, ha inciso nella storia recente del nostro vituperato Paese. Ebbene il lungometraggio in questione è stato bloccato, sinonimo di censurato, perché potrebbe influenzare le elezioni amministrative in corso. Motivazione ridicola. Craxi è morto oltre 20 anni orsono, il suo partito è stato sepolto purtroppo con lui, eppure per l'emittente statale o quasi la sua figura incombe ancora, negativamente, sulla nostra assurda politica. Siccome ieri e oggi si va alle urne, di Bettino è meglio non parlare, anche perché suo figlio Bobo è candidato al Comune di Roma. Vi sembra normale che il vecchio segretario socialista debba fare paura ai grillini che menano il torrone anche se egli è defunto da un paio di decenni? Siamo alla follia. I nostri connazionali sono condannati a non vedere una pellicola interessante e ben costruita solo perché un dirigente Rai è intimorito da un grande uomo politico ormai sotto terra da un quarto di secolo. E ciò che è ancora più folle è che Bobo venga coinvolto come un ostacolo alla proiezione. Il povero Di Mare però deve ingoiare un rospo ulteriore. Fabio Fazio ieri sera ha ospitato nella sua trasmissione Fedez, colui che alla Rai aveva dichiarato guerra. A noi il cantante non dà alcun fastidio, ma che senso ha invitarlo dopo le recenti battaglie con viale Mazzini che lo aveva censurato? Mistero. 

Rai3 cancella Craxi dal palinsesto "Inopportuno alla vigilia del voto". Stefano Zurlo il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il film non va in onda. Bobo: "Di cosa hanno paura?" Divide ancora. Passano gli anni, ma il nome di Bettino Craxi è sempre una pietra d'inciampo della politica italiana. Imbarazzo, dunque, per un film che sparisce dai palinsesti di Rai3. Hammamet, che è tutto tranne un'agiografia, era atteso sugli schermi venerdì sera, ma è stato sostituito in corsa come un cavallo zoppo. Bobo, rampollo di Bettino, twitta con la sciabola ed evoca la censura. Questioni di opportunità, ribattono in Rai, alludendo proprio alla sua candidatura a Roma come numero uno in una lista apparentata con Roberto Gualtieri. Un incrocio pericoloso per la bilancia della Rai, una scelta insensata per la famiglia del leader socialista. Hammamet racconta la parabola dello scomparso segretario del Psi, ma Gianni Amelio, uno dei grandi nomi del cinema italiano, si concentra sugli anni drammatici dell'esilio. E uno strepitoso Pierfrancesco Favino dà corpo a questi tormenti, solo che i fantasmi sono anche altrove: in Rai fanno due più due, una pellicola in cui c'è Bobo a 48 ore dalle amministrative, e tirano giù la saracinesca. «Avevano paura di dedicargli una via a Milano qualche anno fa - afferma Stefania Craxi, sorella di Bobo - hanno ancora paura di mio padre adesso, anzi di un film su di lui». Bobo è ancora più tranchant: «Qual è il nesso fra la messa in onda di un film che romanza la vicenda storica di un uomo di Stato che hanno già visto più di un milione di italiani e la candidatura di un suo discendente? La Rai3 ha operato un'imbarazzante censura». Franco Di Mare, il direttore della rete, tace. Ma in Rai rispondono con la categoria dell'opportunità. Il candidato Bobo Craxi sarebbe andato in onda alla vigilia del voto, provocando malumori e mal di pancia vari. Insomma, le ragioni dell'arte e della storia, al cospetto di uno dei big del Dopoguerra, al confronto con la scrivania da ragionieri dei dirigenti di viale Mazzini e di un'azienda che pure in questi anni non si è fatta mancare niente. Punti di vista. Una mentalità che quando incontra le urne è costretta ad applicare la par condicio pure agli artisti più acclamati del grande schermo. E poi, sotto sotto, c'è sempre lui, Bettino che anche da morto, laggiù in Tunisia, attraversa come una faglia la società italiana che è uscita dalla tempesta di Mani pulite, ma fino a un certo punto. Abbiamo girato pagina, ma non del tutto. Lo statista morto da latitante è una contraddizione che il Paese si porta sempre dietro e non c'è modo di ricomporla fino in fondo. Almeno ora. Forse, le prossime generazioni troveranno un punto di equilibrio che oggi non c'è, come è accaduto per altre epoche lacerate da contrapposizioni insanabili. Nessuno aveva notato quel cognome ingombrante ai nastri di partenza. Sfortuna o, forse, disattenzione, al momento di varare i palinsesti. Ora la Rai butta acqua sul fuoco: Hammamet andrà in onda il 26 novembre. Una data, si spera, meno impegnativa. Stefano Zurlo

Scontro sul film sulla storia di Bettino Craxi. La Rai cancella ‘Hammamet’, Bobo Craxi contro il “grillino” Di Mare: “Censura da regime”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 2 Ottobre 2021. Bettino Craxi resta ancora un argomento tabù, almeno per la prima serata di Rai3. La terza rete pubblica e il suo direttore Franco Di Mare, già nella bufera per il ritorno di Mauro Corona a Cartabianca e il ritiro della querela al rapper Fedez, deve affrontare un nuovo caso. La bufera questa volta arriva dall’improvvisa cancellazione del film “Hammamet”, previsto nel prime time di venerdì 1 ottobre su Rai3, ampiamente annunciato nei giorni precedenti con gli spot a tutte le ore, ma sostituito all’ultimo momento dal film “Arrivano i prof”. Il film di Gianni Amelio, che racconta gli ultimi mesi di vita dell’ex presidente del Consiglio socialista in Tunisia, dopo esser stato travolto da Tangentopoli, non è dunque andato in onda.  Una pellicola di qualità e pluripremiata, con Pierfrancesco Favino ad interpretare Craxi che per quel ruolo ha vinto un Nastro d’Argento e il Premio Flaiano. Dunque, perché il ‘no’ improvviso? In una nota diffusa a polemiche ormai già furenti, la Rai ha spiegato che la messa in onda di ‘Hammamet’ è stata spostata “nell’ambito di una normale attività di modulazione del palinsesto” e che sarà trasmessa il 26 novembre prossimo. Ad evocare la “censura” è invece il figlio di Bettino Craxi, Bobo, candidato a Roma a sostegno di Roberto Gualtieri. E non a caso c’è chi evoca la vicinanza con le elezioni del 3-4 ottobre dietro lo stop ad “Hammamet”: una motivazione dubbia, dato che la data del voto è nota da mesi e che la Rai poteva tranquillamente mandare in onda il film dopo le elezioni. Sempre Bobo Craxi non risparmia accuse pesanti a Di Mare, definito su Twitter un “grillino” che “pensa di pensa di essere il Direttore dell’EIAR”, “voce” del fascismo per gran parte del ventennio. Per Bobo Craxi il presunto nesso con le elezioni non regge: “Qual è il nesso fra la messa in onda di un film che romanza una vicenda storica di un uomo di Stato che hanno già visto oltre un milione di italiani e la candidatura  di un suo discendente? Mi sfugge. Rai3 ha operato una imbarazzante censura”, denuncia il candidato socialista a Roma. Craxi che si rivolge quindi direttamente al direttore di rete, Franco Di Mare, denunciando la censura “da regime sovietico e franchista” e annunciando che si rivolgerà “alla commissione di vigilanza Rai per capire le ragioni di questa censura”. A sostenere le istanze di Craxi c’è anche Riccardo Nencini, senatore del Psi e presidente della commissione istruzione e cultura del senato: “Ci sta una bella interrogazione parlamentare oltre al coinvolgimento della Commissione di Vigilanza Rai. Semplice e diretta: perché? Elezioni alle porte? Si sapeva da mesi. A proposito: Fedez da Fazio domenica parlerà di Orietta Berti? Un Craxi candidato? Si sapeva da tempo. Film sovversivo? Ma per piacere. L’Italia rigurgita di saluti fascisti, inneggiano a Hitler, i moralisti della Bestia si scoprono peccatori e la Rai che fa? Censura un bel film”. E a proposito di vigilanza Rai, sul caso ‘Hammamet’ è intervenuto anche il segretario della commissione, Michele Anzaldi. Il deputato di Italia Viva parla della cancellazione del film dalla prima serata di Rai3 come “ennesimo caso di sciatteria da parte della Tv pubblica, in questo caso duplice visto che, a partire dalla scelta del canale su cui trasmetterlo, è anche controproducente economicamente”. Parlando al sito vigilanzatv Anzaldi ricorda che il film di Gianni Amelio “è uscito nelle sale il 9 gennaio 2020, due mesi prima del lockdown e ha incassato nel primo giorno di programmazione 194.890 euro chiudendo al secondo posto del botteghino. Alla fine della prima settimana aveva sfiorato i due milioni e mezzo di euro diventando il miglior incasso di sempre per il regista Gianni Amelio. In totale, malgrado la chiusura dei cinema per il Covid-19, si è classificato al 21º posto dei film più visti nella stagione italiana 2019/2020, superando i 6 milioni e mezzo di incasso, finora. E non solo la Pay Tv lo ha pagato 1.250.000 euro; nel mercato degli home video (che è in crisi) ha incassato 120.000 euro, e 1.200.000 persone, nonostante la pandemia, sono andate nelle sale a vederlo. E invece la Rai generalista lo svende così! Ancor più grave il fatto che la Rai è anche co-produttrice, quindi anziché pensare a rientrare delle spese di produzione, lo ‘svende’ su Rai3 invece di programmarlo su Rai1. La cosa grave è che alla Rai se ne siano accorti solo poche ore prima della messa in onda del film già annunciato da giorni, e con la data delle elezioni nota da molti mesi. Possibile che, con tutti i direttori, vicedirettori, capistruttura, e così via, pagati profumatamente dal canone, nessuno alla Rai abbia saputo controllare?”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Virginia Piccolillo per il "Corriere della Sera" il 13 luglio 2021. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di Stefania e Vittorio Craxi e di Anna Moncini, moglie del leader socialista morto latitante ad Hammamet nel 2000, contro due avvisi di accertamento per le tasse evase da un conto estero a lui riconducibile. E li ha condannati a pagare 20 mila euro di spese legali. Più quelle tasse evase negli anni '90. Secondo la V sezione civile spetta a loro pagare quello che era emerso nell'accertamento dell'Agenzia delle Entrate e dalla Commissione tributaria lombarda sull'evasione dei tributi fiscali di quel conto svizzero International Gold Coast da 19 miliardi e mezzo di vecchie lire. Il conto sul quale erano arrivati i finanziamenti occulti al partito. Secondo i magistrati un imponibile complessivo di oltre 23 miliardi e mezzo delle vecchie lire, cui corrisponde una maggiore Irpef pari a 10,7 miliardi di lire. La sentenza, discussa il 7 luglio e depositata ieri, fa riferimento a due avvisi di accertamento del 1992 e del 1993. La causa è andata avanti tra ricorsi e impugnazioni. Fino a giungere al pronunciamento che considera il conto svizzero «materialmente riconducibile al Craxi e non al partito». Craxi ne «aveva la disponibilità esclusiva, come si confà al proprietario». E quindi le tasse spettano agli eredi. Secondo i giudici è rimasto «privo di riscontro l'assunto difensivo» secondo cui il «percettore», ovvero Craxi, «al fine di eludere la tassazione personale, avrebbe retrocesso le somme al partito», come avevano sostenuto i legali della famiglia Giancarlo Zoppini, Giuseppe Pizzonia e Giuseppe Russo Corvace. Grida all'«obbrobrio giuridico» la figlia Stefania Craxi. «Condannano noi a pagare per un finanziamento illecito. Abbiamo ereditato il partito? È un'ingiustizia nell'ingiustizia, per un uomo come Bettino Craxi che ha pagato un prezzo così alto». Secondo la famiglia nulla è dovuto anche perché i Craxi hanno rinunciato all'eredità «con beneficio d'inventario», ovvero non si è tenuti a pagare i debiti superiori al lascito. Di quel conto, divenuto famoso in Tangentopoli, ne parlò nel 1995 Giorgio Tradati, amico di Craxi arrestato, spiegando il meccanismo secondo il quale lui era il prestanome. Tradati spiegò anche che per riconoscere i soldi destinati a Craxi da quelli per l'intermediario si usava la parola grain («grano»). Esplosa Tangentopoli, mise a verbale, Craxi gli disse di far sparire quei soldi. Lui si rifiutò. «Fu incaricato un altro. I soldi non finirono al partito Hanno comprato anche 15 chili di lingotti d'oro», assicurò ai magistrati. La Cassazione riprende quelle dichiarazioni e dice che, «con dovizia di elementi», la Commissione tributaria regionale lombarda «ha composto un quadro probatorio che conferma la pretesa erariale e pone in rilievo il ruolo cruciale di Craxi, il quale almeno a partire dalla seconda metà degli anni '80 aveva fatto aprire all'estero a suoi prestanome, movimentava e gestiva, tramite "terze persone", un conto corrente (il conto International Gold Coast) al quale affluivano i denari che "qualche persona" doveva far arrivare all'onorevole Craxi».

Virginia Piccolillo per il "Corriere della Sera" il 13 luglio 2021. Bobo Craxi, la Cassazione ha condannato lei, sua sorella Stefania e sua madre a pagare per le tasse evase sul conto International Gold Coast riconducibile a suo padre Bettino, più le spese legali: che farete?

«Bello, vero? È il passato che non passa. Il ricorso l'ha fatto mia sorella, io non ero d'accordo. Comunque per me quelle sono tasse processuali non dovute».

Perché?

«Mio padre è morto e noi abbiamo rinunciato all'eredità. Prima con il "beneficio di inventario", separando la nostra posizione dalla sua. E poi del tutto». 

Pure al conto, perché?

«Sapevamo che mio padre aveva pendenze fiscali. Ma non c'era nessun conto suo. I magistrati ne hanno attribuito a lui uno intestato a terzi. Se poi mi chiede della natura illegale dei finanziamenti, è un segreto che mio padre non ha portato nella tomba: l'ha detto in Parlamento. In ogni caso sono passati 30 anni».

E dunque?

«Dopo 10, se non hai ricevuto cartelle, e io non ne ho avute, è prescritto». Quindi non pagherete? «Nulla è dovuto perché c'è il beneficio di inventario. Avendo servito lo Stato come mio padre e mia sorella, sono pronto a offrire un risarcimento simbolico, secondo le mie capacità. Ma c'è un punto politico». 

Cosa c'entra?

«Io non riconosco nulla di quelle condanne. Fu un colpo di Stato».

Non diceva che quel denaro aveva natura illegale?

«Il Psi non prendeva fondi dall'Urss né dagli Usa. Recuperare soldi per il partito ha dato origine anche a fatti di natura non specchiata, e a volte intollerabili. Ma mio padre spingeva per una soluzione di natura politica. O, vaticinava, Tangentopoli sarebbe durata anni e così è stato». 

Le tangenti non ebbero a che fare con questo?

«Ogni stagione della società ha la sua corruzione».

La riforma della giustizia risolve?

«Riporta tutto nell'alveo costituzionale. Il resto lo faranno i referendum».

Suo padre ne sarebbe soddisfatto?

«Di cosa? Di sopravvivere? Certo».

"Accanimento giudiziario". Bufera sulla sentenza della Cassazione contro la famiglia Craxi. Orlando Sacchelli il 13 Luglio 2021 su Il Giornale. Respinti i ricorsi presentati dai familiari di Craxi contro gli avvisi di accertamento per tasse evase e da pagare, riferite al 1992 e al 1993. Per la Corte i soldi depositati in Svizzera erano riconducibili all'ex leader e non al Partito socialista italiano. Riesplode la polemica politica. È morto da più di ventuno anni Bettino Craxi, ma il suo nome continua a scatenare polveroni mediatici (e non solo). Questa volta non per un dibattito sulla figura politica e sulle responsabilità giudiziarie legate a Tangentopoli. La polemica stavolta è esplosa dopo che la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dalla famiglia contro l’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia dell’aprile 2014. La controversia riguardava l’impugnazione di due avvisi di accertamento emessi nei confronti di Craxi per recuperare le tasse su "redditi diversi e di capitale" per il 1992 e il 1993, per un imponibile complessivo di oltre 23 miliardi e mezzo di vecchie lire, con una maggiore Irpef da pagare pari a 10,7 miliardi di lire (oltre alle sanzioni). I giudici hanno condannato i ricorrenti al pagamento di oltre 20 mila euro di spese legali. Nell’ordinanza della Cassazione si legge che "i documenti indicati in sentenza (della Commissione tributaria regionale, ndr) delineano un quadro probatorio idoneo a suffragare le pretese erariali, nel quale domina la figura del signor Benedetto Craxi, la cui attività risulta documentata dalla movimentazione, per il tramite di terze persone, del conto corrente International Gold Coast, materialmente riconducibile al Craxi medesimo". Secondo i giudici, quindi, i soldi del Psi, depositati sul conto svizzero denominato "International Gold Coast" sarebbero stati nella completa disponibilità di Craxi e non in quella del partito.

"Le ingiustizie e l'accanimento nei confronti di Bettino Craxi e della sua famiglia non sembrano avere fine - tuona la senatrice di Forza Italia Stefania Craxi, figlia dello scomparso leader socialista - nonostante il trascorre degli anni e nonostante la verità su quella stagione, i suoi falsi eroi e le sue storture siano ormai sotto gli occhi di tutti. A conclusione di una vicenda grottesca, surreale, che riguarda fatti e questioni di cui né io, né mio fratello e né mia madre ci siamo mai occupati (alla faccia del principio di responsabilità personale!), siamo stati nostro malgrado trascinati in un contenzioso tributario a conclusione del quale siamo chiamati a dover pagare le spese processuali, e solo quelle, poiché non abbiamo ereditato nulla, se non altro perché nulla c'era da ereditare, se non i valori e le idee, di un uomo il cui unico interesse di vita era la politica, come ammisero candidamente alcuni degli stessi giudici del Pool (di Mani pulite, ndr)". Il secondogenito di Bettino, Bobo Craxi, in un'intervista al Corriere della sera chiarisce alcuni aspetti importanti: "Mio padre è morto e noi abbiamo rinunciato all'eredità. Prima con il “beneficio di inventario”, separando la nostra posizione dalla sua. E poi del tutto". Prevista dal codice civile, l'accettazione con beneficio d'inventario limita la responsabilità dell’erede al valore dell’attivo ereditario, evitandogli di compromettere il proprio patrimonio nel caso in cui emergano debiti rilevanti nell’eredità. "Sapevamo che mio padre aveva pendenze fiscali - prosegue Bobo Craxi -. Ma non c'era nessun conto suo. I magistrati ne hanno attribuito a lui uno intestato a terzi. Se poi mi chiede della natura illegale dei finanziamenti, è un segreto che mio padre non ha portato nella tomba: l'ha detto in Parlamento. In ogni caso sono passati 30 anni". E ribadisce che "nulla è dovuto perché c'è il beneficio di inventario". Il figlio dello scomparso leader socialista prosegue ricordando che "il Psi non prendeva fondi dall'Urss né dagli Usa. Recuperare soldi per il partito ha dato origine anche a fatti di natura non specchiata e a volte intollerabili. Ma mio padre spingeva per una soluzione di natura politica. O, vaticinava, Tangentopoli sarebbe durata anni e così è stato". "Solidarietà a Stefania Craxi per una vicenda che appare illogica e grottesca - dice il leader della Lega Matteo Salvini - un accanimento gratuito verso la famiglia di un uomo che non c’è più. Ingiustizie generano ingiustizie. Anche per questo serve al più presto una seria riforma dell’intero sistema Giustizia, e i referendum nei quali siamo impegnati, insieme agli amici del Partito Radicale, sono uno strumento democratico, di popolo, per una giustizia giusta". Di accanimento parla anche Anna Maria Bernini, capogruppo di Forza Italia al Senato. ''L'accanimento nei confronti della famiglia Craxi non ha fine: a 21 anni dalla morte ad Hammamet, la moglie e i figli del leader socialista, eredi “con beneficio di inventario”, sono stati trascinati in un surreale contenzioso tributario su una vicenda controversa che risale al 1992 e ora condannati dalla Cassazione a pagare le spese processuali. Questi sono i tempi e gli usi distorti di una giustizia che si pronuncia dopo trent'anni e colpisce chi, come Stefania e i suoi congiunti, non ha mai avuto a che fare con le vicende contestate. A Stefania giunga quindi la mia piena solidarietà''.

Orlando Sacchelli. Laureato in Scienze Politiche, ho scritto per La Nazione e altri quotidiani. Dal dicembre 2006 lavoro al sito internet de il Giornale. Ho fondato L'Arno.it, un sito per i toscani e per chi ama la Toscana. 

Le ingiustizie e le verità. Le ingiustizie e l’accanimento contro i Craxi avranno mai fine? Stefania Craxi su Il Riformista il 14 Luglio 2021. Le ingiustizie e l’accanimento nei confronti di Bettino Craxi e della sua famiglia non sembrano avere fine, nonostante il trascorrere degli anni e nonostante la verità su quella stagione, i suoi falsi eroi e le sue storture siano ormai sotto gli occhi di tutti. A conclusione di una vicenda grottesca, surreale, che riguarda fatti e questioni di cui né io, né mio fratello e né mia madre ci siamo mai occupati (alla faccia del principio di responsabilità personale!), siamo stati nostro malgrado trascinati in un contenzioso tributario a conclusione del quale siamo chiamati a dover pagare le spese processuali, e solo quelle, poiché non abbiamo ereditato nulla, se non altro perché nulla c’era da ereditare, se non i valori e le idee, di un uomo il cui unico interesse di vita era la politica, come ammisero candidamente alcuni degli stessi giudici del Pool! Di fatto, la Corte di Cassazione, non ha ritenuto meritevole di censura la sentenza di appello nella parte in cui i giudici di secondo grado hanno escluso l’onere probatorio, la prova, in capo all’Agenzia dell’Entrate circa la destinazione di alcuni fondi di cui Craxi, e non già il Partito Socialista, secondo i vecchi processi dell’epoca di tangentopoli riproposti in sentenza, era l’utilizzatore di quelle somme e quindi aveva l’onere di dichiararle al fisco quali redditi personali! Quindi, sui finanziamenti al Psi, a un partito, Bettino Craxi, cioè il Segretario politico, neanche amministrativo, avrebbe dovuto pagare personalmente le tasse! Un capolavoro di linearità logica e giuridica. Mi aspetto ora che si chieda lo stesso ai Segretari, o ai loro eredi, di tutti gli altri partiti dell’allora arco costituzionale interessati dalle vicende giudiziarie del finanziamento ai partiti, dalla Dc, al PciI/Pds, passando per la Lega! Innanzi a tutto questo provo profondo sconcerto e tanta amarezza. La considero l’ennesima vessazione che origina dai processi farsa di “Mani pulite”. Processi, peraltro, condannati dalla Corte di Strasburgo per violazione dei diritti di difesa e che hanno mistificato la verità dei fatti, la stessa storia di questo Paese, e per colpa dei quali ancora una volta dovremmo pagare personalmente. Stefania Craxi

"Fine pena mai per mio padre Bettino. La famiglia non ha ereditato nulla". Anna Maria Greco il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. La figlia: "Obbrobrio giuridico il no della Cassazione al ricorso fiscale". Un «obbrobrio giuridico», dice Stefania Craxi. La Cassazione ha rigettato il ricorso degli eredi di Bettino Craxi che riguarda tasse del 1992-1993 evase all'estero per oltre 23 miliardi e mezzo di lire, condannandoli a pagare anche 20 mila euro di spese legali. Ma la figlia dell'ex segretario del Psi, morto nel 2000 ad Hammamet, senatrice di Forza Italia, non ci sta.

Sono passati più di 30 anni ma le controversie legali dei Craxi non finiscono più. Perché definisce «grottesca» questa vicenda giudiziaria?

«Perché l'unico commento che si può fare è: Fine pena mai. Le ingiustizie nei confronti di mio padre Bettino e della sua famiglia sembrano non avere mai fine, nonostante il trascorre degli anni e nonostante la verità su quella stagione, i suoi falsi eroi e le sue storture siano ormai sotto gli occhi di tutti. Questa storia è grottesca non solo perché riguarda vicende di cui né io, né mio fratello, né mia madre ci siamo mai occupati, alla faccia del principio di responsabilità personale, ma anche perché siamo stati trascinati nostro malgrado in un contenzioso tributario dall'Agenzia delle entrate, che non poteva non sapere che abbiamo accettato l'eredità con beneficio d'inventario, cioè non siamo tenuti a pagare i debiti superiori al lascito».

Per i giudici tributari quel conto svizzero era «materialmente riconducibile a Craxi e non al partito». E ora dovete pagare le spese processuali.

«Dove sono le prove? Soldi personali per fare che cosa, quale arricchimento? Il tenore di vita di mio padre e della famiglia era sotto gli occhi di tutti, bastava interrogare dal prefetto al capo scorta per avere informazioni. E noi non abbiamo ereditato nulla, se non altro perché nulla c'era da ereditare, se non i valori e le idee, di un uomo il cui unico interesse di vita era la politica, come ammisero candidamente alcuni degli stessi giudici del Pool di Mani Pulite. Ci hanno già portato via quelle poche cose che ci aveva lasciato, tra cui la collezione garibaldina».

A 21 anni dalla morte di suo padre siete convinti di essere oggetto di ingiustizie e accanimento giudiziario, ma perché?

«Come chiamarlo, altrimenti? Non so il perché, forse la figura di Bettino Craxi fa ancora paura. Per me è un grande dolore, perché lui per tutta la sua vita ha messo al primo posto il suo Paese e ha pagato un prezzo così alto».

La lunghezza di queste vicende giudiziarie è impressionante, si parla di lire e non di euro...

«È un'ingiustizia nell'ingiustizia, figlia dei primi processi-farsa che io contesto. Condannano noi a pagare per un finanziamento illecito, ma abbiamo ereditato il partito? Lui era segretario del partito, ma non ho visto lo stesso trattamento per altri segretari, da quelli di Dc e Pci fino a quello della Lega».

Allarghiamo lo sguardo, visto che parliamo di giustizia: la riforma Cartabia la convince? O crede più nei referendum di Lega e Radicali?

«Sa come dicono i milanesi, in dialetto: Piuttosto che niente meglio piuttosto. Certo, la riforma Cartabia non affronta i nodi che, invece, sono nei quesiti referendari. Io mi sto impegnando direttamente. Se abbiamo raccolto più di duecentomila firme in questi due week end, se mi hanno telefonato dicendo che ne sono state messe insieme 700 solo in un piccolo comune lombardo, credo che arriveremo al voto. E poi sarà il Parlamento a dover fare la legge. Non aver messo mano alla riforma della giustizia è il più grande fallimento della Seconda Repubblica. A 20 anni di distanza ci si è accorti che la giustizia deve tornare ad avere il suo ruolo di servizio a tutela del cittadino e non certo di arma politica». Anna Maria Greco

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Donne e famiglia.

Da tgcom24.mediaset.it il 30 settembre 2021. In nome di una lunga amicizia, Mariano Apicella dedica un brano a Silvio Berlusconi, nel giorno del suo 85esimo compleanno. Il 29 settembre il cantante pubblica infatti un nuovo arrangiamento (Latin gipsy) di "Meglio 'na canzone", scritta dallo stesso artista insieme a Berlusconi e Rino Giglio e pubblicata originariamente nel 2003 nell'omonimo album. La nuova versione affidata al maestro Francesco Morettini, prodotta da Clodio Music, sarà distribuita sui digital store e in radio ed è accompagnata da un romantico videoclip per la regia di Michele Vitiello. Due giovani innamorati, interpretati dai ballerini Francesca La Rosa e Mario Giuseppe Uzzi, scandiscono i momenti del loro sentimento attraverso la melodia di Mariano Apicella, che per l'occasione incarna il menestrello con la sua inseparabile chitarra. A passo di danza la coppia volteggia fra sorrisi ed emozioni, regalando quella gioia e quella spensieratezza tipica degli innamorati.

Barbara Berlusconi, mamma per la quinta volta: ritratto di una giovane mamma in carriera.  Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 21 Novembre 2021. La primogenita di Silvio Berlusconi e Veronica Lario ha dato alla luce in Svizzera Ettore Quinto. Una vita sotto i riflettori, l’eccellenza negli studi e e il tema della «conciliazione» tra lavoro e famiglia. «Dentro di me sento che due figli possono bastare». L’allora venticinquenne Barbara Berlusconi, dopo la nascita del secondo figlio Edoardo nella clinica svizzera San’Anna di Sorengo, affidava ai cronisti questa riflessione. «È complesso essere una madre attenta come voglio essere e contemporaneamente una persona desiderosa di completare bene gli studi e dedicarsi al lavoro», diceva la primogenita di Silvio Berlusconi e Veronica Lario, manifestando gli stessi dubbi e dilemmi di una qualunque ragazza della sua età. Invece con gli anni Barbara Berlusconi ha scelto di portare avanti contemporaneamente il ruolo di mamma e di imprenditrice. Dopo Alessandro ed Edoardo, nati dalla relazione con Giorgio Valaguzza, di sei anni più grande, analista nel settore «EquityCapital Market» in JP Morgan, conosciuto in Sardegna, Barbara Berlusconi è diventata madre di altri tre figli, tutti maschi. L’ultimogenito è nato ieri: Ettore Quinto, che è il quattordicesimo nipote per Silvio Berlusconi è nato dalla relazione con il compagno Lorenzo Guerrieri, imprenditore nel settore immobiliare. La primogenita di Veronica Lario e del leader di Forza Italia, 37 anni, attuale amministratore delegato della holding 14 che controlla il 21,42% di Fininvest, ha partorito in una clinica svizzera e ancora non sono state diffuse immagini del neonato e neppure della madre. L ’ultima foto di Barbara Berlusconi risale allo scorso agosto, con il pancione nella immancabile Sardegna. Sempre sui social era apparsa insieme a Federica Fumagalli, moglie del fratello Luigi, entrambe con il pancione: Federica ha dato alla luce anche lei un maschietto, Emanuele Silvio, nato lo scorso 29 luglio. Un numero significativo in casa Berlusconi: Silvio Berlusconi è nato infatti il 29 settembre. Un nonno a sua volta molto affettuoso e presente con i nipoti, come riportano anche le cronache dell’epoca, quando alla nascita del primo figlio di Barbara aveva cancellato tutti gli impegni in agenda. Il Cavaliere infatti, in diretta telefonica con il gruppo di Forza Italia alla Camera, aveva annunciato: «Vorrei tanto potervi raggiungere ma oggi ho un impegno più importante di voi. Sono diventato nonno un’ altra volta e devo andare dal mio nipotino». Impegno mantenuto. Nel pomeriggio era stato avvistato al Sant’ Anna, sesto piano, stanza in fondo al corridoio sulla sinistra. Barbara Berlusconi, attuale amministratore delegato della holding 14 che controlla il 21,42% di Fininvest, è madre di Alessandro (nato nel 2007), Edoardo (2009), Leone (2016), Francesco (2018), solo qualche mesa fa, alla notizia della gravidanza, aveva scherzato sui social dicendo che se fosse arrivato un altro maschio lo avrebbe chiamato Quinto. E così è stato, mantenendo quel registro di figlia “d’arte”, abituata fin da piccola ai riflettori, ma con tutte le caratteristiche delle sue coetanee. Nata in Svizzera nell’estate del 1984, ha avuto come padrino di battesimo Bettino Craxi. Ha frequentato il Collegio Villoresi San Giuseppe di Monza dove ha conseguito il diploma di liceo classico nel 2003 e la sua storia scolastica è quella di una brillante studentessa: nel 2010 si è laureata dottore in Filosofia con il voto di 110 e lode nel 2010 all’Università Vita-Salute San Raffaele con una tesi su «Il concetto di benessere libertà e giustizia nel pensiero di Amartya Sen, premio Nobel per l’ Economia nel ‘ 98», relatore Roberto Mordacci, controrelatore lo studioso di Kant Massimo Reichlin. All’epoca la figlia di Silvio Berlusconi aveva stupito tutti: non aveva voluto che nessuno fosse presente alla discussione della sua tesi, e per questo aveva tenuto nascosto l’ orario. Nel settembre 2003 è entrata a far parte del consiglio di amministrazione di Fininvest S.p.A. per poi entrare a far parte, nell’aprile 2011, del consiglio di amministrazione del Milan. Insieme ai fratelli Eleonora e Luigi possiede la Holding Italiana Quattordicesima, cui fa capo il 21,43% di Fininvest. La politica, tanto amata dal padre, è stato giudicata un traguardo prematuro: «Mio padre mi ha chiesto di collaborare con lui in politica. Sono molto onorata della proposta, però ho deciso di non accettarla perché devo lavorare ancora moltissimo su me stessa. Trovo che la politica sia interessante, ma per riuscire a farla attivamente e consciamente bisogna essere più maturi e con esperienze di vita maggiori», aveva detto in un’intervista. Giovane, appassionata di arte (con la collaborazione con Martina Mondadori) e di moda (prima tra tutte l’amica stilista Alessandra Rich), meno schiva dei fratelli alla vita sociale e alla mondanità, è stata spesso bersaglio dei paparazzi. Nel 2007 ha ammesso di aver fatto comprare dal padre per 20.000 euro alcune foto imbarazzanti scattatele da un paparazzo davanti a una discoteca di Milano. Ma proprio come aveva promesso alla nascita del secondogenito, Barbara Berlusconi, ha fatto marciare vita privata e lavorativa senza intralci, non senza nascondere il privilegio della sua condizione personale: nel 2013 è stata nominata dal consiglio di amministrazione del Milan vicepresidente e amministratore delegato con delega alle funzioni sociali non sportive e anche dopo la cessione del club all’imprenditore cinese Li Yonghong è rimasta nell’ambiente rossonero. Legatissima alla madre Veronica Lario, Barbara ha però sempre ricordato la sua grande somiglianza al padre. «Da lui ho ereditato la capacità di cogliere subito il nocciolo delle questioni e di essere rapida nelle decisioni».

Berlusconi e i 13 nipoti: la mappa dei piccoli eredi dell’impero dei media che vale 4 miliardi. Diana Cavalcoli e Daniela Polizzi su Il Corriere della Sera il 30 luglio 2021. Silvio Berlusconi è diventato nonno per la tredicesima volta. Con la nascita di Emanuele Silvio, figlio di Federica Fumagalli e Luigi Berlusconi, ultimogenito del leader di Forza Italia e fondatore di Mediaset, salgono a tredici i nipoti del Cavaliere. La terza generazione di Berlusconi è però destinata ad allargarsi: entro la fine del 2021 i nipoti diventeranno 14, vista la dolce attesa di Barbara Berlusconi. Per la figlia di Berlusconi, che dovrebbe partorire a novembre, si tratta del quinto figlio dato che è già madre di Leone di 4 anni, Francesco Amos di 3 e dei maggiori Alessandro, 13 anni e Edoardo di 11.

Aumentano gli eredi di Silvio Berlusconi. Saranno quindi 14 i nipoti che un giorno erediteranno (dopo la seconda generazione) una fetta dell’impero di Berlusconi, impero che si stima valga 4 miliardi tra media ed editoria (valutazione di Forbes di qualche mese fa).

La mappa dei piccoli eredi. Ma chi sono i nipoti di Berlusconi? La più grande è Lucrezia, 31 anni, figlia di Pier Silvio e sorella di Lorenzo Mattia e Sofia Valentina. Poi ci i sono i figli di Marina Berlusconi: Gabriele, nato nel 2002 e Silvio nel 2003. Eleonora Berlusconi ha poi tre eredi: Riccardo, Flora e Artemisia. Mentre il fratello Luigi, il minore dei Berlusconi, come raccontato in apertura è appena diventato padre del piccolo Emanuele Silvio, il cui secondo nome è chiaramente un omaggio al nonno.

I ruoli in famiglia della seconda generazione. Molto del futuro dell'impero costruito da Berlusconi dipenderà dai suoi figli che hanno ruoli diversi nella società di famiglia. Al momento Berlusconi controlla il 61% della holding Fininvest che opera nei settori della televisione, della radio e del cinema con Mediaset e dell'editoria con Mondadori. Il resto delle quote sono così divise tra gli esponenti della seconda generazione: Marina ha l’8% delle quote, è presidente della holding e a capo di Mondadori mentre Pier Silvio detiene l’8% ed è l’uomo alla guida di Mediaset. I tre figli Barbara, Eleonora e Luigi possiedono insieme il 21% della società. Al momento Luigi e Barbara non hanno incarichi operativi nel gruppo, svolgono il ruolo di azionisti di Fininvest e siedono nel consiglio di amministrazione. Anche Eleonora non ha al momento ruoli operativi. In passato Barbara Berlusconi era stata nominata dal board del Milan vicepresidente e amministratore delegato con delega alle funzioni sociali non sportive. Esperienza conclusasi nel 2017, dopo la cessione del club all’imprenditore cinese Yonghong Li.

Da whoopsee.it il 28 luglio 2021. Fiocco azzurro in casa Berlusconi. Luigi, ultimogenito dell’ex premier, e la moglie Federica Fumagalli, sono diventati genitori del piccolo Emanuele Silvio. I due si sono conosciuti circa dieci anni fa ai tempi dell’Università. Entrambi sono laureati alla Bocconi, lui in Economia e lei in Giurisprudenza. Luigi è il quinto figlio del Cavaliere, il terzo avuto da Veronica Lario. Il 7 ottobre scorso la coppia si è sposata nella basilica di Sant’Ambrogio, con una cerimonia intima a cui hanno preso parte solo familiari e testimoni. Oggi Luigi e Federica vivono per la prima volta la gioia di essere genitori. Si allunga così la lista dei nipotini di Silvio Berlusconi, che tocca quota tredici. Benvenuto Emanuele Silvio!

Luigi Berlusconi e Federica, è nato il primo figlio: clamoroso, sapete come lo hanno chiamato? Libero Quotidiano il 29 luglio 2021. Novità in casa Berlusconi. È nato il primo figlio di Luigi Berlusconi, figlio del leader di Forza Italia, e Federica Fumagalli. I due sono diventati genitori di Emanuele Silvio. Si tratta del tredicesimo nipote di nonno Silvio Berlusconi, a cui è stato reso omaggio con il nome. Non è comunque ancora stato dato l’annuncio ufficiale della famiglia e non si hanno al momento notizie su dove sia avvenuto il parto, anche se è molto probabile che la coppia si trovi a Milano, città in cui vive dal matrimonio. Luigi e la sua Federica si conoscono da lungo tempo. I due infatti hanno condiviso i tempi dell’università e, conseguita la laurea alla Bocconi. Le nozze sono arrivate dopo ben nove anni di relazione. Il matrimonio si è tenuto lo scorso ottobre nella cappella dell’oratorio San Sigismondo della basilica di Sant’Ambrogio, e per i festeggiamenti in Brianza. La nascita del primogenito di Luigi e Federica precede di qualche settimana quella del cuginetto (o cuginetta). Barbara Berlusconi, infatti, è in attesa del suo quinto figlio. La figlia del Cav è stata immortalata assieme alla mamma Veronica Lario nel giorno dei suoi 65 anni lo scorso 19 luglio. Le due hanno festeggiato a bordo dello yacht di famiglia Morning Glory. 

Luigi Berlusconi "anticipa" la sorella Barbara: la "linea ereditaria", ecco cosa cambia con la nascita di Emanuele Silvio. Libero Quotidiano il 29 luglio 2021. Silvio Berlusconi è diventato nonno per la tredicesima volta, ma presto lo sarà anche per la quattordicesima. La figlia Barbara è infatti nel bel mezzo della quinta gravidanza: aspetta una bambina, dunque in casa Berlusconi il 2021 sarà caratterizzato da un fiocco rosa e uno azzurro. Quest’ultimo risponde al nome di Emanuele Silvio: così Luigi Berlusconi e Federica Fumagalli hanno deciso di chiamare il loro maschietto. Il figlio più giovane dell’ex presidente del Consiglio nonché leader di Forza Italia ha sposato la compagna lo scorso anno nella basilica di Sant’Ambrogio: i due si sono conosciuti circa due anni fa, durante una serata con gli amici ai tempi dell’università. Entrambi si sono laureati alla Bocconi, lui in Economia e lei in Giurisprudenza. Luigi lavora nel campo della finanza e nel 2014 è diventato presidente della holding Quattordicesima, mentre Federica lavora con una società che si occupa di pubbliche relazioni, eventi e comunicazione. La nascita del loro figlio precede di qualche settimana quella della bimba di Barbara. Sarà lei a dare alla luce il quattordicesimo nipote di Berlusconi, dopo averne già messi al mondo quattro: sono Leone (4 anni), Francesco Amos (3), Alessandro (13) ed Edoardo (11). 

Da tgcom24.mediaset.it il 10 maggio 2021. Barbara Berlusconi sarà mamma per la quinta volta. La figlia di Silvio Berlusconi e il compagno Lorenzo Guerrieri, imprenditore nel settore immobiliare, diventeranno genitori a metà novembre. Barbara, 36 anni, è già mamma di Alessandro, nato nel 2007, Edoardo, nel 2009, Leone, nel 2016, e Francesco, nel 2018. Barbara Berlusconi, amministratore delegato della Holding 14, la società, di cui sono soci anche i fratelli Luigi ed Eleonora, che controlla il 21,42% di Fininvest e investe in particolare nelle start up e nel digitale, è molto attiva nei progetti culturali e sociali, soprattutto a sostegno di bambini e ragazzi. Per la festa della mamma, domenica 9 maggio, la Berlusconi ha dedicato un post dolcissimo con una foto di quattro generazioni scrivendo: “Nonne, madri, figlie... donne. Viva le mamme”.

Laura Ravetto a Belve: "Quella voce sulla droga... Quando Silvio Berlusconi mi ha chiamata ho capito tutto". Libero Quotidiano il 04 giugno 2021. Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, e Dario Ginefra. Laura Ravetto, ex amazzone berlusconiana e ora deputata della Lega, si confessa a Francesca Fagnani a Belve, su Rai due, nella puntata del 4 giugno. Parla degli "uomini" che hanno segnato la sua vita e di quella brutta voce sull'uso di droga. In particolare, del Cavaliere, parla di "sindrome di Versailles, è chiaramente una sorta di re Sole. È anche una tattica politica, lui ha preso tutti i vassalli, le personalità, le attira a sé e le mette a competere su chi è più bravo nell’ambito di certe regole di corte”. Il problema, spiega la Ravetto è che "io non sono il tipo di donna di Berlusconi, a lui piacciono le donne più composte, più ubbidienti. Io sono una ribelle, sembro un po’ uscita dagli anni Settanta, dico sempre che sembro un po’ una hippie di destra”. Rispetto al suo passaggio alla Lega, l'ex forzista dice di essersi proposta: "Non ho nessun problema a dirlo". A ferirla molto è stata una lingua maligna che diceva che era dipendente da sostanze stupefacenti. “Proprio perché sono così grintosa e iperattiva, nel mio caso girava la voce del 'prenderà qualche sostanza'. Successe che un anno, in tema antidroga, l’allora presidente della Camera Casini fece fare un test su base volontaria. Io sono andata e ho dato anche l’autorizzazione a pubblicare immediatamente il risultato". Insomma, "faccio questo test e dopo qualche giorno, quando non erano ancora stati fatti i nomi, esce un articolo in cui si diceva: 'Trovata positiva al test giovane deputata bionda, di destra'. Nel pomeriggio mi chiama Silvio Berlusconi. 'Non ti preoccupare, risolviamo la cosa, stai tranquilla'”. Quindi la Ravetto è diventata "una furia, ho detto 'Silvio ma chi è che mette in giro queste cose?' e ho capito che c’era un gossip molto consistente”. Parlando della sua vita privata la Ravetto racconta del suo fidanzamento con Dario Ginefra. E di quella volta che su Twitter ha scritto: "“Da oggi sono single, lo dico ai paparazzi non ho più un fidanzato”. Cosa le aveva fatto? La leghista allude a un comportamento sopra le righe del futuro marito, in "zona tradimento": “Mi aveva fatto molto arrabbiare per una cosa grave che non dico, sono affari nostri e io mi ero molto arrabbiata. Ho fatto un tweet pubblico perché mi volevo vendicare. Ho fatto proprio la belva”.  

Dagospia il 28 maggio 2021. Da "Belve". Protagoniste della nuova puntata di Belve - condotto da Francesca Fagnani, in onda questa sera (venerdì 21 maggio) alle 22.55 su Raidue - sono Sabina Began e Barbara Alberti. L’Ape Regina rivela a Belve particolari inediti e sconcertanti sulla sua vita. La droga, le violenze del padre, i narcotrafficanti, l’ossessione per Berlusconi, la conversione al Corano. Insomma, Sabina Began è un fiume in piena. Come quando confessa a Francesca Fagnani: “Non ho mai avuto un uomo dopo Silvio”. Niente, nemmeno un flirt?, chiede la conduttrice “No, da più di dieci anni”. Ma se avesse modo di parlare con Berlusconi adesso, che cosa gli direbbe? “Lo abbraccerei…”. Mentre tenta di rispondere, Sabina Began comincia a piangere e a singhiozzare, al punto di non riuscire più a interagire con la conduttrice. Soltanto quando Fagnani le chiede se è il pensiero di Silvio a farla stare male, Began annuisce in segno di approvazione. Tra le altre rivelazioni, Sabina Began ne riserva una per Italo Bocchino, braccio destro di Gianfranco Fini ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi. “Adesso lo possiamo dire, è passato tanto tempo” esordisce Fagnani, che poi sottolinea: “Allora Italo Bocchino era un grandissimo oppositore di Silvio Berlusconi. Lei, bellissima donna, lo ha in qualche modo attirato in un flirt e poi, quando lui c’è caduto con tutti i piedi, lei ha rivelato una serie di particolari compromettenti, imbarazzanti. È stato un trappolone?”. “Sì, assolutamente” risponde Began “perché questo abbaiava come un cane addosso a Silvio. Io non ce la facevo più. Neanche Silvio ce la faceva più. Allora me l’hanno presentato e ho detto. “Bene!”. Sono andata da Silvio e ho detto: “Senti, c’è questo qua, capito?”. Ci siamo guardati… e vai!”. Indomabili, ambiziose, sempre all’attacco e mai gregarie alle 22.55 le protagoniste di Belve si prendono il venerdì sera di Raidue, con un ciclo di dieci puntate. Il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani con domande dirette e mai cerimoniose puntano a far emergere forza e fragilità delle protagoniste, parte quindi con due donne dello spettacolo. Feroci e fragili, al tempo stesso.

Sabina Began a Belve, la confessione su Italo Bocchino: "Abbaiava come un cane contro Berlusconi", la trappola erotica. Libero Quotidiano il 28 maggio 2021. L’intervista di Sabina Began a Belve - la nuova trasmissione di Francesca Fagnani che occupa la seconda serata di venerdì su Rai2 - sta facendo discutere prima ancora di essere mandata in onda. Dalle anticipazioni sono infatti emerse alcune rivelazioni a dir poco scottanti della cosiddetta “Ape Regina”: tra droga, violenza del padre, narcotrafficanti, la conversione all’islam e l’ossessione per Silvio Berlusconi, ci sarebbe abbastanza materiale per un gran libro. La confessione più sconvolgente riguardava però Italo Bocchino, braccio destro di Gianfranco Fini ai tempi dell’ultimo governo presieduto dal Cav. A introdurre l’argomento è stata Fagnani: “Adesso lo possiamo dire, è passato tanto tempo. Allora Bocchino era un grandissimo oppositore di Berlusconi. Lei, bellissima donna, lo ha in qualche modo attirato in un flirt e poi, quando lui c’è caduto con tutte le scarpe, lei ha rivelato una serie di particolari compromettenti, imbarazzanti. È stato un trappolone?”. “Sì, assolutamente”, ha risposto quasi con orgoglio Began. “Perché questo - ha spiegato - abbaiava come un cane addosso a Silvio. Io non ce la facevo più. Neanche Silvio ce la faceva più. Allora me l’hanno presentato e ho detto ‘bene!’. Sono andata da Silvio e ho detto: ‘Senti, c’è questo qua, capito?’. Ci siamo guardati… e vai”. Tra l’altro Began ha confessato di non avere avuto un uomo dopo Silvio, neanche un semplice flirt: “No, da più di dieci anni”. 

Sabina Began a Belve: "La droga? Fantastica: una volta ho preso talmente tanta cocaina che...". Racconto sconvolgente: come si è ridotta. Libero Quotidiano il 29 maggio 2021. L’intervista di Sabina Began realizzata da Francesca Fagnani per Belve, il programma in onda in seconda serata il venerdì su Rai 2, si è distinta per la quantità di contenuti emersi, anche forti. A lungo la conduttrice ha affrontato il tema della droga, essendo la sua ospite predisposta a parlarne liberamente. “Il mio rapporto con la droga? Fantastico”, ha dichiarato la cosiddetta ‘Ape Regina’. La risposta ha destabilizzato un attimo Francesca Fagnani che poi, incuriosita, ha voluto approfondire la questione con una serie di domande.  “Mi sono divertita veramente tanto - ha spiegato Began - non posso dire che rimpiango quel periodo, mio drogavo e mi piaceva tanto. Era un periodo, poi non è che fossi proprio fuori. Cosa mi facevo? Cocaina e anche fumo, con quelli del teatro il fumo”, ha aggiunto sorridendo. Poi ha svelato di aver provato anche il crack e ha raccontato un aneddoto: “Una volta avevo preso talmente tanta cocaina che ero a tremila e non riuscivo a dormire, allora presi un sonnifero. Potresti anche morire in questi casi, ma non mi ha fatto nulla”. Ovviamente nel corso dell’intervista non si poteva non parlare anche e soprattutto di Silvio Berlusconi: “Sono cinque anni che non lo sento, a volte penso che non mi dispiace, sono scappata da lui però l’ho amato tanto. Non c’è stato un giorno in cui non ho pensato a lui. Non ho mai avuto un uomo dopo Silvio, neanche un flirt, da più di dieci anni. Adesso? Lo abbraccerei”.

Alberto Dandolo per Dagospia il 29 maggio 2021. L' intervista di Francesca Fagnani in Belve alla Apona regina Sabina Begnan è da manuale ultra-cafonal. Siamo oltre! Anzi oltre l'oltre! Sublime nella sua veritiera surrealtà. Dall' orgoglio del vizio alla fede nel Cavaliere trasfusa in Allah. Dal tubetto di deodorante usato per pratiche saffiche all' amicizia con i trafficanti di droga balcanici.  E poi il pianto finale e fatale alla domanda sulla burinaggine delle cene eleganti. Una Fagnani in piena forma che con un cinismo senza moralismo ha in realtà raccontato attraverso la redenta Began l'autocombustione di un'epoca che si è schiantata per sempre nel residence delle Olgettine.

Il testo dell’intervista di Francesca Fagnani a Sabina Began – tratto da “Belve”:

Francesca Fagnani “Che belva si sente?”

Sabina Began: “Sono un misto di belve, forse tra pantera e leone, però questa belva forse ora non c’è più, questa belva è al guinzaglio”. 

“Però diciamo che una belva, un animale lei ce l’ha già nel nome perché per tutti in Italia è l’ape regina. Non l’ape operaia, ma l’ape regina. Perché lei era la favorita alla corte del re e quel re era Berlusconi. Le piaceva che la chiamassero così?”

“Sì perché mi piaceva essere la sua regina”.

Da quanto tempo non sente più Silvio Berlusconi?

“Penso che sono cinque anni”.

E le dispiace?

"La verità?"

Si certo.

"Non lo so, a volte penso di no. Anche se sono andata via, se sono scappata da lui però l’ho amato tanto, non c’è giorno che non abbia pensato a lui”.

Lei è stata attrice, fotomodella, ma il suo nome in Italia è inevitabilmente legato allo scandalo delle “cene eleganti”, questo le dispiace?

“Oggi sì, prima no perché sai, per amore te ne freghi. Però oggi visto che questo amore non è stato appagato, sì”.

Ma come attrice era brava?

“Mi dicevano di sì, io non mi sono mai reputata brava, gli altri la pensavano diversamente. ..”

E perché non ha mai sfondato?

“Lui mi ha detto di non lavorare più. Non potevo lavorare, insomma ero sempre sui giornali, e lui a un certo mi disse: “Non lavorare, ci penso io a te”.

Lei è stata condannata a un anno e quattro mesi di reclusione per favoreggiamento della prostituzione nel processo escort del 2008 e del 2009 che riguardava le escort portate nelle residenze di Berlusconi. E’ una macchia che si cancella o è indelebile secondo lei?

“Una macchia che ora si è cancellata perché vedo che Dio mi ha perdonato. Però quella cosa lì c’è, esiste, me la sono lasciata fare per amore. Ingiustamente, penso oggi”.

Infatti lei ha detto “non posso rinnegare quello che ho vissuto. Ho chiesto perdono a Dio a me stessa, e alle persone a cui ho fatto del male. Non sono una santa ma ho sofferto, se avessi fatto una vita normale forse oggi sarei addormentata”. Quindi tutto sommato è andata bene così?

“Io penso: se non avessi avuto questa vita non mi sarei trovata qui e così come sono e quindi alla fine sono grata perché nel male c’è sempre il bene”.

Lei ha anche detto “Ognuno ha le sue colpe, ognuno fa quello che vuole ma poi deve pagare un prezzo.. E le sue colpe quali sono state?

“L’aver giurato eterno amore. Però qualche colpa ce l’avrà avuta, altrimenti al processo sarebbe andata diversamente…

“Tutto era colpa mia, perché ho permesso a me stessa di farmi trattare così, nessuno ti fa niente se tu non lo permetti, io l’ho permesso per amore perché volevo bruciare per amore”.

Quindi lei vuole dirmi che tutto quello che ho fatto l’ha fatto per amore… Eh ma che ha fatto?

“Mi sono fatta stregare dall’amore”.

E vabbè.. Comunque è passato qualche anno e lei ha cambiato completamente vita… ha sposato una vita spirituale, ha abbracciato la religione musulmana sufista. Ecco, perché questa conversione?

“Perché ho preso il Corano e mentre lo leggevo piangevo, mi ha dato una luce pazzesca e il mio maestro mi ha saputo guarire questo cuore che era malato, l’anima che era malata. Sai, amare un uomo che sta con tantissime donne, e tu non sei la  sua, è un dolore”.

Lei è stata in Malesia poi a Sarajevo sempre per studiare il Corano dove però in qualche modo non si è sentita accettata, e poi infatti se ne è andata e oggi vive a Istanbul. Perché non l’hanno accettata?

“Perché ero la donna di Berlusconi e hanno pensato che io come donna di Berlusconi non potevo entrare nell’Islam. Tutte le donne non mi hanno voluto…” 

Non credo che sia legato a Berlusconi…

“Sì perché  Berlusconi con le donne era così.. e come potevo  pensare io di parlare di dio, di Allah?”

Lei oggi studia, ama e prega. Ma di che vive, cioè come campa?

“La mia vita costa poco però sono in ambiente dove c’è sempre da  mangiare e da dormire, ovunque vada le case sono aperte dai miliardari ai poveri, dio mi ha dato questa possibilità.

Cioè vive come in una comunità?

“Sì una comunità ma io ho avuto sempre amici miliardari, quando li chiamo le loro case sono sempre aperte per me”.

Quindi diciamo una spiritualità però  in un contesto niente male.. Diciamo comunque che lei ha avuto una gioventù burrascosa, è scappata da casa sua da un papà violento ed è arrivata a 17 anni in Italia senza passaporto, figurarsi  i soldi. Come pensava di vivere?

“Mio papà mi menava a sangue, io ho pensato anche al suicidio ho cercato il  suicidio.. Ma mia mamma mi ha detto Dio c’è, esiste. E io sono uscita di casa per trovare dio e l’ho trovato in Italia..”

Ma  prima di trovare dio ha trovato dei criminali… Perché lei in qualche modo all’inizio ha legato la sua esistenza italiana  a dei criminali, a dei trafficanti della mafia balcanica, personaggi molto pericolosi che però le hanno consentito di fare una vita lussuosa,  le pagavano  una casa vicino piazza di Spagna.. Ecco lei lo sapeva chi erano, ma allora non si è posta alcun problema.

“No, perché loro mi hanno rispettata. Cioè con questa gente ti rispetti se non ti dai, nel momento in cui ti dai sei una di loro. Ma io non lo sono mai stata loro, mi amavano”.

Però lei frequentava dei criminali, si faceva pagare la casa dai criminali.. era partecipe.

“Ero come una sorella per loro, mi rispettavano, a Roma mi sono sentita sempre rispettata. Di qualsiasi cosa avevo bisogno c’erano loro lì ad aiutarmi”.

E comunque ha cominciato a frequentare party esclusivi, prestigiosi e conoscere persone importanti , ad avere tutta una serie di uomini ai suoi piedi, dal produttore Giovanni Di Clemente a Mike Tyson, al principe Borghese… Le piaceva quella vita?

“Sì, io mi divertivo perché ero veramente una belva. Io ho pensato che gli uomini dovevano pagare  perché mio padre non è mai stato carino con me da bambina, io non avevo questo amore per gli uomini e ho sfruttato gli uomini, facevo qualsiasi cosa che volevo, con loro, l’unico uomo che non ho potuto usare come volevo è stato Silvio.”

Vabbè, in qualche modo… Ma perchè gli uomini le pagavano tutto, una vita lussuosa, vestiti, viaggi, cene?

“Me lo sono sempre chiesta… Ho sempre pensato che non ero nessuno ma ho avuto sempre uomini che mi hanno pagato tutto. Ma ancora adesso vado al ristorante e non mi fanno pagare e io non capisco perché…”

Ma è corretto dire che per un certo periodo della sua vita lei abbia fatto un lavoro da escort?

“No… perchè io quello che ho fatto l’ho fatto sempre per amore”.

Ma lei  ne ha avuti tantissimi di uomini che le hanno fatto avere una vita lussuosa, lei ha detto “sfruttavo” quindi le chiedevo se c’è stato un momento vita in cui lei si è sentita di fare quel lavoro , non so se definirlo così..

“No perché io ho sempre avuto fidanzati miliardari e quelli che mi piacevano me li prendevo, erano i miei uomini”.

Però diciamo che lei all’inizio ha frequentato persone pericolose che la droga la vendevano e la compravano. Il suo rapporto invece con la droga qual è stato?

“Fantastico”.

Cioè?

“Io mi sono veramente divertita tanto, non posso dire che lo rimpiango, perché ero giovane…”

Ma fantastico che vuol dire, che si drogava o no?

“Sì, che mi drogavo e che mi piaceva tanto. Era un periodo dove lo facevo e non ero mai fuori che non capivo niente, lo facevo per divertimento”.

Di cosa si drogava?

“Di cocaina”.

E basta?

"Anche fumo, con quelli del teatro il fumo"

E la cosa peggiore che ha fatto sotto uso di stupefacenti?

“Crack”.

Ah, anche il crack. Ma se lo ricorda  un episodio in cui era davvero fuori?

“Sì una volta ho preso talmente tanta cocaina che ero fuori, sbandata non riuscivo a dormire. Ero talmente a tremila che ho preso un sonnifero per tranquillizzarmi, avrei potuto morire. Ma invece non mi ha fatto niente è come se dio avesse voluto tenermi in vita”.

Ma quanta cocaina si faceva in un giorno?

“Tanta, ero sempre fatta, camminavo fatta”.

Però se lo ricorda allegramente.

“E’ stato divertente. Non c’è niente della mia vita che non rifarei, ho avuto una vita bella, l’unica cosa che non rifarei è  soffrire per amore per uomo,  a cominciare da mio padre che mi picchiava.

Ha avuto tante storie, erano tutti ai suoi piedi , tanti corteggiatori, mi dice quanti uomini , li sa quantificare, cento, duecento, cinquecento?

“No..,troppo".

Non faccia la modesta.

“Se li conto sulle dita di una mano penso di più.. a occhio e croce forse  più di dieci sì, o 12 o 13”.

Ma non ci crede nessuno..E invece relazioni con le donne le ha mai avute?

“Sì l’ho avuta con una ragazza tedesca bellissima, sono andata a casa con lei e mi sono fatta toccare e baciare, mi piaceva”.

Un bel giorno, correva l’anno 2005, lei era su un treno verso Napoli per andare come al solito a una festa e le arriva la telefonata di un suo amico, Flavio Briatore che le dice: “Guarda devi cambiare direzione , devi venire a una festa in Sardegna perchè c’è un uomo importante e tu devi partecipare a questa festa”. Era Silvio Berlusconi. Lei negli anni ha rinfacciato quell’invito in Sardegna a Briatore o l’ha ringraziato?

“No, non posso mai dire che mi pento perchè io ho amato sinceramente, avrei voluto morire per questo uomo e l’ho fatto. Ho detto che era colpa mia di quelle feste perché mi è stato chiesto da lui, l’ho fatto per aiutarlo e lui mi ha detto che mi avrebbe mantenuto tutta la vita se lo aiutavo”.

Ma aiutare a fare che?

“A dire che era colpa mia”

Lui le prometteva un aiuto per che cosa?

“Per fare l’ attrice, per mantenermi tutta a vita… E invece non l’ha mantenuta questa cosa”.

Per questo ha accettato questa intervista, è una vendetta?

“No, io una vendetta no…”

Non ci racconti il vostro primo incontro perché è letteratura… Ma lei quando frequentava i party si era convinta di essere la favorita, l’ape regina,  fidanzata, la prediletta.. Ma cosa le dava questa convinzione?

“Lui me lo diceva, un giorno mi ha detto “vieni a sederti qua”, mi sono seduta sulle sue ginocchia e lui ha aperto il cassetto e c’erano tutte le mie lettere d’amore. Io ero meravigliata e lui mi ha detto: “Un giorno i miei nipoti sapranno che io sono stata amato veramente e sinceramente da una donna”.

Lei lo amava, ma perché si era convinta di essere la prediletta?

Perchè mi ha detto: “io ho dei figli e dei nipoti ma se mi toccano ormai non sento niente, ma se tu piangi mi smuovi tutto”.

Si è mai chiesto perché alla fine avesse scelto Francesca Pascale e non lei? Perché lei a quel punto era già bruciata?

“No, io non potevo più , io ho chiesto a lui di andarmene perché quando ho preso il Corano e ho incontrato questi maestri ho visto una luce, la porta per uscire. Lui non mi faceva andare via da lui, tante volte ci avevo provato a scappare, a lasciarlo, ma non me lo lasciava fare, aveva una forza mentale su di me. Ogni volta che volevo andarmene via è come se avessi avuto cento soldati invisibili  dentro la mia mente a strizzarmi il cervello. Io gli ho detto “me ne voglio andare, dammi i soldi che mi devi dare, e lui mi ha detto no”.

Senta ce le ha ancora tatuate sul piede le  iniziali di Silvio Berlusconi, S.B?

“Sì, ce l’ho”.

Non l’ha tolto quel tatuaggio?

“No”.

Ma si è pentita di averlo fatto?

"No".

Comunque diciamo che in quel periodo di bugie ne sono state dette tante e anche lei ne ha detta qualcuno.

“Sì tante, per amore ne ho dette tante di bugie”.

In un delirio di onnipotenza è riuscita anche a dire “Il bunga bunga sono io”.

“Sì”.

Nel periodo  forse più nero della sua vita lei a un certo punto  ha detto di essere incinta, di aspettare un bambino di Berlusconi e di averlo poi perso. Possiamo dire ora che era proiezione, disperazione, che quel bambino non c’era?

“No. Io gli ho detto che mi sarebbe piaciuto  avere un bambino, “sto con te ,non sto con altri uomini, sei solo tu il mio uomo”. E  lui mi ha detto “sì sarò io il padre”. Siccome non avevo più rapporti con lui, non facevo più sesso perché gli avevo detto che non mi avrebbe più toccata, lui mi ha rispettata. Perché io avevo dato un morso a una delle ragazze sul seno gli ho quasi staccato un capezzolo dalla gelosia. Lui mi ha detto “ma perché lo hai fatto? “ Perchè sono arrabbiata e adesso non mi toccherai ma più”.  E non mi sono mai più fatta toccare però volevo fare questo figlio con lui”.

Però insomma la domanda è che sicuramente lei lo voleva e sicuramente era una proiezione e un momento disperato per lei. Però non è mai esistito questo bambino?

"No, l’ho fatto, sono andata in clinica a farlo".

Ha tentato una fecondazione.

"Sì. Lui me l’ha fatta fare, mi ha organizzato tutto ma poi non  è andata. Io mi sono fatta fare tanti ormoni, ero diventata gonfia poi piangevo giorno e notte perchè questi ormoni mi facevano diventare pazza. Però lui è stato meraviglioso, lui prima mi diceva sempre bugie, con tanti “non posso…”. Ma nella fase in cui cercavo di restare incinta mi riceveva tutti i giorni, si prendeva cura di me”.

Comunque era un’eterologa, non c’entrava niente Berlusconi.

“Sì, ma lui mi aveva detto che sarebbe diventato suo figlio”.

Vabbè, comunque…

“E poi mi ha detto ora riposati, che poi lo rifacciamo".

Mi dice una belvata, una carognata che ha fatto?

“Un giorno sono andata da lui, mi aveva detto delle bugie..  Non ci credevo è venuto con tanti soldi e me li ha messi nelle borsa. E io li ho presi li ho strappati e ho detto “Con questi mi ci pulisco il culo”. E poi gli ho detto anche: “Adesso mi tolgo questi vestiti, scendo nuda nel palazzo così tutti sapranno che non voglio niente di tuo”.

L’ha fatto?

"Stavo per farlo poi è venuta la segretaria a dirci “Ma siete pazzi perché gridate così?”. E lui: “Non sono io. E’ lei che grida”, come un bambino…”.

Beh, era vero, povero Silvio, posso dirlo? Una belvata però gliela ricordo io, adesso è passato tanto tempo e possiamo dirlo  Lei ha teso un trappolone a Italo Bocchino che era un oppositore di Silvio. Lei, bellissima donna, lo ha attirato in un flirt e quando lui c’è caduto  con tutti i piedi ha rivelato  una serie di particolari compromettenti e imbarazzanti come l’utilizzo dell’auto blu nelle vostre gite in costiera amalfitana.  Ha rivelato messaggi privati… è stato un trappolone?

“Sì perché questo abbaiava come un cane addosso a Silvio, io non ce la facevo più e neanche Silvio e allora quando si è presentato ho pensato “bene..”  sono andato da Silvio, gli ho detto “c’è questo qua.. E allora ci siano guardati e vaiii..."

Mi dice un suo pregio?

“Ma io non ho pregi, non sono niente. Io anche con questo cammino che sto facendo mi devo annullare, sono zero”.

Allora mi dica un suo difetto.

"Non lo so..."

La storia con Berlusconi è iniziata nel 2005 ed è finita dieci anni dopo con una condanna per favoreggiamento della prostituzione. Qual è  il giorno che non rivivrebbe, il primo o l’ultimo?

“Io rivivrei qualsiasi cosa, tutto tutto tutto. Perché l’ho amato pazzescamente e questo mi ha detto che so amare".

Cosa le è rimasto a parte purtroppo una condanna ma anche una casa da un milione e 400 mila euro?

“No, la casa non ce l’ho più, l’ho venduta per niente e poi mi sono comprata una casa in Germania".

Va bene però l’ha avuta e poi fa quello che vuole. E poi che le è rimasto? Ha una mensilità, qualcosa?

“Ho qualcosa, poco”.

No, ma da quella storia.

“Lui mi ha dato qualcosa, mi ha fatto fare un contratto del lavoro che io ho fatto fare, tu sai che ho portato Shevchenko”.

La più grande sola rifilata al Milan.

“Sì ma lui l’ha voluto, Galliani non c’era riuscito, è stato detto di andare da Abramovic tramite i mie amici per portare Shevchenko. Io l’ho fatto così come altre cose, per esempio il G8,  l’ho aiutato…”

Lavoro lo vogliamo definire?

Sì, ho portato la Miramax e i Weinstein da lui, ho portato tanta gente che conoscevo da Silvio e non ho mai preso una lira, tanto lui mi pagava così: quando avevo bisogno di una cosa me la dava”.

Ma facendo un bilancio della sua vita lei ritiene di aver più sfruttato o di essere stata sfruttata o magari di avere avuto un rapporto paritario?

“Paritario”.

Non sente di essersi buttata un po’ via?

“No”.

E non aver avuto figli le dispiace?

“E’ il mio desiderio”

Li vorrebbe?  Ma è innamorata adesso?

“Sì”.

Non mi dica di Dio un’altra volta.

“Sì, ma anche del mio maestro guaritore della mia anima e del mio cuore però è un amore pulito”.

Ma un fidanzato ce l’ha?

“No, mai più avuto un uomo dopo Silvio”.

Quindi da quanto tempo è che non ha fidanzati?

“Tanto”.

Non ha avuto quindi più un uomo, neanche un flirt?

"Sì, da tanti anni, più di dieci".

Ma è possibile, è vero?Se avesse modo di parlare con Berlusconi adesso che cosa gli direbbe?

“Lo abbraccerei”.

Un’ultima domanda: quanto erano burine quelle cene eleganti?

(Began piange)

Si è commossa? Allora pensi alla burinaggine di quelle cene eleganti per riprendersi. Grazie. Ma è il pensiero di Silvio? Grazie. 

Francesca Pascale, bomba di Dagospia: non solo 20 milioni più 1 all'anno, cosa ha ottenuto da Silvio Berlusconi. Libero Quotidiano il 31 luglio 2021. La relazione interrotta da tempo di Silvio Berlusconi con Francesca Pascale ha previsto una liquidazione, il settimanale Oggi aveva parlato di 20 milioni di euro. Dagospia conferma l'accordo e aggiunge la notizia di un vitalizio annuale di un milione di euro per il "mantenimento" dell'ex compagna. La Pascale ha ottenuto anche, in uso gratuito, Villa Maria in Brianza con l'intera servitù a sua completa disposizione. Recentemente la Pascale, che è stata anche attivista di Forza Italia, e ora impegnata per la lotta sul fronte dei diritti civili, ha spiegato come la pensa sul ddl Zan, la legge contro l’omotransfobia. La Pascale ritiene che il testo del ddl dovrebbe essere approvato così com’è, sostenendo che almeno la metà dell’elettorato di Forza Italia la pensa come lei e che il partito dovrebbe lasciare libertà di voto ai suoi parlamentari. Commentando anche l’intervento ufficiale con cui il Vaticano aveva chiesto una modifica della proposta di legge, ha detto, in una intervista a Repubblica, "Io ho iniziato le pratiche per sbattezzarmi. Sono credente, vorrei fosse chiaro. Ma accanto alla Chiesa apostolica, c’è un’altra parte che si divide tra omofobia e silenzio sulla pedofilia. Non mi piace una Chiesa che discrimina. Lo sbattezzo è per me un atto nei confronti di quella Chiesa che dimentica il Vangelo e fa ingerenza politica. Il Vaticano dovrebbe fare una rivoluzione, se non vuole perdere fedeli". 

Francesca Pascale, l'appoggio al Ddl Zan e l'addio a Forza Italia: "Non li voto più, ma è un problema mio". Libero Quotidiano il 09 maggio 2021. Francesca Pascale, l'ex compagna di Silvio Berlusconi, ha partecipato alla manifestazione dei Sentinelli a sostegno del disegno di legge Zan contro l'omotransfobia. "Non voto più per Forza Italia. Più che delusa da Forza Italia sono delusa da alcuni esponenti che tendono ad abbracciare un'area sovranista invece che essere fermi nell'area liberale da cui Forza Italia è nata", spiega in una intervista alla Stampa. "Continua a strizzare gli occhi a Matteo Salvini piuttosto che guardare il faro della libertà. Francamente io non mi sento più di appartenere a un partito che è diventato più sovranista che liberale. È un problema mio". Parla della sua presenza alla manifestazione a sostegno del Ddl Zan: "Essere qui è giusto, è moralmente corretto. È doveroso nei confronti di questa generazione e delle prossime generazioni. Non essere qui in piazza oggi non è prendere una posizione politica ma semplicemente essere a favore delle discriminazioni, a favore dell'odio". Non teme i giudizi da parte del partito di Silvio Berlusconi: "Con me si sono sempre arrabbiati. Fanno bene ad arrabbiarsi. Aumenta il dibattito e mettiamo un po' di sale nella discussione, altrimenti dormiamo", aggiunge. È chiaro il perché non vogliono questa legge. Gli omofobi sono a destra, nell'estrema destra, la destra soprattutto di Matteo Salvini. Ma per come conosco Silvio Berlusconi lui non è una persona che odia, non è un omofobo, non è un razzista. Non è una persona che non punisce le discriminazioni. Anzi. Per questo sono molto sorpresa da Forza Italia. Posso capire il dibattito politico, ma francamente non votare una legge che non fa male a nessuno, anzi che aumenta la sicurezza in tutto il Paese, non è solo senza ragionevolezza, senza alcuna logica politica se non quella di continuare a seguire l'odio e il rancore che c'è in questo Paese", sentenzia la Pascale. E alla domanda se sente ancora Silvio Berlusconi, risponde: "Certamente, è stato l'uomo più importante della mia vita", conclude.

Giovanna Casadio per repubblica.it il 20 luglio 2021. "Sono pronta a “sbattezzarmi”: resto credente, ma una Chiesa che discrimina gli omosessuali e che fa ingerenza politica sul ddl Zan, mi ha deluso". Francesca Pascale, ex compagna di Silvio Berlusconi, militante della prima ora di Forza Italia, napoletana, battagliera sul fronte dei diritti civili, confida: "Berlusconi è arrabbiato con me per la posizione sul ddl Zan e perché vado ai Pride. Mi chiede: perché? Io gli rispondo: perché ci credo. Questa volta non sono d'accordo con lui e spero cambi idea". 

Francesca Pascale, il ddl Zan va approvato così com'è o dovrebbe essere modificato come vuole la destra, Forza Italia inclusa?

"Per me può e deve essere approvato così com'è. Non capisco timori e argomenti utilizzati contro. Sono assurdi. Penso anzi che il ddl Zan andrebbe approvato all'unanimità, senza distinzioni di partito. Come si possono avere colori politici sui diritti umani?  

Mi dispiace vedere lo scontro tra i partiti su un tema come l'omofobia: lo trovo degradante per la politica. E mi auguro, soprattutto se c'è un rinvio della discussione a settembre, che il ddl Zan non diventi motivo di campagna elettorale sulla pelle delle persone e alle spalle della comunità Lgbt che aspetta una legge da decenni".

Lei ha fatto tante battaglie per i diritti civili. Aveva Berlusconi accanto?

"Sì. Ma adesso mi stupisce che Forza Italia non lasci libertà di voto sui diritti civili. Almeno la metà dell'elettorato forzista la pensa come me, come Elio Vito, Stefania Prestigiacomo, Renata Polverini e gli altri che alla Camera hanno già votato a favore e come Barbara Masini che al Senato si appresta a farlo. Masini in aula ha fatto coming out. Però l'altra cosa che mi dispiace è che si pensi debbano votare pro ddl Zan gli interessati, gli omosessuali. Questa è una legge che devono votare tutte le persone perbene". 

Il partito FI che lei ha in mente è una forza liberale. Ma forse non esiste più?

"Nonostante i pregiudizi e le critiche, per me Forza Italia è sempre stata quello. Oltretutto mi chiedo come i forzisti spiegheranno in Europa al Ppe, l'appiattimento sulla Lega che sta con Orban". 

Ha detto che Tajani, il coordinatore di FI, e la sua idea di famiglia tradizionale non la rappresentano. È così?

"Sì, e temo lo sia per gran parte degli elettori forzisti. Essere come la Lega, semplicemente non conviene: allora tanto vale votare l'originale. Chi non è di sinistra, ma cerca una destra liberale, non la trova più. Mi dà amarezza una politica che non si assume la responsabilità neppure davanti alle aggressioni verso gli omosessuali". 

Due nei confronti di coppie lesbiche negli ultimi giorni in Campania.

"Infatti. E la classe dirigente politica sta dando un pessimo esempio. Bisogna puntare sulla cultura e l'educazione. Per questo le iniziative nelle scuole contro le discriminazioni, previste nell'articolo 7 del ddl Zan, sono importanti".  

Proprio quello che la Santa Sede ha contestato con una nota diplomatica, richiamando il Concordato. Cosa ne pensa?

"L'intervento della Chiesa ha un peso importante e una parte politica lo usa strumentalmente come alibi. Io ho iniziato le pratiche per 'sbattezzarmi'. Sono credente, vorrei fosse chiaro. Ma accanto alla Chiesa apostolica, c'è un'altra parte che si divide tra omofobia e silenzio sulla pedofilia. Non mi piace una Chiesa che discrimina".

Lei si sbattezza?

"Lo sbattezzo è per me un atto nei confronti di quella Chiesa che dimentica il Vangelo e fa ingerenza politica. Il Vaticano dovrebbe fare una rivoluzione, se non vuole perdere fedeli". 

Ha partecipato a tante manifestazioni pro ddl Zan, che però potrebbero non essere servite?

"È una battaglia di civiltà. Guardi, io non voterei mai Lega. Ma se questa legge l'avesse scritta Salvini l'avrei appoggiata lo stesso". 

Le hanno attribuito un flirt con la cantautrice Paola Turci, è stata una invasione nella sua vita privata?

"È stata una sorpresa. Non mi sarei aspettata questa attenzione con foto della mia vacanza la scorsa estate. Il dispiacere più grosso è stato avere coinvolto un'altra persona nella curiosità morbosa verso di me". 

Fa sempre politica o la farà?

"Mi piacerebbe tornare a fare la semplice militante di un partito che crede nei valori liberali. Comunque politica la facciamo tutti, e tutti i giorni".

Silvio Berlusconi, l'insulto di Natalia Aspesi: "Ha fatto più il Cav per le donne rispetto al Pd? No, ne ha sco*** molte di più". Libero Quotidiano il 21 aprile 2021. Quando si parla di Silvio Berlusconi il commento di Natalia Aspesi è immancabile. Questa volta la storica firma di Repubblica usa come pretesto per nominare il leader di Forza Italia l'intervista di Rula Jebreal. La giornalista palestinese ha ammesso che il Cavaliere ha fatto molto di più per le donne di quanto fatto dal Pd. "Una dichiarazione ridicola", la definisce la Aspesi che interrogata su mowmag.com è lapidaria. "Ha fatto più Berlusconi per le donne rispetto al Pd? Ne ha sco***e molte, quello sì. Non so se questo è meglio o peggio". Finita qui? Nemmeno per sogno. La giornalista 92enne, anche una volta portata di fronte alla possibilità che la Jebreal abbia criticato i dem più che elogiato gli azzurri, prosegue: "Il Pd non ha fatto andare avanti le donne e Berlusconi sì? Ahhh, ma forse il Pd non le portava a letto". La Jebreal in un’intervista per il settimanale F non ci era andata per il sottile, facendo terra bruciata nel Partito democratico: "Sono molto delusa dal Pd: invece di portare avanti le donne in gamba, come la straordinaria Elly Schlein, le usa solo per immagine. Se va avanti così non merita il nostro voto. Il paradosso è che Berlusconi, tante volte accusato di comportamenti offensivi nei nostri confronti, indicando due ministre ha fatto di più. Enrico Letta ha vissuto a Parigi, in una realtà più emancipata: spero sia più aperto e ci ascolti". Letta ha preso il posto di Nicola Zingaretti proprio dopo le rivolte interne al partito, accusato da deputate e senatrici di essere troppo maschilista. Non a caso il Pd ha piazzato ai piani alti del governo solo uomini. E a chi aveva chiesto alla Jebreal dettagli su una possibile candidatura, non ha avuto dubbi. La giornalista non pensa a candidarsi finché non si troverà di fronte a "una società più aperta alle donne. I tempi non sono maturi per una come me, fino a quando non c’è rispetto per persone come Liliana Segre e Laura Boldrini". 

Da liberoquotidiano.it il 24 marzo 2021. Giovanna Rigato andrà a processo il prossimo 15 maggio a Monza dopo la denuncia per tentata estorsione presentata da Silvio Berlusconi. La notizia è emersa oggi, mercoledì 24 marzo, nel corso dell’udienza milanese del processo Ruby ter: Federico Cecconi, avvocato difensore dell’ex premier, ha chiesto di mettere agli atti del processo il decreto che dispone il giudizio firmato dal gup di Monza il 10 marzo scorso. Secondo l’accusa l’ex concorrente del "Grande Fratello", ritenuta una delle cosiddette “olgettine”, in due occasioni avrebbe chiesto dei soldi (500mila euro la prima volta, addirittura un milione la seconda) in cambio del suo silenzio su quello che avveniva a Villa San Martino. La Rigato ha avuto una lunga esperienza televisiva in Mediaset: è partita con “La sai l’ultima?” E “Arrivano i nostri” per poi approdare nella casa del "Grande Fratello". Dopo il reality si sono aperte le porte di “Buona Domenica” e “Questa Domenica”, poi è diventata inviata di diversi programmi televisivi come “Verissimo” e “Lucignolo”. Adesso la Rigato dovrà affrontare un processo per tentata estorsione a causa della denuncia presentata da Berlusconi. Il quale tra l’altro è stato ospedalizzato lunedì mattina. La difesa del leader di Forza Italia ha deciso di non avanzare istanza di legittimo impedimento per chiedere il rinvio del processo. Per il Cav potrebbero essere necessari ancora alcuni giorni di ricovero: “Fra un paio di giorni sapremo meglio quali sono le sue condizioni”, ha dichiarato il suo avvocato Cecconi. Da Fi fanno sapere che Berlusconi è ricoverato all’ospedale San Raffaele di Milano “per il monitoraggio clinico di routine e l’adeguamento alla terapia in atto e verrà dimesso a breve”.

Cristina Basso per "il Giornale" il 25 marzo 2021. Si apre a maggio davanti al Tribunale di Monza il processo a carico di Giovanna Rigato, accusata di tentata estorsione ai danni di Silvio Berlusconi. Rigato, 39 anni, ex concorrente del Grande fratello e show girl, in passato è stata ospite delle serate di Arcore. Il 10 marzo scorso è stata rinviata a giudizio. Il presunto tentativo di estorsione risale al 2016. È stato il legale di Berlusconi, l'avvocato Federico Cecconi, a dare comunicazione del processo a Giovanna Rigato ieri durante un'udienza milanese del «Ruby ter». La stessa Rigato, insieme al Cavaliere e ad altre 26 persone, è imputata nel procedimento milanese aperto per le accuse di corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza. Cecconi ha spiegato che il gup di Monza il 10 marzo scorso ha deciso il rinvio a giudizio della show girl, difesa dall'avvocato Marco De Giorgio. La 39enne avrebbe minacciato l'ex premier per provare a estorcergli un milione di euro. Nell'imputazione si parla di «reiterate minacce». Il legale ha depositato nel processo di ieri i documenti relativi a quello monzese, in cui Berlusconi sarà appunto parte offesa. Si comincia l'11 maggio. A Monza era approdata l'indagine inizialmente aperta a Milano dopo una denuncia del Cavaliere. La Procura di Monza aveva chiesto l'archiviazione, ma poi il gip aveva disposto l'imputazione coatta. Nel febbraio del 2017 Berlusconi si era presentato in Procura a Milano per una deposizione relativa alla denuncia contro Rigato. L'ex premier ha raccontato ai pm, alla presenza dei legali Cecconi e Niccolò Ghedini e sentito come indagato in procedimento connesso, che la giovane donna avrebbe preteso un milione di euro minacciando altrimenti di cambiare la propria versione sul caso Ruby e di rivolgersi ai media smentendo quello che aveva dichiarato sulle cene di villa San Martino. Rigato si sarebbe anche rivolta direttamente a Berlusconi, oltre che ai suoi avvocati, presentandosi ad Arcore. Sempre nell'udienza di ieri, che si è svolta davanti alla Settima sezione penale nella maxi aula della Fiera messa a disposizione per il periodo emergenziale, l'avvocato Cecconi ha dato atto «a verbale che il dottor Berlusconi per problematiche di salute è da lunedì mattina ospedalizzato» al San Raffaele. Nel tardo pomeriggio si è poi saputo che il Cavaliere è stato dimesso dopo alcuni accertamenti di routine e per controlli post Covid. In ogni caso la difesa, come già avvenuto in occasioni simili nelle scorse udienze, non ha fatto istanza di legittimo impedimento e quindi di rinvio del processo. L'attività in aula è dunque andata avanti regolarmente. L'avvocato Cecconi ha sottolineato come da alcuni mesi nel processo milanese sia in corso «una sorta di monitoraggio processuale delle condizioni di salute» dell'ex premier. Nell'udienza di ieri tra l'altro avrebbe dovuto essere ascoltato come teste Giuseppe Spinelli, ragioniere di fiducia del Cavaliere. Tuttavia Spinelli ha presentato istanza di impedimento e la sua testimonianza è stata rinviata. Il legale di Berlusconi ha poi risposto alle domande dei cronisti sulla salute del suo assistito. E ha spiegato che al momento «non risulta» che il leader di Forza Italia sia stato vaccinato contro il Covid, patologia che l'ha comunque colpito lo scorso autunno. La prossima udienza del «Ruby ter» è fissata per il 21 aprile.

Da liberoquotidiano.it il 17 agosto 2021. Boccata d'ossigeno (finanziario) per Veronica Lario, ex moglie di Silvio Berlusconi. Come riporta Italia Oggi, "dopo alcuni anni di perdita tornano in attivo i business immobiliari" della signora Miriam Bartolini (questo il suo nome all'anagrafe). Nei giorni scorsi, scrive Andrea Giacobino, si è riunita l'assemblea dei soci della Il Poggio srl, presieduta da Paolo Costanzo. La società, interamente di proprietà della Lario, "ha chiuso il 2020 con un utile di 2,2 milioni di euro, interamente riportato a nuovo e che si confronta con un rosso di 7,5 milioni del precedente esercizio. Con ricavi da affitti per 1,1 milioni il conto economico è stato spinto da 6,5 milioni di «altri ricavi»". Motivo? "È venuta meno, infatti alla svalutazione di pari entità che era stata appostata nel 2019 per far fronte ad alcuni lavori sul Palazzo Borromini di Segrate, di proprietà: i lavori, peraltro, si erano rilevati inadeguati e avevano creato danni alla società". Nel corso del 2020, ricorda sempre Giacobino su Italia Oggi, "Il Poggio ha iniziato a beneficiare della piena occupazione degli uffici di Palazzo Borromini e di parte di Palazzo Canova a Milano 2, entrambi di proprietà: l'università San Raffaele ha infatti affittato dal mese di ottobre gli spazi precedentemente sfitti e gli accordi prevedono che da quest'anno gli affitti saranno corrisposti in misura piena". "Con beni immobili in carico per oltre 30 milioni rappresentati dai citati Palazzo Borromini e Palazzo Canova, la società della Lario detiene l'americana Orchidea Realty Corp. e una quota del 6% della Palace Gate Mansion Ltd", conclude Italia Oggi, sottolineando come a causa dell'emergenza sanitaria legata al coronavirus la società della Lario sia stata costretta a chiedere "la sospensione del pagamento delle rate dei mutui di 23,3 milioni contratti con Banca Popolare di Sondrio (20 milioni) e Bcc di Carate Brianza (3,3 milioni)".

Da liberoquotidiano.it il 25 marzo 2021. Pessimo periodo finanziario per Veronica Lario. Secondo quanto riporta il Tempo, l'ex moglie di Silvio Berlusconi ha dovuto liquidare una sua terza società nel giro di pochi mesi. "Continua a restare in salita la strada imprenditoriale di Miriam Bartolini (vero nome della Lario, ndr) - scrive Andrea Giacobino nella rubrica molto indiscreta Poltronissima -. Dopo che nel 2020 la sua holding Equitago ha sciolto la Campus Milano 2 e la Co Activity, pochi giorni fa lo stesso destino è toccato alla Excellent Service di cui la ex consorte dell'ex premier deteneva il 50%". L'assemblea guidata dall'architetto Angela Ceccato, amministratore unico, presente il 100% del capitale nelle persone del commercialista Paolo Costanzo per Equitago e i rappresentanti della società Alfe, Hoppapa e Safipo, ha nominato liquidatore la stessa Ceccato e messo nero su bianco che la società "si trova in una situazione riconducibile ai punti 2 e 4 dell'articolo 2484 del codice civile". Vale a dire, "la sopravvenuta impossibilità di conseguire l'oggetto sociale" e "la riduzione del capitale al di sotto del minimo legale". Solo nel 2019 Equitago (l'ultimo bilancio disponibile, sottolinea il quotidiano romano), che la seconda moglie di Berlusconi controlla tramite la svizzera Incomar e la fiduciaria Siref, "ha perso oltre 9,5 milioni di euro", rosso ripianato attraverso il versamento di 9.5 milioni di euro di Incomar in Siref e altro 10mila euro attraverso l'azzeramento del capitale sociale, poi ricostituito. Il 2020, però, ha evidentemente reso vano ogni sforzo. Dal clamoroso e chiacchieratissimo divorzio con il leader di Forza Italia, insomma, per Veronica sono state più le battaglie legali con l'ex marito per gli alimenti che le soddisfazioni "professionali" da imprenditrice.

La dedica di Pier Silvio Berlusconi sul giornale per la festa del papà. Debora Faravelli su Notizie.it il 19/03/2021. Pier Silvio Berlusconi ha voluto dedicare un'intera pagina di giornale al padre in occasione della festa del papà: i suoi auguri e la dedica. Nel giorno in cui si festeggia la festa del papà, Pier Silvio Berlusconi ha deciso di pubblicare sulle pagine di diversi giornali nazionali una dedica rivolta al padre Silvio. Sul Corriere della Sera, sul Giornale ma anche su altri quotidiani, è infatti comparso il medesimo biglietto con cui il secondogenito del fondatore di Forza Italia ha voluto fare gli auguri all’ex premier. Nella dedica il figlio ha ricordato le principali imprese per cui Berlusconi è noto al pubblico, dal lavoro svolto in politica all’impegno nel Milan fino all’attività di imprenditore, prima di sottolineare la sua unicità come padre. Questa la dedica completa che occupa un’intera pagina del Corriere: “Caro papà. Tutti conoscono le imprese straordinarie della tua vita. Quanti mestieri: l’imprenditore, il Milan, la politica…. Ma io so che sei unico anche nel mestiere più bello e importante del mondo: sei un grande papà. Ti abbraccio forte forte“. In calce al biglietto la firma dell’amministratore delegato di Mediaset. Silvio Berlusconi, che a settembre compirà 85 anni, ha cinque figli: Marina, Pier Silvio, Barbara, Eleonora e Luigi. Il secondo, che ad aprile compirà 52 anni, è vicepresidente e ad di Mediaset nonché presidente e amministratore delegato di Reti Televisive Italiane (RTI), la società che esercita tutte le attività televisive del gruppo Mediaset. É inoltre membro dei Consigli di Amministrazione di Mondadori, PublItalia e Mediobanca.

Debora Faravelli. Nata in provincia di Como, classe 1997, frequenta la facoltà di Lettere presso l'Università degli studi di Milano. Collabora con Notizie.it

Barbara Berlusconi intervistata da Senaldi dopo 4 anni di silenzio: "Grillini e certi magistrati fanno il male dell'Italia". Pietro Senaldi Libero Quotidiano il 07 marzo 2021. «Chiudere le scuole è la soluzione più semplice, soprattutto per coprire inefficienze di altra natura. Ma il costo per i nostri figli e per il Paese è davvero alto. Cultura troppo penalizzata» «Più che nelle quote rosa credo nelle quote "grigie", cioè quelle della mente, del merito e della competenza. Solo così si potrà realizzare la vera parità di genere». È scomparsa dai riflettori da quattro anni, quando il Milan, di cui lei era vicepresidente e amministratore delegato, è stato ceduto ai cinesi. Da allora ha avuto il quarto figlio e si è dedicata molto alla famiglia, che vive nella grande villa di Macherio, a pochi chilometri dalla reggia di Arcore, dove sta papà Silvio. Oggi Barbara Berlusconi decide di rompere il silenzio con Libero, all'indomani del ritorno dei tecnici al governo e in corrispondenza con la scadenza dell'anno di pandemia, che vede l'Italia tornare alle chiusure selvagge in sfiduciata attesa dei vaccini. È un'intervista a tutto campo che la vede nel ruolo di imprenditrice, la signora ha più partecipazioni azionarie che parenti, madre preoccupata per la chiusura delle scuole, speranzosa tifosa milanista e figlia di un uomo di 84 anni che non vuol mollare la politica e che si sta prendendo le sue rivincite, con la giustizia che lo ha perseguitato e con la sinistra che dopo avergli scatenato contro una campagna d'odio ventennale ora quasi lo riverisce.

Lei è stata tra le prime a esprimere solidarietà a Libero per la chiusura della pagina Facebook. Ritiene che le big tech siano un pericolo per la libertà e che oltretutto operino sfruttando regimi fiscali agevolati eludendo copyright e diritti d'autore? 

«Il comportamento dei più importanti social non può che inquietare: con quale criterio si imbavaglia un idea rispetto ad un'altra? Fino e con quali argomentazioni si può spingere un'arbitraria censura di una azienda privata? Perché discusse personalità politiche mondiali, invece, sono libere di comunicare i loro pensieri? Questa nuova e controversa policy mette in crisi l'idea stessa di libertà. Sul secondo punto, altrettanto inaccettabile, è già intervenuta più volte mia sorella Marina».

A proposito di digitale, lei è amministratore delegato della H14, che investe in società tecnologiche... 

«Si, il settore digitale è una componente importante del nostro portafoglio di investimenti. Più in generale ci siamo posti l'obiettivo di supportare la crescita di imprenditori e aziende che generano valore innovando. L'anima di H14, ci tengo a sottolinearlo, è mio fratello Luigi».

Dicono che Luigi sia bravissimo quanto schivo: lei che giudizio ha?

«Luigi è molto capace e preparato».

Lei investe anche in cultura. Vero?

«Da più di dieci anni attraverso la Cardi Gallery, uno spazio culturale aperto al pubblico a Milano e a Londra. In un momento in cui i musei sono ancora serrati, le gallerie restano gli unici presidi d'arte. Oggi è possibile visitare l'allestimento "I dormienti" curato personalmente dal grande artista Mimmo Paladino, uno dei principali esponenti della Transavanguardia italiana». 

È stato un anno duro, durissimo anche per la cultura...

«Mi chiedo quale sia la differenza dal punto di vista sanitario tra una chiesa e un museo o un teatro, tra un grande negozio e una sala da concerto? Le distanze, il gel, le mascherine, non dovrebbero essere le stesse? Perché questa differenza? Il settore della cultura e dello spettacolo vede impegnate centinaia di migliaia di professionisti ed è un settore produttivo di grande rilievo. Troppo velocemente lo si è liquidato come superfluo. Nella storia delle democrazie, la tenuta sociale delle comunità, nei momenti più critici, si è sempre fondata sulla possibilità di condividere esperienze culturali».

Come imprenditrice, di cosa pensa abbia bisogno l'Italia per ripartire?

«Di vaccinare tutti gli italiani! Stucchevole elencare decine di riforme di cui l'Italia ha da sempre bisogno. La priorità è mettere in sicurezza sanitaria il Paese, per far ripartire anche l'economia».

È contenta che sia arrivata l'ora dei tecnici?

«Diciamo tecnici che, in alcuni casi, hanno una forte vocazione politica (sorride)».

Cosa pensa di Draghi?

«Una personalità di alto profilo che spero possa traghettare l'Italia fuori dall'emergenza sanitaria in cui si trova».

Come si è arrivati secondo lei a questa situazione di crisi profonda della politica?

«Il Parlamento uscito dalle elezioni del 2018 è composto da forze politiche con idee spesso incompatibili e irrequiete, anche al proprio interno. Il nuovo governo, che nasce con una forte presenza tecnica, è certo indispensabile in questo momento storico. Credo però che, una volta superata l'emergenza, la parola e le scelte per il futuro del paese debbano tornare alla politica e agli elettori».

Consiglia a suo padre di ricandidarsi viste le difficoltà di salute?

«Per mio padre il bene del Paese viene addirittura prima della sua salute. Vuole dare ancora il suo contributo grazie alla sua indiscutibile esperienza e competenza. E io rispetto questa sua scelta».

E cosa pensa della parabola grillina?

«Penso che l'ideologia alla base del movimento sia fallita: mi riferisco alla cosiddetta "decrescita felice". L'uomo, per sua natura, tende all'innovazione, al progresso. In una parola: alla crescita. Le soluzioni proposte dal movimento rischiano, invece, di realizzare l'opposto: una decrescita infelice capace solo di mortificare e piegare le generazioni future».

Suo padre è stato estromesso dalla politica da una sentenza: l'ha sconvolta il libro dell'ex pm Palamara sul complottismo della magistratura?

«Erano cose che già si sapevano. Ma vederle messe nero su bianco indignano e inquietano. Mio padre ha subìto 86 processi ingiusti, per un totale di 3.672 udienze. Credo siano un record assoluto, certamente in Italia e probabilmente nel mondo. Una vera e propria persecuzione. L'operato di alcuni magistrati ha danneggiato, prima ancora che mio padre, i cittadini italiani e gli elettori di tutti gli schieramenti politici, perché ha alterato la rappresentanza democratica. Quello che stupisce è che nonostante le rivelazioni di Palamara, di fatto mai smentite, non succeda niente. Segnale che una parte minoritaria, ma potente e organizzata, della magistratura può operare senza rispondere delle proprie azioni».

Cosa pensa della Meloni?

«Penso che sia una persona coerente». 

Si è fatta molta polemica sulle mancate ministre del Pd: che idea si è fatta? 

«Una vera parità di genere non significa solamente rispettare le quote richieste dalla legge, ma necessita che siano anche garantite parità di condizioni competitive tra generi. Per fare in modo che questo avvenga, le quote rosa sono un'efficace, ma temporaneo, strumento. Credo di più nelle quote "grigie", cioè quelle della mente, del merito e della competenza. Solo così, a mio avviso, si potrà realizzare la vera parità di genere».

Lei è cresciuta a Milano: cosa ne pensa della Milano da sniffare emersa dal caso Genovese? 

«Penso che la Milano rappresentata dai media in questi ultimi mesi non sia la città che conosco. La mia Milano è invece solidale, inclusiva, positiva e popolata da persone perbene con una forte etica del lavoro».

Condivide le chiusure, chiuderebbe di più? 

«Farei, forse, chiusure più mirate. Ma il tema è talmente complesso che non mi permetto di dare consigli». 

Come sta vivendo l'esperienza della pandemia?

«Io, il mio compagno e i miei quattro figli abbiamo tutti avuto il Covid. Sono state settimane difficili. Ma le abbiamo vissute stando insieme, sostenendoci a vicenda».

E come la stanno vivendo i suoi figli? 

«All'inizio come una novità. Poi sono subentrati disagio e frustrazione».

Cosa ne pensa del dibattito sulla chiusura delle scuole? 

«Mi chiedo se sia davvero possibile identificare una relazione di causa-effetto tra l'apertura delle scuole e la crescita dei contagi. Domande a cui devono rispondere gli esperti. Chiudere le scuole è di certo la soluzione più semplice, soprattutto per coprire inefficienze di altra natura. Ma il costo per i nostri figli e per il Paese è davvero alto, anche se non immediatamente percepibile. La difesa dell'istruzione deve essere una priorità, come accaduto in Francia». 

Quali criticità vede? Cosa abbiamo sbagliato? 

«Un evento così non è facile da gestire. Quindi comprendo la difficoltà di attuare politiche impopolari e rigorose. Andavano però evitati alcuni provvedimenti illogici, messi in atto spesso con pochissimo preavviso, che hanno messo in ginocchio intere categorie di lavoratori». 

La appassiona il dibattito televisivo dei virologi o pensa che dovrebbero starsene un po' più zitti? 

«Bisogna sempre garantire la libera espressione di chi ha competenze specifiche. Credo però che gli italiani siano disorientati nel sentire spesso opinioni così contrastanti. Per questo in molti scatta la sfiducia, se non purtroppo anche il negazionismo. Spero che il nuovo governo, a differenza del precedente, parli con un'unica voce».

Il Milan ha perso la testa della classifica e sembra in crisi: ci sono ancora speranze per quest' anno? 

«Il Milan sta facendo una stagione eccellente. Lo scudetto ovviamente è un obiettivo non facile da raggiungere. Ma io un po' ci spero ancora. Voglio fare i complimenti alla dirigenza e ai giocatori: in pochi avrebbero pronosticato un Milan secondo in classifica a questo punto della stagione».

E il Monza, ce la farà a conquistare la Serie A? 

«Lo spero, per la città e per mio padre. Sono testimone della grande passione, dell'impegno che dedica al club brianzolo, oltre al grande sforzo economico che ha sostenuto e sta sostenendo per portare il Monza dalla serie C alla B e dalla B alla serie A. Ma anche il Monza per mio padre è una questione di cuore».

Adriano Galliani guarito dal Covid: “Ho temuto di morire”. Ilaria Minucci su Notizie.it il  27/03/2021. L’amministratore delegato del Monza Adriano Galliani è guarito dal Covid e ha deciso di raccontare la sua esperienza con la malattia. L’amministratore delegato del Monza e senatore di Forza Italia, Adriano Galliani, ha sconfitto il coronavirus ed è stato dichiarato ufficialmente guarito. L’uomo ha contratto il SARS-CoV-2 il 27 febbraio 2021 ed è stato, poi, ricoverato in terapia intensiva a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Il 76enne Adriano Galliani ha vinto la sua battaglia contro il Covid e, non appena dimesso dall’ospedale San Raffaele, presso il quale era stato ricoverato nella prima decade di marzo, ha deciso di raccontare la propria esperienza contro il virus nel corso di un’intervista. In relazione alla malattia e al periodo trascorso al San Raffaele di Milano, l’ad del Monza ha rivelato: “Ho temuto di morire, ho perso 10 chili. Ho capito che nella vita la cosa più importante è la salute. Sono stato dal 7 al 17 marzo in terapia intensiva. Non vedevo nulla, avevo davanti a me solo un muro. Non è stata una passeggiata di salute, ma voglio ringraziare i meravigliosi infermieri, medici”. Alla riconoscenza verso del personale sanitario espressa dal senatore di Forza Italia, poi, si è affiancata anche quella nei confronti di coloro che lo hanno sostenuto e che gli sono stati più vicini. A questo proposito, infatti, Galliani ha dichiarato: “Chi mi è stato più vicino? Silvio Berlusconi e la mia famiglia. Il presidente mi scriveva continuamente, mi mostrava il suo affetto, era preoccupato per me – e ha aggiunto – con Pierferdinando Casini, poi, che ha avuto come me il Covid, abbiamo preso un impegno ufficiale: ci recheremo al Santuario della Madonna di San Luca. Andremo lì a pregare”. Il pensiero di Adriano Galiani, infine, si rivolge al Monza e al mondo del calcio che, sostiene, gli sono mancati ma ha preferito non seguire nessuna partita durante la degenza, spiegando: “Avevo l’angoscia che nel corso di un match potessero parlare dei decessi, della pandemia”.

Ilaria Minucci. Nata a Napoli il 16 marzo 1992, consegue una laurea triennale in Lettere Moderne, una magistrale in Scienze storiche indirizzo contemporaneo presso l'università "Federico II" di Napoli e il diploma ILAS da Graphic Designer. Ha partecipato a stage di editoria e all’allestimento di fiere del libro con l’associazione "Un'Altra Galassia". Attualmente collabora con Notizie.it.

Stefano Arosio per ilgiornale.it il 19 febbraio 2021. Tutto il mondo è un gran paese, siamo d'accordo. «Ma la mia milanesità si impone», parafrasa un Silvio Berlusconi che non ti aspetti, quello che «sono diventato un po' tifoso dell'Inter, vedendola giocare in tv. Per questo dico: il derby di domenica lo vinca il migliore. Purché sia una squadra di Milano». Adriano Galliani, lì accanto per la presentazione del nuovo spot WithU sulle reti Mediaset, ride ma non si accoda. «Anche se sono amico di Beppe Marotta, io non ce la farò a tifare Inter». È una partita in contropiede quella del patron del Monza, tornato nella pancia dello U-Power stadium un anno e una pandemia dopo. La passerella per lo sponsor biancorosso è il calcio d'inizio, poi la partita di Berlusconi spazia tra passato e futuro. «Ovviamente il mio cuore è milanista, è stata una stagione bellissima. Ibrahimovic? Deve finire alla grandissima la sua carriera e gli consiglio di farlo al Milan». Consigli che - da Sacchi a Brocchi - Berlusconi continua a dispensare agli allenatori. «E chissà che non trovi il coraggio di alzare il telefono e di dire la mia anche su come i rossoneri sono messi in campo oggi», continua. Di certo, quegli assist li fa al suo mister di oggi, alla guida di un Monza secondo in Serie B. «Abbiamo bisogno anche di cambiare gioco, Balotelli con il Pisa ha ricevuto pochissime palle. E Mario ha bisogno di introdursi nella squadra. Poi, sui rigori sbagliati, faremo due parole a riguardo», guarda con un ghigno verso Prince Boateng, rammentandogli l'errore dagli 11 metri contro i nerazzurri toscani. «Ma Brocchi gode della nostra totale fiducia», spiega Galliani. «Il Monza da 40 anni non si trovava così in alto». Si esce dagli schemi, non c'è copione quando Berlusconi parla di calcio. «Ho appena visitato lo stadio del Monza rimesso a nuovo. È un impianto da Serie A e noi anche per questo siamo costretti ad andarci». Richiamando in Brianza il meglio del calcio nazionale, magari anche attraverso quel Trofeo Berlusconi che, dopo le 25 edizioni a San Siro, potrebbe trovare casa proprio allo U-Power Stadium. «Sì, è un'ottima idea, su cui si può lavorare», conclude Galliani. «E siamo pure al lavoro per intitolare il centro di allenamento Monzello alla memoria proprio di Luigi Berlusconi, papà del nostro patron e del nostro presidente».

Da ilfattoquotidiano.it il 14 febbraio 2021. “Un ménage à trois con Berlusconi per far lavorare in tv mio fratello? Mai dette queste cose: ‘Fai lavorare me o mio fratello’: in cambio di che? Di niente!”. Così Manuela Arcuri, ospite a ‘La Confessione’ in onda venerdì 12 febbraio alle 22.45 sul Nove a proposito delle intercettazioni, risalenti al gennaio 2009, ma uscite sui giornali nel settembre 2011 in cui Gianpi (Tarantini, ndr), l’imprenditore pugliese condannato a due anni e 10 mesi dalla Corte di Appello di Bari per aver portato escort nelle residenze di Silvio Berlusconi, cercava di combinare un incontro tra l’allora presidente del Consiglio, l’attrice e Francesca Lana. “È vero che Giampi, questo ragazzo pugliese, mi aveva detto di andare a qualche cena – ha spiegato l’ex modella – Sono andata un paio di volte, sempre in compagnia di un’amica”. “Ma come si spiega che Tarantini sostenesse che lei sarebbe stata disposta ad avere un ménage à trois con Berlusconi in cambio del fatto che suo fratello partecipasse a una trasmissione televisiva?”, ha insistito il direttore de Ilfattoquotidiano.it facendo riferimento a Sergio Arcuri. “Ma io non ho mai detto a Giampi, né tantomeno a Berlusconi, di far lavorare mio fratello. Io non ho mai detto queste cose: ‘Fai lavorare me o mio fratello in cambio di che? Di niente!”. "La Confessione" è prodotto da Loft Produzioni per Discovery Italia e sarà disponibile in live streaming e successivamente on demand sul nuovo servizio streaming discovery+ nonché su sito, app e smart tv di TvLoft. Nove è visibile al canale 9 del Digitale Terrestre, su Sky Canale 149 e Tivùsat Canale 9.

Ade. Pie. per “il Messaggero” il 9 aprile 2019. Il giorno dopo lo sbarco a Ballando con le stelle, dove ha meravigliato tra un tango e un twist, Manuela Arcuri, ieri, si è dovuta precipitata in tribunale. L' attrice è stata ascoltata in aula sulla querela sporta contro un cronista: «Non sono una olgettina - ha specificato al pm Antonio Carluccio - ero stata associata al presunto elenco delle 26 ragazze, tra cui delle escort, che avrebbero partecipato alla cene nella villa di Arcore di Berlusconi. Tutto inventato». L' attrice ha ammesso di aver ricevuto una telefonata dall' imprenditore barese Giampaolo Tarantini, ideatore delle cene, ma ha tenuto a precisare che non aveva accettato l' invito.

En. Lu. per “il Tempo” il 17 settembre 2017. «La mia carriera ne ha risentito fortemente». Con queste parole Manuela Arcuri avrebbe raccontato in aula, come parte offesa, il contraccolpo delle notizie pubblicate in merito alle sue presunte frequentazioni, raccontate da Repubblica, presso le feste dell' ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. «Alcuni contratti per delle fiction sono saltati» avrebbe aggiunto la showgirl nell' aula monocratica nel processo per diffamazione a carico dei redattori che riguardava le cosiddette cene eleganti.

Da Libero il 17 settembre 2011. Dalle telefonate fra Tarantini la Arcuri e Francesca Lana si evince che l'attrice avrebbe valutato la possibilità di frequentare il premier, ma che poi questi l'abbia trovata troppo volgare. Dubbi degli inquirenti sulle pressioni della Arcuri alla Lana affinché si prostituisca. Manuela dà i voti ai suoi uomini. Il video su LiberoTv

25.01.2009. Giampaolo Tarantini parla al telefono con Silvio Berlusconi di una cena da organizzare con Francesca Lana e Manuela Arcuri.

TARANTINI: «Senta le volevo dire martedì io avevo preso mezzo appuntamento con Manuela e Francesca, ma soprattutto Manuela...

che si è decisa... posso confermarglielo?».

BERLUSCONI: «Vabbé ma cosa facciamo una cena a quattro?».

TARANTINI: «Sì, io preferirei di sì, perché se la facciamo in pochi sono pure più... meno imbarazzate diciamo».

BERLUSCONI: «E poi il dopo come viene?».

TARANTINI: «E poi... lei martedì comunque è a Roma? Magari martedì passo che parliamo di persona».

Alle 20.56, Tarantini manda un sms alla Arcuri per annunciarle l'incontro con Berlusconi: «Tesoro confermato martedì sera a cena. Siamo solo noi quattro... meglio così potete anche parlare tranquillamente senza che nessuno rompe i coglioni».

Alle 20.58, l'Arcuri risponde: «Perfetto tesoro grazie baci».

Il 26.01.2009, Giampaolo Tarantini parla con Francesca Lana.

TARANTINI: «Oh, ho parlato con Manu ... te l 'ha detto di di domani?».

LANA: «Si, me l'ha detto, volevamo sapere se era confermato...».

TARANTINI: «È confermato! Mo', Francè, convincila tu falla rimanere domani, dì due cazzate...».

LANA: «No, amore, io la faccio rimanere, ma io domani... lei m'ha detto "io domani vengo come se sia l'ultima... cioè, se domani vengo, rimango e poi tu non ce lo... quella cosa là e l'altra cosa...».

TARANTINI: «Amore... siccome domani io l'ho organizzata in un modo ·tale che stiamo solo noi quattro», omissis. «Oh! E mentre siamo là io glielo dico· proprio nei denti, davanti a voi. E poi voi quando state da sole... è chiaro che tu... diglielo il giorno dopo quando fai colazione, hai capito?».

LANA: «Ma, scusa... quindi rimaniamo tutte e due?».

TARANTINI: «Sì, tutte e due!».

LANA: «Ah, va bene».

Il 28.01.2009, Manuela Arcuri chiama Giampaolo Tarantini.

ARCURI: omissis «Gliel'ho accennato... m'ha detto "guarda ne parliamo quando ci vediamo a cena". Gli ho detto "no guarda, scusami, ma io la prossima settimana sono a Milano per lavoro... e io ne ho abbastanza urgenza perché parte la produzione e io gli devo fare questo favore a mio fratello... glielo dovrei fare adesso, se è possibile". Mi ha detto "allora guarda, Manuè, ti chiamo oggi pomeriggio e ne riparliamo". Speriamo amore... mi chiama, vè?».

TARANTINI: «Va bene, sicuro, perché... sicuro!».

ARCURI: «Ha detto che mi chiama, mi chiama! Speriamo, guarda, perché sarebbe troppo... troppo... troppo importante veramente!. E poi una volta... Poi se me lo fa il favore, se me lo fa il favore, poi, sarà ben ricompensato... però io dico la prossima settimana perché non fa la cena con Franci, così pure lei gli chiede della Fattoria, di quello che gli deve dire lei?».

Il 10.02.2009, Francesca Lana parla con Giampaolo Tarantini.

LANA: «Amore io si, rimango senza problemi Manuela dice che se non vede sto cammello ... cioè lei non ha capito come funziona... lei dice "io fin quando non ho una... una certezza che quello che voglio accada non faccio niente per lui" io le ho detto "Manuela forse dovrebbe essere il contrario, prima fai qualcosa per lui"».

TARANTINI: «Brava».

LANA: «"No Franci" lei mi ha detto "perché tu sei rimasta lì per due giorni e non t'ha più telefonato, non t'ha più cercato non t'ha più chiamato, la Fattoria tu non la fai e l'altra sì e allora? Se io faccio la stessa cosa che come te ci sto lì due volte e poi mi faccio prendere per il culo da lui?". Ha detto "No... prima stavolta lui... tanto la garanzia che tu hai fatto qualcosa" mi ha detto "quindi prima lui deve comunque farci avere qualcosa in cambio e poi noi rimaniamo" ho detto "Manu non è proprio così e comunque..."».

TARANTINI: «Eh brava».

LANA: «Non lo so amore, perché lei giustamente dice "tu sei rimasta là due volte" questo è vero però Gianpi a me non mi ha più chiamato... io l'ho chiamato miliardi di volte, poi mi sono rotta il cazzo... cioè è inutile che mi attacca il telefono poi magari gli vado pure sulle palle se sono insistente, però è vero Gianpi che io l'ho chiamato mille volte e lui oltretutto il fatto che sia rimasta là due volte non mi ha più cercato, io ci sono rimasta come mi avevi detto te, ho fatto quello che mi avevi detto te... (ride, ndr), ma non è servito a tanto, quindi lei dice "Se fa lo stesso un'altra volta?"».

TARANTINI: «Ma è diverso, però dai ... quello è il suo sogno, figurati».

LANA: «Eh lo so amore .... ma il suo sogno si limiterebbe a lei...».

TARANTINI: «Il suo sogno... voi due».

LANA: «Non è lei quindi?».

TARANTINI: «Voi due insieme».

La serata non va come da programma (la Arcuri aveva cambiato idea) e il 12.02.2009 Giampaolo Tarantini, all'1.26 chiama Berlusconi per scusarsi, dicendo che la Arcuri aveva cambiato idea a causa della presenza di Paolo Berlusconi, amico di Tarallo (il manager dell'attrice), che lei temeva potesse esserne informato.

TARANTINI: «Poi quella Manuela si è irrigidita un po' perché me l'ha spiegato lei in macchina... l'ho accompagnata per ultima, perché dice che Paolo è molto amico di Tarallo, il suo manager, quindi come l'ha visto... ha detto... si è spaventata, ancora gli dice a Tarallo che stavo lì a cena».

BERLUSCONI: «Adesso io dico a Paolo di non dire assolutamente niente!».

TARANTINI: «No, eravamo tutti... no cioè lei voleva rimanere, ci siamo organizzati... mannaggia... Francesca voleva rimanere con lei... si è incazzata con lei e gli ha detto "sei una stronza... lo devi fare per me...", poi Manuela ha spiegato il fatto!».

Gianpaolo Tarantini e Francesca Lana parlano ancora di cene, cercano di organizzare un altro incontro. Ma non ce ne saranno. Il 18.02.2009. Giampaolo Tarantini e Silvio Berlusconi parlano al telefono di un'intervista che Manuela Arcuri ha concesso al programma tivù "Le Iene".

TARANTINI: «Pensa che quella si era ... si era ... voleva star lì quella sera».

BERLUSCONI: «Meno male che non è stata qui, perché sennò .... mi sarei sentito imbarazzato di essere andato con una troia così .... vabbè cancellata».

TARANTINI: «E vabbè».

Riguardo a Manuela Arcuri, nei documenti baresi si legge che secondo gli inquirenti «appare fondato il sospetto che l'attrice, insieme al Tarantini, abbia indotto l'amica (Francesca Lana, ndr) a prostituirsi, prospettando chissà quali futuri successi professionali per mano del presidente Berlusconi». In particolare, si citano alcune conversazioni telefoniche.

Il 3.12.2008, il giorno dopo la prima serata trascorsa dalla Lana col premier, alle 12:55, Tarantini chiama Manuela Arcuri.

ARCURI: «Senti amore insomma la nostra cucciola tutto a posto! L'ho sentita, ci ho parlato fino ad ora... sono contenta perché mi sa che la deve rivedere un'altra volta... lei l'unica cosa che deve fare... deve riuscire a farselo legare a se, perché se lo lega... cioè se lo fa affezionare è fatta... ha svoltato».

TARANTINI: «Mo ci devo parlare io... ci devo mettere io il mio carico sopra... che è importante».

In chiusura di telefonata, la Arcuri dice a Tarantini: «Vabbè poi mi sono messa a letto ed ho scritto tutti i messaggini alla cucciola "tranquilla amore... non ti preoccupare... non ti sentire in colpa... stai bene" è bene tutto a posto».

Estratto dell'articolo di Massimo Fini per il "Fatto quotidiano" il 21 gennaio 2021. […] A Milano Due c' era una piccola emittente privata, controllata dalla Rizzoli, che trasmetteva solo per i condòmini. Berlusconi la comprò, la chiamò Telemilano e nel giro di pochissimi anni divenne la Fininvest, il più grande gruppo televisivo privato italiano. Che questo monopolio della Fininvest per dodici anni fosse del tutto illegittimo è fuori di discussione. Ma la responsabilità non è di Berlusconi, ma di chi lo ha lasciato fare, cioè del santissimo Bettino Craxi che, in cambio di 21 miliardi, gli fece una legge ad hoc. Quindi si può dire tutto il peggio possibile di Berlusconi - come noi, insieme ad altri, abbiamo fatto tante volte - ma nessuno può negare che nei suoi primi 58 anni di vita abbia lavorato sodo, sia pur con metodi discutibili e a volte criminosi, dando lavoro a migliaia di persone. E tutto ciò partendo dal nulla perché, a differenza di Matteo Renzi che è figlio di suo padre, non aveva un genitore importante. […]

Da "ilgiorno.it" il 17 dicembre 2020. Sono trascorsi trent'anni anni dal 15 dicembre 1990, giorno del matrimonio tra Silvio Berlusconi e Veronica Lario (nome d'arte di Miriam Raffaella Bartolini). I due si erano conosciuti a inizio Anni Ottanta in occasione di uno spettacolo al Teatro Manzoni di Milano, dove l'attrice, originaria di Bologna, recitava. L'ex premier rimase da subito profondamente colpito da quella che, anni dopo, divenne sua moglie. Le nozze, con rito civile, furono celebrate dall'allora sindaco di Milano Paolo Pillitter e suggellarono l'unione dopo la nascita di tre figli. La maggiore è Barbara (nata nel 1984), seguita da Eleonora (di due anni più piccola) e Luigi (il più giovane, nato nel 1988). La separazione arrivò nel 2009, dopo 19 anni di matrimonio. Una storia vissuta lontano dai riflettori, nonostante l'immensa visibilità imprenditoriale e politica dell'ex premier. Il legame tra i due è stato anche raccontato nel film del regista premio Oscar Paolo Sorrentino Loro, uscito nel 2018 e dedicato proprio a Berlusconi. Nella narrazione cinematografica Berlusconi è interpretato da Toni Servillo e l'ex moglie dall'attrice Elena Sofia Ricci. Proprio al primo bacio della coppia (sulle note di Una domenica bestiale di Concato) è dedicata un'intensa scena finale del primo capitolo dell'opera. Dopo la separazione e il divorzio non sono mancati le polemiche e gli scontri. Ma un legame è rimasto. Quest'anno, alla notizia della positività al Covid-19 di Silvio Berlusconi, ricoverato per qualche giorno al San Raffaele di Milano, Veronica Lario si era detta "addolorata e anche un po' preoccupata". Le loro strade, come detto, si sono allontanate. Ancora oggi entrambi sono di casa in Brianza, dove hanno vissuto anche durante il loro matrimonio.

·        Politica ed affari.

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera”l'1 dicembre 2021. «Un giorno Berlusconi mi disse: professore, se lei vale nove non deve farsi affiancare da un collaboratore che vale dieci, altrimenti le fa le scarpe. Gli risposi che i grandi leader sono stati spesso circondati da collaboratori che hanno fatto la loro fortuna. Volente o nolente, Berlusconi ha avuto la singolare incapacità di scegliere le persone giuste. Pensi ai presidenti delle Camere: Pivetti, Casini, Fini, non ne ha azzeccato uno. E al Senato l'unico formidabile è stato Pera». Antonio Martino, «fiero della tessera numero due di Forza Italia», rivelando a Emanuele Lauria l'aneddoto qui citato, ha versato nell'«amaro calice» del Cavaliere (parole sue: «Berrò l'amaro calice di tornare a Palazzo Chigi») un'affettuosa goccia di veleno. Rinforzata da quell'elogio a Pera, che incitò nel 2018 l'amico Silvio a «dare un segnale ai suoi del tipo: "cominciate a scannarvi, poi vediamo chi è bravo". Così magari nascerà un leader. Altrimenti saranno tutti etero diretti come adesso e Forza Italia non crescerà mai come partito». Povero Cavaliere: come poteva scegliere qualcuno che fosse migliore di lui se al mondo non ce n'era uno? «Ho un complesso di superiorità che devo tener a freno», ammise. «In Italia nessuno può dire d'aver fatto quanto ho fatto io. E nemmeno in Europa c'è chi abbia una caratura paragonabile a quella di Silvio Berlusconi. In America solo Bill Gates mi fa ombra. Ora direte che sono presuntuoso, che ho un complesso di superiorità. Ma parlano i fatti». «Dimostrerò nero su bianco d'esser eticamente superiore agli altri protagonisti della politica europea». «Credo, sinceramente d'essere stato ed essere, di gran lunga, il miglior presidente del Consiglio che l'Italia abbia avuto nei 150 anni della sua storia. Lo dico sulla base di ciò che ho fatto e faccio, ed è per questo, credo, che mi attribuiscono il 68,4% di fiducia e ammirazione».  Al che Fabio Mussi rise: «Quando sarete al cento per cento fateci un fischio!» C'è poco da sorridere, però. Perché il problema dell'Italia, come spiegarono nel 2007 Andrea Mattozzi e Antonio Merlo nel libro «Mediocracy», è da decenni la scellerata scelta di chi è al potere di prendersi come vice qualcuno più mediocre che non possa dargli fastidio. Vale per la destra, vale per la sinistra. Magari se l'avesse fatto solo Berlusconi! Magari!

Un filo rosso da Mattei alle trame anti italiane. Francesco Forte il 10 Novembre 2021 su Il Giornale. C'è un filo rosso che collega il quesito posto nel Giornale di ieri, su chi ha interesse a screditare il ruolo politico internazionale che l'Eni svolge con la sua politica petrolifera. C'è un filo rosso che collega il quesito posto nel Giornale di ieri, su chi ha interesse a screditare il ruolo politico internazionale che l'Eni svolge con la sua politica petrolifera e la probabile archiviazione del processo all'amministratore delegato dell'Eni Claudio Descalzi e del predecessore Paolo Scaroni, per la presunta maxi tangente, pagata per la concessione petrolifera in Nigeria, la cui prova via Whatsapp che starebbe in un colloquio di Descalzi con il teste chiave l'avvocato Piero Amara, risulta inventata. Il filo rosso è quello del sangue di Enrico Mattei. Esso ci porta alla inaugurazione da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella domenica scorsa di un giardino pubblico della Municipalità di Algeri intitolato a Enrico Mattei. Nella la targa in arabo e in italiano si legge «Personalità italiana, amico della rivoluzione algerina, difensore tenace e convinto della libertà e valori democratici». Il filo rosso è quello del sangue di Enrico Mattei, che morì il 27 ottobre 1962 nella esplosione sopra la campagna di Bascapè in provincia di Pavia, del bi-reattore su cui il presidente dell'Eni Mattei, si trovata solo con un giornalista americano mentre il suo pilota di fiducia Bertuzzi, esperto, pluridecorato, iniziava il volo verso l'aeroporto privato Eni di San Donato Milanese. L'aereo era stato sabotato. A Bascapè in quel luogo c'è un giardino del ricordo, di Enrico Mattei disegnato da un celebre architetto. Il giorno dopo Mattei si sarebbe dovuto recare in Algeria per quel patto di collaborazione con il governo algerino, che voleva stipulare. Per Mattarella l'Italia tramite l'Eni, dovrebbe continuare a svolgere i patti di collaborazione che da allora ha attuato e che sta attuando, nel quadro dell'Unione Europea e dell'alleanza atlantica in Africa e nel Medio Oriente. Per l'Eni di Mattei il rapporto fra concedente e concessionario di petrolio e gas non è un mero rapporto di do ut des, ma è di partecipazione azionaria all'estrazione, al trasporto, e di collaborazione più ampia. Descalzi era al fianco di Mattarella, perché fra Eni e l'algerina Sonatrach c'è un protocollo d'intesa per tale lavoro comune tramite la Trans Tunisian Pipeline Company che a Mazara del Vallo si riallaccia ad altre reti Snam. Quella dal Greenstream, va dalla Libia alla Sicilia. La rete del gas dal Mar Caspio va a Taranto, altre reti sono con il Medio oriente. Una grande politica internazionale. Due giardini a ricordo di Mattei ad Algeri e a Bascapè portano, con quel filo rosso alle vicende di Amara. Ma rimane la domanda: chi ha ispirato tutto ciò? Francesco Forte

A 10 anni dal "golpe" Monti riscrive la storia: "L'Europa ci soffocava". Francesco Forte il 15 Novembre 2021 su Il Giornale. Nel 2011 la cacciata di Berlusconi e l'inizio dell'austerity. Della quale il Prof fu sostenitore. Oggi decorrono dieci anni da quando il governo Berlusconi è stato defenestrato e sostituito da quello del professor Mario Monti, nominato per l'occasione, senatore a vita, dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ex leader dell'ala dei riformisti del PCI. Uso il termine defenestrato perché il voto sfiducia con cui Berlusconi dovette dimettersi non riguardava la legge di bilancio, per gli anni successivi, ma il rendiconto del bilancio consuntivo un documento contabile, non operativo, la cui bocciatura implica di rettificare dati errati se vi sono. Ma la sfiducia era derivata da assenze involontarie dal voto. Il ministro dell'Economia del governo Berlusconi, Giulio Tremonti, la cui legge consuntiva si discuteva, era uscito in quell'attimo dall'aula per una disattenzione o una necessità fisica. Nel regolamento del Senato, in ogni votazione, su qualsiasi tema, l'assenza dall'aula, mentre si vota, vale come voto contrario. Il senatore Bossi della Lega, era alla bouvette e le condizioni fisiche gli impedivano di correre nell'aula. Anche se si volesse sostenere che Tremonti non credeva alla propria contabilizzazione del passato, ciò non comportava la sfiducia sulla sua manovra di bilancio, ma la revisione di dati passati. La nomina di Monti a senatore a vita, da parte del presidente della Repubblica, non dopo svolto l'incarico di governo, come riconoscimento di lavoro fatto giudicato degno di passare alla storia, bensì prima che la iniziasse, ha lasciato la sensazione che lo si volesse battezzare come uomo della provvidenza, per un compito d salvatore della patria, mediante la politica del rigore del bilancio. Ma il governo di Mario Monti, sbagliò il rigore, andando troppo in alto, oltre i pali superiori, come il calciatore Jorge Louis Jorginho, nel suo calcio di rigore della nazionale italiana contro la Svizzera. Questo sbaglio per eccesso-anziché metterci in sicurezza per i mondiali, ci ha inguaiato. La politica di rigore di Monti, con la tassazione patrimoniale sugli immobili sbagliata per sua natura e comunque per eccesso, ha fatto cadere il PIL A ciò si è aggiunta la legge Fornero sulla pensione obbligatoria a 75 anni, che ha creato disagio sociale e sfiducia perché le norme erano retroattive, ledendo i diritti di pensionamento stabiliti in precedenza. Mentre il Pil calava, per il rigore sbagliato, la spesa corrente era aggravata dagli indennizzi del governo per gli esodati: lavoratori pensionati nel frattempo senza l'età della nuova legge. Il declino del PIL italiano in termini reali, cioè al netto dell'inflazione, fu di 2,3 punti nel 2012 e di altri 1,9 nel 2013. In totale di 4,30 punti. Dal 2014 al 2019 il Pil è cresciuto di +0,1 nel 2014, di +0,8, nel 2015, di + 0,9 nel 2016, di +1,6 nel 2017, di + 0,9 nel 2018 e di + 0,3 nel 2019 prima della pandemia. Così i governi di sinistra e il governo 5 stellato hanno generato un recupero di PIL di solo 3,6 punti. Dunque quando - secondo la vulgata - vi era il peggio dovuto a Berlusconi il Pil era più alto di un punto di quando si sono installati nel potere i miglioratori. Quando c'era Berlusconi, cioè il peggio , nel 2011, il debito pubblico era al 120% del PIL Nel 2019, culmine dei governi dei miglioratori, il rapporto debito/PIL era arrivato al 134,8: un peggioramento di 15 punti in 10 anni. Berlusconi aveva semplificato gli investimenti con la legge obbiettivo; con la legge Biagi aveva reso più flessibile il mercato del lavoro; con i contratti di produttività voleva rilanciare la crescita e ridurre le crisi aziendali. Alla pensione sociale da lui introdotta è stato sostituito il reddito di cittadinanza. Berlusconi voleva la flat tax. Ora c'è il rischio del catasto patrimoniale. Si stava meglio quando si stava peggio! Adesso anche Monti lo ammette, ma sul Corriere della Sera scrive che non è colpa sua. Bensí di Draghi, che non fa le riforme. Il quale con la zavorra dei miglioratori è impantanato in mezzo al guado: da cui potrà uscire con gradualità. Francesco Forte

Dieci anni dopo la storia dà ragione a Berlusconi. Paolo Guzzanti il 13 Novembre 2021 su Il Giornale. Nel 2011 la fine del suo governo a colpi di spread. Oggi è il padre nobile del Ppe e in lizza per il Colle. C'ero anch'io in Parlamento quel giorno in cui cadde l'ultimo governo Berlusconi. L'atmosfera era pesantissima. Lo spread saliva come una febbre e i giornali nemici del governo, giuravano che era tutta colpa del premier. Quando un'ultima deputata di Forza Italia si alzò per dire che abbandonava il partito, fu evidente che la maggioranza era erosa dalle termiti. Pochi minuti dopo il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi annunciò che sarebbe andato dal capo dello Stato, il quale era, fin troppo perfettamente al corrente di quel che accadeva. Arrivederla e grazie, venga avanti l'esimio professore e precauzionalmente - senatore a vita Mario Monti. Un loden che varcò i teleschermi e simboleggiò l'Italia vestita in modo alpestre. Non era un governo tecnico, ma il primo esperimento di molti giochi senza frontiere che avremmo visto nell'ampio cortile costituzionale. Il resto lo sappiamo: l'Italia è l'unica democrazia liberale in cui da dieci anni non governa un premier espressione del voto popolare. Si dirà che anche Renzi era stato baciato dal Grande Consenso Vagante che agisce secondo regole e umori non definiti. Ma non era stato eletto al Parlamento italiano. Tutto ciò è noto, come lo sono le circostanze usate per estromettere dai Palazzi della democrazia rappresentativa il leader più popolare. Quindi, proviamo a vedere che cosa è successo fino ad oggi e valutare la differenza fra il prima e il dopo. Che cosa sono stati questi dieci anni e qual è l'effetto finale? Cominciamo dal Fiscal Compact, che era uno spettro per gli illiberali, ma che oggi nessuno osa contestare. Il Partito Popolare Europeo dal quale erano usciti acidi commenti sul premier italiano, oggi lo considera uno dei padri nobili, una figura di assoluto rispetto che figurerebbe molto bene come successore di Mattarella per rappresentare al più alto livello l'Italia governata da Draghi. Quanto alla magistratura, i fatti parlano da soli. Lasciamo per un attimo da parte il feroce accanimento giudiziario scatenato contro il fondatore di Forza Italia (che era la zattera rifugio degli elettori dei partiti di centro spazzati via dall'operazione Mani Pulite) che ha rovinato la vita politica non soltanto a lui ma anche a tutti i milioni di italiani che si sono trovato senza il loro rappresentante, nonché massacrati in pubblico e in privato. Ma oltre l'autentico martirio inflitto al cittadino Berlusconi Silvio, imprenditore e politico italiano più volte presidente del Consiglio, tutto il Paese e poi tutta l'Europa e anche il resto del mondo civile, si è reso conto del fatto che il sistema giudiziario italiano è intossicato da usi politici e anche personali o di banda. Certo non da Circolo degli Immacolati. Basta pensare al caso di Matteo Renzi che ha visto perseguiti i propri anziani genitori, oltre che se stesso a secondo di come si muoveva o si muove politicamente con una strabiliante coincidenza dei tempi. Abbiamo visto casi aperti in molte aree politiche in cui un avviso di garanzia, un rinvio a giudizio, una voce accuratamente riferita da speciali cronisti giudiziari, poteva affondare, come quando si gioca alla battaglia navale: «Avviso di garanzia in E4», colpito. «Avviso di garanzia in E5», colpito e affondato. Il decennio «senza Berlusconi» ha fatto capire tutto: le grandi leggi di riforma liberale che il leader di Forza Italia propugnava a favore sia dei cittadini che vivono della ricchezza prodotta da altri, sia degli imprenditori che quella ricchezza la producono, erano le uniche in grado di segnare una via verso il futuro. Si potrebbe dire con una battuta che dieci anni senza Berlusconi hanno prodotto il governo Draghi che da Berlusconi fu scelto per presiedere la Banca europea perché il premier che ci appare irresistibilmente dinamico, decisionista, forte perché ha dietro di sé l'Europa, è il contrappeso necessario e quasi fisico a tutto ciò che è mancato o è fallito in questi dieci anni. L'Europa del dopo-Berlusconi non ci ha messo molto a capire che il Cavaliere non era il problema ma semmai la soluzione e che tutto l'intrico di poteri usurpatori, deficienze amministrative, abusivismo giudiziario capace di deviare e devastare la Costituzione, doveva essere fermato. La deriva populista di destra e di sinistra che hanno finito per appaiarsi, è stata un'altra conseguenza dei «dieci anni» a secco di liberalismo. L'Europa ha deciso che sarebbe valsa la pena recuperare il tempo perduto offrendo a questo Paese spesso troppo furbo, ipocrita e decadente, ma pieno di potenzialità magnifiche, l'opportunità - now or never again di scrollarsi di dosso proprio tutti quei fattori, e gruppi di potere, che coincidono con i momenti chiave della soffocante congiura. Molto denaro in cambio di un nuovo virtuosismo. Obbligo di riforma a partire dalla magistratura e dal fisco. Libertà e liberalismo. Tutto ciò che costituiva il patrimonio dell'uomo estromesso dieci anni fa e che è rimasto tuttavia l'ultimo uomo in piedi pronto a difendere i valori per cui fu perseguitato, come oggi tutti ammettono. Paolo Guzzanti 

"Così consegnarono Berlusconi alla folla". Fabrizio De Feo il 13 Novembre 2021 su Il Giornale. L'azzurro era con l'allora premier quando si dimise: "Dentro il Quirinale festeggiavano...".

Onorevole Sestino Giacomoni, lei il 12 novembre di 10 anni fa accompagnò Silvio Berlusconi al Quirinale per le dimissioni.

«Ho vissuto una delle situazioni più surreali della mia vita, è un ricordo indelebile. Ero consigliere a Palazzo Chigi del presidente e suo assistente da circa sette anni. Ricordo perfettamente che approvammo la legge di Bilancio alla Camera, dopo di che il presidente si recò al Quirinale per rassegnare le dimissioni».

In piazza lei ebbe l'impressione di una scenografia creata ad hoc. Per quale motivo?

«Ero in auto con lui e mentre andavamo il Presidente disse alla scorta passiamo dall'ingresso laterale. Qualcuno dal Quirinale rispose: No, è una visita ufficiale, si deve passare dall'ingresso centrale. E lì, in una piazza solitamente blindata, quel giorno venne consentito di tutto, finanche il concerto improvvisato di un'orchestrina che intonava Bella ciao. Di certo c'è stata una regia. In molti avevano l'interesse che Berlusconi andasse a casa. Interessi personali, forse di partito, internazionali, non di certo del Paese. Davanti al Quirinale e forse anche dentro, festeggiavano l'uscita di scena dell'ultimo presidente del Consiglio indicato con il voto dal popolo italiano».

Aveste l'impressione che si volesse facilitare una forzatura politico-istituzionale?

«Ne avemmo la certezza, perché tornati con il presidente a Palazzo Grazioli, fummo costretti a rimanere, fino alle quattro di mattina, chiusi dentro il palazzo. Eravamo circondati da migliaia di persone che qualcuno aveva sapientemente incanalato in quelle vie del centro per far credere che il popolo volesse le sue dimissioni. In realtà si trattava solo di una minoranza rumorosa. La maggioranza silenziosa degli italiani, infatti, si era espressa chiaramente con il voto a favore del centrodestra e del presidente Berlusconi. Il clima era surriscaldato e a renderlo tale è stata soprattutto una precisa strategia mediatico-politica che ha voluto scaricare su Berlusconi tutti i mali del Paese, forse per lavarsi la coscienza».

Perché venne impedito l'accesso da un ingresso laterale? E che idea si è fatto della condotta di Napolitano?

«Su Napolitano preferisco non esprimermi, sarà la storia a giudicarlo. Il presidente della Repubblica è un arbitro. Per il resto è chiaro, volevano che passasse dall'ingresso centrale perché è lì che la sinistra aveva organizzato i cori dei suoi ultras, con tanto di orchestra!».

Ricorda qualcosa che Berlusconi le disse quel giorno?

«Il presidente, consapevole del complotto ordito contro il nostro governo, non voleva mollare, ma ci disse che si dimetteva per amore del Paese. Sapeva che se a quella forzatura avesse resistito, le conseguenze per il Paese sarebbero state peggiori. Da giorni, infatti, l'Italia era sotto attacco a colpi di spread.

Pensa che a febbraio possano esserci le condizioni per far tornare Berlusconi a varcare le porte del Quirinale?

«È il mio sogno, anche perché, dopo dieci anni e 5 presidenti del consiglio non indicati dal voto popolare, Berlusconi è ancora qua, come direbbe Vasco Rossi...Mi auguro che a febbraio Berlusconi possa salire al Quirinale. Sarebbe il coronamento di un impegno politico-istituzionale che un uomo della caratura di Silvio Berlusconi meriterebbe e l'unico modo per sanare una ferita profonda inflitta non solo a lui, ma alla storia del nostro Paese». Fabrizio De Feo

La guerra delle Procure contro il Cav. Berlusconi al Quirinale, una strada piena di cecchini pronti a sparare: procure e non solo contro il Cav. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 26 Ottobre 2021. Come far inciampare Silvio Berlusconi nel suo cammino verso il Quirinale? Se è vero che si fa la guerra con le armi che si hanno, va anche ricordato che non sempre si vince. Ne seppe qualcosa il procuratore della repubblica di Milano Saverio Borrelli quando minacciò “Chi ha scheletri nell’armadio non si candidi” per fermare la strada per Palazzo Chigi, dove però Berlusconi arrivò dopo aver vinto le elezioni il 27 marzo del 1994. È vero che l’indomito Borrelli non si arrese mai e insieme al plotone della Procura più agguerrita e più guerrafondaia d’Italia continuò la sua guerra, perdendo molte battaglie e vincendone, alla fine, solo una. Quella sulla frode fiscale, la cui sentenza di cassazione fu definita da uno dei giudici che l’avevano emessa come una “porcata” messa in atto da un vero “plotone d’esecuzione”. Sarà lo stesso ex procuratore di Milano, al termine della sua carriera, a dire la propria verità politica, a partire da Mani Pulite: “Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”. Quello attuale era lui, il presidente di Forza Italia, lo stesso nei cui confronti – lo ha spiegato bene Luca Palamara nel libro “Il sistema” – i cecchini politici in toga furono tanti e molto agguerriti. Poi ognuno ha usato le armi che aveva. Ma le più efficaci sono sempre state quelle che si sparano nelle aule di giustizia. Ammesso che di giustizia di possa parlare. Chissà se ci sarà prima o poi un Borrelli – magistrato o politico o banchiere – che spiegherà se sia valsa la pena quel che accadde nel 2011 con la cacciata di Berlusconi da Palazzo Chigi e l’arrivo di un Monti così sobrio con il suo loden e in braccio un Dudù palesemente non suo. E con tutto quel che succederà dopo, compresa l’invasione di campo da parte del movimento degli invidiosi che volevano aprire il Parlamento come una scatoletta per poi mangiarsi il tonno. E chissà se un giorno si sveglierà un giudice, di Milano o di Roma, che sveli il senso politico di quella sezione feriale della cassazione cui fu assegnato il processo in cui, unico caso su almeno una sessantina (escluse le prescrizioni) di assoluzioni, Berlusconi sarà condannato nel 2013. O un leader politico, tipo Matteo Renzi, che si penta di quel “game over” con cui, in seguito a quella sentenza che fu definita “porcata”, scavalcò il parere di insigni costituzionalisti sull’irretroattività della legge Severino, e contribuì all’allontanamento di Berlusconi dal Senato. Se si fa un piccolo sondaggio tra gli esponenti politici in questi giorni sulla candidatura del leader di Forza Italia al Quirinale, pochi si diranno esplicitamente contrari. Più che altro faranno spallucce, tanto non ce la fa, diranno. Ma sotto sotto, o neanche tanto, il timore di una candidatura che ha già il sostegno di tutto il centrodestra, appare qua e là. Lo si vede da certi titoli di giornale, da questo ricordare in modo un po’ ossessivo che, se pure Berlusconi è ormai riabilitato dalla condanna scontata ai servizi sociali per la frode fiscale e assolto dal “processo Ruby”, ci sono in giro un bel po’ di “olgettine” che potrebbero “raccontare la verità” sulle cene di Arcore. Certo, ognuno fa la guerra con le armi che ha. Ma non sempre si vince. Non sempre si vince, e a raschiare il barile non emerge più un gran che. Una sentenza definitiva ha già stabilito che Silvio Berlusconi non ha commesso né il reato di concussione nei confronti di un pubblico ufficiale (che ha sempre dato la sua stessa versione dei fatti) né quello di prostituzione minorile perché non sapeva che Ruby non avesse ancora compiuto 18 anni. Il fatto che lei fosse o meno una “brava ragazza” non ha nessuna importanza. Di sicuro non era una prostituta di professione, il resto sono comportamenti. E se una ragazza accetta soldi o regali o si fa mantenere da un uomo benestante o addirittura lo sposa per interesse, si tratta sempre solo di comportamenti. Certamente non di reati. I “peccati” non interessano, soprattutto non devono interessare la magistratura. Silvio Berlusconi è un uomo ricco e generoso. Ed è anche un uomo che ama le donne e che ama attorniarsi di belle ragazze. Molti , anche magistrati, lo invidiano per questo e non lo perdonano. A questi vanno aggiunti i pm politici che non gli perdonano di esser stato assolto da processo Ruby. Così lo moltiplicano all’infinito, incriminando tutti quelli che sono andati a testimoniare la sua innocenza da quei due reati di cui era accusato. Perché –va chiarito per la milionesima volta- Berlusconi non era imputato per aver palpeggiato una ragazza o averle guardato dentro la scollatura. Quindi c’è poco da ironizzare sul concetto di “cene eleganti” per indurre il sospetto che invece fossero sguaiate e volgari. O che si raccontassero barzellette come quella del “bunga bunga”, i cui protagonisti erano tra l’altro solo uomini, ma che darà poi il nome, nelle fantasie scollacciate dei maschi, a tutta la vicenda processuale. Si continua la guerra con le armi che si hanno. Se Berlusconi, dopo esser stato assolto, e dopo che tutte le ragazze che avevano partecipato a qualche cena a Arcore erano state trattate come prostitute pur non essendolo, ha ritenuto, in modo chiaro e non nascondendolo, di aiutarle economicamente, ecco che scatta il nuovo reato. Corruzione. Ha dato loro dei soldi, dice la procura di Milano (quella dei Bravi che non sbagliano mai) perché non dicessero che cosa succedeva in quelle serate. Ma che cosa succedeva, qualcuno commetteva il reato di prostituzione minorile? No, c’è una sentenza definitiva che afferma il contrario. Che cosa, allora? Qualche toccatina di troppo? Qualche regalo a ragazze condiscendenti? Quale è questa verità così inconfessabile che porta addirittura alcune coimputate di Berlusconi come Barbara Guerra e Alessandra Sorcinelli a minacciare di “parlare”. E parlino, dunque. Si trasformino nelle pallottole dei cecchini politici dell’anno 2021, diventino le armi spuntate del nuovo secolo. E intanto cerchino di dare di sé un’immagine migliore di quella che è apparsa quando si sono inferocite perché l’uomo generoso aveva comunicato che la festa aveva un termine e i rubinetti erano chiusi. Che loro siano state danneggiate dalla vicenda giudiziaria, è un dato di fatto. Ma lo sono state, in piccola parte, “con” l’imputato principale, la preda grossa, non “a causa sua”. Sono vittime del circo mediatico-giudiziario, non di Berlusconi. Lui è quello che le ha aiutate. E intanto, diano un’occhiata ai giornali, leggano i resoconti del 22 ottobre scorso e la sentenza del tribunale di Siena che ha assolto, insieme al leader di Forza Italia, anche il pianista Danilo Mariani, che era accusato, proprio come loro, di aver ricevuto somme spropositate di denaro per l’intrattenimento alle cene. Ha avuto più soldi di quel che meritasse suonando il piano, sostenevano i magistrati. È stato corrotto per mentire. Per non dire la “verità” su quel che succedeva “davvero” nelle serate del bunga bunga. Ma che cosa succedeva? Torniamo al punto di partenza. Il fatto, cioè la corruzione, non sussiste, hanno stabilito i giudici di Siena. Ma ci sono ancora in agguato quelli di Roma e soprattutto quelli di Milano, l’ombelico del mondo del caos giudiziario, quello dove già un tribunale ha chiesto per Berlusconi la perizia psichiatrica e la pm lo ha definito sgarbatamente “un vecchio”. Saranno autonomi come quelli di Siena o si presteranno a essere le pallottole dei nuovi cecchini che vogliono far inciampare Berlusconi sul cammino del Quirinale?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Tu chiamalo, se vuoi, giornalismo...Lo scoop fake del Fatto Quotidiano contro Berlusconi: “100mila euro per votare il Cav al Quirinale”. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Dicembre 2021. Ieri il Fatto Quotidiano si è presentato ai lettori con uno scoop. Uno scoop davvero clamoroso: Berlusconi sta comprando i parlamentari per farsi eleggere Presidente della Repubblica. Li paga 100 mila euro l’uno. Una bomba. Il titolo è esplicito e occupa quasi tutta la prima pagina: “Per votare B. mi offrono posti e soldi”. E sotto al titolo una grande fotografia del cavaliere. Poi nel sottotitolo viene specificata la cifra del commercio: 100 mila euro, appunto. E si riferisce anche della protesta del parlamentare al quale è stato offerto l’affare: protesta dovuta al fatto che questo parlamentare immagina che il suo voto valga molto di più. Non ci sono condizionali nella prima pagina e ci sono le virgolette. Dunque, pochi dubbi. C’è, evidentemente, qualcuno che ha dichiarato sotto la propria responsabilità di avere ricevuto un’offerta da Berlusconi. E questa è una cosa gravissima, che non era mai successa: un mercato e mazzette di migliaia di euro per scegliere il capo dello Stato. Stavolta la magistratura fa bene a intervenire. Spero che lo farà. Dovrà innanzitutto chiedere al Fatto Quotidiano il nome dell’autore della denuncia. Già, perché se andate a leggere l’articolo che sorregge questo titolo di prima pagina, vi accorgete che questa denuncia viene da una persona che non ha nome. Uno sconosciuto. Non si sa chi sia. Né si sa chi gli avrebbe fatto l’offerta. Un altro sconosciuto. Vi dico di più: non si sa neppure quale sia stata l’offerta. Ci sono solo una sequenza di frasi, tutte fra virgolette, tutte molto scontate (tipo: “beh se perdo il posto di deputato sono nei guai…” e altre banalità simili), nessuna delle quali è attribuita a persone reali, sempre a ombre, e poi ci sono anche alcune dichiarazioni di persone reali, sospettate dal fatto di avere ricevuto offerte da Berlusconi, le quali negano decisamente di averle ricevute. Diciamo che il titolo e tutta la costruzione giornalistica sono completamente falsi. Io ricordo che quando ero un ragazzino alle prime armi, e lavoravo nella cronaca di Roma dell’Unità, fui mandato al Circeo a fare un articolo sulla speculazione edilizia. Presumibilmente di marca democristiana. Tornai con un bell’articolo , ben scritto, pieno di dichiarazioni anonime molto interessanti. Il mio capocronista, che si chiamava Giulio Borrelli ed era un fior di giornalista, invece di pubblicarlo lo mise nel cestino di metallo a rete che stava vicino alla sua scrivania di formica celeste. Ci rimasi male. Chiesi perché. Mi spiegò che non si pubblicano articoli fondati su dichiarazioni e accuse anonime. Il giornalismo – mi spiegò – è una cosa seria. Il giornalismo non è bugia e neppure propaganda. Era il 1975. Allora il giornalismo era così. Quello di sinistra e quello di destra. Il clima era di guerra fredda. La lotta politica era feroce. Ma c’era un etica professionale. Oggi invece c’è Il Fatto Quotidiano.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La campagna d'inverno del Fatto su Berlusconi. Boccassini e Palamara spieghino a Travaglio i processi Ruby. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Dicembre 2021. Ecco il garante dell’ignoranza Marco Travaglio che presenta “il garante della prostituzione”, così descrivendo “la storia di B.” ai complici del Fatto che dovrebbero porgere la propria firma per dire no a Berlusconi al Quirinale. Manca poco, ma uno di questi giorni vedremo Marcolino impegnato nella fatica di mostrare chi la fa più lontano. Tanto è infantile la sua paura che si fa ossessione. Nel titolone che apre la sua campagna d’inverno contro Berlusconi e che si palesa con un enorme NO, avrebbe potuto scrivere di tutto, e colorare di rosso e di giallo o meglio di nero, che politicamente è il suo vero colore preferito. Avrebbe potuto scegliere gli insulti più offensivi, dargli del mafioso, per esempio. Siamo fiduciosi del fatto che nel corso delle prossime puntate apparirà all’orizzonte anche questa carezza da parte di Marcolino. Ma la scelta di un’immagine sessuale, il riferimento a una professione che tra l’altro non costituisce reato, ma al massimo un “peccato” nei cui confronti persino la Chiesa ha un occhio di comprensione, è solo una buccia di banana, dimostrazione di pochezza culturale e di ignoranza. Della storia e dei suoi “scandali”, prima di tutto. Della storia di grandi Presidenti come Francois Mitterand che seppe tener celata a lungo una figlia illegittima e riconosciuta solo all’età di dieci anni. Di un Paese maestro di democrazia come gli Stati Uniti che ancora rimpiange John Fitzgerald Kennedy senza giudicare le sue consuetudini affettive e il suo grande amore adultero con Marilyn Monroe. Per non parlare di Bill Clinton nei cui confronti finì in nulla la procedura di impeachment per l’avventura con Monica Lewinsky. La storia che sarà giudicata dalla storia. Non dai tribunali, non dalla Chiesa. Men che meno dal pettegolezzume giornalistico ignorante. Difficilmente qualche testo scolastico dei nostri pronipoti parlerà di Marco Travaglio, sicuramente tutti gli storici si occuperanno di Silvio Berlusconi, di un grande imprenditore e di uno statista. Vedremo se anche di un presidente della repubblica. Ma, chi proprio vorrà mettere il naso anche nelle scartoffie di tribunale, non potrà che raccontare di lui come vittima di veri plotoni di esecuzione in toga che lo hanno preso di mira ingiustamente per qualche decennio per odio politico. E allora, parliamo pure di prostituzione, caro Travaglio. Visto che anche l’Italia e un presidente del consiglio hanno avuto la loro piccola Monica Lewinsky, la ragazza marocchina Karima El Mahroug . Ti sfidiamo sulla storia, e anche sulla cronaca. Ci aiutano due magistrati, due ex pubblici ministeri, la tua categoria preferita. Ilda Boccassini e Luca Palamara raccontano, ciascuno a modo proprio, come cominciò. E tutti e due disvelano il “grande complotto” di cui Berlusconi fu vittima a partire da quell’estate, mentre era presidente del consiglio. “Nel 2010 il lavoro come coordinatrice della Dda mi impegnava molto – scrive nel suo libro l’ex pm milanese – ne ero soddisfatta e non immaginavo che di lì a poco avrei dovuto rivivere l’incubo di fronteggiare Silvio Berlusconi”. Segue una cronaca, raccontata in modo poco credibile, che introduce sulla scena giudiziaria e politica la giovane Ruby. È la premessa del “complotto”, al quale, almeno inizialmente, la dottoressa Boccassini fu estranea. Tanto che si mostrò sorpresa quando proprio a lei, che si occupava di mafia, fu proposto di indagare il presidente del consiglio per prostituzione minorile. L’obiettivo non era il tipo di reato, ma il tipo di (presunto) autore. Il “merito” di quella scelta va tutto attribuito a colui che era da poco stato promosso al vertice della procura milanese, Edmondo Bruti Liberati, esponente di spicco di Magistratura democratica. Una tradizione politica meneghina proseguita fino all’ultimo procuratore capo, di recente pensionato, Francesco Greco. Tutti appartenenti alla stessa corrente sindacale di sinistra. A questo punto ci facciamo aiutare da un altro ex pm, Luca Palamara, e dal suo libro “Il Sistema”. “Quello delle donne è un buon filone, mediaticamente funziona, e di certo indebolisce la figura del presidente Berlusconi”. Certo, molto abile la scelta di Ilda Boccassini a rappresentare l’accusa contro il presidente del consiglio: perché è donna, perché ha molta visibilità e tutti sanno chi è. Pensate che immagine davanti al mondo la sua chioma rosso fuoco e il dito puntato contro il puttaniere! E si, quello delle donne è proprio un buon filone. Ma anche essere di Magistratura democratica conta molto. Anche Boccassini è di quella parte politica. E la procura di Milano –ce lo ricorda ancora Palamara– “è un fortino ben strutturato. A dirigerlo è Edmondo Bruti Liberati, uno dei magistrati più temuti e potenti d’Italia, vero faro dell’egemonia culturale della sinistra giudiziaria e dei suoi conseguenti riflessi politici”. L’inchiesta contro Berlusconi, quella che finirà poi con la sua totale assoluzione, ma dopo che verrà proiettata in tutto il mondo la sua immagine di puttaniere e quasi di stupratore di minorenni, nasce quindi in quel, “fortino ben strutturato” di Magistratura democratica. Da subito viene applicato il sistema ambrosiano, quello per cui le regole si applicano solo per gli amici. Per i nemici, beh, lasciamo all’immaginazione. Fatto sta che la giovane Ruby, secondo la cronaca di Boccassini (ma non ci crediamo mica tanto) si sarebbe confidata, durante un breve ricovero ospedaliero, nel luglio del 2010 con un’assistente sociale. La quale avrebbe svolto una relazione e l’avrebbe consegnata al pubblico ministero Pietro Forno, responsabile di reati a sfondo sessuale. Questo è il primo inciampo dello stile ambrosiano, perché Ruby non ha mai parlato di reati, ma solo delle cene cui avrebbe partecipato a casa di Berlusconi. I reati sono quindi stati cercati. Non è stato lo stesso Tonino Di Pietro, di recente, a dire che quello era, già dai suoi tempi, lo “stile ambrosiano”? La seconda anomalia ce la racconta la stessa Boccassini e consiste nel trucco usato in procura per trasmettere alla responsabile dei reati di mafia un’inchiesta di prostituzione. Venne usato il sostituto Sangermano, che lavorava con Forno ai reati sessuali ma aveva fatto domanda per passare al pool antimafia. Così il giovane pm fu costretto a trascinare nell’ufficio di Ilda Boccassini il fascicolo su Berlusconi. Il quale nel frattempo era del tutto ignaro di quel che stava succedendo, anche perché (ah la maledizione dello stile ambrosiano!) si indagò per sei mesi su di lui senza ricordarsi di informarlo. Presto la “palla di neve”, come la definirà Palamara nel libro scritto con Sallusti, diventerà inarrestabile. Anche perché il procuratore Bruti Liberati cerca la copertura politica nel sindacato dei magistrati, e “..chiede a Giuseppe Cascini, suo referente nella giunta Anm, la solidarietà dell’intera categoria”. Ma c’è di più, lo stesso Palamara coinvolgerà anche il Quirinale, concludendo: “Così, ancora una volta, procedo come da copione: comunicati di solidarietà ai colleghi milanesi e tutto il resto che ben conosciamo”. Serve altro? Sono passati undici anni. Dopo cinque e tre processi Silvio Berlusconi è stato assolto. Nel frattempo Bruti Liberati e anche Ilda Boccassini sono andati in pensione, è arrivato Francesco Greco e ha terminato la sua carriera pure lui. Ma i “processi Ruby”, e due e tre, sembrano non finire mai. Il leader di Forza Italia continua a portare a casa assoluzioni, una dopo l’altra, ma il “fortino milanese” pare insaziabile. È lì che si abbevera il “garante dell’ignoranza”, che non sa leggere le sentenze e neanche il codice penale. Fattene una ragione, Marcolino, non riuscirai neanche questa volta a farla più lontano.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

Fango stile Travaglio. Marco Gervasoni l'1 Dicembre 2021 su Il Giornale. L'archiviazione dell'indagine su Luca Morisi fa di lui l'ultima vittima del sistema che in Italia prende il nome di "macchina del fango". L'archiviazione dell'indagine su Luca Morisi fa di lui l'ultima vittima del sistema che in Italia prende il nome di «macchina del fango» e che consiste nell'«assassinio del carattere» della vittima scelta. Ma negli ultimi mesi vi è solo l'imbarazzo della scelta. Dal presupposto affare della «lobby nera» contro Fratelli d'Italia, alla demonizzazione di Renzi con pubblicazione di estratti conto bancari, fino al Fatto quotidiano di ieri che, secondo il collaudato «metodo Travaglio» riportava accuse anonime contro Berlusconi, ritornato pericoloso, ora che le sue chance di salire al Quirinale si fanno più concrete. Siamo abituati a pensare che in questa operazione la magistratura abbia un ruolo di primo piano ma non è sempre cosi e anzi per far partire la macchina del fango essa neppure è necessaria: quel che è fondamentale è l'informazione. Un giornalismo, della carta stampata ma anche televisivo o web, che sceglie i propri obiettivi secondo criteri e tempistiche tipicamente politici e che li persegue attraverso «inchieste», nella maggior parte dei casi tendenziose e a senso unico. Solo in seconda battuta interviene la magistratura, che però in quel caso si rende spesso responsabile di fuga di notizie, passate misteriosamente ai cronisti che distruggono il carattere dell'indagato condannandolo a indagine appena iniziata. Di fatto, è impressionante vedere come la stampa e le tv tengano il più possibile nascoste le identità degli indagati quando si tratta di figure appartenenti al «partito dei media», mentre invece come sbattano il mostro in prima pagina quando il malcapitato ha la ventura di appartenere a una formazione poco gradita ai media. Il lettore si chiederà, ma quale carta stampata, quali media? Anche quello da cui stiamo scrivendo è un giornale. Ci riferiamo ai cosiddetti media mainstream, quelli appartenenti ai grandi editori o gruppi finanziari. È sempre stato così ma, mentre fino agli anni Settanta il mainstream era tendenzialmente moderato o conservatore, dopo il Sessantotto esso si fa di sinistra. Ne discende che il «partito dei media», non solo in Italia ma ovunque in Europa e negli Stati Uniti, guarda a sinistra e tende quindi da un lato a proteggere i partititi di quello schieramento, dall'altro ad attaccare, utilizzando anche l'arma dello scandalo, quelli ostili alla sinistra. È un sistema, quello della politica che utilizza l'informazione per eliminare l'avversario politico, che ricorda molto la Francia della Quarta repubblica: un sistema marcio e malato che finì rischiando un colpo di Stato militare. Loro avevano però Charles de Gaulle che li salvò. Ma noi? Marco Gervasoni

Travaglio ha paura: insulti e fango contro il Cav. Andrea Indini l'1 Dicembre 2021 su Il Giornale. Sul Fatto Quotidiano insulti, fango e raccolta firme contro Berlusconi. La macchina di Travaglio si arma per ostacolare la corsa del Quirinale. Ma è il solito giornalismo spazzatura. Ma quanto se la stanno facendo sotto Marco Travaglio e i suoi accoliti del Fango Quotidiano, ops perdonate, del Fatto Quotidiano? Moltissimo a giudicare dalle biliose pagine dedicate a insultare, denigrare, diffamare Silvio Berlusconi. La sola idea che il Cavaliere possa succedere a Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica li manda ai matti. Sarebbe per loro il compimento di un incubo con cui non hanno mai voluto confrontarsi: in cuor loro sapevano che prima o poi sarebbe anche potuto accadere, ma l'hanno sempre rigettato, l'hanno chiuso in un cassetto e hanno buttato la chiave perché, anche solo guardarlo dritto negli occhi, gli fa tremar le gambe, gli si azzera la salivazione, gli fa perdere l'eloquio e sulla punta della lingua non gli restano che le offese. No al garante della prostituzione. Questo il titolo, violento e denigrante, con cui Travaglio ha aperto questa mattina il suo Fango Quotidiano, ops perdonate di nuovo, il suo Fatto Quotidiano. Non il titolo di prima pagina, ma il titolo di uno speciale allegato al giornale mandato in stampa stanotte e buttato in tutte le edicole del Paese. Quattro pagine per chiedere "a tutti i parlamentari di non votarlo (Berlusconi, ndr) alla presidenza della Repubblica. Anzi, di non parlarne proprio. E, se possibile, di non pensarci neppure". Ecco il sogno recondito del finto erede di Indro Montanelli: silenziare il Cavaliere, annientarlo dalle conversazioni pubbliche e private, cancellarlo persino dai pensieri della gente. Gli dobbiamo, però, dare brutte notizie: la gente ci pensa. Eccome se ci pensa. E ci pensano pure i parlamentari che siedono alla Camera e al Senato. Perché nonostante decenni di incursioni giudiziarie, crociate di magistrati in cerca di notorietà, persecuzioni a mezzo stampa, golpe bianchi orditi a Bruxelles con la complicità di un manipolo di politici nostrani e violenze di ogni genere (anche fisiche), l'ex premier (oggi eurodeputato) continua a dare le carte. E che carte! I parlamentari ci pensano a tal punto che l'eventualità di eleggerlo capo dello Stato non è affatto un mistero. Si ragiona sui numeri. Non certo alla prima chiama, ma più avanti, quando basterà il 51% dei voti per nominare il nuovo presidente della Repubblica, tutto è possibile. Berlusconi sarebbe una figura di altissimo profilo, capace di garantire l'equilibrio tra le forze di destra e quelle di centro senza mai penalizzare la sinistra. Una figura super partes. Che incubo dev'essere per Travaglio! Il peggior incubo, probabilmente. Ormai finito a fare il paladino del capo del Partito 5 Stelle, Giuseppi Conte, il direttore del Fango Quotidiano, ops perdonatemi ancora, del Fatto Quotidiano avrebbe sicuramente un crollo di nervi. È per evitare questo tracollo (fisico e psicologico) che in queste ore ha avviato una raccolta firme. Ecco il titolo: "Berlusconi al Quirinale? No, grazie". Va detto che con le petizioni non ci prendono molto. L'ultima, quella per portare Liliana Segre al Colle, è stata una figuraccia colossale. Ma fuor di dubbio che il popolo di Travaglio accorrerà numeroso a sostenere l'ultima crociata del direttore. Si muovono sempre in batteria, loro. Ma per quanto rumorosi non sono la maggioranza del Paese. Per fortuna. E quelle firme cadranno presto nel vuoto. Le quattro pagine del Fatto, in cui si accusa Berlusconi di aver "prostituito ai suoi interessi privati non soltanto le sue escort, alcune minorenni, ma anche e soprattutto i principi costituzionali che aveva giurato di difendere", rimarranno purtroppo nella storia del peggior giornalismo spazzatura. E con esse tutte le diffamanti paginate usate come clavi per colpire il politico di turno che non piace a Travaglio. Oggi è toccato per l'ennesima volta a Berlusconi. Domani a chi toccherà?

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del

No al garante del giornalismo spazzatura. Francesco Boezi e Domenico Ferrara l'1 Dicembre 2021 su Il Giornale. Sul Fatto di oggi un profluvio di insulti a Berlusconi. È un classico di Travaglio che ha un casellario giudiziale chilometrico. "Io sono il suo core business". Così disse Berlusconi parlando di Marco Travaglio nella puntata - divenuta storica - di Servizio Pubblico del 10 gennaio 2013. E adesso che il nome del Cavaliere ricorre ogni giorno sulle pagine dei giornali come possibile candidato al Quirinale, il copione si ripete. Il direttore del Fatto Quotidiano, da un lato, gongola perché può tornare a fare quello che gli riesce meglio, e cioè diffamare; dall'altro teme seriamente che l'ipotesi possa diventare realtà. Ecco dunque pronta una nuova ragione - editoriale - di vita: una bella (si fa per dire) raccolta firme per dire "No, grazie" a Silvio Berlusconi presidente della Repubblica. Cosa non si fa per far parlare di sé e per vendere qualche copia in più. Come se non bastasse, un po' di pepe alla petizione: "No al garante della prostituzione". È questo il titolo che campeggia sulla prima pagina del giornale. L'incipit dell'articolo poi è ancora più pesante: "Silvio Berlusconi è il garante della prostituzione e della corruzione". Secco. Così, tranchant. A prova di querela per diffamazione. Evidentemente però l'ennesima causa contro di lui non lo spaventa. Oppure, il direttore del Fatto Quotidiano ha dimenticato quante ne ha prese e quanto ha dovuto scucire ai diretti interessati. Allora, nell'auspicio di fargli cosa gradita, gli rammentiamo qui il suo passato, non sia mai che si ravveda. Siccome l'elenco delle cause perse da Travaglio risulta davvero lungo e complesso, conviene mettere le mani avanti su eventuali svarioni. Mancanze ce ne saranno di sicuro. Se non altro perché citeremo soltanto qualche esempio. Il trenino parte nel 2000, con una condanna in sede civile. Il risarcimento previsto è di 79 milioni di lire, mentre la citazione in giudizio è di Cesare Previti. Siamo ai tempi de L'Indipendente. Poi arriviamo al 2004, con un'ulteriore condanna in sede civile ed 85 mila euro di risarcimento più 31 mila euro di spese processuali per via di un errore di omonimia fatto su un libro: La Repubblica delle banane. Uno svarione che è finito anche su L'Espresso. Poi la pena è stata ridimensionata nel 2009 per via di un ricorso. Nel 2005, ancora, arriva un'altra condanna in sede civile: 12mila euro a Fedele Confalonieri più le spese proccessuali. Poi il 2009: 5 mila euro di risarcimento al giudice Filippo Verde. Nel 2010: 16 mila euro all'ormai ex presidente del Senato Renato Schifani. C'è una condanna di un procedimento penale che risulta definitiva: risale al 2010 e riguarda di nuovo Cesare Previti. Ci siamo capiti e forse non serve procedere oltre, con quello che è accaduto nel decennio successivo. La lista che Berlusconi ha sciorinato nella puntata citata - quella della famosa spolverata alla sedia - si è allungata nel tempo. Oggi la battaglia principale è portata avanti da Matteo Renzi. Lo stesso leader d'Italiva Viva ha comunicato la volontà di procedere "colpo su colpo". "Travaglio - ha fatto presente l'ex premier durante una recente e nota puntata di Otto e Mezzo - è un diffamatore seriale. Lui distrugge Il Fatto Quotidiano, che è un'azienda quotata in borsa. Le richieste di risarcimento danni sono, in questo momento, superiori al valore dell'azienda. Io non voglio la fine de Il Fatto Quotidiano - ha insistito l'ex presidente del Consiglio - perché è il vitalizio per me e per la mia famiglia". Renzi ha ricordato pure la sconfitta di Travaglio presso la Cedu. Da "core business" a "vitalizio": cambiano le definizioni ma non certa sostanza. E forse cambiano pure protagonisti e momenti politici, ma il metodo rimane lo stesso: questa sì che è una "garanzia".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju".  

Di Matteo entra nella questione Quirinale e prova ad affossare Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Novembre 2021. Avrebbe potuto tagliar corto con una risposta sobria ma secca, alla domanda sulla candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale: “Sono un magistrato e non mi occupo di politica, per me ogni candidato ha il diritto e la dignità per aspirare alla Presidenza della repubblica”. Avrebbe potuto e dovuto dire così, Nino Di Matteo, membro del Csm, intervistato da Lucia Annunziata. Ha preferito invece, come già aveva fatto nella stessa trasmissione due anni fa, entrare diritto in politica come un coltello nel burro, e gli va dato atto di non disperdersi mai in sottili allusioni. La sintesi è: non mi occupo di politica, però. I “però” sono due. Il primo: poiché chi va al Quirinale diventa anche automaticamente capo del Csm (sarebbe interessante verificare se Berlusconi avrebbe il coraggio di Cossiga, che un giorno mandò i carabinieri), occorre che si tratti di una persona equanime ed equidistante, e che non abbia motivi personali di rancore nei confronti della magistratura. Berlusconi, fora di ball, si direbbe in modo poco elegante a Milano. Ma Nino Di Matteo ha anche nel sangue il suo passato di pm “antimafia” e non può, non riesce a prescinderne. E fargli il nome del presidente di Forza Italia è un po’ come agitare il drappo rosso davanti al toro. Sarà perché in quel di Sicilia hanno provato una e due e tre volte a indagarlo prendendo solo legnate sui denti. Sarà anche perché bruciano a questi pm “antimafia” la sconfitta sul falso pentito Scarantino e quella più clamorosa del processo “trattativa” tra lo Stato e la mafia. Fatto sta che la tentazione di mettere i puntini sulle “i” è forte. E, sebbene Di Matteo sia sufficientemente accorto da non citare inchieste in corso, come quella fiorentina sulle stragi, finisce per aggrapparsi, per l’ennesima volta (Lucia Annunziata dovrebbe ricordarlo) a un presunto caso di estorsione di cui Berlusconi sarebbe stato vittima. E’ sufficiente andare a pescare nelle carte dell’unica sentenza che ha condannato Marcello Dell’Utri per il reato che non c’è, e di cui si sta occupando la Cedu, cioè il concorso esterno in associazione mafiosa. O anche, in alternativa, aver letto sul Fatto qualche articolo di Marco Lillo, quelli in cui si vaneggia sui fratelli Graviano (ambedue condannati per le stragi del 1992 e del 1993) e sul ruolo di “garante” che l’ex senatore avrebbe svolto, tra il 1974 e il 1992, tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi. Il quale sarebbe stato costretto a versare ogni anno un “obolo” alla mafia per proteggere se stesso, la propria famiglia e le aziende. Ora, ha senso che un magistrato –uno che dice di non aver ambizioni politiche e neanche di carriera, pur con qualche contraddizione- assuma la responsabilità di questo attacco frontale a un personaggio politico che la stessa Annunziata ha definito come “candidato forte, grande protagonista” della storia anche imprenditoriale degli ultimi decenni? Il consigliere Di Matteo sa bene di essersi limitato a raccogliere qualche cicaleccio interessato di “pentiti”, cioè di assassini e mafiosi che ogni tanto fanno quel nome solo perché sanno che fa piacere sentirlo ai pm “antimafia”. Il dottor Di Matteo sa altrettanto bene che non esiste nessuna sentenza nei confronti di Berlusconi in tema di mafia, se non per qualche ipotesi in cui lui sarebbe stato una vittima, come nel processo “trattativa”. Perché allora insiste con questa storia dell’estorsione che lui avrebbe subìto ma rispetto alla quale nessun mafioso è mai stato condannato? Certi pm si arrabbiano quando scriviamo che fanno politica. Quindi quando il dottor Di Matteo dice che lui non esprime giudizi ma che “il vizio della memoria andrebbe coltivato” che cosa intende dire? Per esempio di aver dimenticato di precisare il fatto che Silvio Berlusconi, benché lui stesso ci avesse provato più volte, in Sicilia non è neanche indagato? Ma che però –l’insinuazione è nostra- si può indurre il sospetto che se hai pagato la protezione della mafia, un po’ mafioso lo sei anche tu? Il discorso del resto è molto esplicito. Secondo il dottor Di Matteo non esiste la guerra tra magistratura e politica, ma solo “l’offensiva unilaterale” di una parte composta da uomini del potere politico economico finanziario e anche magistrati, contro quelli come lui, i “liberi e coraggiosi”, gli onesti che volevano una giustizia uguale per tutti, quelli che hanno indagato e giudicato con sacrifici e spirito di abnegazione. Mai, questi capitani coraggiosi sarebbero stati influenzati dagli scandali, le beghe, le trattative per fare carriera, tutto quello che è emerso nel “Sistema” svelato da Luca Palamara. Sembra quasi di assistere, nella lunga intervista di domenica pomeriggio, a un pezzetto di Eden, al mondo dei Buoni. Ma siamo così sicuri del fatto che mentre i Buoni erano ancora nella terra di noi mortali peccatori, siano stati del tutto estranei alle normali ambizioni di carriera, anche politica, che vengono negate con tanta sicumera? Ci pare di ricordare per esempio che nel 2018 gli uomini del partito di Grillo avessero offerto proprio al dottor Di Matteo un ruolo di ministro. E non risulta il gran rifiuto. Poi c’è tutta la vicenda del Dap, quella che segnerà anche una rottura (che non osiamo definire politica, se no qualcuno si arrabbia) con il ministro Bonafede, quello che era diventato guardasigilli. Lo stesso che aveva proposto al pm “antimafia” il posto di capo del Dap salvo poi rimangiarsi la parola. Poi non c’era stata anche l’esibizione per 42 minuti a parlare in una trasmissione tv anche di inchieste in corso e di mandanti delle stragi, cosa che gli costò la cacciata dal pool antimafia? E l’elezione al Csm non era stata sponsorizzata da quel Davigo nei cui confronti era poi stata consumata la vendetta con il voto contrario alla sua permanenza in consiglio anche dopo che aveva raggiunto l’età della pensione? Può farsi che tutto ciò non sia politica. Ma come dovremmo qualificarla? La “guerra di Nino”?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Silvio Berlusconi "vecchio putt***"? Pietro Senaldi sugli insulti di Travaglio: "Scriverò lo stesso articolo cambiando il nome...". Libero Quotidiano il 26 ottobre 2021. Il condirettore di Libero Pietro Senaldi sulla petizione del Fatto Quotidiano: “Oggi Marco Travaglio tira per la giacca Liliana Segre e candida la senatrice al Colle contro Silvio Berlusconi. Il fondo del direttore del Fatto è di rara ineleganza. Chiama Berlusconi “vecchio putt***”, “melma”, “residuo preistorico”, “finanziatore della mafia”. Ovviamente l'Ordine dei giornalisti non dirà nulla e commenterà che questo articolo è satira. Un giorno farò un esperimento: prenderò uno di questi articoli di Travaglio, che sono insulti a Berlusconi e a Salvini e a Renzi, e sostituirei con i nomi Di Maio, Di Battista, Davigo, Grillo, Conte. Ecco, sono sicuro che usando gli stessi verbi e gli stessi sostantivi di Travaglio ma sostituendo i nomi sarei querelato, denunciato all'Ordine e nessuno direbbe che il mio è legittimo diritto di critica. O addirittura esercizio di satira". 

DiMartedì, Piercamillo Davigo e Berlusconi al Quirinale: "Temo che...", la battuta che gelo lo studio. Libero Quotidiano il 27 ottobre 2021. Silvio Berlusconi può diventare presidente della Repubblica? Giovanni Floris fa questa domanda a Piercamillo Davigo e DiMartedì si infiamma. "Ricordo una citazione di un polemista dell'Ottocento - esordisce l'ex pm di Mani Pulite -. Quando ero ragazzo mi spiegarono che in democrazia chiunque può diventare presidente. Comincio a temere che sia vero. Certo non c'è nessun impedimento giuridico, poi dal punto di vista del buon senso è tutto un altro discorso". Con 4 processi ancora in corso, tra escort e filoni Ruby Ter, il leader di Forza Italia ha finora avuto 11 assoluzioni, 10 archiviazioni, 8 prescrizioni, 2 amnistie e una condanna definitiva, per frode fiscale, con riabilitazione nel 2018. Formalmente nulla vieta all'ex premier di venire eletto al Quirinale, "però l'articolo 54 della Costituzione parla di disciplina e onore e io penso che non ci sia onore nella prescrizione", sottolinea polemicamente l'ex membro del Csm. "Però questa è una sua interpretazione politica - ribatte Floris -, ci sono più assoluzioni che condanne". "Ma guardi che non funziona così, se uno ruba un'auto una volta è un ladro d'auto anche se viene assolto in altri casi", aggiunge Davigo, che poi emette una sentenza molto politica: "A parte il fatto che faccio fatica a comprendere come si possa scegliere di proporre per la presidenza della Repubblica un politico che ha ridotto il suo consenso, credo che fosse partito dal 40% e oggi è al 7/8%". Un argomento facilmente confutabile che Floris liquida rapidamente: "C'è chi ha fatto di peggio...".

La bufala giustizialista sul Cav "incandidabile". Persino Davigo dice sì. Luca Fazzo il 6 Novembre 2021 su Il Giornale. Persino Piercamillo Davigo aveva riconosciuto, nella sua recente intervista a Dimartedì, che «non c'è nessun impedimento giuridico» alla salita di Silvio Berlusconi al Quirinale, pur definendo l'ipotesi secondo lui «insensata». E anche un suo arcinemico come Carlo De Benedetti, parlando con la Gruber, non aveva ipotizzato vincoli tecnici che impediscano la elezione del Cavaliere alla presidenza della Repubblica (pur specificando che, nel caso, restituirà il passaporto italiano). Così ieri per scovare un teorico della ineleggibilità di Berlusconi al Colle il Fatto quotidiano deve scomodare la penna di un anziano giudice amministrativo in pensione, Filoreto D'Agostino, già entrato in un paio di occasioni in rotta di collisione con il centrodestra quando lavorava al Tar e al Consiglio di Stato. Il quale, per scongiurare l'approdo del leader di Forza Italia sulla poltrona che Sergio Mattarella lascerà a gennaio, scomoda un dettaglio che finora nessuno aveva evidenziato: il ruolo di capo supremo delle Forze armate rivestito dal presidente della Repubblica. Per essere arruolati nell'esercito, dice D'Agostino, occorre avere tenuto «una condotta incensurabile». Poiché il capo dello Stato, quando comanda le forze armate, «è un militare, anzi il primo militare d'Italia» lo stesso criterio si applicherebbe anche a lui. E Berlusconi, a sentire D'Agostino, non presenterebbe il requisito richiesto. A parte la originale visione di un presidente in divisa e stellette (a Francesco Cossiga il ruolo in realtà piaceva, ma per questo venne assai criticato) la tesi di D'Agostino sembra fare a botte con un dato di fatto: ovvero che attualmente Berlusconi è a tutti gli effetti un incensurato, avendo scontato l'unica condanna inflittagli e avendo ottenuto la riabilitazione dal tribunale di Milano. Per aggirare l'ostacolo, D'Agostino finisce con il mischiare valutazioni tecniche a giudizi morali e persino a fosche previsioni secondo cui imprecisati «pescecani della finanza» sarebbero già pronti a festeggiare l'elezione del Cavaliere e la conseguente impennata dello spread. Morale: Berlusconi è indegno di rivestire una carica che lo porterebbe (recita il sommario) a «guidare le forze armate e la magistratura»: non è proprio così, visto che il Quirinale non guida proprio niente. Ma va bene lo stesso, l'importante è mettere le mani avanti contro una prospettiva che, a quanto pare, comincia a fare paura. Di Filoreto D'Agostino (omonimo del procuratore generale di Roma scomparso nel 1995) le cronache si erano dovute occupare già in due occasioni: quando nel 2006 l'allora coordinatore di Forza Italia Sandro Bondi lo accusò di essere andato al ministero dei trasporti per fare propaganda tra gli impiegati per il «no» alla riforma costituzionale varata dal centrodestra; e quando insieme a quattro colleghi del Consiglio di Stato escluse la lista del Pdl dalle elezioni regionali del Lazio. Poco dopo venne promosso alla guida del Tar della Sicilia: dove in una sentenza accusò il sindaco di Palermo Diego Cammarata di essere stato eletto grazie a «gravissime irregolarità».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

DiMartedì, Alessandro Sallusti contro Davigo: "Mi chiedo come abbia potuto fare il magistrato". Libero Quotidiano il 27 ottobre 2021. Ha appena finito di parlare, Piercamillo Davigo, e Alessandro Sallusti lo travolge dialetticamente. A DiMartedì si discute su Silvio Berlusconi al Quirinale e l'ex pm di Mani Pulite ha usato parole sprezzanti. Il direttore di Libero ascolta e lo impallina: "Mi è sembrato di ascoltare il Marchese del Grillo, io sono io e voi non siete nessuno. Berlusconi non può fare il presidente? E io mi chiedo come uno come Davigo abbia potuto fare il magistrato, visto che non ha nessuna fiducia nella magistratura. Ha divulgato degli atti secretati perché non si fidava della Procura di Milano, ritiene le iniziative di altri magistrati contro di lui delle bazzecole, ha fatto ricorso alla magistratura civile contro il suo prepensionamento al Csm, è Davigo che non ha nessuna fiducia nella magistratura". "Un polemista dell'Ottocento diceva - è stata la freddura con cui si è presentato Davigo pochi minuti prima -: in democrazia tutti possono diventare presidente. Comincio a temere che sia vero". "Le cose che dice su Berlusconi - ribatte Sallusti- non mi stupiscono. Non sono diverse da quelle che ha sempre detto ma la vera diversità è che Davigo non ha più alcuna autorevolezza per dirle. Ripeto: se c'è uno che ritiene la magistratura fallibile è lui e lo sta dimostrando". "Perché allora Berlusconi potrebbe fare il presidente della Repubblica?", domanda Floris a Sallusti: "Perché è stato premier quattro volte, ha organizzato diversi vertici internazionali tra cui quello di Pratica di Mare che ha riavvicinato il blocco Nato e la Russia, e perché se c'è una cosa su cui è inattaccabile è il fatto di essere uno statista. Se poi ha governato bene o male, questo lo lasciamo decidere agli italiani".

"Angela", "Silvio". Quei 20 anni tra cancellerie e Ppe.  Angelo Allegri il 22 Ottobre 2021 su Il Giornale. Dal "cucù" del vertice di Trieste alla telefonata con Erdogan, alti e bassi di una "coppia di fatto". Per 20 anni sono stati una coppia di fatto della politica europea. A volte su rive contrapposte, quando bisognava andare al dunque dalla stessa parte del fiume. Da questo punto di vista Angela Merkel e Silvio Berlusconi hanno rappresentato bene i loro due popoli, che sembrano non comprendersi mai davvero fino in fondo, ma che poi, almeno a giudicare dagli ultimi 75 anni, trovano sempre il modo di mettersi d'accordo - dalle vacanze sulla riviera romagnola alle catene del valore dell'industria globalizzata - con mutuo vantaggio per entrambe le parti in causa. La storia di Angela e Silvio è punteggiata da un'aneddotica ricca e colorita, le cui tappe sono rimaste nella memoria di molti. Dal cucù al summit italo-tedesco di Trieste del 2008, alla telefonata con Erdogan del vertice Nato di Strasburgo del 2009: Berlusconi riesce a strappare ai turchi il via libera alla nomina del danese Rasmussen a segretario generale dell'Alleanza e la Merkel assiste perplessa alla conversazione, per andarsene poi a ricevere gli altri ospiti. E ancora, le risatine della conferenza stampa di Angela e Sarkozy al Consiglio europeo di Bruxelles del 2011. Per non parlare dell'episodio più oscuro: quella intercettazione telefonica, che ormai sembra pacifico non esistere, in cui a Berlusconi viene attribuito un insulto sessista rivolto alla leader tedesca. Sono passati tanti anni eppure quella vicenda, giurano i suoi uomini, è un ricordo che addolora ancora il Cavaliere. Sull'altro piatto della bilancia ci sono i regali (ieri l'ultimo in ordine di tempo) che segnano un altro discrimine culturale: da una parte la proverbiale generosità di Berlusconi, dall'altra i severi vincoli del protocollo di Stato tedesco, che impongono procedure rigide (e di solito rispettate) se i doni ricevuti superano un determinato valore. Nel corso degli anni, da un vertice all'altro, di fronte agli occhi della Merkel è passato il meglio dell'Italia: si va dalla classica cassetta di vini di pregio al foulard di Marinella, dallo scialle in cashmere ai vetri di Murano, fino alle porcellane di Capodimonte. Sullo sfondo resta poi la politica. Negli anni del suo cancellierato la Merkel ha dovuto fare i conti con otto presidenti del Consiglio per un totale di dieci governi: Prodi, Berlusconi (per due mandati), Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte (anche lui per due volte) e oggi Draghi. Non c'è confronto numerico che meglio illustri le differenze tra i sistemi politici dei due Paesi: la stabilità tedesca alle prese con la variabilità italiana. Di fronte a tanta volatilità i tedeschi, Angela in testa, hanno sempre apprezzato in Berlusconi l'ancoraggio a quel sistema di valori cattolico-liberali cui anche la Cdu fa riferimento, e che si trovano riassunti nella comune appartenenza al Partito Popolare Europeo. Il timore di Berlino è sempre stato quello di rimanere senza punti di riferimento autorevoli con cui poter parlare la stessa lingua. Con Berlusconi non è mai successo. Ora, per dire la verità, a essere di fronte a una svolta sono proprio i tedeschi. La loro stabilità, di idee e di obiettivi, prima ancora che di persone, potrebbe presto trasformarsi in un ricordo. Una coalizione a tre come quella che va profilandosi a Berlino è un esperimento mai testato e per cui non mancano le incognite. E almeno sui tempi brevi sembra difficile che nei vertici tra i due Paesi possa riformarsi un tandem simile, per peso politico e mediatico, a quello che ha dominato i rapporti italo-tedeschi degli ultimi vent'anni. Angelo Allegri

Estratto dell'articolo di Salvatore Merlo per ilfoglio.it il 14 ottobre 2021.

Ma è vero che Berlusconi le baciava le mani, e la chiamava don Dell’Utro?

“Certo che è vero. Noi raccontavamo persino spiritosaggini su Mangano, il famoso stalliere di Arcore. Ci inventavamo storie. Il Cavaliere mi sfotteva. Ridevamo come matti. Ma le pare che uno fa così se ha un mafioso in casa? Le racconto una cosa che la prego di non scrivere, perché chissà come viene interpretata. Qua nessuno sembra capire l’ironia”.

Ma no, carissimo don Dell’Utro, l’ironia è il giusto salvacondotto.

“Guardi che la usano contro Berlusconi”.

Ma no, ormai il Cav. è in via di santificazione.

“In effetti lui pensa di andare al Quirinale. Cosa che io… boh… mi pare improbabile. Anche se io a Silvio gli ho visto fare cose che sembravano impossibili. Quindi mai dire mai”.

In effetti lui fa tutto in grande.

“Sì, pure il Bunga Bunga”.

"Sa come lo chiamavamo noi Gianni Letta? “Smorza Italia”. Se c'era una nomina, lui la dava sicuro alla sinistra" 

""Craxi? faceva la pipì sulla tavoletta a casa di Berlusconi. E Silvio, per evitare che gli ospiti vedessero, sistemava" 

La mitologica Trattativa. Anzi, "quella gran minchiata della Trattativa", come dice lui.

"Certo che ho sofferto. Mi sono anche ammalato. Oggi ho una decina di stent", aggiunge. E poi, con cupo sarcasmo: "Diciamo che anzi ormai “vivo di stent”". 

"Mi ricordo quando moltissimi anni fa mi convocò Antonio Ingroia. Un “babbasunazzo”, come si dice da noi". Insomma un mezzo citrullo." 

"Confalonieri veniva a trovarmi in carcere, almeno una volta al mese. Mi portava i saluti di Silvio. Sempre. Ma la verità è che io Silvio me lo sognavo pure la notte. Ripensavo ad Arcore. Ai tempi belli e lontani. Quell'uomo mi ha cambiato la vita". 

L'ha fatta finire in galera anche.

"Mi ha reso ricco, ma soprattutto mi ha fatto divertire, mi ha fatto sognare, mi ha permesso di fare cose che altri non fanno in dieci vite. Senza di lui forse oggi sarei un ex direttore di banca in pensione.” 

Entrò in politica per farsi gli affari suoi?

"Credeva nella possibilità di fare dell'Italia la prima nazione in Europa. Ma è vero che in quegli anni c'erano dei rischi che gravavano sulle sue attività. Mi ricordo benissimo quando il Credito Italiano gli chiese di rientrare con il prestito. Capimmo che volevano fare con lui quello che già avevano fatto con Rizzoli". Spolparlo. "E allora reagimmo. La discesa in campo fu anche una difesa dell'azienda. Ma lui ci credeva al progetto di trasformare l'Italia".

A lei non piace Salvini.

"Per niente. Preferisco quelli che non urlano, che non sparano minchiate dalla mattina alla sera, che parlano poco. Meno parli più fai. E infatti Draghi mi ha convinto, mi piace lo stile. E mi fa anche simpatia epidermica. Non va neanche in televisione. Fantastico". 

 E Giorgia Meloni?

"Che le devo dire? E' brava. Ma è un'altra urlatrice. Dovrebbe lavorare sul tono. E' come se un attore, invece di conquistare la platea suadendo, cerchi di assordarla gridando. La gente brava la dovevamo portare noi prima". 

E invece?

"E invece è andata male. Il Berlusconi politico non c'è riuscito. Dopo di lui non resta niente. Mentre nel mondo dell'impresa è stato diverso".

L'Espresso: da Angelucci ai Berlusconi la mappa dei tesori offshore. Nelle nuove rivelazioni dei Pandora Papers anche l'imprenditore Alessandro Falciai, ex presidente di Mps, e la vedova De Michelis. La Repubblica il 15 ottobre 2021. Le azioni al portatore di Marina Berlusconi a Panama. Il condono fiscale e la tesoreria ai Caraibi dell’imprenditore-editore Giampaolo Angelucci. Le casseforti panamensi di Alessandro Falciai, l’ex presidente del Monte dei Paschi di Siena. Il trust a Singapore intestato all’ex ministro Gianni De Michelis, scomparso tre anni fa ma creato da sua moglie, Stefania Tucci, condannata per riciclaggio delle tangenti dell’amico faccendiere Luigi Bisignani. La società esotica aperta del presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca, mentre era senatore di Forza Italia. Sono le storie di offshore, finora sconosciute, degli italiani con parte del patrimonio all’estero, rivelate dall’inchiesta Pandora Papers, il monumentale lavoro di ricostruzione dei flussi di denaro nei paradisi fiscali, condotto dal consorzio Icij e per l’Italia, in esclusiva, dai giornalisti dell’Espresso Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti. 

Nel numero in edicola domani con Repubblica, L’Espresso focalizza l’attenzione sugli affari degli italiani indicati come Pep, «Persone esposte politicamente», dalle 14 società internazionali di gestione fiduciaria delle loro ricchezze. Un marchio imposto dalle leggi anti-riciclaggio per segnalare i titolari di cariche politiche o ruoli pubblici e i loro familiari che dovrebbe far scattare verifiche sui beneficiari e sull’origine dei fondi. I controlli, sulla carta, si fanno anche nei paradisi fiscali, ma restano un segreto professionale dei fiduciari. 

Pandora Papers, così l'amico di Vladimir Putin ha pagato milioni all'uomo di Silvio Berlusconi a Mosca. di Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti Grittani su L’Espresso il 15 ottobre 2021. Dai documenti dell’inchiesta di Icij e L’Espresso emergono gli affari offshore dell’ex manager Fininvest Angelo Codignoni. Finanziato via Caraibi e Montecarlo dall'oligarca Yuri Kovalchuk, che con l'appoggio del Cremlino ha creato dal nulla un impero mediatico. Un viaggio al centro del potere di Vladimir Putin, nel labirinto finanziario dei miliardari legati a filo doppio al Cremlino. I Pandora Papers gettano un fascio di luce sugli affari riservati degli oligarchi, la casta di intoccabili che dominano l’economia russa, e svelano legami d’affari con un manager italiano vicinissimo a Silvio Berlusconi. Il colossale archivio scoperchiato dal consorzio giornalistico Icij e, in Italia, dall’Espresso permette di seguire la pista dei soldi che dai palazzi di Mosca e San Pietroburgo conduce fino ai paradisi fiscali dei Caraibi. E dalle carte emerge il nome di Angelo Codignoni, che per almeno un decennio è stato descritto come l’anello di collegamento operativo tra il presidente russo e il leader di Forza Italia. I documenti raccontano di pagamenti per milioni di euro e per la prima volta svelano l’identità dei proprietari delle casseforti offshore che ricevono il denaro. Uno dei protagonisti di queste operazioni è proprio Codignoni, morto improvvisamente un paio di mesi fa in Russia, di cui era diventato cittadino nel 2015. In Italia la notizia è passata quasi del tutto inosservata sui media, con l’eccezione di una mezza dozzina di necrologi sul Corriere della Sera, compreso quello di Marina Berlusconi. Il manager cresciuto nelle fila della Fininvest, destinato ad accumulare onori e cariche all’ombra del Cremlino, è uscito di scena a 74 anni lasciandosi alle spalle una lunga scia di segreti. Adesso però i Pandora Papers alzano il velo sui suoi rapporti con l’oligarca Yuri Kovalchuk, al vertice della potentissima Bank Rossiya, più volte descritta come la banca personale di Putin. Il denaro rimbalza da un indirizzo offshore all’altro e tra le carte analizzate dall’Espresso c’è un contratto datato 30 giugno 2014 tra la Momentum Overseas delle British Virgin Islands (BVI) e la Telcrest investment di Cipro. Quest’ultima, secondo quanto si legge nel documento, si impegna a pagare alla prima 2,945 milioni di euro all’anno, divisi in 12 rate mensili, come compenso per non meglio precisati «servizi». A chi sono riconducibili queste due società? Momentum Overseas porta a Codignoni, a cui, si scopre nell’archivio segreto, sono stati affidati tutti i poteri di gestione e di rappresentanza dell’offshore caraibica. Telcrest, invece, faceva capo a Bank Rossiya e quindi all’oligarca Kovalchuk. All’epoca, la stessa holding cipriota controllava una quota del 25 per cento del gruppo televisivo russo Ctc. A questo punto si torna di nuovo a Codignoni, che fin da giugno del 2011 era approdato nel consiglio di amministrazione di Ctc, per poi esserne subito promosso al vertice con i gradi di co-presidente. Per il manager berlusconiano quella di un decennio fa è stata l’ennesima svolta di una carriera che lo aveva visto esordire in Francia negli anni Ottanta come responsabile della Cinq, un tentativo di replicare Oltralpe il successo di Canale 5, con esito fallimentare. Il suo nome compare per la prima volta nelle cronache politiche nel 1993, quando il Cavaliere gli affida l’organizzazione dei club di Forza Italia, da cui è nato il partito. L’incarico si esaurisce poco dopo la vittoria elettorale e Codignoni torna subito a occuparsi di tv, al vertice di Eurosport e poi di Sportitalia. Di lì a poco, l’ex braccio destro di Berlusconi si mette in proprio come consulente, apre una società a Montecarlo, la Acceleration Management, e sbarca in Russia preceduto dalla fama di mago della tv e della pubblicità. In quegli stessi anni i rapporti tra Berlusconi e Putin si sono fatti sempre più stretti, scanditi dagli incontri ufficiali come uomini di Stato e le rimpatriate tra amici in Costa Smeralda o nella dacia presidenziale sul mar Nero. Il nuovo zar aveva bisogno di controllare i media per consolidare il suo potere e ci è riuscito adottando la stessa strategia che gli ha permesso di portare sotto il controllo del Cremlino tutti i settori chiave dell’economia, dall’energia alle banche. Lo schema è semplice: le maggiori imprese russe vengono scalate da imprenditori che devono il loro successo ai rapporti privilegiati con il presidente russo. Kovalchuk è uno di questi boiardi, uno dei più vicini a Putin. Bank Rossiya, che era un piccolo istituto di credito di San Pietroburgo, nell’arco di un ventennio è diventato un colosso finanziario rilevando a prezzi di saldo aziende messe in vendita da gruppi di Stato come Gazprom. È il caso per esempio di Sogaz, una delle più grandi compagnie di assicurazioni del Paese. Tra i soci forti della banca si sono alternati altri amici personali del capo del Cremlino, come Gennady Timchenko, che ha fatto fortuna con il trading petrolifero, mentre una quota del 3 per cento, che vale decine di milioni di euro, appartiene a Svetlana Krivonogikh, la donna, ora ricchissima, che secondo la stampa russa indipendente ha avuto una lunga relazione sentimentale con Putin, da cui nel 2003 sarebbe nata anche una figlia. Mentre accumulava miliardi al comando di Bank Rossiya, il riservatissimo Kovalchuk (di lui si ricorda una sola intervista) ha anche creato un impero mediatico che non ha eguali in Russia. Il primo passo di questa nuova scalata risale al 2005, quando l’oligarca comprò una partecipazione in una piccola tv di proprietà del comune di San Pietroburgo. L’emittente, che si chiamava, guarda caso, Canale 5, l’anno dopo ottenne dal governo di Mosca la licenza per rilevare frequenze in 30 regioni del Paese. Codignoni entra in scena quando l’oligarca amico di Putin sta consolidando il suo potere nel sistema televisivo russo. Con incarichi ai massimi livelli: l’ex braccio destro di Berlusconi è stato cooptato nel consiglio d’amministrazione del National Media Group (Nmg), la holding di Mosca che ha rilevato il controllo di Ctc, a cui poi si sono aggiungi altri canali televisivi, aziende pubblicitarie e case di produzione cinematografica. Adesso i Pandora Papers illuminano l’altra faccia, quella fin qui nascosta, dell’irresistibile ascesa dell’uomo Fininvest emigrato in Russia alla corte del banchiere di Putin. L’archivio segreto rimanda per esempio a un contratto del gennaio 2014 tra la Momentum Overseas delle British Virgin Islands e la Acceleration Management Solutions, la società di Codignoni a Montecarlo. Quest’ultima si impegna a fornire servizi di consulenza alla offshore in merito, si legge nelle carte, alla partecipazione al board della Ctc, il colosso mediatico di Kovalchuk. Il compenso per la consulenza viene fissato in 1,8 milioni di euro all’anno. In base a questo contratto, quindi, una offshore caraibica gestita dall’ex manager berlusconiano avrebbe alimentato i conti bancari di un’altra società controllata dallo stesso Codignoni. Per avere lumi sulle motivazioni di questi movimenti di denaro, L’Espresso ha contattato gli uffici di Montecarlo della Acceleration Management, che è diretta da Mauro Sipsz, per molti anni socio e collaboratore, anche in Russia, di Codignoni. Le nostre domande sono però rimaste senza risposta. Così come gli interrogativi che riguardano altre sponde nei paradisi fiscali che i Pandora Papers attribuiscono all’ex collaboratore di Berlusconi. L’elenco comprende altre offshore come Baynen International, con sede a Panama, Alcott Services e Sunlight Corporate, registrate invece alle British Virgin Islands. Secondo questi documenti, gli affari di Codignoni hanno continuato a rimbalzare per un decennio tra Mosca, Montecarlo e i Caraibi. Il rapporto strettissimo con Kovalchuk non si è interrotto neppure dopo che Bank Rossiya, nel marzo del 2014, è stata colpita dalle sanzioni economiche decise dall’amministrazione statunitense e dall’Unione europea per punire Putin e i suoi fedelissimi dopo l’invasione russa della Crimea. Fino all’estate scorsa, il nome del manager italiano compariva ancora, in particolare, tra gli amministratori di Abr Management, la holding che controlla le attività di Bank Rossiya: il cuore del sistema Kovalchuk. Questione di affari, ma anche di sport. Codignoni, grande appassionato di motori, faceva parte anche dell’advisory board di Igora Drive, la società che ha costruito l’autodromo alle porte di San Pietroburgo dove a partire dal 2023 si svolgerà il Gran premio di Russia di Formula Uno. Un progetto sponsorizzato, manco a dirlo, da Putin in persona.

Pandora Papers, da Marina Berlusconi ad Angelucci ecco i personaggi legati alla politica con le offshore ai Caraibi. La villa alle Bermuda della figlia del leader di Forza Italia. Lo scudo fiscale dell’editore di Libero. Le cassaforti a Panama dell’ex presidente di Mps. Il trust di De Michelis e della vedova. E la tesoreria dell’ex senatore Bernabò Bocca. Sono le “Persone esposte politicamente” svelate nelle carte riservate dei fiduciari. Paolo Biondani, Vittorio Malagutti, Leo Sisti su L'Espresso il 15 ottobre 2021. Le azioni al portatore di Marina Berlusconi a Panama. Il condono fiscale e la tesoreria ai Caraibi dell’imprenditore ed editore Giampaolo Angelucci. Le casseforti panamensi di Alessandro Falciai, l’ex presidente del Monte dei Paschi di Siena. Il trust a Singapore intestato all’ex ministro Gianni De Michelis, ma creato da sua moglie, Stefania Tucci, condannata per riciclaggio delle tangenti dell’amico Luigi Bisignani. La società esotica aperta del presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca, mentre era senatore di Forza Italia. Sono storie di offshore, finora sconosciute, che riguardano italiani che hanno trasferito una parte del proprio patrimonio nei paradisi fiscali. Sono affari che riguardano «Persone esposte politicamente» (Pep), così come le classificano le 14 società internazionali di gestione fiduciaria delle ricchezze dei vip che sono al centro dell’inchiesta giornalistica Pandora Papers. Il marchio Pep è imposto dalle leggi anti-riciclaggio per segnalare i titolari di cariche politiche o ruoli pubblici e i loro familiari. L’etichetta dovrebbe far scattare verifiche sui beneficiari e sull’origine dei fondi incassati dalle loro offshore, con obbligo di comunicare nomi e cifre alle autorità interessate. Questi controlli, sulla carta, si fanno anche nei paradisi fiscali, ma restano un segreto professionale dei fiduciari. Di fatto nei Pandora Papers non si trova nemmeno una segnalazione sui Pep italiani.

 La villa di Marina alle Bermuda

Nelle carte ottenute dal consorzio Icij e in Italia dall’Espresso spicca il nome di Marina Berlusconi, registrata come titolare effettiva di una società delle British Virgin Islands, chiamata Bridgestone Properties Limited. L’imprenditrice è schedata come Pep in quanto «figlia del leader di Forza Italia ed ex capo del governo». Il nome di quella offshore era emerso con le indagini milanesi degli anni ’90, che la collegavano però al padre. La Bridgestone rientrava infatti nell’elenco delle società estere da tenere riservate («Fininvest Group B very discreet»), sequestrato all’avvocato inglese David Mills, poi diventato testimone e quindi imputato con Silvio Berlusconi. La difesa ha sempre smentito qualsiasi legame tra le offshore e la Fininvest. Ora si scopre che per molti anni, dal 1991 al 2009, la proprietà della Bridgestone è stata attribuita all’anonimo possessore («bearer») di azioni al portatore emesse dallo studio Alcogal di Panama. I titoli di questo tipo, senza nomi, sono stati proibiti in Italia già dalla fine degli anni ’80, con la prima Convenzione internazionale contro il riciclaggio. Poi però le azioni sono state intestate a Marina Berlusconi, il 30 novembre 2009. Con una curiosa coincidenza: nella stessa data è stata pubblicata la circolare applicativa dello scudo fiscale varato dall’allora ministro Giulio Tremonti. Quando era ancora anonima, la Bridgestone ha acquistato dal gruppo Fininvest, per 12,2 milioni, uno yacht e una villa nelle Isole Bermuda, poi affittata a Marina Berlusconi, indicata negli atti solo come inquilina. Come referente finanziario, i fiduciari di Panama indicano la banca Cfm di Montecarlo, e annotano che il cliente è stato procurato da un’altra offshore, Granite Alliance Ltd, tuttora misteriosa. Marina Berlusconi ha risposto alle domande dell’Espresso, attraverso l’avvocato Niccolò Ghedini. Il legale spiega, per prima cosa, che i processi e le sentenze sul caso Mills «confermarono l’assoluta estraneità della signora Marina Berlusconi alla storia pregressa della Bridgestone, così come a ogni atto men che lecito». Il difensore precisa che a quella società, tuttora attiva, «fa capo unicamente la villa alle Bermuda, i cui beni sono ad esclusiva disposizione della proprietà, ovvero Marina Berlusconi» e «compare regolarmente nella sua dichiarazione dei redditi». L’avvocato Ghedini non specifica come e quando sia stata regolarizzata la offshore, e se la sua cliente abbia approfittato dello scudo fiscale. Oggi, comunque, «Marina Berlusconi non ha alcun altro tipo di attività o proprietà intestate a offshore e ha un giudizio totalmente critico sulle società che non adempiano i loro doveri fiscali in Italia».

Angelucci con lo scudo ai Caraibi

I Pandora Papers rivelano anche l’architettura estera più riservata del gruppo fondato da Antonio Angelucci, imprenditore e parlamentare di Forza Italia. E fanno luce su una offshore intestata a uno dei figli, Giampaolo Angelucci, che ha guidato per anni la holding di famiglia in Lussemburgo. In Italia il gruppo controlla ospedali con migliaia di posti letto, quotidiani di centrodestra come Il Tempo e Libero, e altre attività. La società offshore, mai emersa prima, si chiama Walla Invester Limited e ha sede nelle British Virgin Islands. È nata il 19 dicembre 2012, ma solo all’inizio del 2017 viene registrato come «beneficiario economico» Giampaolo Angelucci, con numero di passaporto e residenza in Lussemburgo. A gestire la offshore, come «director», è Luisella Moreschi, partner della società di consulenze fiscali Lmc, che ha assistito il gruppo Angelucci in Lussemburgo. Contattato dall’Espresso, Giampaolo Angelucci precisa: «Andavo spesso in Lussemburgo, ma non ho mai avuto la residenza fiscale all’estero. Ho sempre pagato le tasse in Italia». E la Walla delle Isole Vergini a cosa è servita? Angelucci è evasivo: «Non ricordo il motivo per cui è stata aperta nel 2017, mi pare che non abbia mai operato, poi è stata chiusa». La sua avvocata, Fulvia Astolfi, precisa che «la struttura del gruppo è stata ampiamente scrutinata dall'amministrazione finanziaria», con «verifiche e accertamenti che hanno trovato definizione tombale per tutte le posizioni». Mentre «il dottor Giampaolo Angelucci personalmente ha fatto ricorso a strumenti normativi quali lo scudo fiscale». A confermarlo è lo stesso Angelucci: «Siamo stati sottoposti a un procedimento fiscale, per tre anni la Guardia di Finanza ha analizzato contabilità e bilanci. Abbiamo chiuso la vertenza pagando una cifra con numerosi zeri». Ma come ha fatto a condonare con lo scudo del 2009-2010 una offshore del 2017? La Walla è stata sanata più tardi con una voluntary disclosure? È l’unica domanda rimasta per ora senza risposta. Il banchiere di Siena e gli yacht Alessandro Falciai è un manager entrato nel consiglio d’amministrazione del Monte dei Paschi nell’aprile 2015, dopo esserne diventato azionista con l’1,8 per cento, ed è stato presidente della grande e disastrata banca di Siena dal novembre 2016 al dicembre 2017, con l’appoggio del governo Renzi. Nei Pandora Papers appare come beneficiario di due società anonime di Panama. La prima, Mm Mc, è stata costituita nel 2013 e ha operato fino al 2019. La seconda, Vega Resources, è nata sempre nel 2013 e risulta tuttora attiva. Le due società estere non sono menzionate nelle sue dichiarazioni patrimoniali obbligatorie, pubblicate dalla banca. Interpellato dall’Espresso, Falciai ha spiegato che quelle offshore «sono state aperte per facilitare un’operazione commerciale di una mia società, Mondomarine, che è durata dal 2014 al 2016, e le loro attività sono state dichiarate al fisco italiano nel giugno 2017». Si tratta dell’azienda dei cantieri navali di Savona e Pisa, comprati dal manager con la fortuna incassata vendendo al gruppo Fininvest la società Dmt, con la speranza di rilanciarli. Mondomarine invece è fallita. E dopo aver denunciato le precedenti gestioni, nel 2017 Falciai si è ritrovato lui stesso indagato e ha rinunciato alla presidenza della banca, a cui era stato candidato dal ministero dell’Economia. Ricontattato dall’Espresso, Falciai ha chiarito, tramite un portavoce, che le offshore panamensi non hanno mai ricevuto denaro suo: hanno incassato il prezzo di due yacht, venduti a clienti italiani con i soldi all’estero, che lui ha riportato in Italia. Facendo una doppia voluntary disclosure, sia come persona che come società: un tipo di condono che a differenza dello scudo non garantisce l’anonimato e va comunicato al fisco, a costi più alti. 

Il trust dei coniugi De Michelis

Dai Pandora Papers emerge anche un ricco patrimonio estero intestato a un protagonista della storia politica italiana, scomparso due anni fa. Nel 1994, quando fu travolto dall’inchiesta Mani Pulite, Gianni De Michelis, parlamentare socialista dal 1976 e più volte ministro, ammise di aver ricevuto soldi in nero da decine di imprese, ma giurò di non essersi arricchito: gestiva tutto il suo portaborse, per pagare i costi della politica. Ora si scopre che, passata la bufera, il politico veneziano è stato registrato come beneficiario di un fondo offshore con base a Singapore, Emerald Trust, insieme alla moglie Stefania Tucci. La signora inoltre è l’unica titolare di un’altra società estera, Wealth Info Holdings Limited, creata a Hong Kong il 18 aprile 2007, che risulta tuttora attiva. I fiduciari di Asiacity attribuiscono al trust un conto nella filiale di Antigua della banca svizzera Pkb, che ha movimentato per anni diversi milioni di dollari, provenienti dalla offshore della moglie. De Michelis è morto nel 2019 dopo una lunga malattia. Asiacity ha schedato entrambi i coniugi come personaggi ad alto rischio legati alla politica («High Risk Pep») quando De Michelis è diventato europarlamentare, dal 2004 al 2009, ma non ha mai segnalato nulla alle autorità italiane. La signora Tucci De Michelis lavora da vent’anni a Londra come consulente fiscale e ha avuto stretti rapporti con Luigi Bisignani, il faccendiere più potente d’Italia. L’amicizia le è costata un infortunio: è stata condannata con l’accusa di riciclaggio, nel 2018, per aver aiutato Bisignani a portare in Italia e investire a Roma, tramite società offshore, circa due milioni di euro: un quinto delle tangenti incassate dal faccendiere con lo scandalo Enimont. Anche Bisignani è stato condannato in quel processo-simbolo, come De Michelis e altri big. La signora ha risposto a tutte le domande dell’Espresso, chiarendo di essere la vedova di De Michelis, da cui si era separata nel 1999, ma non ha mai divorziato. «Il trust era mio ed è stato liquidato nel 2016-2017. Mio marito non era al corrente di esserne beneficiario. L’avevo designato per fargli ereditare i miei beni in caso di mia morte. Per quanto ne so, mio marito non ha mai percepito redditi all’estero». La vedova di De Michelis risponde anche sulla propria offshore: «La Wealth Info Holdings è tutt’ora in vita anche se negli ultimi anni non operativa. È stata costituita a Hong Kong per svolgere consulenze per soggetti interessati a relazioni commerciali con la Cina, che conosco molto bene. Dal 1999 sono residente a Londra e presento la dichiarazione dei redditi in Gran Bretagna, con tutte le attività che mi riguardano. Il conto ad Antigua è stato chiuso e le mie disponibilità trasferite regolarmente a Londra quando fu liquidato il trust. Non ho mai avuto conti esteri non dichiarati al fisco inglese. A Napoli ho ricevuto 17 avvisi di garanzia e ho riportato un’unica condanna, molto ingiusta».

Bocca e l’offshore dimenticata

Il presidente della Federalberghi, la lobby degli albergatori italiani, è registrato come titolare di una società anonima di Panama, Breckier Investments. La offshore è nata il 24 ottobre 2013, è rimasta attiva fino al 2019-2020 e risulta cancellata nel giugno 2021. Bernabò Bocca è stato schedato come Pep perché negli stessi anni, dal 2013 al 2018, è stato senatore di Forza Italia. La società estera però non compare nelle sue dichiarazioni patrimoniali, obbligatorie per i parlamentari, pubblicate dal Senato. La offshore è stata creata dallo studio Alcogal di Panama, che come referente finanziario del politico italiano indica un banchiere svizzero della PKB Private Bank. Alle nostre domande, Bernabò Bocca ha dato solo una breve risposta: «In riferimento alla casa di Panama City, l'immobile è stato regolarmente inserito nella dichiarazione dei redditi». L’Espresso lo ha ricontattato per sapere se la offshore possedesse conti bancari, oltre alla casa, e perché si è dimenticato di dichiararla al Senato. Nessuna risposta, almeno per ora. 

Dagospia il 15 ottobre 2021. Riceviamo e pubblichiamo. La nota inviata dall'avvocato Niccolò Ghedini a "L'Espresso". Le passate vicende in cui si inserivano le dichiarazioni dell’avvocato Mills da voi citate (peraltro estrapolando alcuni passaggi in maniera parziale e dunque fuorviante, senza dar conto delle successive dichiarazioni dello stesso Mills) chiarirono totalmente l’assoluta estraneità della signora Marina Berlusconi alla storia pregressa della società Bridgestone Properties Limited così come ad ogni atto men che lecito. Estraneità confermata dalle decisioni dell’autorità giudiziaria, che escluse qualsiasi coinvolgimento della signora Berlusconi. La Bridgestone Properties Limited, cui fa capo unicamente la villa della signora Berlusconi alle Isole Bermuda, è una società immobiliare i cui beni sono ad esclusiva disposizione della proprietà, ovvero Marina Berlusconi. Compare regolarmente nella dichiarazione dei redditi che la signora Berlusconi presenta annualmente al fisco italiano, e su di essa vengono pagate tutte le tasse e le imposte previste dal nostro ordinamento tributario. Non esiste dunque alcun beneficio fiscale o di altro tipo. Per quanto riguarda lo “yacht” da voi citato, l’unica imbarcazione utilizzata dalla famiglia alle Isole Bermuda è un vecchio motoscafo di circa 10 metri ormai da più di vent’anni in disuso e ricoverato in un cantiere navale della Bermuda stessa. La signora Berlusconi, visti i suoi impegni, naturalmente non si occupa della gestione burocratica della società e della casa, avendo demandato in toto il compito ad un noto professionista monegasco, l’avvocato Maurizio Cohen, che agisce in completa autonomia. La signora Berlusconi non ha alcun altro tipo di attività o proprietà intestate a società cosiddette offshore. Il suo giudizio sull’utilizzo di dette società è totalmente critico, quando non rispettino la legislazione fiscale nazionale e non adempiano ai loro doveri fiscali in Italia. Ovviamente ogni illazione o ricostruzione non aderente alla realtà fattuale, così come ogni violazione della privacy, sarà perseguita nelle sedi più opportune. Avv. Niccolò Ghedini

Estratto dell’articolo di Paolo Biondani, Vittorio Malagutti, Leo Sisti per espresso.repubblica.it il 15 ottobre 2021. Le azioni al portatore di Marina Berlusconi a Panama. Il condono fiscale e la tesoreria ai Caraibi dell’imprenditore ed editore Giampaolo Angelucci. Le casseforti panamensi di Alessandro Falciai, l’ex presidente del Monte dei Paschi di Siena. Il trust a Singapore intestato all’ex ministro Gianni De Michelis, ma creato da sua moglie, Stefania Tucci, condannata per riciclaggio delle tangenti dell’amico Luigi Bisignani. La società esotica aperta del presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca, mentre era senatore di Forza Italia. Sono storie di offshore, finora sconosciute, che riguardano italiani che hanno trasferito una parte del proprio patrimonio nei paradisi fiscali. Sono affari che riguardano «Persone esposte politicamente» (Pep), così come le classificano le 14 società internazionali di gestione fiduciaria delle ricchezze dei vip che sono al centro dell’inchiesta giornalistica Pandora Papers. Il marchio Pep è imposto dalle leggi anti-riciclaggio per segnalare i titolari di cariche politiche o ruoli pubblici e i loro familiari. L’etichetta dovrebbe far scattare verifiche sui beneficiari e sull’origine dei fondi incassati dalle loro offshore, con obbligo di comunicare nomi e cifre alle autorità interessate. Questi controlli, sulla carta, si fanno anche nei paradisi fiscali, ma restano un segreto professionale dei fiduciari. Di fatto nei Pandora Papers non si trova nemmeno una segnalazione sui Pep italiani. (…)

Da corriere.it il 3 ottobre 2021. «Signor presidente, caro Silvio, in occasione del suo 85esimo compleanno, le porgo i miei più cordiali auguri...». Inizia così la lettera d’auguri inviata da Angela Merkel a Silvio Berlusconi per gli 85 anni compiuti dal leader venerdì scorso dal presidente di Forza Italia. La cancelliera tedesca — che negli anni ha avuto alti e basi nel rapporto con l’ex premier finché il loro legame non si è consolidato — si rivolge a Berlusconi con un formale «lei» ma poi ricorre anche un familiare «caro Silvio». Merkel sottolinea il «contributo essenziale» del Cavaliere «offerto alla politica italiana per molti anni in qualità di presidente del Consiglio. Ho sempre considerato importante lo scambio diretto e aperto con Lei per il bene dei nostri due Paesi. Per il suo nuovo anno di vita, le auguro ogni bene, soprattutto salute e benessere personale», conclude la sua missiva Merkel. Ad augurare buon compleanno a Berlusconi anche il presidente russo: «Mi ha telefonato l’amico Putin per farmi gli auguri — ha detto il leader azzurro— e gli ho detto esattamente questo: Vladi, non te lo dico per piaggeria, perché mi conosci e sai che sono sempre sincero, ma ormai nel mondo l’unico vero grande leader rimasto sei solo tu. Si è fatto una risata, ma la mia non è una battuta, è la semplice verità».

Estratto dell'articolo da "Libero quotidiano" il 30 settembre 2021. [...] "Non mi occupo di smentite dello staff di Berlusconi. Ho avuto una conversazione con il leader di Forza Italia nel giorno del suo compleanno. Non ho difficoltà a riportare lo sbobinato", ribatte Giannini.

Giannini conferma tutto: "Ho le prove". Il giallo dell’intervista-fantasma a Berlusconi: Forza Italia smentisce le parole che affondano Salvini e Meloni. Redazione su Il Riformista il 30 Settembre 2021. Il colloquio di Silvio Berlusconi con La Stampa e il suo direttore, Massimo Giannini, diventano un caso politico. Una intervista ricca di spunti e che avevano già iniziato a creare forti polemiche nella coalizione, fino a quando interviene Forza Italia che smentisce tutto: “Il presidente non ha mai rilasciato alcuna intervista, e smentisce le parole a lui attribuite”. Ma cosa aveva detto l’ex premier? Il Cavaliere non aveva risparmiato stoccate ai suoi alleati nel campo del centrodestra, Matteo Salvini e Giorgia Meloni. L’auspicio di Berlusconi, secondo quanto riportato stamattina da La Stampa, era che “Draghi deve durare”, anche perché se l’ex numero uno della Bce “va a fare il presidente della Repubblica poi a chi dà l’incarico di fare il nuovo governo? A Salvini? Alla Meloni? Ma dai, non scherziamo”. Un affondo senza precedenti che aveva ovviamente fatto storcere il naso al duo, uscito malconcio dal colloquio con Giannini di Berlusconi. Quindi la corsa alla smentita, con Forza Italia che smentisce non solo le parole ma l’esistenza stessa di un colloquio. Dall’altra parte però Giannini non fa marcia indietro. Il direttore del giornale di Torino ribadisce, ospite di ‘Radio Anch’io’ su Rai radio1, di avere avuto “una conversazione con il leader di Forza Italia nel giorno del suo compleanno, non ho difficoltà a riportare lo sbobinato”. Quanto alla nota del partito azzurro “non mi occupo di smentite dello staff di Berlusconi”, chiarisce Giannini. La smentita di Forza Italia, almeno ufficialmente, sembra aver placato gli animi del centrodestra. Matteo Salvini dal canto suo infatti questa mattina spiega di non voler commentare “interviste smentite, mi fido di Berlusconi”. Il Cavaliere incassa invece la solidarietà da parte di Giorgia Meloni: “Ieri mi sono svegliata e ho trovato su ben due giornali un titolo virgolettato attribuito a me di una frase che non ho mai detto. Quindi prendo queste dichiarazioni sempre con un po’ di beneficio del dubbio”, dice la leader di Fratelli d’Italia. Un colloquio in cui Berlusconi era intervenuto con parole ‘poco diplomatiche’ anche sull’indagine riguardante Luca Morisi, l’ex guru social della Lega di Matteo Salvini indagato per una presunta cessione di stupefacenti. Secondo l’ex premier “è chiaro che questa vicenda è un danno per Salvini e per la Lega. Quando c’è di mezzo la droga, poi, ci si fa sempre del male. Però se andiamo a vedere bene, alla fine il caso politico non esiste. Stiamo sempre a parlare di lesbiche e di omosessuali. In fondo Morisi che ha fatto? Aveva solo il difetto di essere gay…”, le parole riportate del leader azzurro.

(Adnkronos il 30 settembre 2021) - «Il presidente Silvio Berlusconi non ha mai rilasciato alcuna intervista a 'La Stampà e smentisce le parole a lui attribuite». È quanto si legge in una nota.  

M. Gia. per "la Stampa" il 30 settembre 2021. «Sto bene, sto molto bene, e sono pronto a tornare in campo. E sa che le dico? Ce n'è bisogno, con questa penuria di classe dirigente che abbiamo». Chi lo dà per politicamente morto, chi lo dà per moralmente depresso, chi lo dà per mentalmente bollito. È il destino di Silvio Berlusconi, da qualche anno a questa parte. Lui l'ha in parte avvalorato, con i ricoveri ormai quasi settimanali al San Raffaele, non sai più se necessitati da patologie sanitarie o consigliati da idiosincrasie giudiziarie. Certo è che a sentirlo parlare al telefono, nel giorno delle sue ottantacinque primavere e nel pieno di una tormenta politica che squassa il centrodestra, tutto si direbbe fuorché si tratti di un "anziano" in disarmo. Al contrario. «Finalmente mi sento in forma», dice il Cavaliere sempre più insofferente per il suo lockdown nella Villa di Arcore. «E sa qual è la buona notizia di oggi? È che forse già da lunedì prossimo i medici mi daranno via libera per tornare a Roma, dove voglio riprendere subito a lavorare, per rilanciare Forza Italia e per unire il centrodestra». «Vaste programme», direbbe il solito generale De Gaulle. Con Forza Italia che sta annaspando, la Lega di Salvini che sta implodendo e i Fratelli d'Italia della Meloni che stanno dilagando. «Ha ragione - ammette Berlusconi - ma non è solo il centrodestra che è in difficoltà, è tutta la politica italiana che è in confusione totale. Anzi, le dirò di più: lo è tutta la politica internazionale. Guardi quello che sta succedendo in Europa, guardi quello che sta succedendo soprattutto in Germania, dove di fatto non ha vinto nessuno e Scholz pretende di formare il suo nuovo governo. Ma io lo conosco bene il signor Scholz, e le assicuro che è un politico modesto. Troppo modesto per guidare un grande Paese come la Germania, che esce dai sedici anni di Angela Merkel». Mancano in giro «statisti» all'altezza della fase e del ruolo, si lamenta il Cavaliere. Con tutta evidenza pensando, senza dirlo, a se stesso. «Le confesso una cosa. Poco fa mi ha telefonato l'amico Putin per farmi gli auguri, e gli ho detto esattamente questo: Vladi, non te lo dico per piaggeria, perché mi conosci e sai che sono sempre sincero, ma ormai nel mondo l'unico vero grande leader rimasto sei solo tu. Si è fatto una risata, ma la mia non è una battuta, è la semplice verità». Non conta Navalny in galera, non conta la Crimea. Forse contano i "Na Zdorovje" a base di vodka nella dacia sul Mar Nero, contano le cene eleganti a Villa Certosa, conta il famoso "lettone" fatto trasvolare direttamente da Mosca. Ormai si sa, il Cavaliere ha idee originali sulla democrazia e sulla diplomazia. Non sarà che alzare gli occhi sul mondo è solo un trucco per non guardare alle miserie del fu glorioso "Popolo delle Libertà"? In realtà sui destini della sua creatura politica l'uomo di Arcore è altrettanto severo. «È chiaro che abbiamo problemi, ma proprio per questo voglio tornare in campo al più presto. Anche in questo caso mancano i leader». Fosse solo questo. Alle lotte interne sulla guida della coalizione, alle pessime scelte sui candidati, alle ambiguità strategiche tra sovranismo ed europeismo, adesso si sommano anche le inchieste su Luca Morisi e le richieste di Giancarlo Giorgetti. Un doppio terremoto, che fa sbandare il Carroccio e smottare tutto il campo della destra. Berlusconi ne è consapevole: «Ma sì, è chiaro che questa vicenda è un danno per Salvini e per la Lega. Quando c'è di mezzo la droga, poi, ci si fa sempre del male. Però se andiamo a vedere bene, alla fine il caso politico non esiste. Stiamo sempre a parlare di lesbiche e di omosessuali. In fondo Morisi che ha fatto? Aveva solo il difetto di essere gay». Non andiamo oltre, per carità di patria. E restiamo alla politica. La linea del Cav è nota ed è sempre la stessa: a destra serve un partito unico, dove l'anima "moderata" e occidentale di Forza Italia deve bilanciare quella "populista" della Lega e di Fdi. «Nelle democrazie mature di tipo anglosassone, le idee del centro e della destra democratica - come ha detto a "Fortune" - sono espresse da un solo partito, come i Repubblicani negli Stati Uniti o i Conservatori nel Regno Unito. Un partito nel quale convivono anime diverse e dove vi è una virtuosa competizione interna. Io credo che non sia un sogno quello di realizzare un partito simile anche in Italia"» Nonostante le enormi difficoltà del momento, par di capire, l'obiettivo rimane questo. E anche qui varrebbe lo scettico preambolo di De Gaulle. Tanto più se la Resistibile Armata del centrodestra dovesse uscire sconfitta, magari addirittura per 5 a 0, dal voto delle grandi città di domenica e lunedì prossimi. Il leader azzurro sembra averlo messo nel conto. Ma a maggior ragione la risposta deve essere un rilancio unitario. Un po' come successe ai tempi della «svolta del Predellino», al culmine della battaglia tra Forza Italia e Alleanza Nazionale, che spinse Gianfranco Fini a promulgare la sentenza memorabile: «Siamo alle comiche finali» (senza capire che quelle parole, di lì a poco, avrebbero riguardato soprattutto lui, la sua signora, suo cognato e le sue case a Montecarlo). Oggi il nuovo Fini, non più per Berlusconi ma per Salvini, sembra diventato Giorgetti. L'uomo dell'«Altra Lega». La Lega dei padri, quella di Bossi e del Nord, quella dei ministri che governano il Paese e dei presidenti che governano le regioni. Quella che nell'intervista-fine-di-mondo alla «Stampa» dice «Draghi non si può far logorare dai partiti, meglio che a febbraio vada al Quirinale, dove diventa una specie di De Gaulle, e un minuto dopo torniamo tutti a votare». Di questo il Cavaliere parla malvolentieri. Forse per fatto personale, visto che lo raccontano quotidianamente impegnato a contare sul serio i possibili voti dei "grandi elettori" che gli servirebbero per ascendere al sacro soglio quirinalizio. Ma una cosa la dice. Resta convinto che «Draghi deve durare», perché al governo ha un compito troppo importante. E poi da vecchio leone conclude con l'ultima zampata per i suoi alleati. «Senta, siamo sinceri: ma se Draghi va a fare il presidente della Repubblica poi a chi dà l'incarico di fare il nuovo governo? A Salvini? Alla Meloni? Ma dai, non scherziamo». Auguri, presidente. A lei e al partito unico della destra divisa.

E Milano celebra il "Cavaliere del lavoro" "Un'epopea che ha cambiato il Paese". Paolo Bracalini l'11 Settembre 2021 su Il Giornale. Nel documentario la storia di Berlusconi, dall'edilizia alla tv privata. Milano. «È stato il mio orgoglio di imprenditore milanese, di imprenditore italiano che mi ha consentito di arrivare fino in fondo, che mi ha convinto a comprare. Avevo visto arrivare qui gli Agnelli da Torino e prendersi La Rinascente. Non si erano fermati e avevano preso anche la Rizzoli e l'Alfa Romeo. E poi è arrivato Gardini da Ravenna a prendersi la Montedison. Va bene, sono tutti simpatici, l'avvocato Agnelli e quelli di Ravenna, anche se non sono milanesi. Ma il sottoscritto, da imprenditore milanese, non poteva assolutamente sopportare di veder arrivare i francesi o i tedeschi. Non potevo permetterlo». Così spiegava Silvio Berlusconi, nel 1988 le ragioni della sua ennesima impresa (non la più fortunata), quella della Standa. È uno dei tanti tasselli della parabola del Berlusconi imprenditore in cui può «immergersi» lo spettatore del «Piano B. Il Cavaliere del lavoro», una mostra (definita appunto «immersiva» perchè in una sorta di schermo a 360 gradi) che ricostruisce «un periodo di storia italiana attraverso la biografia imprenditoriale di Silvio Berlusconi, dal preludio nel mondo del mattone all'esperienza delle televisioni private, poi il calcio e la grande distribuzione, e il loro impatto nella società italiana» scrivono i curatori della mostra (da venerdì prossimo all'Enterprise Hotel di Milano). Il racconto si ferma al 1993, per tenersi fuori dalla stagione politica berlusconiana e dalle divisioni che inevitabilmente scatenerebbe. Anche se già solo il fatto di raccontare un pezzo della vita di Berlusconi in modo non inquisitorio si espone all'accusa di averne fatto un'agiografia, o comunque di aver storicizzato il personaggio con troppo anticipo sui tempi. Se n'è accorto subito l'ideatore della mostra Edoardo Filippo Scarpellini, imprenditore, ad del gruppo Milano Card. «Ho scoperto che parlare di Berlusconi non è facile. Conoscenti e amici a cui ho accennato l'idea erano preoccupati proprio dall'idea di parlare di Berlusconi, seppure senza toccare la politica. Forse è stato sempre così in questo paese, certi nomi, certe storie si possono raccontare solo ai posteri. Da lì ho capito che dovevamo assolutamente raccontare una storia davvero epica, con tutti i suoi risvolti, che ha impattato a fondo sul Paese. Epica perché in un Paese che non cambia mai ecco che arriva dal nulla una persona e cambia tutto, interpretando la voglia di nuovo, di cambiamento che covava sotto terra in Italia». Il documentario è sceneggiato da Giuseppe Frangi, che mette subito in chiaro di non essere affatto berlusconiano, anzi al contrario di far parte dell'Italia che ha sempre guardato al berlusconismo «dall'alto in basso, da intellettuale pasoliniano», ma ha provato comunque a farlo «con l'occhio dei moltissimi italiani per cui ha rappresentato un sogno». La storia si sviluppa tra immagini, voci e musiche, con una intervista a tratti spassosa a Vittorio Sgarbi che racconta anche il Berlusconi collezionista, criticandone senza pietà le scelte in fatto di opere d'arte. Paolo Bracalini

Quell'idea nata vent'anni fa. Paolo Guzzanti il 30 Agosto 2021 su Il Giornale. Non è incredibile, ma è vero: tutto ciò che costituiva il programma liberale di Silvio Berlusconi quando fondò Forza Italia e che era stato trattato come materia risibile se non pericolosa per la democrazia, adesso diventa verbo. Non è incredibile, ma è vero: tutto ciò che costituiva il programma liberale di Silvio Berlusconi quando fondò Forza Italia e che era stato trattato come materia risibile se non pericolosa per la democrazia, adesso diventa verbo. La benemerita iniziativa è del presidente Mattarella, nella sua qualità di rappresentante della Nazione, il quale ieri ha detto che, in questi giorni sanguinosi e moralmente inaccettabili della crisi afghana, si è visto quanto sia grave la mancanza di un esercito e di una politica estera europei per agire indipendentemente da chiunque e sostenere una linea estera segnata dal coraggio e non dalla codardia. Berlusconi queste cose le diceva nel suo libro-manifesto «Il Paese che vorrei» e ovunque avesse modo di farlo, ricevendone in cambio insulti e derisioni insultanti da tutto il mondo di sinistra che lo descriveva come un gollista se non un golpista, per aver sostenuto la necessità di una forza armata europea indipendente, finora accantonata. I fatti dell'Afghanistan sono sotto i nostri occhi. L'Europa ha belato senza poter prendere iniziative perché non ha né una politica estera, né gli strumenti per sostenerne una. Il cancelliere Bismarck diceva dell'Italia di fine Ottocento che aveva pochi denti ma un grande stomaco. Oggi è l'Europa che non ha denti, benché sia più ricca e popolosa degli Stati Uniti, i quali ritirano le proprie truppe dal mondo intero, lasciando i presidi in cui hanno perso migliaia di uomini e di miliardi. Il presidente Biden sta agendo in maniera convulsa e criticabile. Ma ad emergere come vero scandalo non è tanto il fatto, annunciato, che gli americani abbandonino al loro feroce destino le donne afghane che hanno assaggiato il diritto allo studio, alla politica, all'informazione, ma l'impotenza europea nell'opporsi da soli a chi abroga questi diritti conquistati anche grazie a tutti i Paesi della coalizione, senza poter muovere un dito. Avere un esercito europeo richiederebbe due rivoluzioni: la prima per convincere Paesi come la Francia a cedere sovranità la seconda riguardante i costi: un esercito europeo costa quanto la sanità dei servizi nazionali. I contribuenti americani pagano le loro forze armate in termini di Pil in modo equivalente a quanto noi paghiamo per avere le Asl. E poi la forza morale di accettare il pedaggio di lutti, come accade in tutti i Paesi che fanno una politica estera sostenuta dalle forze armate, magari nei residui dei loro ex imperi. L'Italia non ha imperi, ma in cambio ha idee e uomini coraggiosi. Silvio Berlusconi è certamente quello che ha espresso con più coraggio ciò che gli altri si affrettavano a delegittimare. Hanno vinto finora i codardi. Ma il fatto che il presidente Sergio Mattarella abbia ieri sentito il dovere di esprimere come una necessità morale, oltre che politica, ciò che Silvio Berlusconi aveva proposto più di vent'anni fa, indica che la storia condanna all'irrilevanza coloro che oggi fanno finta di non sapere e di non ricordare. Paolo Guzzanti

Tommaso Labate per il "Corriere della Sera" il 5 agosto 2021. «Aaaahhhh, la collezione di farfalle è stata un momento meraviglioso». 

Quali farfalle?

«Berlusconi ha mostrato a Giorgia Meloni e al sottoscritto la sua splendida collezione di farfalle. Splendida. Ha delle farfalle vive e delle farfalle imbalsamate». 

Sembra una barzelletta degli anni Settanta.

«Guardi che la battuta l'ha fatta per prima la Meloni. Presidente, gli ha detto, tu sì che potevi invitare una ragazza a casa e mostrarle per davvero la collezione di farfalle». 

Ignazio La Russa racconta i dettagli della giornata trascorsa insieme a Giorgia Meloni a Villa Certosa, residenza estiva di Silvio Berlusconi in Sardegna. Lo spaccato restituisce l'immagine di un centrodestra che tende al celestiale: è tutto magico, luccicante, quasi onirico. Venivate da settimane di ruggini. 

Voi di Fratelli d'Italia esclusi dal cda della Rai

«Appena siamo entrati a Villa Certosa, Berlusconi ha detto "So che c'è stato un vulnus ai vostri danni". Giorgia ha subito chiarito che eravamo là in amicizia e per parlare di politica, non certo per capire come riparare. Lo sa che cosa c'è?».

Che cosa?

«Che a noi piace stare in una coalizione di amici, non di gente che a volte ci tratta come se fossimo avversari. E Giorgia lo ha chiarito bene. A Berlusconi abbiamo anche detto: "Abbiamo bisogno della tua autorevolezza perché la coalizione di centrodestra sia un posto dove si sta tra amici"». 

A Salvini saranno fischiate le orecchie.

«Nessuno ha attaccato Salvini, ci mancherebbe». 

La cornice di Villa Certosa ha reso tutto più bello.

«Un posto incredibile». 

Quante volte c'era stato in passato, senatore?

«Mai. Ero stato invitato tante volte ma sa, io non sono uno che sgomita per andare nei posti, soprattutto in estate».

Berlusconi era in forma?

«In forma? In formissima! Ci ha portato in giro per la villa guidando la macchinetta elettrica come un pazzo, prendeva le curve come un pilota di Formula 1. Lui e Giorgia Meloni davanti; io e la fidanzata di Berlusconi, Marta Fascina, dietro. La fidanzata gli urlava "Vai piano!". Ma lui niente». 

Dicono che il vulcano di Villa Certosa sia un must.

«Roba da non credere. Abbiamo mangiato lì sotto, di fronte a palme e laghetto. A Berlusconi ho detto: "Silvio, la vuoi sapere la differenza tra me e te? Tu hai un vulcano in casa, io in Sicilia ho la casa sotto il vulcano"».

Chissà che pranzo.

«Giorgia aveva preso solo il salmone. Silvio le ha detto di assaggiare soprattutto la parmigiana, che infatti era molto buona». 

Il tema del partito unico del centrodestra o della federazione sarà stato di contorno.

«Per poter discutere di un'operazione del genere serve una pre-condizione: che tutti assieme si stia al governo o che tutti assieme si stia all'opposizione. Quindi, questa cosa fare essere affrontata solo dopo le elezioni. Berlusconi ha fatto anche qualche accenno alla possibilità, che era un'idea di Giorgia, di fare un coordinamento parlamentare prima. La Lega ha presentato emendamenti al green pass e noi anche, giusto?». 

Giusto.

«Ecco, con un coordinamento potevamo farli assieme, no?». 

Una giornata da ricordare.

«Ospitalità meravigliosa, clima meraviglioso. Così ci piacerebbe che fosse il centrodestra, sempre». 

Sentirete più spesso Berlusconi?

«Le posizioni di Berlusconi che ci arrivano mediate dai suoi o da esponenti della Lega non sono mai come quelle che senti dalla viva voce di Berlusconi. Per evitare fraintendimenti dobbiamo parlare sempre con lui». 

Ma gliel'avete spiegato?

«E certo. E lui ha detto chiaro e tondo: "Giorgia, tu chiamami quando vuoi. Poi, se hai troppe cose da fare e non riesci, fammi chiamare da Ignazio"».

Gustavo Bialetti per "la Verità" il 5 agosto 2021. Sul Corriere di ieri, Mario Monti ha «celebrato» il decennale della lettera del 2011 di Jean-Claude Trichet e Mario Draghi. Nell'editoriale, si ritrovano tutti i classici di un repertorio inconfondibile: la mistica dello spread; l'apparente (e postuma) presa di distanza dagli «eccessi di restrizione» europei, ma preoccupandosi subito dopo di scongiurare (non sia mai!) eventuali «eccessi di condiscendenza»; e il gran finale con monito semi-jettatorio, per «evitare che si ripresentino situazioni come quelle che il nostro Paese allora dovette affrontare». Siamo insomma agli evergreen del montismo: l'austerità, la medicina amara, il vincolo esterno, il castigo inevitabile se gli italiani non fanno i bravi. Ma a un certo punto arriva il colpo di tacco, quando l'ex premier passa all'argomento preferito, e cioè sé stesso: «Anche sulla base di quella fase, umiliante e pericolosa, il governo che in novembre venne chiamato a succedere al governo Berlusconi, chiese al Paese gli sforzi necessari per superare la precaria situazione finanziaria ma non volle chiedere (né accettò, quando vennero offerti) aiuti esterni». E qui Monti immagina gli applausi del pubblico, come se gli italiani dovessero ringraziarlo per non aver detto sì all'arrivo formale della Trojka o a soluzioni «alla greca». In compenso, gli elettori si beccarono la legge Fornero e l'esplosione di una patrimoniale terrificante. Prima di Monti, le tasse sugli immobili determinavano un gettito annuo di circa 8 miliardi: con la «cura» Monti, si salì a 25 miliardi annui. E da allora, ne sono stati tolti appena 4, quelli dell'Imu prima casa. Risultato? Liquidità degli italiani prosciugata, settore immobiliare fatto a pezzi, e perdita secca di valore degli immobili. Con professori così, a che serve la Trojka?

Marco Palombi per il "Fatto quotidiano" il 5 agosto 2021. Oggi è l'anniversario tondo: giusto 10 anni fa, a Silvio Berlusconi arrivò la letterina della Bce che mise in mora il suo governo e l'Italia, innescando l'arrivo del primo SuperMario, Monti s' intende, oggi ingiustamente dimenticato a favore di quello nuovo e guardato pure con un po' di sospetto, perché l'austerità non si porta più. Forse per questo il nostro negli ultimi mesi è impegnato in una solitaria e ingrata battaglia per rimettere in fila certi fatti di dieci anni fa: per aiutarlo nel difficile compito abbiamo deciso di tradurre per i non addetti ai lavori il suo intervento di ieri sul CorSera, un selvaggio attacco alla santificazione del nuovo SuperMario. Torniamo allora alla lettera della Bce, che ha "profondamente influenzato la politica e l'economia" ed è oggi oggetto di molte "dimenticanze": chi la firmò? Monti ci ricorda che furono Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, governatore uscente ed entrante della Bce. Cosa abbiamo imparato da quella vicenda? Primo: "Non rendersi dipendenti dagli aiuti altrui", non dando più modo alla Bce di ergersi "a 'po testà straniero' travalicando il proprio mandato" (capito sì?), una cosa "umi liante e pericolosa" (sic) che mise nei guai anche il governo successivo, cioè quello di Monti. E in che modo? "Sotto il profilo del riequilibrio di bilancio - o dell'austerità, che per anni avrebbe reso più difficile la vita degli italiani (sic) e avvelenato il dibattito politico - la Bce peccò decisamente per eccesso". Sia "in generale, quando a dicembre 2011 il presidente Draghi chiese il Fiscal compact" (capito sì?) e contro l'Italia in particolare perché lui e Trichet pretesero "che per il nostro Paese, e solo per esso" il pareggio di bilancio "venisse anticipato dal 2014 al 2013" (è chiaro sì?). E adesso Draghi fa pure il figo: "Anche prima della pandemia, autorevoli banchieri ed economisti - compresi alcuni che più avevano spinto a suo tempo per severe restrizioni (corsivi nostri, ndr) - hanno sostenuto, e ancor più sostengono oggi, la necessità di politiche monetarie e fiscali durevolmente espansive". La nostra traduzione: cioè lui m' ha costretto a incaprettarvi, ora si rimangia tutto quello che diceva prima e voi lo trattate come il salvatore della patria? Machedaverodavero? Ma allora ho ragione a pensare che siete cretini!

JACOPO IACOBONI per lastampa.it il 7 settembre 2021. Le aziende italiane che sostennero fin dalle origini Silvio Berlusconi e Forza Italia nella ormai leggendaria “discesa in campo”, negli anni ruggenti tra 1994 e 2001 hanno guadagnato tra il 30% e il 50% in più delle imprese concorrenti, sia come vendite dei loro prodotti, sia come lavori ottenuti e livelli di occupazione conseguenti. Sostenere il potere evidentemente paga, in Italia, e ha pagato. Ma qui se ne ha una conferma scientifica, con numeri e statistiche. I dati sono contenuti in una lunga ricerca, cominciata più di dieci anni e pubblicata adesso su un’importante rivista scientifica, il Journal of Economic Behavior and Organization. Il paper è firmato da quattro economisti italiani, Marco Leonardi, dell’Università di Milano (oggi consigliere economico di Palazzo Chigi, lo studio partì in anni in cui ovviamente non ricopriva questo ruolo), Battista Severgnini (Copenaghen Business School), Rossella Mossucca (LearLab), Fabiano Schivardi (Luiss). Il senso di ciò che hanno scoperto viene riassunto così: «Nella ricerca studiamo i benefici delle connessioni politiche sulla performance aziendale analizzando gli effetti del sostegno originario a Silvio Berlusconi, un magnate televisivo che in tre mesi nel 1993 fondò un partito, vinse le elezioni e divenne primo ministro italiano. Abbiamo trovato che 101 aziende che hanno sostenuto Berlusconi fin dall'inizio hanno fatto meglio delle concorrenti, in termini delle vendite e occupazione, mentre gli effetti sulla produttività sono meno netti». I risultati sono stati confermati quando abbiamo confrontato la decisione di sostenere Berlusconi con gli esiti elettorali nelle elezioni italiane del 1921, che avevano somiglianze sia in termini di voto elettorale che di competizione ideologica. Abbiamo trovato anche prove suggestive che le performance superiori delle aziende supporter [di Berlusconi e Forza Italia] è più forte nei settori ad alta intensità pubblicitaria». I maggiori guadagni sono stimati dagli autori tra il 30 e il 50 per cento, nel periodo tra la discesa in campo e il 2001. La cosa interessante, ci spiega Battista Severgnini, uno degli autori, che insegna all’Università di Copenaghen, è che questi guadagni «sembrano essere avvenuti non attraverso favori diretti (che del resto sarebbero stati difficili eventualmente da quantificare, nda.), ma attraverso una forte spinta pubblicitaria che il mondo Fininvest ha garantito a chi stava con loro». Naturalmente è interessante capire quali fossero le 101 aziende che sostennero Berlusconi fin dall’inizio. La ricerca ovviamente non le nomina, ma spiega come sono state individuate. Primo: si è incluso chi finanziò direttamente Forza Italia o i suoi candidati al Senato. Secondo: sono state incluse anche le aziende i cui dirigenti espressero un endorsement esplicito a Berlusconi. Siamo venuti a sapere, in via informale, che alcuni dei supporter più importanti (e in maniera del tutto legittima) furono Pasta Divella, Rovagnati, San Pellegrino, aziende dai fatturati importanti. Ma anche tanta media e tantissima piccola impresa lombarda, specialmente brianzola. Lo studio su Berlusconi, raccontano gli autori, nasce da una peculiarità quasi unica, nelle democrazie (almeno fino a Trump): l’aver congiunto in un unico fenomeno politico un grande imprenditore e un movimento politico interamente nuovo. Altrove (Donald Trump a parte) le due dimensioni non sono state connesse. Magari sono apparse separatamente o, quando si sono legate insieme impresa e politica (come nel caso del M5S e della Casaleggio associati), l’impresa era una piccola srl – altra notevole curiosità, che meriterebbe un futuro studio quantitativo. «Il fatto che l'Italia sia una democrazia e che Berlusconi sia un imprenditore nel settore dei media lo rende diverso dai casi precedentemente considerati in letteratura, e può offrire nuovi spunti sui recenti fenomeni politici basati su una vittoria di un imprenditore, o di un movimento politico innovativo», scrive lo studio: «Come negli Stati Uniti, dove un altro magnate, Donald J. Trump, è diventato presidente nel 2017; in Francia, con il successo del nuovissimo partito di Emmanuel Macron, La République En Marche!, nel 2017; o ancora in Italia, dove ha vinto le elezioni il partito Movimento Cinque Stelle fondato da un comico nel 2018; in Polonia, dove il partito creato negli anni duemila, “Diritto e Giustizia”, ha vinto le elezioni in 2005 e 2015, o in Ucraina, dove Volodymyr Zelensky, produttore televisivo e comico di successo, è stato eletto presidente nel 2019, a capo di un partito che prende il nome dal suo programma televisivo Sluha Narodu (Servo del popolo)». Sostenere il potere, nei media come in economia, ha pagato. Ci sarà tempo – dopo Berlusconi che forse fu la premessa di tutto – per studiare il potere degli anni del populismo conclamato in Italia.

Quel che Monti non racconta sulla lettera Bce anti-Berlusconi. Francesco Forte il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. Nella lettera inviata il 29 settembre 2011 il presidente uscente della Bce Jean Claude Trichet e il successore Mario Draghi chiedevano all'Italia una serie di riforme di accompagnamento alla manovra che la Bce aveva deciso di fare per difendere l'euro. Nella lettera inviata il 29 settembre 2011 - nel pieno della crisi dell'euro dovuta alla crisi finanziaria mondiale - di cui parlava ieri Mario Monti sul Corriere della Sera, il presidente uscente della Bce Jean Claude Trichet e il successore Mario Draghi chiedevano all'Italia (il Paese dell'euro con il più elevato debito pubblico, il 119% del Pil) una serie di riforme di accompagnamento alla manovra che la Bce, con lo stesso Draghi, aveva deciso di fare per difendere l'euro. Anche con il famoso whatever it takes, cioè con tutte le misure possibili, così come poteva fare la Banca centrale degli Usa, la Federal Reserve, come prestatore di ultima istanza, stampando carta moneta. Draghi allora giustificava l'intervento monetario estremo con il mandato per la «stabilità monetaria»: impedire sia l'inflazione che la deflazione, cioè la discesa dei prezzi verso lo zero. La vendita del nostro debito infuriava, ma non era solo speculazione. La Deutsche Bank e altre banche vendevano i nostri titoli per coprire i loro buchi finanziari. Silvio Berlusconi, capo del governo di coalizione con la Lega e altri partiti di centrodestra di cui era leader, aveva predisposto anche lui un «bazooka» come quello di Draghi. Non era monetario ma fiscale: un piano di privatizzazioni di beni pubblici per 400 miliardi che avrebbe ridotto il nostro debito del 25%, riducendo il rapporto debito/Pil dal 119% al 105%. Il circolo virtuoso così creato ci avrebbe portato a deficit e debiti sostenibili. Il piano era stato preparato e discusso con il gruppo parlamentare del Popolo della libertà, prima a livello tecnico e poi in Parlamento, assieme a un gruppo di 4 esperti costituito da Rainer Masera e Paolo Savona - i due massimi esperti di politica monetaria e fiscale dell'Italia, entrambi originariamente capi dell'ufficio Studi della Banca d'Italia -, dal ministro Renato Brunetta e da me, consulente del gruppo parlamentare Pdl. Il progetto, discusso alla Camera e al Senato, era stato presentato al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 14 novembre 2011, onde ottenere il reincarico di formare il governo. Infatti il IV governo Berlusconi il 12 novembre era stato bocciato nella votazione sul bilancio consuntivo per un voto, con molti assenti. Il bilancio consuntivo non è un atto di governo, ma un documento tecnico. Non dovrebbe fare cadere il governo. Ma così si decise. Napolitano non ritenne rilevante il piano di privatizzazioni. La lettera della Bce chiedeva anche una riforma del mercato del lavoro. Il governo Berlusconi aveva messo nel decreto Milleproroghe di fine anno i contratti aziendali di produttività. Napolitano aveva tolto dal Milleproroghe questa norma perché «non pertinente al decreto». La Bce aveva chiesto riforme per la concorrenza, che erano state predisposte dal ministro delle Attività produttive. Esse trovavano la resistenza di alcuni monopolisti, così come le privatizzazioni di inefficienti compagnie locali di servizi pubblici. La lettera di Trichet e Draghi non poneva termini draconiani. Ma il presidente Napolitano preferì varare il governo tecnico Monti, che con la patrimoniale sugli immobili e la riforma delle pensioni Fornero creò la decrescita del Pil e l'aumento del deficit e del debito pubblico. Seguirono Enrico Letta, Matteo Renzi eccetera. E il debito che prima della pandemia era al 119% salì al 135% del Pil. Francesco Forte

"Mio padre di nuovo centrale? Un risarcimento per le ingiustizie. Augusto Minzolini il 15 Luglio 2021 su Il Giornale. La presidente di Fininvest e Mondadori: "Da imprenditrice vedo che il Paese riparte, l'economia si libera e termina l'era dell'incompetenza. A Palazzo Chigi non c'è più chi pensava di abolire la povertà e battere il Covid con le primule". «Ora vogliamo ancora crescere». Mentre la Mondadori acquista De Agostini Scuola, e mentre la pace con Vivendi apre a Mediaset la strada verso nuove aggregazioni europee, Marina Berlusconi, presidente di Fininvest e della casa editrice, traccia la rotta del gruppo. Si dice ottimista sulle prospettive di ripresa dell'economia del Paese. Valuta positivamente l'operato del governo Draghi. E parla anche del padre, Silvio Berlusconi, per sottolineare che il riconoscimento venuto al suo ruolo politico non è «la riabilitazione» di cui tanto si parla, ma «un risarcimento», peraltro parzialissimo, per la gogna e l'accanimento, non solo giudiziario, che ha subìto per tanti anni.

La Mondadori ha acquistato Dea Scuola. L'operazione è ambiziosa: dove puntate?

«Da tempo ci siamo concentrati sui libri, sia trade sia education, e abbiamo sempre detto chiaramente che vogliamo crescere. L'acquisizione di un'azienda prestigiosa e ricca di molti marchi illustri come De Agostini Scuola - che sarà perfezionata al termine dell'iter di legge - ci riempie di orgoglio e conferma nel modo migliore la validità della nostra strategia. È un'acquisizione resa possibile dal grande lavoro fatto in questi anni, che ha consentito di mettere a punto tutte le risorse necessarie per tornare allo sviluppo. Del resto, mi pare sia stata ampiamente apprezzata anche dal mercato. Ho sempre pensato che la forza di un Paese, così come la sua identità nel mondo, siano strettamente collegate alla sua capacità di fare cultura. Per questo, se davvero l'Italia vuole garantire la propria identità e la propria cultura, deve guardare anche alle dimensioni delle sue aziende editoriali. Operazioni come quella con De Agostini sono vitali, perché sono una condizione fondamentale per crescere e per stare in campo nella competizione globale. E anche per continuare a migliorare sulla strada della qualità».

Da tempo si parla anche di un possibile shopping europeo di Mediaset. Conferma?

«Le aggregazioni internazionali sono un passaggio obbligato per le tv di fronte allo strapotere dei vari Netflix, Amazon e così via, doppiamente difficile da fronteggiare per la loro forza spaventosa e per la totale assenza di limiti e di regole in cui è consentito loro di operare. Mio fratello Pier Silvio ha già detto che spera in un autunno molto caldo, e con quelle parole ha descritto alla perfezione l'atteggiamento del gruppo. Le nostre aziende, che già avevano reagito con energia e flessibilità all'anno della pandemia, nel 2021 stanno accelerando al massimo. Nel primo semestre la raccolta pubblicitaria di Mediaset è aumentata oltre le previsioni, e la corsa continua. Lo stesso sta accadendo ai ricavi della Mondadori: alla fine dell'anno ci aspettiamo un risultato in forte crescita».

E l'economia italiana? La ripresa le pare solida?

«Noi cerchiamo di dare il nostro contributo alla ripartenza. E in tutto il Paese consumi e produzione aumentano, le previsioni sulla crescita vengono continuamente aggiornate in meglio. Grazie ai vaccini, la pandemia ha allentato la pressione sulle nostre vite e l'economia, finalmente, si libera, in un clima mi pare di grande ottimismo. Anche il successo della Nazionale, non credo di esagerare, aiuta. Ora si parla molto delle nuove, insidiose varianti del Covid. Vedremo. Questo governo, comunque, sembra in grado di far fronte alle peggiori emergenze».

Quindi il governo Draghi sta lavorando bene?

«Da persona che si occupa di imprese, vedo fatti e numeri che parlano chiaro. Per il resto faccio l'editore, la politica non è il mio campo. Noto solo che, proprio come capita a certi incubi che al risveglio scompaiono, sembriamo avere dimenticato che fino a pochi mesi fa, a Palazzo Chigi, c'era chi sembrava convinto che per battere il Covid bastasse ordinare costosi tendoni a forma di primula, o chi dal balcone proclamava improbabili sconfitte della povertà. Il governo Draghi ha dato un colpo micidiale all'elogio dell'incompetenza e alla retorica dell'uno vale uno, e questo non posso che apprezzarlo. Ma credo che la grande maggioranza degli italiani la pensi come me».

Dica la verità: Draghi le piace anche perché il grande promotore della sua ascesa a Palazzo Chigi si chiama Silvio Berlusconi. Non è così?

«È vero che mio padre è stato il primo a sostenere Draghi. E non parlo del 2020, quando l'ha proposto come premier, ma del 2005, quando da presidente del Consiglio lo aveva indicato come governatore della Banca d'Italia, e anche del 2011, quando lo aveva imposto al vertice della Banca centrale europea. Tra lui e Draghi c'è sintonia, e lo dimostrano anche molte delle scelte di questo governo».

Anche grazie al governo Draghi, suo padre oggi è stato riabilitato ed è al centro della politica. Il suo ritorno in auge le farà piacere, no?

«Che faccia piacere a una figlia mi pare ovvio. Credo però faccia piacere anche a tanti italiani. Diciamo che Silvio Berlusconi è stato la vittima più illustre del populismo giustizialista che per anni ha intossicato l'Italia. Ma sono convinta che in molti oggi abbiano capito come l'incitamento all'odio contro mio padre sia stato dettato dal pregiudizio e dall'ostilità preconcetta di chi avversava le sue spinte al cambiamento. Perché il pensiero unico è un veleno, ammorba le vittime ma alla lunga anche gli avvelenatori».

Che cosa intende per pensiero unico?

«Intendo l'ideologia che pretende d'incarnare la giustizia e la moralità pubblica, e in nome di una presunta superiorità vuole eliminare l'avversario: se non sei d'accordo, sei il nemico e quindi vai abbattuto con ogni mezzo. Il pensiero unico insegue la stessa logica razzista - perché anche questo è razzismo - che Oltreoceano abbatte le statue di Cristoforo Colombo, proibisce l'insegnamento del latino e bandisce Mozart perché sarebbero simboli di una cultura troppo bianca. I virus del conformismo e della disinformazione, purtroppo, sembrano essere ancora più contagiosi del Covid. Per fortuna anche in questo caso c'è un vaccino: lo studio, l'approfondimento, la cultura, che nella storia hanno sempre generato tolleranza e libertà. Là dove il pensiero unico chiude e divide, un libro apre la mente e unisce».

Oggi, però, nessuno sembra più voler «abbattere» suo padre.

«Lo spero proprio. Del resto, chi è venuto dopo di lui l'ha fatto rimpiangere, spesso amaramente. Con i suoi governi, mio padre ha fatto moltissimo. Avrebbe potuto fare ancora di più se solo un sistema malato non glielo avesse impedito, cercando di screditarlo in tutti i modi».

A proposito di «Sistema». A riabilitare suo padre è stato fra gli altri un magistrato che s'era impegnato in prima persona contro di lui: Luca Palamara. Che cosa pensa delle sue rivelazioni?

«Leggendo Il Sistema, il libro che Palamara ha scritto con Alessandro Sallusti, pagina dopo pagina ho avuto la conferma di tutti i miei peggiori sospetti: mio padre è stato braccato da certi magistrati con tutti i mezzi. Visto che per via politica nessuno riusciva a fermarlo, contro di lui è scesa in campo un'agguerrita minoranza di toghe. Sono convinta che questa campagna giudiziaria a senso unico abbia contribuito anche al crollo di credibilità di una categoria che invece è vitale per il Paese».

«Il Sistema» è anche un vostro best-seller. Questo le farà piacere.

«Ovviamente sono contenta che il libro sia andato così bene. Da figlia e da cittadina di questo Paese, però, avrei preferito un best-seller in meno e un po' di buona giustizia in più».

Suo padre oggi è al centro delle cronache anche per il tentativo di unificare il centrodestra. Non è un percorso facile. Ce la farà?

«Io la politica la seguo da lontano, ma la seguo. Pensi che cosa accadrebbe se si arrivasse davvero alla creazione di una formazione unica di centrodestra...».

Il centrodestra vincerebbe?

«Credo che il risultato finale potrebbe essere ancora più ampio. L'unità del centrodestra spingerebbe anche la sinistra verso il modello federativo che non è mai riuscita a realizzare. Finora si è parlato poco di questo aspetto della partita, eppure è importante. Ancora una volta, mio padre punta a modernizzare il Paese, a far sì che sia governato nell'alternanza tra due forze stabili».

Lei ha detto due volte di essere lontana dalla politica, ma le sue analisi fanno credere il contrario. È proprio sicura di non avere un futuro in politica? Proprio mai? O mai dire mai?

«Apprezzare la buona musica non significa voler o saper fare il concertista. La politica è una cosa molto seria. Non ci s'improvvisa. Non è proprio cosa per me. Ho fatto altre scelte, che mi soddisfano pienamente, e non ho alcuna intenzione di cambiare».

Torniamo all'unificazione del centrodestra. C'è chi dice potrebbe servire soprattutto alla riabilitazione estrema di suo padre: il viatico per portarlo al Quirinale. Lei come lo vedrebbe, sul Colle?

«Provi a immaginare... Sottolineo peraltro che mio padre non si è mai candidato. E comunque mi pare sia davvero troppo presto per parlarne. Ora però tocca a me notare che questa è la terza volta che lei pronuncia la parola riabilitazione...».

Perché, non le piace il termine?

«Non soltanto non mi piace: mi pare del tutto improprio. La parola riabilitazione suona un po' come l'assoluzione da una colpa. Ma questo non è il caso di mio padre, non lo è per nulla. Mio padre non ha alcun bisogno di riabilitazioni. Il riconoscimento del suo ruolo politico, semmai, è un parzialissimo risarcimento morale. Sì, questa è la parola giusta: un risarcimento. Anche se risarcirlo di tutte le ingiustizie che ha subìto, ahimé, è davvero impossibile». Augusto Minzolini 

Marina Berlusconi, ecco perché non farà mai politica: ciò che non sapevate sul "rifiuto netto" della figlia del Cav. Renato Farina su Libero Quotidiano il 17 luglio 2021. Leggendo il rifiuto netto di qualsiasi prospettiva di prossimo o remoto impegno diretto in politica, viene da dire: peccato. Si respira infatti nelle parole di Marina Berlusconi, alla testa di Mondadori e leader con il fratello Piersilvio di Fininvest, un vasto disegno, una certa idea di Italia e della sua identità, il primato della cultura e dell'impresa sulla finanza, una forte spinta ad un impegno imprenditoriale per un capitalismo privato finalmente patriottico ma insieme aperto alla competizione globale. Insomma: potrebbe essere la premessa di una discesa in campo, che non sarebbe una novità in questa famiglia. Invece no. Lei è lei. Le piace la musica, ma non è il suo mestiere, dice con una metafora che taglia la testa al toro, semmai le metafore usino questi sistemi brutali. Niente politica. Soprattutto però, con l'intervista di ieri sul Giornale, concessa al neo-direttore Augusto Minzolini, la primogenita del Cavaliere ha dato una testimonianza magnifica di che cosa vuol dire essere figlia. Il centro affettivo del suo discorso, che è un manifesto della rinascita italiana, è il padre Silvio. Forse per questo è un manifesto credibile della rinascita italiana. Guai infatti a ridurre i dati esistenziali a pagine pittoresche della vita dei popoli. La corruzione intima delle classi dirigenti è il segnale più chiaro di un disfacimento generale. Ed ecco che, in controtendenza rispetto a un periodo storico di liquefazione dei legami fondativi, vedere questa comunanza di ideali nel passaggio delle generazioni in una famiglia che ha dominato le cronache per trent' anni, spesso con attacchi devastanti, fare spirare. E rende credibili analisi e progetti, che non sono esiti di algoritmi gelidi, elaborando big data, ma si fondano su un'esperienza: Marina ha reso plasticamente evidente che portare un cognome così non è un peso ma una fortuna che bisogna meritarsi ogni giorno, e a lei però pare di non essersela guadagnata abbastanza. Domani di più. Non è forse questa la chiave della famosa "resilienza"? Amore a quel che ci hanno consegnato in spirito e materia i padri per ricostruire il nostro mondo dopo la guerra, le crisi, e - siamo a oggi - la pandemia?

IL PAPÀ RIABILITATO - A proposito di amore che rende più lucidi- e qui la finisco con il capitolo di lessico familiare - Marina respinge con forza il concetto di "riabilitazione" che, a proposito del Cavaliere, Minzolini propone tre volte. Lei ogni volta ripete che suo papà non ha bisogno di alcuna riabilitazione, semmai di un «risarcimento». Dice che peraltro «risarcirlo di tutte le ingiustizie che ha subito, ahimè, è davvero impossibile». Be', il risarcimento per un padre è una figlia così, basta e avanza, e conta infinitamente dell'inchino dei vecchi nemici (che tanto poi non ci sarà). Altri capitoli. 1- Non ci sono soltanto multinazionali che in Italia chiudono stabilimenti e licenziano. Le aziende dei Berlusconi funzionano. Fu D'Alema, poco prima delle elezioni della primavera del 1996, a sostenere che Mediaset era un «patrimonio del Paese da difendere». Be' adesso sono queste aziende a difendere il Paese. Non solo in quanto occupazione e Pil, ma come identità tradita perennemente da quello che Enrico Cuccia definì un «capitalismo straccione», capace di farsi dare denari dallo Stato, ma in fondo senza patria, com' è invece nel Dna delle grandi famiglie di Francia e Germania. Siamo stati invasi dai francesi, soprattutto. La magistratura (una «minoranza», concede Marina) ha cercato di colpire Silvio investendo di inchieste e processi questo "patrimonio" come fosse un'escrescenza della mafia. Ed ecco il ribaltamento storico e morale. Bisogna considerare le imprese editoriali (libri e tivù, dunque anche il diabolico Biscione con i suoi figli) non come sovrastrutture rispetto al cuore produttivo dell'Italia, ma come asse del futuro.

LEZIONE DI LIBERTÀ - Dice la ceo di Mondadori: «La forza di un Paese, cosi come la sua identità nel mondo, (penso) siano strettamente collegate alla sua capacità di fare cultura. Per questo, se davvero l'Italia vuole garantire la propria identità e la propria cultura, deve guardare anche alle dimensioni delle sue aziende editoriali». In Italia la Mondadori acquisisce De Agostini. Mediaset si allarga all'estero. Bisogna resistere competitivamente a Netflix eccetera, se vogliamo essere ancora "Italia" nella competizione globale. Poi dicono che Berlusconi ha ucciso la cultura, e il mondo di centrodestra se ne frega dei libri. In questo senso è la realtà, non un'opinione a porre al centro della scena Silvio Berlusconi. 2. Marina Berlusconi sostiene il governo Draghi. Funziona. «Lo dicono i fatti ei numeri». L'economia cresce. Si mostra in grado di far fronte anche alle peggiori emergenze. Soprattutto viene dopo il periodo folle di governi dove i valori dominanti erano «l'ignoranza e l'incompetenza». Pragmatismo. 3. Il nemico vero è «il pensiero unico», vero e proprio «razzismo», che è il conformismo che vuole annientare "il latino". E il latino di Marina equivale all'eredità della nostra cultura, che sola è rimedio all'intolleranza. Qui sta il nocciolo liberale della concezione che Marina, come il padre, propone al centrodestra. Non un sovranismo superbo, ma l'orgoglio delle radici, la modernità di un'idea politica basata su un bipartitismo non digrignante, dove sinistra e destra, entrambe con un baricentro verso il centro si affrontino serenamente. Così la primogenita, che non vuol far politica, si fa eco dell'idea politica del padre. Posso aggiungere ancora la paroletta usata all'inizio? Senza permesso, la ridico: peccato che non discenda in campo. Però anche questa è una lezione di libertà. 

Nino Sunseri per “Libero quotidiano” il 15 luglio 2021. Grandi movimenti a casa del Biscione. Sia nell'attico dove stanno gli azionsti di Fininvest, cassaforte di famiglia, sia ai piani intermedi dove vivono e lavorano gli uomini di Mediaset e Mondadori la due principali attività del gruppo. Le indiscrezioni pubblicate dal quotidiano finanziario Mf-Milano Finanza raccontano delle novità all'interno di Holding 14, la scatola di proprietà di Luigi, Barbara ed Eleonora Berlusconi, i tre figli del Cavaliere e di Veronica Lario. La finanziaria ha come unica attività la custodia del 21,4% di Fininvest. La blindatura ha regolato i patti fra i tre ragazzi e i loro eredi. Inoltre ha allungato la durata della società fino al 2100. In questa blindatura la Borsa ha trovato conferma delle voci che danno per imminenti importanti novità all'interno della galassia del Biscione. La cautela dei piccoli Berlusconi si spiega con la particolare governance del gruppo. I figli del primo matrimonio del Cavaliere hanno incarichi operativi ben precisi. Pier Silvio alla testa di Mediaset e Marina in Mondadori oltre ad avere la presidenza di Fininvest. I figli di Veronica, invece, sono semplici azionisti, per quanto molto importanti. In verità Barbara aveva un po' scalpitato cercando un spazio in Mondadori e poi affiancandosi ad Adriano Galliani alla guida del Milan. In entrambi i casi l'ansia di emergere era stata contenuta. Facile immaginare che il diverso peso assegnato agli eredi avrà un impatto molto importante nelle scelte strategiche del gruppo. Soprattutto in vista di possibili combinazioni azionarie che potrebbero variare il perimetro della galassia. Ed è proprio scommettendo su queste novità che la Borsa ha cominciato a guardare con occhi diversi alla Mondadori e a Mediaset. Il titolo della casa editrice con la chiusura di ieri a 1,96 euro viaggia ai massimi dal 2018. Ha dato uno strappo del 10% dopo l'annuncio di aver acquistato dalla De Agostini la divisione scolastica.  In questo modo aumenta la sua stazza in un settore, come l'editoria per l'insegnamento che magari non offre margini vertiginosi ma sviluppa fatturati importanti. Soprattutto al riparo dalle oscillazioni della domanda considerando che gli studenti non possono fare a meno dei libri nonostante i progressi della tecnologia. La Mondadori affianca il peso nell'editoria scolastica al primato che ha raggiunto in libreria dopo l'acquisto di Rcs Libri. Un successo per Ernesto Mauri che due mesi fa ha lasciato il posto di amministratore delegato dopo aver completato la totale riconversione del gruppo. Presenza sempre più ridotta nei giornali a favore di libri e Internet. Anche Mediaset si appresta a cambiare pelle avendo però, come orizzonte l'Europa. Tutte le ultime scelte dettate da Pier Silvio e dallo staff vanno in questa direzione: dall'acquisto di Endemol, alla fallita combinazione con Vivendi. Nel futuro c'è la tedesca Prosiebensat e la prossima nascita della holding olandese Mfe per costruire un polo europeo della televisione in chiaro. In vista di queste novità la Borsa ha cominciato a pompare il titolo che solo nell'ultimo mese ha guadagnato il 10%. Rispetto a un anno fa la quotazione ha raddoppiato di valore. Ora all'orizzonte c'è la possibile combinazione con Discovery. Nascerebbe un colosso da quasi 14 miliardi di fatturato (9,4 Discovery e 4 Mediaset fra Italia e Spagna). Un peso massimo ancora più forte di Vivendi (16 miliardi). Facile immaginare che la governance sarebbe sbilanciata sugli americani. Forse anche per questo i piccoli Berlusconi si blindano.

Matteo Renzi, la rivelazione su Silvio Berlusconi: "La telefonata subito dopo l'arresto di mia madre". Libero Quotidiano l'11 luglio 2021. Torna al centro della scena, Matteo Renzi. E non solo perché, ancora una volta, sul ddl Zan con la sponda della Lega è lui a dare le carte. Già, perché martedì uscirà Controcorrente, l'ultimo libro del leader di Italia Viva, un libro pieno zeppo di retroscena e rivelazioni politiche. Insomma, tutta la sua verità. Le anticipazioni piovono un po' su tutti i giornali, Libero compreso. E tra queste, ve ne sono alcune che riguardano Silvio Berlusconi. Quel Berlusconi a cui Renzi è stato più volte accostato. E così, su Controcorrente, si legge: "Le ironie si sprecheranno, lo so. Gli odiatori non credono che anche i politici abbiano una dimensione umana. E tutte le volte che vengo avvicinato a Berlusconi si scrivono fiumi di inchiostro su una relazione speciale che tale in realtà non è stata. Con Berlusconi, checché se ne pensi, abbiamo condiviso molto meno di quello che si dice. C'era il patto del Nazareno, vero, ma poi è saltato per responsabilità che attribuisco a lui in via esclusiva. Poi, nel merito abbiamo dialogato spesso, ma Forza Italia non ha mai votato la fiducia al mio Governo, fiducia che invece ha votato a Monti, Letta, Gentiloni, Draghi. Però, quando si parla di mamme, Berlusconi ha un tratto di umanità profondo e raro da ritrovare. È simpatico, nel senso greco del termine: sa soffrire insieme. Nella telefonata di pochi minuti che mi ha fatto nelle ore successive all'arresto ho avvertito un tratto di verità nella sua condivisione che molti colleghi di partito non mi hanno concesso per una vita intera", spiega Renzi. Insomma, Berlusconi fu il politico che nel drammatico momento dell'arresto della madre fu più vicino a Renzi. E certe cose, ovviamente, non si possono scordare. Notevoli, nel volume, gli attacchi rivolti contro Beppe Grillo e Marco Travaglio. Renzi infatti chiede di "chiudere la Repubblica giudiziaria", l'epoca ultra-manettare che ci hanno portato in dote e i grillini e che, con la riforma di Marta Cartabia, abbiamo iniziato a smantellare. E ancora, Renzi aggiunge: "Grillo e Travaglio sono dei pregiudicati che si sono intestati l'onestà". Picchiare durissimo, appunto.

Paolo Rossi, la confessione: "Offendevo Silvio Berlusconi perché mi pagavano". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 06 luglio 2021. Puoi dire la verità perché sei ubriaco, perché sei sobrio o perché sei vecchio: ma lo status del comico e attore e teatrante Paolo Rossi, nel concedere un'intervista al Corriere del Veneto, poco importa. Ciò che ha detto suona vero e probabile, conta questo, se non altro perché nel dire il falso non aveva nessuna convenienza. Paolo Rossi è un tipo che può fare queste cose, e ogni tanto le fa. In pratica ha detto: il grande esercito della satira, con Silvio Berlusconi, ha fatto un sacco di soldi, il che si è rivelato un errore politico e civile. Ha detto che il vero bersaglio della satira dovrebbe essere non solo il potere (quello tipicamente politico) ma dovremmo essere noi stessi, la natura umana, le nostre miserie e contraddizioni. Ha detto che non c'era neanche tanto da impegnarsi, all'epoca: ripetere le cose che Berlusconi aveva detto pareva sufficiente, così i satiri le ripetevano, le amplificavano, le moltiplicavano, col risultato sostanziale che poi Berlusconi vinceva e vinse le elezioni.  

SATIRA FACILE - E non è chiaro se questo è perché la satira non gli fece nessun danno o, più probabilmente, perché gli diede proprio una mano. Vediamo i virgolettati. Titolo: «Con Berlusconi abbiamo fatto i soldi. Ma è stato un errore». Estratti: «Bisogna ammettere anche gli errori. La satira degli anni d'oro era una satira molto energica e creativa, ma sbagliò bersaglio. Il bersaglio è la natura umana, siamo noi, non è quel finto conforto che dà gridare "il re è nudo" e lasciare le cose così come sono... Quanti soldi abbiamo fatto con Berlusconi? Ed era anche facile, non dovevamo neanche scrivere le battute: bastava ripetere le sue! Nominavi il nome e la gente rideva, rideva... però il problema era che poi lo votavano». Ci basta. Non c'è niente di nuovo, ma la novità è che a dirlo sia uno di loro. Detto da altre posizioni, da destra o dagli ambienti berlusconiani, restava vero: ma suonava come una difesa d'ufficio, impotente e un po' buttata lì, un modo per limitare i danni. Peraltro, forse e appunto, non c'erano neppure i danni. E sono loro, è Paolo Rossi a dirlo: ubriaco, sobrio, vecchio o più banalmente disilluso e lucidissimo prima di portare sul palcoscenico un «Amleto» di Shakespeare in versione ovviamente rivisitata, che a quasi 70 anni, un po' come a 20, ti viene voglia di fare le cose serie. Che poi, dal 1994 in poi, dalla celeberrima discesa in campo, le mire dei satiri erano serissime. Comincia proprio quell'anno la prima fioritura per una neotrasversalità che si cementò in una visione della satira e della politica e del giornalismo, in perfetta scia con un mercato recettivo e collaudato. Sabina Guzzanti, Michele Santoro e Marco Travaglio: facciamo solo tre nomi per fermarci a qualche primo e cercato equivoco: di fatto la verve si fece meno comica e più comiziante, tribunizia, requisitoria, ogni delirio fu travestito da missione salvifica e ogni disturbo narcisistico da sindrome da persecuzione, violazione della libertà d'espressione. 

TUTTI SCHIERATI - Il cemento, manco a dirlo, fu l'antiberlusconismo, genere che tirò subito e che offrì a ciascuno tornaconti diversi: i migliori andavano divisi dai peggiori, la libertà dal regime, la democrazia dal Cavaliere, la magistratura dalla politica, di seguito alcuni magistrati da altri, e altri politici da altri ancora. Ogni accordo o dialogo saranno chiamati restaurazione o inciucio, e sarà innegabile il martirio, ennesimo il golpe: a denunciarlo saranno - con libri, dvd, show e magari la pretesa di un programma in Rai - giornalisti e magistrati e politici e scrittori e comici che si rimescolarono in un mestiere indistinto, ciascuno coprendosi col mestiere dell'altro ma vestendone perlopiù i privilegi, declinandone le responsabilità. Una Sabina Guzzanti ormai priva di leggiadria fingeva ancora di credere che «tocca ai comici dire le cose serie» senza i limiti di chi pure ufficialmente era chiamato a dirle, a scriverle. Marco Travaglio coniugò il mestiere di giornalista dotato di fonti univoche - singoli magistrati - e lo declinò in forme autocentrate e sbeffeggianti i difetti fisici altrui, al punto da reclamare il diritto di satira anziché di critica: con la pretesa, in seguito, di continuare a fiancheggiare singoli uomini o movimenti. Ma va detto che all'epoca Paolo Rossi era già defilato, non sappiamo se perché fosse indisposto o inadatto: con l'apparizione di Beppe Grillo lui non c'era già più, o perlomeno era poco in vista. Non c'era a Piazza Navona (2008) quando Grillo in diretta telefonica definì il capo dello Stato Giorgio Napolitano «un Morfeo che sonnecchia ma poi firma provvedimenti per la Banda dei Quattro», e sproloquiava contro il Pdl e contro il «Pd meno l» mentre Sabina Guzzanti diceva che immaginava il papa all'inferno nelle mani di qualche diavolo gay. Ufficialmente era satira, anche se equivaleva a un'immunità giudiziaria per autoproclamazione, con Dario Fo che opponeva una certa «aria di fascismo» e la Repubblica che dava l'altolà scrivendo che «La satira non si processa». E andava anche bene, la satira non si doveva processare: ma forse non era più satira. Paolo Rossi in effetti non c'era più. Ma a quanto pare aveva guadagnato abbastanza. Gli restava Shakespeare, quasi fosse un ripiego.

Silvio Berlusconi, il "Fatto Quotidiano" si oppone alla sua corsa al Colle: "Un'indecenza e i giornaloni zitti". Libero Quotidiano il 18 giugno 2021. Quando non ce l'ha con il generale Figliuolo, il quotidiano di Marco Travaglio se la prende con l'arcinemico per eccellenza: Silvio Berlusconi. A lui viene dedicato un articolo che già dalle prime righe ha il sapore dell'invettiva. Non a caso viene citato Massimo Fini che - a detta del Fatto Quotidiano - "avrebbe ragione". Berlusconi al Colle per lui è "un'indecenza". E lo è anche per il quotidiano che se la prende con i suoi simili. Il motivo? "Sono capaci d'ingoiare e giustificare qualsiasi cosa torni utile al loro 'campo di appartenenza'". E ancora, nella colata di odio si legge: "Quintali di carta e chilometri di paroloni sull'"interesse generale" e "il bene del Paese", poi tutti proni ad accettare (anche) Silvio Berlusconi presidente della Repubblica". Il Fatto non se la prende solo con "i giornali di famiglia", ma anche con "Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa". Per il quotidiano quello di "Berlusconi condannato in via definitiva a quattro anni poi ridotti è un fatto gravissimo". In Italia - è il ragionamento - "dopo la ridicola 'rieducazione' ai servizi sociali, gli evasori fiscali finiscono al Quirinale". Da qui il solito appello: "Bisogna fermare questa sconcezza! E ricordare a tutti-"gridarlo dai tetti" - che oltre alle condanne, B. "ha usufruito di nove prescrizioni e in tre casi la Cassazione ha accertato che i reati li aveva commessi". Ma non finisce qui per il Fatto adesso ce l'ha anche con il carattere di Berlusconi, del quale riporta "l'arroganza. la sete di potere, il disprezzo delle regole, il rifiuto della giustizia". Insomma, chi più ne ha più ne metta. La conclusione non è da meno: "Ha compiuto molti misfatti: ora è pronto per il Quirinale. Non hanno nulla da dire Molinari, Fontana, Giannini? Tacciono. "Le menzogne più crudeli sono spesso dette in silenzio"".

Silvio Berlusconi, il fango dell'Espresso: "Contratto segreto". Salvini, Marina e Pier Silvio, accuse infamanti. Libero Quotidiano il 19 giugno 2021. Matteo Salvini ha un alleato assai influente per federare Forza Italia con la sua Lega: la famiglia di Silvio Berlusconi. Lo racconta l'Espresso - in edicola domani 20 giugno, i figli Marina e Pier Silvio sostengono l'operazione lanciata da un leader leghista. Le motivazioni sono due. "La prima: il padre, in questa lunga convalescenza, ha bisogno di riposo, non di inutili tensioni. La seconda: i conti di Forza Italia sono ingestibili, come ha certificato l'ultimo bilancio vidimato lo scorso lunedì dal tesoriere e senatore Alfredo Messina, perché molti eletti non saldano le quote e il debito da 100 milioni di euro è garantito soltanto dalle fideiussioni bancarie di Berlusconi. Marina e Pier Silvio, però, non hanno intenzione di liquidare il patrimonio politico del padre che ha apportato benefici anche a Fininvest e Mediaset. Anzi, la federazione o l'annessione o il partito unico, è la prosecuzione del berlusconismo in altra forma con Salvini che ne raccoglie la memoria e soprattutto gli interessi. Interessi senza più conflitto", scrive il settimanale. Lo si vede anche dalla copertina del giornale con un Berlusconi e Salvini che si stanno quasi per abbracciare ed entrambi visibilmente sorridenti con il titolo che è tutto un programma: Il contratto. A sottolineare come gli intrecci tra politica e affari personali siano sempre al centro dell'attenzione del gruppo editoriale Repubblica-Espresso. Il partito azienda è diviso: Gianni Letta e Niccolò Ghedini sono perplessi, invece Fedele Confalonieri, il presidente di Mediaset, è favorevole. Adesso dipende dal leader della Lega, Matteo Salvini e da un patto che va scritto e sottoscritto. "Il leghista ha già chiesto intanto che Fratelli d'Italia non ottenga più "tempo di parola" nei programmi di Mediaset come successo in aprile e maggio", scrive sempre l'Espresso. Un attacco ad alzo zero da parte del settimanale diretto da Marco Damilano nei confronti del centrodestra e della famiglia Berlusconi.

La famiglia Berlusconi spinge il patto con Matteo Salvini. Obiettivo: liberarsi di Forza Italia. Con il Cavaliere ancora convalescente e i bilanci disastrosi di Fi, i figli Marina e Pier Silvio, assieme a Fedele Confalonieri, tentano di affidare a Matteo i propri interessi di azienda e l’eredità politica di papà Silvio. La prima richiesta leghista: riavere più spazio su Mediaset. Carlo Tecce su L'Espresso il 18 giugno 2021. Qualcuno con buona memoria si ricorderà che un paio di settimane fa, durante un intervallo ludico fra «notti magiche inseguendo un gol sotto il cielo di un’estate italiana» canticchiata nel traffico e l’esposizione di tre mele anziché le iconiche tre pere ai turchi, Matteo Salvini ha comunicato serioso, e quand’è serioso indossa la camicia bianca, l’intenzione di federare Forza Italia e la Lega ex Nord. Però stavolta Salvini, un po’ avventato, forse precipitoso, certamente impreciso, ha il sostegno di un alleato necessario per sfuggire alla concorrenza di Fratelli d’Italia: la famiglia Berlusconi. Che sia una federazione, la solita fusione, un partito unico, un cartello elettorale, un genere più impegnativo di una pigra convivenza nel centrodestra, questa cosa qui, di cui Salvini parla e riparla, poi tace e si pente, è una cosa che ha negoziato con la famiglia Berlusconi, con Silvio convalescente fra la villa di Arcore e l’ospedale di Milano, con i figli di Silvio, soprattutto Marina. Questa cosa qui, che adesso non ha una definizione compiuta e neanche una formula decifrabile, è un modo per Salvini di liberarsi di Giorgia Meloni e per la famiglia Berlusconi di liberarsi di Forza Italia. Salvini ha capito che per competere con Giorgia Meloni deve andare dove non arriva Giorgia Meloni. Al centro, che poi in politica è quello spazio elettorale che sa di tutto e sa di niente a cui ambiscono in troppi. Così gli hanno garantito quando ha accettato di aderire al governo di Mario Draghi. Salvini si sfama con la popolarità, gli indici di ascolto, le condivisioni dei video, le caterve di mi piace. Se Meloni lo supera su Facebook, si dispera. Se Meloni lo supera negli equilibri del centrodestra, è finito. Allora ha pensato che questa adesione al governo di Mario Draghi, che ha accettato perché gli hanno imposto di accettare, è l’occasione perfetta per rifare la coalizione senza mettersi lì a rivaleggiare con Fratelli d’Italia che ha il vantaggio di muoversi all’opposizione in beata solitudine. Matteo ha accennato vagamente questa cosa qui ai ministri Giancarlo Giorgetti e Massimo Garavaglia e ai dirigenti leghisti, non ha illustrato i particolari perché ne era sprovvisto, non si è soffermato su nulla, però all’improvviso un giorno ne ha fatto un annuncio solenne. L’annuncio di un piano. Salvini si piazza a destra, tipo cippo di confine, e scruta gli eventuali possedimenti al centro. Arriva talmente lontano con lo sguardo che il renziano Ettore Rosato sembra già un vecchio funzionario del Carroccio tanto è viva la volontà di Italia Viva di partecipare. Forza Italia è la più vicina, ovvio. Forza Italia non vuole l’annessione di Salvini, si dice. Soltanto Antonio Tajani, rimasto coordinatore unico di Forza Italia perché fregato da Gianni Letta nella lista dei ministri, è favorevole a questa cosa qui con la Lega di Salvini. Letta è il maestro dei sensali, è un azionista di Forza Italia, quasi un azionista di maggioranza di Forza Italia nel governo poiché ha portato a Draghi il foglietto con i nomi delle ministre Mara Carfagna e Mariastella Gelmini. Letta è contrario. Il senatore e avvocato Niccolò Ghedini, a cui è consentito l’accesso nella villa di Arcore per ragioni anche di affetto e non limitate al disbrigo delle pratiche legali, ha spesso supervisionato le trattative di lista con la Lega discutendone aspramente con Gianni Letta. Pure Ghedini è contrario. E sono contrarie le ministre Carfagna, Gelmini e i parlamentari che non sopportano un epilogo salviniano perché non considerano che Salvini non è più il Salvini degli eccessi. Almeno a giorni alterni. Questa cosa qui, la federazione, la solita fusione o il partito unico come lo chiama Berlusconi perché si intende del ramo con i precedenti della Casa delle libertà oppure del Popolo delle libertà, invece ha convinto la famiglia di Berlusconi, la figlia Marina, il figlio Pier Silvio, lo “zio” Fedele Confalonieri, il più alto rappresentante del partito azienda di Fininvest e Mediaset. Non perché Letta e Ghedini siano insensibili alle logiche del partito azienda di cui Confalonieri è l’interprete milanese e non dei palazzi romani, ma perché Letta e Ghedini hanno nobili trascorsi nei palazzi romani che frequentano e che Letta frequenta da mezzo secolo e in quei luoghi sanno che Salvini è respinto. La famiglia è stufa di sopperire alle perdite di Forza Italia, di foraggiare con 100.000 euro a testa un partito con un terzo degli eletti che si rifiuta di pagare l’obolo mensile, di fronteggiare un debito che bascula attorno ai 100 milioni di euro da anni e viene contenuto dalle fideiussioni bancarie firmate da Berlusconi e cioè dalla famiglia e dunque dalle proprietà di famiglia. Il tesoriere e senatore Alfredo Messina, ex Mediolanum, Mondadori e Fininvest, uomo di casa Arcore, lunedì ha vidimato l’ultimo bilancio con i 100 inscalfibili milioni di buco e ha avvisato subito Berlusconi e ha consultato il senatore Adriano Galliani. Tutti esterrefatti, nessuno sorpreso. La famiglia osserva i 100 milioni con lo spavento di chi guarda un macigno che sta per scivolare giù. Né Pier Silvio né Marina, però, sono due rampolli ingenui che pensano di disfarsi di un patrimonio politico di trent’anni e di una presa sul potere di governo che fa comodo, eccome se fa ancora comodo, alle aziende di famiglia, a Mediaset per esempio, che si trovano nella delicata condizione di conquistarsi un degno futuro dopo aver difeso il glorioso (e rocambolesco) passato. E come ammettono anche da Fininvest, Marina vuole proteggere il papà da inutili e dannose tensioni politiche e la federazione, questa cosa qui, la intriga molto. La famiglia ha compreso che è il momento di affidare Forza Italia e i propri interessi, dopo puntuali accordi, meglio se scritti, al giovane Matteo. Un tempo era Renzi, oggi è Salvini. Quando si incontrano Salvini o i leghisti salviniani e Confalonieri o altri capi di Mediaset si fa a turno a chi si lamenta di più. Il presidente di Mediaset si lamenta dei parlamentari forzisti che non saldano le quote al partito e le incombenze ricadono su Berlusconi. E poi domanda: voi, come fate? Nonostante i 49 milioni di euro che la Lega deve restituire allo Stato in 80 soffici rate a tasso zero, l’esercizio 2020 ha chiuso con un attivo di 350.000 euro. I senatori, deputati e consiglieri leghisti pagano. Salvini e i leghisti salviniani, invece, si lamentano del pessimo trattamento che ricevono da Mediaset. I dati dell’Autorità di garanzia per le comunicazioni (Agcom) danno ragione alla lettura un po’ complottista di Salvini. Nel mese di aprile in prima e seconda serata su Rete4, il canale dell’informazione, Fratelli d’Italia ha ottenuto il 17 per cento del tempo di parola al pari di Forza Italia contro il 14 della Lega. Ancora peggio a maggio: 17 per cento a Meloni e colleghi e 11 ai leghisti. Le telefonate fra Silvio e Matteo e l’intercessione di Marina Berlusconi e Fedele Confalonieri, secondo i salviniani, produrranno benefici immediati: «Ci riaprono i cancelli degli studi di Cologno Monzese». Una premessa. È il servizio di benvenuto che la famiglia Berlusconi offre agli amici più intimi. Il resto prevede una collaborazione fra i gruppi che formano un’ampia base del governo di Draghi con 115 senatori e 210 deputati. La prima prova sarà la nomina dei consiglieri di amministrazione della Rai: la Lega pretende più posti nei telegiornali e nei programmi. Poi ci sono le comunali, le prossime politiche, la distribuzione dei seggi. E in prospettiva, è palese, l’appuntamento più importante sarà a febbraio con l’elezione del presidente della Repubblica. Ci si frequenta di più, e meglio, finché i politici si mescolano e le esigenze pure. Se il leghista fallisce la sua prova di maturità, se tradisce la fiducia della famiglia Berlusconi che asseconda un progetto non benedetto da Gianni Letta e da Niccolò Ghedini, non rimane che ritirarsi e consegnarsi a Fratelli d’Italia. Nel breve periodo, nei prossimi mesi, è più utile a Salvini che a Silvio: la Lega si rinvigorisce, Forza Italia si annacqua. Salvini si sottrae alla presa di Meloni, si riprende il controllo di una coalizione e si espande al centro come gli hanno suggerito di fare. Questa cosa qui, la federazione, la solita fusione o il partito unico, nel lungo periodo, nei prossimi anni, invece è la prosecuzione del berlusconismo in politica in altre forme, è l’evoluzione del partito azienda. È la sua eredità. Custodita da Salvini. Sorvegliata da Marina e Pier Silvio.

Fabrizio Roncone per “Sette - Corriere della Sera” l'11 giugno 2021. Quando alla tivù vedo Daniele Capezzone che parla con il piglio dell’intellettuale sovranista, dell’osservatore destrorso, sempre con quell’aria polemica e irridente, spaziando dall’economia agli immigrati, una volta filo-Salvini, l’altra filo-Meloni, mi torna in mente l’altro Capezzone, quello che ho conosciuto e ascoltato per lunghi anni: il giovane talento radicale, spietato anticlericale ed europeista convinto, l’antiberlusconiano militante, ruvido e incattivito, che all’improvviso pero incontra la luce e si converte, s’inginocchia, diventa un adepto proprio dello Zio Silvio, portavoce ufficiale del Pdl ma anche tra i pochissimi ad essere ammesso alla corte di Palazzo Grazioli – lui, Brunetta, Verdini, Daniela Santanchè, che tempi pazzeschi – tutti insieme comodi nel potere che all’epoca era vero, concreto, enorme. La leggenda vuole che Capezzone – 26enne obiettore di coscienza dopo aver studiato al San Giuseppe De Merode di Roma, istituto gestito dalla Congregazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane – sia stato scoperto da Marco Pannella alla fine di un sit-in. Lo alleva, lo addestra: il ragazzo ha talento, tenacia, modi gentili. Un pomeriggio, in una riunione, Pannella perde la pazienza e gli tira un sigaro acceso. Lui si scansa e, col sorriso, dice: «Era un gesto di simpatia». Capezzone diventa segretario del partito, ma non ci sta a farsi divorare dal gigante con i capelli bianchi, geniale, unico, che i suoi segretari – vizio sublime – prima li creava, e poi li azzannava. A Padova, in un congresso di quelli che non si fanno più, non previsti dalla politica gassosa, Capezzone si ribella. E resta solo. A mezzanotte lo troviamo a un tavolo dell’Antico Brolo, in corso Milano. I decani della compagnia dei cronisti di allora, i grandi Gianni Pennacchi e Giovannino Cerruti, lo invitano al tavolo: ce lo mettiamo in mezzo e lui si scioglie per quello che e. Cortese, simpatico, furbissimo. Nessuno stupore, quindi, quando anni dopo e tra i pochi ad essere ammesso al cospetto del Cavaliere e della fidanzata, Francesca Pascale. Solo che appena Capezzone compare, Dudu, il barboncino di Francesca, inizia a ringhiare. Il barboncino e un cane intelligentissimo (secondo solo al border collie). E se ringhia, pensiamo subito tutti, un motivo ci sarà.

Gianmarco Aimi per mowmag.com l'8 giugno 2021. Dall’aereo presidenziale al carcere di Secondigliano. Dalle cene a Villa Certosa alla pescheria di Viale dei Quattro Venti. La storia di Valter Lavitola è la parabola di un uomo che ha cercato di volare troppo in alto e, come nella leggenda di Icaro, alla fine le “ali di cera” che si era costruito «per manie di protagonismo» lo hanno fatto piombare, come si suol dire, dalle stelle alle stalle. Ma è anche indicativa di un periodo esaltante e controverso, che lui stesso definisce «una sbornia collettiva», di quando Silvio Berlusconi dominava sulla scena politico-economica e intorno a lui in molti hanno provato la scalata al cielo rimanendone, loro malgrado, scottati. Una vicenda umana talmente interessante, che un regista talentuoso come Alessio Maria Federici pare gli abbia già messo gli occhi addosso per realizzarne un docufilm e una serie tv. Solo indiscrezioni, per ora, ma di cui si vocifera negli ambienti del cinema. Lo abbiamo incontrato a margine del servizio nel suo ristorante romano, il Cefalù Bistrò, che gestisce in cooperativa insieme ad altri tre colleghi dell’Avanti!, il quotidiano socialista che cercò di rilanciare negli anni ‘90 e poi finirà per essere ricordato come uno degli strumenti per colpire gli avversari politici dell’ex Cavaliere, primo fra tutti Gianfranco Fini «al quale devo delle scuse», ammette. È un Lavitola diverso rispetto al passato, che ha voluto parlare di tutto e anche di più rispetto a quel che ci potevamo immaginare, perché dopo alcune condanne che lo hanno costretto a scontare oltre quattro anni dietro le sbarre questa esperienza traumatica lo ha portato a scoprire che «la corruzione è una cosa orribile» ma «peggio della morte c’è solo il carcere da innocente».

Valter Lavitola, il 16 giugno compirà 55 anni. I compleanni sono anche il momento per i bilanci. C’è qualcosa che si pente di aver fatto nel suo passato?

Non mi impegnerei come mi sono impegnato contro Gianfranco Fini. Era tutto vero della casa a Montecarlo, ma ha preso la forma dell’aggressione. Una azione che ha avuto un risultato troppo violento rispetto alle colpe che Fini aveva, che erano veniali. Dal punto di vista politico fece un errore, non volle accettare di diventare il delfino di Berlusconi, ma poteva esserlo e forse oggi non si troverebbe in queste condizioni. Ma dal punto di vista umano sento di dovergli delle scuse. 

Poi torneremo sulle vicende che l’hanno coinvolta, ma ora la sua vita è tutta nella pescheria Cefalù Bistrò. Come vanno gli affari?

Siamo riusciti a superare la fase degli impedimenti dovuti alla pandemia. Abbiamo un bed and breakfast, una pescheria e un ristorante e siamo riusciti mettendo assieme le attività a “svangarla”. Non è stato facile, però mi sta dando tanta soddisfazione e riesco a sostenere la famiglia.

È vero che lavorano con lei tre suoi ex redattori di quando era direttore de l’Avanti!?

Sì, ma anche con altri non mi sono mai perso di vista. Tanti vengono ancora da noi a mangiare, anche perché avevamo fondato una associazione che si chiamava “Amici dell’Avanti!” e oltre al giornale si era creata una bella comunità. 

Si considera sempre socialista?

Mi consideravo e mi considero socialista.

È entrato giovanissimo nel Partito Socialista Italiano. Era il 1984. E fece parte della corrente craxiana.

Posso dirle che il giorno in cui Craxi morì, sull’Avanti! pubblicammo l’ultimo articolo scritto da lui. Ne scriveva due-tre alla volta e si firmava come Edmond Dantes. Era l’ispiratore del giornale. E l’ultimo lo pubblicammo il giorno della sua scomparsa. 

Cosa rappresentava per lei Bettino Craxi?

Non sono la persona più adatta a rispondere a questa domanda perché sono troppo di parte. Sono entrato nella Giovanile socialista e l’ho conosciuto a 18 anni. Per noi è stato un faro. Un miraggio. Quando andavo a trovarlo ad Hammamet in tanti mi sconsigliavamo di farlo, perché era in corso una vera caccia alle streghe e andare da lui era un pericolo. Ma io invece mi sentivo più che onorato. Quando prendevo l’aereo e arrivavo da lui mi sembrava di fare un salto nella storia. Quando ti parlava ti faceva sentire importante. È stato un privilegio avere a che fare con lui.

Che ricordo ha di quel 30 aprile del 1993, quando Craxi venne contestato da una folla all’uscita dell’hotel Raphael, la sua residenza romana?

Io ero al partito e in un attimo calò una nube pesantissima su tutto e tutti. Qualcosa di irreale. Essere lì e averla vissuta è stato qualcosa di drammatico. Devastante per chi lo conosceva e aveva fatto tanta strada insieme. Dal portiere ai dirigenti, tutti hanno vissuto due giorni nell’immersione nel piombo fuso. 

Sempre a 18 anni lei si iscrive alla loggia massonica «Aretè» di Roma, come apprendista. Poi racconta che, siccome gli apprendisti non possono parlare e invece lei è un chiacchierone si mette “in sonno”. Quando sente parlare di Loggia Ungheria, che effetto le fa?

Sono stato iniziato in massoneria giovanissimo, poi assonnato per quei motivi, ma sono rimasto un appassionato della materia. Sono convinto che ci siano delle distorsioni. È massoneria quando è riconosciuta da un ordine e fa parte di un determinato rito. Poi ci sono le organizzazioni para massoniche o che usano ritualità massoniche. Come gli eserciti e i gruppi paramilitari.

Quindi la Loggia Ungheria la considera un “gruppo paramilitare”?

Sulla Loggia Ungheria non mi sorprenderebbe che un gruppo di persone interessate a fare sistema, motivate da un fanfarone, possa acquisire una ritualità para massonica. Però non mi sono mai spiegato perché la massoneria non abbia preso iniziative per fare chiarezza su queste cose. Forse è uno degli elementi che mi delude della massoneria oggi. Se io e te ci mettiamo a costituire una loggia massonica, perlomeno le autorità massoniche dovrebbero mandarci a quel paese. Se autorità sono, ma probabilmente non lo sono più da tempo. 

È un periodo nero per la magistratura. Prima della Loggia Ungheria era stata scossa dalle rivelazioni del pm Luca Palamara. In questo caso le vostre strade si sono incrociate, quando la arrestò per evasione visto che sarebbe uscito dal suo appartamento mentre era agli arresti domiciliari.

Palamara non l’ho conosciuto di persona. Ha emesso un mandato di arresto nei miei confronti mandandomi in carcere. Mi hanno detto che gli ho consentito di fare l’unico arresto della sua carriera, almeno un bigliettino di ringraziamenti avrebbe dovuto mandarmelo.

Ringraziamenti per cosa?

Le cose sono andate così. Ero agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico ed ero stato autorizzato a recarmi presso le pertinenze dell’appartamento perché era andata via la luce qualche giorno prima. Quando sono venuti i carabinieri gli ho detto: “Guardate che non è scattato il braccialetto quando sono sceso per controllare”. E loro: “Chiedi al magistrato di adeguarlo”. Nel mentre la Procura di Napoli aveva installato una telecamera gigantesca e ben visibile nel giardino per controllarmi. Ho denunciato più volte questa cosa, poi un giorno mi sono stufato e l’ho fatta rimuovere. Guardava nel bagno, nella stanza da letto e persino in casa dell’inquilino di sopra che era parecchio risentito.

E quindi?

Un giorno scendo, come ero stato autorizzato con provvedimento del magistrato avallato dalla Procura, e questa telecamera mi ha ripreso mentre ero in garage da solo. Tre mesi dopo arriva il provvedimento del pm Palamara, che aveva ricevuto i documenti dalla Procura di Napoli a seguito dell’ipotesi di danneggiamento della telecamera e vengo arrestato per evasione. Dopo alcuni mesi in galera, la Procura di Roma archiviò il provvedimento perché non costituiva reato. L’evasione è un fatto oggettivo e mi risulta l’unico procedimento di evasione archiviato in Italia. 

Per questo vorrebbe le scuse di Palamara?

Sì, ma anche dei ringraziamenti mi avrebbero fatto piacere.

Ha fiducia nella giustizia italiana?

No, non ho fiducia. Soprattutto dopo le rivelazioni di Palamara. 

Che effetto le hanno fatto le confessioni dell’ex pm e segretario dell’ANM (associazione nazionale magistrati)?

Le faccio questo esempio. Ricordo che due procedimenti che mi riguardavano con oltre 100 testimoni si sono svolti in primo e secondo grado in 18 mesi. Facevamo udienze tutti i mercoledì e giovedì. E quando c’era un impedimento si spostava a 48 ore dopo. Io ero detenuto in carcere e in quel periodo ho passato più giorni in tribunale che in cella. Mi faceva piacere, era certamente meno noioso, ma solo dopo mi sono accorto che un rinvio mediamente in Italia è previsto a tre mesi. 

Una giustizia stranamente velocizzata.

Per 18 mesi che le udienze fossero programmate a distanza di una settimana e un rinvio a 48 ore oggettivamente era una forzatura di cui mi sono accorto solo adesso. Ho comprato il libro di Palamara per leggerlo, ma quando l’ho sentito parlare da Giletti (a Non è l’Arena su La7, nda) mi ha dato un senso di vomito e non sono più riuscito a leggere il libro. Sostanzialmente diceva: facevamo parte di un sistema dove se Pinco era nemico di Pallino e io ero amico di Pallino, Pinco diventava mio nemico. Che fosse innocente non ce ne fregava nulla. 

Lei si è sentito “Pinco”?

Posso dire che qualcosa di peggio del carcere è soltanto la malattia di un figlio. La morte è meno brutta. E che qualcuno possa infliggere il carcere senza che ciò sia motivato da reale pericolosità sociale è qualcosa di inaccettabile. Ho scoperto che la corruzione è orribile e purtroppo prima non ne avevo contezza, ma anche prendere una persona e buttarla dietro le sbarre senza motivo è una delle poche cose che non dovrebbero esistere. 

Alla fine degli anni novanta conosce Silvio Berlusconi. Nonostante quel che è accaduto, che l’ha portata a scontare quattro anni di carcere, oggi lo propone come possibile Presidente della Repubblica. Come mai?

Non ho più rapporti con lui, anche perché non credo alle “minestre riscaldate”. Però Berlusconi presidente della Repubblica sarebbe ideale per arrivare a una pacificazione reale del paese e al superamento di una fase storica che ha determinato la produzione del “grillismo”. Quel movimento non è nato dal nulla e l’humus glielo ha fornito la contrapposizione violenta scatenata dall’aggressione a Berlusconi che ha portato ad un allontanamento dell’elettorato dai partiti tradizionali. 

Non crede che Berlusconi sarebbe ancora divisivo?

Non essendo più nell’agone politico no. E poi ci sono i numeri per un momento di unità nazionale. Il centrodestra lo voterebbe, così come larga parte del centrosinistra, senza dimenticare la parte di grillini che sono usciti dal movimento e sono altri 53 voti. C’è bisogno di dirla apertamente questa cosa, non lavorando sottotraccia. Sono finiti i tempi delle trattative nei palazzi e si potrebbe fare tranquillamente alla luce del sole. 

Eppure, lei in una intervista “rubata” da Guido Ruotolo a un certo punto disse: “Ho paura di Berlusconi”. A cosa si riferiva?

È stata effettivamente rubata quell’intervista. Ero in una pausa di una udienza, ero incazzato, Guido era una persona che ritenevo amica e mi chiese: “Ma non ne hai paura?” e io risposi: “Certo che ne ho paura, per come si è comportato con tanti amici”. La quasi totalità delle persone che hanno fatto un pezzo di strada con lui si trovano poi nei guai o vengono abbandonate. In quel momento era quello il timore. 

Oltre a Berlusconi, c’era anche chi intorno a lui non le era poi così amico, come l’avvocato Nicolò Ghedini che lei stesso ha definito un vero e proprio “nemico”. Come mai?

Quella di Berlusconi era un corte vera e propria, alla quale si alternavano con alte o basse fortune una serie di personaggi. Tra loro c’erano lotte intestine fortissime. Io ho sbagliato per eccessi di protagonismo perché sono sempre stato un po’ anarcoide. Per cui andare a riconoscere i vari ruoli della corte era troppo pesante per me, non ci sono mai riuscito. E per questo Ghedini più di altri me lo sono fatto nemico.

Nel 1996 fonda la cooperativa giornalistica International press che diventa proprietaria del quotidiano l'Avanti! sorto col sostegno politico di alcuni esponenti dell'allora PSI finiti nel centro-destra come Brunetta, Cicchitto, Cazzola. Ha ancora contatti con questi esponenti politici?

Con alcuni sì e con altri meno. In particolare, mi sento spesso con Cicchitto. 

Sembra che tra socialisti ci sia ancora un forte legame, ma perché in Italia politicamente nessuno è ancora riuscito a ricostituire un partito socialista riconoscibile?

La fortuna di avere un ristorante è che è un posto pubblico in cui la gente viene, anche senza appuntamento. E nel mio ci ritroviamo in tanti compagni socialisti di varia estrazione, dall’ex ministro all’ex segretario o al giovane militante. Noi socialisti facciamo ancora sistema. Tanti dirigenti o quadri del partito si sentono legati tutt’ora. Ma il problema è che non abbiamo più l’elettorato e c’è bisogno di un salto generazionale. Inizio a sperarci, perché vedo dei giovani che si appassionano a quei temi che riguardavano già il PSI di allora.

La direzione de L'Avanti! Inizialmente fu affidata a Sergio De Gregorio, fondatore nel 2000 del movimento politico Italiani nel Mondo e finito nell’inchiesta per la compravendita dei deputati per far cadere il governo Prodi. Lei ha dichiarato al Riformista: “Me l’ha raccontato De Gregorio. Lui era ostaggio di camorristi napoletani che gli avevano prestato un sacco di soldi”. Piuttosto pesante come affermazione, non trova?

È negli atti processuali. Sergio, che tutto sommato non è il mascalzone che è stato disegnato, semplicemente è molto superficiale e affetto da manie di grandezza. Aveva fondato il movimento Italiani nel Mondo dotandolo di televisione satellitare, giornali, sedi in tutto il mondo, liste in tutta Italia e quindi necessitava di una marea di soldi. Per questo motivo iniziò a fare debiti. E gli unici ad avere soldi in Italia chi sono? Le mafie. 

E quindi?

Cominciò a farsi prestare dei soldi e quando devi restituirne tanti diventi ostaggio. Gli interessi iniziarono a galoppare e si rese addirittura disponibile a far girare dei soldi sporchi, tanto che questo gli portò una indagine per riciclaggio di denaro e la moglie amministratrice di alcune società fu indagata. Quindi si trovava esposto al rischio degli usurai e dall’altra ai problemi giudiziari per la moglie e al possibile fallimento delle società.

De Gregorio ha patteggiato una condanna a 20 mesi di reclusione per corruzione in atti d'ufficio, mentre per lei il reato è stato prescritto. Recentemente, però, ha evocato una “compravendita” di deputati anche per sostenere il governo di Giuseppe Conte. Li considera episodi analoghi giudicati con due pesi e due misure?

In tutte le legislature di tutti i governi, non solo della Seconda Repubblica, si è registrata l’uscita o l’entrata di parlamentari per sostenere o meno un governo. Il problema in quel caso fu l’accertamento che De Gregorio aveva ricevuto dei soldi. 

In che modo li ricevette?

Una parte, 1-2 milioni non ricordo, arrivò al suo partito da Forza Italia. L’altra tranche gliel’ho data io, 1 milione in contanti, più o meno. Cifre considerevoli. Ma quella che gli ho dato io era motivata dalla sua uscita dell’Avanti , visto che era socio del giornale e direttore editoriale e la cooperativa percepiva 2 milioni e 500 mila euro di finanziamento pubblico l’anno. Ci fu un accordo tra noi: “Esci dal giornale e ti riconosco quella cifra”. Nessuno però ha parlato del vero compenso di De Gregorio per il passaggio da una parte all’altra

Me la dica lei.

Fu la nomina alla presidenza della Commissione Difesa del Senato. Per un parlamentare di prima nomina è la vera contropartita. L’autorità giudiziaria ha ritenuto che quel passaggio di denaro costituisse la prova della corruzione, ma una nomina importante equivale a una utilità forse superiore a quella cifra di denaro. C’è tanta gente che preferisce un ritorno in termini di crescita sociale e politica alla mera crescita economica. C’è chi ama i soldi e chi ama gli onori.

Più si evocano personaggi che ruotarono intorno a Silvio Berlusconi in quel periodo e più emerge la “smania di protagonismo”. Un altro è Gianpaolo Tarantini, divenuto famoso per aver portato le escort a casa dell’ex premier.

Era questo, senz’altro. La smania di protagonismo. La causa dei miei stessi guai giudiziari è una serie di errori fatti da me per manie di protagonismo. Il primo sono stato io. Così come Tarantini, poveraccio, che si è trovato in una situazione molto più grande di lui e che gli ha fatto perdere la brocca. Berlusconi era potentissimo e Tarantino alzava il telefono e ci parlava quando tanti ministri non ci riuscivano. Non ha saputo distinguere che lui ci parlava per le feste e le donne e non per cose più importanti. 

Sembra che Berlusconi abbia rappresentato una grande sbornia.

Esatto, Berlusconi è stata una grande sbornia per tutti noi. Era un uomo dal carisma eccezionale, però ti metteva a tuo agio e ti faceva sentire protagonista delle cose che facevi per lui. Dal mio punto di vista, mi ha gratificato tanto negli anni affidandomi cose delicate alle quali io credo di aver assolto bene. Poi non ho saputo fare gioco di squadra con il partito e il suo entourage e quindi è comprensibile che mi sia fatto tanti nemici.

Qual è un momento in cui si è più stupito di quando era con Berlusconi?

Il suo rapporto con il giardiniere di Villa Certosa. Ebbi la sensazione che pendesse dalle sue labbra. Berlusconi ama quel parco come se fosse un figlio, infatti è splendido. C’erano spessissimo queste telefonate lunghissime o delle trasferte per riunioni con il giardiniere, che poi era a capo di uno staff di chissà quante persone. È l’aspetto che me lo ha reso più simpatico. 

Intanto c’è chi si prepara al dopo Berlusconi. Per esempio, Toti e Brugnaro hanno creato un nuovo partito che sembra voler accogliere gli “orfani” di Berlusconi in Forza Italia. Può funzionare?

Da quello che conosco, Brugnaro e Toti hanno un rapporto troppo solido per essersi mossi senza averlo concordato con Matteo Salvini. Lo stesso Salvini ha un rapporto solidissimo con la parte più autorevole dell’entourage di Berlusconi, come Ghedini e Ronzulli. Quindi, per la proprietà transitiva, se si è creato questo contenitore per inglobare i parlamentari di Forza Italia che in questa fase si sentono estranei al calderone che sostiene Draghi è qualcosa che hanno fatto tutti in sintonia.

Qual è l’obiettivo?

L’operazione serve a eleggere Berlusconi presidente della Repubblica, così Forza Italia potrebbe sciogliersi. In seguito, una parte dei moderati potrebbero trovare come interlocutore privilegiato anche l’area di centrosinistra. Non a caso Beatrice Lorenzin che era in Forza Italia ora è nel Pd. Non lo trovo anormale. Come lei anche altri potrebbero fare un percorso simile. Il resto troverebbe casa in un’area di centrodestra moderata coalizzata intorno alla leadership di Salvini. 

C’è chi addirittura vede un possibile ingresso in quel partito di Matteo Renzi come leader di un nuovo centrodestra. Fantapolitica?

Renzi è l’unico soggetto politico italiano che ha testa. È il più bravo di tutti dal punto di vista della strategia. Però non riuscirebbe a essere digerito dal gruppo dirigente di Forza Italia. Potrebbe invece essere il leader di un’area moderata di centrosinistra, ma in questa fase si scontra con Enrico Letta. E quel segretario sono certo sia stato scelto come barriera alla possibilità di Renzi di riprendersi un posto di rilievo in quell’area. 

Lei voterà ancora Forza Italia?

Per mia sventura non posso ancora votare per problemi giudiziari. Ma senza Forza Italia non saprei a chi dare il mio voto. Capisco l’astensionismo per la prima volta in vita mia. Da quando ho 18 anni ho sempre votato due partiti, il PSI e Forza Italia. Oggi però non saprei davvero a chi darlo.

Valter Lavitola, dove si vede tra dieci anni e a fare cosa?

Mi vedo in Africa. Sto pensando di andarci a vivere. In alternativa in Sudamerica. Ho due-tre ragazzi al ristorante che se crescono e diventano bravi, insieme a mio figlio, voglio aiutarli ad aprire una attività nel settore agricolo e affidarla a loro. Ci sto lavorando. Intanto devo tornare al servizio. Arrivederci! 

Dagospia il 28 maggio 2021. Da Un Giorno da pecora. Vittorio Feltri, direttore editoriale di Libero, ha smesso di andare in piscina dopo aver ascoltato un racconto molto particolare di Silvio Berlusconi. Ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Feltri, che ha spiegato di detestare l'andare in mare, ha detto: “io nuoto benissimo, andavo in piscina fin da quando ero piccolo. Poi però Berlusconi mi ha raccontato una cosa che mi ha fatto smettere immediatamente di frequentarla...”

Cosa le ha detto?

“Aveva invitato Craxi nella sua piscina, ad Arcore o in Sardegna, e mi ha detto che finito di nuotare entrambi si sono avvicinati al bordo per fare quattro chiacchiere, stando per metà nell'acqua”.

Nulla di strano fino a qui.

“Ad un certo punto però Berlusconi mi ha detto di aver sentito un grande calore sulle gambe, e ha capito che Craxi gli aveva fatto la pipì addosso. Ecco, a quel punto ho smesso di andare in piscina...”

Da milanotoday.it il 16 aprile 2021. L'imprenditore del mattone, il presidente di successo nel pallone, l'uomo politico. Tutto in un nome: Silvio Berlusconi. A Milano ci sarà una mostra dedicata esclusivamente all'ex proprietario del Milan: si chiamerà "Piano B" e arriverà sotto la Madonnina nel periodo autunnale. Ad annunciarlo è stato il Gruppo MilanoCard, che curerà l'esposizione, il cui obiettivo è "il racconto di un periodo di storia italiana – dal 1956 al 1993 - attraverso la biografia di un imprenditore". La mostra - si legge in un comunicato - sarà animata da "immagini, voci, musiche capaci di far rivivere l’avventura iniziale nel mondo del mattone passando poi per le televisioni, la grande distribuzione fino ai trionfi nel calcio". "Negli ultimi 25 anni siamo stati abituati a sentire parlare solo del Berlusconi politico. Ma prima di essere l’uomo politico che tutti conosciamo, condividendone o meno le posizioni, Berlusconi è stato un imprenditore capace con le sue intuizioni di cambiare il volto dell’Italia. Piano B vuole riproporre la narrazione di questa epica berlusconiana, con tutti i suoi successi e anche le sue contraddizioni - spiegano gli organizzatori della mostra -. Il Berlusconi imprenditore non ha costruito solo grandi aziende per sé, ma ha cambiato lo stile di vita degli italiani. Ha accelerato la modernizzazione del paese in modo anche dirompente, ha introdotto linguaggi e visioni nuove grazie alla leva potente della televisione. Piano B è una narrazione immersiva perché vuole riportare il visitatore nel clima di quei decenni, per fargli rivivere la velocità dei cambiamenti e l’energia nuova immessa nella società italiana". “Piano B non vuole dare un giudizio storico sul personaggio Berlusconi - assicurano i curatori -, ma riproporre un pezzo di storia che è storia collettiva, nei suoi lati positivi e in quelli negativi. L’avventura imprenditoriale di Berlusconi è frutto di tante intuizioni in anticipo sui tempi ma ha anche le caratteristiche di un sogno che ci ha riguardato e spesso affascinato tutti. Il titolo scelto per la mostra è sinonimo del fatto che Berlusconi, come ogni vero imprenditore, si è sempre tenuto aperto più strade per realizzare i suoi progetti, per realizzare le proprie visioni e affrontare le sfide più complesse. Ma è anche sinonimo dell’alternativa che ha offerto allo sviluppo del Paese". “Nel 1972 c’è un episodio che crediamo sia fortemente esplicativo di quello che sarebbe stata l’avventura berlusconiana degli anni successivi. Sulla televisione italiana si era aperta una guerra tra partiti e sindacati per decidere su una questione che sarebbe dovuta essere meramente tecnica, si trattava dell’adozione di un nuovo sistema di trasmissione televisivo, Pal, contro quello di minor qualità, Secam, oltre all’introduzione del colore. Ci vollero sei anni per arrivare all’ammodernamento. Questo è forse il male atavico di un Paese stretto tra voglia di progresso e paura dello stesso, dove molto si consuma in posizioni ideologiche e non pratiche. La storia imprenditoriale di Silvio Berlusconi crediamo possa aiutarci ad interrogarci sul passato e sul futuro", il commento della produzione.

Dagospia il 7 aprile 2021. Estratto da “Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto”, di Giuseppe Salvaggiulo, ed. Feltrinelli. Sui giornali qualcuno continua erroneamente a chiamare Silvio Berlusconi "l'ex Cavaliere". Ignaro del fatto che Berlusconi è ancora a tutti gli effetti cavaliere del Lavoro. Io lo so bene, invece, che cosa abbiamo fatto per salvare Berlusconi. Un giorno il ministro dello Sviluppo economico chiama il capo di gabinetto e gli consegna un fascicolo con un'intestazione inusuale. Sul frontespizio ci sono solo due iniziali: S.B. Prima ancora di leggere le carte che sono nel fascicolo, è sufficiente leggere lo sconcerto negli occhi del ministro per capire che si tratta di Silvio Berlusconi. Il ministero ha avviato il procedimento di revoca dell’onorificenza, dopo la condanna definitiva per frode fiscale del 2013. È la prassi, in questi casi. Il ministro spiega che il fascicolo è stato aperto non da lui e nemmeno dal suo predecessore, ma forse dal predecessore del suo predecessore. Dunque sono almeno due i ministri che si sono ritrovati sulla scrivania la revoca del cavalierato del lavoro a Berlusconi ma non l'hanno firmata. Anche il tuo ministro vorrebbe sottrarsi. Non vuole passare alla storia come colui che ha tolto a Berlusconi il titolo con cui tutti gli italiani l’hanno conosciuto, amato o disprezzato. Ma un fascicolo non si può semplicemente insabbiare, sarebbe un reato oltre che uno scandalo politico. Il fascicolo deve sempre camminare, ma stando sempre fermo. Una sorta di "ammuina' come quella dell'esercito di Franceschiello. Serve un colpo di genio. Studio le carte. La revoca è un atto dovuto. Il cavaliere S.B. è stato condannato per reati fiscali. E il presupposto per l'onorificenza è l'assenza di carichi pendenti e condanne. Forse non c'è il precedente? Forse non si è mai fatta una revoca del titolo? Sarebbe un buon motivo per approfondire, guadagnare tempo. Diamo disposizioni di controllare. Con urgenza e riservatezza. Purtroppo il precedente c'è, e anche illustre. Per Calisto Tanzi, patron di Parmalat artefice della bancarotta, si fece la revoca. E allora che fare visto che non puoi nemmeno dire che non si è mai fatto? Serve il lampo. L'intuizione. Trattandosi di questione complessa e delicata occorre un parere dell'Avvocatura dello Stato. Per avere un quadro completo della fattispecie. Nei casi più delicati, bisogna ricorrere ai fondamentali. Un parere è sempre un’ottima soluzione. Si interpellano il Consiglio di Stato o l’Avvocatura dello Stato su come applicare la revoca. Ma non basta. Prima che riceva le carte, è bene mettere a conoscenza della situazione il destinatario della richiesta di parere. L’avvocato dello Stato o il presidente del Consiglio di Stato. Meglio prepararlo. Renderlo "edotto del contesto", mi piace dire quando concordo un appuntamento. A quattr'occhi è facile intendersi. Faccio sommessamente capire che il ministro non ha particolare premura, che la delicatezza della vicenda suggerisce un'analisi approfondita, insomma che si prendano pure tutto il tempo necessario. Lascio intendere che al ministro non dispiacerebbe un parere interlocutorio, non assertivo, che legittimi ulteriori approfondimenti. Chi sta di fronte capirà. E farà trascorrere il tempo necessario a consentire al ministro di passare al successore il fascicolo (il bubbone) S.B. Così è successo. Il fascicolo è passato da ministro a ministro, per cinque anni. Finché Berlusconi, scontata la condanna, non ha ottenuto la riabilitazione giudiziaria dal tribunale di sorveglianza. Quel provvedimento, cancellando tutti gli effetti della condanna, ha consentito al ministero di interrompere l'iter di revoca del cavalierato. Il fascicolo S.B. è tornato nel cassetto.

Silvio Berlusconi rompe il silenzio su Adriano Galliani: "Che notizie ho sulle sue condizioni", il dramma-coronavirus. Salvatore Dama su Libero Quotidiano il 15 marzo 2021. Silvio Berlusconi smentisce le divisioni all'interno di Forza Italia. È vero che «ogni scelta provoca delusione e amarezza», ma le notizie di litigi sono solo «pettegolezzi». Il leader forzista dichiara che non tollera e «non tollererà mai la nascita di correnti come quelle che dilaniano oggi altri partiti». Il Cavaliere promuove poi il governo Draghi: «È in carica da poche settimane, ma ha già dimostrato una profonda discontinuità» rispetto al passato. E si dice fiducioso sui ristori: «Abbiamo ottenuto garanzie». Quanto all'Europa, infine, il presidente azzurro non se la sente di criticare Bruxelles, ma ammette che il sistema ha dimostrato «di essere lento e farraginoso nei suoi processi». Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia ed ex presidente del Consiglio I partiti, con il passaggio all'era Draghi, stanno attraversando momenti di fibrillazione. Pd, Cinquestelle e anche Forza Italia. Le cronache riferiscono di frizioni nella classe dirigente azzurra. È così?

«Ernesto Galli della Loggia, in un recentissimo articolo ha contrapposto i partiti "di un tempo" - dei quali il Pd sarebbe l'unico sopravvissuto, oggi messo in crisi dal governo Draghi - ai nuovi partiti "personali" come Forza Italia. È un'analisi interessante, ma parziale (sono in crisi anche movimenti tutt' altro che tradizionali come i Cinquestelle) e soprattutto impropria per quanto riguarda Forza Italia».

In cosa si differenzia FI?

«Certamente la storia di Forza Italia coincide con il mio ruolo di leader, riconosciuto dagli elettori con oltre 200 milioni di voti complessivi in questi 27 anni. Tutto questo però si è tradotto in un progetto politico che non era mai esistito in passato in Italia e che ci rende profondamente diversi da tutti gli altri: Forza Italia nasce da una sintesi dei valori e dei principi liberali, cristiani, garantisti, europeisti. Noi, a differenza di tutti gli altri, avversari ed anche alleati, non abbiamo mai avuto e non abbiamo oggi il problema di ridefinire la nostra identità. La partecipazione al governo Draghi - che è una risposta di emergenza a una situazione del tutto eccezionale - è per noi la logica conseguenza della responsabilità verso la nazione che deriva proprio dai nostri valori».

Le nomine ministeriali, ma anche le ultime (capogruppo e vice presidenza della Camera), hanno creato sacche di malcontento nel suo partito. Ha senso parlare di divisione tra "governisti" e "sovranisti"?

«Naturalmente ogni scelta provoca delusione e amarezza in chi si proponeva ed ha visto altri scelti al suo posto. Ma chi conosce Forza Italia sa che le capacità, l'impegno e la lealtà da noi vengono sempre premiati. Tutte le nostre scelte, per il governo, gli incarichi parlamentari, gli organi di partito sono ispirate a questo solo criterio. Non tollererò mai, e non lo tollererebbero i nostri elettori, la nascita di correnti come quelle che dilaniano oggi altri partiti. Non ve ne sarebbe alcuna giustificazione politica, perché i nostri valori - liberali, cristiani, garantisti, europeisti - e la nostra politica di responsabile e fattivo sostegno al governo Draghi trovano la condivisione di tutti. Il resto sono pettegolezzi e retroscena di fantasia».

Finora il governo Draghi non sembra essere riuscito a dare vera discontinuità rispetto all'esecutivo Conte. È ancora convinto della scelta che avete fatto?

«Non sono d'accordo. Il governo Draghi è in carica da poche settimane, ma ha già dimostrato una profonda discontinuità nel metodo e nel merito. Nel metodo, perché si è passati da scelte improvvisate e contraddittorie alla chiarezza di indicazioni stabili, coerenti e programmate in merito alle dolorose scelte da compiere, come le chiusure. Nel merito, venerdì il presidente Draghi ha annunciato un nuovo scostamento di bilancio per aiutare famiglie e imprese e il superamento del criterio dei codici Ateco per i risarcimenti, proprio come avevamo chiesto noi. Il consiglio dei ministri ha approvato su nostra proposta le norme sui congedi parentali immediati e il contributo per le babysitter per le famiglie alle prese con la chiusura delle scuole. Si è raddoppiato il numero delle vaccinazioni e si va verso l'obiettivo che noi abbiamo indicato di 500mila vaccinazioni al giorno. Mi sembra un buon inizio».

Si va verso una nuova stretta generalizzata. Chiudono scuole, ristoranti, bar. Lei è d'accordo? Non c'è una via alternativa a quella intrapresa dal precedente governo?

«Le chiusure devono essere l'extrema ratio quando nessun altro provvedimento può funzionare. Hanno un effetto gravissimo sulla vita di famiglie e imprese. Temo però che l'andamento del contagio non lasci altra strada rispetto ai provvedimenti presi. Abbiamo superato i centomila morti per effetto di questa terribile e insidiosa malattia. Vorrei però sottrarre questo argomento alla polemica politica. Devono essere gli scienziati a dirci quali provvedimenti sono efficaci per la salute pubblica. Alla politica tocca garantire invece risarcimenti immediati e adeguati per chi è danneggiato da queste scelte».

Tantissime attività sono sull'orlo del default. I ristori tardano ad arrivare. Eppure questo è un punto su cui Forza Italia si è battuta molto. Che succede?

«I ritardi spero e credo appartengano al passato. Abbiamo chiesto e ottenuto rigorose garanzie: quello che abbiamo visto - mesi di attesa per i ristori e la cassa integrazione - non dovrà accadere mai più».

Anche la campagna vaccinale non rispetta il suo cronoprogramma. È giusto seguire un ordine anagrafico oppure lei condivide la "teoria Bertolaso": meglio vaccinare prima le categorie più esposte?

«Sono criteri complementari, non contraddittori: l'ordine anagrafico è giusto, ma naturalmente va derogato per alcune categorie a rischio o comunque essenziali per la cura dei malati e il funzionamento del sistema-paese».

Ritiene che l'Europa e in particolare la leadership tedesca della Commissione Ue abbiano deluso nella gestione centralizzata dei vaccini?

«Non credo sia una colpa specifica della Commissione. Ritengo piuttosto che il sistema-Europa abbia dimostrato di essere lento e farraginoso nei suoi processi, mentre altri paesi, Israele, il Regno Unito, gli Usa hanno dimostrato che si può fare in fretta e meglio. L'Europa può e deve recuperare il tempo perduto. Credo che la presidente von der Leyen e il nostro premier Draghi stiano lavorando per questo. Come con il Recovery Fund, l'Europa si muove lentamente, ma nella direzione giusta»

Lei guida Forza Italia dal ‘94. Tempo in cui la sinistra ha cambiato più di dieci leader. Ora è il turno di Enrico Letta. Cosa pensa di lui?

«Mi auguro, nell’interesse del funzionamento del governo e della vita pubblica, che riesca a dare stabilità al Partito democratico. Naturalmente le differenze di visione politica rimangono».

Lei ha vissuto sulla sua pelle cosa significa il Covid. Vuole mandare un messaggio ad Adriano Galliani, suo amico e compagno di tante avventure sportive e non?

«Adriano è uno dei miei più cari amici. Ho notizie sull’andamento del suo decorso verso la guarigione più volte al giorno. Gli mando un grande abbraccio affettuoso e gli “ordino” di sbrigarsi a guarire: abbiamo bisogno di lui per portare il Monza in serie A». 

Emilio Pucci per "il Messaggero" il 10 marzo 2021. Tre milioni e 700 mila euro di quote non versate. Forza Italia ora è al governo, nei sondaggi è tornata a salire con Berlusconi che ha concorso alla formazione della nuova maggioranza pro Draghi, ma uno dei problemi per gli azzurri resta quello dei mancati pagamenti mensili al partito. Deputati e senatori devono sborsare 900 euro nelle casse forziste, a fronte dei 1.500 dei parlamentari del Pd e di quote ben superiori di Movimento 5Stelle e Lega. E' vero che molti degli inadempienti sono consiglieri regionali, ma perlomeno il 30-40% dei parlamentari forzisti è indietro con i pagamenti e una buona percentuale ormai non paga più da tempo. Il fatto è che il contratto con la sede nazionale del movimento, nella centralissima piazza San Lorenzo in Lucina a Roma, è scaduto il 28 febbraio. Doveva essere rinnovato a marzo ma in cassa ci sono rivela un big azzurro poco più di 200 mila euro, quindi occorrerà scegliere se pagare gli stipendi agli impiegati o conservare la casa azzurra. E lo sfratto è dietro l'angolo. «Bisogna fare di tutto per impedire una cosa del genere dice Alfredo Messina, senatore di FI e tesoriere del partito -. Non è ancora arrivato alcun atto ma è chiaro che occorre fare in modo che i parlamentari paghino. Un partito dovrebbe essere come un circolo: chi non paga è fuori. Noi perlomeno dovremmo impedire di dare cariche a coloro i quali non versano. In qualche modo agiremo, non possiamo più rinviare». Questione di «braccino corto o di distrazione» come dice il fedelissimo di Berlusconi, mentre alcuni hanno deciso di rateizzare i pagamenti. Il Cavaliere è dispiaciuto spiega un altro forzista per la situazione. Ma ci sono anche diversi parlamentari che non hanno la tessera del partito, che non risultano proprio iscritti. Perlomeno una quindicina. «Quando c'è un bilancio in rosso afferma ancora Messina o si aumentano i ricavi o si riducono i costi. I costi sono già al minimo. Abbiamo solo 12 impiegati ma le spese vanno pagate». Il costo dell'affitto della sede di piazza San Lorenzo in Lucina ammonta a 11 mila euro lorde al mese, 120 mila circa all' anno. Ora verrà rinegoziato ma per farlo occorrerà che gli azzurri rimpinguano la cassa. Perché Berlusconi non può più intervenire a causa della legge sullo stop al finanziamento ai partiti. «Hanno fatto questa legge proprio per impedirmi di aiutare il partito», si è sempre lamentato il leader azzurro. Un tempo ci pensava il Cavaliere, ora dovrà essere il gruppo dirigente a risolvere la grana. Tra le ipotesi sul tavolo quella di prevedere sanzioni o di pubblicare l'elenco dei morosi, anche se c'è il tema della privacy e molti dirigenti sconsigliano una mossa del genere. Di sicuro partiranno nuove lettere affinché deputati e senatori legalizzino la propria posizione e chi non paga non verrà ricandidato. Lo stesso Berlusconi ha scelto di comprare la villa che fu di Zeffirelli sulla via Appia a Roma per evitare di pagare l'affitto di palazzo Grazioli. Forza Italia vive anche di contributi volontari ma per quanto riguarda il 2 per mille è il partito che incassa di meno. L'ex presidente del Consiglio sta cercando di fare squadra, ogni giorno organizza riunione via zoom, a volte con i coordinatori azzurri, altre con Azzurro donna oppure con i ministri e i sottosegretari. «Non date sponda, vi prego, a chi vorrebbe dividerci, a chi vuole dipingere correnti che non ci sono e non ci possono essere al nostro interno», l'appello lanciato ancora ieri ai suoi. E' venuto un po' meno lo scontro tra i moderati e l'ala che guarda alla Lega, complici le nomine al governo e quelle al partito, ma la navigazione non è facile. Lo testimonia la partita sulla vice presidente della Camera. Dovrebbe toccare a FI sostituire Carfagna entrata al governo ma non c'è accordo sul nome. Con il rischio che quel posto vada ad un altro partito. In lizza ci sono Baldelli, Calabria, Prestigiacomo e Mandelli. Si voterà oggi nell' Aula di Montecitorio. Ieri sera è stato eletto per acclamazione il nuovo capogruppo: al posto di Mariastella Gelmini arriva, dopo parecchie tensioni e mediazioni, il calabrese Roberto Occhiuto.

Silvio Berlusconi, indiscrezione pazzesca sul "Tempo": "Chiuso in una stanza". La riunione è una guerra: ad Arcore...Libero Quotidiano l'08 marzo 2021. Se a sinistra il Pd esplode dopo le dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario e il Movimento 5 stelle si ritrova spaccato in due, tra governisti grillini e ribelli, anche a destra non mancano i problemi. Anzi, i mal di pancia interni stanno diventando piuttosto frequenti. Soprattutto all'interno di Forza Italia. Riporta il Tempo - il quotidiano diretto da Franco Bechis -in un retroscena che le nomine di Antonio Tajani a coordinatore nazionale e Anna Maria Bernini come suo vice, "seguite nel tentativo di placare i malumori degli azzurri dell'ala più filo-leghista esclusa dalla partita dei ministeri (andati a Carfagna, Brunetta e Gelmini), hanno provocato reazioni irritate sui territori e fra quei parlamentari rimasti fuori dalla partita". Gira una voce che dice che il giorno in cui sono stati assegnati i ruoli, riporta sempre il quotidiano diretto da Franco Bechis, Silvio Berlusconi "sia stato chiuso in una stanza della residenza di Arcore da un'infuriata Licia Ronzulli, accompagnata da Tajani e Bernini, minacciando che non sarebbero usciti di lì finché non fossero stati diramati i comunicati stampa a conferma delle nomine". Anche perché "il ruolo di Coordinatore nazionale non è previsto dallo Statuto, figuriamoci quello di vice: al momento opportuno andremo fino in fondo a questa questione", fanno notare da ambienti forzisti. Insomma la situazione dentro Forza Italia è molto tesa. Del resto nella formazione del governo Draghi ha vinto la linea “lettiana” che negli ultimi mesi si era opposta a quella filo-leghista. Renato Brunetta è diventato ministro della Pubblica amministrazione dopo esservi già stato, contestatissimo, durante l'ultimo governo Berlusconi. Stesso discorso per Maria Stella Gelmini alle Autonomie e Mara Carfagna al Sud. Nessun portafoglio, “tre ministeri minori, e con gli stessi numeri parlamentari o quasi della Lega”, attaccava un noto esponente azzurro. E la maretta continua.

Carlo Tecce per espresso.repubblica.it il 4 marzo 2021. Con la brezza del successo che scompiglia i capelli e i pensieri, allora ministro nel primo governo dei tre fin qui inanellati, Luigi Di Maio sentenziò: «Silvio Berlusconi ha fatto il suo tempo». Adesso ne trascorrono un po’ assieme. Silvio di anni ne ha 84, Luigi 34. Forza Italia fondata da Berlusconi, i Cinque Stelle fondati contro Berlusconi. Il senatore Adriano Galliani, con quel ghigno di chi sta per alzare la coppa, esulta con una citazione dell’Eneide: «Quantum mutatus ab illo! Quanto è diverso da quel che ricordo! Non siamo ignoranti, vede?». Forza Italia è al governo. Mediaset è protetta. Gianni Letta è in postazione. Il Monza calcio - non più il Milan - si prepara a vincere il campionato (di serie B). Acciacchi, inchieste e processi insistono sull’ex Cavaliere. Si rivedono pure i legittimi impedimenti per le udienze. Il patrimonio della famiglia Berlusconi, secondo le stime di Forbes, la rivista americana, è di 7,6 miliardi di dollari: è aumentato del 45 per cento rispetto a dieci mesi fa. Il tempo di Silvio & C. è ritornato. Nessuno può negare i meriti dei Cinque Stelle. La più grande novità di Mediaset è di quarant’anni fa. «Non fate i raffinati», dice Mauro Crippa, direttore generale per l’informazione, che stava già lì quando Forza Italia non c’era e forse portava ancora i baffetti da ragazzo del Movimento studentesco. «Quando mi parlano di strategie mi insospettisco, mi piace citare Fedele Confalonieri. E poi la formula di Silvio è sempre valida: spazi pubblicitari con in mezzo un po’ di televisione. Esposta in maniera concisa non è elegante, ma si capisce». Il telespettatore ideale deve svolgere due funzioni: guardare da casa e spendere in giro. La pandemia ha gonfiato per Mediaset il numero di chi guarda - 8,37 milioni di telespettatori in prima serata nel 2020 con una crescita del 12,6 per cento sul 2019, 3 punti in più della media del settore e 5 del servizio pubblico Rai - e però ha sgonfiato il numero di chi spende. I consumi si bloccano, le inserzioni si comprimono, il fatturato si assottiglia, ma il 2020 avrà un bilancio positivo, di poco, ma positivo. A Cologno Monzese, se ne vantano, si guadagna con la riduzione feroce dei costi. Sì, spesso i palinsesti sono rimpinzati con le repliche. Non hanno mica il canone di viale Mazzini, la tassa più odiata dagli italiani. Si definiscono «opportunisti». In senso ecologico, si precisa sfogliando la Treccani: «Specie adattata ad ambienti in cui la disponibilità delle risorse varia in modo discontinuo». Al bando europeo per i diritti tv della Champions League, come a ogni trattativa, Mediaset si è presentata vestita da prefica con quel lamento costante che esaspera: spiace, non possiamo pagare più dell’ultima volta. Allora ha confermato 41 milioni di euro a stagione per la partita gratuita del mercoledì. Amazon ne ha investiti 80 per 16 esclusive senza la finale, Sky Italia addirittura 100 per il resto del torneo. Il tavolo era imbandito finché ci si è accorti che c’erano 104 incontri da assegnare per la vendita su piattaforme e applicazioni digitali. Come un pallone che all’improvviso precipita dal cielo in mezzo a una mischia: vai tu, no vai tu, ci pensa lui. È sbucata Mediaset che ci ha messo circa un paio di milioni di euro, l’equivalente di una manutenzione all’imbarcazione da 37 metri che si è regalato Pier Silvio Berlusconi, e si è presa 104 gare a un prezzo ridicolo. Questa astuzia è necessaria per superare gli incerti del mestiere, poi ci sono le strategie che insospettiscono Confalonieri, classe ’37 e un anno cupo, lancinante per la morte della moglie Annick Cornet, il migliore amico di Silvio, la sua spalla musicale, il lobbista più efficace, che si divide fra l’ottavo piano della sede di Mediaset a Cologno Monzese di cui è presidente da sempre e il palazzo della Veneranda fabbrica del duomo di Milano di cui è presidente per il secondo mandato. Quelle diavolerie, le strategie, non dipendono da Mediaset, ma da Vivendi di Vincent Bolloré. Adesso l’hanno ammesso: Silvio sbagliò a fidarsi di Vincent. Fu un’intuizione errata che ha catturato il Biscione per un periodo che si può rivelare fatale. Dopo un pranzo nella villa di Arcore, Berlusconi autorizzò la campagna italiana del finanziere Bolloré con due manovre convergenti: assumere il controllo di Telecom e poi entrare, da invitato, nel capitale sociale del Biscione per creare una Netflix europea. Il patto fra Bolloré e Berlusconi culminò l’8 aprile 2016 in uno scambio di quote fra Vivendi e Mediaset con la supervalutata cessione di Premium (la televisione a pagamento) ai francesi. Poi Vivendi si è ritirata dal contratto e in Borsa ha tentato una scalata ostile a Mediaset che fu fermata da un intervento del governo di Paolo Gentiloni. Di quel giorno di illusoria gloria restano un contenzioso civile con Mediaset che reclama miliardi di danni, un’indagine penale con la famiglia Berlusconi che si riscopre a tifare per la procura di Milano e un’ipotesi di accordo che si fa e si disfa, soprattutto resta incagliato il “progetto europeo” con base legale in Olanda. Per andare in Europa, oltre alla colonia spagnola, Mediaset dispone del 24,9 per cento di Prosibensat1, l’azienda radiotelevisiva della Baviera, prettamente commerciale, che trasmette in Germania e in altri paesi di lingua tedesca. Bolloré è soprannominato il boa e lo squalo. A Cologno Monzese prediligono l’epiteto boa, per la presa: ti stringe, ti sfianca, non molla se non ti arrendi. Il boa impedisce a Mediaset di muoversi, il titolo non si è più riavuto, ma il desiderio di vendetta su Bolloré ha definito le gerarchie tra i figli Pier Silvio e Marina Berlusconi, i veri eredi. Marina ha riconosciuto il primato di Pier Silvio in Mediaset. Il supporto del governo conforta. Non è mancato. Pure i Cinque Stelle si sono affannati. Il governo giallorosso di Conte si è sfigurato, in novembre, con una norma firmata da Valeria Valente (Pd) che ha posto un altro argine alle offensive di Vivendi mobilitando l’Autorità di garanzia per le comunicazioni. La politica non ha risparmiato mai un sostegno a Mediaset, cioè al conflitto di interessi di Berlusconi, a volte l’ha fatto con slancio, altre con timidezza. Crippa ne fa una ragione etica ed estetica. Mediaset era il consumo, l’eccesso, l’impudico. I socialisti ne erano inebriati, modello di società e di azienda si potevano sovrapporre (siano lodati, è la preghiera del mattino a Cologno Monzese, Bettino Craxi e suoi decreti che ci hanno salvati). I comunisti avevano un approccio dialettico e, in fondo, neanche troppo in fondo, conciliante, come ha insegnato Massimo D’Alema. I comunisti non comunisti, come Walter Veltroni, ne coglievano lo spirito innovatore o perlomeno ne erano persuasi. I temuti grillini si sono subito appollaiati nei programmi del Biscione. Quelli indifferenti a qualsiasi blandizia, ricorda Crippa, sono i democristiani di sinistra, distanti da Mediaset per un’irrimediabile formazione culturale. Come il ministro Sergio Mattarella che si dimise nel ’90 per contestare la legge Mammì e che per il Quirinale non fu votato da Forza Italia proprio per quel vecchio sgarbo. Tutto risolto. L’ha sistemata Gianni Letta. Invece i Cinque Stelle si sono sistemati da soli. Nel 2017 la Fininvest della famiglia Berlusconi ha rifilato il Milan con 220 milioni di euro di debiti al prezzo di 540 milioni a un imprenditore cinese apparso dal nulla e scomparso nel nulla, il 28 settembre 2018 ne ha spesi 3 per comprarsi il Monza in C. «Perché noi siamo anziani e ancora romantici: io sono un ex dirigente e un tifoso del Monza di giorno e di notte. Mi permetto di aggiungere: fu stabilito il 29 settembre, compleanno di Silvio, ma era un sabato e il notaio non poteva». Galliani ha cura dei dettagli e del sodalizio con Berlusconi che dal ’79 non si è interrotto e cominciò in quel di Arcore con un invito a cena. Fu Elettronica Industriale di Galliani a fornire le antenne all’imprenditore di Telemilano58 per irradiare l’intero territorio nazionale. Poi vennero 29 trofei al Milan come quelli di Santiago Bernabeu al Real Madrid, le memorabili smorfie in tribuna a San Siro, le cravatte gialle e i soprabiti color cammello, un potere smisurato nel sistema del pallone e il debutto da senatore della Repubblica. Quando Fininvest si precipitò a Monza con i suoi uomini in grigio scuro, accanto al presidente Paolo, detto il fratello, Berlusconi e all’amministratore delegato Galliani, lo stadio Brianteo non era agibile. Il campo scelto era a Gorgonzola. Fininvest ha iniettato una massa di denaro travolgente per la modesta serie C girone nord. Al primo tentativo, durante la pandemia, il Monza ha agguantato la B con 9,25 milioni di euro di passivo nel 2019. Oggi lo stadio Brianteo non esiste più, il nome è di uno sponsor: di U-Power, un’azienda di calzature e abbigliamento da lavoro. Per riqualificare il centro di allenamento Monzello e l’ex Brianteo, due beni in concessione, in attesa di abbattere e ricostruire l’impianto ad eccezione della tribuna, Fininvest ha sborsato 6 milioni di euro. E l’ha fatto con assoluta leggerezza anche per l’originale convenzione totale, di opere ordinarie e straordinarie, che fu sottoscritta fra il comune di Monza e il Monza calcio nel luglio 2018, a tre mesi dall’arrivo di Galliani e Berlusconi: 44 anni con un obolo annuo di 10.101 euro (ribassato dell’80 per cento), roba da un bilocale in periferia. San Siro era un altro blasone e un altro contesto e il Milan ha un affitto di quasi 5 milioni di euro, però il Monza offre le condizioni più comode per sfruttare uno stadio come se fosse di proprietà. La raccolta pubblicitaria del Monza è gestita da Digitalia, cioè Publitalia, l’agguerrita concessionaria di Mediaset. I risultati sono inediti: 2,25 milioni di euro in C e circa 6 per la B. È il metodo Publitalia: pretendere uno sforzo dai clienti adesso per ricevere un vantaggio domani. Galliani ha ingaggiato una trentina di calciatori soltanto per questa stagione e i vari Kevin Prince Boateng e Mario Balotelli spingeranno le perdite ben oltre il doppio del 2019. Il Monza è fra i principali favoriti per il salto in A. «L’ho promesso a Silvio: derby con il Milan e l’Inter entro 24 mesi e io impazzisco, lo giuro». Il Milan di Berlusconi ha 5 Champions League in bacheca, perché svenarsi per il Monza? «Mi sembra un quesito semplice - sostiene Galliani - Io sono di Monza e lui abita da mezzo secolo in provincia di Monza. Lo sapete che dalla villa di Arcore può vedere le luci dello stadio?». Galliani è rientrato e le altre squadre l’hanno rieletto in Lega. Gli tocca la Lega di B e la modesta vicepresidenza poiché non si trattiene a lungo, l’anno prossimo è previsto il trasloco in A, ma il presidente Mauro Balata gli deve l’incarico. Il fondo inglese Cvc ha negoziato l’ingresso nella Lega di A con i patron di A senza consultare Galliani. Peccati di gioventù. Galliani li ha bombardati e poi ha artigliato un confronto con Cvc. In politica Berlusconi ripete sempre la stessa scenetta. È successo con l’indicazione dei ministri di Forza Italia nell’esecutivo Mario Draghi: Renato Brunetta, Mariastella Gelmini e Mara Carfagna. Antonio Tajani e Licia Ronzulli hanno protestato. Berlusconi li ha ascoltati, si è scusato per il torto, che ne poteva sapere. Avrà fatto Gianni Letta con il premier Draghi. E chi se non Gianni Letta che dal ’94 lo scorta nei palazzi romani? Qualcuno ci casca ancora. Erano otto anni che non c’era un forzista nel governo, almeno un forzista non mimetizzato. A Mediaset non intravedono più nemici o pericoli. Anzi hanno apprezzato la svolta dei Cinque Stelle. Si attendono che da un momento all’altro bussi un grillino e - come fece Cesare Pavese con la tessera del Pci - chieda di «regolare la sua posizione» di berlusconiano mancato. Alla fine il tempo lo si trova.

Il Cav salva di nuovo la democrazia. Dando via libera a Draghi anche a costo di provocare malumori fra gli alleati, Silvio Berlusconi completa il secondo ciclo storico. Paolo Guzzanti, Sabato 06/02/2021 su Il Giornale. Dando via libera a Draghi anche a costo di provocare malumori fra gli alleati, Silvio Berlusconi completa il secondo ciclo storico. Il primo fu bloccare all'ultimo istante l'operazione che avrebbe dovuto consegnare al vecchio Partito comunista la Repubblica, decapitata da un'impresa giudiziaria. Berlusconi costruì allora una macchina da guerra liberale che batté quella dell'ultimo segretario del Pci, che la definiva «gioiosa». A Berlusconi gliela fecero pagare carissima, e questa è storia nota. Adesso siamo al secondo salvataggio in extremis della democrazia liberale per metter fine al secondo ciclo perverso: quello del populismo dell'uno vale uno, cioè niente; della decrescita infelice, del reddito alla ndrangheta e del progetto dichiarato di aprire la democrazia come una scatola di tonno, impresa che è già cominciata e in parte è riuscita. Affinché ciò avvenga, occorre un capitano, non un raccattapalle che metta insieme tutti i «punti di caduta», visto che l'Italia intera è un Paese in caduta libera, visto che «il morbo infuria e il pan ci manca» - pandemia e crisi economica - come ai tempi della guerra e peste di Venezia del 1849. La scelta di sostenere questo governo ha non solo lo scopo di rimettere a posto sanità ed economia a pezzi, ma di ridare vita alla democrazia liberale che Grillo e i suoi hanno cominciato a distruggere. Questo è il punto non di caduta, ma di riscossa su cui l'intero centrodestra dovrebbe ripartire senza svenarsi sulle differenze.

Simona Ravizza per corriere.it il 6 febbraio 2021. Il problema è sempre lo stesso: la fibrillazione atriale parossistica, ossia un’alterazione del ritmo del cuore che l’ex premier Silvio Berlusconi si trascina da tempo e si riacutizza di tanto in tanto (per tenerla sotto controllo da anni ha il pacemaker). L’assenza del leader all’incontro con Mario Draghi, però, assicura chi gli è più vicino, non è dovuta a un nuovo episodio, bensì alla necessità di mantenere il «riposo assoluto» che gli è stato prescritto dal medico di fiducia Alberto Zangrillo in occasione dell’ultimo attacco: è il 14 gennaio quando Berlusconi viene ricoverato al Centro cardiotoracico del Principato di Monaco per un paio di giorni proprio per questo problema. Quel periodo di «convalescenza» non è ancora trascorso. Così niente incontro. Berlusconi, 84 anni, era risultato positivo al Sars-CoV-2 nel settembre dello scorso anno, e aveva sviluppato i sintomi del Covid-19, tra cui una polmonite bilaterale. Anche i figli Luigi, Barbara e Marina erano in seguito risultati positivi al virus. Uscito dal ricovero, Berlusconi aveva parlato della malattia come di una battaglia durissima, aveva precisato di essere stato in angoscia per figli e nipoti, e aveva invitato i malati a «non lasciarsi andare».

Flavia Perina per "La Stampa" il 10 febbraio 2021. Silvio Berlusconi rientra a Roma dopo un anno di quarantena e la crisi politica si tinge immediatamente di show perché c'è il tweet presidenziale sulla scaletta dell'aereo («Arrivato a Roma»), le riprese a villa Zeffirelli con il cane Dudù e persino il video musicale per celebrare l'evento, con lui che appare dietro un vaso di geranei, saluta facendo capolino, poi si mostra a figura intera, col sole che lo illumina mentre sorride. È Evita Peron, al suo trionfale ritorno in Argentina, oppure Gloria Swanson nell'ultima scena di Sunset Boulevard («Eccomi De Mille, sono pronta per il mio primo piano»)? Si dovrà decidere. Intanto i cameramen gridano «Daje Silvio», i parlamentari forzisti si affollano emozionatissimi nei corridoi della Camera, i commessi si inchinano. Ecco, prima di lui la crisi era troppo seria, triste, "europea", con lui torna un po' più italiana e funambolica. L'improvvisa riapparizione del Cavaliere nel teatro delle consultazioni oscura persino Beppe Grillo (pure lui di nuovo a Palazzo Chigi per il secondo giro) e si impone sulle immagini decisamente stanche di Matteo Salvini e Nicola Zingaretti. Nessuno dei big ha molto da aggiungere alle cose già sentite, e anche Silvio ripete frasi scontate sulla necessità di un governo di unità nazionale. Ma, nel suo caso, il messaggio non è nelle parole. È nella postura, nell'estetica, nella colonna di macchinoni che lo trasporta a Montecitorio, nel gesto rapido con cui si leva la mascherina per farsi riprendere bene dai fotografi. «Sì, sono proprio io». O anche: «Quando la Patria chiama, io ci sono» (non l'ha detto davvero, ma il sottotesto era palese). Tornare a Roma per Silvio Berlusconi è stata probabilmente una necessità politica. Fino a una settimana fa, pensava di poter costituire la colonna portante del governo Mario Draghi nel formato della "maggioranza Ursula". A Forza Italia sarebbe toccato il ruolo prima esercitato dai renziani: quello di partito numericamente indispensabile, e quindi titolare della golden share dell'esecutivo. Poi Matteo Salvini ha fatto il suo giro di valzer e Forza Italia è diventata assai meno importante. Era la reginetta della festa, in cinque minuti si è trovata a far tappezzeria. Allora, come sempre, è toccato al Cavaliere riaccendere i riflettori su se stesso e sui suoi trasformando la partecipazione alle consultazioni in una celebration lunga un giorno. In mattinata l'arrivo nella Capitale con jet privato: la foto in total black sulla scaletta viene spinta ovunque sul web. «Stai come un picchio!» commentano i fedelissimi, e ognuno ha un suggerimento, compreso chi dissente dalla scelta delle scarpe («Presidente, però le Hogan no» - segue dibattito con 25 commenti sull'importanza del calzare italiano e sulla collocazione politica del brand, che per qualcuno è comunista). Poi la corsa nella sua nuova residenza romana, la villa sull'Appia Antica che fu di Franco Zeffirelli, ed è qui che si gira il video dei geranei mentre i fotografi riescono a riprendere il cane Dudù insieme a Dudina. Di nuovo in auto, ed è subito Montecitorio: esterno Camera con folla, interno con le feste dei forzisti e la tappa nell'ufficio della vicepresidente Mara Carfagna, dove scoppia l'applauso. Il colloquio col premier incaricato diventa un dettaglio (anche se servirà per mostrare la gran confidenza, il fatto che si danno del tu) in una giornata programmata per avere un solo titolo: «Lui c'è». Il successo mediatico della resurrezione, oltreché il trasporto a Roma dei cani, fa pensare che Berlusconi sia tornato per restare, almeno un po', e tentare l'ultimo colpo della sua carriera conquistando un ruolo di protagonista nell'operazione di salvezza nazionale che sta per aprirsi. Dopo un anno di buen ritiro a Nizza forse si è stufato, forse ha capito che la conversione di Salvini rischia di produrre un disastroso sorpasso al centro con l'immaginabile e temutissimo ingresso del Capitano nel Ppe. Un Salvini "merkeliano" cancellerebbe l'ultimo plus rimasto a Forza Italia dopo il declino elettorale: l'apparentamento "in esclusiva" con la famiglia che guida il Continente. Brividi. E così, ecco lo show, i cani, i video, la photo-opportunity sulla scaletta, ecco la necessità di mostrarsi di nuovo vivo e vegeto dopo un anno di lockdown in quel di Nizza, con lo scopo evidente di restaurare l'immagine del leader sempre-in-piedi e (forse) il desiderio occulto di fare un dispetto a Pd e grillini («ecco, dovete ingoiare anche questo rospo»). Non è la prima volta che succede. Il titolo «Silvio is back» lo abbiamo letto a cadenza quasi annuale fin dal 2013, l'anno dell'addio al Parlamento, perché ogni campagna elettorale era una ri-discesa in campo, ogni momento topico un nuovo predellino, sempre seguito da sparizioni sempre più lunghe e preoccupanti per i suoi (vai a vedere che, così come ha dismesso il Milan, vuole liquidare per esaurimento pure il partito?). Anche in questa occasione, come nelle precedenti, il dubbio sulla natura della rentrée resta. Uno show occasionale o un nuovo progetto? Il primo atto di una nuova storia, o l'ultimo ciak, luccicante e malinconico, di un grande divo che ha visto esaurirsi la sua stagione? Insomma, Evita o Gloria?

Fabrizio Roncone per il "Corriere della Sera" il 10 febbraio 2021. Montecitorio, quello che avete visto alla tivù è niente. Pomeriggio con un tasso di situazionismo pazzesco. A parlare con Mario Draghi sono venuti tutti. Ma tutti. «Andiamo a salutare lo Zio Silvio!», urla un fotografo buttandosi giù per le scalette di via della Missione, mezzo ironico e mezzo sincero, con quel po' di nostalgia canaglia per i tempi in cui Silvio Berlusconi faceva tutto in grande, politica opere e peccati, anche se poi in effetti eccolo che ancora arriva dentro un corteo da sultano, il pulmino blindato in coda a cinque macchine, la sua che si infila subito nel garage. Ma come: non si fa vedere? Ragazzi, calma: vi siete dimenticati del senso di Berlusconi per lo spettacolo? E infatti, nemmeno il tempo di finire la frase, lo Zio Silvio è già qui fermo sul portone, con le capogruppo di FI Anna Maria Bernini e Mariastella Gelmini alle spalle, le sue spalle ormai un po' curve dentro il solito magnifico doppiopetto blu di Caraceni. Si scatena un mischione. «Presidente, è un piacere vederla!». «Grande!». «Bella Silvio!». Microfoni nell' aria, le luci delle telecamere accese. Lui se la gusta tutta questa scena antica, d' un tempo andato, s' abbassa pure la mascherina anche se non dovrebbe, e così tutti notiamo le rughe belle dell' età che nemmeno un dito di cerone riescono più a nascondere. Ma va bene, gli anni passano per tutti e anche per Berlusconi, che è voluto venire in volo privato dalla Provenza, che dopo aver dato la linea al suo partito adesso con Draghi vuole parlare personalmente, nonostante appena quattro giorni fa i medici siano stati perentori dicendogli: no, presidente, il suo cuore ogni tanto saltella e lei, a Montecitorio, non ci va. Un quarto d' ora dopo. Sala della Lupa. Qui può darsi che qualcosa siate riusciti a guardarla, nei tigì. Draghi va incontro a Berlusconi - che avanza leggermente incerto, come ciondolante - e poi si danno il gomito, e si sente l' ex grande capo della Bce che dice con tono accogliente: «Ciao, grazie per essere venuto». È una di quelle scene destinate a restare (uscendo Berlusconi dichiarerà: «L' ora è grave. Totale sostegno. Governo di unità»). Il tempo di scrivere due appunti sulla Moleskine. E di vedere, subito, laggiù, Nicola Zingaretti. La delegazione del Pd ha preceduto quella di FI. Con Draghi, raccontano i democratici, l' incontro stavolta è stato assai fruttuoso e così adesso se ne stanno andando tutti abbastanza soddisfatti - Zingaretti, Orlando, alcuni componenti dello staff. Ma, all' improvviso, compare Beppe Grillo. Il capelli bianchi. Il viso bianco. Lo sguardo cupo. Preoccupato? Sì, molto preoccupato. «Avete consegnato tutte le cartuccelle?» (Grillo è rimasto, sostanzialmente, un comico, e da comico pensa sempre di dover far ridere: così prova a ironizzare sul corposo dossier che il Pd ha appena consegnato a Draghi). «Sì, gli abbiamo consegnato tutte le carte», risponde Zingaretti, mettendo su un' aria simpatica, ma che in realtà è di pura cortesia. Ancora Grillo: «Com' è andata?» (cerca di capire come va agli altri, mentre sta per decidere che sarà meglio rinviare il voto sulla piattaforma Rousseau, che lo lascerebbe penosamente appeso insieme a Di Maio). Zingaretti: «La situazione si muove, si muove», replica un po' vago il segretario del Pd, che comunque qualche pensiero ce l' ha pure lui (da ore gli arrivano i siluri interni della coppia Bonaccini&Gori, che con grande sensibilità politica pensano di assaltare la segreteria del partito mentre qui non c' è ancora nemmeno un governo; poi, ma questo Zingaretti non lo ammetterà mai, poi c' è che gli tocca venire a parlare con Draghi insieme ad Andrea Marcucci, il capogruppo al Senato legato da profonda amicizia a Matteo Renzi, il sorriso dolciastro, la richiesta di un congresso formulata mentre ancora il Paese viaggia alla media di 400 morti al giorno; Zingaretti gli ha dovuto rispondere duro: «Parlare di congresso, ora, è da marziani»). Ecco, appunto. E Renzi? Ci sono tutti, c' è pure lui. Partecipa all' incontro con il gruppo di Iv. Ma poi davanti ai microfoni lascia Maria Elena Boschi, sempre vestita di nero. Renzi va via mollandoci comunque un paio di notizie niente male. La prima: è già una settimana che non cambia idea. La seconda: saluta dicendo «Sono felice. I love you», e bisogna ammettere che la pronuncia in inglese, sì, la imbrocca (non è molto portato per le lingue straniere, fatica tanto, i miglioramenti vanno segnalati). Nient' altro. A parte Giorgia Meloni e i suoi che restano da Draghi mezz' ora in più del consentito. E Matteo Salvini che esce e viene al microfono. Canticchia. Se ne va. Poi torna, è un po' sudato e ha un accenno di fiatone (può essere un po' di stanchezza; ma se ricapita, qualcuno avverta la fidanzata, Francesca Verdini) .

Silvio Berlusconi, chiesto un prestito di 80 milioni e ipotecata Villa Certosa: mossa clamorosa, cosa c'è dietro. Libero Quotidiano il 10 maggio 2021. Il pallino di Silvio Berlusconi? Da sempre il mattone, il mercato immobiliare. E così si apprende che il Cav ha chiesto un prestito obbligazionario da 80 milioni di euro, il secondo in pochi anni, per sistemare le sue ville e cogliere eventuali opportunità che presenta il mercato. Il tutto lo rivela Iltempo.it, che spiega come Idra Immobiliare - la società che ha la proprietà formarle delle residenze del leader di Forza Italia in Sardegna, ad Arcore e a Macherio - non abbia potuto che lanciare, appunto, un nuovo prestito obbligazionario da 80 milioni di euro dopo quello quinquennale di analogo importo già ottenuto nel 2018. E ancora, si apprende che il nuovo prestito ha durata di 6 anni (2021-2027) e un tasso fisso nominale annuo del 2,70%, che sarà pagato tutto in un'unica soluzione alla data di scadenza del prestito. Come garanzia è stata posta un'ipoteca di secondo grado sull'intero complesso immobiliare di Villa Certosa, la sontuosa residenza estiva di Berlusconi in Sardegna, a Porto Rotondo. Nel dettaglio, rientrano nell'ipoteca il corpo centrale della villa da 68 vani, con autorimessa e pontile, la Torre di fronte al teatro greco per gli spettacoli destinati agli ospiti, la villetta separata denominata “La Casermetta”, di 9 vani con pertinenze, le casette separate ed autonome “La Palappa”, il “Cactus” e “Ibiscus", i due Bungalow da due vani a testa, il teatro stesso, il piccolo frutteto-serra, la grande serra, i campi da tennis con gli spogliatoi e i parcheggi, la palestra, l'orto medicinale, il Gazebo Le Vele e l'edificio separato per la talassoterapia. Con questi 80 milioni di euro, Berlusconi potrebbe portare a termine le ristrutturazioni delle sue ville, che di fatto avvengono con cadenza annuale. Ma come detto, il Cav potrebbe soprattutto acquistare tramite Idra altre proprietà da inserire nella sua lunga collezione di immobili.

Mega ville e 48 milioni. Il Cav resta Paperone. Silvio Berlusconi si conferma il Paperone numero 1 nel Parlamento italiano e a Bruxelles, con un imponibile di oltre 47 milioni di euro dichiarati al fisco nel 2020. Redazione - Gio, 04/03/2021 - su Il Giornale. Silvio Berlusconi si conferma il Paperone numero 1 nel Parlamento italiano e a Bruxelles, con un imponibile di oltre 47 milioni di euro dichiarati al fisco nel 2020. Rispetto al 2019, una perdita di oltre 500mila euro. Negli ultimi tre anni il patrimonio mobiliare e immobiliare dell'ex premier non è cambiato. Berlusconi, quindi, ha conservato la proprietà di tre «fabbricati» a Milano (a cominciare dalla storica residenza di via Rovani, prima del Covid utilizzata per i vertici di centrodestra con Matteo Salvini) e di Villa Campari, sul Lago Maggiore, a Lesa, provincia di Novara. Possiede, inoltre, due magioni ad Antigua e una a Lampedusa (l'ex villa Due Palme, acquistata nel 2011) e ha conservato la proprietà pure di Villa Maria, a Rogoredo di Casatenovo, dove viveva con la ex fidanzata Francesca Pascale. Nelle dichiarazioni di reddito non risulta l'ex Villa Zeffirelli. Eppure, secondo indiscrezioni, la magione, ribattezzata Villa Grande, dovrebbe essere stata acquistata dal leader di Fi per oltre 3 milioni di euro nel 2001. Oltre ai 47 milioni di euro, fanno parte del tesoretto del Cav pure una Audi A6 e tre imbarcazioni extra lusso. Invariato il «pacchetto titoli»: parliamo di 5.174.000 azioni della Dolcedrago spa; 2.444.144 azioni della Holding italiana 1 spa; 2.199.600 della Holding italiana 2 spa; 1.193.400 quote della Holding italiana 3 spa; 1.095.140 azioni della Holding italiana 8 spa, 200 azioni della Banca popolare sviluppo di Napoli e 896mila titoli della Banca popolare di Sondrio. 

Il leader di Forza Italia. Berlusconi, caduta a Villa Grande e ricovero per una contusione: dimesso in mattinata. Antonio Lamorte su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. Silvio Berlusconi è caduto. La notizia diffusa dall’ufficio stampa del fondatore e leader di Forza Italia. Il Cavaliere, quattro volte presidente del Consiglio, è stato dimesso. Era stato portato presso la Clinica “La madonnina” di Milano per degli accertamenti, dov’è stato ricoverato. La caduta, nella sua nuova abitazione romana, Villa Grande, gli aveva procurato una contusione al fianco. “Il Presidente Silvio Berlusconi è rientrato a Milano ieri sera a causa di una caduta accidentale occorsa nella sua residenza romana che gli ha procurato una contusione al fianco. Si è recato presso la Clinica "La madonnina" per gli accertamenti del caso e dove ha trascorso la notte”, ha comunicato in una nota l’ufficio stampa del leader di Forza Italia. Berlusconi “è stato dimesso questa mattina ed è  a casa, al lavoro, per votare da remoto al Parlamento Europeo“. Berlusconi martedì ha partecipato alla seconda tornata di consultazioni con il premier incaricato Mario Draghi. Pieno appoggio da parte di Forza Italia a un esecutivo guidato dall’ex Presidente della Banca Centrale Europea. All’uscita dall’incontro Berlusconi ha fatto delle dichiarazioni alla stampa. E’ parso visibilmente affaticato. Il Cavaliere lo scorso autunno è risultato positivo al coronavirus. Il mese scorso il ricovero in Costa Azzurra per problemi cardiaci. Nella sua nuova residenza romana – acquistata nel 2001, e affidata al regista Franco Zeffirelli, che vi ha vissuto fino alla morte – ha incontrato anche il segretario della Lega Matteo Salvini. Anche il Carroccio appoggerà il governo Draghi. Il centrodestra si è spaccato sull’esecutivo: Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia ha detto che il partito non farà parte del governo, forse voterà l’astensione.

La residenza nella capitale. Berlusconi, Villa Grande è la sua nuova residenza a Roma: fu casa di Zeffirelli. Vito Califano su Il Riformista il 10 Febbraio 2021. Silvio Berlusconi a Roma per le consultazioni con il Presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi. Il Cavaliere è tornato ieri nella Capitale: per la prima volta ha soggiornato a Villa Grande, detta anche Villa Zeffirelli. Il premier incaricato e il quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri si sono salutati come due amici. “Grazie per essere venuto”, ha detto Draghi al leader di Forza Italia. Pieno appoggio da parte del partito all’esecutivo che dovrebbe essere guidato dall’ex presidente della Banca Centrale Europea. Berlusconi è apparso visibilmente affaticato. Lo scorso autunno è risultato positivo ed è guarito dal covid-19. Il mese scorso è stato ricoverato d’urgenza in Costa Azzurra per problemi cardiaci. Da tempo ha disdetto il contratto di affitto a Palazzo Grazioli. La villa sull’Appia Antica è stata comprata dal Cavaliere nel 2001. Si trova in un comprensorio molto grande realizzato dalla famiglia Papa dove vivono o hanno vissuto anche altri esponenti del mondo della cultura tra cui lo stilista Valentino. Il regista Franco Zeffirelli, a causa di problemi economici, rischiava lo sfratto, quindi il Cavaliere, suo grande amico, decise di aiutarlo acquistando la proprietà e consentendogli di viverci per il resto della sua vita. Perciò viene chiamata  anche Villa Zeffirelli. Il regista vi ospitò numerose star e artisti di calibro internazionale come Elizabeth Taylor a Liza Minnelli, Paolo Villaggio, Ursula Andress, Edwige Fenech. Subito dopo l’atto di acquisto sono stati avviati lavori di manutenzione che ne hanno accresciuto di molto il valore. Lavori che sono durati a lungo, anche rallentati dalla pandemia da coronavirus. Ad attenderlo nella nuova casa romana il vice presidente Antonio Tajani.

Così Silvio Berlusconi l’immortale è tornato al centro della scena. Francesco Damato Il Dubbio il 7 febbraio 2021. Silvio Berlusconi è tanto orgoglioso quanto geloso dei suoi successi e gli dà fastidio doverli condividere e rivendica l’indicazione di Draghi alla Bce. Figuriamoci se Silvio Berlusconi non si lasciava perdere l’occasione per partecipare in qualche modo alla festa del “suo” Mario Draghi. Al quale ha telefonato di persona per anticipargli l’appoggio che la delegazione forzista gli avrebbe espresso nelle ore successive e scusarsi del divieto impostogli da medici e familiari di muoversi dalla villa in Provenza. Dove la figlia Marina lo ha affettuosamente e metaforicamente chiuso a chiave per proteggerlo dal Covid. Quel “suo” nasce dalla convinzione di Berlusconi di essere stato lui nel 2011, ancora presidente del Consiglio, a volere e saper portare Draghi alla presidenza della Banca Centrale Europea. Certo, il curriculum già internazionale dell’allora governatore della Banca d’Italia era tanto consistente da rendere difficile alla Cancelleria di Berlino o all’Eliseo una resistenza oltre un certo limite alla candidatura avanzata da Berlusconi. Al quale i vertici comunitari, a dire il vero, guardavano ormai più con diffidenza che con simpatia, preferendo spesso interloquire direttamente col presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sino a metterlo qualche volta in imbarazzo. Ma, per carità, non ditelo al Cavaliere, convinto di essere stato lui, e soltanto lui, l’artefice di quel trasferimento di Draghi a Francoforte. Si sa che Berlusconi è tanto orgoglioso quanto geloso dei suoi successi e gli dà fastidio doverli condividere con altri. D’altronde, ai tempi della sua sostanziale defenestrazione da Palazzo Chigi, sempre in quel fatidico autunno del 2011, egli fece buon viso al cattivo gioco della crisi del suo ultimo governo di fronte al nome del successore: Mario Monti. A proposito del quale Berlusconi non perse un istante per vantarsi di averlo voluto, da presidente esordiente del Consiglio nel 1994, a rappresentare l’Italia con Emma Bonino nella Commissione Europea. Anche Monti era in qualche modo “suo”, e continuava ad esserlo anche dopo essere stato confermato a Bruxelles dai governi successivi, di segno politico opposto. Fu tanto orgoglioso di dovergli cedere Palazzo Chigi che Berlusconi, contrariamente alla prassi, volle controfirmare personalmente il decreto del Presidente della Repubblica con cui Monti veniva nominato a senatore a vita per alti meriti prima di ottenere l’incarico di presidente del Consiglio. Così peraltro quel poco che era, ed è, rimasto dell’immunità parlamentare poteva in qualche modo mettere al riparo il capo del nuovo governo da qualche iniziativa avventata di un sostituto procuratore della Repubblica. E chi più di Berlusconi poteva capire e condividere una simile cautela? Va detto che Monti non si mostrò per nulla imbarazzato da tanto calore. E si compiacque della decisione di Berlusconi di interrompere, diciamo così, l’alleanza con la Lega di Umberto Bossi pur di votargli la fiducia. Quella del Carroccio fu invece opposizione dura, alla quale tuttavia si convertì pure Berlusconi in vista delle elezioni ordinarie del 2013. Che il Cavaliere, col fiuto e l’ostinazione che gli riconoscono anche gli avversari, ritenne di poter vincere se affrontate con la Lega. E ci sarebbe riuscito se Monti, per una sostanziale ritorsione in nome della difesa della propria “agenda” politica, non fosse sceso in campo pure lui con un movimento che poi si dissolse come neve al sole nella nuova legislatura, non prima però di impedire – come poi egli stesso si sarebbe più volte vantatouna candidatura vincente di Berlusconi al Quirinale per la successione a Giorgio Napolitano. Che infatti, fallite le corse di Franco Marini e di Romano Prodi, entrambi azzoppati dai soliti “franchi tiratori” dello schieramento di appartenenza, fu confermato. Lasciatemi esprimere con tutta franchezza la convinzione che Berlusconi, se fosse riuscito ad andare al Quirinale, difficilmente sarebbe finito dopo solo qualche mese in quella curiosa storia di un processo per frode fiscale celebrato in ultima istanza, quasi al limite della prescrizione, e conclusosi con la condanna del primo o fra i primi contribuenti italiani. Quello che è uscito proprio in questi giorni dai ricordi di Luca Palamara sugli intrecci fra magistratura e politica avvalora, a dir poco, la mia impressione. Ma torniamo a Draghi e al suo governo, di cui si può dare ormai per scontato che nascerà con l’aiuto, a dir poco, di Berlusconi. Che è tornato d’altronde sulla scena già da qualche tempo, se mai ne è stato davvero allontanato, col progressivo logoramento del secondo governo di Giuseppe Conte. E’ un Berlusconi di cui non si capacita – giustamente dal suo punto di vista – il pugnace Marco Travaglio. Che ieri sul Fatto Quotidiano, nervoso anche coi pentastellati refrattari ai suoi consigli e ormai prenotatisi, secondo lui, al “suicidio assistito”, si chiedeva se davvero Draghi e persino Beppe Grillo, con tanto di fotomontaggio, si apprestassero a “governare con lo Psiconano”. Che naturalmente è diventato nel testo dell’editoriale, non bastando il dileggio fisico, il solito “pregiudicato amico dei mafiosi”.

Alberto Mattioli per "la Stampa" il 28 gennaio 2021. C'eravamo tanti odiati. Però l' unica caratteristica che i politici italiani hanno in comune con James Bond è una saggia regola di vita: mai dire mai. E così il già detestassimo Berlusconi diventa, se non una costola della sinistra (quella era la Lega secondo D' Alema in un raro momento di buonumore), almeno un possibile interlocutore. Perché molti pensano che senza un soccorso azzurro il nuovo governo non si farà o, se si farà, nascerà morto. Le sirene sono al lavoro, i pontieri pure, i costruttori anche, i responsabili non stanno con le mani in mano. E l' ex Cavaliere viene descritto pieno di dubbi in Provenza, combattuto se starci, svincolandosi da un centrodestra sempre più destra e sempre meno centro e di cui ormai è socio di minoranza (rinunciando però al Quirinale che Salvini gli fa intravedere dopo gli immancabili destini elettorali, se e quando ci saranno) oppure non starci, ma con mezzo partito, trenta fra senatori e deputati, dicono, che si ribellerebbe e ci starebbe comunque. Amleto in Costa Azzurra. Certo che per Silvio essere sdoganato a sinistra come responsabile europeista moderato dev' essere una bella soddisfazione, dopo trent' anni di caimano, cainano, cavaliere mascarato, corruttore, corrotto, giaguaro, censore, mafioso, puttaniere e chi più ne ha più ne insulti. Preferite definizioni d' autore, la fantasia finalmente al potere? «Bananiere» (Eugenio Scalfari), «Wanna Marchi» (Willer Bordon), «pazzo» (Oliviero Diliberto), «pagliaccio» (Fidel Castro, nientemeno), «buffone» (Mario Vargas Llosa, addirittura), «ominicchio» (Dario Franceschini), «De Gaulle da operetta» (Franco Bassanini), «venditore di tappeti» (Romano Prodi), «uomo di plastica» (sempre Franceschini), «gli serve l' interdizione» (Andrea Orlando), è «insopportabile quando racconta barzellette» (il principe Carlo Caracciolo), e insomma Silvio rappresenta «una delle pagine meno nobili e più opache della nostra storia» (Bruno Tabacci, sì, lui, l' attuale costruttore ottimo massimo). Bei tempi, quando quei rossi antichi di Legambiente, come rappresaglia per la discesa in campo del '94, proponevano di boicottare la Standa e smettere di tifare Milan. Tutti peraltro convintissimi, all' epoca, che contro la gioiosa macchina da guerra occhettiana il «partito di plastica» generato da Publitalia e Mediaset si sarebbe accartocciato come una bottiglietta strizzata, perché «non siamo mica in Brasile», D' Alema dixit. Avanti a sinistra, si sa, le previsioni si sbagliano sempre tutte. E così oggi la tentazione di baciare il Caimano è fortissima. I segnali, del resto, sono cominciati ben prima che il Conte II si schiantasse. Galeotta fu l'intervista al «Foglio» di Carlo de Benedetti nel luglio scorso, che oggi suona singolarmente profetica: «Se si tratta di isolare Salvini e Meloni trangugio anche Berlusconi al governo con la sinistra». Che poi Silvio sarà pure cafone ma «rappresenta nel mondo dell'economia e della politica quello che Alberto Sordi è stato nel cinema. L'arci-italiano. Un grande artista, Sordi. E un grande imbroglione, Berlusconi. Ma comunque grande». Non basta? Allora eccovi Romano Prodi, uno che il Cav l'ha combattuto come tutti, ma l'ha anche sconfitto due volte come non è riuscito a nessuno. Quest' estate, il Prof spiegava che un ingresso di Forza Italia in maggioranza «non è un tabù». Anche perché si tratta di un Silvio rinsavito, beninteso: per Prodi «la vecchiaia porta la saggezza anche a destra», frase forse a doppio senso perché non è poi che lui sia un giovinotto. E Bersani, decisamente più a sinistra degli altri due? Rispetto al duo horror Salvini & Meloni, «Berlusconi non ci sta dentro a una roba così», dunque smacchiamolo 'sto giaguaro. Non sarebbe certo la prima volta che ci si prova a mettere d'accordo da buoni nemici. Primo caso, la Bicamerale di D' Alema e il «patto della crostata» sulle riforme istituzionali, firmato il 18 giugno 1997 a casa di Gianni Letta e poi fermato da un voltafaccia di Silvio (però il finissimo Letta avrebbe dovuto saperlo, che il 18 giugno è l'anniversario di Waterloo, una data che porta male ai Napoleoni, anche quelli di Arcore). Secondo, i governi di salvezza nazionale di Monti (529 giorni fra l'11 e il 13) e Letta nipote (300 giorni netti fra il 13 e il 14), variamente appoggiati dai berluscones pur fra ripensamenti e mal di pancia. Terzo, il mitico «patto del Nazareno» fra Berlusconi e Renzi, 18 gennaio 2014, con tutto il ghiotto contorno di pezzi di colore dei giornali su Silvio che varca per la prima volta le soglie della sede del Pd, chissà che odore di bambini in salmì...Insomma, non sarebbe la prima volta che, se proprio non lo si bacia, con il Caimano la sinistra pomicia un po'. Ma magari anche lì è scattata la tradizionale lamentela delle nonne, la mai smentita massima per cui si stava meglio quando si stava peggio, quindi quando sbucò Berlusconi si iniziò a rimpiangere la Dc e quando è arrivata la destra tosta di Matteo & Giorgia, tutto sommato, Silvio si è rivelato il minore dei mali e il migliore dei nemici. Mai dire mai, appunto.

Vittorio Feltri, l'elogio di Silvio Berlusconi: "Favori? Me ne ha fatti tanti...". Libero Quotidiano il 25 gennaio 2021. Un piccolo-grande attestato di stima firmato Vittorio Feltri. Il bersaglio della stima del direttore di Libero è Silvio Berlusconi, il leader di Forza Italia al centro di mille voci politiche, voci che si intrecciano con la crisi di governo: gli azzurri aiuteranno davvero Giuseppe Conte? Si spacceranno? Non ci resta che attendere. Dunque, spazio alle parole di Feltri, che in un primo cinguettio afferma: "Non credo che Berlusconi voglia un governo ammucchiata". Dunque, in risposta a una serie di tweet arrivati a commentare quanto scritto dal direttore, ecco l'attestato di stima: "A me Berlusconi piace perché è stato il mio migliore editore non avendomi mai condizionato. Non mi ha mai chiesto un favore e lui a me ne ha fatti tanti", ha concluso Vittorio Feltri.

Mario Gerevini per corriere.it il 3 giugno 2021. Ville e lavori, gioie e dolori. Con l’ultimo «rosso» record (8 milioni) nel 2020, ripianato da poco, il conto totale di dieci anni di «spese condominiali» di Silvio Berlusconi per le sue residenze è di 35 milioni, riscaldamento, utenze, ristrutturazioni, manutenzioni, giardinieri, vigilanza, insomma tutto compreso. E il 2021 si prospetta altrettanto preoccupante per il fedelissimo Giuseppe Spinelli, il ragioniere di Bresso che tra poco compie 80 anni e che da sempre cura gli affari personali del Cavaliere, case incluse.

Lavori a Porto Rotondo. Infatti Berlusconi, attraverso Immobiliare Idra, la società presieduta da Spinelli che amministra i suoi sontuosi e costosi gioielli (Arcore, Macherio, Lago di Como, Sardegna), ha presentato una richiesta al Comune di Olbia per «interventi di miglioramento del patrimonio edilizio esistente», ovvero Villa Certosa, la reggia estiva di Porto Rotondo. Ma il Piano Casa approvato dalla Regione a gennaio è stato impugnato dal governo Draghi davanti alla Corte Costituzionale e tutto è bloccato. Nella richiesta di autorizzazione, aveva scritto la Nuova Sardegna a fine aprile, è stato fatto riferimento a «opere di manutenzione straordinaria con aumento volumetrico».

Bond e perizie. Nel frattempo la holding immobiliare controllata al 99,5% dal leader di Forza Italia (il residuo è dei figli Marina e Pier Silvio) ha emesso un nuovo prestito obbligazionario da 80 milioni per finanziarsi dando in garanzia, con un’ipoteca di secondo grado, il complesso di Porto Rotondo che il geometra di fiducia del Cavaliere, Francesco Magnano, ha valutato quest’anno in una perizia tecnica 259 milioni. Il prezzo di mercato, se mai sarà messa in vendita, potrebbe però essere sensibilmente superiore dando per buone certe presunte trattative del passato in cui viaggiavano cifre tra i 400 e i 500 milioni di euro. Il prestito 2021-2027 a un tasso fisso del 2,7% si va ad aggiungere al bond 2018-2023 di analogo importo. Ma chi sono i sottoscrittori?

Equilibrio in famiglia. L’elenco è nelle carte societarie ed è interessante notare come venga rigidamente replicato lo schema di controllo del capitale del gruppo. È un equilibrio ormai consolidato in cui ogni membro della famiglia occupa uno spazio già stabilito. Fininvest, la capogruppo che incassa i dividendi da Mediaset, Mondadori, Mediolanum ecc e poi a sua volta li distribuisce alla famiglia, con 75 milioni su 80 è il principale sottoscrittore del bond. E dentro Fininvest vige la regola del 7%: il fondatore ha un’ampia maggioranza mentre i cinque figli direttamente o indirettamente hanno circa il 7% a testa. Il resto delle obbligazioni, e quindi del credito verso la società del padre, è diviso tra la Holding Quarta di Marina Berlusconi (un milione), la Quinta di Pier Silvio (un milione) e la H14 di Barbara, Luigi ed Eleonora (3 milioni). Il reddito dichiarato da Silvio Berlusconi nel 2020 è stato di 48 milioni.

Silvio Berlusconi e le spese condominiali, un rosso da record: 35 milioni di euro in dieci anni. Libero Quotidiano il 03 giugno 2021. Oltre alla salute Silvio Berlusconi deve fare i conti con il portafoglio. Non sono infatti tempi semplici per il leader di Forza Italia che ora deve fare i conti con un "rosso" da record da pochissimo ripianato: ben 8 milioni nel 2020 per quel che riguarda le spese condominiali. Il conto totale di dieci anni di spese condominiali per le residenze del Cavaliere - annota il Corriere della Sera - arriva a una cifra spropositata: 35 milioni. Lunga infatti la lista dei costi: riscaldamento, utenze, ristrutturazioni, manutenzioni, giardinieri e vigilanza. Non saranno da meno le spese per il 2021 davanti a cui si troverà il fedelissimo ragioniere Giuseppe Spinelli. Proprio attraverso "Immobiliare Idra", la società presieduta da Spinelli e che amministra le abitazioni di Berlusconi (Arcore, Macherio, Lago di Como, Sardegna), il numero uno di FI ha presentato una richiesta al Comune di Olbia per "interventi di miglioramento del patrimonio edilizio esistente", ovvero Villa Certosa, la reggia estiva di Porto Rotondo. Peccato però che il Piano Casa approvato dalla Regione sia tutto bloccato dopo essere stato impugnato dal governo Draghi. Ma le brutte notizie non finiscono qui perché la holding immobiliare controllata al 99,5 per cento dal Cavaliere ha emesso un nuovo prestito obbligazionario da 80 milioni per finanziarsi dando in garanzia, con un’ipoteca di secondo grado, il complesso di Porto Rotondo dal valore di 259 milioni. Per Berlusconi però gli esborsi non sono una novità. Sempre nel 2019 per il mantenimento delle sue magnifiche ville l'ex premier aveva perso quasi sei milioni di euro. Nel dettaglio era stato il costo di manutenzione (16,3 milioni, 768mila in più rispetto all’anno precedente) a pesare maggiormente, così come le spese per le riparazioni di immobili e impianti (costate circa 5 milioni) e le bollette: soprattutto quella dell’acqua, che è cresciuta quasi del 40 per cento superando il milione, ma anche quelle di luce e gas (+20). Per non parlare poi di quella telefonica, che in un anno è passata da 106mila a 172.690 euro. 

Dal ''Corriere della Sera'' il 29 dicembre 2020. Giovedì, ultimo giorno del 2020, Silvio Berlusconi lascerà Palazzo Grazioli, la residenza romana che lo ha ospitato dal 1996 e divenuta sede di molti vertici di governo e di Forza Italia. L' ex premier avrebbe dovuto trasferirsi a Villa Zeffirelli, sull' Appia antica, acquistata nel 2001 per quasi 4 milioni di euro e poi prestata in comodato d' uso gratuito al regista fiorentino, scomparso nel giugno 2019. Il trasloco, però, slitterà a causa delle restrizioni da Covid.

Paolo Guzzanti per ''il Giornale'' il 29 dicembre 2020. Palazzo Grazioli addio, si chiude per cambio di epoca. Per me è aria di casa: nella traversa laterale di via degli Astalli ho fatto le medie, cento passi più a sud, alla Palombella, ho fatto le mie elementari e quando sono costretto ad un parcheggio a rischio mi rifugio a pochi metri dalla casa di Berlusconi e non va sempre bene con il carro attrezzi dei vigili spietati. Davanti al portone d' ingresso ci sono sempre stati i carabinieri con presidio e alle spalle piazza Grazioli è area di polizia per la protezione del Palazzo, competenza del distretto di piazza del Collegio Romano. Capisco che per chi non ha confidenza con Roma questi sono soltanto nomi. Ma la Roma della politica era fatta di nomi. Caselle come il Gioco dell' Oca o Monopoli. Quando Berlusconi diventò un politico e subito primo ministro vincendo le elezioni al primo colpo (un evento che si dà raramente nella storia e che mai era accaduto prima in Italia) scelse un Palazzo che potesse essere al centro del grande gioco e che fosse vicino sia alla Camera dei deputati che al Senato della Repubblica. A pochi metri dal palazzo che Silvio Berlusconi lascerà definitivamente l' ultimo giorno di questo sventurato anno, c' è via Caetani dove fu fatta trovare la Renault con il cadavere di Aldo Moro, i cui assassini la scelsero proprio perché era esattamente a metà strada fra il palazzo comunista delle Botteghe Oscure e quello democristiano di piazza del Gesù. Palazzo Grazioli viene abbandonato perché costa troppo e perché il leader di Forza Italia vive per ora in casa della figlia in Provenza in attesa che finisca l' emergenza Covid. Palazzo Grazioli aveva da tempo perso il suo ruolo di Camelot dei liberali, una specie di castello incantato dove eri sempre ricevuto come un ospite particolare, cui veniva immediatamente offerto un caffè, una persona che ti facesse compagnia nell' attesa o nella grande sala prossima all' ingresso, dove avvenivano gli incontri gladiatori della politica. Bisogna tornare un bel po' indietro nel tempo per ritrovare l' atmosfera delle liti serrate fra Berlusconi e i suoi alleati, in particolare Fini e Casini, che non cessavano di tenerlo per quanto possibile con la testa sott' acqua. Io sono stato a Palazzo Grazioli innumerevoli volte, forse una ventina, che dissolte in un quarto di secolo non sono state una vera frequentazione. Ma ricordo l' entusiasmo quasi giocoso di Silvio Berlusconi quando ci mostrò il suo «Parlamentino» a emiciclo che era allo stesso tempo spettacolare come un grande giocattolo e però anche un tributo formale alla democrazia. Berlusconi ha sempre coltivato anche nel suo rapporto con gli oggetti e le case, oltre che delle persone un atteggiamento da grande liberale, non da arrampicatore, anche perché quando si presentò sul proscenio politico aveva già avuto dalla sua attività imprenditoriale tutte le soddisfazioni che un uomo avrebbe potuto avere. Dunque, quel Palazzo era destinato ad essere un salotto, un Parlamento, un luogo di ritrovo conviviale, un luogo con i suoi segreti e le camere laterali in cui accogliere ospiti, ma anche la sontuosa magione con cui impressionare Vladimir Putin, avvezzo a molti ori, ottoni, arazzi, ma meno alle finezze rinascimentali. Molto si è scherzato sul cosiddetto «lettone di Putin», ma ignoro se davvero esista un letto speciale per il presidente russo. A Berlusconi ha fatto sempre piacere vedersi anche al centro di leggende e non soltanto al centro di attacchi scatenati con furia violenta e cieca. Ricordo quel che disse Massimo D' Alema, dopo essere stato a Palazzo Grazioli, quando ammise di essere stato accolto con impeccabile cordialità, che riconosceva come una qualità innata del suo ospite e anche avversario. Ricordo del resto che Berlusconi considerò a lungo Massimo D'Alema come l' unico uomo del Pci con cui valesse la pena sviluppare un dialogo ed ignoro se un tale clima sia ancora attuale. Tralascio le immagini che tutti ricordano dalla televisione delle auto che entrano ed escono dal Palazzo in occasione di vertici di Forza Italia e le ammucchiate di reporter e cameramen che assediavano chiunque uscisse dalle porte del Palazzo. Grazioli era diventato una parola della politica, con omissione di «Palazzo». «A Grazioli chi ci va?», si chiedeva nelle redazioni. E così come ci sono sempre stati i cronisti delle botteghe («Oscure», ovvero incollati alla casa del Pci) crebbe una generazione di «graziolisti». Ora sappiamo che tutta la magione si sposterà sulla via Appia nella villa che ebbe Zeffirelli in comodato d' uso fino alla sua morte e che deve però ancora essere restaurata. Noi speriamo di vedere abbastanza presto Berlusconi comodamente sistemato nel nuovo luogo prossimo alle antichità più vespertine della vecchia Roma, ma sappiamo tutti che l' uscita, o la dismissione di Palazzo Grazioli chiude un' epoca in parte ruggente, in parte misteriosa, silenziosa, clamorosa, certamente romana. Ciò che accadrà sull'Appia sarà certamente bello ed elegante, ma non apparterrà più alla geografia politica dei Palazzi della politica di cui Grazioli è stato l' ultimo dei grandi centri pulsanti, dopo la caduta e l' abbandono delle altre sedi storiche dei partiti della Prima Repubblica. Finisce infatti, con il 31 dicembre, la vita di una cittadella piccolissima e virtuale che si allargava appena verso piazza dei Caprettari (la casa dei repubblicani di La Malfa e Spadolini) fino a via Frattina, dove abitavano i liberali, e poi via del Corso dei socialisti, prima e dopo Craxi. Quando fui invitato per la prima volta per un caffè nella casa romana di Silvio Berlusconi, l' indirizzo non era ancora Palazzo Grazioli, ma via dell' Anima, alle spalle di piazza Navona, nel rione Parione, dove avevano trascorso l' infanzia mia madre, suo fratello e un loro coetaneo che si chiamava Giulio Andreotti, e che solo dopo molti anni si trasferì a pochi metri di distanza su Corso Vittorio, che è la prosecuzione di via del Plebiscito dove si trova il Palazzo Grazioli. Per i romani, via del Plebiscito era celebre per l' elegantissimo negozio ora chiuso delle Sorelle Adamoli che, ad un passo da Berlusconi, seguitarono a vendere pregiate stoviglie e tovagliati di lusso.

Quanto vale Villa Certosa? La cifra record della casa di Berlusconi. Riccardo Castrichini su Notizie.it il 23/02/2021. Villa Certosa, la residenza da sogno in Costa Azzurra di Silvio Berlusconi: ecco quanto vale. L’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è sempre stato famoso per essere un amante del lusso e della belle case che lo stesso possiede in diversi punti d’Italia. C’è la celebre Arcore, c’è la nuova residenza sull’Appia Antica a Roma e c’è anche Villa Certosa in Sardegna, meta estiva del leader di Forza Italia e di recente sottoposta ad un perizia tecnica a firma di Francesco Magnano, geometra di fiducia del Cavaliere. Quanto vale dunque Villa Certosa? La cifra è molto alta, il valore stimato è di 259.373.950 euro, ma la residenza non fa davvero mancare nessun tipo di confort. C’è anzitutto il verde, con un parco di 580.477 metri quadrati e un campo da calcio, e poi il teatro, la serra, la palestra, la talassoterapia, 297 mq di orto medicinale, 68 vani e 181 metri quadrati di autorimessa. La residenza in Costa Azzurra di Berlusconi si colloca dunque tra le ville più costose in assoluto, anche se il suo prezzo potrebbe essere molto più alto di quello espresso dalla perizia. In molti in questi anni hanno cercato di acquistare Villa Certosa, ma Berlusconi ha sempre rifiutato. Nel 2009, ad esempio, era stata data notizia di un’offerta dagli Emirati Arabi per una cifra di 450milioni di dollari, mentre nel 2015 lo stesso Berlusconi avrebbe mostrato la casa al figlio del re d’Arabia e l’offerta sarebbe stata di 500 milioni. Tutte rispedite al mittente, visto anche il grande legame del leader di Forza Italia con la Costa Azzurra. Sulla pagina Wikipedia di Villa Certosa il racconto della realtà è un po’ diverso di quello dato finora. Anzitutto si parla della residenza come della casa estiva di Michele Alberto Di Grazia che la “utilizza con un contratto di comodato gratuito con la società Immobiliare Idra SpA, di proprietà dello stesso Di Grazia”. C’è anche un prezzo dell’immobile, pari a 500 milioni e poi c’è un finale a metà tra il satirico e il reale: “In questa villa c’è stata un visita di Silvio Berlusconi e di Vladimir Putin grandi amici di Michele Alberto Di Grazia”. Si tratta evidentemente del gesto di un autore di Wikipedia che si è divertito a cambiare le carte in tavola.

Riccardo Castrichini. Nato a Latina nel 1991, è laureato in Economia e Marketing. Dopo un Master al Sole24Ore ha collaborato con TGcom24, IlGiornaleOff e Radio Rock.

Carlotta Scozzari per businessinsider.com il 27 gennaio 2021. La ricchezza della famiglia di Silvio Berlusconi è oggi salita a 7,2 miliardi di dollari, corrispondenti a circa 5,9 miliardi di euro ai cambi odierni, rispetto ai 5,3 miliardi di dollari (4,35 miliardi di euro) dell’ultima classifica ufficiale stilata tra marzo e aprile 2020 da Forbes, che collocava l’ex premier al sesto posto dei miliardari italiani e in posizione 308 a livello mondiale. A calcolare il valore a oggi del patrimonio del leader di Forza Italia è, nella sezione dedicata alla ricchezza netta in tempo reale, la stessa Forbes, che tra le altre cose “celebra” Silvio Berlusconi, nato a Milano il 29 settembre del 1936, come “colui che ha portato in Italia il telefilm statunitense Baywatch”, che per chi non lo conoscesse racconta le storie di un gruppo di bagnini di salvataggio, uomini e donne tutti molto belli, sulle spiagge di Malibù in California. La principale attività da cui deriva la ricchezza di Berlusconi è Mediaset. Il gruppo televisivo di Cologno Monzese è, infatti, partecipato con la maggioranza del 44,18% dalla cassaforte Fininvest della famiglia dell’ex premier forzista. Un conto, però, è quanto vale la quota azionaria sulla carta, e un altro i diritti di voto, che la Fininvest può fare valere per il 45,86 per cento. E la forbice è molto più ampia per la seconda grande azionista di Mediaset, ossia quella Vivendi di Vincent Bolloré, un tempo grande amico dell’ex presidente del Consiglio, con cui la famiglia Berlusconi litiga in tribunale ormai da qualche anno. Se, infatti, Vivendi, a seguito della scalata successiva alla rottura dell’accordo su Mediaset Premium del 2016, aveva raggiunto una partecipazione del 28,8% del gruppo dei media, nel 2017 era stata costretta da una delibera dell’Agcom a “congelare” parzialmente tale quota in termini di diritti di voto. Ecco perché oggi, se si guarda sul sito di Mediaset alla voce “azionariato”, si può notare che i diritti di voto in mano a Vivendi sono pari al 9,98% mentre la restante partecipazione del 19,92% fa capo a Simon Fiduciaria. A dicembre, tuttavia, il Tar del Lazio (come conseguenza della diretta della sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue), dando ragione a Vivendi, ha stabilito che il gruppo francese potrà dare istruzioni di voto per la quota di Simon Fiduciaria e quindi, in assemblea, potrà votare sull’intera partecipazione di quasi il 29% del capitale. A ogni modo, il confronto acceso tra i due gruppi continua senza sosta e le ultime indiscrezioni di Radiocor indicavano in calendario per l’11 febbraio l’udienza di discussione finale della causa civile su Mediaset Premium e sulla successiva scalata di Vivendi al gruppo televisivo fondato da Berlusconi a partire dall’emittente locale Telemilano, nata negli anni Settanta. Nel frattempo in Borsa, Mediaset, quotata dal 1996, si è ripresa rispetto ai minimi del 2020 toccati proprio lo scorso marzo, mentre Forbes stilava la classifica ufficiale dei miliardari mondiali. Basti pensare che la seduta di Piazza Affari del 22 gennaio 2021 si è chiusa con le azioni dell’azienda guidata dall’amministratore delegato e vicepresidente Pier Silvio Berlusconi a 2,1 euro, cosa che implica per la quota di maggioranza di Fininvest un valore di poco più di 1,1 miliardi di euro, rispetto ai 730 milioni di metà marzo, in corrispondenza dei minimi a 1,37 euro. Da ricordare che di Fininvest, tramite diversi veicoli, sono soci Berlusconi e tutti i suoi cinque figli, ossia Marina e Pier Silvio, i due avuti dal matrimonio con Carla Dall’Oglio, e Barbara, Eleonora e Luigi, nati dall’unione con Veronica Lario. L’altra importante partecipata di Fininvest quotata in Borsa è Mondadori: della società editoriale presieduta da Marina Berlusconi e guidata dall’amministratore delegato Ernesto Mauri la finanziaria del Biscione ha in mano il 53,3%, che agli attuali prezzi di mercato vale intorno ai 200 milioni. Mentre una delle altre “M” partecipate da Fininvest è Banca Mediolanum, con una quota del 30,11% che si affianca a quella di maggioranza del 40,38% della famiglia di Ennio Doris, storico amico di Silvio Berlusconi. Ai prezzi correnti di Borsa, la partecipazione in Mediolanum di Fininvest vale 1,6 miliardi abbondanti: più della quota di controllo di Mediaset. Le famiglie Berlusconi e Doris (quest’ultima tramite Mediolanum) sono entrambe socie forti di Mediobanca, la banca di investimenti snodo storico degli affari dell’economia italiana. Più nel dettaglio, Fininvest ha in portafoglio il 2%, che alle attuali quotazioni di Borsa vale poco più di 130 milioni. Al contrario, non fanno più parte delle “M” della Fininvest il Milan (al suo posto è subentrata la squadra di calcio del Monza) né la Molmed, della quale proprio nei mesi scorsi sono state consegnate le azioni all’offerta pubblica di acquisto (Opa). In attesa di capire se anche nel 2021 il portafoglio e gli investimenti di Fininvest cambieranno ancora, e insieme, di riflesso, anche la ricchezza della famiglia Berlusconi, vale la pena ricordare che nel 2020 è arrivata una maxi cedola. La finanziaria, infatti, ha deciso di distribuire come dividendo l’intero utile civilistico realizzato nel 2019 (ultimo bilancio disponibile), pari a 84,2 milioni. A beneficiarne Berlusconi e figli.

·        Le Leggi ad Personam.

Estratto dell'articolo di Liana Milella per "la Repubblica" il 28 luglio 2021. Sembrava archiviata per sempre la stagione delle leggi ad personam per Silvio Berlusconi. (…) E invece eccola rispuntare adesso quando lui è tuttora leader di Forza Italia e gli incombono addosso i dibattimenti del Rubyter. (...) Forse per colpa di quella montagna di emendamenti - ben 1.631 - che grava sulla riforma del processo penale. Perché è lì che si cela la proposta malandrina. A firmarla è Pierantonio Zanettin, il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia, ex membro laico del Csm, ma anche genero del noto avvocato Franco Coppi avendone sposato la figlia. (…) La parola chiave è "specifici poteri".  Si gioca tutta su queste due parole la norma ad personam che avrebbe potuto cambiare, se fosse passata, la storia dei processi di Berlusconi per corruzione in atti giudiziari. Quelli "figli" del processo Ruby. Tre processi in corso tra Milano, Siena e Roma. Nei quali i testimoni, cioè le famose ragazze delle feste di Arcore che sarebbero state pagate per cambiare la versione dei fatti, rivestono la qualifica di "pubblici ufficiali" in quanto sono dei testi. (...) La norma Zanettin prevede un netto ridimensionamento. Perché negli emendamenti è scritto che "sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano specifici poteri conferiti dalla legge esplicando una funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa". Attenzione alla parola "specifici poteri". Laddove il testo in vigore dice che "sono pubblici ufficiali coloro che esercitano una funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa". La modifica riguarda sia il pubblico ufficiale che l'incaricato di pubblico servizio. La riduzione del "perimetro" è evidente. Una modifica che cambia la storia dei processi in cui i testimoni, come nel caso dei dibattimenti di Berlusconi, rivestono la qualifica di pubblico ufficiale proprio in quanto testimoni, e non per uno "specifico potere" conferito dalla legge. (…) Nei corridoi della Camera si raccolgono molte indiscrezioni, tra le quali che a spingere sarebbe stato anche Gianni Letta. E che la sua voce sarebbe giunta fino a palazzo Chigi. I vertici del gruppo reagiscono imbizzarriti quando la deputata Bartolozzi fa sapere che lei non voterà l'emendamento. Dopo un'ora scopre, dal suo cellulare, che è stata convocata per la prossima riunione della commissione Affari costituzionali. Di cui non fa parte. Si sorprende. È accaduto che, a sua insaputa, Bartolozzi è stata mandata via dalla Giustizia con il contentino di nominarla capogruppo. Lei non ci sta e sbatte la porta di Forza Italia. Va nel gruppo Misto. Ma Forza Italia, 25 a 19, perde lo stesso la battaglia del salva Berlusconi.

Legge ad personam. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La locuzione latina lex ad personam o legge ad personam, indica una legge o un atto normativo, avente forza di legge, emanato con lo specifico intento di favorire direttamente o indirettamente (o anche sfavorire) un cittadino, un'azienda o un ristretto gruppo di soggetti (ad personam), quindi una forma di clientelismo. Le leggi ad personam violano il fondamentale principio di eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge.

Cenni storici. Nell'antica Roma la legge che portava vantaggio a un singolo interesse non era definita ad personam, ma di privilegium nel suo duplice significato anceps non solo favorevole ma anche odiosum. Le leggi delle XII tavole stabilivano (Tavola IX) soprattutto in quest'ultimo senso privilegia ne irroganto, per vietare provvedimenti punitivi indirizzati verso un unico cittadino. Un classico della letteratura è Cicerone, che nel 58 a.C. con il "Cicero pro domo sua" 10,26 affermò questa celebre frase "Licuit tibi ferre non legem, sed nefarium privilegium." - "Tu non promulgasti una legge, ma un infame privilegio", riferito al tribuno Clodio amico di Cesare ed alla legge Lex Clodia, prima legge ad personam che si conosca emanata in democrazia.

Italia. Questa locuzione è entrata nell'uso comune in Italia anche a seguito del primo decreto legge, DL. 694/1984, a favore di un'azienda privata (il 20 ottobre 1984); da quel giorno politici e giornalisti ne hanno fatto un largo uso, in particolare durante la XIV legislatura della Repubblica Italiana. Cionondimeno, le leggi ad personam possono comunque produrre effetti giuridici vincolanti sia nei rapporti intersoggettivi di diritto privato che essere opponibili alle pubbliche amministrazioni. Da un punto di vista formale, esse presentano tutti i crismi dell'astrattezza, della generalità e dell'imperatività della norma giuridica. Sono esempi teorici di queste norme: la concessione di una docenza universitaria alla moglie di un ministro e leader di partito, l'assegnazione nepotistica delle nomine dirigenziali di una società a controllo pubblico, la concessione di una pensione speciale ala vedova di un ministro. La prevenzione di tale fenomeno di scadimento della tecnica legislativa di uno Stato democratico è delegata esclusivamente all'assunzione di responsabilità politica da parte dei decisori eletti dal popolo, e purtuttavia è priva di una specifica norma applicabile che ne dichiari esplicitamente illegittimo l'uso. Ciò è possibile perché non esiste uno specifico criterio contenutistico di identificazione e di classificazione delle norme, vale a dire una norma regolamentare che escluda l'approvabilità (se non la stessa proponibilità) di altre proposizioni normative la cui portata possa ridursi ad una singola persona fisica o giuridica.

Nella storia politica italiana il fenomeno delle leggi ad personam ha spesso infiammato l'opinione pubblica. Già nel corso della XIII Legislatura vi furono forti polemiche in occasione della conversione del decreto-legge 24 maggio 1999, n. 145, istitutivo del giudice unico di primo grado. La nuova disciplina prevedeva l'incompatibilità tra gip e gup per tutti i processi a partire dal 2 gennaio 2000. In Commissione Giustizia veniva però approvato un emendamento che comportava l'immediata entrata in vigore dell'incompatibilità. Ciò suscitò allarmi da parte della magistratura, che vedeva a rischio vari procedimenti. In particolare era a rischio l'avvio del processo IMI-SIR, con imputati Silvio Berlusconi e Cesare Previti. Secondo quanto riportato da La Repubblica e L'Espresso, diversi parlamentari della maggioranza imputavano queste modifiche alle pressioni ricevute dall'opposizione, che sarebbero state dovute a dei compromessi fra Massimo D'Alema e Silvio Berlusconi, il quale avrebbe minacciato il blocco di alcuni lavori parlamentari. Secondo il ministro invece il mancato rinvio sarebbe dovuto per il possibile incorrere d'incostituzionalità. A seguito delle polemiche sorte la legge di conversione (Legge 22 luglio 1999, n. 234) mantenne il rinvio di alcuni mesi della entrata in vigore dell'incompatibilità. Nel corso della XIV Legislatura e della XVI Legislatura, sotto i governi Berlusconi II, Berlusconi III e Berlusconi IV sono state approvati numerosi atti legislativi che hanno sollevato aspre critiche in quanto ritenute leggi ad personam. Dette contestazioni hanno affermato che la maggioranza di centrodestra abbia ricorso a tale espediente per alleggerire la posizione processuale di Berlusconi stesso. È stato rilevato come le seguenti leggi abbiano ridotto le pendenze giudiziarie o abbiano in qualche modo favorito gli interessi del Presidente del Consiglio:

Legge sulle rogatorie internazionali (L. 367/2001): limitazione dell'utilizzabilità delle prove acquisite attraverso una rogatoria (trova applicazione anche al processo "Sme-Ariosto 1" per corruzione in atti giudiziari)

Depenalizzazione del falso in bilancio (L. 61/2002): modifica della disciplina del falso in bilancio (nei processi "All Iberian 2" e "Sme-Ariosto2" Berlusconi viene assolto perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato")

"Legge Cirami" (L. 248/2002): introduzione fra le cause di ricusazione e trasferimento del processo del "legittimo sospetto sull'imparzialità del giudice" (la norma utilizzata per spostare il processo da Milano a Brescia non ottenne i risultati sperati)

"Lodo Schifani" (L. 140/2003): introduzione del divieto di sottoposizione a processo delle cinque più alte cariche dello Stato tra le quali il Presidente del Consiglio in carica, dichiarata incostituzionale dopo pochi mesi, con sentenza della Corte costituzionale n. 13 del 2004.

Decreto-salva Rete 4 (D.L. 352/2003): Introdotta 'ad hoc' per consentire unicamente a Rete 4 di Mediaset di continuare a trasmettere in analogico, sfavorendo Europa 7.

"Legge Gasparri" (L. 112/2004): introduzione del SIC ("Sistema Integrato delle Comunicazioni") che ha per effetto di estendere il numero di canali televisivi che un singolo soggetto può avere in concessione (la norma consente di evitare la riduzione del numero di concessioni del gruppo Mediaset, evitò lo scioglimento del monopolio televisivo Mediaset)

Condono edilizio nelle aree protette (L. 308/2004): estensione del condono edilizio alle zone protette (comprensiva la villa "La Certosa" di proprietà di Berlusconi)

"Legge ex Cirielli" (L. 251/2005): riduzione dei termini prescrizione (denominata anche legge salva-Previti, ha introdotto una riduzione dei termini di prescrizione per gli incensurati e trasformato in arresti domiciliari la detenzione per gli ultrasettantenni, consentendo l'estinzione per prescrizione dei reati di corruzione in atti giudiziari e falso in bilancio nei processi "Diritti TV Mediaset" e”Mills” a carico di Berlusconi)

"Legge Pecorella" (L. 46/2006): introduzione dell'inappellabilità da parte del PM delle sentenze di proscioglimento, dichiarata incostituzionale dopo pochi mesi, con sentenza della Corte costituzionale n. 26 del 2007

"Lodo Alfano" (L. 124/2008): introduzione di un nuovo divieto di sottoposizione a processo delle quattro più alte cariche dello Stato tra le quali il Presidente del Consiglio in carica, dichiarata incostituzionale dopo un anno, con sentenza della Corte costituzionale n. 262 del 2009

Secondo un'inchiesta de La Repubblica, le leggi approvate dal 2001 al 2012 dai governi di centrodestra che hanno prodotto benefici effetti per Berlusconi e le sue società sarebbero state diciassette. Oltre ai dieci provvedimenti sopra menzionati, il quotidiano romano considera quali leggi ad personam ulteriori sette atti legislativi:

Legge "Tremonti bis" (L. 383/2001): abolizione dell'imposta sulle successioni e donazioni per grandi patrimoni, che in precedenza era applicata fino a 350 milioni (utilizzata per la successione esentasse dei grandi patrimoni familiari, incluso quello della famiglia Berlusconi)

Decreto salva-calcio (D.L. 282/2002): concessione alle società sportive della possibilità di diluire le svalutazioni dei giocatori sui bilanci in un arco di dieci anni, con importanti benefici economici in termini fiscali (la norma trova applicazione anche al Milan A.C.)

Condono "tombale" (L. 289/2002): con la Finanziaria 2003 viene introdotto un condono "tombale" sulle imposte evase (beneficiano del condono "tombale" anche le imprese del gruppo Mediaset)

Incentivo per l'acquisto del decoder (L. 350/2003): con la Finanziaria 2004 viene introdotto un incentivo statale all'acquisto di decoder per DTT (la maggior beneficiaria della norma è la società Solari.com, principale distributore in Italia dei decoder digitali Amstrad del tipo "Mhp", che è controllata al 51 per cento da Paolo e Alessia Berlusconi)

Riordino previdenza complementare (D.Lgs. 252/2005): riforma complessiva della previdenza complementare. Vengono introdotte una serie di norme che favoriscono fiscalmente la previdenza integrativa individuale (beneficiano di queste disposizioni anche della società assicurative di proprietà della famiglia Berlusconi)

Decreto anticrisi (D.L. 185/2008) aumento dal 10 al 20 per cento dell'IVA sui servizi di televisione a pagamento (la norma danneggia la "Sky Italia", principale competitor privato del gruppo Mediaset)

Decreto incentivi (D.L. 5/2009): aumento dal 10 al 20 per cento della quota di azioni proprie che ogni società può acquistare e detenere in portafoglio (la disposizione è stata immediatamente utilizzata dalla Fininvest per aumentare il controllo su Mediaset).

Antonio Di Pietro ha inoltre definito "legge ad coalitionem" la legge elettorale del 2006 che, data la morfologia delle formazioni politiche all'atto delle elezioni governative, si riteneva dovesse permettere ai partiti della coalizione di centrodestra di ottenere un numero di seggi fortemente superiore rispetto a quanto sarebbe avvenuto con la precedente normativa, effetto tuttavia rovesciato nelle successive elezioni politiche del 2008 a causa di una nuova intervenuta conformazione partitica.

Ulteriore legge ad coalitionem può essere considerato il decreto legge 5 marzo 2010, n. 29, recante: "interpretazione autentica di disposizioni del procedimento elettorale e relativa disciplina di attuazione". Nella presentazione delle liste elettorali per le elezioni regionali 2010 i rappresentanti del PDL avevano depositato la documentazione necessaria oltre il termine previsto, il che aveva causato l'esclusione delle liste del PDL dalla competizione elettorale queste regioni. Con questo provvedimento si è cercato di sanare il ritardo, prevedendo che "il rispetto dei termini orari di presentazione delle liste si considera assolto quando, entro gli stessi, i delegati incaricati della presentazione delle liste, muniti della prescritta documentazione, abbiano fatto ingresso nei locali del Tribunale".

Devono inoltre considerarsi degli atti non di natura legislativa, quali:

il ricorso del governo contro la legge della regione Sardegna al divieto di costruire a meno di due chilometri dalle coste (che bloccava, tra l'altro, l'edificazione di "Costa Turchese", insediamento di 250.000 metri cubi della Edilizia Alta Italia di Marina Berlusconi)

la modifica del Piano di assetto idrogeologico (PAI) dell'Autorità di bacino del fiume Po che permette la permanenza de "la Cascinazza" (estensione di oltre 500.000 metri quadrati) di proprietà della IEI di Paolo Berlusconi.

L'imposizione del Segreto di Stato sui metodi di ristrutturazione di Villa Certosa in Sardegna (decreto del Ministro dell'Interno 6 maggio 2004 prot. n. 1004/100 – 1158)

L’ELENCO DELLE LEGGI AD PERSONAM.

Da libertaegiustizia.it il 9 novembre 2011. Ecco i più significati provvedimenti ad personam varati dal 1994, cioè dall’entrata in politica di Silvio Berlusconi, contando soltanto quelli di cui si sono giovati personalmente il premier o una delle sue aziende.

Decreto Biondi (1994). Approvato il 13 luglio 1994 dal governo Berlusconi I, vieta la custodia cautelare in carcere (trasformata al massimo in arresti domiciliari) per i reati contro la Pubblica amministrazione e quelli finanziari, comprese la corruzione e la concussione, proprio mentre alcuni ufficiali della Guardia di Finanza confessano di essere stati corrotti da quattro società del gruppo Fininvest (Mediolanum, Videotime, Mondadori e Tele+) e sono pronte le richieste di arresto per i manager che hanno pagato le tangenti. Il decreto impedisce cioè di arrestare i responsabili e provoca la scarcerazione immediata di 2764 detenuti, dei quali 350 sono colletti bianchi coinvolti in Tangentopoli (compresi la signora Pierr Poggiolini, l’ex ministro Francesco De Lorenzo e Antonino Cinà, il medico di Totò Riina). Il pool di Milano si autoscioglie. Le proteste di piazza contro il “Salvaladri” inducono la Lega e An a ritirare il consenso al decreto e a costringere Berlusconi a lasciarlo decadere in Parlamento per manifesta incostituzionalità. Subito dopo vengono arrestati Paolo Berlusconi, il capo dei servizi fiscali della Fininvest Salvatore Sciascia e il consulente del gruppo Massimo Maria Berruti, accusato di aver depistato le indagini subito dopo un colloquio con Berlusconi.

Legge Tremonti (1994). Il decreto n.357 approvato dal Berlusconi I il 10 giugno 1994 detassa del 50% gli utili reinvestiti dalle imprese, purchè riguardino l’acquisto di “beni strumentali nuovi”. La neonata società Mediaset (che contiene le tv Fininvest scorporate dal resto del gruppo in vista della quotazione in Borsa) utilizza la legge per risparmiare 243 miliardi di lire di imposte sull’acquisto di diritti cinematografici per film d’annata: che non sono beni strumentali, ma immateriali, e non sono nuovi, ma vecchi. A sanare l’illegalità interviene il 27 ottobre 1994 una circolare “interpretativa” Tremonti che fa dire alla legge Tremonti il contrario di ciò che diceva, estendendo il concetto di beni strumentali a quelli immateriali e il concetto di beni nuovi a quelli vecchi già usati all’estero.

Legge Maccanico (1997). In base alla sentenza della Consulta del 7 dicembre 1994, la legge Mammì che consente alla Fininvest di possedere tre reti tv sull’analogico terrestre è incostituzionale: la terza, presumibilmente Rete4, dev’essere spenta ed eventualmente passare sul satellite, entro il 28 agosto 1996. Ma il ministro delle Poste e telecomunicazioni del governo Prodi I, Antonio Maccanico, concede una proroga fino al 31 dicembre 1996 in attesa della legge “di sistema”. A fine anno, nulla di fatto per la riforma e nuova proroga di altri sei mesi. Il 24 luglio 1997, ecco finalmente la legge Maccanico: gli editori di tv, come stabilito dalla Consulta, non potranno detenere più del 20% delle frequenze nazionali disponibili, dunque una rete Mediaset è di troppo. Ma a far rispettare il tetto dovrà provvedere la nuova Authority per le comunicazioni (Agcom), che potrà entrare in azione solo quando esisterà in Italia “un congruo sviluppo dell’utenza dei programmi televisivi via satellite o via cavo”. Che significhi “congruo sviluppo” nessuno lo sa, così Rete4 potrà seguitare a trasmettere sine die in barba alla Consulta.

D’Alema salva-Rete4 (1999). La neonata Agcom si mette all’opera solo nel 1998, presenta il nuovo piano per le frequenze tv e bandisce la gara per rilasciare le 8 concessioni televisive nazionali. Rete4, essendo “eccedente” rispetto alla Maccanico, perde la concessione; al suo posto la vince Europa7 di Francesco Di Stefano. Ma il governo D’Alema, nel 1999, concede a Rete4 una “abilitazione provvisoria” a seguitare a trasmettere senza concessione, così per dieci anni Europa7 si vedrà negare le frequenze a cui ha diritto per legge.

Gip-Gup (1999). Berlusconi e Previti, imputati per corruzione di giudici romani (processi Mondadori, Sme-Ariosto e Imi-Sir), vogliono liberarsi del gip milanese Alessandro Rossa-to, che ha firmato gli arresti dei magistrati corrotti e degli avvocati Fininvest Pacifico e Acampora, ma ha pure disposto l’arresto di Previti (arresto bloccato dalla Camera, a maggioranza Ulivo). Ora spetta a Rossato, in veste di Gup, condurre le udienze preliminari dei tre processi e decidere sulle richieste di rinvio a giudizio avanzate dalla procura di Milano. Udienze che iniziano nel 1999. Su proposta dell’on. avv. Guido Calvi, legale di Massimo D’Alema, il centrosinistra approva una legge che rende incompatibile la figura del gip con quella del gup: il giudice che ha seguito le indagini preliminari non potrà più seguire l’udienza preliminare e dovrà passarla a un collega, che ovviamente non conosce le carte e perderà un sacco di tempo. Così le udienze preliminari Imi-Sir e Sme, già iniziate dinanzi a Rossato, proseguono sotto la sua gestione e si chiuderanno a fine anno con i rinvii a giudizio degli imputati. Invece quella per Mondadori, non ancora iniziata, passa subito a un altro giudice, Rosario Lupo, che proscioglie tutti gli imputati per insufficienza di prove (poi, su ricorso della Procura, la Corte d’appello li rinvierà a giudizio tutti, tranne uno: Silvio Berlusconi, dichiarato prescritto grazie alle attenuanti generiche).

Rogatorie (2001). Nel 2001 Berlusconi torna a Palazzo Chigi e fa subito approvare una legge che cancella le prove giunte dall’estero per rogatoria ai magistrati italiani, comprese ovviamente quelle che dimostrano le corruzioni dei giudici romani da parte di Previti & C. Da mesi i legali suoi e di Previti chiedono al tribunale di Milano di cestinare quei bonifici bancari svizzeri perché mancano i numeri di pagina, o perché si tratta di fotocopie senza timbro di conformità, o perchè sono stati inoltrati direttamente dai giudici elvetici a quelli italiani senza passare per il ministero della Giustizia. Il Tribunale ha sempre respinto quelle istanze. Che ora diventano legge dello Stato. Con la scusa di ratificare la convenzione italo-svizzera del 1998 per la reciproca assistenza giudiziaria (dimenticata dal centrosinistra per tre anni), il 3 ottobre 2001 la Cdl vara la legge 367 che stabilisce l’inutilizzabilità di tutti gli atti trasmessi da giudici stranieri che non siano “in originale” o “autenticati” con apposito timbro, che siano giunti via fax, o via mail o brevi manu o in fotocopia o con qualche vizio di forma. Anche se l’imputato non ha mai eccepito sulla loro autenticità, vanno cestinati. Poi, per fortuna, i tribunali scoprono che la legge contraddice tutte le convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e tutte le prassi seguite da decenni in tutta Europa. E, siccome quelle prevalgono sulle leggi nazionali, disapplicano la legge sulle rogatorie, che resterà lettera morta.

Falso in bilancio (2002). Siccome Berlusconi ha cinque processi in corso per falso in bilancio, il 28 settembre 2001 la sua maggioranza approva la legge-delega numero 61 che incarica il governo di riformare i reati societari. Il che avverrà all’inizio del 2002 con i decreti delegati che: abbassano le pene da 5 a 4 anni per le società quotate e addirittura a 3 per le non quotate (prescrizione più breve, massimo 7 anni e mezzo per le quotate e 4 e mezzo per le non quotate; e niente più custodia cautelare né intercettazioni); rendono il falso per le non quotate perseguibile solo a querela del socio o del creditore; depenalizzano alcune fattispecie di reato (come il falso nel bilancio presentato alle banche); fissano amplissime soglie di non punibilità (per essere reato, il falso in bilancio dovrà superare il 5% del risultato d’esercizio, l’1% del patrimonio netto, il 10% delle valutazioni. Così tutti i processi al Cavaliere per falso in bilancio vengono cancellati: o perché manca la querela dell’azionista (B. non ha denunciato B.), o perché i falsi non superano le soglie (“il fatto non è più previsto dalla legge come reato), o perché il reato è ormai estinto grazie alla nuova prescrizione-lampo.

Mandato di cattura europeo (2001). Unico fra quelli dell’Unione europea, il governo Berlusconi II rifiuta di ratificare il “mandato di cattura europeo”, ma solo relativamente ai reati finanziari e contro la Pubblica amministrazione. Secondo “Newsweek”, Berlusconi “teme di essere arrestato dai giudici spagnoli” per l’inchiesta su Telecinco. L’Italia otterrà di poter recepire la norma comunitaria soltanto dal 2004.

Il governo sposta il giudice (2001). Il 31 dicembre, mentre gli italiani festeggiano il Capodanno, il ministro della Giustizia Roberto Castelli, su richiesta dei difensori di Previti, nega contro ogni prassi la proroga in Tribunale al giudice Guido Brambilla, membro del collegio che conduce il processo Sme-Ariosto, e dispone la sua “immediata presa di possesso” presso il Tribunale di sorveglianza dov’è stato trasferito da qualche mese, senza poter completare i dibattimenti già avviati. Così il processo Sme dovrebbe ripartire da zero dinanzi a un nuovo collegio. Ma poi interviene il presidente della Corte d’appello con una nuova “applicazione” di Brambilla in Tribunale fino a fine anno.

Cirami (2002). I difensori di Previti e Berlusconi chiedono alla Cassazione di spostare i loro processi a Brescia perché, sostengono, a Milano l’intero Tribunale è viziato da inguaribile prevenzione contro di loro. E, per oliare meglio il meccanismo, reintroducono il vecchio concetto di “legittima suspicione” per motivi di ordine pubblico, vigente un tempo, quando i processi scomodi traslocavano nei “porti delle nebbie” per riposarvi in pace. E’ la legge Ci-rami n. 248, approvata definitivamente il 5 novembre 2002. Ma nemmeno questa funziona: la Cassazione, nel gennaio 2003, respinge la richiesta di trasloco: il Tribunale di Milano è sereno e imparziale.

Lodo Maccanico-Schifani (2003). Le sentenze Sme e Mondadori si avvicinano. Su proposta del senatore della Margherita Antonio Maccanico, il 18 giugno 2003 la Cdl approva la legge 140, primo firmatario Renato Schifani, che sospende sine die i processi ai presidenti della Repubblica, della Camera, del senato, del Consiglio e della Corte costituzionale. I processi a Berlusconi si bloccano in attesa che la Consulta esamini le eccezioni di incostituzionalità sollevate dal Tribunale di Milano. E ripartono nel gennaio 2004, quando la Corte boccia il “lodo”.

Ex Cirielli (2005). Il 29 novembre 2005 la Cdl vara la legge ex Cirielli (misconosciuta dal suo stesso proponente), che riduce la prescrizione per gli in-censurati e trasforma in arresti domiciliari la detenzione per gli ultrasettantenni (Previti ha appena compiuto 70 anni, Berlusconi sta per compierli). La legge porta i reati prescritti da 100 a 150 mila all’anno, decima i capi di imputazione del processo Mediaset (la frode fiscale passa da 15 a 7 anni e mezzo) e annienta il processo Mills (la corruzione anche giudiziaria si prescrive non più in 15, ma in 10 anni).

Condono fiscale (2002). La legge finanziaria 2003 varata nel dicembre 2002 contiene il condono tombale. Berlusconi giura che non ne faranno uso né lui né le sue aziende. Invece Mediaset ne approfitta subito per sanare le evasioni di 197 milioni di euro contestate dall’Agenzia delle entrate pagandone appena 35. Anche Berlusconi usa il condono per cancellare con appena 1800 euro un’evasione di 301 miliardi di lire contestata dai pm di Milano.

Condono per i coimputati (2003). Col decreto 143 del 24 giugno 2003, presunta “interpretazione autentica” del condono, il governo ci infila anche coloro che hanno “concorso a commettere i reati”, anche se non hanno firmato la dichiarazione fraudolenta. Cioè il governo Berlusconi salva anche i 9 coimputati del premier, accusati nel processo Mediaset di averlo aiutato a evadere con fatture false o gonfiate.

Pecorella (2006). Salvato dalla prescrizione nel processo Sme, grazie alle attenuanti generiche, Berlusconi teme che in appello gli vengano revocate, con conseguente condanna. Così il suo avvocato Gaetano Pecorella, presidente della commissione Giustizia della Camera, fa approvare nel dicembre 2005 la legge che abolisce l’appello, ma solo quando lo interpone il pm contro assoluzioni o prescrizioni. In caso di condanna in primo grado, invece, l’imputato potrà ancora appellare. Il presidente Ciampi respinge la Pecorella in quanto incostituzionale. Berlusconi allunga di un mese la scadenza della legislatura per ripresentarla uguale e la fa riapprovare (legge n.46) nel gennaio 2006. Ciampi stavolta è costretto a firmarla. Ma poi la Consulta la boccia in quanto incostituzionale.

Frattini (2002). Il 28 febbraio 2002 la Cdl approva la legge Frattini sul conflitto d’interessi: chi possiede aziende e va al governo, ma di quelle aziende è soltanto il “mero proprietario”, non è in conflitto d’interessi e non è costretto a cederle. Unica conseguenza per il premier: deve lasciare la presidenza del Milan

Gasparri-1(2003). In base alla nuova sentenza della Consulta del 2002, entro il 31 dicembre 2003 Rete4 deve essere spenta e passare sul satellite. Il 5 dicembre la Cdl approva la legge Gasparri sulle tv: Rete4 può seguitare a trasmettere “ancorchè priva di titolo abilitativo”, cioè anche se non ha più la concessione dal 1999; il tetto antitrust del 20% sul totale delle reti non va più calcolato sulle 10 emittenti nazionali, ma su 15 (compresa Telemarket). Dunque Mediaset può tenersi le sue tre tv. Quanto al tetto pubblicitario del 20%, viene addirittura alzato grazie al trucco del “Sic”, che include un panel talmente ampio di situazioni da sfiorare l’infinito. Confalonieri calcola che Mediaset potrà espandere i ricavi di 1-2 miliardi di euro l’anno. Ma il 16 dicembre Ciampi rispedisce la legge al mittente: è incostituzionale.

Berlusconi salva-Rete4 (2003). Mancano due settimane allo spegnimento di Rete4. Alla vigilia di Natale, Berlusconi firma un decreto salva-Rete4 (n.352) che concede alla sua tv l’ennesima proroga semestrale, in attesa della nuova Gasparri.

Gasparri-2 (2004). La nuova legge approvata il 29 aprile 2004, molto simile a quella bocciata dal Quirinale, assicura che Rete4 non sfora il tetto antitrust perché entro il 30 aprile il 50% degli italiani capteranno il segnale del digitale terrestre, che garantirà loro centinaia di nuovi canali. Poi però si scopre che, a quella data, solo il 18% della popolazione riceve il segnale digitale. Ma poi l’Agcom dà un’interpretazione estensiva della norma: basta che in un certo luogo arrivi il segnale digitale di una sola emittente, per considerare quel luogo totalmente digitalizzato. Rete4 è salva, Europa 7 è ancora senza frequenze.

Decoder di Stato (2004). Per gonfiare l’area del digitale, la finanziaria per il 2005 varata nel dicembre 2004 prevede un contributo pubblico di 150 euro nel 2004 e di 70 nel 2005 per chi acquista il decoder per la nuova tecnologia televisiva. Fra i principali distributori di decoder c’è Paolo Berlusconi, fratello di Silvio, titolare di Solaris (che commercializza decoder Amstrad).

Salva-decoder (2003). Il digitale terrestre è un affarone per Mediaset, che vi trasmette partite di calcio a pagamento, ma teme il mercato nero delle tessere taroccate: prontamente, il 15 gennaio 2003, il governo che ha depenalizzato il falso in bilancio porta fino a 3 anni con 30 milioni di multa la pena massima per smart card fasulle per le pay tv.

Salva-Milan (2002). Col decreto 282/2002, convertito in legge il 18 febbraio, il governo Berlusconi consente alle società di calcio, quasi tutte indebitatissime, di ammortizzare sui bilanci 2002 e spalmare nei dieci anni successivi la svalutazione dei cartellini dei giocatori. Il Milan risparmia 242 milioni di euro.

Salva-diritti tv (2006). Forza Italia blocca il ddl, appoggiato da tutti gli altri partiti di destra e di sinistra, per modificare il sistema di vendita dei diritti tv del calcio in senso “collettivo” per non penalizzare le società minori privilegiando le maggiori. Il sistema resta dunque “soggettivo”, a tutto vantaggio dei maggiori club: Juventus, Inter e naturalmente Milan.

Tassa di successione (2001). Il 28 giugno 2001 il governo Berlusconi abolisce la tassa di successione per i patrimoni superiori ai 350 milioni di lire (fino a quella cifra l’imposta era già stata abrogata dall’Ulivo). Per combinazione, il premier ha cinque figli e beni stimati in 25mila miliardi di lire.

Autoriduzione fiscale (2004). Nel 2003, secondo “Forbes”, Berlusconi è il 45° uomo più ricco del mondo con un patrimonio personale di 5,9 miliardi di dollari. Nel 2005 balza al 25° posto con 12 miliardi. Così, quando a fine 2004 il suo governo abbassa le aliquote fiscali per i redditi dei più abbienti, “L’espresso” calcola che Berlusconi risparmierà 764.154 euro all’anno.

Plusvalenze esentasse (2003). Nel 2003 Tremonti vara una riforma fiscale che detassa le plusvalenze da partecipazione. La riforma viene subito utilizzata dal premier nell’aprile 2005 quando cede il 16,88% di Mediaset detenuto da Fininvest per 2,2 miliardi di euro, risparmiando 340 milioni di tasse.

Villa abusiva con condono (2004). Il 6 maggio 2004, mentre «La Nuova Sardegna» svela gli abusi edilizi a Villa Certosa, Berlusconi fa approvare due decreti. Il primo stabilisce l’approvazione del piano nazionale anti-terrorismo e contiene anche un piano (segretato) per la sicurezza di Villa La Certosa. Il secondo individua la residenza di Berlusconi in Sardegna come «sede alternativa di massima sicurezza per l’incolumità del presidente del Consiglio e per la continuità dell’azione di governo». Ed estende il beneficio anche a tutte le altre residenze del premier e famiglia sparse per l’Italia. Così si bloccano le indagini sugli abusi edilizi nella sua villa in Costa Smeralda. Poi nel 2005 il ministro dell’Interno Pisanu toglie il segreto. Ma ormai è tardi. La legge n. 208 del 2004, varata in tutta fretta dal governo Berlusconi, estende il condono edilizio del 2003 anche alle zone pro-tette: come quella in cui sorge la sua villa. Prontamente la Idra Immobiliare, proprietaria delle residenze private del Cavaliere, presenta dieci diverse richieste di condono edilizio. E riesce a sanare tutto per la modica cifra di 300mila euro. Nel 2008 il Tribunale di Tempio Pausania chiude il procedimento per gli abusi edilizi perchè in gran parte condonati grazie a un decreto voluto dal mero proprietario della villa.

Ad Mediolanum (2005). Nonostante le resistenze del ministro del Welfare, Roberto Maroni, Forza Italia impone una serie di norme favorevoli alle compagnie assicurative nella riforma della previdenza integrativa e complementare (dl 252/2005), fra cui lo spostamento di 14 miliardi di euro verso le assicurazioni, alcune norme che forniscono fiscalmente la previdenza integrativa individuale (a beneficio anche di Mediolanum, di proprietà di Berlusconi e Doris) e soprattutto lo slittamento della normativa al 2008 per assecondare gli interessi della potente lobby degli assicuratori (di cui Mediolanum è una delle capofila). Intanto, nel gennaio del 2004, le Poste Italiane con un appalto senza gara hanno concesso a Mediolanum l’utilizzo dei 16mila sportelli postali sparsi in tutta Italia.

Ad Mondadori-1 (2005). Il 9 giugno 2005 il ministro dell’Istruzione Letizia Moratti stipula un accordo con le Poste Spa per il servizio «Postescuola»: consegna e ordinazione – per telefono e on line – dei libri di testo destinati agli alunni della scuola secondaria. Le case editrici non consegneranno i loro volumi direttamente, ma tramite la Mondolibri Bol, una società posseduta al 50 per cento da Arnoldo Mondadori Editore Spa, di cui è mero proprietario Berlusconi. L’Antitrust esamina il caso, ma pur accertando l’indubbio vantaggio per le casse Mondadori, non può censurare l’iniziativa perché a firmare l’accordo non è stato il premier, ma la Moratti.

Ad Mondadori-2 (2005). L’8 febbraio 2005 scatta l’operazione “E-book”, per il cui avvio il governo stanzia 3 milioni. E a chi affidano la sperimentazione i ministri Moratti (Istruzione) e Stanca (Innovazione)? A Monda-dori e Ibm: la prima è di Berlusconi, la seconda ha avuto come vicepresidente Stanca fino al 2001.

Indulto (2006). Nel luglio 2006 centrosinistra e centrodestra approvano l’indulto Mastella (contrari Idv, An, Lega, astenuto il Pdci): 3 anni di sconto di pena a chi ha commesso reati prima del 2 maggio di quell’anno. Lo sconto vale anche per i reati contro la Pubblica amministrazione (che sul sovraffollamento delle carceri non incidono per nulla), compresa la corruzione giudiziaria, altrimenti Previti resterebbe agli arresti domiciliari. Una nuova legge ad personam che regala anche al Cavaliere un “bonus” di tre anni da spendere nel caso in cui fosse condannato in via definitiva.

Lodo Alfano (2008). Nel luglio 2008, alla vigilia della sentenza nel processo Berlusconi-Mills, il Pdl tornato al governo approva il lodo Alfano che sospende sine die i processi ai presidenti della Repubblica, della Camera, del Senato e del Consiglio. Soprattutto del Consiglio. Nell’ottobre 2009 la Consulta boccerà anche quello in quanto incostituzionale.

Più Iva per Sky (2008). Il 28 novembre 2008 il governo raddoppia l’Iva a Sky, la pay-tv di Rupert Murdoch, principale concorrente di Mediaset, portandola dal 10 al 20%.

Meno spot per Sky (2009). Il 17 dicembre 2009 il governo Berlusconi vara il decreto Romani che obbliga Sky a scendere entro il 2013 dal 18 al 12% di affollamento orario di spot.

Più azioni proprie (2009). La maggioranza aumento dal 10 al 20% la quota di azioni proprie che ogni società può acquistare e detenere in portafoglio. La norma viene subito utilizzata dalla Fininvest per aumentare il controllo su Mediaset.

Ad listam (2010). Visto che le liste del Pdl sono state presentate fuori tempo massimo nel Lazio e senza timbri di autenticazione a Milano, il governo vara un decreto “interpretativo” che stravolge la legge elettorale, sanando ex post le illegalità commesse per costringere il Tar a riammetterle. Ma non si accorge che, nel Lazio, la legge elettorale è regionale e non può essere modificata da un decreto del governo centrale. Così il Tar ribadisce che la lista è fuorilegge, dunque esclusa.

Illegittimo impedimento (2010). Non sapendo più come bloccare i processi Mediaset e Mills, Berlusconi fa approvare il 10 marzo 2010 una legge che rende automatico il “legittimo impedimento” a comparire nelle udienze per sé stesso e per i suoi ministri, il tutto per una durata di 6 mesi, prorogabili fino a 18. Basterà una certificazione della Presidenza del Consiglio e i giudici dovranno fermarsi, senza poter controllare se l’impedimento sia effettivo e legittimo. Il tutto in attesa della soluzione finale, cioè delle nuove leggi ad personam che porteranno il totale a quota 40: “processo breve”, anti-intercettazioni e lodo Alfano-bis costituzionale. Cioè incostituzionale.

La legge contro Veronica (2011). Si tratta della modifica della norma sulla quota legittima che regola la gestione delle eredità, inserita nel decreto sviluppo. La misura voluta da Berlusconi, e non ancora approvata, prevede, che la metà della quota di 2/3 destinata ai figli dovrà essere divisa in parti uguali e l’altra metà potrà invece essere destinata dal genitore a uno o più figli a scelta. L’obiettivo del Cavaliere è quello di evitare che, ripartendo in quote uguali le azioni Fininvest tra Barbara, Eleonora e Luigi, pargoli di Veronica, questi possano unirsi e mettere in minoranza Marina e Piersilvio

Ecco le leggi che hanno aiutato Berlusconi. La Repubblica il 23 novembre 2009. Qui di seguito tutte le leggi approvate dal 2001 ad oggi dai governi di centrodestra che hanno prodotto benefici effetti per Berlusconi e le sue società. 

1 Legge n. 367/2001. Rogatorie internazionali. Limita l'utilizzabilità delle prove acquisite attraverso una rogatoria. La nuova disciplina ha lo scopo di coprire i movimenti illeciti sui conti svizzeri effettuati da Cesare Previti e Renato Squillante, al centro del processo "Sme-Ariosto 1" (corruzione in atti giudiziari). 

2 Legge n. 383/2001 (cosiddetta "Tremonti bis"). Abolizione dell'imposta su successioni e donazioni per grandi patrimoni. (Il governo dell'Ulivo l'aveva abolita per patrimoni fino a 350 milioni di lire). 

3 Legge n.61/2001 (Riforma del diritto societario). Depenalizzazione del falso in bilancio. La nuova disciplina del falso in bilancio consente a Berlusconi di essere assolto perchè "il fatto non è più previsto dalla legge come reato" nei processi "All Iberian 2" e "Sme-Ariosto2". 

4 Legge 248/2002 (cosiddetta "legge Cirami sul legittimo sospetto"). Introduce il "legittimo sospetto" sull'imparzialità del giudice, quale causa di ricusazione e trasferimento del processo ("In ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice"). La norma è sistematicamente invocata dagli avvocati di Berlusconi e Previti nei processi che li vedono imputati. 

5 Decreto legge n. 282/2002 (cosiddetto "decreto salva-calcio"). Introduce una norma che consente alle società sportive (tra cui il Milan) di diluire le svalutazioni dei giocatori sui bilanci in un arco di dieci anni, con importanti benefici economici in termini fiscali. 

6 Legge n. 289/2002 (Legge finanziaria 2003). Condono fiscale. A beneficiare del condono "tombale" anche le imprese del gruppo Mediaset. 

7 Legge n.140/2003 (cosiddetto "Lodo Schifani"). E' il primo tentativo per rendere immune Silvio Berlusconi. Introduce il divieto di sottomissione a processi delle cinque più altre cariche dello Stato (presidenti della Repubblica, della Corte Costituzionale, del Senato, della Camera, del Consiglio). La legge è dichiarata incostituzionale dalla sentenza della Consulta n. 13 del 2004. 

8 Decreto-legge n.352/2003 (cosiddetto "Decreto-salva Rete 4"). Introduce una norma ad hoc per consentire a rete 4 di continuare a trasmettere in analogico. 

9 Legge n.350/2003 (Finanziaria 2004). Legge 311/2004 (Finanziaria 2005). Nelle norme sul digitale terrestre, è introdotto un incentivo statale all'acquisto di decoder. A beneficiare in forma prevalente dell'incentivo è la società Solari.com, il principale distributore in Italia dei decoder digitali Amstrad del tipo "Mhp". La società controllata al 51 per cento da Paolo e Alessia Berlusconi. 

10 Legge 112/2004 (cosiddetta "Legge Gasparri"). Riordino del sistema radiotelevisivo e delle comunicazioni. Introduce il Sistema integrato delle comunicazioni. Scriverà il capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi: "Il sistema integrato delle comunicazioni (Sic) - assunto dalla legge in esame come base di riferimento per il calcolo dei ricavi dei singoli operatori di comunicazione - potrebbe consentire, a causa della sua dimensione, a chi ne detenga il 20% di disporre di strumenti di comunicazione in misura tale da dar luogo alla formazione di posizioni dominanti". 

11 Legge n.308/2004. Estensione del condono edilizio alle aree protette. Nella scia del condono edilizio introdotto dal decreto legge n. 269/2003, la nuova disciplina ammette le zone protette tra le aree condonabili. E quindi anche alle aree di Villa Certosa di proprietà della famiglia Berlusconi. 

12 Legge n. 251/2005 (cosiddetta "ex Cirielli"). Introduce una riduzione dei termini di prescrizione. La norma consente l'estinzione per prescrizione dei reati di corruzione in atti giudiziari e falso in bilancio nei processi "Lodo Mondadori", "Lentini", "Diritti tv Mediaset". 

13 Decreto legislativo n. 252 del 2005 (Testo unico della previdenza complementare). Nella scia della riforma della previdenza complementare, si inseriscono norme che favoriscono fiscalmente la previdenza integrativa individuale, a beneficio anche della società assicurative di proprietà della famiglia Berlusconi. 

14 Legge 46/2006 (cosiddetta "legge Pecorella"). Introduce l'inappellabilità da parte del pubblico ministero per le sole sentenze di proscioglimento. La Corte Costituzionale la dichiara parzialmente incostituzionale con la sentenza n. 26 del 2007. 

15 Legge n.124/2008 (cosiddetto "lodo Alfano"). Ripropone i contenuti del 2lodo Schifani". Sospende il processo penale per le alte cariche dello Stato. La nuova disciplina è emanata poco prima delle ultime udienze del processo per corruzione dell'avvocato inglese Davis Mills (testimone corrotto), in cui Berlusconi (corruttore) è coimputato. Mills sarà condannato in primo grado e in appello a quattro anni e sei mesi di carcere. La Consulta, sentenza n. 262 del 2009, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge per violazione degli articoli 3 e 138 della Costituzione. 

16 Decreto legge n. 185/2008. Aumentata dal 10 al 20 per cento l'IVA sulla pay tv "Sky Italia", il principale competitore privato del gruppo Mediaset. 

17 Aumento dal 10 al 20 per cento della quota di azione proprie che ogni società può acquistare e detenere in portafoglio. La disposizione è stata immediatamente utilizzata dalla Fininvest per aumentare il controllo su Mediaset. 

18 Disegno di legge sul "processo breve". Per l'imputato incensurato, il processo non può durare più di sei anni (due anni per grado e due anni per il giudizio di legittimità). Una norma transitoria applica le nuove norme anche i processi di primo grado in corso. Berlusconi ne beneficerebbe nei processi per corruzione in atti giudiziari dell'avvocato David Mills e per reati societari nella compravendita di diritti tv Mediaset.

·        La Salute.

Berlusconi torna a parlare: "Ho affrontato le complicazioni di un male tremendo". Emanuele Lauria su La Repubblica il 2 giugno 2021. L'ex premier, dopo le notizie contrastanti sul suo stato di salute, rilascia un'intervista al Giornale: "Le manifestazioni di solidarietà mi hanno dato la forza di affrontare questo momento. Tajani si consulta sempre con me. Il ruolo di Fi è insostituibile, quella di Toti e Brugnaro un'operazione di Palazzo senza futuro". Dopo alcune settimane di silenzio, e di notizie contrastanti sul suo stato di salute, Silvio Berlusconi torna a parlare. Lo fa dalle colonne del quotidiano di famiglia, il Giornale. L'ex premier sottolinea "l'attenzione e la partecipazione avvertite intorno a me in questi mesi difficili". "La solidarietà e l'affetto che mi sono stati espressi da tanti italiani - afferma - mi hanno non soltanto commosso, ma mi hanno dato la forza di affrontare una strada difficile: quella con le conseguenze e le complicanze di un male insidioso e tremendo, lo stesso che ha seminato tanti lutti e tanto dolore in Italia e nel mondo". Il leader di Forza Italia rivolge "un grazie particolare" ad Antonio Tajani e a tutti coloro che con lui "stanno mandando avanti Forza Italia nel modo migliore, con lealtà e dedizione, consultandosi continuamente con me". Berlusconi era stato colpito dal Covid a settembre, poi - come riferito da Tajani - ha subito anche "le conseguenze del vaccino". Nel frattempo, le sue condizioni erano state definite severe sia dalla difesa che dall'accusa del processo Ruby Ter. Il pm Tiziana Siciliano aveva detto in aula che "le pluripatologie fisiche di Berlusconi non hanno possibilità di recupero" e per quanto riguarda le patologie aveva aggiunto che "delle tre espresse una è psicologica e l'altra è psichiatrica-neurologica: danno un quadro - la conclusione - che merita attenzione". Pur tuttavia i giudici hanno negato lo stralcio della posizione di Berlusconi: il, processo riprenderà l'8 settembre. L'ex premier, nell'intervista, parla della crisi di Forza Italia: "L'operazione Brugnaro-Toti mi ha rattristato, perché fa l'opposto di quello che sarebbe necessario: unire le forze per rilanciare una grande area liberale, cattolica, europeista, garantista, di governo del Paese. Questo è anche per il futuro il ruolo insostituibile di Forza Italia. Tutti i tentativi di frammentazione accaduti finora hanno avuto vita breve e nessuna prospettiva politica. Non capisco perché questa volta dovrebbe essere diverso". Silvio Berlusconi sostiene che "per noi cambia poco, ma mi dispiace che alcuni amici parlamentari di Forza Italia si siano prestati ad una delle tante operazioni di palazzo, senza seguito nel Paese, che non li porterà da nessuna parte". Berlusconi sta affrontando cure domiciliari ad Arcore. La sua ultima uscita pubblica risale alle consultazioni per la nascita del governo Draghi, nel febbraio scorso.

Silenzio, parla Berlusconi. Francesco Maria Del Vigo e Marco Zucchetti il 2 Giugno 2021 su Il Giornale. Torna il Cavaliere: "Sto meglio e lavoro da casa. L'Italia riparte con il governo di unità che ho promosso. Ora tagliamo le tasse".

Presidente Berlusconi, mai come oggi non è domanda di prammatica: come sta? Si sono lette notizie poco veritiere, ma la preoccupazione di tanti italiani è sincera...

«Meglio. Per fortuna sto gradualmente migliorando, tanto è vero che posso darvi quest'intervista. I medici mi hanno finalmente autorizzato a riprendere un minimo di attività, pur senza ancora uscire di casa. La prima cosa che voglio dire a voi e a tutti gli italiani è un grazie dal profondo del cuore per l'attenzione e la partecipazione che ho avvertito intorno a me in questi mesi difficili. La solidarietà e l'affetto che mi sono stati espressi da tanti italiani mi hanno non soltanto commosso, ma mi hanno dato la forza di affrontare una sfida difficile: quella con le conseguenze e le complicanze di un male insidioso e tremendo, lo stesso che ha seminato tanti lutti e tanto dolore in Italia e nel mondo. Un grazie particolare lo devo poi ad Antonio Tajani e a tutti coloro che con lui stanno mandando avanti Forza Italia nel modo migliore, con lealtà e dedizione, consultandosi continuamente con me».

Fra le sfide che le sono toccate, c'è stato appunto anche il Covid. Oggi sembra che il Paese stia uscendo dal tunnel. Si aspettava una sterzata così efficace nella lotta al virus? Merito del cambio al vertice, con il repulisti di contiani come Arcuri?

«Non mi piace personalizzare le questioni. È l'effetto di un cambio di passo del quale sicuramente ha merito il governo di unità nazionale che io per primo ho chiesto e invocato e che senza di noi non si sarebbe mai potuto realizzare. Il Paese aveva bisogno di una soluzione di emergenza di fronte ad una crisi senza precedenti. La svolta c'è stata, sia sul piano sanitario e finalmente se ne vedono i primi effetti sia su quello economico, ma purtroppo la ripresa sarà lunga e difficile. Tuttavia finalmente possiamo vedere un po' di luce in fondo al tunnel».

Draghi è stato molto lodato dai giornali stranieri. Come si evolveranno i rapporti fra Roma e Bruxelles? Sull'immigrazione non sembra che l'atteggiamento sia cambiato...

«Certamente i buoni rapporti stabiliti da Draghi negli anni in Europa gli saranno d'aiuto. Vedete, i rapporti internazionali sono fatti anche di credibilità e di fiducia personale. È quello che io ho fatto per molti anni, cercando di stabilire i migliori rapporti possibili con un grande numero di leader europei e mondiali. Sono rapporti che durano anche oggi e che non ho esitato ad utilizzare per convincere le cancellerie europee ad assumere un atteggiamento generoso e solidale verso l'Italia quando si è trattato di decidere per esempio sul Recovery Plan, il più grande piano di aiuti al nostro Paese dai tempi del Piano Marshall. Sono convinto che anche in materia di immigrazione Draghi saprà usare il metodo Berlusconi: non contrapposizioni muscolari ma, al contrario, rapporti costruttivi sia con i leader europei che con i governi della sponda Sud del Mediterraneo. Facendo così noi eravamo riusciti a ridurre praticamente a zero il flusso di migranti clandestini dall'Africa nel 2010 e 2011».

Rimanendo in tema di politica estera, la preoccupano certe posizioni filocinesi?

«Sono due temi in parte collegati, che certamente mi preoccupano. La Cina sta ponendo in essere la più grave sfida globale all'Occidente, ai nostri valori, al nostro modello di civiltà. Lo fa in nome di un'ideologia comunista totalitaria che si sposa ad un espansionismo economico e commerciale dagli inevitabili risvolti politici. Rispondere alla sfida della Cina è il grande tema di tutto l'Occidente, come lo è stato opporsi all'Unione Sovietica nella seconda metà del XX secolo. È una sfida che possiamo vincere, proprio come abbiamo vinto la Guerra fredda, certo non con l'uso delle armi, ma rispondendo colpo su colpo sia sul piano dei valori sia dei diritti di libertà. In questo senso l'Europa può svolgere la sua parte solo se saprà darsi una vera politica estera e di difesa comune, come da molto tempo stiamo chiedendo. Questo significa dotarsi di un vero e unico strumento militare europeo, naturalmente nell'ambito dell'Alleanza Atlantica».

La preoccupa anche il ritorno della sinistra anti-israeliana?

«Sul tema la mia posizione è ben nota: il premier Netanyahu disse una volta e ne sono fiero che il nostro governo era stato il più amico di Israele nella storia della Repubblica. Israele e il mondo ebraico sono una parte essenziale della nostra identità di europei e di occidentali, lo Stato ebraico è un faro di libertà e di democrazia nel Medio Oriente, difendere Israele significa difendere i nostri stessi valori. Questo non significa ovviamente non coltivare le migliori relazioni con il mondo arabo, né rinunciare a lavorare perché il popolo palestinese possa vedere soddisfatti i suoi diritti e le sue aspirazioni. Gli accordi di Abramo raggiunti nei mesi scorsi fra Israele e molti Paesi del mondo musulmano sono una svolta storica che dimostra come la strada del conflitto in Medio Oriente non sia affatto scontata. Al contrario, esiste una prospettiva di pace fra gli uomini di buona volontà, sia ebrei che arabi. In Italia ci sono frange che non comprendono tutto questo. Non si rendono conto dell'importanza di difendere il nostro modello di civiltà, di società, di libertà. Ci sono sempre state, ma, fortunatamente, ritengo siano minoritarie».

Se nel 1994 le avessero detto che un giorno avrebbe governato con gli eredi del Pci e dei dipietristi, non ci avrebbe creduto. Le fa effetto?

«In effetti è un'anomalia, destinata a durare fino a quando l'emergenza non potrà dirsi davvero superata. Poi la politica tornerà a far emergere le naturali distinzioni. Mi auguro che quando si tornerà alle naturali distinzioni si potrà farlo con il rispetto reciproco doveroso in una democrazia matura».

Finora Forza Italia nella maggioranza sta svolgendo un'opera di mediazione e moderazione, è soddisfatto di quando ottenuto finora dai suoi ministri?

«Assolutamente sì, direi che sono fra i migliori del governo Draghi. La nostra capodelegazione Mariastella Gelmini e gli altri ministri e sottosegretari stanno lavorando con serietà, senza clamori ma con efficacia, per consolidare l'azione dell'esecutivo con le idee e i programmi di Forza Italia. Al tempo stesso, gestiscono con sicura competenza dicasteri decisivi per fare ripartire l'Italia. Per esempio quello del Mezzogiorno affidato a Mara Carfagna».

Salvini ha detto che non si faranno le riforme di fisco e giustizia perché le distanze con la sinistra sono incolmabili. Cosa deve fare questo governo?

«Salvini ha evidenziato una difficoltà che evidentemente esiste: se con la sinistra siamo avversari politici da trent'anni chiaramente ci sono delle questioni di fondo molto importanti che ci dividono. Però questo governo deve fare cose importanti anche in materia di giustizia e di fisco: senza, non si esce dalla crisi. E portare fuori il Paese dalla crisi è il grande compito di questo governo. E poi, senza queste riforme, non si prenderebbero neppure i miliardi del Recovery Plan».

L'economia è la vera sfida dopo il virus. Pensa sia arrivato finalmente il tempo di abbattere burocrazia e assistenzialismo e sostituirli con più lavoro e un fisco che rimetta gli stipendi nelle tasche degli italiani?

«La riforma burocratica è essenziale e il nostro Renato Brunetta se ne sta occupando con la bravura e la passione che tutti gli riconoscono. E la questione fiscale rimane il tema decisivo per il futuro del Paese».

Forza Italia nacque proprio chiedendo «meno tasse per tutti»...

«... e questo è il momento di rilanciare questa grande battaglia. Nei giorni scorsi abbiamo presentato un grande progetto di riforma fiscale, perché se l'Italia esce dall'emergenza sanitaria grazie ai vaccini, non esce dall'emergenza economica se non ripartono l'occupazione e i consumi e se le aziende non tornano a fare utili. Tutto questo non accadrà mai se il 60% della ricchezza prodotta viene incamerato dallo Stato con le tasse. Siamo consapevoli del fatto che con questo governo non potremo realizzare per intero la riforma fiscale che noi vorremmo, con la flat tax ad un'aliquota molto bassa. Però rilanceremo con forza la battaglia sulle tasse anche raccogliendo le firme nei gazebo in tutt'Italia per la nostra proposta di riforma fiscale».

Ci può riassumere questa battaglia?

«È una proposta che tiene conto delle condizioni di fattibilità immediata, nel quadro politico di oggi, non è il nostro obbiettivo finale. Parte dal presupposto che prima di pensare a come ridistribuire la ricchezza, bisogna crearla. Dunque dobbiamo lasciare più denaro possibile nelle tasche di cittadini e imprese. Per questo proponiamo una no tax area fino a 12.000 euro di reddito, una tassazione al 15% fino a 25.000 euro, al 23% fino a 65.000 e al 33% oltre i 65.000. In concreto, per fare degli esempi, chi guadagna 15.000 euro l'anno avrà a disposizione ogni mese 100 euro in più, chi ne guadagna 30.000 avrà ogni mese 235 euro in più, chi ne guadagna 45.000 avrà ogni mese 422 euro in più. Chiediamo inoltre un vero anno bianco fiscale, bloccando le cartelle esattoriali fino alla fine del 2021 e una chiusura realistica del contenzioso pregresso, senza svenare i cittadini in difficoltà. Infine rimangono nei nostri programmi l'abolizione totale dell'Irap e l'estensione della cedolare secca sugli immobili».

Un progetto ambizioso. Pensa che sia realisticamente fattibile?

«Noi siamo gli unici davvero credibili su questo tema. Nessuno dei nostri governi ha mai messo le mani in tasca agli italiani e solo con il nostro governo negli ultimi decenni la pressione fiscale complessiva è scesa sotto il 40%. In ogni caso, c'è un'altra proposta, che lega le mani ad ogni tentazione di spremere gli italiani con le tasse: un tetto massimo alla pressione fiscale, che chiediamo di inserire in Costituzione, così da non poterlo più cambiare».

Intanto Letta insiste su patrimoniale e tassa sull'eredità e sostiene che voi siate difensori del privilegio. Davvero la classe media con una casa e un piccolo patrimonio frutto di anni di lavoro è privilegiata?

«Tutt'altro. Una delle nostre riforme delle quali sono più orgoglioso è l'abolizione della tassa di successione. Fino a quando saremo al governo, nessuna patrimoniale e nessuna tassa sull'eredità potranno essere introdotte. Prima di tutto per una questione di giustizia: patrimoniale e tassa di successione significano tassare per la seconda volta lo stesso patrimonio sul quale le tasse sono già state pagate quando quel patrimonio si è formato. E poi per una questione economica: oggi le tasse dobbiamo diminuirle, non aumentarle. Oggi il problema dell'Italia è ripartire e come diceva Winston Churchill - una nazione che si tassa nella speranza di diventare prospera è come un uomo in piedi in un secchio che cerca di sollevarsi tirando il manico».

Presidente, perché tante tensioni nel centrodestra alle comunali? È vero che nessuno vuole più fare il sindaco?

«Non ci sono tensioni, c'è un paziente lavoro per individuare i candidati migliori. Non è una gara a chi arriva primo. È vero però che è difficile trovare candidati se li cerchiamo come li vogliamo noi: non mestieranti della politica, ma persone che con la loro storia personale abbiano dimostrato capacità di lavoro, serietà, concretezza, esperienza da mettere al servizio della collettività».

Che ne pensa dell'operazione Brugnaro-Toti?

«Mi ha rattristato, perché fa l'opposto di quello che sarebbe necessario: unire le forze per rilanciare una grande area liberale, cattolica, europeista, garantista, di governo del Paese. Questo è anche per il futuro il ruolo insostituibile di Forza Italia. Tutti i tentativi di frammentazione accaduti finora hanno avuto vita breve e nessuna prospettiva politica. Non capisco perché questa volta dovrebbe essere diverso. Per noi cambia poco, ma mi dispiace che alcuni amici parlamentari di Forza Italia si siano prestati ad una delle tante operazioni di palazzo, senza seguito nel Paese, che non li porterà da nessuna parte».

Fratelli d'Italia all'opposizione sale nei sondaggi e può essere sia un problema sia una risorsa. Come vedrebbe la Meloni premier? C'è l'ipotesi di una federazione tra i partiti di centrodestra al governo?

«Giorgia Meloni è una risorsa importante. In ogni caso il futuro premier, se il centrodestra governerà il Paese, lo sceglieranno come sempre gli elettori, decidendo a quale partito dare più voti. Rimane il fatto che un centrodestra plurale è essenziale. Noi siamo orgogliosi della nostra identità liberale, che ci rende diversi da tutti gli altri, e che vogliamo non solo preservare ma consolidare».

Da liberale, che ne pensa del ddl Zan?

«Da liberale, penso che sia un grave errore, perché non allarga la platea dei diritti e pone una grave questione di libertà. Io sono ovviamente per l'assoluta parità fra tutti i cittadini, che sono portatori di diritti in quanto persone. Ogni distinzione basata sugli stili di vita, sul sesso, sull'orientamento sessuale, sulle opinioni, sull'etnia di appartenenza, sulle convinzioni religiose, sulle disabilità, sulla classe sociale è assolutamente inaccettabile. Per questo le tutele devono riguardare tutti i cittadini, non determinate categorie in particolare. Ma le leggi a questo proposito esistono già e se non bastano possiamo aggravarle e inasprirle. La legge Zan non aggiunge nulla a questa tutela e porta invece con sé un grave rischio: quello di limitare la libertà di opinione. La difesa della famiglia tradizionale proposta come valore, o l'opposizione a pratiche come la maternità surrogata, potrebbero essere definite come atti di discriminazione e quindi diventare perseguibili. Come minimo, si lascia una discrezionalità interpretativa che sarà fonte di un contenzioso infinito e pericoloso. Per questo non la possiamo certamente votare. La nostra senatrice Ronzulli ha presentato un'altra proposta di legge, che affronta il tema della tutela dalle discriminazioni in uno spirito liberale. Quella è la strada da seguire».

Che effetto le ha fatto sentire Michele Santoro dire che «la statura politica, le capacità umane e imprenditoriali di Berlusconi sono fuori discussione» e che «i magistrati hanno iniziato a scannarsi fra loro quando non potevano più prendersela con Berlusconi»?

«Che posso dire? Invecchiando tutti diventano più saggi. E a Santoro non hanno mai fatto difetto né l'intelligenza, né la capacità giornalistica di individuare il punto delle questioni. Questo non toglie nulla alla distanza che ci separa, ovviamente».

Deluso dalla mancata promozione in Serie A del suo Monza? Stadi senza pubblico e SuperLega: si riconosce ancora in questo calcio?

«Direi, al contrario, che per una società neo promossa dalla serie C alla B, sfiorare la serie A già il primo anno è un risultato storico. Il Monza ha fatto bene e farà ancora meglio: il progetto serie A rimane l'obbiettivo della squadra e della società. È stato uno strano campionato, falsato dall'assenza di pubblico. Però voglio fare i complimenti all'Inter, da milanese, per il campionato vinto con un magnifico girone di ritorno e al mio Milan per essere ritornato finalmente in Champions. Per quanto riguarda i nostri competitori in serie B, mi congratulo con l'Empoli, la Salernitana e il Venezia. Quanto alla SuperLega, è un vecchio progetto, che in questo momento ha urtato la sensibilità di molti tifosi. Comunque la si pensi, non è attuale».

·        La Giustizia.

Boccassini: "Pressioni da De Gennaro Per non far processare Berlusconi". Affari Italiani l’8/10/2021. Ilda Boccassini: "Pressioni da De Gennaro per prosciogliere Berlusconi". Ilda Boccassini nel suo libro in uscita "La stanza numero 30" si racconta apertamente. Dall'amore segreto con Giovanni Falcone alle pressioni ricevute dall'ex capo della polizia De Gennaro per non processare Berlusconi. "Dall’inizio alla fine - si legge su Repubblica - sono stata una figura ingombrante per la mia categoria, per la politica e per quei cittadini che mi vedevano come un demonio o come un angelo vendicatore. Ovviamente non sono mai stata né l’uno né l’altro, ma questo è il destino di “Ilda la Rossa” ed è arrivato il momento di accettarlo con serenità, di elaborarlo come si fa con i traumi e le ferite che guariscono, ma lasciano in ricordo una cicatrice permanente». Nel suo libro - prosegue Repubblica - ci sono la rivelazione di episodi, tanto importanti quanto per lei dolorosi. Il 10 novembre 2000 Gianni De Gennaro, il capo della Polizia la chiama a Roma. Tra loro c’è stato «un rapporto intenso: gli volevo bene, lo stimavo». Ma quel giorno si trova davanti una persona diversa: «Senza preamboli e con il suo tono ruvido, il capo della polizia mi chiese cosa stessi “combinando a Milano”, aggiungendo che in tutti quei mesi aveva faticato a tenere a bada Berlusconi e i suoi, che si era speso per “evitarmi il peggio”. Rimasi sbalordita, spiazzata da quel discorso così diretto che nemmeno mi venne in mente di collegare quella rampogna alla contestazione suppletiva (proprio contro Berlusconi ndr) che avrei depositato pochi giorni dopo al processo Sme-Toghe sporche. Invece era proprio quella scadenza imminente — anzi, il tentativo di neutralizzarla — che rendeva De Gennaro tanto aggressivo». Boccassini se ne va sbattendo la porta.

Gianluca Di Feo per “la Repubblica” l'8 ottobre 2021. - ESTRATTO: 10 novembre 2000. Gianni De Gennaro la chiama a Roma. Tra loro c'è stato «un rapporto intenso: gli volevo bene, lo stimavo». Ma quel giorno si trova davanti una persona diversa: «Senza preamboli e con il suo tono ruvido, il capo della polizia mi chiese cosa stessi "combinando a Milano", aggiungendo che in tutti quei mesi aveva faticato a tenere a bada Berlusconi e i suoi, che si era speso per "evitarmi il peggio". Rimasi sbalordita, spiazzata da quel discorso così diretto che nemmeno mi venne in mente di collegare quella rampogna alla contestazione suppletiva (proprio contro Berlusconi ndr ) che avrei depositato pochi giorni dopo al processo Sme-Toghe sporche.  Invece era proprio quella scadenza imminente - anzi, il tentativo di neutralizzarla - che rendeva De Gennaro tanto aggressivo». Boccassini se ne va sbattendo la porta. In altri capitoli contesta «i cattivi maestri, capaci solo di infiammare le coscienze dei giovani con messaggi falsi e fuorvianti, discorsi piagnucolosi sulla fatica di vivere scortati». Dedica un cameo ruvido a Nicola Gratteri, «che creava tensione con il suo vantarsi di una conoscenza della 'ndrangheta talmente approfondita e a suo dire unica da ricavarne bizzarramente (poiché era il solo a esserne convinto) un senso di superiorità nei nostri confronti». Critica Antonio Ingroia e Nino Di Matteo per le scelte investigative e gli errori sulla Trattativa. E di Roberto Scarpinato scrive: «Non ho mai apprezzato il suo stile da narciso siciliano perfettamente rappresentato dalla sua acconciatura alla D'Artagnan ». Molto negativo il giudizio sul procuratore di Milano Francesco Greco, un altro amico da cui si è sentita tradita. «La situazione in cui mi trovavo si faceva ogni giorno più incresciosa, ma non volevo lamentarmene con i colleghi. Ne parlavo soltanto con Paolo Storari, pur sapendo che molti altri magistrati erano indignati per il prolungarsi delle non-scelte di Greco. I mesi trascorrevano lenti, mentre cominciava a prendere forma il progetto organizzativo del nuovo procuratore, tanto favorevolmente accolto dai membri della commissione che ne aveva deciso la nomina, a cominciare da Paola Balducci, convinta sostenitrice di Greco, oltre che indiscussa rappresentante della logica spartitoria, come sarebbe emerso dalle chat di Luca Palamara». Valutazioni destinate ad avere un riflesso nelle indagini sul caso Amara, che hanno spezzato la procura di Milano, mettendo Greco e Storari l'uno contro l'altro. E prosegue: «Quanto alla vicenda che, a partire dal cellulare di Palamara, ha terremotato il Csm, il dato sconfortante che emerge, oggi ancora più che in passato, è la ricerca spasmodica di fette di potere da parte di troppi magistrati, la svendita della propria funzione per pochi spiccioli, un regalo, un favore, una poltrona per sé, una spintarella per un parente». Boccassini è spietata verso il Csm, l'Associazione magistrati e le correnti, diventate volano di un sistema contaminato. «Sono ancora troppi i comportamenti opachi, forse non penalmente rilevabili, ma senza dubbio deontologicamente censurabili. Se Cosa nostra in Sicilia ha potuto vivere e prosperare per decenni, lo si deve anche - non solo, ovviamente, ma anche - all'inerzia di una magistratura pigra, pavida, in alcuni casi collusa. E se la corruzione ha potuto minare le fondamenta dello Stato, lo si deve anche a pezzi di magistratura che hanno volutamente distolto lo sguardo, oppure non hanno capito o si sono lasciati corrompere». Boccassini sa che la sua ostinazione le ha stroncato la carriera - è andata in pensione come semplice pm - e le ha complicato la vita.

Così Boccassini nascose i "consigli" di De Gennaro. Luca Fazzo il 9 Ottobre 2021 su Il giornale. L'ex pm svela, vent'anni dopo, il pressing dell'allora capo della Polizia: "Provò a fermarmi su Berlusconi". Forse era meglio dare retta a Gianni De Gennaro. O forse era più giusto denunciarlo: come si permette il capo della Polizia di urlare contro un pubblico ministero, premere perché non indaghi contro un potente, impedirgli di fare il suo dovere? Invece Ilda Boccassini non fece nessuna delle due cose. Non denunciò il suo amico De Gennaro. Ma nemmeno gli diede retta: proseguì a testa bassa nella sua offensiva contro Silvio Berlusconi, sfoderando contro l'ex premier una nuova accusa, nuova puntata di un assedio che durava ormai da cinque anni. Una accusa destinata nel giro di una manciata di anni a rivelarsi infondata. Il ruolo di De Gennaro - l'uomo più potente della sicurezza pubblica italiana - nei processi a Berlusconi non si sarebbe mai saputo se non l'avesse rivelato la Boccassini nel suo libro di memorie, La stanza numero 30, appena uscito da Feltrinelli: e che sta facendo notizia soprattutto per quanto la dottoressa rivela sui suoi rapporti affettuosi con Giovanni Falcone. Ma nel libro c'è molto altro. C'è l'autoritratto della protagonista di una stagione cruciale della giustizia italiana. E ci sono rivelazioni (vere fino a prova contraria) su episodi chiave. Come quello su De Gennaro che nel novembre 2000 convoca la pm nel suo ufficio al Viminale (e già questo sarebbe irrituale), e quando arriva le chiede «cosa stai combinando a Milano?». Il riferimento è la nuova accusa che la dottoressa sta preparando in quei giorni contro Silvio Berlusconi nel processo Sme: corruzione giudiziaria, un reato assai pesante che metterebbe il processo al riparo dalla prescrizione. De Gennaro rivela a Ilda che i suoi colleghi, a partire dal capo Gerardo D'Ambrosio, non sono d'accordo con lei. E «per il bene di tutti» le chiede di ripensarci. Come andò a finire? Lei non ci ripensò, formulò la nuova accusa contro il Cavaliere. E anche da quella imputazione, come da tutte le altre del caso Sme, Berlusconi venne assolto «per non avere commesso il fatto»: esito del processo cui, nel suo libro, Ilda la Rossa dedica due righe. Ma la domanda vera è un'altra: perché ha taciuto per vent'anni? Perché non fece una relazione sull'ingerenza senza precedenti del superpoliziotto in un processo così delicato? Non è l'unica domanda che il libro lascia sospesa. C'è la storia del pentimento di Salvatore Cancemi, che accusa Berlusconi di avere pagato Cosa Nostra: rovinato in buona parte, scrive, da uno scoop di Repubblica. Ilda dice di essere rimasta «annichilita e sconvolta» dalla fuga di notizie. Ma aggiunge anche che anni dopo, davanti a un bicchiere di whisky, il cronista autore dello scoop le rivela l'identità della fonte. È un uomo che Ilda dice di «conoscere bene». Ma che non denuncia, anche se ha danneggiato un'indagine cruciale. Perché? Chi era la «talpa»? Storie recenti e storie remote, in cui Ilda - e qui è difficile darle torto - si dipinge come una «selvaggia», fuori dalle correnti e dai giochi di potere dei colleghi. Ma costellate di valutazioni impietose. Alcune destinate a chi non può più difendersi, come Giovanni Tinebra, suo capo a Caltanissetta. Alcune, spassosissime, dedicate alla vanità di Giancarlo Caselli (che in missione in Usa cerca la lacca per la chioma) o di Roberto Scarpinato, «narciso siciliano con l'acconciatura alla D'Artagnan». Alcune di violenza sorprendente, come il passaggio dedicato al suo ultimo capo, Francesco Greco, suo amico per decenni: che la emargina non solo dalle inchieste antimafia ma anche dai dibattiti, dove «senza interagire con me intratteneva le platee su tematiche di cui non era esperto». E, su tutte le trecento pagine, l'ombra di Falcone. Che, tra un viaggio e un tuffo in mare, l'ammoniva a fare processi solo con prove irrefutabili. Invano. (17 ottobre 1991, Falcone fuma nel cortile della prefettura di Milano. Un cronista gli chiede una parola di solidarietà per la Boccassini, che Borrelli ha appena cacciato dal pool antimafia. E Falcone, sbuffando: sta parlando con la persona sbagliata")

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Ilda Boccassini scaricata dal Fatto Quotidiano: "Fuori il nome della talpa che salvò Silvio Berlusconi. Libero Quotidiano il 13 ottobre 2021. Quando si tratta di andare contro Silvio Berlusconi, al Fatto Quotidiano sono disposti pure a “torchiare” un loro totem come Ilda Boccassini. Nell’edizione odierna, Peter Gomez si è soffermato su un passaggio del libro scritto dall’ex magistrato sulla talpa che salvò il Cav alla vigilia delle elezioni del 1994. “Fa rabbia - ha scritto uno dei fondatori del Fatto - leggere nel libro di Ilda Boccassini come qualcuno (un funzionario di Stato o un magistrato?) Abbia con una fuga di notizie ‘consapevolmente’ bruciato le indagini sul denaro che, secondo i pentiti, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri versavano periodicamente a Cosa Nostra”. I fatti risalgono al 18 febbraio 1994, quando la Boccassini si trovava a Caltanissetta per indagare sull’omicidio di Giovanni Falcone: quel giorno interrogò Salvatore Cancemi, leggende del mandamento mafioso di Porta Nuova. L’ex magistrato ha scritto nel suo libro che quel giorno Cancemi ricordò “di aver assistito, in più occasioni, al passaggio di decine di milioni di lire in banconote usate” e che la consegna dei soldi era ancora in corso. Allora la Boccassini si rivolse al capitano Ultimo per mettere sotto sorveglianza Pierino Di Napoli, il capo della famiglia di Malaspina che secondo i magistrati riceveva il denaro di Berlusconi. Il 24 marzo 1994, tre giorni prima delle elezioni vinte da Berlusconi, su Repubblica venne pubblicato il verbale di Cancemi: a quel punto l’indagine morì, dato che Di Napoli si chiuse in casa. “Per 17 anni il mistero resiste - scrive Gomez - poi una sera D’Avanzo (uno degli autori dello scoop, ndr) rivela alla sua amica Boccassini il nome della fonte. Racconta di aver ricevuto una telefonata a casa da parte di una persona che conosceva da anni. Di essere stato invitato dalla fonte nella sua abitazione romana, distante una decina di minuti in auto, di aver trovato lì un uomo ‘con le lacrime agli occhi e delle carte in mano’: i verbali segreti di Cancemi”. Boccassini però non ha rivelato il nome nel suo libro e questo fa schizzare Gomez: dovrebbe farlo, d'altronde c'è Berlusconi di mezzo...

"Niente analisi delle sue carte di credito". Boccassini e quel no alle indagini su Falcone. Felice Manti e Edoardo Montolli l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Resta il giallo sul viaggio in Usa del giudice, a caccia di conferme da Buscetta. Al di là delle polemiche sull'amore per Giovanni Falcone rivelato da Ilda Boccassini, l'inedito risvolto privato riaccende i fari su uno dei fatti più misteriosi della Prima Repubblica: il viaggio a Washington del giudice palermitano alla fine di aprile del 1992. Fu infatti proprio Ilda Boccassini, da titolare delle indagini, a vietare che venissero controllate le sue carte di credito - cosa che avrebbe permesso di accertare l'esistenza del viaggio - per non invadere la sfera privata di Falcone, così come avrebbe testimoniato al Borsellino quater molti anni più tardi. Ossia apprendiamo oggi la privacy dell'uomo che amava. Per capire l'importanza di quel viaggio, bisogna tornare al 18 marzo 1992, quando venne diffusa una circolare del Sisde a tutti i prefetti. Il documento ipotizzava un presunto piano di destabilizzazione dell'Italia ordito all'estero con attentati da marzo a luglio. E venne diffuso perché una settimana prima, il 12 marzo, era stato ammazzato Salvo Lima. Fu allora che Falcone disse al ministro della giustizia Claudio Martelli che sarebbe andato in America da Tommaso Buscetta, per i rapporti che il pentito sosteneva di aver avuto con Lima. Ma verosimilmente per chiedergli lumi sul piano di destabilizzazione. Di fatto, tre giorni dopo la strage si diffusero varie voci di un viaggio a Washington del giudice un mese prima di morire. Ma il ministero della giustizia smentì. Un lapsus collettivo? Forse. Solo che Falcone aveva due agende elettroniche, una Casio e una Sharp, su cui segnava gli appuntamenti. I consulenti informatici Luciano Petrini e l'allora commissario capo Gioacchino Genchi scoprirono che una di esse, la Casio, era stata cancellata in maniera non accidentale dopo il sequestro. Recuperarono il contenuto e si accorsero che tra il 28 aprile e il 2 maggio Falcone aveva davvero appuntamenti negli Stati Uniti. Non solo. Dai tabulati telefonici Genchi si accorse che in quei giorni i telefoni del giudice non andarono, segno che poteva trovarsi all'estero, dove non prendevano. Chiese così di acquisire i dati dell'American Express di Falcone, per accertare se il giudice fosse stato o meno negli Usa. D'altra parte il viaggio negli Usa venne presto confermato anche dal procuratore di Brooklyn Charles Rose, dall'avvocato Dick Martin, ex Fbi, e da Larry Byrne, funzionario del dipartimento di Giustizia americano. Ma poi giunse, anche qui, una smentita collettiva. Tuttavia, e questo è inquietante, il ministero non disse mai dove fosse stato Falcone in quella settimana: diede modo di conoscerne tutti gli spostamenti, tranne che per quella settimana. Appare impossibile che nessuno sapesse dove fosse stato l'uomo più scortato e protetto d'Italia. C'era davvero un piano per destabilizzare l'Italia? Falcone ne parlò con Buscetta? Buscetta era come avrebbe sostenuto il boss Gaetano Badalamenti coinvolto in un piano contro Giulio Andreotti? Ilda Boccassini, il 21 gennaio 2014, a Caltanissetta, definì di aver verificato che il viaggio era «una menzogna», ma nemmeno lei disse dove fosse stato tra il 28 aprile e il 2 maggio 1992. Quanto ai controlli della carta di credito chiesti da Genchi e negati: «... non ritenevo che dovesse essere oggetto lui di indagini... una ricerca ossessiva dei suoi tabulati, le carte di credito, i viaggi effettuati... Dissi a Tinebra che... avrei avuto difficoltà a continuare una collaborazione con la polizia di Stato se fosse rimasto Genchi». Ma le cose non tornano. Il procuratore Sergio Lari fece presente che agli atti non c'era nulla sul suo disagio per Genchi, anzi: risultava una lettera di disappunto perché il poliziotto aveva lasciato il gruppo d'indagine nel maggio 1993. Di più. Allo stesso processo Genchi ricorderà che la sua richiesta di acquisire le carte di credito risaliva a molto prima, all'ottobre 1992 «quindi se io dovevo essere allontanato, non dovevo essere applicato forzatamente con delega ad personam». E infine: «Tra l'altro avevo i tabulati di Falcone, sapevo tutte le chiamate che faceva e che riceveva sui due telefoni, quindi che invasività c'era?». Felice Manti e Edoardo Montolli

Giustizia nel caos: Boccassini in tv dopo 23 anni e Berlusconi ne esce a pezzi: “Così la democrazia muore”. Da Iacchite il 31 Ottobre 2021. Ilda Boccassini, ex pm milanese che ha scritto più di una pagina della storia giudiziaria italiana, è tornata in tv dopo 23 anni (l’ultima volta fu intervistata da Enzo Biagi su Rai Uno), sbarcando su La7 per una chiacchierata esclusiva con Enrico Mentana. Diversi i temi trattati, inevitabile che si parlasse di Silvio Berlusconi. “Non si doveva arrivare al processo Ruby“, scandisce, per poi aggiungere: ”Il problema era che in discussione c’era proprio la possibilità di fare il processo. Tutto quello che è stato utilizzato, le leggi ad hoc (o ad personam) e i rinvii, è stato fatto perché non si doveva arrivare al momento in cui si dice in nome del popolo italiano”. L’ex magistrato sottolinea che ”non si sono mai difesi nel processo; si sono difesi fuori dai processi dilatando i tempi. Lì si è fatto di tutto per allungare e creare un ostacolo alla democrazia, abbattere il diritto vuol dire che la democrazia muore”. La Boccassini non ha nemmeno risparmiato alcuni colleghi: “Non ho sentito il canto delle sirene che hanno sentito troppi colleghi. Rimanere con i piedi per terra quando ti dicono che sei Dio in terra non è facile”. ”La maggior parte dei magistrati fa il suo mestiere – aggiunge – ma la pubblicizzazione di alcuni personaggi ha determinato la deriva e la sindrome imitativa”. Spazio poi alla discussa confessione sentimentale relativa al legame che ebbe con Giovanni Falcone. Confessione che ha sollevato critiche. A biasimare ‘Ilda la Rossa’ c’è stata anche la sorella del giudice assassinato dalla mafia: “C’è questa voglia di creare scandali dappertutto, è la deriva che mi dispiace come lettrice. Ho deciso di mettermi a nudo e dovevo mettere a nudo anche i pezzi più privati, non puoi separare pubblico e privato”. E ancora: “Omettere questo non sarebbe stato giusto per i miei figli, per me e per Giovanni. Io voglio bene a Maria Falcone e lei sa che suo fratello è stata una persona importante e ho giurato all’obitorio che mai nessuno potesse distruggere la sua immagine. Se questo libro, ha fatto pensare invece il contrario allora vuole dire che ho fallito”. Per quel che riguarda se stessa, si è descritta come una donna “fragile ma forte, mamma imperfetta, che si commuove spesso e che si è commossa spesso nella vita”, ma che allo stesso tempo ha dovuto “crearsi un’immagine da dura”, proprio come fece Falcone: “Anche lui metteva delle maschere, perché lui si difendeva”.

Ilda Boccassini da Mentana, che mazzate a Berlusconi. L'amore segreto, cosa rivela (ancora) su Falcone. Il Tempo il 31 ottobre 2021. "Perché ho voluto scrivere quelle parole? Domanda inevitabile". Ilda Boccassini, la magistrata e storica antagonista giudiziaria Silvio Berluconi, è stata la protagonista dello special Esclusivo La7 di Enrico Mentana, sabato 30 ottobre. Non poteva mancare un passaggio sulla storia con Giovanni Falcone rivelata nel suo libro e che ha provocato aspre polemiche sull'opportunità di tirare fuori la storia - di cui molti sapevano, sottolinea Mentana - a tanti anni di distanza. "La cosa che più mi ha ferito è perché non immaginavo che ci fosse questa voglia di trovare scandali dappertutto. Mi dispiace per la malvagità", premette la Boccassini. "Ho deciso di mettermi a nudo, mettendo in questi puzzle anche i pezzi più privati. Non sarebbe stato giusto per me e per i miei figli, anche per Giovanni", sostiene l'ex magistrata che torna in tv per la prima volta dai tempi dell'intervista a Il Fatto di Enzo Biagi. Insomma, nessun pentimento di aver rivelato la vicenda.  "L'innamoramento per la bellezza di Falcone" è stato pe me "come una statua di Michelangelo, un quadro di Caravaggio", dice la Boccassini. "Un atto di coraggio", sottolinea abbastanza clamorosamente Mentana. Su quanto ha scritto Maria Falcone, che ha risposto con sdegno a una satira sul libro della Boccassini, "Ilda la rossa" non entra nel merito: "La conosco bene, e lei sa molto di me. Sa che suo fratello è stato molto importante per me. Ho giurato in obitorio che non avrei permesso a nessuno di distruggere" l'immagine di Falcone. Nell'intervista la Boccassini e Mentana hanno affrontato le vicende giudiziarie che costellano la carriera della magistrata. Con il convitato di pietra Silvio Berlusconi, naturalmente. "Quando andavo in giro venivo bombardata dai fotografi, riconosciuta da tanta gente, mi è capitato persino di essere applaudita mentre mi trovavo al ristorante. Pur essendo stata oggetto non solo di linciaggio ma anche di affetto, non mi sono però mai fatta prendere dal canto delle sirene. E non è facile restare con i piedi per terra quando tutti ti dicono 'Tu sei Dio'. Un esempio? La copertina dell'Espresso del 1996 su cui c'era scritto "Forza Ilda": quando l'ho vista mi sono inc***ata" racconta. Si entra pure nel dettaglio, con un passaggio sulla vicenda di Karima El Marough, nota come Ruby Rubacuori. "Il problema era che in discussione c’era proprio la possibilità di fare il processo. Tutto quello che e stato utilizzato, le leggi ad hoc e i rinvii è stato fatto perché non si doveva arrivare al momento in cui si dice in nome del popolo italiano" attacca l’ex pm milanese sul processo Ruby. L’ex magistrato ricorda che "non si sono mai difesi nel processo; si sono difesi fuori dai processi dilatando i tempi, lì si è fatto di tutto per allungare e creare un ostacolo alla democrazia, abbattere il diritto vuol dire che la democrazia muore", è l'affondo della Boccassini a La7. 

Boccassini intervistata da Mentana: «Nelle inchieste ho sempre cercato di non fare la fine di Squid Game». Redazione cronache su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2021. L’ex magistrato allo Speciale di Mentana su La7 dopo le polemiche sulle rivelazioni nel suo ultimo libro: «Giovanni ostacolato anche da quelli che si definivano amici». Le inchieste sulla mafia, i processi a Berlusconi, il ricordo di Giovanni Falcone. L’ex magistrato Ilda Boccassini si è raccontata in una lunga intervista a «Esclusivo 7. Parla Ilda», lo speciale di Enrico Mentana andato in onda venerdì sera su La7. Dopo l’uscita del suo ultimo libro (La stanza numero 30. Cronache di una vita) e le polemiche che ne sono scaturite, Boccassini è tornata a parlare del magistrato ucciso a Capaci nel 1992. «Giovanni Falcone ha avuto persone che gli hanno voluto bene nella magistratura, come Paolo Borsellino, ma in troppi lo hanno ostacolato, quelli che si definivano amici, quelli che lo detestavano». Poi ha aggiunto: «Quando ho conosciuto Giovanni Falcone ho cominciato a “sfruttarlo”, la sua sapienza, il suo modo di fare indagini, volevo apprendere tutto». E quanto al legame personale rivelato nel libro, Boccassini ha aggiunto, rivolgendosi anche a Maria Falcone, la sorella del magistrato ucciso dalla mafia con la moglie e la scorta: «Ho giurato, quando sono andata all’obitorio, che non avrei mai consentito che qualcuno potesse distruggere la sua immagine. Se questo libro in qualcuno ha creato questo meccanismo allora vuol dire che ho fallito nell’impresa».

Processo Ruby

Boccassini interviene anche su Berlusconi e il processo Ruby: «Il problema era che in discussione c’era proprio la possibilità di fare il processo. Tutto quello che e stato utilizzato, le leggi ad hoc e i rinvii è stato fatto perché non si doveva arrivare al momento in cui si dice in nome del popolo italiano». L’ex magistrato commenta che gli imputati «non si sono mai difesi nel processo; si sono difesi fuori dai processi dilatando i tempi, lì si è fatto di tutto per allungare e creare un ostacolo alla democrazia, abbattere il diritto vuol dire che la democrazia muore».

Squid game

In generale sulla sua lunga carriera di inquirente osserva: «Quello che mi è capitato non cercandolo, in tutte le inchieste, in un mondo molto più grande di me e che era difficile starci dentro con i piedi giusti, era di non fare la mossa sbagliata e fare la fine di Squid Game, perché muori, non solo fisicamente, ma anche dentro». E , infine, un’accusa ai colleghi che hanno scelto strade diverse: «Non no sentito il canto delle sirene che hanno sentito troppi colleghi. Rimanere con i piedi per terra quando ti dicono che sei dio in terra non è facile».

Il ritorno della Boccassini in tv e il nuovo fango su Berlusconi. Domenico Ferrara il 31 Ottobre 2021 su Il Giornale. Le premesse c'erano tutte. E alla fine l'attacco nei confronti dell'acerrimo nemico è arrivato. Le premesse c'erano tutte. E alla fine l'attacco nei confronti dell'acerrimo nemico è arrivato. Il ritorno di Ilda Boccassini in tv dopo 23 anni dall'intervista con Enzo Biagi su Rai 1 non ha lasciato spazio a grandi sorprese. Il fango contro Berlusconi è sempre il solito refrain. Un'ossessione che non sparisce neppure sotto i riflettori degli studi di La7. "Il problema era che in discussione c'era proprio la possibilità di fare il processo. Tutto quello che è stato utilizzato, le leggi ad hoc e i rinvii è stato fatto perché non si doveva arrivare al momento in cui si dice in nome del popolo italiano. Non si sono mai difesi nel processo; si sono difesi fuori dai processi dilatando i tempi, lì si è fatto di tutto per allungare e creare un ostacolo alla democrazia, abbattere il diritto vuol dire che la democrazia muore", ha sparato a zero l'ex pm di Milano, intervistata da Enrico Mentana, ricordando il processo Ruby. Ilda la rossa rammenta anche un altro episodio, per certi versi emblematico, quando il leader di Forza Italia si presentò in tribunale a Milano per rilasciare delle dichiarazioni spontanee e allora "fui costretta a stringergli la mano". Una frase che lascia trapelare una sorta di odio e di disgusto nei confronti dell'allora imputato Berlusconi con il quale "c'è stata una conflittualità che spero non ci sia mai più". Nel resto dell'intervista, l'ex magistrato torna a parlare della discussa confessione dell'amore nei confronti di Giovanni Falcone. Confessione che ha destato molto scalpore arrivando a scatenare anche l'ira della sorella del giudice assassinato dalla mafia: "C'è questa voglia di creare scandali dappertutto, è la deriva che mi dispiace come lettrice. Ho deciso di mettermi a nudo e dovevo mettere a nudo anche i pezzi più privati, non puoi separare pubblico e privato. Omettere questo non sarebbe stato giusto per i miei figli, per me e per Giovanni. Io voglio bene a Maria Falcone e lei sa che suo fratello è stata una persona importante e ho giurato all'obitorio che mai nessuno potesse distruggere la sua immagine. Se questo libro, ha fatto pensare invece il contrario allora vuole dire che ho fallito", dice la Boccassini. Che poi, durante il corso dell'intervista ne ha anche per i colleghi, rei di aver "sentito il canto delle sirene" che lei non ha sentito. Perché "rimanere con i piedi per terra quando ti dicono che sei dio in terra non è facile". Lei si descrive come una persona "fragile ma forte, mamma imperfetta, che si commuove spesso e che si è commossa spesso nella vita", ma che allo stesso tempo ha "creato un'immagine da dura", ha "sfruttato" Falcone per apprendere, per la sua sapienza. Anche lui metteva delle maschere, perché lui si difendeva".

Domenico Ferrara. Palermitano fiero, romano per cinque anni, milanese per scelta. Sono nato nel capoluogo siciliano il 9 gennaio del 1984. Amo la Spagna, in particolare Madrid. Sono stato un mancato tennista, un mancato giocatore di biliardo, un mancato calciatore, o forse preferisco pensarlo...

Ilda Boccassini schifata, "costretta a stringere la mano a Berlusconi": la frase vergognosa dell'ex pm. Libero Quotidiano il 31 ottobre 2021. Ilda Boccassini si è lasciata intervistare da Enrico Mentana negli studi di La7, ben 23 anni dopo la prima (e fino a ieri unica) apparizione televisiva con Enzo Biagi. Un evento di un certo peso, che non è passato inosservato data l’importanza storica della figura dell’ex magistrato, ma allo stesso tempo non sono mancate delle uscite contro Silvio Berlusconi, per il quale sembra nutrire una sorta di ossessione, comune a diverse toghe. Ricordando il processo Ruby, la Boccassini ha infatti sparato a zero: “Il problema era che in discussione c’era proprio la possibilità di fare il processo. Tutto quello che è stato utilizzato, le leggi ad hoc e i rinvii, è stato fatto perché non si doveva arrivare al momento in cui si dice in nome del popolo italiano. Non si sono mai difesi nel processo, si sono difesi fuori dilatando i tempi. Lì si è fatto di tutto per allungare e creare un ostacolo alla democrazia, abbattere il diritto vuol dire che la democrazia muore”. Ma non è finita qui, perché a un certo punto l’ex magistrato ha tirato fuori anche un episodio riguardante il Cav che si può definire piuttosto emblematico: “Si presentò in tribunale a Milano e fui costretta a stringergli la mano. Con Berlusconi c’è stata una conflittualità che spero non ci sia mai più”.

Ilda Boccassini, ritorno in tv 23 anni dopo da Enrico Mentana: tam-tam a La7, fango e siluri contro Silvio Berlusconi. Libero Quotidiano il 30 ottobre 2021. Ventitré anni dopo, Ilda Boccassini torna in televisione. A suo modo, un appuntamento storico: l'ultima volta in cui "Ilda la Rossa" si era concessa al piccolo schermo risale al 1998, quando l'allora sostituto procuratore di Milano si fece intervistare da Enzo Biagi, su Rai 1. Questa sera, sabato 30 ottobre, la Boccassini apparirà in prima serata su La7 per un'intervista esclusiva condotta da Enrico Mentana a partire dalle 21.15. Un colloquio su mafia, magistratura e ovviamente su Silvio Berlusconi, bersaglio grosso della Boccassini per gran parte della sua carriera, bersaglio grosso contro il quale, c'è da scommetterci, tornerà a picchiare durissimo (soprattutto ora che il leader di Forza Italia è in corsa per il Quirinale nella successione a Sergio Mattarella). Dunque, si parlerà anche di Giovanni Falcone, dopo che Ilda, nel suo libro, ha recentemente confermato che con il giudice ebbe una tormentata relazione sentimentale: "Me ne innamorai. È molto complicato per me parlarne. Sicuramente non si trattò dei sentimenti classici con cui siamo abituati a fare i conti nel corso della vita. No. Il mio sentimento era altro e più profondo, non prevedeva una condizione di vita quotidiana, il bisogno di vivere l’amore momento per momento", scrive la Boccassini nel suo libro autobiografico. Per quel che riguarda la Boccassini, nella sua ultima apparizione televisiva da Biagi nel 1998, disse di non condividere "assolutamente" che un magistrato possa passare alla politica. E ancora, raccontò la sua esperienza al pool di Milano, che disse aver avuto "soltanto il merito di scoprire che l’Italia è stata governata per anni da un sistema di corruttela.

Mafia, Giuseppe Graviano: «Io e Silvio Berlusconi legati da un contratto da 20 miliardi». Il boss delle stragi dice ai pm: «Dovevamo siglare un nuovo accordo a garanzia dei soldi che avevamo dato al futuro premier ma alla vigilia della firma mi arrestarono». Lirio Abbate su L'Espresso il 16 dicembre 2021. Dicembre 1993. La fine dell’anno più drammatico della storia repubblicana, un mese prima del video con cui Silvio Berlusconi annuncia in tv agli italiani la sua discesa nel campo politico, il boss Giuseppe Graviano sostiene di averlo incontrato in un appartamento a Milano 3. Il mafioso palermitano era latitante e solo ora, dopo quasi ventinove anni, ne parla ai pm in un verbale di interrogatorio che risale allo scorso aprile. (...) I due avrebbero parlato di affari, di comuni conoscenze e si sarebbero lasciati con un arrivederci, fissando un successivo incontro, il 14 febbraio, per definire l’accordo miliardario. Nel giorno di San Valentino, con Forza Italia già operativa, secondo lo stragista palermitano doveva essere formalizzato un patto economico con il futuro premier che si basava su una “carta” privata di alcuni anni prima. Un affare, sostiene l’ergastolano, ereditato dal nonno che assieme ad altri palermitani avevano “affidato” 20 miliardi di lire a Berlusconi in anni lontani. L’appuntamento però saltò, perché Giuseppe Graviano venne arrestato il 27 gennaio 1994 a Milano. (...)

Stragi di mafia, perquisizioni a Roma e in Sicilia dopo le dichiarazioni del boss Graviano su Berlusconi. Gli investigatori della Dia al lavoro sui nomi di chi avrebbe favorito e coperto le azioni del boss di Brancaccio accusato delle stragi di Falcone e Borsellino e delle bombe del 1993 a Roma, Milano e Firenze. Nei mesi scorsi Graviano ha parlato a lungo con i pm anche del leader di Forza Italia. Lirio Abbate su L'Espresso il 27 ottobre 2021. Per riscontrare le affermazioni rese dal boss Giuseppe Graviano ai magistrati di Firenze, fatte nei mesi scorsi in tre lunghi interrogatori in carcere, vengono effettuate da stamani decine di perquisizioni fra la Sicilia e Roma. Si tratta di verificare una rete di soggetti, di cui ha parlato Graviano ai pm, che avrebbe favorito e coperto le azioni del boss di Brancaccio accusato delle stragi di Falcone e Borsellino, ma soprattutto delle bombe del 1993 a Roma, Milano e Firenze, di cui si sta occupando la procura antimafia del capoluogo toscano. Gli investigatori della Dia di Firenze stanno eseguendo i controlli su disposizione dei magistrati della direzione distrettuale antimafia di Firenze. I provvedimenti di perquisizione sono firmati dai procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco. I soggetti perquisiti sono stati indicati da Graviano come personaggi ai quali il boss ha fatto riferimento prima del suo arresto. Non ci sono, dunque, solo personaggi inseriti in Cosa nostra, ma anche alcuni che sarebbero sospettati di aver favorito la mafia e quindi, i boss stragisti di Brancaccio. In passato, come ha scritto L’Espresso, Giuseppe Graviano ha risposto alle domande dei pm di Firenze, ed ha parlato di Silvio Berlusconi. Un’inchiesta era stata aperta dopo queste affermazioni. L’indagine partiva dalle dichiarazioni fatte davanti ai giudici della corte d’Assise di Reggio Calabria dal boss Giuseppe Graviano, già condannato a diversi ergastoli per aver ordinato, tra gli altri, gli omicidi del beato Pino Puglisi, del piccolo Giuseppe Di Matteo, di altre vittime innocenti, donne e bambini, e le stragi di Firenze, Roma e Milano del 1993, quando decise che Cosa nostra doveva attaccare lo Stato. Il capomafia ha aggiunto che nel periodo in cui era latitante, avrebbe incontrato tre volte a Milano Silvio Berlusconi. E il boss ha sostenuto che l’ex Cavaliere, prima di iniziare la sua attività politica, gli avrebbe chiesto di essere aiutato in Sicilia. Secondo Graviano, però, molte delle attese che Cosa nostra aveva riposto in Berlusconi vennero meno: il “ribaltamento” del regime carcerario del 41bis non ci fu e neppure l’abolizione dell’ergastolo. «Per questo ho definito Berlusconi traditore», ha spiegato Graviano rispondendo alle domande del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, aggiungendo di essere stato latitante dal 1984 e che questa sua situazione non gli ha impedito di incontrare Berlusconi, «che sapeva della mia condizione». «Mio nonno», un facoltoso commerciante di frutta e verdura, ha detto Graviano «era in contatto con Berlusconi» e fu incaricato da Cosa nostra di agganciare l’ex presidente della Fininvest per investire somme di denaro al Nord. Missione riuscita, a detta del boss, sostenendo che «sono stati investiti nel settore immobiliare una cifra di circa venti miliardi di lire». Graviano dice che suo nonno è stato di fatto socio di Berlusconi: «I loro nomi apparivano solo su una scrittura privata che ha in mano mio cugino Salvo». La procura di Firenze che indaga su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri nell’ambito delle stragi del 1993, adesso scava pure sui patrimoni iniziali dell’ex Cavaliere e sul suo entourage politico. In passato sui soldi di provenienza della mafia avevano indagato anche i pm di Palermo nell’ambito del processo in cui Dell’Utri è stato condannato per concorso in associazione mafiosa. Le dichiarazioni dell’ergastolano sembrano più una minaccia all’ex premier, un modo per tentare di incassare soldi e libertà. A novembre dello scorso anno, sulla base di queste esternazioni, i procuratori di Firenze sono andati nel carcere di Terni e hanno interrogato Giuseppe Graviano, che ha accettato di incontrare i magistrati rispondendo pure alle loro domande, assistito dal suo difensore di fiducia. Un lungo interrogatorio che i pm toscani hanno secretato. I riscontri alle sue affermazioni sono già stati avviati. Dopo questo primo interrogatorio ne sono seguiti altri due in cui il boss ha reso un fiume di dichiarazioni. Nonostante le condanne all’ergastolo per delitti di mafia a cui Giuseppe Graviano e suo fratello Filippo sono stati definitivamente condannati, dalle loro mosse si intuisce che vogliono lasciare il carcere sfruttando tutti i mezzi possibili per tornare liberi. C’è il tentativo di smontare le accuse dei collaboratori di giustizia per poi chiedere di avviare una revisione dei processi e allo stesso tempo provare ad uscire dal circuito del 41bis, il carcere impermeabile, per transitare nel regime ordinario da cui è più facile ottenere la possibilità di essere scarcerati. Per questo motivo Giuseppe Graviano da diversi mesi ha coinvolto tutti i componenti della sua famiglia nel raccogliere dati e documenti e far scrivere un libro sulle sue vicende giudiziarie, raccontandole secondo la sua visione e il suo interesse, mettendo in discussione - secondo lui - le vecchie sentenze di condanna. Emerge il profilo di un uomo presuntuoso, ostinato ma anche di un abile oratore, attento osservatore e opportunista, un personaggio che vuole essere carismatico e al centro dell’attenzione, non a caso è un capo importante fra i corleonesi di Cosa nostra, con solidi agganci con il latitante Matteo Messina Denaro. Il fatto che abbia scelto di parlare in aula di Berlusconi è frutto di un calcolo che ha valutato con accortezza per lo sviluppo della sua strategia.

Stragi di mafia, ecco perché Berlusconi e Dell’Utri non potevano essere i mandanti. La procura di Firenze cerca conferme alle dichiarazioni di Giuseppe Graviano, preso in considerazione solo quando accusa il fondatore di Forza Italia. È la quarta inchiesta, altre tre non hanno portato a nulla. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 ottobre 2021. È di questi giorni la notizia sulle perquisizioni avvenute a Roma, Palermo e Rovigo per trovare riscontri alle dichiarazioni rilasciate dal boss Giuseppe Graviano su Silvio Berlusconi. Non se ne conosce il contenuto, perché secretate. Tali azioni riguardano l’inchiesta condotta dalla procura di Firenze che vedrebbe come mandanti delle stragi continentali del 1993, Berlusconi e l’ex senatore Marcello Dell’Utri. In realtà non è la prima inchiesta. Con questa, infatti, siamo al quarto tentativo. Nel ’98, la stessa procura fiorentina l’ha archiviata per mancanza di prove. Berlusconi e Dell’Utri venivano nominati “Autore uno” e “Autore due”. Dopo quattro anni è stata la volta della procura di Caltanissetta. A indagare i pm Luca Tescaroli e Nino Di Matteo. In quel caso gli indagati venivano chiamati “Alfa” e “Beta”, ma anche questa volta un nulla di fatto: archiviata. Finisce qui? No. Ci riprova la procura di Firenze, questa volta nel 2008. Ovviamente conclusa con un nulla di fatto. Arriviamo nel 2017, siamo nuovamente a Firenze e sarà sempre il pm Tescaroli a riaprila come conseguenza delle intercettazioni dei colloqui in carcere del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, effettuate nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia. Teorema giudiziario da poco smantellato dalla sentenza della Corte d’appello di Palermo. Siamo quindi al quarto tentativo di cercare elementi certi per portare a processo Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi mafiose del ‘93, che colpirono Firenze (in via dei Georgofili), Roma (chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro) e Milano (via Palestro). Per ora, almeno dalle dichiarazioni pubbliche di Graviano, l’unico indizio è che Berlusconi avrebbe ricevuto un investimento da parte di suo nonno, un benestante commerciante di frutta e verdura. Punto. Se dovessero ricevere riscontri, bisognerebbe anche capire quale sia il legame con le stragi. Non solo. Sarà difficile trovare anche un eventuale reato. Ad esempio non risulta che il nonno di Giuseppe Graviano fosse di Cosa nostra.

Nessuna riapertura di inchiesta sulle bombe e sul monopolio degli appalti di Riina

Sicuramente appare singolare che si vada a cercare un eventuale investimento, quando in quel periodo la mafia entrava in società con aziende decisamente più grandi e potenti di quelle che possedeva all’epoca Silvio Berlusconi. Aziende che poi saranno coinvolte anche nell’ambito di Tangentopoli, quindi finanziamenti ai partiti con soldi in odor di mafia. D’altronde, come ha dichiarato più volte l’ex pm Antonio Di Pietro, non si era riusciti a fare una indagine a 360 gradi, integrando “Mani pulite” con la vecchia, ma potente indagine cristallizzata nel dossier mafia-appalti voluta da Giovanni Falcone e seguita, informalmente visto che non aveva ancora ottenuto la delega, da Paolo Borsellino. Significativo il fatto che una delle bombe mafiose colpirono proprio Milano, dove all’epoca era operativo il pool di Mani pulite. Una vicenda, in realtà sondata dalla procura di Caltanissetta negli anni 2000, ma archiviata. L’unica che però non è stata più riaperta, a differenza di quella su Dell’Utri e Berlusconi. Eppure, durante questi anni, sono usciti diversi interessanti verbali, testimonianze. Ma nulla, a quanto pare completamente snobbati.

Giuseppe Graviano viene preso in considerazione solo se parla di Berlusconi

Ritorniamo a Berlusconi. Che Giuseppe Graviano voglia uscire dal 41 bis, è scontato. Basterebbe leggere le sue intercettazioni per comprendere la sua speranza di uscita da un inferno che purtroppo è il carcere duro. Forse ha capito che per avere una piccola, labile, possibilità di uscire, deve fare il nome di Berlusconi. Qualsiasi altra cosa dica, non viene creduto. Ad esempio, nel memoriale ha scritto che l’agenda rossa di Borsellino l’ha presa qualche magistrato. Ed ecco che viene subito bollato come depistaggio.

Ha anche scritto che la vicenda di Aiello, conosciuto come “faccia da mostro”, è una sciocchezza. Anche in questo caso, come ha recentemente detto il magistrato Roberto Scarpinato innanzi alla commissione antimafia siciliana, lui avrebbe scritto questo memoriale sotto dettatura dei servizi segreti. Non c’è scampo. Graviano viene preso in considerazione solamente se fa il nome che vogliono sentirsi dire. Ma è possibile che Dell’Utri e Berlusconi abbiano ordinato a Cosa nostra di compiere le stragi? Pensare che i boss corleonesi prendessero ordini da persone completamente estranee, vuol dire che Falcone non ci ha capito nulla di mafia. Ovviamente, non può essere. Parliamo di un giudice che aveva una mente talmente geniale, che lo stesso Riina l’ha annichilito per farlo soprattutto smettere di pensare. Per capire che si tratta di un’ipotesi che rasenta il fallimento logico, basterebbe attenersi ai fatti. Nel biennio delle stragi del ’92 e ’93, ancora non era nata Forza Italia. Berlusconi non poteva, come ha detto anche Riina nelle intercettazioni, essere avvicinato visto che non aveva nessun potere politico. “Era solo una palazzinaro!”, ha detto Riina in 41bis. L’unico contatto era il pagamento del cosiddetto “pizzo”. Lo stesso Riina parla della minaccia di attentati alla ex Standa e i ripetitori in Sicilia.

Ecco perché Berlusconi e Dell’Utri non potevano dare ordini alla mafia

Non solo. Durante il processo Borsellino Ter, sia Giovanni Brusca che Angelo Siino, Tullio Cannella e Malavagna hanno parlato di un consistente sostegno di voti fornito da Cosa nostra al partito di Forza Italia creato da Berlusconi in occasione delle elezioni politiche del 1994. Sostegno offerto nella prospettiva di ottenere consistenti modifiche anche legislative nel senso auspicato dall’organizzazione mafiosa (cosa mai realizzata, tra l’altro), ma nessuno di loro ha fatto riferimento a contatti tra quell’organizzazione e Berlusconi già nel 1992 nell’ambito della ricerca di nuovi referenti politici e tanto meno, quindi, ha accennato auna loro trattativa.

Anzi, le dichiarazioni rese dai predetti pentiti e soprattutto da Brusca, Siino e Cannella sono state assai puntuali nel far riferimento al tentativo di Cosa nostra nel corso del 1993 di promuovere la nascita in Sicilia di un movimento politico indipendentista, una sorta di Lega del Sud, che si affiancasse a quella del Nord nel richiedere la creazione di una federazione di Stati che sostituissero quello unitario. Solo agli inizi del 1994, invece, tale progetto sarebbe stato accantonato per sostenere la nuova formazione politica promossa da Berlusconi. Ma sappiamo pure come è andata. La stessa Forza Italia si è poi separata dalla coalizione con la Lega Nord, da quel movimento, cioè, il cui collante – stando alle emergenze sulle leghe meridionali – avrebbe dovuto essere proprio il collegamento con Cosa nostra. Sappiamo che il governo presieduto da Berlusconi, cadrà dopo pochi mesi. Il fallimento logico del teorema che vede Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi è evidente. Sarebbe interessante, invece, che ci sia una indagine unitaria tra le procure competenti sulle stragi, prendendo in esame l’ipotesi che dietro le stragi del 1992- 93 ci sarebbe stata la volontà di Cosa nostra di impedire una inchiesta coordinata tra le procure siciliane, lombarde e toscane (ricordiamo le indagini di Augusto Lama sulle cave di Massa Carrara, poi inviate per competenza a Palermo e archiviate nel 92) sul monopolio degli appalti. Di fatto, non c’è mai stato un coordinamento come avrebbe voluto Falcone. Lui stesso, in un convegno lo aveva detto chiaro e tondo. La reazione dei fratelli mafiosi Buscemi fu: «Questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare». Dopodiché, arrivarono le bombe.

Luigi Mascheroni per ilgiornale.it il 28 ottobre 2021. Ricordo, anni fa, durante un Salone del libro di Torino, una divertentissima serata, era una festa Einaudi, sul terrazzo di casa Franco – Ernesto Franco, direttore editoriale della Einaudi. Erano gli anni in cui la guerra ideologica tra berlusconismo e antiberlusconismo era al suo culmine, gli anni del conflitto di interesse da una parte e dall’altra dei Saloni del libro che, a scorrere l’elenco degli ospiti d’onore, erano qualcosa di molto simile a un congresso ombra del Pd. Comunque. L’aspetto divertente della serata, che scorreva via fra un finger food (“Ottimi questi bocconcini di Fassona!”) e un calice di rosso (“Ummmmmh… Questo Barolo Monfortino mi sembra un po’ freddo”), era ascoltare le ironie dell’intero parterre di invitati sul Presidente (all’epoca) del Consiglio Silvio Berlusconi, “impresentabile” e “vergognoso”, con cui nessuno di loro voleva avere a che fare (“Persona imbarazzante…”), ma del quale stavano spiluccando il luculento catering, pagato dalla casa madre: Mondadori. La stragrande maggioranza di loro era autore del gruppo della famiglia Berlusconi, ma – si sa – “Einaudi è un’altra cosa…”. Certo, è sempre “un’altra cosa”. Il “problema è un altro” e “la questione è più complessa”. La questione, più che complessa, è curiosa. E si ripete da quando Silvio Berlusconi, patron di Mondadori-Einaudi (e oggi anche di Rizzoli) entrò in politica, e continua ancora oggi, quasi vent’anni dopo… E anche le domande restano le stesse.

La prima: come è possibile che, a parte qualche direttore del “Giornale” e pochissime altre grandi firme, per uno scrittore o un professore o un giornalista “di area” sia praticamente impossibile entrare in Mondadori, mentre l’ultimo scappato di casa che pascola nell’area della Sinistra trova subito un contratto a Segrate (o in Mediaset, che è lo stesso)?

La seconda: ma quante acrobazie retoriche devono compiere tutti gli avversari barra nemici di Berlusconi che pubblicano per Mondadori e Einaudi, e ora Rizzoli, per giustificare la propria scelta? Sul tema negli anni si è scritto tanto, ed esiste bibliografia enorme. Keyword: “Ipocrisia”. 

Oggi la polemica, sempre tenuta viva a destra e sempre sminuita a sinistra, torna di moda. I grillini doc sono infastiditi, o fanno finta di niente, ma intanto il loro leader e ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, si è accodato a quanti pur combattendo in tutto e per tutto Berlusconi poi bussano alla porta del suo gruppo editoriale: il suo primo libro, “Un amore chiamato politica”, esce per Piemme. Che fa appunto parte della galassia editoriale del Presidente. La domanda è sempre quella: con tutte le case editrici che ci sono, proprio una di Berlusconi? Ma perché? Da un lato lo criticano ma poi, quando sono a caccia di un editore, non disdegnano di farci business. E l’uomo politico pessimo diventa improvvisamente un imprenditore eccellente. Dipende tutto dai punti di vista. E quello economico - si sa - riserva spesso prospettive inedite…A parte pochissime eccezioni (Corrado Stajano che passò subito a Garzanti, Michele Serra che se ne andò a Feltrinelli dimostrando che un’alternativa c’è sempre, Vito Mancuso che a un certo punto pose un problema etico, tardivamente Roberto Saviano… ma andiamo a memoria: dimentichiamo di certo qualcuno), tutti i migliori antiberlusconiani hanno sempre continuato a scrivere, pubblicare e guadagnare senza vergogna con Berlusconi (“No, semmai sono io che faccio guadagnare lui con i miei libri”, come capisce chiunque, non è una risposta, ma solo una divertente boutade).

Dalla “A” di Corrado Augias (18 libri dal 1996 al 2020 pubblicati con Mondadori o Einaudi) alla “Z” di Gustavo Zagrebelsky (12 saggi dal 1996 a oggi usciti da Einaudi), l’alfabeto dei berlusconiani-a-intermittenza è completo, passando anche per la “T” di Marco Travaglio: da pochi mesi ha pubblicato una sua biografia “per immagini” di Indro Montanelli per Rizzoli, cioè Berlusconi (“Sì, ma i perché i diritti di Montanelli sono di Rizzoli!”. “Può darsi, ma i soldi che prendi sono di Berlusconi”).

E per il resto, non manca nessuno. C’è il fondatore del quotidiano “La Repubblica”, Eugenio Scalfari, arcinemico del Cavaliere, con il quale però ha pubblicato nei prestigiosi “Meridiani” Mondadori. Segrate val bene un’abiura. Ai tempi del primo governo guidato dai Cinquestelle, del resto, dichiarò di preferire Berlusconi a Di Maio.

E poi Concita De Gregorio, la quale ha pubblicato molto con Einaudi, anche il suo ultimo “Il tempo di guerra”. Lo storico della letteratura Alberto Asor Rosa: per Einaudi ha scritto decine di saggi e con Mondadori ci ha fatto pure lui un “Meridiano”.

Paolo Cognetti, il bestsellerista che ha pubblicato “Le otte montagne” con Einaudi ma che in un incontro pubblico sul palco disse di aver deciso di abbandonare Milano per rifugiarsi sui monti perché oppresso dal “berlusconismo” che si respirava in città. 

O Nicola Lagioia, autore d’oro Einaudi e antiberlusconiano di ferro il quale – non a caso - l’anno prossimo prenderà il posto di Ernesto Franco come direttore editoriale della Einaudi: offrirà anche lui ricchi buffet pagati da Berlusconi ai suoi amici Raimo, Lipperini&Co.?

E ancora: come dimenticare Federico Rampini, Nadia Fusini, Piergiorgio Odifreddi, Michela Marzano, Adriano Prosperi… e nomi ancora più radicali come Erri De Luca (simpatico, disse: io non me ne vado, semmai è lui che deve buttarmi fuori…), Francesco Guccini e perfino Massimo D’Alema, tutti – chi più chi meno, chi prima chi dopo - autori “al soldo” di Segrate… 

Almeno Mauro Corona, di fronte alla irrisolta contraddizione di voltare la faccia al Berlusconi politico ma salutare sussiegosi il Berlusconi editore, una volta confessò: “Come scrittore ho il cuore a sinistra e il portafoglio a destra: devo pur mangiare”. Appunto.

Quei veleni sulla lotta politica da “Mani pulite” alla “trattativa”. La verità è che una trentina d’anni fa gli scribi giudiziari della storia - intesi come certi inquirenti e i cronisti, commentatori, analisti che ne raccoglievano e amplificavano iniziative, convinzioni e umori- si passarono le consegne fra Milano e Palermo per deformare la conclusione della cosiddetta prima Repubblica e l’incubazione della seconda. Francesco Damato su Il Dubbio il 26 settembre 2021. Diciamoci la verità, tutta la verità, a commento della sentenza d’appello di Palermo che ha declassato a un fatto che “non costituisce reato” la presunta trattativa fra lo Stato e la mafia. Della quale l’intera vicenda giudiziaria ha preso addirittura il nome più generalmente usato sui giornali e nelle stesse aule dei tribunali. Sono stati perciò assolti gli ufficiali dei Carabinieri accusati di averla condotta, e nuovamente condannati i mafiosi che dall’altra parte non avrebbero compiuto ma solo cercato di attentare con violenze e minacce al funzionamento di un corpo politico o amministrativo o giudiziario dello Stato, come dice l’articolo 338 del codice penale cavalcato dall’accusa. Diciamocela, questa verità, senza fare sconti a nessuno: né ai magistrati inquirenti, né a quelli giudicanti di primo grado, sconfessati appunto in appello, né ai giornalisti. O, se preferite, a noi giornalisti, fra i quali ve ne sono alcuni oggi quasi soddisfatti anch’essi del nuovo verdetto, ma sino a qualche tempo fa partecipi – spero in buona fede- di una colossale opera di mistificazione della storia e di avvelenamento della lotta politica. La verità è che una trentina d’anni fa gli scribi giudiziari della storia – intesi come certi inquirenti e i cronisti, commentatori, analisti che ne raccoglievano e amplificavano iniziative, convinzioni e umori- si passarono le consegne fra Milano e Palermo per deformare la conclusione della cosiddetta prima Repubblica e l’incubazione della seconda. Che, secondo costoro, non stava avvenendo nel 1993 col passaggio referendario e legislativo dal sistema elettorale proporzionale a quello prevalentemente maggioritario, che prese il nome latinizzato dell’attuale capo dello Stato, cioè Mattarellum, ma con le stragi mafiose e col tentativo “spregiudicato e disperato”, ancora ieri lamentato su Repubblica da Carlo Bonini, di prevenirle, limitarne i danni e addirittura strumentalizzarle con la infausta “trattativa”. Alla quale molti tolsero via via anche le virgolette originariamente usate per cautela. A Milano, senza offesa per protagonisti, attori e comparse di “Mani pulite”, i cui superstiti peraltro hanno finito o stanno finendo la loro carriera scambiandosi querele o minacciandosele, la cosiddetta prima Repubblica fu travolta da una decapitazione selettiva dei partiti, e relative correnti, che da anni, e sotto gli occhi di tutti, si finanziavano irregolarmente, diciamo pure illegalmente. Né potevano fare diversamente per la scelta ipocrita da tutti compiuta di destinare alle forze politiche un finanziamento pubblico insufficiente a coprire davvero le loro spese, che pure erano evidenti con le sedi di cui disponevano, il personale, le manifestazioni, i giornali, e magari anche l’arricchimento personale di alcuni che raccoglievano illegalmente – ripeto fondi per la loro parte politica e ne trattenevano per sé un po’, o un bel po’, secondo i casi. Tutto divenne o fu scambiato per corruzione, in buona e cattiva, anzi cattivissima fede. Già minato dalla caduta del muro di Berlino, nel 1989, e dalla dissoluzione fortunatamente senza sangue del comunismo, si era spontaneamente esaurito il sistema bipolare italiano derivato per decenni dalla presenza del partito comunista più forte dell’Occidente e dall’azione di contrasto degli avversari, salvo tregue come quella della cosiddetta solidarietà nazionale nel 1976. L’unico a capirlo e a dirlo più o meno chiaramente in pubblico fu l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga auspicando, pur con picconate verbali, un’evoluzione ordinaria e ordinata degli equilibri politici. Gli altri preferirono ricorrere all’ascia giudiziaria, liquidando come ladri quelli che resistevano al governo o, sul versante opposto, continuando a scambiare per comunisti quelli che di fatto non lo erano più per chiusura, diciamo così, della ditta. A Palermo, anziché saltare in groppa alla lotta alla corruzione, vera o presunta che fosse, si saltò in groppa alla lotta alla mafia, anche lì vera o presunta che fosse, per abbattere vecchi equilibri e crearne di nuovi. E poiché la mafia, quella vera, proprio in quel periodo aveva deciso di ricorrere agli attentati sanguinosi per spezzare l’assedio che magistrati di valore come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano pazientemente tessuto, contrastati spesso dai loro stessi colleghi per basse ragioni di carriera, anche le stragi furono strumentalizzate più per lotte politiche che per altro. E così fu possibile che, o per liberarsi più rapidamente dei vecchi equilibri o per scongiurarne di nuovi, Giulio Andreotti divenne il capomafia, più o meno, da abbattere e Silvio Berlusconi l’erede da soffocare in culla presentandolo come il nuovo referente della criminalità organizzata, disposto ad assecondarla direttamente o attraverso i suoi amici, a cominciare da Marcello Dell’Utri, peraltro siciliano doc, per consolidare il potere appena conquistato con la sorprendente vittoria elettorale del 1994. O addirittura per conseguire quella vittoria. È potuto così accadere che un’operazione “spregiudicata e disperata”, come – ripeto- la definisce ancora Carlo Bonini su Repubblica, anche dopo l’assoluzione in appello degli alti ufficiali che la condussero, pur avendo portato alla cattura di boss mafiosi come Totò Riina e Bernardo Provenzano, morti entrambi in carcere, fosse scambiata per una torbida congiura, o qualcosa del genere. E ciò anche a costo di trascinare ad un certo punto nelle polemiche, e nella stessa vicenda giudiziaria, un onestissimo presidente della Repubblica come Giorgio Napolitano, e altrettanto onesti collaboratori come il compianto consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, morto di crepacuore. Vergognatevi, scribi della malora.

Finisce l'era dell'odio. E Berlusconi diventa l'antidoto ai populismi nati dal giustizialismo. Paolo Guzzanti il 29 Settembre 2021 su Il Giornale. Il miglior regalo di compleanno di Silvio Berlusconi, al quale auguriamo molti anni di felice vita, è quello di vedersi riconoscere giorno dopo giorno, evento dopo evento, di aver avuto ragione. Il miglior regalo di compleanno di Silvio Berlusconi, al quale auguriamo molti anni di felice vita, è quello di vedersi riconoscere giorno dopo giorno, evento dopo evento, di aver avuto ragione e per di più una ragione democratica, calma, costruttiva e mai gravata da pesantezze ideologiche. I fatti sono sotto i nostri occhi ormai da mesi: i giudici che confessano di sapere come fossero stati confezionati i processi per distruggerlo, il presidente Prodi che lealmente riconosce di essersi sbagliato quando disapprovava il cancelliere tedesco Kohl che voleva Forza Italia fra i popolari europei, la sentenza sull'inesistente trattativa Stato-mafia che ha assolto Marcello dell'Utri il quale costituiva un bersaglio proprio perché era un uomo vicino a lui ed è evidente che ne Paese anche dal punto di vista mediatico si sono spente le torce, specialmente quelle del dileggio e della demonizzazione. Uno dei comici che all'epoca fecero più furore usando come combustibile l'antiberlusconismo, Paolo Rossi, ha detto di non conservare un buon ricordo di quella stagione satirica di palate di fango. Trent'anni. È stata la Guerra dei trent'anni che ha devastato l'Italia come una guerra civile mentale, come una guerra psichiatrica, come un bipolarismo maniaco-depressivo che ha travolto le intelligenze e calpestato le norme più elementari del rispetto umano e non parliamo di quello politico. Eppure, quest'uomo che oggi compie gli anni ritirato nella sua bella casa da cui manda articoli, dichiarazioni e commenti, non è mai stato un estremista, ma semmai l'oppositore di ogni estremismo. È stato, si può e si deve dire, il campione della borghesia italiana e al tempo stesso un progressista che gli ex comunisti di oggi se lo sognano. Due fatti, giusto per ricordare a chi non c'era o era troppo giovane: hanno cercato con le unghie e coi denti, quando produceva la sua televisione, di diffondere il segnale sul territorio nazionale. Era una questione religiosa o ideologica urlata da una sinistra rabbiosa e irriconoscibile, non certo la sinistra delle riforme ma quella del rancore. Berlusconi superò l'ostacolo spedendo videocassette con le metà di un programma o di un film, così come realizzò un'opera d'arte politica acrobatica che ha modificato la storia d'Italia che in troppi avevano già scritto. Lo fece realizzando un'alleanza apparentemente impossibile fra Lega Nord di Umberto Bossi e i missini di Gianfranco Fini facendo saltare il piano consistente nel portare finalmente al governo il partito comunista. Era stato lui a raccogliere dalla polvere le bandiere dei partiti liberali che avevano governato l'Italia portandola dalla catastrofe al benessere e insieme a quelle bandiere aveva mantenuto alti anche i valori fondamentali della politica democratica del mondo occidentale. Quella del liberalismo delle imprese che generano ricchezza e insieme - il primato della libertà come valore civile, seguita dall'identità cristiana di un continente che ha prodotto i principi morali universali riconosciuti nella dichiarazione dei diritti dell'uomo, della donna e del bambino. Oggi siamo davanti a una «Grande bonaccia delle Antille» di un ripensamento globale: Berlusconi non solo non è più il diavolo, ma è gli viene riconosciuto il merito di essere sempre stato l'uomo della ragionevolezza, del compromesso alto. La grande bonaccia a nostro parere è stata annunciata da un messaggio della Corte di Strasburgo cui Berlusconi si è rivolto per chiedere giustizia. La corte a quell'appello ha risposto a sua volta con una domanda, rivolta al nostro governo: «È possibile che al cittadino Berlusconi non sia stata garantita una difesa adeguata?». Quanto avranno pesato i processi a Berlusconi nella decisione europea il non concedere un solo euro all'Italia se per prima cosa il nostro Paese non riforma radicalmente il suo sistema giudiziario? Quasi di colpo, tutti i persecutori riconoscono un po' distrattamente di aver avuto torto e che quell'uomo per anni descritto come il male assoluto è invece ma guarda un po' una delle risorse dell'Europa. Ad esempio, è il miglior antidoto contro i populismi maturati dall'infezione giustizialista. E che la sua natura politica è semplicemente quella europea e normale dei liberali e dei conservatori che forniscono alla democrazia uno dei due piedi con cui camminare. La tempesta perfetta si è fermata. Non senti più un alito d'odio. Gli ex nemici ammettono che la guerra è finita. L'intero Paese sarà sollevato vedendo terminare una guerra di odio unilaterale, mentre si riconosce il merito di un vero campione della democrazia parlamentare. E dunque, che cosa aspettano queste forze e questi leader a passare dalle parole ai fatti? L'uomo che oggi compie 85 anni è quello che di più ogni altro ha i titoli per garantire una Costituzione più volte spiegazzata nei suoi principi fondamentali. Paolo Guzzanti

Il mea culpa generalizzato non basta. Berlusconi va risarcito: dopo 20 anni di insulti e gogna merita il Quirinale. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 24 Settembre 2021. Un momento, fermi tutti, cazzo compagni, parliamone! A me sembra, dico forse, che ci stia passando fra le gambe una sfera ma che neanche la vediamo. Perplessità in sala: di che sfera parla, quello lì? Ma sì, dài, la sfera di Flatlandia dell’abate Abbot, quando nel mondo piatto dei poligoni uno scapigliato rettangolo notò un punto che si allargò in un cerchio sempre più grande che raggiunse il diametro massimo e poi cominciò a rimpicciolirsi finché sparì. Il poligono capì che era passata una sfera e che dunque esisteva una terza dimensione. Che c’entra? Be’, è un metodo di principio. I grandi eventi capitano sotto gli occhi, tutti li vedono ma non ne capiscono il significato. Se qualcuno vuole per forza dirlo a tutti – “guardate: è una sfera” – lo appendono per i pollici e lo fanno ritrattare, come fecero a Galileo. Oggi siamo forse in presenza di una sfera? Così sembra e se l’impressione è giusta, la sfera è geniale. A quali fenomeni stiamo assistendo da qualche tempo, tutti diversi e occasionali, ma tutti coincidenti come dieci bombe nella stessa buca. Obiettivo: svelare, con levità e un certo tono casuale, la verità di come NON andarono le cose per cui il cittadino italiano Berlusconi Silvio, appena sceso in politica per mandare all’aria il piano tanto ben preparato, fu per prima cosa appeso per i pollici da un avviso di garanzia recapitato a mezzo stampa e lì lo hanno tenuto per oltre trent’anni. Non aveva mai avuto un processo prima, ma lo lapidarono con cinquanta processi subito dopo. Fu allestita la più bella e compatta campagna mediatica dove ci potevi mettere dentro tutto, mafia, le malefemmine, lusso e lussuria, idolatria, tasse inevase, mancava solo l’omicidio. Ma già lo avevano messo al forno dei fatti di Capaci e via D’Amelio. Una strage non si scopre, in Italia: si assegna. Bologna? Ha da essere fascista, e sennò a chi la diamo? Ai palestinesi? Ma che stiamo pazziando? E sennò a che serve l’equilibrio politico nella Magistratura correntizia e delle logge Ungheria? Mica stiamo a pettinare le bambole o asciugare gli scogli col phon, qui la storia siamo noi e guai a chi racconta quella vera. Bref: come scriveva Giuseppe Gioachino Belli sui chierici di piazza di Spagna a proposito della concordia sul magnare equivocando sulla parola latina “magna” che sta per “grande”, «Er magna è una parola che innamora: e oggi prima l’ha detta un musico, poi dua e poi, tutto er coro giù: misericordiam tuam». Qualcosa di simile è accaduto da quando in Europa hanno deciso che per l’Italia bisognava sbrigarsi a dare una raddrizzata rimandando a casa l’avvocato ignoto Conte e tutta la sua baracca. La LePen in Francia non ha chance. Dunque, Salvini non è un pericolo se sta al passo, ma se deraglia, va fuori con la Meloni. Il tribunale di Strasburgo, esaminato il caso Berlusconi non emise una sentenza ma una domanda spedita per posta al governo italiano, cioè a Draghi che si riassume così: “Ma davvero il cittadino Berlusconi Silvio è stato condannato? Pregasi informare con dettagliata risposta”. Non sappiamo se lo ha fatto. Ma ecco che il Csm e la magistratura tutta cominciano a dar segni di decomposizione, urla e grida escono dal palazzo decorato con tante piccole teste di Mussolini con l’elmetto. E poi in Parlamento e nei suoi dintorni si comincia a dire sussurrando quel che mercoledì ha detto Matteo Renzi urlando: il re è nudo, che fa sempre effetto, nel senso che i giochi sono ormai tutti scoperti. E lì la spiegazione tecnica: le cattive correnti cui i poveri magistrati devono iscriversi se vogliono fare carriera sono loro il vero cancro perché dominano il Parlamento e si beffano delle sue leggi e tutti ricordiamo il golpettino davanti ai microfoni, ai tempi non troppo remoti di Mani pulite, e che scoprirono le armi di una insurrezione popolare inesistente ma che sarebbe diventata il grillismo. Atteggiamenti ai limiti dell’insurrezione contro il Parlamento, del resto identificato come scatola di tonno, altro che il Sei gennaio a Capitol Hill. E oggi, gli ultimi due invecchiati rampolli ancora attivi del vecchio Pool – Greco e Davigo – si prendono a legnate come il diavolo e Pulcinella nei teatrini dei giardinetti. E poi abbiamo letto e sentito Luciano Violante riconoscere quel che va riconosciuto, e Romano Prodi dichiarare in televisione che quelli (i magistrati) sono pazzi a trattare così Berlusconi, e meno male che Helmut Kohl aveva visto lungo accogliendo Berlusconi fra i popolari. E insomma, non passa ormai giorno senza che qualcuno del vecchio sistema che saldava politica e magistratura e giornalisti portavoce, non porti nuova materia alla sfera di cui dicevamo all’inizio e che completa, vibra la sua musica con parole sussurrate ma intellegibili che dicono più o meno così: abbiamo fatto da trent’anni una gran maialata, abbiamo dato in pasto un cittadino che ci dava fastidio alle corti di giustizia facendogli sputare sangue, abbiamo aizzato o alimentato e premiato con carriere sfolgoranti giornalisti giudiziari e ogni sorta di satiri artisti che si sono nutriti del nostro prodotto popolare che è Berlusconi, ma alla fine che cosa è rimasto? Guardatevi intorno: un Berlusconi ancora ben in piedi anche se un po’ acciaccato dal cuore, dal Covid, dal cancro e perfino da una statuetta di ferro che gli spaccò naso e fronte, ma che non ha mai mollato e ormai tutta l’Europa guarda con occhio diverso. Perché? Sono forse diventati buoni? No, non sono diventati buoni ma hanno solo scoperto che il vero cancro era il populismo corrosivo e velenoso e che era necessaria una operazione di restauro global. Una che consentisse il passaggio dalla Guerra dei Trent’anni contro l’Uomo Nero di Arcore alla nuova era del futuro in cui il mondo è altrove: via della Seta cinese perché si è di fatto in guerra (commerciale) con la Cina e Berlusconi giorno dopo giorno è andato confermandosi un gigante. È rimasto fermo sulle sue posizioni liberali, ha capito per primo che l’uscita degli Stati Uniti dal teatro europeo era cosa fatta anche senza Trump e ha gridato a gran voce che l’Europa deve darsi una politica estera con una forza armata competitiva: si vis pacem para bellum. O almeno fai finta. Tutto il mondo sta cambiando drammaticamente e da noi l’“erre-enne-a messaggero” è Matteo Renzi: l’uomo che in percentuale vale quanto le tracce di albumina nell’esame delle urine, ma che di fatto si è guadagnato i galloni di Grand Commis e Agent Sécret dell’Europa dei nuovi Taillerand. E infatti, ricordate: arriva Renzi e licenzia Conte. Arriva Renzi e licenzia la magistratura. Arriva Renzi e si fa quel che l’Europa che conta ha detto. Questo significa un sacco di cose quanto a spessore e importanza dell’Italia in Europa e nel mondo, ma sta di fatto che persino Draghi se l’è inventato Berlusconi quando lo candidò alla Banca centrale europea contro il parere di Cossiga. E allora la sfera comincia ad apparire nella sua lucente semplicità. Ci si accorda su un vasto quasi indolore ma ben visibile mea culpa, si ammette che il cittadino Berlusconi Silvio aveva ragione, che Kohl aveva ragione quando lo volle contro il parere di Prodi (che lo riconosce sportivamente) e che dunque che male c’è? Berlusconi è vivo e lotta con noi e noi gli diamo questo riconoscimento mandandolo al Quirinale. Ci starà quanto la sua salute gli permetterà ma difficilmente per sette anni, mentre là sotto, al nuovo Matignon o Palazzo Chigi, Draghi si sbriga a fare tutto il fattibile, prima di passare all’up-grade di sé stesso. Forse non c’è nulla di vero, ma difficilmente le cose succedono per caso e del resto se ne parla. Si sta ammorbidendo il pubblico italiano che è stato intossicato dall’antiberlusconismo, persino il comico Paolo Rossi ha recitato un onesto mea culpa, e dunque i giochi stanno prendendo una precisa direzione. E tutti notano quel cerchietto che è apparso fra Montecitorio e Palazzo Madama, c’è chi dice un cerchio e chi un effetto ottico ma cresce e cresce mentre Berlusconi si fa saggista e riprogetta il mondo liberale. Ben giocato, chiunque sia l’autore, secondo noi viene dal Pci perché queste idee sopraffine possono essere elaborate soltanto da chi ha studiato in maniera spregiudicata e da chi è pronto senza problemi a rimangiarsi tutto gridando nel megafono dello strillone: “Compagni, è cambiata la linea: la frase che avete letto sull’Unità conteneva un errore: dove c’era scritto “Berlusconi non è il male della Terra, va letto il sale della Terra. E pedalare di conseguenza, che manca poco. Ah, dimenticavo: l’Europa ce lo chiede”.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Crollano anche le accuse su Ruby: il Cav assolto al tribunale di Siena. Luca Fazzo il 22 Ottobre 2021 su Il Giornale. "Il fatto non sussiste". L'ultima crociata della Procura di Milano: portarlo in aula. Dovevano essere i processi della riscossa, quelli che inchiodavano Silvio Berlusconi - uscito assolto dal «caso Ruby» - alla nuova colpa contestata dalla Procura di Milano: quella di essersela cavata solo grazie alla corruzione dei testimoni venuti in aula a raccontare che alle sue feste nella villa di Arcore non si faceva niente di male. Ma la riscossa parte male. Ieri arriva a sentenza il primo dei processi scaturiti dal nuovo filone, quello - celebrato davanti al tribunale di Siena - che vedeva il Cavaliere accusato di corruzione giudiziaria per avere comprato le bugie di Danilo Mariani, il pianista che allietava le serate di Villa San Martino. Ed ecco la sentenza: «il fatto non sussiste». Vengono assolti sia Berlusconi che Mariani: per l'ex premier la Procura aveva chiesto quattro anni e due mesi di carcere, per il pianista quattro e mezzo. Sconfessione piena, dunque, che arriva a conclusione di un processo non facile, segnato dai rinvii per motivi di salute chiesti dal Cav, e da una certa insofferenza del tribunale. Al punto che ieri, quando il giudice Simone Spina rifiuta di ascoltare nuovi testi invocati da Federico Cecconi, legale di Berlusconi, alcuni esponenti del centrodestra mostrano preoccupazione. Anche perché il giudice Spina è un noto esponente di Magistratura democratica. E soprattutto perché l'accelerazione fa temere che l'obiettivo sia colpire Berlusconi con una condanna proprio mentre entra nella fase calda la corsa al Quirinale, e nel centrodestra (ma non solo) la candidatura del leader di Forza Italia viene considerata naturale. Farne un pregiudicato vorrebbe dire tagliarlo fuori dai giochi. I timori svaniscono alle 17, quando Spina esce dalla camera di consiglio e assolve tutti con formula piena. Il sollievo nello staff difensivo è palpabile, e su Berlusconi fioccano le chiamate e i complimenti: gli telefonano gli alleati Giorgia Meloni e Matteo Salvini, mentre lo stato maggiore forzista (tra gli altri Mara Carfagna, Annamaria Bernini, Licia Ronzulli) plaude a una sentenza che «libera Berlusconi da accuse ignominiose». Ma è chiaro che la partita è appena gli inizi. Perché il processo senese è solo il primo ad arrivare a sentenza, ed oggettivamente quello dove la posizione di Berlusconi era più solida: perché i pagamenti a Mariani avvenivano ben da prima del caso Ruby, trattandosi del pianista di fiducia del Cavaliere, retribuito regolarmente in chiaro. E il tribunale ha ritenuto che non ci fosse alcuna prova che gli ultimi versamenti avessero motivazioni diverse, collegate alla testimonianza di Mariani nell'aula del processo principale. Mariani per i giudici ha mentito, e infatti è già stato condannato per falsa testimonianza. Ma non lo ha fatto perché indotto o pagato. A Milano, dove le udienze del caso Ruby ter si trascinano da anni, la situazione è più complessa: l'ex premier è sotto accusa per i versamenti a favore delle cosiddette «Olgettine», iniziati solo dopo che le ragazze erano state interrogate sull'andamento delle feste. Anche qui la difesa è convinta di dimostrare che si trattava solo di aiuti umanitari a giovani finite nel tritacarne mediatico, ma lo scontro è aperto. La possibilità che una sentenza faccia irruzione nelle trattative per la presidenza della Repubblica è remota, perché i testimoni d'accusa sono quasi finiti, ma le difese devono ancora cominciare. Ma a macchiare la candidatura del Cavaliere potrebbero essere gli interrogatori in aula di alcune delle imputate, che a margine delle udienze hanno già annunciato di essere pronte ad accusare Berlusconi. La difesa del leader azzurro ha chiesto al tribunale di spostare tutti gli interrogatori degli imputati alla fine del processo, dopo che avranno parlato i testi della difesa. Ma la Procura si è opposta. E dal prossimo mese la sfilata di fanciulle che accusano «Papi» di averle corrotte è pronta a irrompere nei telegiornali.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Addio alle testimonianze rese negli altri due processi. Ruby ter, mazzata per la procura di Milano: verbali delle ex Olgettine inutilizzabili, crolla caposaldo dell’accusa. Fabio Calcagni su Il Riformista il 3 Novembre 2021. Uno dei capisaldi dell’accusa nei confronti di Silvio Berlusconi nell’ambito del processo Ruby ter non potrà essere utilizzata dai magistrati che accusano il leader di Forza Italia per le ‘cene eleganti’ nella villa di Arcore. I giudici della settima sezione penale di Milano (Tremolada-Gallina-Pucci) hanno infatti dichiarato oggi, accogliendo così un’istanza della difesa di Berlusconi, la “inutilizzabilità” delle dichiarazioni testimoniali rese nei procedimenti penali Ruby 1 e Ruby 2 da parte delle cosiddette “ex Olgettine” imputate nel Ruby Ter. Secondo i giudici infatti la Procura di Milano almeno “dalla primavera del 2012” aveva “elementi indizianti le elargizioni di Berlusconi in favore delle ragazze” poi indicate come testimoni nei primi due processi: quindi erano di fatto già sottoposte ad indagini e per questo andavano sentite come “persone sostanzialmente ‘indagate'”, ossia come testi assistite da un legale. Per questo, secondo i giudici, le testimonianze rese dalle “ex Olgettine” sono da considerare inutilizzabili per violazione delle garanzie di legge poste “a presidio del divieto di autoincriminazione”. Una decisione, quella presente nell’ordinanze letta oggi dal del Tribunale Marco Tremolada nell’aula bunker di San Vittore, che rischia di avere ripercussioni importanti per l’ex presidente del Consiglio: senza le loro dichiarazioni viene meno l’oggetto della presunta corruzione che sarebbe stata messa in atto da Berlusconi. Insomma, aver sentito le partecipanti alle ‘cene eleganti’ di Arcore come testimoni e non come indagate di fatto ‘elimina’ le loro deposizioni dal processo, che a questo punto vede uno dei capi di imputazione sostenuto dall’accusa fortemente depotenziato. Quanto a Berlusconi, l’ex premier non si sottoporrà all’esame dell’Aula, come riferito anche dai suoi legali, ma il numero uno di Forza Italia potrebbe fare dichiarazioni spontanee nelle prossime udienze. Dibattimento che il 17 novembre prossimo vedrà sul banco degli imputati per dichiarazioni spontanee Marysthell Polanco, altra partecipante alle serate di Arcore, mentre in quella del 24 novembre sarà il turno di Barbara Guerra e Alessandra Sorcinelli: le tre ragazze in più occasioni avevano fatto intendere di voler attaccare in aula Berlusconi.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Ma molte testimoni non si rassegnano...Altro colpo al processo Ruby, il castello delle accuse contro Berlusconi si sta sbriciolando. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 4 Novembre 2021. Altro bel colpo per la difesa di Silvio Berlusconi nel processone eterno chiamato “Ruby” (Uno Due e Tre), che si sta sgretolando pezzo a pezzo. Tutte le deposizioni dei processi Uno e Due non sono ammissibili al Tre. Lo ha deciso il tribunale di Milano presieduto da Marco Tremolada. Che è quello della causa Eni, ma anche colui che aveva proposto la perizia psichiatrica per il principale processo di cui si sta occupando ora. Il paradosso è che, mentre il castello delle accuse si sta sbriciolando, cresce in contemporanea la febbre di qualche povera ragazza, coimputata di Berlusconi e accusata di essersi fatta corrompere, che, forse ancora speranzosa di ricavare qualcosa, minaccia di “raccontare la verità” sulle cene e i dopocena cui era stata invitata dal presidente del Consiglio di allora. Come se niente fosse, come se fossero ancora i tempi in cui bastava a una bella ragazza schioccare le dita per suscitare la generosità eccessiva di un signore molto ricco. Con la giustizia bisogna avere pazienza, si sa, e Berlusconi è costretto ad averne tanta, dopo una sessantina di assoluzioni. L’ultima è quella che ha chiuso, una decina di giorni fa, il filone “Ruby ter” di Siena. Lì era di scena come corrotto il pianista che aveva partecipato a tante cene, Danilo Mariani, sospettato di aver preso dal suo ospite molti più soldi del dovuto perché andasse a mentire al processo in cui il leader di Forza Italia era accusato di prostituzione minorile. Non era così, ha stabilito il tribunale. Il fatto non sussiste. Una picconata alla tesi che sta alla base di tutti questi processi, e cioè che chiunque, fosse stato un musicista intrattenitore o altri invitati che avessero ricevuto regali o denaro dall’anfitrione, fossero un corrotto. Tutta gente che non diceva “la verità”. E’ l’ossessione di chi, dalle parti della Procura di Milano, non voleva rassegnarsi al fatto che Berlusconi fosse stato assolto dal reato di prostituzione minorile. Dell’altra imputazione con cui l’avevano portato a processo, quella di concussione nei confronti di un dirigente della questura, è sempre parso non importare niente a nessuno degli accusatori. Non solo perché il presunto concusso aveva detto chiaramente di non essersi mai sentito tale. Ma soprattutto perché quel tipo di imputazione non consentiva lo stigma “morale”. Del resto, basta leggere il libro di Ilda Boccassini nelle pagine dedicate al processo Ruby, quello che lei ha perso nelle sentenze definitive di appello e cassazione, per cogliere quel sentimento negativo, quel giudizio moralistico sulla persona, che dovrebbero non entrare mai nelle aule di giustizia, nella laicità del processo, nel distacco freddo che dovrebbe avere chi indossa la toga nei confronti della persona indagata o imputata. Il pezzettino del castello che è andato giù ieri nell’aula del tribunale di Milano è una piccola valanga. L’aspetto tecnico è impeccabile: nel processo principale, e anche nel secondo, sono state sentite come testimoni persone che avrebbero dovuto essere interrogate come indagate, quindi con tutte le tutele previste dal codice perché non si autoaccusassero. Ergo, con una fedele interpretazione del codice di procedura del 1989, i fascicoli escono dall’aula. Le deposizioni che arriveranno nelle prossime udienze saranno “fresche”. E’ a questo punto che serpeggiano nei corridoi del palazzo di giustizia di Milano i sussurri e le grida di un paio di giovani donne. Le immagini che ci rimanda la Rai regionale del Tg3 Lombardia (non essendo più Berlusconi considerato un pericolo per la democrazia, niente notizie in nazionale) mostrano queste ragazze tutte uguali, tutte eleganti e belle e stereotipate. Due di loro fanno sapere che parleranno, che si sottoporranno all’interrogatorio del pm e ai controinterrogatori delle parti. Rischiano sei anni di condanna, giusto che sentano il bisogno di chiarire la loro posizione. Non siamo prostitute, diranno come prima cosa, si suppone. Anche perché è così. Diranno anche di non esser state corrotte, ancora si suppone. Dovranno difendersi, e indirettamente scagioneranno anche Berlusconi e gli altri 25 imputati. Quindi dove sta la minaccia della loro “verità”? Se anche non sanno il latino avranno sentito dire che nei processi di corruzione le posizioni tra chi è sospettato di aver dato e chi avrebbe preso sono spesso inscindibili, simul stabunt simul cadent, appunto. Vedremo presto. Barbara Guerra e Alessandra Sorcinelli saranno sentite il 24 novembre, precedute il 17 da Marystell Polanco, un’altra delle “olgettine” che aveva raccontato degli spettacolini di burlesque con cui lei e altre ragazze avevano intrattenuto, dopo cena, Berlusconi e gli altri ospiti. Fornirà solo dichiarazioni spontanee, senza sottoporsi all’interrogatorio. Il principale imputato che comportamento processuale terrà? Potrebbe pure lui fare dichiarazioni, dice fuori dall’aula il suo legale, l’avvocato Federico Cecconi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

(ANSA il 12 novembre 2021) - Marysthell Polanco, una delle giovani delle serate di Arcore, dopo essersi consultata col suo avvocato Paolo Cassamagnaghi in relazione all'ultima ordinanza dei giudici del caso Ruby ter sulla "inutilizzabilità delle dichiarazioni testimoniali rese" nei dibattimenti Ruby e Ruby bis da 18 'ex olgettine' imputate nel 'ter', tra cui la stessa Polanco, ha deciso "allo stato di non rendere le spontanee dichiarazioni che avevo annunciato" per l'udienza del 17 novembre. Lo scrive in una lettera al collegio della settima penale, davanti al quale è imputato anche Silvio Berlusconi, spiegando che valuterà se renderle "in un altro momento". Il 3 novembre, infatti, il collegio, presieduto da Marco Tremolada, aveva accolto un'eccezione della difesa di Berlusconi che, in ipotesi, potrebbe aver azzoppato parte delle accuse (falsa testimonianza e corruzione in atti giudiziari) nel processo Ruby ter, spazzando via quasi tutte le deposizioni delle giovani come testi nei due processi, dove avevano portato la versione delle "cene eleganti", tranne quelle di Iris Berardi e per una parte anche quelle di Barbara Guerra. Quantomeno "dalla primavera 2012", secondo i giudici, la Procura "aveva elementi indizianti le elargizioni di Berlusconi in favore delle ragazze" indicate come testimoni, mentre in realtà erano già "sottoposte ad indagini" e dunque andavano indagate e sentite con le garanzie previste, con facoltà di non rispondere e assistite da avvocati. Polanco, che più volte in passato aveva annunciato di voler dire la "verità" sulle serate di Villa San Martino e che doveva essere la prima delle giovani a parlare in aula, ha inviato ieri una lettera ai giudici, spiegando che il suo legale "mi ha informato e mi ha spiegato il contenuto dell'ordinanza". E sulla base di questo provvedimento, dato che "capisco - scrive - l'importanza di parlare durante il processo e che questa scelta non è una pubblicità, ritengo allo stato di non rendere" le dichiarazioni. E ancora: "Mi scuso se questa mia decisione comporterà uno spostamento del calendario delle attività o crea disturbo al tribunale, ai pm e ai difensori". Poiché, conclude, "seguo gli sviluppi del mio processo, valuterò se rendere spontanee dichiarazioni in un altro momento". Per l'udienza del 24 novembre, poi, sono in calendario in teoria gli esami in aula delle imputate Guerra e Sorcinelli, che nelle ultime settimane in più occasioni hanno attaccato Berlusconi fuori dall'aula. Tuttavia, dopo l'ordinanza anche questi interrogatori potrebbero saltare.

(ANSA il 29 novembre 2021) - Anche Barbara Guerra e Alessandra Sorcinelli, le due ex ospiti delle serate di Arcore e che in più occasioni nelle ultime settimane avevano attaccato Silvio Berlusconi dicendo di essere pronte a parlare e a dire la verità, hanno deciso di rinunciare agli interrogatori in aula, che erano previsti per mercoledì, nel processo milanese sul caso Ruby ter. Le istanze di rinuncia, depositate al collegio della settima penale, seguono quella di Marysthell Polanco e vengono dopo l'ordinanza con cui il Tribunale aveva dichiarato "inutilizzabili" i verbali di 18 'ex olgettine', comprese loro tre, delle deposizioni nel Ruby e nel Ruby bis. Già Polanco nelle scorse udienze aveva rinunciato a rendere le dichiarazioni spontanee che aveva annunciato, dopo l'ordinanza del collegio Tremolada-Gallina-Pucci del 3 novembre. Una decisione con cui sono state dichiarate inutilizzabili le deposizioni di 18 'ex olgettine' rese nei dibattimenti Ruby e Ruby bis (le ragazze avevano portato la versione delle "cene eleganti"), che potrebbe aver azzoppato parte delle accuse di falsa testimonianza e corruzione in atti giudiziari. Per i giudici, infatti, le ragazze già all'epoca, tra il 2012 e il 2013, dovevano essere indagate per corruzione in atti giudiziari per i presunti versamenti da parte dell'ex premier e dovevano essere sentite in aula nei processi con l'assistenza di un legale e la possibilità di avvalersi della facoltà di non rispondere. Nella missiva rivolta ai giudici, Polanco aveva spiegato che, dopo essersi consultata col suo avvocato Paolo Cassamagnaghi riguardo all'ultima ordinanza, aveva deciso "allo stato di non rendere le spontanee dichiarazioni che avevo annunciato". Sulla stessa linea Guerra (difesa dall'avvocato Nicola Giannantoni) e Sorcinelli (con il legale Luigi Liguori). "Cene eleganti? Ci viene da ridere, non scherziamo. Berlusconi ci ha rovinato la vita", avevano detto lei e l'amica fuori dall'aula ai cronisti, annunciando di essere pronte agli esami in aula. Hanno già rinunciato, inoltre, agli interrogatori anche l'ex legale di Ruby, l'avvocato Luca Giuliante, e l'ex fidanzato di Karima El Mahroug, Luca Risso. Nella prossima udienza di mercoledì, che si terrà nell'aula bunker davanti al carcere di San Vittore, i giudici potrebbero decidere sulle istanze delle “ex olgettine” che, sulla base dell'ordinanza del 3 novembre, hanno chiesto ai giudici l'immediato proscioglimento dalle presunte false testimonianze.

(ANSA l'1 dicembre 2021) - I giudici della settima penale di Milano hanno respinto le istanze delle difese delle 'ex olgettine', imputate nel processo Ruby ter con Silvio Berlusconi, che hanno chiesto l'immediato proscioglimento, prima della fine del dibattimento, dalle accuse di falsa testimonianza, contestate assieme alla corruzione in atti giudiziari. Istanze che erano basate sull'ordinanza con cui il collegio il 3 novembre ha dichiarato inutilizzabili i verbali delle deposizioni di 18 giovani, rese nei processi Ruby e Ruby bis. Nella scorsa udienza i legali delle giovani, ex ospiti alle serate di Arcore e che avevano portato nei processi la versione delle "cene eleganti", si erano associati all'istanza presentata il 15 novembre dall'avvocato Paolo Siniscalchi, legale di Faggioli. Il 3 novembre i giudici avevano accolto un'eccezione della difesa di Berlusconi che, in ipotesi, potrebbe aver effetti negativi per l'accusa su parte delle imputazioni (falsa testimonianza e corruzione in atti giudiziari) nel processo Ruby ter, spazzando via quasi tutte le deposizioni delle giovani sentite come testi nei due processi, tranne quelle di Iris Berardi e per una parte anche quelle di Barbara Guerra. Quantomeno "dalla primavera 2012", secondo i giudici, la Procura "aveva elementi indizianti le elargizioni di Berlusconi (imputato solo per corruzione in atti giudiziari, ndr) in favore delle ragazze" indicate come testimoni, mentre erano in pratica già "sottoposte ad indagini" e dunque andavano iscritte e ascoltate con le garanzie previste, con facoltà di non rispondere e assistite da avvocati. Potrebbero cadere in particolare le imputazioni di falsa testimonianza (tra l'altro vanno verso la prescrizione), ma nel caso venisse tolta così anche la qualifica di pubblico ufficiale delle ragazze, rischierebbe anche l'accusa di corruzione in atti giudiziari. Dopo l'ordinanza è arrivata l'istanza della difesa Faggioli, a cui si sono associati gli altri difensori. Oggi la decisione del collegio. Il pm Luca Gaglio e l'aggiunto Tiziana Siciliano avevano chiesto che le istanze fossero respinte, come avvenuto, ritenendo "folle" una decisione di proscioglimento, prima della fine del dibattimento, sulle false testimonianze, perché quei reati sono "strettamente connessi" con l'accusa di corruzione in atti giudiziari. E con una pronuncia di proscioglimento il collegio, secondo i pm, poteva rendersi incompatibile e si sarebbe dovuto "stralciare", ossia separare i due reati, e ripartire con altri giudici.

(ANSA l'1 dicembre 2021) - Tenuto "conto dello stato avanzato, ma non completato dell'istruttoria", ossia del dibattimento, "non sussistono i requisiti di evidenza" per applicare l'articolo 129 del codice di procedura penale che prevede, date certe condizioni, l'obbligo di "declaratoria" di immediato proscioglimento, anche prima della fine del processo. Con queste motivazioni i giudici del caso Ruby ter (Tremolada-Gallina-Pucci) hanno respinto le istanze delle 'ex olgettine' che chiedevano di essere assolte subito dalle accuse di falsa testimonianza. Il processo va avanti per tutti e per i due reati contestati, tra cui la corruzione in atti giudiziari.

Le indagini fanno pensare a un altro flop...Processo Ruby smontato, i pm per incastrare Berlusconi ci provano con Graviano. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 18 Novembre 2021. Se non è Ruby è Graviano, ma in qualche modo gli aguzzini di Berlusconi si tengono in allenamento, in servizio permanente effettivo. Non si parla più di Ruby sui giornali, anche se proprio ieri c’è stata a Milano un’udienza del processo “ter”, quello in cui l’accusa dice che una serie di persone avrebbe detto il falso nel processo capostipite in cui Berlusconi è stato assolto, per difendere un innocente. Lo stesso in cui il leader di Forza Italia viene processato “per generosità”, come ha detto il suo avvocato Federico Cecconi, cioè per aver aiutato una serie di persone, soprattutto ragazze con ambizioni nel mondo dello spettacolo, che erano state danneggiate nel lavoro dalle inchieste giudiziarie. Una sorta di risarcimento morale ed economico per il danno subito a causa delle loro frequentazioni del presidente del Consiglio. Questi processi sono ormai a pezzi, dopo l’assoluzione di uno dei due pianisti che suonavano nei dopocena e dopo l’ordinanza emessa dal tribunale di Milano su una grave anomalia procedurale che aveva privato 18 imputate del loro diritto di difesa nel momento in cui erano state interrogate sotto giuramento come testimoni. E in seguito era stato aperto nei loro confronti il processo per falsa testimonianza, oltre che corruzione in atti giudiziari. Ma, ragionano i loro difensori, se è caduto un reato, crollerà anche l’altro, secondo il principio “simul stabunt simul cadent”. Infatti il processo “Ruby ter” si trascina stancamente, e ieri è già partito il difensore di un’imputata, Barbara Faggioni, a chiedere il non doversi procedere per il reato di falsa testimonianza nei confronti della sua assistita. Difficile che il tribunale presieduto da Marco Tremolada (lo stesso del processo Eni) non accolga l’istanza dopo la propria delibera dello scorso 3 novembre. E a cascata sarà così per le altre 17 “olgettine”. Sospiro di sollievo dunque per l’ex premier, nei giorni in cui il suo nome è sulla bocca di tutti non per le inchieste giudiziarie ma per la concreta possibilità di una sua candidatura al Quirinale? Mica tanto. Perché ci sono ancora in giro per l’Italia pubblici ministeri che se lo sognano anche di notte come il loro incubo permanente, Silvio Berlusconi. Uno di questi è Luca Tescaroli, procuratore aggiunto di Firenze che, in sintonia con il suo capo Giuseppe Creazzo, ancora insiste nell’ ipotesi di poter processare l’ex premier, insieme al suo amico Marcello Dell’Utri, come mandante di stragi. Piccola parentesi: nel mondo normale, quello lontano da magistrati e giornalisti, dove vivono medici e idraulici, non ho mai incontrato nessuno che credesse a un’ipotesi di questo genere. Chi non ama Berlusconi si spinge e considerarlo evasore o corruttore, ma nessuno lo crede un terrorista bombarolo. Pure, il dottor Tescaroli, che l’ha già inquisito un paio di volte quando si occupava di reati di mafia alla procura di Caltanissetta e che per due volte ha dovuto rinunciare chiedendone l’archiviazione, non demorde. È titolare dell’inchiesta sulle bombe del 1993 a Milano e Firenze e del 1994 a Roma. E ha per le mani alcune dichiarazioni a ruota libera di un soggetto già definito inattendibile da almeno un paio di sentenze e da diversi “pentiti” di mafia e che si chiama Giuseppe Graviano. Va chiarito che questo boss, condannato per le stragi di Capaci e via D’Amelio oltre che per altri reati gravissimi, non è un collaboratore di giustizia e neanche, al contrario di suo fratello (e coimputato) Filippo, un “dissociato”. Non parla dei propri reati. Parla solo di Berlusconi. È molto attivo, scrive lettere alla ministra Cartabia, frequenta l’università, lascia intendere, benché sia in regime speciale previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, che potrebbe avere presto qualche permesso premio. E lascia cadere qua e là, a ogni occasione, allusioni a suoi presunti (molto presunti) rapporti con il Berlusconi imprenditore. Ogni volta che lui apre bocca, i pubblici ministeri di Firenze si precipitano. Senza prendere in considerazione una “stranezza”. Come mai questo mafioso così canterino poi ai processi si avvale della facoltà di non rispondere sul tema? Lo ha fatto al processo “trattativa” e lo ha fatto al processo Dell’Utri. Pure da almeno un anno fa girare questi pm come trottole, girandoseli su un dito a proprio piacimento. Sarà per questo che i magistrati ultimamente mandano avanti gli uomini della Dia. Possiamo dire che in due articoli (almeno due al giorno per sgambettare Berlusconi) del Fatto di ieri, gli investigatori non fanno proprio una brillante figura? Le indagini si stanno svolgendo sull’asse Palermo-Milano. In Sicilia perché là ci sono parenti e amici di Graviano. In Lombardia perché è la terra dove il boss di Brancaccio in tempi andati si sarebbe incontrato ben quattro volte con Berlusconi. Supponiamo che la trasferta palermitana si sia conclusa con un buco nell’acqua. E del resto, che cosa si pensava di trovare, una foto di Berlusconi con una bomba in mano? Ma la cosa grottesca, ridicola, umiliante soprattutto per chi ha ritenuto che valesse un articolo di giornale, è la seguente “notizia”: “Perquisita la stanza segreta della moglie del super-boss”. Non c’è bisogno di essere lettori di thriller per immaginare almeno la presenza di un amante clandestino, se non di un cadavere, nella famosa stanza “segreta” della consorte di Graviano. Si apprende invece che si trattava di uno sgabuzzino di due metri quadri completamente vuoto. Vuoto. Gli uomini della Dia però ci informano che sperano di trovare, in prossime perquisizioni, qualche vuoto nei muri o nei pavimenti che contenga qualche documento rilevante. Auguri. Ancora maggiori perplessità destano i sopralluoghi di Milano e dintorni. Qui ci sono, secondo l’altro ampio articolo di Marco Lillo “I pm a caccia della casa”. Quale casa? Ma quella in cui si incontravano Graviano e Berlusconi, no? L’appartamento sarebbe anche stato individuato, non proprio a Milano ma a Basiglio, dove negli anni Ottanta la società Edilnord aveva costruito il quartiere residenziale “Milano 3”. Ora è ovviamente abitato da qualcuno che, come è ovvio, non ha niente a che fare con i personaggi dell’inchiesta fiorentina. Giusto per chiarezza, lo stesso Lillo avanza molti dubbi, mette le mani avanti (come aveva già fatto in modo preveggente e astuto alla vigilia della sentenza “trattativa”), avvertendo che le parole di Graviano vanno “prese con le molle”. E allora? E allora diciamolo chiaro, una volta di più. La magistratura, in particolare quella requirente, è al minimo storico nell’apprezzamento dell’opinione pubblica. Si processa Luca Palamara, con la fanfara ipocrita di quel sindacato di cui lui un giorno fu il capo, per cercare di sciacquare la melma dai propri abiti. Ma il Csm, il procuratore generale della Cassazione e la stessa ministra Cartabia non hanno proprio niente da dire su questo spreco di tempo e di denaro per farsi prendere in giro da un capomafia assassino, furbetto e scaltro? È questo il prezzo da pagare per lavare l’onta di una possibile elezione di Berlusconi alla Presidenza della Repubblica?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 17 Novembre 2021. Un'udienza senza nulla da fare, un'aula di tribunale dove giudici, pm e avvocati rischiano di ritrovarsi stamattina solo per prendere atto del vuoto pneumatico del programma. È questo lo scenario un po' surreale che incombe sul processo Ruby, quello che doveva segnare la battaglia finale nell'eterno scontro tra la Procura di Milano e Berlusconi. E che invece ora perde un pezzo dopo l'altro, scivolando verso un esito che fino a pochi mesi fa sembrava improbabile se non impensabile: l'assoluzione del Cavaliere e di tutti i suoi coimputati, conseguenza degli svarioni giuridici commessi dai pm milanesi nella foga dell'offensiva finale. È un problema, non solo per la Procura di Milano. Perché per anni intorno al caso Ruby si sono condotte campagne di stampa e talk show, si è ribaltato un governo, si è ironizzato (e questo alla fine risulterà forse il peccato più veniale) su nipoti di Mubarak, cene eleganti e quant' altro. L'assoluzione con formula piena dell'ex premier nel processo principale - imputazione di concussione e prostituzione minorile, condanna in primo grado a sette anni, assoluzione in appello e Cassazione - era già stata una botta quasi indigeribile per i fan dell'attacco giudiziario. Ma subito dopo era partita la potenziale riscossa, l'incriminazione per falsa testimonianza di tutti gli ospiti delle feste di Arcore che avevano osato escludere di avervi assistito ad alcunché di impudico: e di Berlusconi accusato insieme a loro di corruzione giudiziaria per avere versato cifre cospicue in cambio del loro silenzio. Era un processo curioso, perché il leader di Forza Italia veniva accusato di avere truccato un processo in cui era innocente. Ma la Procura si preparava a chiedere una condanna esemplare. E lo spettro del «Ruby ter» viene sventolato da settimane da chi, Fatto e Repubblica in testa, vede la candidatura del Cavaliere al Quirinale come un'onta da cui l'Italia va difesa ad ogni costo. Sembrava un percorso segnato: impossibile arrivare a una condanna prima del voto per la presidenza della Repubblica, possibilissimo far sfilare in aula le Olgettine ad accusare il loro ex anfitrione di averle prima usate e poi comprate. Effetto mediatico garantito. Da settimane le rivelazioni in aula delle fanciulle venivano date per imminenti. Ma poi, all'improvviso, l'intoppo. Perché il 3 novembre il tribunale presieduto Marco Tremolada prende atto, dopo gli ultimi sviluppi, di quanto molte difese sostenevano da tempo: gli interrogatori in cui le ragazze, Kharima el Mahroug alias Ruby in testa, avrebbero detto il falso sono tutti affetti da «inutilizzabilità assoluta» perché la Procura avrebbe dovuto sentirle come indagate, visto che da tempo scavava proprio sudi loro e sui rapporti economici con Berlusconi. Invece vennero chiamate da sole, senza avvocato. Un escamotage che ora rischia di affossare l'intero processo. Dopo l'ordinanza-choc di Tremolada, la Procura ha cercato di salvare il salvabile: sostenendo, a margine delle udienze, che anche cadendo il reato di falsa testimonianza resterebbe comunque l'accusa di corruzione giudiziaria, essendo provati i versamenti (ammessi peraltro dallo stesso Berlusconi). Ma se le ragazze non erano testimoni non erano neanche pubblici ufficiali. E la corruzione si sgretola. Adesso anche i giornali filo procure se ne sono resi conto. Le Olgettine lo hanno capito al volo: così quelle che avevano fatto trapelare il proposito di vuotare il sacco stanno facendo al volo marcia indietro. Così le udienze si svuotano, in aula circola una sorta di smarrimento e aleggia una domanda: se Berlusconi scampa anche a questa accusa, cosa scoveranno per bloccare il suo ritorno in auge?

Federica Olivo per huffingtonpost.it il 4 novembre 2021. Assoluzione definitiva per il primo filone di Eni-Nigeria e mezzo processo Ruby ter in bilico, perché le ragazze sentite come testimoni avrebbero dovuto essere indagate, già nel lontano 2012. E, quindi, ricevere garanzie che non hanno avuto. È una doppia sconfitta quella che arriva, nel giro di pochi giorni, sulle spalle della procura di Milano. E pesa tanto, perché arriva proprio nei due procedimenti che sono stati quasi un cavallo di battaglia per gli uffici requirenti del capoluogo lombardo. Nel primo caso parliamo del processo fatto con rito abbreviato nei confronti di Emeka Obi e Gianluca di Nardo, i mediatori che erano stati condannati in primo grado per corruzione internazionale a quattro anni, ma assolti con formula piena in appello, su richiesta della procura generale, che in secondo grado rappresenta l’accusa. Sul fascicolo viene messa una pietra tombale, perché la pg Francesca Nanni non ha fatto ricorso in Cassazione, respingendo la richiesta del governo nigeriano, e ha ribadito quello che in sostanza aveva già detto il giudice: il fatto non sussiste. Non ci sono elementi per ritenere sussistente la corruzione. È l’ennesima picconata al filone Eni Nigeria, che già aveva ricevuto una battuta d’arresto a marzo, con l’assoluzione in primo grado di Descalzi e Scaroni. Il verdetto di marzo non era stato preso benissimo dalla procura di Milano. Le cronache locali segnalavano uno scontro in chat tra i pm, con tanto di frasi come “Francesco, non ci prendere in giro”, rivolte al capo, Francesco Greco. Fosse stata un’assoluzione come le altre, in pochi giorni la polemica si sarebbe smorzata. Però poi sono arrivate le motivazioni della sentenza. E di lì a poco gli inquirenti sono diventati indagati. Secondo il giudice di primo grado, infatti, il Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, hanno omesso delle prove su Vincenzo Armanna, che avrebbero potuto scagionare gli imputati. Il grande accusatore, infatti, secondo questi elementi che l’accusa non portò in dibattimento, avrebbe parlato solo per screditare Descalzi e Scaroni. De Pasquale ha ammesso durante il processo di essere a conoscenza di questo materiale - una registrazione - ma di non averlo portato in giudizio perché lo riteneva irrilevante. Un comportamento che ha fatto scattare per lui e per Spadaro un’inchiesta per rifiuto di atti d’ufficio, davanti alla procura di Brescia. Quest’ultima vicenda non si è ancora conclusa. La sentenza di primo grado, invece, è stata impugnata. Per capire se l’appello confermerà l’assoluzione ci vorrà ancora del tempo. Probabilmente meno tempo, invece, passerà prima che arrivi a conclusione un altro processo. Il Ruby ter, che però ieri è stato smontato a metà. Nel procedimento che vede indagato Silvio Berlusconi e 28 persone - tra queste le ragazze che partecipavano alle cene di Arcore e venivano chiamate Olgettine ai tempi in cui di questa vicenda erano piene le prime pagine dei giornali -  per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza non potranno essere utilizzate le dichiarazioni che alcune di queste ragazze avevano fatto nei primi due filoni di questa lunga vicenda: il Ruby uno e il Ruby bis. Il motivo è molto semplice, e lo ha spiegato il giudice nell’udienza di ieri: quelle ragazze non dovevano essere ascoltate come testimoni, ma avrebbero dovuto già essere indagate. Non ieri o pochi giorni fa, ma già dalla primavera del 2012. “Tutte le deposizioni dei Ruby 1 e 2 sono affette da un vizio patologico e non possono essere usate in questo processo”, ha dichiarato Federico Cecconi, avvocato di Berlusconi. La questione sembra tecnica, ma è di sostanza: se le ragazze fossero state indagate, infatti, avrebbero dovuto essere assistite da un avvocato. E avrebbero potuto avvalersi della facoltà di non rispondere. Quando l’accusa era sostenuta da Ilda Boccassini, insomma - è il senso dell’ordinanza del giudice di Milano - fu fatto un errore. Perché, si legge nelle carte, la Procura “aveva elementi indizianti le elargizioni di Berlusconi in favore delle ragazze” indicate come testimoni, mentre in realtà erano già “sottoposte ad indagini”. Gli elementi per sospettare che avessero accettato denaro o regali in cambio di una falsa testimonianza - e quindi per far diventare indagate anche le ragazze, che avevano accettato lo scambio - c’erano tutti, sostiene il giudice. E quindi la loro posizione avrebbe dovuto essere valutata già da allora diversamente. Che conseguenze avrà l’inutilizzabilità di quegli atti? Intanto sono prossime a crollare le accuse di falsa testimonianza - perché le ragazze non avrebbero dovuto essere testimoni - che comunque erano prossime alla prescrizione. Resta in piedi la corruzione in atti giudiziari. Indubbiamente, però, per i pm Tiziana Siciliano e Luca Gagli, senza una parte degli atti, il lavoro sarà molto più difficile. In pochi giorni, per due volte, il lavoro della procura di Milano viene messo seriamente in discussione da un’altra toga. A poche settimane dal pensionamento di Francesco Greco, che aprirà le danze di una successione che già si annuncia complicata, l’ennesima tegola, che certamente lascerà il segno. 

Giuseppe Guastella per il "Corriere della Sera" il 4 novembre 2021. Bisogna attendere la sentenza per capire se e come avrà influito sul processo Ruby ter, ma di certo la decisione di ieri del Tribunale di Milano di considerare inutilizzabili le testimonianze rese da 18 delle giovani ospiti alle cene e ai dopocena di Silvio Berlusconi ad Arcore ai tempi del Bunga Bunga apre una crepa in un processo che da tre anni faticosamente si trascina avanti. I giudici della settima sezione penale, presidente Marco Tremolada, hanno accolto l'eccezione con cui nel lontano 14 gennaio 2019 il difensore dell'ex premier, l'avvocato Federico Cecconi, sostenne che le testimonianze a partire dalla primavera del 2012 nei processi Ruby uno (a Berlusconi, assolto) e Ruby due a Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti (condannati) di quelle che oggi sono tra i 22 imputati non potevano essere utilizzate in questo processo Ruby ter in quanto le stesse 18 donne, tra cui Karima «Ruby» El Mahroug, avrebbero dovuto essere tutte sentite come indagate, quindi assistite da un avvocato, e non come testimoni. Questo perché, quando furono inserite dalle difese nelle liste di coloro che avrebbero testimoniato davanti ai giudici di quei due processi, la Procura sapeva già che venivano regolarmente pagate da Silvio Berlusconi con un assegno di 2.500 euro al mense e con altre somme aggiuntive, anche molto consistenti. Ciò configurava il reato di corruzione in atti giudiziari a carico di Berlusconi, come corruttore, e delle testi, come corrotte, che poi è l'accusa principale del processo Ruby ter. La quale, secondo un'interpretazione diffusa, rimarrebbe comunque in piedi perché per ipotizzarla è sufficiente che il teste accetti l'accordo corruttivo a prescindere da che fine facciano poi le sue dichiarazioni nel processo. Si tratta, scrivono i giudici, di una «violazione delle garanzie di legge poste a presidio del divieto di auto incriminazione» che potrebbe portare all'assoluzione delle 18 imputate dall'accusa di falsa testimonianza, peraltro vicinissima alla prescrizione. Per la Procura, invece, non c'erano elementi sufficienti per ipotizzare un'accusa di una qualche consistenza. Un nodo giuridico che mai è emerso in anni di processi chiusi con pronunce definitive in Cassazione e nei quali le stesse testimonianze non hanno mai avuto un peso proprio perché ritenute inattendibili. «Questa ordinanza è importantissima», dichiara l'avvocato Cecconi che di recente ha incassato l'assoluzione di Berlusconi dalla stessa accusa di corruzione in un pezzo del processo finito a Siena. Si torna in aula il 17 novembre quando saranno interrogati i primi imputati. Berlusconi, spiega Cecconi, sta valutando se e quando presentarsi per fare dichiarazioni spontanee.

Tramonta anche il Ruby ter bis. Processo Ruby, la bufala del secolo: i nipoti di Mubarak erano i Pm…Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Novembre 2021. L’altra sera si è praticamente spenta, in un clima di grande tristezza, la lunghissima vicenda dei tanti processi Ruby. È la lunga epopea di un pezzo di magistratura – essenzialmente di un pezzo della procura di Milano – che da più di dieci anni si è applicata nel tentativo di incastrare – pur nella evidente assenza di un reato – il capo del centrodestra e l’ex presidente del Consiglio, e di portarlo in prigione. Si è praticamente spenta, questa vicenda, quando il Presidente della Corte al processo Ruby ter bis (il Ruby ter è stato diviso in due processi, tra qualche riga proviamo a spiegarvi perché, e ad accennare un breve conteggio dei processi Ruby) ha dichiarato inutilizzabili le testimonianze delle ragazze che avevano deposto già in fase di indagine al Ruby uno, e poi, successivamente, nelle udienze del Ruby uno e del Ruby due. Il motivo della decisione del giudice? Chi le interrogava non poteva non sapere che le ragazze, proprio per quelle che erano le ipotesi alla base dell’interrogatorio, erano indagabili. Dunque non deponevano più come testimoni o persone informate dei fatti, ma come possibili imputate, e di conseguenza dovevano essere interrogate alla presenza di un avvocato e con tutte le garanzie di legge, e con la possibilità di avvalersi della facoltà di non rispondere. La decisione del Tribunale, evidentemente, ha implicazioni gravissime. Perché ipotizza che i Pm che interrogavano le ragazze abbiano violato clamorosamente la legge e violato i diritti della difesa. Consapevolmente? I casi sono due. O quei magistrati non conoscevano la legge – una parte molto, molto importante e conosciuta della legge – oppure sapevano di violarla e immaginavano che questa violazione potesse essere legittimata dal fine. Quale fine? Il fine di un Pm è quello di arrivare al rinvio a giudizio e poi alla condanna. Di chi in questo caso? Beh, la domanda fa un po’ sorridere: di Silvio Berlusconi, ovviamente. La decisione del Presidente del tribunale di escludere le testimoni dal processo, a occhio e croce, chiude anche il processo. Che si fondava solo su quelle testimonianze. Ma, sempre a occhio e croce, stabilisce una verità ancora più importante: che tutto il lunghissimo percorso processuale dell’affare Ruby sia stato viziato da palesi irregolarità, e che – in modo davvero stupefacente – nessuno se ne sia accorto in questi quasi dieci anni (le prime testimonianze raccolte sono dell’anno 2012). È un’altra mazzata micidiale sulla procura di Milano, e sui vari magistrati che con accanimento si sono occupati dei processi Ruby. A partire, naturalmente, dalla Pm più famosa e celebrata, e cioè da Ilda Boccassini, che ancora oggi, nonostante le numerose sconfitte ricevute nelle aule di giustizia, rivendica quel processo e la caccia all’ex premier. Non si sa sulla base di quali ragioni. Probabilmente di un codice morale che noi, purtroppo, non conosciamo. La follia dei testimoni interrogati illegalmente si aggiunge alla follia che abbiamo appena indicato, e cioè quella relativa al numero dei processi. Nel mondo civile (e anche, formalmente, in Italia) nessuno può essere processato più di una volta per lo stesso reato. In alcuni paesi, specie quelli di diritto anglosassone, questo principio porta persino a impedire all’accusa di chiedere il processo di appello. Lo può chiedere la difesa. L’accusa no, perché sarebbe un secondo processo. Da noi invece, sebbene la legge dica che non si può, talvolta si fa. Cioè si processa una persona per lo stesso reato più volte. Raramente, per fortuna. Succede quando a dei Pubblici ministeri particolarmente… (l’aggettivo mettetelo voi) non è piaciuta una assoluzione. I casi più clamorosi degli ultimi anni sono quello di Palermo e – appunto – quello di Milano. A Palermo il generale Mori è stato processato tre volte e assolto tre volte per lo stesso reato. Era accusato di aver trattato con la mafia, ma poi a guardare le carte si è capito che il generale Mori, tra gli esseri viventi, è sicuramente quello che ha inferto alla mafia i colpi più duri, mandandola in agonia. E poi c’è il processo Ruby. Ruby uno, Ruby due, Ruby tre (quello di Siena con assoluzione piena di Berlusconi di qualche giorno fa) e Ruby tre bis che è questo di Milano, morente, ripetizione perfetta del processo di Siena. Perché due processi fotocopia? La giustificazione – se ho capito bene – è che se fai due processi uguali, magari uno lo vinci…. Non ce ne sono altre di giustificazioni ragionevoli. La sostanza è che Berlusconi è stato accusato di avere avuto una cena, forse con ricadute sessuali, a casa sua, alla quale parteciparono diverse ragazze tra le quali una, questa Ruby, non ancora maggiorenne. E questa cena ha prodotto dieci anni di indagini, decine di Pm dedicati, Corti su Corti impegnate per un tempo lunghissimo, interrogatori, intercettazioni, chissà quali altre diavolerie di indagine, polizia, carabinieri, finanza, un costo altissimo, il tutto bene organizzato in quattro processi lo scopo dei quali era condannare alla prigione Berlusconi e levarlo di mezzo dalla scena politica, e che però, per una serie di ragioni accidentali (indipendenza dei giudici chiamati a decidere), non hanno prodotto nessuna condanna per l’ex premier. Come peraltro era già successo in un’altra sessantina di processi, organizzati non tutti, ma molti, sempre dalla procura di Milano, e tutti conclusi con l’assoluzione. Cosa dimostra tutto questo? Due cose. Che esistono alcuni magistrati che non si comportano da magistrati e non rispettano la legge, ma si comportano da “sbirri” senza scrupoli. Per i quali l’imperativo categorico non è la legge ma il successo dell’indagine. E poi dimostra un’altra cosa: che Silvio Berlusconi è stato perseguitato da un pezzo della magistratura. Sfido il suo più acerrimo nemico a negare questa circostanza. Anche altri esponenti politici hanno subito persecuzioni. Penso al mio amico Bassolino, processato e assolto 19 volte. Il caso di Berlusconi però è di dimensioni gigantesche, non ha alcuna giustificazione, e ha segnato gli ultimi vent’anni di storia d’Italia. Li ha segnati e ne ha cambiato il corso. Naturalmente la cosa è molto grave, perché avendo la persecuzione di Berlusconi modificato l’andamento della politica e i rapporti di forza tra i partiti, ha prodotto una ferita molto profonda nella democrazia. In questi anni la democrazia è stata seriamente ferita dalla magistratura. Senza che nessuno ne prendesse atto e decidesse di intervenire. Ma è ancora più grave per un’altra ragione. Noi scopriamo che la nostra giustizia ammette la persecuzione di un cittadino. Berlusconi è molto potente e molto ricco. È riuscito a difendersi. Ma tutti gli altri cittadini? Chi non è in grado di intervenire sull’opinione pubblica, non è in grado di sostenere sessanta processi (o anche dieci) e finisce nelle grinfie di qualche magistrato che ha deciso di annientarlo, che possibilità ha di salvarsi? A chi può rivolgersi? Come può impedire che la macchina della giustizia non produca clamorose ingiustizie? Non può. È questo il punto essenziale. La riforma della magistratura è urgentissima perché i fatti ci dicono che questa magistratura è in parte fuori controllo. In gran parte, essenzialmente sul versante delle Procure. È urgente metterla sotto controllo. Come tutti gli altri organi dello Stato. Riforma della Giustizia vuol dire esattamente questo: rimettere sotto controllo il corpo impazzito della magistratura.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Ruby ter, Berlusconi assolto perché «il fatto non sussiste». Cade l'accusa di corruzione in atti giudiziari. Assolto anche il pianista delle feste ad Arcore, Danilo Mariani. Il Dubbio il 21 ottobre 2021. Silvio Berlusconi è stato assolto dal Tribunale di Siena perchè il fatto non sussiste. L’ex presidente del Consiglio, nella tranche senese del processo Ruby Ter, doveva rispondere dell’accusa di corruzione in atti giudiziari. La sentenza è stata pronunciata dal presidente del collegio Simone Spina dopo una camera di consiglio durata un’ora. Assolto con la stessa formula anche il pianista delle feste ad Arcore, Danilo Mariani, anche lui era imputato per il reato di corruzione in atti giudiziari. «Grandissimo risultato, tutti e due assolti con formula piena: sono veramente contento. Non stupito: è il giusto epilogo di questo processo che forse si doveva fermare un pò prima», ha commentato l’avvocato Enrico De martino, uno dei legali di Berlusconi, dopo la lettura della sentenza. «Ho sentito Berlusconi poco fa – ha aggiunto l’avvocato Federico Cecconi -, è evidentemente sollevato e soddisfatto». Secondo i pm milanesi, il pagamento effettuato da Berlusconi a Mariani, per indurlo a rendere testimonianze a lui favorevoli sulle «cene eleganti» a villa San Martino si sarebbero concluse a Siena. I legali del Cavaliere avevano chiesto la ricusazione del giudice, ma dopo oltre un’ora di camera di consiglio il nuovo collegio presieduto da Spina non ha ritenuto «che la mera esistenza di una dichiarazione di ricusazione possa comportare l’incapacità del giudice di procedere oltre nella discussione». Per entrambi gli imputati il pm aveva chiesto una condanna a 4 anni. Quella di oggi era la prima udienza del nuovo collegio dei giudici, cambiato dopo che il precedente lo scorso 13 maggio aveva già giudicato Mariani per l’accusa di falsa testimonianza, condannandolo a 2 anni con la sospensione condizionale. Il processo col precedente collegio era già arrivato alle battute finali nel 2020: allora la richiesta del pm era stata di 4 anni e 2 mesi di reclusione per Berlusconi e di 4 anni e mezzo per Mariani.

La Procura aveva chiesto 4 anni. Ruby ter, Berlusconi e il pianista Mariani assolti a Siena: “Sollevato e soddisfatto”. Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2021. “Il fatto non sussiste“. Assoluzione per Silvio Berlusconi e per il pianista di Arcore Danilo Mariani nel filone del processo Ruby ter andato in scena a Siena, dove erano imputati per corruzione in atti giudiziari. Questa la sentenza dei giudici del Tribunale toscano, presieduto da Simone Spina, dopo circa novanta minuti di camera di consiglio. “Ho sentito Berlusconi poco fa (oggi era impegnato a Bruxelles per un vertice del Ppe, ndr), è evidentemente sollevato e soddisfatto” ha riferito ai giornalisti l’avvocato Federico Cecconi, uno dei legali del Cavaliere, dopo la sentenza. La difesa dell’ex premier accoglie il “grandissimo risultato, tutti e due assolti con formula piena: sono veramente contento. Non stupito: è il giusto epilogo di questo processo che forse si doveva fermare un po’ prima” ha aggiunto l’avvocato Enrico De Martino. La richiesta dell’accusa era di 4 anni di reclusione per entrambi gli imputati. Soddisfazione in Forza Italia con il coordinatore nazionale Antonio Tajani che commenta: “Berlusconi assolto a Siena nel processo Ruby ter perché il fatto non sussiste. Chi lo conosce non ha mai dubitato della sua innocenza. Quanto fango prima di arrivare alla verità“. Con la sentenza dei giudici di Siena si è chiuso il primo dei tre processi sul caso Ruby ter, relativo ai presunti versamenti a ragazze ospiti delle serate di Arcore e ad altri testimoni per . Sono in corso altri due filoni: quello principale a Milano e un altro a Roma. Altre vicende giudiziarie pendenti per il Cavaliere sono il processo a Bari per la vicenda ‘escort-Tarantini’ e l’inchiesta a Firenze per le stragi di mafia. Redazione

"Berlusconi perseguitato a vita. Il Colle è giusto risarcimento". Stefano Zurlo il 7 Novembre 2021 su Il Giornale. Il giornalista: "Sessanta processi e 60 assoluzioni sono un'enormità. Qualcosa non funziona, anzi inquieta".

Non ci gira intorno: «Adesso si può dire».

Che cosa?

«Silvio Berlusconi non è un imputato a vita. No, è un perseguitato a vita».

Diranno che lei è smaccatamente di parte.

Piero Sansonetti, direttore del Riformista e volto della tv, sorride: «Dicano quello che gli pare. La notizia c'è tutta ed è incredibile: le 18 ragazze che parteciparono alle cene di Arcore dovevano essere sentite con gli avvocati e non come testi».

E questo - afferma il tribunale di rito ambrosiano del Ruby ter - dal lontano 2012.

«Parliamo di nove anni fa. Nove anni di sospetti, accuse, veleni e polemiche che vengono cancellati con un tratto di penna. Quei verbali sono inutilizzabili perché le ragazze dovevano essere interrogate alla presenza dei loro difensori».

Un errore?

«Sarà pure un fatto tecnico, ma le ricadute politiche mi paiono clamorose. Quelle fanciulle erano in bilico, potevano essere indagate, la procura di Milano avrebbe dovuto avere un altro approccio. Arrivo a dire che c'è un pezzo di storia italiana che forse dev'essere riscritto».

Ma Berlusconi non è stato assolto?

«Si, ma questa storia non finisce mai e rinasce come l'araba fenice dalle proprie ceneri. Berlusconi è stato processato non una ma due volte per gli stessi fatti».

Un attimo, la magistratura sostiene che non è così.

«Per me si, ma questo non basta. Si sono inventati il Ruby ter e poi il Ruby ter bis: a Siena hanno riassolto il Cavaliere, a Milano non ancora ma con questa mossa siamo sulla buona strada».

Proprio le assoluzioni non dimostrano la correttezza della magistratura?

«Sessanta processi e sessanta assoluzioni mi paiono un'enormità. Qualcosa non quadra. E l'unica condanna, a dir poco controversa, è sotto la lente della Corte europea di Strasburgo».

Insomma, c'è stata un'incursione dei giudici nella vita democratica del Paese?

«Mi pare evidente. E questo non vale solo per il Cavaliere. Bassolino è stato processato diciannove volte e altrettante assolto. Non può essere la normale dialettica. Qualcosa non funziona e anzi inquieta».

Per l'inchiesta Open su Matteo Renzi, i pm di Firenze hanno interrogato molti big. Da Rosy Bindi a Pierluigi Bersani. Normale attività di indagine?

«La procura di Firenze sta cercando di stabilire i confini della politica e vuole delimitare il perimetro dei partiti. Ancora una volta, a mio parere, si entra in una dinamica che dovrebbe essere estranea alla toghe. Non possono essere i pubblici ministeri a stabilire se un'associazione sia un partito o no».

Come se ne esce?

«Attenzione che questa persecuzione non riguarda solo i leader politici, ma la gente comune che però non ha i mezzi e le risorse per difendersi come ha fatto il Cavaliere. Quanti disgraziati sono stati condannati e sono finiti in cella pur essendo innocenti?».

Quale soluzione, dunque?

«Ci vuole un presidente del Csm, quindi un presidente della Repubblica, che non si lasci condizionare dalle toghe. Mattarella ha pronunciato qualche parola, ma non è andato oltre. E invece questo disastro deve finire».

Lei cosa propone?

«I grandi elettori mandino Berlusconi al Colle».

Difficile. Molto difficile.

«Si, lo so bene, anzi qualcuno ha già fatto sapere che è impossibile Ma l'elezione del Cavaliere sarebbe una forma di risarcimento per lui e per quello che ha patito il Paese».

E le pendenze giudiziarie?

«Sono inconsistenti, come si è visto fra Siena e Milano».

La magistratura finirebbe sotto scacco, come temono i giustizialisti?

«No, non è che ci debbano essere vendette o punizioni, ma una riorganizzazione del sistema giudiziario che finora non c'è stata».

Le riforme si faranno?

«La Corte costituzionale potrebbe bocciare alcuni quesiti referendari, ma basta che alla scure della Consulta ne sopravviva uno, uno fra i sei, e che al voto la prossima primavera vinca il si, per cambiare i rapporti di forza nel Paese. Sarebbe un segnale simbolico dirompente. Forse, siamo alla vigilia di un cambiamento atteso da troppo tempo». Stefano Zurlo

Quei maledetti 30 anni di gogna giudiziaria contro il Cavaliere. Francesco Maria Del Vigo il 22 Ottobre 2021 su culturaidentita.it su Il Giornale. Il Cav è stato ieri assolti nel Ruby Ter: “il fatto non sussiste” è stata la decisione del collegio presieduto d Simone Spina. Non c’è stata corruzione negli atti giudiziari e pertanto l’ex premier è stato assolto con formula piena dal tribunale di Siena (uno dei 3 tronconi in cui era stato spezzettato il processo per competenze territoriali fra Milano, Roma e appunto Siena). Una sentenza che giunge, dai più, inaspettata per la sua celerità, nel giorno in cui il Cav torna in scena in Europa incontrando Angela Merkel a Bruxelles per il vertice del PPE. Che altro dire?, se non che la verità prima o poi vince, sia pure dopo 10 anni di gogna mediatica (Redazione). L’ articolo che segue è stato pubblicato sul numero di giugno di CulturaIdentità. La storia della giustizia italiana, come ormai è sempre più evidente, è piena di errori, sconfinamenti di campo, decisioni sommarie e inficiate da pregiudizi politici o personali. Sgombriamo subito il campo da un dubbio: la maggior parte dei giudici fa ogni giorno, in mezzo a molte difficoltà, onestamente e meritoriamente il loro lavoro. Ma, come ampiamente dimostrato dalle cronache quotidiane e dal libro di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, esiste un «sistema». E una parte di questo sistema, dal 1994, cioè da quando Silvio Berlusconi intraprese l’ormai storica discesa in campo, ha iniziato una vera e propria persecuzione giudiziaria nei confronti del leader di Forza Italia. I numeri parlano da soli. «Ho subìto ben 86 processi, per un totale di 3672 udienze – afferma il Cavaliere in una intervista rilasciata al Giornale lo scorso 27 marzo -. Mettendole tutte in fila, si avrebbe un processo infinito, con udienze tutti i giorni, per dieci anni, senza soste neppure a Natale. Si rende conto di cosa significano queste cifre? Neanche Kafka avrebbe immaginato un incubo come questo. Credo siano un record assoluto, certamente in Italia e probabilmente nel mondo». Ottantasei processi e una sola condanna, sui diritti Mediaset, quella pronunciata dal famoso «plotone di esecuzione» della cassazione presieduta da Antonio Esposito. E già dalla definizione «plotone di esecuzione» possiamo facilmente intuire il clima di «guerra» che portò a quella decisione. Una condanna a proposito della quale, qualche settimana fa, a otto anni di distanza, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha posto dieci domande all’Italia di questo tenore: «Berlusconi ha beneficiato di una procedura dinanzi a un tribunale indipendente, imparziale e costituito per legge? Ha avuto diritto a un processo equo? Ha disposto del tempo necessario alla preparazione della sua difesa?». Domande, tutt’altro che scontate, alle quali prima o poi qualcuno dovrà dare una risposta. Una sentenza talmente balorda che secondo Alessio Lanzi, membro laico del Csm, «fu clamorosamente sbagliata dal punto di vista giuridico, basata su invenzioni dottrinali senza precedenti. Una sentenza inventata, che non stava né in cielo né in terra» (Il Giornale, 2 luglio 2020). Ma, con ogni evidenza, quello che interessava non era il punto di vista giuridico, ma quello politico, cioè fare fuori Berlusconi dal Parlamento. Ma la persecuzione nei confronti del Cavaliere inizia molto prima: il centrodestra vince le elezioni il 27 marzo del 1994, appena nascono i primi club di Forza Italia le toghe rosse iniziano a muoversi per stoppare il cambiamento. Il sistema di sinistra va assolutamente blindato. Il pool di Milano, capitano da Francesco Saverio Borrelli, scalpita. Nel novembre dello stesso anno il premier a Napoli presiede un vertice internazionale sulla criminalità, il Corriere lo avvisa in prima pagina che è indagato per corruzione. Tempistica perfetta e molto sospetta, inizia così la persecuzione. Si rompe un argine, è l’inizio di un accanimento che si protrae fino ai giorni nostri. Un mese dopo il primo governo Berlusconi è già caduto, sette anni dopo cadranno anche tutte le accuse nei suoi confronti: non ha commesso il fatto. «Per la prima volta nel 1994 un presidente del Consiglio in carica viene raggiunto da un invito a comparire, come se dovesse essere respinto insieme alla novità che rappresentava rispetto alla politica. So che nulla accade per caso, c’è sempre un meccanismo, un sistema invisibile che si muove all’unisono», spiega Luca Palamara ne «Il Sistema». Nel frattempo le procure continuano a indagare, citiamo solo uno dei casi più politici: nel 1998 è la volta del processo Sme, anche questo finirà – nel 2007 – con una assoluzione. In mezzo 9 anni di gogna. Copione che, nel corso degli anni, si ripeterà all’infinito, fino al parossismo: dal Lodo Mondadori al caso Mediatrade, dall’All Iberian a Telecinco fino al caso Ruby (il Ruby ter è ancora in corso). Tutti buchi nell’acqua, in alcuni casi con accuse talmente folli da rasentare il ridicolo: dalla mafia alle stragi. Accuse che persino l’acerrimo nemico Michele Santoro, dopo un ventennio di battaglie, archivierà come irreali. Ma nel frattempo il danno è stato fatto e la storia della Repubblica, ora come in altre occasioni, è stata «taroccata» per via giudiziaria. Per questo far luce sull’accanimento delle toghe nei confronti di una parte politica è così importante, perché significa far luce su quello che è accaduto a tutti noi, non a una sola persona, e significa accendere un faro su chi – a nostra insaputa – ha cercato di modificare il normale corso della democrazia. Quello che solitamente passa per le urne e non per le aule giudiziarie. Francesco Maria Del Vigo

90 processi, 3.800 udienze: la persecuzione contro il Cav. Luca Fazzo il 18 Settembre 2021 su Il Giornale. Dopo la decisione del Cav di non sottoporsi alla perizia psichiatrica, il tribunale prova ad aggiustare il tiro. L'ex premier potrebbe parlare in Aula. Un aggettivo di troppo, nelle scarne righe del quesito sottoposto al perito dai giudici del processo Ruby ter: quello che chiedeva di valutare lo stato di salute «anche psichica» di Silvio Berlusconi, dopo la nuova richiesta di rinvio dell'udienza per motivi di salute avanzata dai suoi difensori. Quell'aggettivo, come era inevitabile, ha scatenato l'indignazione del leader di Forza Italia e una ondata di polemiche politiche. Al punto che ieri il presidente del tribunale di Milano, Roberto Bichi, deve intervenire con un comunicato in cui spiega che in aula «né la difesa né il pm hanno proposto osservazioni» sul testo del quesito formulato dal giudice Marco Tremolada. E che comunque l'obiettivo era solo «l'accertamento delle condizioni di salute» di Berlusconi «non limitato alla mera partecipazione fisica dell'imputato all'udienza» ma anche alla sua capacità di partecipare alla «elaborazione di una linea difensiva». Bisognava, aggiunge Bichi, verificare anche la «eventuale irreversibilità dell'impedimento»: perché se i guai di salute di Berlusconi fossero cronicizzati, allora sarebbe inevitabile separare la sua posizione e proseguire col resto del processo. Che però scoppiasse il putiferio era prevedibile. Anche se a smussare la situazione è poi arrivata la decisione di Berlusconi di rifiutare la visita del perito ma anche di rinunciare d'ora in avanti a chiedere ulteriori rinvii per motivi di salute. Il processo, ha scritto il Cavaliere ai giudici, può andare avanti anche senza la mia presenza. Tutto risolto dunque? Non proprio. Perché la lettera di Berlusconi al tribunale ha solo conseguenze sul breve periodo, mentre non è affatto scontato che l'ex premier rinunci definitivamente a fare la propria parte in aula. La conseguenza immediata della lettera è che il giudice Tremolada ha annullato la nomina del perito e ha disposto la prosecuzione del processo. La prossima udienza, problemi logistici permettendo, è fissata per il prossimo 6 ottobre. In calendario c'è l'interrogatorio del ragioniere di fiducia del Cavaliere, Giuseppe Spinelli, che si occupava materialmente dei bonifici alle Olgettine. Poi la lista dei testimoni dell'accusa è quasi finita: mancano solo l'ex capo della polizia giudiziaria Marco Ciacci e il suo successore Giorgio Bertoli, al massimo un paio di udienze. E a quel punto il codice prevede che la parola passi agli imputati. È una chance, quella di rivolgersi direttamente ai giudici, cui Berlusconi ha sempre tenuto molto: lo ha fatto nel primo processo Ruby voleva farlo anche nel filone senese del Ruby ter. In questo processo la decisione con i legali non è stata ancora presa: ma se il Cavaliere scegliesse di parlare, allora potrebbe nuovamente chiedere un rinvio in attesa di poter affrontare l'impegno. E l'esigenza di una perizia, magari più circoscritta, tornerebbe d'attualità. L'alternativa, se tutti fossero d'accordo, sarebbe spostare l'intervento del Cav in aula dopo l'interrogatorio dei testimoni delle difese: che sono una marea (solo Berlusconi ne ha indicati più di cento) e rischiano di occupare molti mesi. Una valanga di udienze che va ad aumentare la statistica sugli impegni giudiziari cui il Cavaliere è stato sottoposto in questi anni, e che secondo i suoi medici ha contribuito ad acuirne lo stress: a partire dalla discesa in campo con Forza Italia, Berlusconi è stato sottoposto ad almeno novanta procedimenti penali che hanno impegnato 130 avvocati e cinquanta consulenti. Complessivamente, le udienze tenute nei processi contro il leader azzurro assommerebbero alla cifra astronomica di 3.800.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Silvio Berlusconi, rilancia la battaglia sul garantismo nella giustizia italiana: "Un crimine condannare un innocente". Libero Quotidiano il 12 settembre 2021. Silvio Berlusconi, sulle colonne del Giornale, analizza l'attuale momento della giustizia italiana travolta da continui scandali e rilancia il suo cavallo di battaglia sulle riforme da applicare. "Perseguire una persona non colpevole significa addirittura incoraggiare il crimine, distogliendo mezzi, risorse umane e denaro dalla caccia ai veri criminali. Non si può essere sottoposti a questa tortura per decenni. E spesso chi valuta è condizionato da pregiudizi politici: serve un giudice terzo che non sia legato all’accusa. Il garantismo è uno dei principi fondanti di Forza Italia insieme a liberalismo, cristianesimo ed europeismo", scrive il leader politico. Berlusconi torna indietro negli anni e punta il dito contro i suoi storici "nemici" politici: i comunisti. "Negli anni ’60-70 il Partito comunista compì un’opera sistematica di occupazione della magistratura con nomi di fiducia da inserire nei gangli vitali del sistema giudiziario. L’operazione Mani Pulite, e tante altre vicende successive, sono figlie di questa storia. Come ben comprese già 30 anni fa Giovanni Falcone, "confondendo la politica con la giustizia penale l’Italia, pretesa culla del diritto, rischia di diventarne la tomba"", scrive ancora Berlusconi. Il leader di Forza Italia entra poi più nel dettaglio parlando anche della riforma della giustizia voluta dalla ministra Cartabia: "Un imputato assolto da un tribunale non dovrebbe essere ulteriormente perseguito. Giusta l’inappellabilità dell’assoluzione. Se un magistrato lo ha ritenuto innocente evidentemente esiste almeno un dubbio sulla sua colpevolezza. Per questo abbiamo proposto l’inappellabilità dei giudizi di assoluzione. A tutto questo si aggiunge il fatto che nella pratica il processo è esso stesso una condanna, perché dura anni, perché getta sulla persona l’ombra del sospetto e dello stigma sociale, perché ne limita – anche se innocente – molti diritti e molte libertà ed è anche per questa ragione che i processi non possono durare all’infinito, una persona non può essere sottoposta a questa tortura per decenni. La prescrizione è una misura di civiltà", rivela Berlusconi.

Era l’inverno del ’92, e tutto ebbe inizio con una mazzetta a un “Mariuolo”…La lunga marcia del giustizialismo ha una precisa data di battesimo: 17 febbraio 1992, giorno in cui Mario Chiesa fu pizzicato da Tonino Di Pietro. Paolo Delgado su Il Dubbio il 4 ottobre 2021. La memoria, ricostruita col senno di poi, rischia di fare brutti scherzi. Quando il 17 febbraio 1992 Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, fu arrestato a Milano da un pm anomalo, un ex poliziotto venuto dal basso, colorito e pittoresco, tal Antonio Di Pietro, i giornali attribuirono alla notizia moderata attenzione. Non era un titolo d’apertura. Una grana per il Psi di Craxi certamente sì. Ma nulla di più. Nessuno avrebbe scommesso su uno scandalo di prima grandezza, figurarsi su una slavina tale da travolgere l’intero sistema. Lo scontro tra poteri dello Stato, tra politica e magistratura, durava già da anni, con picchi di tensione anche molto alti. Ma il Paese assisteva senza prendere parte con tifo davvero acceso. Il discredito della classe politica dilagava, questo sì, ma senza che la sfiducia diffusa si fosse tradotta in delega alla magistratura. L’Italia era già un Paese solcato da una profondissima vena antipolitica ma non ancora giustizialista. Però ci voleva poco perché il discredito della politica si traducesse in affidamento totale al potere togato e in sete di galera. Sarebbe bastata una pioggia sostenuta: arrivò il diluvio. Tangentopoli, coniugata con l’emozione sincera e unanime provocata dalle stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio, trasformò in pochi mesi i magistrati in eroi popolari, cavalieri senza macchia. Quello che era stato, e in larghissima misura ancora era, scontro tra poteri dello Stato divenne per quasi tutti l’epopea del bene contro il male. La politica si arrese e forse non poteva fare altro. Ci sono due episodi precisi che segnano quella disfatta. Il 5 marzo 1993 il ministro della Giustizia Giovanni Conso, uno dei più insigni giuristi italiani, varò un decreto che depenalizzava, con valenza retroattiva, il reato di finanziamento illecito ai partiti. I magistrati di Mani pulite e soprattutto l’intero coro dei grandi media insorsero. Per la prima volta nella storia il capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, rifiutò di firmare un decreto, facendolo decadere. Meno di due mesi dopo, il 29 aprile, la Camera negò, probabilmente in seguito a una manovra leghista coperta dal voto segreto, l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi, segretario del Psi assurto a simbolo stesso della corruzione. La sera dopo una folla inferocita contestò il leader socialista di fronte alla sua residenza romana, l’Hotel Raphael, a colpi di sputi e monetine. I due episodi delineano il quadro esauriente in modo esauriente: una furia popolare che s’identificava senza esitazioni con la magistratura, uno schieramento dei media quasi unanime e militante a sostegno dei togati, una debolezza della politica strutturale e irrimediabile, un potere dello Stato, la magistratura, in grado di presentarsi come ultimo baluardo, unico a godere di credibilità e fiducia. La parabola del giustizialismo, destinata a durare decenni, cominciò allora. I mesi seguenti furono una mattanza: la classe politica fu falcidiata tutta. Non mancarono suicidi eccellentissimi, come quelli di Gabriele Cagliari, ex presidente Eni, e Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi-Montedison, il 20 e il 23 luglio. Ma già nel 1994 la situazione appariva molto diversa. Abbattuta la prima Repubblica, con Berlusconi trionfante in nome non della continuità ma al contrario della rottura col passato in nome della “rivoluzione liberale”, sembrò per qualche mese che fossero in campo due poteri di pari forza. Berlusconi, uomo alieno da tentazioni belliche, provò subito a risolvere a modo suo: assorbendo le toghe nel nuovo sistema di potere. Offrì a Di Pietro e D’Ambrosio, due magistrati di punta di Mani Pulite, posti da ministri. Rifiutarono e fu subito chiaro che lo showdown era solo questione di tempo. Anche in questo caso due date bastano a restituire l’intera vicenda. Il 13 luglio 1993 il ministro della Giustizia del governo Berlusconi varò un decreto che limitava fortemente l’uso della custodia cautelare, strumento principe delle inchieste sulla corruzione ma effettivamente più abusato che usato. I magistrati di Mani pulite contrattaccarono, chiesero in diretta tv il trasferimento. I partiti che sostenevano il governo, Lega e An, si schierarono contro il dl, che fu ritirato. Poi il 21 novembre, arrivò l’invito a comparire per Berlusconi, anticipato dal Corriere della Sera prima che il diretto interessato fosse messo al corrente. Il governo cadde meno di due mesi dopo. Per registrare tutte le battaglie e le scaramucce, gli agguati e gli scontri frontali dei decenni successivi ci vorrebbe un’enciclopedia. Nel mirino delle inchieste finirono a valanghe, incluso l’emblema stesso di Mani pulite, Antonio Di Pietro. Un paio di governi furono travolti. Il solo tentativo serio di riformare la Costituzione, la bicamerale presieduta da Massimo D’Alema fallì per il pollice verso del potere togato, che si oppose all’allargamento della riforma anche al dettato sulla giustizia. Nel nuovo secolo quella spinta popolare e populista che vedeva nei magistrati i suoi campioni e nel carcere la panacea, trovò, come era forse inevitabile una rappresentanza politica, il M5S e arrivò, come era invece forse evitabile, a vincere le elezioni del 2018. E’ possibile che quell’apparente trionfo sia destinato a passare alla storia come l’avvio del tramonto. Il fallimento del M5S e la sua progressiva “normalizzazione”, gli scandali che hanno demolito, con il caso Palamara, la credibilità della magistratura, l’avvio di riforme in controtendenza rispetto alla temperie giustizialista, infine alcune sentenze clamorose, come quella sulla trattativa segnano forse la fine di una fase durata una trentina d’anni. Non è escluso che la secca dichiarazione del vero leader dei 5S, Di Maio, sull’esito del processo che ha smantellato l’intera visione della storia italiana del Movimento, quello sulla trattativa, “Le sentenze si rispettano”, sia la campana a morto per la lunga festa del giustizialismo italiano.

Tiziana Parenti: «I miei ex colleghi di Mani pulite puntavano alla presa del potere». «Nel 1993 all’interno della magistratura, inclusa la Procura di Milano, ci si era convinti che l’ordine giudiziario dovesse assumersi una responsabilità anche politica. Poi l’avvento di Berlusconi sparigliò tutto, le toghe ripiegarono verso una sclerotizzazione burocratica. Ma nelle loro previsioni c’era ben altra prospettiva». Errico Novi su Il Dubbio il 14 settembre 2021.

«Erano convinti di doversi assumere la responsabilità del potere».

Di dover cambiare l’Italia attraverso le indagini?

«No, anche di assumersi direttamente la responsabilità del potere politico».

Tiziana Parenti, da tempo ormai avvocato del Foro di Genova e dunque lontana non solo dalla toga di pm ma anche dallo scranno parlamentare, è una figura atipica nella storia a di Mani pulite. Corpo estraneo rispetto al resto del Pool, presto convintasi a lasciare la Procura milanese e la magistratura e a schierarsi in politica con Forza Italia, ha già raccontato altre volte delle iperboli che, a suo giudizio, hanno pesato sul percorso degli ex colleghi. Stavolta lo fa a poche ore dal nuovo scontro fra Piercamillo Davigo e Francesco Greco.

Non finisce nel migliore dei modi, avvocato Parenti, l’epopea di Mani pulite e della mitica Procura di Milano anni Novanta.

Distinguiamo però le due cose. Francesco Greco non ha fatto parte del Pool all’epoca di Tangentopoli, Davigo sì. Ma è vero che le nuove tensioni mostrano quanto sia pericoloso per la magistratura eccedere nel protagonismo. Finisce male perché a un certo punto alcuni magistrati, inclusi i miei ex colleghi di Milano, hanno smesso di intendere la loro funzione in termini di esclusiva ricerca della giustizia rispetto al caso concreto.

In che senso?

Hanno ritenuto di doversi assumere una responsabilità più grande, di doversi fare carico di un progetto di cambiamento del Paese in cui appunto sarebbero stati protagonisti.

Be’, in effetti con Mani pulite sono diventati fatalmente protagonisti: hanno disarcionato la politica.

Sì ma, non saprei dire se per un inappropriato senso di responsabilità, in quella parte della magistratura, Procura di Milano inclusa, si era radicata la convinzione che alcuni esponenti del mondo togato potessero anche impegnarsi direttamente in politica, pur senza cercare collocazione in uno dei pochi partiti sopravvissuti. E certo il clima di Mani pulite, nel 93, ha esasperato questa convinzione.

Nel Pool di Milano non si escludeva un impegno politico diretto di qualche componente?

Io non partecipavo ad alcune delle riunioni più delicate, innanzitutto a quelle in cui si discuteva dei filoni investigativi dei quali non avevo diretta competenza, quelli sui partiti di governo. Io ero la sola a lavorare sul Pds. Ma posso dire, ad esempio, che c’era nei componenti storici del Pool la consapevolezza di un quadro politico successivo alle inchieste in cui la sinistra politica sarebbe rimasta sola o quasi.

Non eravate mica tutti di sinistra?

Assolutamente no, ma non era una questione ideologica. Certamente le idee politiche personali di ciascuno, nella Procura di Milano, erano assai diverse. Però, in un’ottica in cui la magistratura avrebbe avuto un proprio peso politico, il Pds, la sinistra, rappresentavano certamente l’interlocutore ritenuto, dalle toghe, più adeguato al realizzarsi dell’obiettivo.

Le sue sono affermazioni impegnative.

Ma come sa non è la prima volta che ne parlo. Il progetto di una magistratura più influente sul quadro democratico generale inizia, se è per questo, una trentina d’anni prima di Mani pulite. Con la lotta al terrorismo, le leggi speciali, alcune garanzie ottenute dall’ordine giudiziario, non esclusi i 45 giorni di ferie e l’incremento della retribuzione. Mani pulite è semplicemente il momento in cui la magistratura comprende che il principale ostacolo al compiersi di quel progetto generale, vale a dire i partiti della prima Repubblica, era stato eliminato, e che dunque il campo era più libero.

Siamo partiti da quel clima, ci troviamo con uno scontro molto duro fra Greco e Davigo: come si spiega?

Non si può fare a meno di recuperare la storia. Primo, Silvio Berlusconi era un altro interlocutore che la Procura di Milano riteneva prezioso, durante la fase originaria dell’inchiesta. Con le sue tv, ricorderete i report di Andrea Pamparana, diede grande risonanza al lavoro del Pool, e al pari del Pds era considerato, seppur per motivi diversi, una controparte appunto utile.

Cosa si diceva di Berlusconi a Palazzo di giustizia?

A me parve di capire che non vi fosse alcuna intenzione di coinvolgerlo nelle indagini.

E poi che è successo?

Che Berlusconi ha sparigliato il tavolo: inventa Forza Italia, vince le elezioni e occupa il centro della scena, il vertice della politica.

Cos’altro avrebbe dovuto fare?

Io mi candidai con Forza Italia. Gli dissi: “Presidente, temo che una sua nomina a presidente del Consiglio possa provocare ricadute sfavorevoli sul piano giudiziario”. Mi rispose: “Ho vinto le elezioni, perché non dovrei diventare capo del governo?”. Come dargli torto. Ma la mia fu una facile previsione.

Berlusconi quindi potrebbe essere, lei dice, la variabile che ha alterato la prospettiva immaginata dalla magistratura.

Lo fu. Berlusconi è l’antitesi di un processo storico. La sintesi successiva ha visto la magistratura trasformarsi da forza di potere, con prospettive anche propriamente politiche, a potere solo burocratico, che è stato comunque forte ma ha finito per sclerotizzare la giustizia. I riti del potere giudiziario, la difesa delle prerogative, sono la prima vera causa delle lentezze.

Lei operò ha lasciato anche la politica, nel 2001: perché?

Fu insopportabile la delusione per la Bicamerale. Ci avevo lavorato. Credevo nella possibilità di poter inserire, fra le riforme condivise, anche quella della giustizia. Berlusconi, bombardato dalle indagini, decise di lasciare il tavolo. Compresi le sue motivazioni, ma per me fu un colpo troppo pesante.

Ha letto però l’intervento di Berlusconi a proposito di giustizia uscito domenica sul “Giornale”? Le è piaciuto?

Molto, parla di princìpi per i quali avrei voluto battermi, dalla separazione delle carriere all’inappellabilità delle sentenze di assoluzione e, soprattutto, ai limiti nell’adozione delle misure cautelari.

Ma se il Cav le chiedesse di tornare in politica per dedicarsi di nuovo alla giustizia?

Mi farebbe piacere impegnarmi di nuovo, credo nei princìpi costituzionali, nella loro affermazione. Mi impegnerei volentieri, se si tratta di battersi per la giustizia sono sempre pronta ad accettare la chiamata.

Senta, ma in fondo può essere anche comprensibile che il caos generato da Mani pulite inducesse in alcuni magistrati la convinzione di dover assumere su di sé il peso di un potere devastato?

Può darsi che la devastazione politica prodotta da quell’inchiesta abbia in effetti suscitato in una parte della magistratura la convinzione che, spianato il deserto, occuparsi del potere diventava doveroso, necessario. Non lo so, ripeto: a certe riunioni io non partecipavo, ero esclusa. Ma l’aria che si respirava nella magistratura italiana, nel 1993, era quella. D’altronde, un conto è cercare la verità su un fatto specifico, altro è assumere iniziative che rovesciano il Paese come un calzino.

Era esagerato?

Direi di sì, e probabilmente la durezza di quell’indagine fu incoraggiata anche da potenze straniere, che non avevano più bisogno della classe dirigente grazie alla quale, per l’intero dopoguerra, l’Italia era rimasta un’avanguardia contro l’avanzare del comunismo.

Lei è stata nel Pool di Mani pulite, seppur per un tempo limitato. È una testimone diretta.

Appunto. Pochi meglio di me possono parlare di quel periodo. Di cosa circolasse nella magistratura. C’era un’idea di potere da assumere, in modo anche diretto. Poi Berlusconi si è frapposto e quell’idea è svanita. Ma a quale prezzo, almeno per Berlusconi, lo abbiamo visto.

A cosa si riferisce?

Berlusconi è stato al centro di una vicenda giudiziaria che ha assunto anche tratti persecutori. Ripeto: prima del 1994 non c’era un magistrato che avesse detto “Silvio Berlusconi finirà sotto indagine”. Poi Forza Italia vinse le elezioni e nulla fu più come prima.

Filippo Facci: «Dopo Mani pulite, partiti e giusto processo non si sono più ripresi». Il giornalista Facci al Dubbio: «A parte la vicenda di Di Pietro, i magistrati di Milano dimostrarono di avere un potere superiore a quello del Parlamento». Errico Novi su Il Dubbio il 16 settembre 2021. «È cambiato tutto. Nulla è più come prima. A cominciare dal Codice Vassalli- Pisapia dell’ 89: non è mai più stato com’era prima di Mani pulite. E la politica non si è mai ripresa, da allora. Anzi non c’è. Non esiste. Ci sono i curatori fallimentari, i tecnici, figure estranee ai partiti che fanno le riforme altrimenti impossibili». Con Filippo Facci si potrebbe trascorrere un pomeriggio intero, anzi più di uno, a parlare del ’ 93, e a spiegare l’eredità mortifera lasciata da Mani pulite. E ci vorrebbero molte pagine d’intervista, perché da giovane cronista giudiziario dell’Avanti!, Facci, oggi commentatore di Libero fu tra i pochissimi giornalisti italiani a non accettare il “verbo” del Pool, e a cercare di raccontarlo diversamente. A breve pubblicherà un libro, per celebrare in anticipo i trent’anni dall’inchiesta spartiacque della democrazia italiana.

Tiziana Parenti ci ha raccontato che nel ’ 93 i pm di Milano non escludevano un impegno diretto della magistratura in politica.

Distinguiamo: Di Pietro si è impegnato eccome, lo sappiamo. Agli altri è bastato condizionare persino le scelte legislative, con una forza superiore al Parlamento, ma senza lasciare la toga. Fanno fede due casi clamorosi: la pronuncia sul decreto Conso e l’altolà televisivo al decreto Biondi.

Era il consenso popolare a incoraggiare certe forzature?

Secondo Di Pietro c’era il rischio che “l’acqua non arrivasse più al mulino”, cioè che le confessioni si interrompessero e che non si potesse andare avanti. E tutto era possibile in virtù dell’insofferenza verso le forze del pentapartito che si radica nell’opinione pubblica dopo l’ 89, si manifesta con le elezioni del ’ 92, favorisce la particolare durezza di Mani pulite con il Psi prima e con la Dc poi. Lo stesso Borrelli confessò che il Pool sceglieva determinati obiettivi secondo le possibilità del momento. Altro che obbligatorietà dell’azione penale. E poi certo, il consenso esaltante spinse anche a osare di più, agli editti televisivi, e a fare giurisprudenza.

A cosa ti riferisci?

Mani pulite ha innescato un effetto a catena capace di rovesciare il Codice Vassalli- Pisapia nel suo contrario. C’è un prima e un dopo. Al Pool di Milano, per Mario Chiesa, servirono flagranza di reato, banconote segnate, un registratore, le confessioni di Luca Magni, si provò a usare senza successo persino una telecamera. Ma fino ad allora era quasi sempre così non solo per quei pm. Pochi mesi dopo, per procedere a un arresto, divenne sufficiente che qualcuno vomitasse mezzo nome e che quel nome finisse opportunamente sui giornali. A quel punto andavi di manette, nessuno protestava e per i gip era tutto a posto.

Mani pulite è stata lo spartiacque, per gli eccessi sulla custodia cautelare?

Lo è stata rispetto a una serie di stravolgimenti ad ampio raggio del Codice dell’ 89, avvalorati in seguito da varie Corti d’appello fino alla Consulta. Se il perno del processo accusatorio consiste nel dibattimento davanti al giudice terzo che si svolge nella parità tra le parti, secondo il principio dell’oralità nella formazione della prova, con Mani pulite arriviamo al punto che i verbali estorti in galera diventano prove, e se poi in Aula il teste non conferma tutto, finisce indagato per calunnia. A trent’anni da quell’inchiesta non siamo ancora fermi a quel punto ma i segni lasciati dal 1993 si vedono ancora.

Politica e magistratura sono tuttora due incompiute per via di quel trauma?

È un discorso che richiederebbe molte ore. Possiamo partire da alcune certezze. Dopo l’ 89 tutto il mondo è cambiato, ovunque la tecnocrazia si è intrecciata al populismo, ma in nessun altro posto il cambiamento è venuto da una rivoluzione giudiziaria. Avvenne perché con la fine della guerra fredda cambiò anche la considerazione che gli Stati Uniti e in generale le forze occidentali avevano del nostro Paese. Cossiga lo previde con largo anticipo in un paio di interviste rilasciate in Inghilterra e Francia, in Italia gli diedero del matto. Ma nonostante i presupposti che ho ricordato, Mani pulite non fu conseguenza di un complotto. All’arresto di Mario Chiesa, i pm di Milano mai avrebbero immaginato cosa sarebbe avvenuto. Pensavano di chiudere tutto per direttissima. Poi Borrelli ammise che per la loro indagine la svolta venne dal risultato elettorale dell’aprile ’ 92. Cambiarono gli equilibri, la magistratura fiutò l’insofferenza e processò un intero sistema. Il gip Italo Ghitti ammise: il nostro obiettivo non era giudicare singole persone ma abbattere un sistema.

Al punto che tra i pm maturò l’idea di dover fare politica in prima persona?

Non ne ebbero bisogno, al di là di quanto avvenne in seguito con Di Pietro. Fare politica vuol dire occupare uno spazio lasciato da altri, dalla politica appunto. Assumere un potere che travalica quello del Parlamento, come avvenne con i decreti Conso e Biondi. Borrelli stesso ammise che in quei casi si verificò uno sconfinamento.

Obbligatorietà dell’azione penale: nel ’ 92 è caduto anche quel principio?

Indagarono sul Pds, certo. Dopo Tiziana Parenti, lo fece Paolo Ielo. Ma farlo nel 1993, dopo aver prima puntato Craxi e il Psi, fu una scelta dirimente, e discrezionale. Non basta, per spiegarla, la maggiore difficoltà nel ricostruire i finanziamenti illeciti del Pci. Certamente quel metodo discrezionale ha cambiato l’orientamento della magistratura requirente. L’imprinting è rimasto, l’obbligatorietà è una barzelletta.

Berlusconi ha ereditato un po’ dell’antipolitica di Mani pulite?

Anche con una certa arroganza, se vuoi, io credo di essere tra i massimi esperti della storia di quegli anni, non foss’altro per l’immenso archivio che tuttora ne conservo, e posso dire che Berlusconi è un punto chiave dell’antipolitica italiana. Aveva compreso subito quanto fosse cambiato il vento: nel ’ 92 sconsigliò a Craxi di tentare la scalata alla presidenza del Consiglio, e gli disse di puntare casomai al Colle. Poi nelle convention di Publitalia cominciò a fare discorsi diversi dal solito, a dire che se ci fossero stati al governo pochi imprenditori come lui, avrebbero cambiato il Paese.

Oggi basta un guardasigilli di grande levatura come Marta Cartabia a dire che la politica ha riguadagnato il primato della democrazia in Italia?

Vuoi riformare la giustizia? Devi sapere che con la magistratura non c’è possibilità di mediazione. Nessuno collabora alla sottrazione del potere che detiene. Perché dovrebbero farlo i magistrati? La politica, da allora, dal 1992, non solo non è mai più tornata davvero autorevole: semplicemente non c’è. Gli unici che funzionano sono appunto i tecnici, i curatori fallimentari, che per definizione non mediano: semplicemente tagliano i rami secchi. Se pensiamo di cambiare la magistratura e il suo rapporto con la politica, non c’è altra strada che a farlo sia chi con la politica non c’entra nulla.

Giustizia, Andrea Pamparana: "Il sistema è marcio", l'ombra del ricatto della magistratura alla politica. Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 20 settembre 2021. «Alla fine di tutto questo non cambierà nulla». I verbali sulla loggia Ungheria, e prim'ancora i contenuti del libro "Il Sistema", in cui il direttore di Libero Alessandro Sallusti dialoga con Luca Palamara sulle degenerazioni della magistratura, stimolano una lunga chiacchierata con Andrea Pamparana. Giornalista di rango, che annovera nel curriculum la vicedirezione del Tg5, rubriche e libri in quantità. Ma, soprattutto visse e raccontò l'inchiesta di Mani Pulite.

Cosa insegna la cronaca dei verbali sulla presunta Loggia Ungheria?

«È tutto un deja-vu. Un "già visto". Quando leggo di questa cosa, o dei meccanismi ben illustrati nel libro Sallusti-Palamara, mi viene da dire: ci meravigliamo? Ci stupiamo che vengano passati dei verbali a dei giornalisti? La risposta è no. Ma sono cose che in realtà dovrebbero farci paura, il sistema è marcio».

Perché è marcio?

«Per due elementi. Il primo è quello che venne individuato da Giovanni Falcone con il termine "pentitismo". In Italia, purtroppo, non si ha il modello del "collaboratore di giustizia" all'americana, che se non racconta le cose vere non ha alcuna protezione e subisce delle conseguenze. Da noi il primo "pentito" che dice qualcosa contro l'avversario politico di turno diventa "la verità". E tutto finisce sui giornali».

Quindi il caso Amara è pentitismo?

«Nello specifico non lo so, ma vedo che l'uscita dei verbali ripercorre quel meccanismo. Quanto sento dire che un magistrato molto importante andato in pensione, che faceva parte del Csm e io personalmente ho sempre stimato, parlo di Davigo ovviamente, si meraviglia che il verbale sia uscito tramite la sua segretaria, vorrei ricordare come uscì la notizia del famoso invito a comparire a Silvio Berlusconi a Napoli, durante un vertice internazionale».

1994. Come uscì?

«Per un giro interno tra giornalisti...».

E Procura?

«Certo! Ma secondo voi davvero possiamo credere che un Procuratore è così ingenuo da consegnare lui al giornalista, magari amico, il verbale? Gli strumenti per fare arrivare i documenti a chi di dovere sono infiniti. E' il perverso gioco dell'informazione che si è "appecoronata" al potere della magistratura».

Il secondo elemento, invece?

«La mancanza di quel che l'avvocato Giuseppe Frigo, illustre, poi diventato componente della Consulta, definì "un atto di civiltà", ossia la separazione delle carriere».

In che modo questa potrebbe interrompere il coagulo mediatico-giudiziario?

«Perché avresti due comparti precisi, tra magistratura giudicante e magistratura inquirente, e perfetta simmetria tra accusa e difesa, con il giudice a vigilare al di sopra delle parti. Attualmente, questo non avviene, e anche nell'eventualità in cui il pm dovesse chiedere l'assoluzione per l'imputato, quest' ultimo nel frattempo è già stato sputtanato a livello mediatico».

La separazione delle carriere è uno degli elementi dei referendum di Lega e Radicali. Questo, assieme a quanto uscito sulla Loggia Ungheria e le rivelazioni di Palamara, portano ad un'accresciuta sensibilità collettiva sul tema. Ci sarà la spinta per una complessiva riforma?

«No».

Perché?

«Quanti referendum abbiamo fatto che poi non sono stati applicati? Accadrà anche questa volta. Alla fine ci sarà qualche piccola modifica della normativa che renderà vano quel referendum».

Eppure dovrebbe essere anche interesse della politica recuperare il suo primato.

«Certo, sempre però che la politica non sia al servizio o sotto ricatto della magistratura. Ricordo che c'è più volte stata occasione per farla, la riforma. I governi Berlusconi avevano un forte mandato popolare».

Neanche allo strapotere delle correnti si metterà mano?

«Può darsi che su quel lato uno scossone ci sia, ma dipenderà dal nuovo presidente della Repubblica. Cossiga, che tutti davano per folle, mandò i carabinieri al Csm, ma sono passati più di trentacinque anni!».

Nel '92 la Procura di Milano era il santuario del moralismo. Oggi abbiamo due protagonisti di allora, Greco e Davigo, l'uno contro l'altro. Che lezione se ne trae?

«Mi ricorda certi duelli del lunedì mattina sul calcio tra due immensi avvocati, Peppino Prisco, interista, e Vittorio Chiusano, che è stato presidente della Juve. Delle boutade».

Tutta scena?

«A parte il fatto che il pool era meno unito di quanto si possa pensare, direi di sì. Per carità, è una cosa anche rilevante, ma finirà in nulla. Tanto, dopo Greco e Davigo, arriverà qualcun altro che sarà incensato dagli aedi del Fatto Quotidiano e continuerà a fare quel che molti magistrati hanno sempre fatto: politica».

Trent’anni fa un’inchiesta sull’Eni distrusse i partiti, oggi colpisce la procura più importante d’Italia. Enzo Carra su tpi.it il 20 Settembre 2021. “I politici non riusciranno a cambiare la giustizia.” Non ha dubbi il vecchio cronista che negli anni di Mani Pulite batteva i corridoi della Procura di Milano a caccia di poveri cristi tramortiti dagli interrogatori del Pool e spulezzava quando quelli non gli rispondevano. Ha ragione Andrea Pamparana (Libero del 20 settembre), fin qui la politica ha fatto poco, in compenso il caso e la necessità hanno provveduto al resto. Il caso si chiama Eni. Sono state infatti due inchieste intitolate alla stessa multinazionale a innalzare prima la procura milanese a Sancta sanctorum del diritto e a quartier generale nella lotta alla corruzione in politica, per trasformarla adesso nel luogo dove si sta consumando un’incredibile vicenda che divide e annebbia gli eponimi di Mani Pulite. Prima viene la tangente Enimont, “la madre di tutte le tangenti”: una “provvista” di 140 miliardi di lire, oltre 70 milioni in euro, per partiti di governo e d’opposizione e per faccendieri sciolti e in pacchetti. La scoperta rappresenta il punto di svolta, definitivo, di Mani Pulite, il suo trionfo. Antonio Di Pietro e Francesco Greco sono i due sostituti che hanno lavorato su Enimont, ma il merito è di tutto il pool e il risultato è che le mura già pericolanti di un sistema politico figlio della Resistenza crollano tra le lacrime di pochi e la gioia di tanti. La Magistratura italiana ha sconfitto il malaffare politico. Corsi e ricorsi. Poco meno di trent’anni dopo, alla Procura di Milano torna a bussare l’Eni. È il processo Eni-Nigeria, ovviamente per corruzione. Se ne occupa Francesco Greco, il quale si avvale delle dichiarazioni di un dipendente dell’Eni e di un ex legale “esterno” – qualunque cosa voglia dire “esterno” – della nostra multinazionale, Pietro Amara. Questi, secondo il pm Paolo Storari è troppo importante per quel processo, la procura “lo tiene in palmo di mano” e quindi non si procede per appurare se ha detto o no la verità anche su altre questioni: affari, logge segrete, promozioni, insomma il paroliere italiano. Storari quindi decide di tirare le orecchie a Greco e, in modo quantomeno “irrituale”, muove le carte che giacciono in procura a Milano e le consegna a Davigo, che a quel tempo è ancora componente del Csm. Lui ne parla con alti rappresentanti delle Istituzioni, contando forse sulla loro collaborazione nella sua campagna contro Greco e comunque sul loro silenzio: ma come fai a tenere a lungo un segreto così a Roma? A far casino ci pensa la sua ex segretaria la quale, per impedire il pensionamento del suo capo, diffonde le carte ad alcuni giornali “amici”. Lo scandalo, si illude, potrebbe prolungare la permanenza di Davigo al Palazzo dei marescialli. E che scandalo, a tanti anni dalla P2 ecco a voi un’altra loggia, più piccola, esclusiva, ma potente, parola di Amara. La nuova loggia si chiama Ungheria, ma ha sede in Roma ed è responsabilità di Greco aver tenuto nascoste quelle preziose informazioni per tanto tempo. Eppure, lì per lì, niente: i giornali non pubblicano le carte della ex segretaria, chissà perché. Mesi dopo, però, uno di loro, Il Fatto quotidiano, ci ripensa ed esce. Nel consueto “c’era questo e c’era quello” di ogni rubrica mondana: tanti bei nomi. Prevedibilissimi, sembra la short list di un ricevimento per “pochi ma buoni” in un palazzo del potere. I fratelli di Amara. Certo però se trent’anni prima un’inchiesta targata Eni aveva distrutto i partiti, oggi un processo che assolve l’Eni colpisce duramente la procura più importante d’Italia e l’immagine della magistratura italiana. Perché Amara può aver raccontato qualche verità in mezzo a un sacco di balle, ma le querele tra Greco e Davigo, l’affanno televisivo di quest’ultimo e lo smarrimento dell’opinione pubblica restano, e pesano. Corsi e ricorsi.

ENZO CARRA. Enzo Carra è un giornalista e politico italiano. Redattore capo del mensile "Il Dramma" ha successivamente lavorato per molti anni al quotidiano romano "Il Tempo" e ha scritto per il cinema e la TV. Ha realizzato alcuni reportage per la TV, tra questi un ritratto di Gheddaffi e uno di Madre Teresa di Calcutta. Dal 2021 collabora con TPI

Da ilsussidiario.net il 16 settembre 2021. Secondo quanto riporta Il Fatto Quotidiano, Piercamillo Davigo avrebbe denunciato il procuratore di Milano Francesco Greco, in seguito all’intervista rilasciata da quest’ultimo al Corriere della sera nella quale ha sganciato una serie di “bombe” e pesanti accuse nei confronti dell’ex collega del pool di Mani pulite. “In realtà la notizia della denuncia l’ha data solo Il Fatto Quotidiano” ci ha detto in questa intervista Frank Cimini, giornalista già al Manifesto, Mattino, Agcom, Tmnews e attualmente autore del blog giustiziami.it, “ma Il Fatto Quotidiano e Davigo sono una cosa unica, per cui sarà senz’altro vero”. Siamo all’ultimo scontro, quello finale, alla resa dei conti all’interno di una Procura, quella di Milano, sconvolta ormai da mesi da lotte intestine e indagini penali e disciplinari. Una frana che si porta dietro anche Mani pulite, considerata per anni il volto buono della giustizia italiana: “Mani pulite avrebbe dovuto scomparire già nel 1993 – sottolinea Cimini – ma allora i magistrati avevano il consenso di milioni di italiani che si erano fatti abbindolare. Anche Berlusconi ci credeva, poi l’ha pagata in prima persona. Greco nella sua intervista ha detto un sacco di sciocchezze, è la fine di una bruttissima pagina della giustizia, ma in realtà con una politica incapace di prendere decisioni non ne veniamo fuori”.

A che livello siamo arrivati in questo scontro tra magistrati?

Siamo arrivati alla fine che queste persone dovevano già fare nel 1993. 

Perché non successe allora?

Non successe perché avevano il consenso di 50 milioni di persone, che non capivano nulla e che si sono fatte abbindolare. Avevano un consenso popolare assolutamente immotivato e ingiustificato, che però fu lo strumento con cui sono andati avanti, udienza dopo udienza, per trent’anni.

I magistrati di Mani pulite non erano sinceramente convinti di essere super partes, di fare un’opera di pulizia?

No, loro volevano il potere. E la politica, con le decisioni assunte negli anni del terrorismo, li aveva aiutati. Per cui i magistrati volevano riscuotere quel credito e volevano il potere. Ci fu la famosa intervista di Borrelli in cui disse al Corriere: “se dovessimo essere chiamati per una missione di complemento noi saremmo pronti”. 

Una roba stile dittatura sudamericana?

In nessun paese del mondo civile può succedere una cosa del genere. I magistrati sono dei vincitori di un concorso che devono indagare le prove e portare le persone davanti a un tribunale. 

Invece?

Questi pensavano a tutt’altro. 

Davanti a tutto quello che stiamo vedendo, si può dire oggi che Berlusconi è stato perseguitato?

Sono vere le due cose. Berlusconi ha avuto delle colpe precise, sto parlando di evasione fiscale. Però è vero che ce l’avevano con lui ed è anche vero che se l’80% dei processi erano fondati, l’altro 20%, ad esempio quello su Ruby, ha dimostrato che c’era accanimento nei suoi confronti. Berlusconi non aveva capito niente, all’inizio Mani pulite andava bene anche a lui, quando le sue televisioni con Brosio dietro al tram facevano da megafono al pool. In realtà tutto divenne chiaro dall’estate del ’93 quando arrestarono il manager Fininvest Aldo Brancher, un ex sacerdote braccio destro di Fedele Confalonieri. Berlusconi invece aveva detto che c’era bisogno di Mani pulite perché c’era bisogno di pulizia, ma la pulizia non si fa così, indagando dove si vuole e chi si vuole, con sponde politiche, lasciando fuori dalle indagini Pci e Pds, e i poteri forti come Mediobanca e Fiat.

Adesso si scannano tra loro, è così?

Quello che sta succedendo adesso è la giusta fine di questa storia. Litigano fra loro, l’uso delle carte giudiziarie contro gli avversari lo praticano anche loro e lo praticano tra loro. 

Greco con l’intervista al Corriere ha sparato diverse “bombe”, però fra due mesi va in pensione e sparisce dalla scena…

Greco considera quell’intervista il suo testamento morale e dice un sacco di cose che non stanno in piedi.

Ad esempio, sostiene di aver recuperato un sacco di soldi per l’erario, ma in realtà ha abdicato alla sua funzione sostituendosi all’Agenzie delle entrate nelle vicende dei colossi del web e questi hanno pagato un decimo di quello che avrebbero pagato se fossero andati a processo. 

E comunque il compito di un procuratore non è quello di recuperare soldi per il fisco, ma di portare le persone in tribunale per appurare se sono colpevoli o innocenti. 

Se ne va auto-incensandosi?

Straparla di questo pool dei reati transnazionali, che in realtà ha incassato in tribunale un sacco di sconfitte. La cosa brutta non è tanto questa, quanto il fatto che per cercare di rivoltare la frittata hanno mandato a Brescia delle fandonie di Amara che mettevano in cattiva luce il presidente del tribunale nella speranza che si astenesse dal processo, in modo che fosse svolto da un altro. E sperando così di vincerlo. Hanno fatto manovre da magliari.

Ci sarebbe da ridere se in mezzo non ci fossero i cittadini italiani e la giustizia.

Mi ricordo le parole di D’Ambrosio quando una volta gli dissi: ma Greco che cavolo combina? 

Cosa rispose?

Disse: sulle cose che fa Greco nessuno di noi ha il coraggio di dire qualcosa. Un’altra volta Greco, per la storia di toghe sporche, fu avvicinato a Roma dal magistrato Francesco Misiani che voleva sapere di chi era la microspia trovata nel bar Tombini di Roma (intercettazioni telefoniche tra l’allora capo della Procura di Roma, Michele Coiro, e il capo dei gip, Renato Squillante, ndr).

Greco non rispose, giustamente mantenendo il segreto, però tornato a Milano denunciò Misiani a Borrelli. Gli dissi: ma non ti vergogni a denunciare il magistrato di cui sei stato uditore giudiziario? Lui rispose: se non l’avessi fatto, la Boccassini mi avrebbe arrestato.

Però, proprio un bell’ambientino…

Sto parlando del 1996, erano già pronti ad arrestarsi fra loro.

Di tutto questo, a noi cittadini cosa resta?

Bella domanda. Intanto l’Italia ci ha messo trent’anni a capire che razza di gente erano davvero, e poi non è proprio così. L’intervista a Greco è stata liquidata in poche righe dall’Ansa, nessun politico ha fatto un commento. Purtroppo siamo in una fase storica in cui la politica non esiste, esiste solo Draghi. 

(Paolo Vites)

Firmato Repubblica, Ezio Mauro: "Così nacquero le 10 domande di D'Avanzo a Berlusconi". Pasquale Quaranta su La Repubblica il 30 luglio 2021. Dieci anni fa moriva Giuseppe D’Avanzo, un grande giornalista di Repubblica. Nel 2009, dopo le rivelazioni sulla vita privata di Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, originate dalla lettera a Repubblica di sua moglie Veronica Lario, D’Avanzo pose 10 domande al capo del governo: “Ha frequentato minorenni? Ha ricompensato con candidature e promesse politiche le ragazze che la chiamano papi”? Si è intrattenuto prostitute? Può essere ricattabile?”. I quesiti furono rinnovati sul quotidiano per sei mesi, ma D’Avanzo e Repubblica non ottennero risposte. In compenso, l’iniziativa guadagnò risonanza internazionale. Nella nuova puntata della rubrica “Firmato Repubblica”, Ezio Mauro, allora direttore di Repubblica, ricorda quella campagna e il suo autore Giuseppe D’Avanzo, “cronista del potere”, che inventò così una formula del giornalismo italiano.

Niccolò Ghedini contro Il Fatto Quotidiano di Travaglio: "Campagna diffamatoria". Soldi, l'ultima vergogna contro Berlusconi. Libero Quotidiano il 25 giugno 2021. Altra battaglia tra Silvio Berlusconi e il quotidiano di Marco Travaglio. A svelare l'ultima colata di fango, ormai abituale, è l'avvocato del leader di Forza Italia Niccolò Ghedini. "Anche quest’oggi Il Fatto Quotidiano continua nella sua diffamatoria campagna sulla provenienza di alcune asserite somme di denaro, che sarebbero pervenute in modo non trasparente 40/50 anni or sono a Fininvest e al presidente Berlusconi - è la premessa, salvo poi scendere nel dettaglio -. Per farlo cita in modo non corretto le dichiarazioni del dottor Giuffrida, che è stato invece chiarissimo e definitivo di fronte all’Autorità giudiziaria". Morale? "Nessuna opacità nei flussi di denaro". Ma le accuse del quotidiano manettaro di Travaglio non finiscono qui. Il legale del Cav ricorda al Fatto che "per quanto riguarda la sentenza di primo grado nei confronti del dott. Marcello Dell’Utri si deve ricordare che non solo non è definitiva, ma non riguarda in nessun modo Fininvest o il presidente Berlusconi, che non erano parti in quel processo". E come tale si tratta "di un passaggio motivazionale ancora sub judice senza alcun valore neppur indiziario". Nonostante questo il quotidiano si è ben visto da smentire le informazioni date a favore di quella che Ghedini definisce "realtà processuale correttamente rappresentata", nella "pervicace volontà di diffamare ancora una volta il Presidente Berlusconi e la Fininvest". Già dal titolo dell'articolo dedicato a Berlusconi, apparso nell'edizione del 25 giugno sul Fatto, si evince parecchio: "Il verdetto che smentisce Ghedini sui soldi di B". Nel pezzo a firma di Giuseppe Lo Bianco si legge che "l'origine dubbia dei capitali della Fininvest è stata indagata a metà degli anni '90 dalla Procura di Palermo in un'inchiesta nei confronti di Silvio Berlusconi per il reato di concorso in associazione mafiosa". Il Fatto riporta così gli atti dai quali emerge "una prima perizia del funzionario di Bankitalia Francesco Giuffrida che dopo avere rilevato 8 versamenti rimasti senza riscontro per alcune decine di miliardi di lire su conti Fininvest si riservava di verificare alcuni elementi in una seconda consulenza, che non fu mai disposta, per lo scadere dei termini di indagine". Poi, si legge ancora della "scarsa trasparenza o l'anomalia di molte delle operazioni finanziarie effettuate dalla Fininvest negli anni 1975-84 che non hanno trovato smentite nelle conclusioni del consulente della difesa". 

Marta Cartabia, il "Fatto": "Lettera del boss Graviano subito dopo il giuramento". Bomba di fango sulla ministra e su Silvio Berlusconi. Libero Quotidiano il 14 giugno 2021. Una lettera di Giuseppe Graviano indirizzata a Marta Cartabia, appena diventata ministro della Giustizia nel governo di Mario Draghi. A sganciare la bomba su via Arenula è il Fatto quotidiano, peraltro già schieratissimo a fianco del precedente Guardasigilli, il grillino Alfonso Bonafede. Secondo quanto riportato dal quotidiano diretto da Marco Travaglio, il boss di Cosa Nostra avrebbe preso carta e penna una decina di giorni dopo il giuramento dei ministri lo scorso 13 febbraio. "Impossibile conoscere il contenuto della missiva" del boss del Brancaccio, sottolinea il Fatto, "visto che l'ordinamento penitenziario non prevede il controllo della corrispondenza dei detenuti quando questi si rivolgono ad autorità come il capo dello Stato o il ministro della Giustizia". Ma è sufficiente alla redazione per avanzare dubbi e sospetti e chiedere a gran voce che quella lettera venga "divulgata dalla stessa Cartabia, in modo da chiarire anche tre interrogativi". Eccole, le tre domande del Fatto per la ministra: "Era a conoscenza della missiva a lei indirizzata dall'uomo condannato per le stragi di Roma, Milano e Firenze del 1993? Ha mai risposto? Lo hanno fatto i suoi uffici senza farglielo sapere?". Graviano già nel 2013 aveva scritto alla ministra della Salute Beatrice Lorenzin nel 2013 (governo di Enrico Letta) citando la "provenienza dei capitali per formare il patrimonio della famiglia Berlusconi" e "auspicando il coraggio di qualche politico per abolire la pena dell'ergastolo", ricorda sempre il Fatto. Nel 2020 sempre Graviano, al processo Ndrangheta stragista, assicurava: "Il ministero mi ha risposto che stava portando avanti tutto quello che avevo chiesto. Io avevo quella lettera, ma è scomparsa quando mi hanno trasferito ad Ascoli nel 2014". Come sempre quando si parla di boss, Cosa Nostra e pentiti, il confine tra verità, millanteria e fango è talmente labile da diventare indistinguibile. Ma il caso serve al quotidiano di Travaglio per spalare un altro po' di melma proprio su Silvio Berlusconi: "Il 31 agosto del 2013 si era fatto fotografare mentre firmava i referendum dei Radicali sulla giustizia: tra i 12 quesiti c'era anche l'abolizione dell'ergastolo. La soglia delle 500mila sottoscrizioni, però, non venne poi raggiunta. Otto anni dopo Forza Italia è tornata per la prima volta al governo. E Graviano ha scritto subito a un'esponente dell'esecutivo". Alla vigilia, nota sibillino il Fatto, "della sentenza della Consulta, che nell'aprile scorso ha decretato l'incostituzionalità della legge sull'ergastolo ostativo. Se il Parlamento non approva una nuova norma entro il maggio dell'anno prossimo, anche i boss irriducibili potranno sperare di ottenere la libertà vigilata dopo 26 anni di pena: non servirà aver mai collaborato con la giustizia, ma basterà dare prova di non essere più pericolosi". E pazienza se sul caso molti esperti smentiscano "l'automatismo" sulla scarcerazione dei boss e che lo stesso Niccolò Ghedini, storico avvocato del Cav, abbia definito "palesemente diffamatorie" le dichiarazioni di Graviano. Un'altra coincidenza che Travaglio e soci lasciano intendere come "sospetta"? Il fatto che la Cartabia, da presidente della Corte costituzionale, nel 2020 avesse definito "di particolare rilievo" la sentenza che ha dichiarato illegittimo il divieto di concedere benefici agli ergastolani condannati per mafia che non si fossero pentiti.

Felice Manti per "il Giornale" il 10 giugno 2021. «Beati i perseguitati dalla giustizia perché di essi è il regno dei cieli». Sarà contento Mimmo Lucano di essersi guadagnato il paradiso, almeno secondo il Vangelo di Matteo (5, 10) per colpa del processo che lo vede alla sbarra per favoreggiamento dell' immigrazione clandestina quando era sindaco di Riace, in Calabria. Al processo il pm Michele Permunian ha chiesto la sua condanna a 7 anni e 11 mesi (4 anni e 4 mesi per la compagna Lemlem Tesfahun) anche per associazione a delinquere, abuso d' ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d' asta e falsità ideologica per presunti illeciti nella gestione del sistema di accoglienza dei migranti nel centro della Locride. Tutte macchinazioni, dice lo stesso Lucano ai microfoni di KlausCondicio su Youtube, trasmissione condotta dal massmediologo Klaus Davi, che si paragona a una vittima della giustizia: «È una condizione che non vorrei augurare a nessuno, neanche alla peggiore persona». Nemmeno a Silvio Berlusconi, che Lucano - candidato in ticket con Luigi de Magistris a governatore della Calabria - ingaggia nel suo stesso «girone», quello dei perseguitati dalle toghe: «C' è sempre una dimensione umana che bisogna rispettare. Non è giusta la persecuzione, non è mai una giustificazione. Vale anche per Berlusconi come per qualsiasi altro essere umano». Per un Silvio Berlusconi «riabilitato» da sinistra - sulla falsariga di Michele Santoro - e un Matteo Salvini tutto sommato «risparmiato» («I lager di San Ferdinando e la rivolta dei neri non comincia con Matteo Salvini, con il quale non condivido nulla. Devo obiettivamente riconoscere che loro - i leghisti, ndr - non c' entrano nulla») c' è un uomo di sinistra su cui Lucano addensa luci inquietanti. «Le mie disgrazie coincidono con l' avvento di Marco Minniti al ministero dell' Interno - sibila Lucano - la mia percezione da imputato principale a Locri è che c' è stata una sorta di intelligence che stabilisce che sono pericoloso», aggiunge, lanciando una bizzarra ipotesi su fantomatici «apparati del sistema di questa area progressista» nel quale l' ex ministro dell' Interno, calabrese come Lucano, avrebbe «un ruolo centrale». «Una volta mi hanno invitato per parlare in maniera diretta a Reggio Calabria ma Minniti non è venuto», ricorda. Un' altra volta l' allora prefetto Luigi De Sena (poi diventato parlamentare Pd) gli avrebbe detto «attenzione che il vento sta cambiando, e proprio quelli che sono i tuoi amici potrebbero esserne la causa, perché stai facendo delle cose che involontariamente ribaltano i rapporti con i capi clan libici». Insomma, l' esperimento di Riace avrebbe dato fastidio a chi dall' immigrazione clandestina ci lucra. «E non escludo che nel 2018 la 'ndrangheta abbia chiesto alla Rai lo stop alla messa in onda della fiction dedicata a Riace», quella interpretata da Beppe Fiorello. Insomma, è la solita storia: servizi segreti, affari sporchi, 'ndrangheta e malagiustizia. In una parola, la Calabria.

Francesco Verderami per il "Corriere della Sera" il 10 giugno 2021. Prima legge che il grillino Di Maio chiede scusa per «l'uso della gogna come strumento di campagna elettorale». Poi legge che il democratico Bettini abbraccia i referendum sulla giustizia, sposando il quesito sulla separazione delle carriere dei magistrati. E allora si inalbera: «Se ne sono resi conto solo ora a sinistra?». Perché quelle erano (e restano) le sue parole d' ordine, per più di vent' anni infatti Berlusconi le ha usate come cavalli di battaglia politici, mentre i suoi legali si attardavano sui cavilli giuridici. Perciò non poteva restare indifferente davanti a un cambio di linea che gli appare per metà epocale e per metà strumentale, siccome è avvenuto alla fine di un'era in cui il suo scontro con le «toghe rosse» è stato parte del duello con «i rossi». Il mondo cambia, ma la giustizia resta il chiodo fisso del Cavaliere. Certo, nelle discussioni che affronta c' è spazio per le sorti del partito, per le memorie di governo, per i sogni quirinalizi, ma a quanti in queste settimane lo chiamano per sapere come sta, lui risponde ogni volta: «Sto meglio, grazie. Sono i giudici la mia malattia». Così torna sempre sul luogo del diritto, da dove in realtà non si è mai spostato. D' altronde, dopo «36 processi e oltre 3.000 udienze» (il dato è in costante aggiornamento) e dopo aver speso «770 milioni in avvocati» (il fixing è del 2018), ormai gli viene d' istinto. Era ovvio quindi che Berlusconi reagisse. E se non pensava potesse accadere, non immaginava potesse continuare. Invece il segretario del Pd - pochi giorni dopo - è andato in tv per presentare le sue proposte sulla giustizia, per spiegare che «noi siamo per garantire l’indipendenza della magistratura, ma l'autogoverno totale non c' entra nulla con l'indipendenza. E quello che oggi non funziona è proprio l'autogoverno totale». Se solo il Cavaliere pensasse di esprimere pubblicamente questi stessi concetti, l'avvocato Ghedini glielo impedirebbe. Allora si deve accontentare di ascoltarli da Enrico Letta, secondo il quale sarebbe opportuno «togliere alcuni poteri di autogoverno ai magistrati - che oggi si gestiscono tra loro - e istituire un'alta corte fuori dal Csm per amministrare la parte disciplinare». D'un tratto sulla giustizia il Cavaliere ritiene che (quasi) tutti parlino la stessa lingua: «La mia». A parte il fatto che anche Berlusconi ha smentito sé stesso, se è vero che a Napoli il centrodestra appoggia a candidato sindaco un magistrato che ha lavorato fino a ieri nella Procura cittadina. In ogni caso la svolta è figlia di una presa d' atto collettiva della politica, decisa a riformare un «ordine» che si è indebitamente trasformato in «potere» e che per di più è minato dagli scandali. È un convincimento che si spande a macchia d' olio nelle istituzioni. E oltre che nel Palazzo, il leader di Forza Italia vede montare lo stesso sentimento nel Paese, siccome i suoi amatissimi sondaggi gli segnalano come la fiducia verso le toghe sia crollata al 30% con trend discendente. Sono lontani gli anni in cui la magistratura era accreditata appena sotto la Chiesa, il Colle e l'Arma, mentre oggi è ritratta come «una casta» appena sopra l'opinione sui partiti. Chissà qual è il vero motivo che ha prodotto la rottura del tabù. Sarà perché l'Europa chiede all' Italia di riformare la giustizia se vuole i fondi del Pnrr. Sarà per il governo di larghe intese e per il nuovo clima che ha prodotto. Sarà che «va colto questo formidabile allineamento per fare ciò che non si è riusciti a fare negli ultimi trent' anni», come ha sottolineato Letta dopo aver incontrato l'altro ieri la Guardasigilli Cartabia. Di certo, per usare le parole del sottosegretario alla Giustizia Sisto, «è iniziato un percorso catartico che porta tutti i partiti a convergere lentamente ma progressivamente sui principi costituzionali». È dal 1997, dalla stagione della Bicamerale di D' Alema, che destra e sinistra hanno smesso di provarci. E visto che di solito una riforma tira l'altra, un accordo sulla modifica degli assetti giudiziari potrebbe tirarsi appresso un'intesa su altre revisioni del sistema. Almeno è quello che evocano nel centrosinistra e che nel centrodestra lasciano filtrare. C' è la legge elettorale in cima agli interessi dei partiti, e a far da condimento un nuovo regolamento parlamentare per stabilizzare i futuri governi. «La proporzionale, con un piccolo premio di maggioranza, potrebbe essere il punto d' arrivo di una trattativa che segue quello sulla giustizia», sussurra infatti un esponente del Pd: «Solo che Berlusconi ce la farà sudare». Per faticare meno, dirigenti della segreteria dem sono all' opera con la Lega. Alle grandi manovre sembrano mancare i grillini, additati come l'ala giustizialista del Parlamento e considerati refrattari alla riforma delle toghe. Ma a scardinare i luoghi comuni, oltre al Di Maio pubblico, ci pensa un Conte privato. Qualche settimana fa l'ex premier ha confidato la sua lettura della storia politico-giudiziaria del Paese: «Il tramonto della Prima Repubblica fu una traumatica caccia alle streghe». A parlare era l'avvocato o il leader in pectore del Movimento? Perché la proporzionale val bene un accordo (anche) sulla giustizia.

Angelo Panebianco per corriere.it il 18 maggio 2021. Da quando, esattamente, Silvio Berlusconi ha cessato di essere l’Uomo Nero? Quando si tratta di affari pubblici l’Italia soffre di una particolare forma di amnesia detta anterograda: non ha memoria a breve termine. Si sveglia la mattina e non ricorda che cosa abbia pensato, detto e fatto il giorno prima. C’è chi oggi parla con venerazione della «maggioranza Ursula» composta da quei partiti (Pd, Cinque Stelle, Forza Italia) che, nel Parlamento europeo, nel 2019, votarono a favore dell’attuale presidente della Commissione. C’è chi, in zona Pd, pensa di eleggere insieme a Berlusconi, contro Salvini e Meloni, il futuro presidente della Repubblica. Si pensa anche, sempre da quelle parti, che se una tale operazione andasse in porto, si potrebbe ipotizzare, addirittura, dopo le prossime elezioni, una coalizione di governo Pd, Cinque Stelle, Forza Italia. Operazione possibile dal momento che Matteo Salvini, ormai da alcuni anni, ha strappato l’ambito titolo di Uomo Nero di turno dalle mani di Berlusconi. Però, un Paese senza memoria è un Paese finito. È dunque meglio sforzarsi di ricordare. Per più di un ventennio — dal 1994, anno della «discesa in campo» di Berlusconi per lo meno fino al 2011, quando cadde il suo ultimo governo — l’Italia bipolare non era altro che questo: Berlusconi di qua e gli antiberlusconiani di là. Era un bipolarismo con forti tratti patologici. Le due fazioni, infatti, si raffiguravano a vicenda come l’incarnazione del Male assoluto: dall’altra parte ci sono i comunisti (sottinteso: quelli che mangiano i bambini), diceva Berlusconi; dall’altra parte c’è la peggio Italia, corrotta, criminale e parafascista, dicevano gli antiberlusconiani. La violenza verbale era tale che ci si potrebbe chiedere come mai non degenerò in violenza fisica (salvo , come si ricorderà, l’episodio dell’aggressione a Berlusconi). Il «Cavaliere nero» come egli venne subito definito quando, prima delle elezioni del ’94, dichiarò che nelle amministrative di Roma, se avesse potuto votare, avrebbe scelto Gianfranco Fini, era talmente odiato dalla parte avversa che, per un ventennio, si sprecarono gli auguri di morte (con collegati brindisi) per l’uomo di Arcore. I più umani si limitavano ad augurargli il carcere a vita mentre tifavano (sguaiatamente, diciamocelo) per tutti quei magistrati, e furono parecchi — le aziende di Berlusconi furono le più indagate in assoluto fra tutte le aziende italiane —, che cercavano di catturare il Caimano. Alla fine ci riuscirono. In certi ambienti si parlava solo del conflitto di interessi, della anomalia Berlusconi. Se facevi notare che l’anomalia Berlusconi era a sua volta il frutto di un’altra anomalia, ossia la distruzione violenta, per via giudiziaria, di un’intera classe politica (quella della Prima repubblica), ti davano subito del berlusconiano. C’era insomma un clima di evidente isteria. Il tutto, lentamente, dopo il 2011, andò stemperandosi, gli antichi furori si placarono a poco a poco. Ci fu anche, imposta dalla necessità, una breve, imbarazzata, convivenza in una maggioranza di governo. Ma fare finta di dimenticare quanto era accaduto dopo il 1994, evitare di spiegare come e perché le cose siano cambiate, come e perché Berlusconi abbia smesso di essere l’incarnazione del Male, può fare comodo a questo o a quello ma di sicuro non fa bene al Paese: una onesta spiegazione sarebbe doverosa, tacere e fare finta di niente è solo una truffa, un imbroglio. Niente di buono può mai nascere dagli imbrogli. Delle due l’una: o Berlusconi, da un po’ di tempo a questa parte, si è convertito, passando dall’alleanza con il Diavolo a quella con l’Arcangelo Gabriele, dalle tenebre alla luce, oppure Berlusconi non è cambiato ma sono cambiate solo le circostanze e le convenienze. È vera la seconda ipotesi. In primo luogo, ovviamente, Berlusconi è politicamente molto più debole che in passato e quindi non fa più paura, non minaccia più gli interessi che minacciava un tempo. In secondo luogo, come ho già detto, il titolo di Uomo Nero gli è stato portato via. Non è più lui colui a causa del quale c’è il (solito) «fascismo alle porte». La verità è che una certa sinistra preferisce rimuovere il problema piuttosto che chiedersi perché non sia stata in grado di dare una valutazione più equilibrata, un giudizio meno viziato da isterismi e esagerazioni, quando Berlusconi era potente. Se fosse capace di affrontare pubblicamente questo argomento avrebbe anche la possibilità di dare una giustificazione accettabile (per quasi tutti) del nuovo corso, del nuovo atteggiamento verso Berlusconi. Forse non può farlo perché in quel caso sarebbe costretta a prendere atto di alcuni propri vizi di cui è incapace di liberarsi. Il Berlusconi (un magnate delle comunicazioni) del ’94 e seguenti era certamente una anomalia che però dipendeva, a sua volta, da una catena di precedenti anomalie (la democrazia bloccata per un quarantennio a causa della presenza del più forte partito comunista d’Occidente, la rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite). Ma il resto non era così spaventoso come i suoi nemici sostenevano. Egli aveva ereditato gran parte dell’elettorato dei partiti democratici anticomunisti della Prima Repubblica (la Dc ma anche il Psi, i repubblicani, i liberali). Era quello il suo insediamento elettorale. Ad esso aveva aggiunto — questa sì era una novità — una enfatizzazione dell’importanza e del ruolo delle imprese private (di cui era testimonianza il gran numero di imprenditori che lo seguirono), nonché delle libere professioni e delle partite Iva, che spaventava — perché ne minacciava gli interessi — i partiti che rappresentavano il ceto impiegatizio, soprattutto pubblico. L’epoca berlusconiana va certamente criticata, e anche duramente, per le improvvisazioni demagogiche e soprattutto per quella che fu la più grave colpa: Berlusconi predicò bene e razzolò male, fece promesse elettorali (di liberazione dai lacci e lacciuoli che gravavano sul Paese, dall’eccesso di statalismo) che non fu in grado di mantenere. Ma non era quel concentrato di malvagità che l’isteria dei nemici gli attribuiva. La domanda che bisogna porsi è questa: che cosa c’è, nell’acqua che beviamo o nell’aria che respiriamo, che rende così irresistibile l’esigenza di avere di fronte nemici anziché avversari? Fossimo capaci di rispondere, forse l’Italia cesserebbe di essere ciò che è sempre stata: una democrazia difficile.

Leandro Del Gaudio per "il Messaggero" il 13 maggio 2021. È la sua ultima carta difensiva per provare a ribaltare una sentenza ormai definitiva. È la mossa di Silvio Berlusconi nel corso della vicenda giudiziaria che lo ha visto soccombere con una condanna a quattro anni di reclusione, al termine dei tre gradi di giudizio per il processo per frode fiscale (inchiesta Mediaset). Qualche mese fa, infatti, la difesa dell'ex premier ha depositato dinanzi alla Corte di Appello di Brescia una istanza di revisione, alla luce di fatti nuovi, emersi negli anni successivi il verdetto che costò - va ricordato per inciso - anche lo stop della carriera istituzionale del leader del centrodestra. Una richiesta di revisione che punta a ribaltare la condanna a quattro anni (definitiva il primo agosto del 2013), alla luce di fatti emersi negli anni immediatamente successivi la condanna estiva firmata - tra gli altri - dal giudice campano Antonio Esposito. Si tratta di una coda processuale legata al tentativo dell' ex premier di cancellare quella condanna, che è emersa ieri mattina, in modo puramente incidentale, nel corso di un processo che si sta celebrando a Napoli: giudice Vinciguerra, la Procura ha chiesto l' archiviazione dell' accusa di falsa testimonianza nei confronti di tre dipendenti di un albergo ischitano (riconducibile al coordinatore e parlamentare forzista Domenico De Siano), che raccolsero alcune battute (non favorevoli a Berlusconi) da parte del giudice Antonio Esposito, diverso tempo prima della fatidica sentenza estiva in cui Berlusconi venne condannato. È toccato al pm Maria Di Mauro chiedere l'archiviazione per i tre camerieri, ma anche per l'avvocato Bruno Larosa, che era indagato per abuso d' ufficio; e per lo stesso giudice Esposito, che rispondeva di calunnia nei confronti dell'avvocato Larosa. Non c' è dolo - dice il pm - non c' è materia per portare avanti un processo. Ma è proprio nell' udienza a porte chiuse di ieri mattina, che l'avvocato Larosa (assistito dai penalisti Arnaldo Lepore e Luigi Romano) ha depositato degli atti da cui emerge una recente attività difensiva condotta dalla difesa di Berlusconi, per riaprire i giochi dopo la condanna per il processo Mediaset. Si fa esplicito riferimento al ricorso presentato presso la seconda sezione penale della Corte di appello di Brescia in vista della revisione (e ricorso alla Corte di giustizia europea), sulla scorta di fatti recenti che potrebbero scagionare Berlusconi dall' accusa di frode fiscale nella cosiddetta inchiesta Mediaset.

T. B. per il “Corriere della Sera” il 7 luglio 2021. Otto anni dopo le furiose polemiche sulla condanna definitiva di Silvio Berlusconi per frode fiscale, decisa nell' agosto del 2013 dalla sezione feriale della Cassazione, il gip di Napoli mette la parola fine alla lunga querelle tra l'ex premier e il giudice Antonio Esposito, oggi in pensione, che quella sezione presiedeva. È stata disposta l'archiviazione delle accuse nei confronti di tre dipendenti dell'Hotel Villa Svizzera di Lacco Ameno, a Ischia, di proprietà del senatore di FI Domenico De Siano, nonché dell'avvocato Bruno Larosa, che nel 2014, in qualità di legale di Berlusconi, raccolse le loro dichiarazioni e le depositò in uno dei procedimenti avviati dopo la condanna. Secondo i tre lavoratori, alcuni anni prima, nel corso di un suo soggiorno, Esposito aveva usato nei confronti di De Siano e Berlusconi «gravi ed offensive espressioni», affermando in particolare che, se ne avesse avuto l'occasione, li avrebbe colpiti. Sarebbe stato dunque prevenuto nei confronti del leader di Forza Italia. L'ex giudice aveva sostenuto che l'acquisizione delle dichiarazioni dei tre fosse illegittima in quanto avvenuta al di fuori dalle ipotesi previste dal codice. Valutazioni non condivise dal gip. Lo scorso aprile la Corte europea per i Diritti umani aveva ammesso il ricorso di Berlusconi contro la condanna del 2013. 

Giudice Esposito e gli insulti a Berlusconi "chiavica", il verdetto in tribunale: la clamorosa vittoria dei camerieri. Libero Quotidiano il 07 luglio 2021. Archiviata la denuncia del giudice Antonio Esposito contro tre camerieri di un hotel di Lacco Ameno, la cui proprietà appartiene a Domenico De Siano (senatore di Forza Italia). A riportarlo è Il Fatto Quotidiano, che ricorda come i tre dipendenti misero a verbale di aver ascoltato Esposito mentre insultava gratuitamente in pubblico Silvio Berlusconi. Il giudice aveva risposto accusandoli di false dichiarazioni rese al pubblico ministero e aveva accusato l’avvocato Bruno Larosa di abuso d’ufficio e usurpazione di funzione del pm. Il gip ha archiviato tutto con quattro pagine di motivazioni dalle quali si evince che le indagini difensive di Larosa non violarono il codice. Era il 3 aprile 2014 quando i tre camerieri - Giovanni Fiorentino, Michele D’Ambrosio e Domenico Morgera - dichiararono che Esposito era solito insultare in pubblico e ad alta voce Berlusconi e De Siano. “Il tuo datore di lavoro - avrebbe detto tra il ristorante e la hall dell’albergo - sta con quella chiavica di Berlusconi… ancora li devono arrestare… a Berlusconi se mi capita l’occasione devo fargli un mazzo così”. Nella denuncia presentata dal giudice si parlava di “ricostruzioni inverosimili”, ma il gip ha messo nero su bianco che “non possono comunque considerarsi ‘false’ non solo sulla base degli elementi di prova disponibili, ma anche di quelli che l’opponente collega agli accertamenti patrimoniali ‘trascurati’ nelle indagini”.

Le testimonianze dei tre dipendenti ritenute attendibili. “A Berlusconi devo fare un mazzo così”, il giudice Esposito contro l’archiviazione: “Decisione sconcertante e confusa”. Redazione su Il Riformista il 7 Luglio 2021. “Berlusconi è una chiavica”. O ancora: “Se mi capita l’occasione, gli devo fare un mazzo così”. Il giudice Antonio Esposito non ci sta e considera “confuso” il provvedimento del Gip del Tribunale di Napoli Giovanni Vinciguerra che ha archiviato la denuncia da lui presentata contro i tre dipendenti dell’albergo di Ischia “che mi avevano attribuito dichiarazioni da me mai pronunciate nei confronti di Silvio Berlusconi”. L’ex presidente della sezione della Cassazione, che nel 2013 condannò il leader di Forza Italia a 4 anni per frode fiscale nell’ambito del processo Mediaset, critica in una nota la decisione del Gip Vinciguerra definendola “sconcertante”. Esposito cita il “confuso provvedimento” nella parte in cui il giudice scrive che “le dichiarazioni dei tre dipendenti… non sembrano idonee ad integrare il prospettato reato di cui all’art. 371 c.p.: il falso giuramento della parte”, laddove invece il “reato prospettato” era quello di false dichiarazioni rese (all’avvocato Bruno La Rosa) da persone informate dei fatti nel corso di investigazioni difensive (penali). “E’ sconcertante – attacca – che il giudice parli di ‘un falso giuramento della parte‘, che può avvenire in un giudizio civile, giudizio civile che, però, non è mai esistito né vi è mai stato un ‘giuramento della parte’, né giammai è stato ‘prospettato’ tale reato. Così come – prosegue – è sconcertante che il giudice scriva che ‘l’usurpazione di funzioni pubbliche sia altra condotta ipotizzata ex art. 371 c.p.’ laddove il reato di usurpazione di pubbliche funzioni è previsto dall’art. 347 del codice penale”. Secondo Esposito, “resta, inoltre, inspiegabile perché – con provvedimento non soggetto ad impugnazione – mi sia stata negata la possibilità di far accertare in che modo e da chi l’avvocato La Rosa sia venuto a conoscenza che tre dipendenti di un albergo di Lacco Ameno, di proprietà del senatore e coordinatore regionale di Forza Italia, Domenico De Siano, erano disponibili a rendere le dichiarazioni in questione; così come è del tutto improprio che il giudice non abbia disposto che venissero eseguiti quegli accertamenti di natura patrimoniale sui tre dipendenti, già a suo tempo, ordinati dal Pm Sergio Amato alla polizia giudiziaria, e non espletati e che, dovevano, comunque, essere effettuati non essendo mai stato revocato l’ordine di eseguirli”.

Due tasselli per ristabilire la verità sul processo Mediaset. Berlusconi batte il giudice Esposito: Cedu e i testimoni di Ischia rendono giustizia al Cavaliere. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Luglio 2021. L’ordinanza del giudice di Napoli che rende credibili i testimoni di Berlusconi sugli insulti del giudice Esposito sono un nuovo tassello per la richiesta di revisione del processo presentata a Brescia e per l’esposto alla Cedu. Del fatto che Silvio Berlusconi non fosse più “il cavaliere nero” ci eravamo accorti da un po’. Del fatto che sia del tutto cessata, negli ambienti della magistratura militante, quell’allerta nei suoi confronti così ben descritta da Luca Palamara nel libro Il Sistema, non siamo ancora del tutto convinti. Resta infatti sul corpo e sulla vita del presidente di Forza Italia la macchia di quell’unica condanna per frode fiscale del primo agosto 2013. Ma giorno dopo giorno quella macchia si dimostra sempre meno indelebile. Prendiamo quest’ultimo processo che si è concluso il 2 luglio a Napoli con un’ordinanza di archiviazione che fa segnare decisamente a Berlusconi un punto a favore nei confronti del giudice Antonio Esposito che lo condannò. La vicenda partiva da una denuncia del 2019 del magistrato nei confronti di tre dipendenti di un albergo di Ischia di proprietà di un senatore di Forza Italia e dell’avvocato Bruno Larosa, il quale aveva videoregistrato, all’interno di indagini difensive, le testimonianze dei tre su ripetuti episodi che avrebbero mostrato una animosità preconcetta del magistrato nei confronti di Berlusconi. Tralasciando l’immagine pubblica che dà di sé un magistrato che fa certe affermazioni, due sono le considerazioni da fare. La prima è che l’ordinanza del gip Vinciguerra considera quelle dichiarazioni “non false”, come invece sosteneva il dottor Esposito. E, visto che l’alta toga anche da pensionato non lesina le querele, copiamo le frasi a lui attribuite direttamente dall’ordinanza: «Il tuo datore di lavoro sta con quella chiavica di Berlusconi», «all’ingresso del ristorante invece di dire buona sera era solito affermare ‘ancora li devono arrestare?’», e poi «ancora con quella chiavica. che bella chiavica… a Berlusconi se mi capita l’occasione devo fargli un mazzo così». Ripetiamo, queste testimonianze sono state considerate dal giudice Vinciguerra con queste parole: «…le censurate dichiarazioni dei tre dipendenti dell’albergo dove il dr. Esposito aveva in passato soggiornato, per quanto tacciabili di inverosimiglianza secondo l’opponente non possono però comunque considerarsi ‘false’, non solo sulla base degli elementi di prova disponibili, ma anche di quelli che l’opponente collega agli accertamenti patrimoniali ‘trascurati’ nelle indagini». E già, perché il presidente Esposito aveva anche sospettato i camerieri di aver ricevuto qualche mancia di troppo e chiedeva controlli sui loro conti in banca. La seconda considerazione è che l’ordinanza prescinde, pur non ignorandolo, dal fatto che i reati ipotizzati fossero comunque ormai prescritti. Avrebbe potuto lavarsene le mani, il giudice Giovanni Vinciguerra, e così la stessa pm Maria Di Mauro che ha chiesto l’archiviazione, invece sono entrati nel merito. Un merito che sicuramente non può sfuggire ai difensori di Berlusconi, ancora impegnati su altri due importanti fronti per arrivare a cancellare la macchia del 2013. Due appuntamenti li aspettano ancora, uno a Brescia, l’altro a Strasburgo. Che fosse stata presentata alla Corte d’appello di Brescia la domanda di revisione del processo per frode fiscale lo si è scoperto proprio a Napoli, dopo la denuncia del giudice Esposito. Il 20 novembre del 2020 l’istanza è stata depositata con una serie di nuove prove documentali e testimoniali che non sarebbero state valorizzate nel primo processo. Ovviamente c’è anche la testimonianza del giudice Amedeo Franco, deceduto nel 2019, che aveva fatto parte del collegio di Cassazione che aveva condannato Berlusconi, ma che in seguito aveva definito quella sentenza come una “porcata”, emessa da un “plotone di esecuzione”. Mentre la Corte d’appello di Brescia non ha ancora preso una decisione, né fissando un nuovo processo né archiviando l’istanza ritenendola infondata, si è fatta viva nel mese di aprile la Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che ha accolto il ricorso di Berlusconi con gli audio delle parole del giudice Franco, depositati fin dal 2016. La Cedu ha posto al governo italiano dieci quesiti, dando tempo fino al prossimo 21 settembre per le risposte. Sono passati otto anni da quel 28 dicembre 2013 in cui Berlusconi avanzò il suo ricorso, ben prima del giorno in cui si presentò a casa sua il giudice Franco con il suo pentimento. Gli argomenti usati per dimostrare che l’Italia ha violato in vari modi il suo diritto a un equo processo sono molteplici. E l’ordinanza di Napoli con le dichiarazioni dei tre testimoni finalizzate a mostrare un pregiudizio del giudice Esposito nei confronti di Berlusconi e considerate “non false” dal giudice sono un nuovo tassello a favore della difesa. La macchia è sempre meno indelebile.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

Presentato un esposto contro il Gip che ha archiviato la sua denuncia. Esposito non vuol mollare, insegue Berlusconi fino alla Cedu. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Luglio 2021. Che il giudice Antonio Esposito non fosse tipo da giardinetti lo si era notato fin dal dicembre 2015 quando i suoi settantacinque anni lo avevano costretto a una non desiderata pensione. Ma tra le passeggiate al sole con i nipotini e la vera sfida all’O.K. Corral che lo contrappone ormai con frequenza quasi quotidiana a Silvio Berlusconi qualche via di mezzo potrebbe anche esserci. Invece no, a quanto pare. Così abbiamo un ottantunenne napoletano che non demorde davanti al drappo rosso sventolato dall’ottantacinquenne lombardo. E prepara e studia carte bollate quando gioca in casa, ma si prenota anche una trasferta a Strasburgo. Almeno sulla carta. Le notizie di questi giorni sono due, e quella che sembra la più piccola è forse la più importante. Perché pare che l’alto magistrato –ce lo garantisce il suo quotidiano di fiducia, quello di cui lui è anche collaboratore- abbia presentato un esposto nei confronti di un collega magistrato napoletano. Parliamo di quel giudice per le indagini preliminari Giovanni Vinciguerra che ha archiviato la sua denuncia nei confronti di un legale di Berlusconi, l’avvocato Bruno La Rosa, e contro tre camerieri ischitani che lo avevano sentito pronunciare frasi ingiuriose nei confronti del leader di Forza Italia negli anni precedenti il processo. Perché l’esposto? Dice che non sono state fatte indagini. Ma l’ex presidente di Cassazione non può non aver notato che il gip è entrato nel merito della questione pur constatando che comunque era scattata la prescrizione. E non può non sapere quanto scivolose siano quelle affermazioni (B. è una chiavica… ma non lo hanno ancora arrestato? eccetera) che gli vengono attribuite ormai anche da una sentenza. Perché, se i tre camerieri non hanno detto il falso, vuol dire che hanno detto il vero. E qui arriviamo alla seconda notizia, buona per lui, che porterà il dottor Esposito in trasferta a Strasburgo. La Cedu ha accolto la sua richiesta di partecipare al giudizio che vede contrapposti Silvio Berlusconi e lo Stato italiano, che dovrà render conto sulla regolarità del processo con cui la sezione della Cassazione presieduta da Antonio Esposito condannò il primo agosto del 2013 Silvio Berlusconi a quattro anni di carcere e cinque di interdizione per frode fiscale. Giusto per essere precisi, per ora il magistrato, più che salire su un aereo, può solo presentare una memoria entro il 15 settembre, la stessa data entro la quale il governo italiano dovrà rispondere a dieci domande. E non sono domandine da poco. Una per esempio riguarda l’imparzialità dei giudici, visto che esiste agli atti a anche la testimonianza registrata nel 2016 del giudice Amedeo Franco, che aveva definito quel tribunale di cui aveva fatto parte “un plotone di esecuzione”, tanto che aveva anche maldestramente tentato di registrarne le sedute, e la sentenza una porcheria. È stato imparziale quel presidente –domanderanno i magistrati della Cedu– che aveva dato quei giudizi su una persona che in seguito sarebbe stata suo imputato, senza che lui sentisse il dovere di astenersi? Certo, lui nega di averle dette, quelle frasi. Ma c’è un altro neo in questa storia, che dovrebbe preoccuparlo. Perché di cause ne ha persa un’altra, il dottor Esposito. Quella nei confronti del Mattino di Napoli e del giornalista Antonio Manzo, cui lui aveva detto, a sentenza pronunciata ma prima che fossero depositate le motivazioni, «Berlusconi condannato perché sapeva»: ma allora la frode fiscale non l’aveva messa in atto lui? Il giudice aveva chiesto al giornale un risarcimento di due milioni di euro e ha perso. Ma ha la querela facile, e così lo aspetta all’orizzonte nei prossimi giorni la causa civile nei confronti di Luca Palamara, che il magistrato ha denunciato insieme a Sallusti perché nel libro Il Sistema l’ex presidente dell’Anm ha spiegato come il giudice Esposito sia stato salvato dalla disciplinare del Csm, dopo l’intervista al Mattino, solo per motivi di opportunità. Cioè politici. Cioè perché faceva comodo la condanna di Berlusconi. Ne vedremo delle belle, prossimamente, in questa sfida all’O.K. Corral tra ottantenni.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Da ansa.it il 9 settembre 2021. Serve una perizia medico legale sulle condizione di salute di Silvio Berlusconi per "poter prendere una decisione motivata e ragionata" sul processo Ruby ter. Lo ha deciso il collegio della settima sezione penale di Milano presieduto da Marco Tremolada. Il processo è stato rinviato al 15 settembre per conferire l'incarico ai periti. "Noi vorremmo indicare un cardiologo e uno psichiatra" come periti, ha spiegato alle parti il presidente Tremolada. Per i giudici è "indispensabile un accertamento peritale tecnico per poter prendere una decisione motivata e ragionata, allo stato non adottabile" seguendo solo le "massime di esperienza". Da qui il rinvio del processo al 15 settembre nel pomeriggio per il conferimento dell'incarico a un "collegio peritale". Quello di Silvio Berlusconi è un "quadro di malattia di vecchiaia, costellato da patologie compatibili con la vecchiaia, il quadro di uomo vecchio che nel corso della sua vita ha avuto tante patologie, un uomo molto vecchio, ripeto, con tante piccole fastidiose patologie", ma che "se non fosse supportato da una serie di medici infinita e di avvocati sarebbe qui a farsi il processo". Lo ha detto il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano nel processo milanese sul caso Ruby ter spiegando che, anche sulla base delle relazioni mediche presentate dalla difesa, "questo quadro" non è "tale da costringere 50 persone a rinviare" il processo. Nel suo lungo intervento l'aggiunto Siciliano ha spiegato che la Procura "si è fidata" delle precedenti relazioni mediche, quelle depositate dalla difesa a fine maggio e che avevano portato ad un rinvio del processo di tre mesi e mezzo, che descrivevano pure una "gravissima situazione psicologica" legata ad una "patologia depressiva". Poi, però, ha aggiunto, "è arrivata l'estate" e "con la soddisfazione di un essere umano che guarda un altro essere umano stare meglio, l'abbiamo visto migliorare". In pratica, per i pm se la "condizione clinica" indicata nelle relazioni presentate dalla difesa a maggio era "estremamente seria", tanto che "ci aveva fatto chiedere la separazione delle posizioni processuali", quella che emerge dalle ultime certificazioni non è così grave. In questa "grande consulenza", ossia quella del pool di medici che segue Berlusconi, tra cui anche uno psichiatra e un neuropsicologo, "c'è un convitato di pietra, ossia quella che è la condizione invalidante" tale da portare ad un rinvio del processo. E, dopo aver elencato una per una tutte le patologie di cui soffre il Cavaliere, tra cui la "fibrillazione atriale" ma anche "gotta e diabete", e gli interventi subiti negli anni e dopo aver ripetuto che è "il quadro di un uomo vecchio con patologie di vecchiaia", Siciliano ha chiarito che alla difesa è stato anche prospettata la possibilità che l'ex premier si collegasse "da remoto da casa" per le udienze, ma "tutte queste nostre proposte sono state respinte". E ancora: "Berlusconi può fruire delle migliori cure che la nostra medicina può offrire". Poco prima l'avvocato Cecconi illustrando l'istanza di rinvio aveva chiarito che nel "periodo estivo" c'era stato un "moderato miglioramento del quadro clinico e psichico rappresentato ad aprile", ma poi ci sono stati "importanti episodi di recrudescenza su una serie di situazioni, su un quadro di 'long covid' aggravato da patologie esistenti e in parte sopravvenute", soprattutto negli ultimi "20 giorni". E ha chiarito che nelle relazioni "non viene indicato un termine ragionevole entro il quale poter avere un possibile miglioramento delle condizioni di salute". Ora i giudici sono in camera di consiglio per decidere se accogliere o meno l'istanza di legittimo impedimento. Tra i testi previsti per oggi, in teoria, anche il ragioniere Giuseppe Spinelli. "C'è stato sicuramente un moderato miglioramento nel periodo estivo, che però invece negli ultimi tempi è stato al tempo stesso condizionato da diversi e importanti episodi soprattutto di fibrillazione atriale, che sono quelli che maggiormente preoccupano in termini proprio di stabilità delle condizioni generali, preoccupano i medici e inevitabilmente hanno ripercussioni sotto il profilo strettamente giuridico". Così il legale Federico Cecconi ha descritto le condizioni di salute di Silvio Berlusconi prima dell'udienza del processo Ruby ter nella quale ha presentato una nuova istanza di legittimo impedimento. Silvio Berlusconi "continua a sostenere che questo è un processo per così dire grottesco dal suo punto di vista, dove la contestazione è basata su una sua generosità del tutto svincolata da quella che sono in realtà le ragioni ipotizzate" dall'accusa. "Ci sia ancora una "recrudescenza di questi episodi" di fibrillazione atriale cardiaca che sono quelli che più preoccupano il "pool" di medici che lo sta seguendo. Lo ha spiegato l'avvocato Federico Cecconi illustrando ai giudici del Ruby ter, sulla base delle relazioni mediche, l'istanza di legittimo impedimento, spiegando tra le altre cose che "tra il 30 agosto e l'1 settembre ha avuto vari episodi di fibrillazione, uno durato anche più di 9 ore". E ha chiarito poi che, secondo i medici, non si può escludere la "cronicizzazione" di questi problemi di salute.

Ruby ter, i giudici: "Perizia medica sulle condizioni di Berlusconi, poi la decisione sul processo". su La Repubblica il 9 settembre 2021. La decisione del collegio della settima sezione penale di Milano prima di esprimersi sull'istanza di legittimo impedimento per l'ex premier. Serve una perizia medico legale sulle condizioni di salute di Silvio Berlusconi per "poter prendere una decisione motivata e ragionata" sul processo Ruby ter. Lo ha deciso il collegio della settima sezione penale di Milano presieduto da Marco Tremolada. Il processo è stato rinviato al 15 settembre per conferire l'incarico ai periti. "Noi vorremmo indicare un cardiologo e uno psichiatra" come periti, ha spiegato alle parti il presidente Tremolada. Per i giudici è "indispensabile un accertamento peritale tecnico per poter prendere una decisione motivata e ragionata, allo stato non adottabile" seguendo solo le "massime di esperienza". Questa la decisione arrivata dalla camera di consiglio. Stamattina nel processo milanese sul caso Ruby ter era intervenuto il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano dicendo che quello di Silvio Berlusconi è un "quadro di malattia di vecchiaia, costellato da patologie compatibili con la vecchiaia, il quadro di uomo vecchio che nel corso della sua vita ha avuto tante patologie, un uomo molto vecchio, ripeto, con tante piccole fastidiose patologie", ma che "se non fosse supportato da una serie di medici infinita e di avvocati sarebbe qui a farsi il processo". Per Siciliano, anche sulla base delle relazioni mediche presentate dalla difesa, "questo quadro" non è "tale da costringere 50 persone a rinviare" il processo nel quale insieme a Berlusconi sono imputate a vario titolo per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza per le presunte "cene eleganti" ad Arcore. In un lungo intervento l'aggiunto Siciliano aveva spiegato che la Procura "si è fidata" delle precedenti relazioni mediche, quelle depositate dalla difesa a fine maggio e che avevano portato ad un rinvio del processo di tre mesi e mezzo, che descrivevano pure una "gravissima situazione psicologica" legata ad una "patologia depressiva". Poi, però, ha aggiunto, "è arrivata l'estate" e "con la soddisfazione di un essere umano che guarda un altro essere umano stare meglio, l'abbiamo visto migliorare". In pratica, per i pm se la "condizione clinica" indicata nelle relazioni presentate dalla difesa a maggio era "estremamente seria", tanto che "ci aveva fatto chiedere la separazione delle posizioni processuali", quella che emerge dalle ultime certificazioni non è così grave. In questa "grande consulenza", ossia quella del pool di medici che segue Berlusconi, tra cui anche uno psichiatra e un neuropsicologo, "c'è un convitato di pietra, ossia quella che è la condizione invalidante" tale da portare ad un rinvio del processo. E, dopo aver elencato una per una tutte le patologie di cui soffre il Cavaliere, tra cui la "fibrillazione atriale" ma anche "gotta e diabete", e gli interventi subiti negli anni e dopo aver ripetuto che è "il quadro di un uomo vecchio con patologie di vecchiaia", Siciliano ha chiarito che alla difesa è stato anche prospettata la possibilità che l'ex premier si collegasse "da remoto da casa" per le udienze, ma "tutte queste nostre proposte sono state respinte". E ancora: "Berlusconi può fruire delle migliori cure che la nostra medicina può offrire". Poco prima l'avvocato Cecconi illustrando l'istanza di rinvio aveva chiarito che nel "periodo estivo" c'era stato un "moderato miglioramento del quadro clinico e psichico rappresentato ad aprile", ma poi ci sono stati "importanti episodi di recrudescenza su una serie di situazioni, su un quadro di 'long covid' aggravato da patologie esistenti e in parte sopravvenute", soprattutto negli ultimi "20 giorni". E ha chiarito che nelle relazioni "non viene indicato un termine ragionevole entro il quale poter avere un possibile miglioramento delle condizioni di salute".

Quel processo che la Procura non può perdere. Luca Fazzo il 9 Settembre 2021 su Il Giornale. Una sconfitta contro il Cav delegittimerebbe un ufficio già lacerato da faide e veleni. Un processo che la Procura di Milano non può perdere: perché se anche il caso Ruby andasse male, se andasse ad aggiungersi alla sorte infausta toccata ad altri processi-icona della giustizia ambrosiana come quelli per corruzione contro l'Eni, a quel punto sarebbe una intera stagione di inchieste a dover venire riletta. Anche perché sulla ripresa autunnale incombe il processo d'appello per il crac del Monte dei Paschi di Siena, e anche lì la Procura è in allarme rosso: non tanto per la posizione degli ex vertici italiani quanto per le grandi banche estere condannate in primo grado, e ben decise a strappare l'assoluzione in appello. Così è inevitabile che intorno al processo a Berlusconi si respiri un clima un po' da ultima spiaggia, e anche il brusco peggioramento del clima che si respira in aula è figlio di questa escalation. Perché in una Procura divisa, e da ultimo lacerata, come quella milanese, l'unico collante che ha funzionato in questi anni è stato il braccio di ferro giudiziario con il Cavaliere, in corso da un quarto di secolo e culminato finora in una sola condanna, quella per i diritti tv, ormai scontata e addirittura cancellata dalla riabilitazione. L'offensiva scatenata da Ilda Boccassini nel 2011 contro l'allora capo del governo con l'indagine sulle allegre serate di Arcore doveva essere l'affondo finale, quello che riscattava anni e anni di assedio infruttuoso, marchiando il leader azzurro come uno spensierato fruitore di piaceri a pagamento, minorenni comprese. È finita come si sa, con l'assoluzione con formula piena in appello e in Cassazione. Ultima chance prima della resa definitiva, l'incriminazione in blocco di tutti i testimoni passati in aula a difendere il Cavaliere, le Olgettine, i baristi, i pianisti, gli ospiti illustri o sconosciuti che avevano giurato di non avere assistito a nulla di immorale né tantomeno di illecito. E in cima all'elenco degli imputati lui, Berlusconi, accusato di avere comprato con decine e centinaia di migliaia di euro i silenzi e le bugie dei testimoni. È questa l'accusa che ieri Federico Cecconi, avvocato dell'ex premier, definisce «grottesca»: tornando a ricondurre alla «generosità» del suo assistito i versamenti (accertati, e avvenuti peraltro alla luce del sole e spesso con bonifico bancario) effettuati a favore di testimoni che hanno avuto la vita guastata dal processo: generosità «del tutto svincolata da quella che sono in realtà le ragioni ipotizzate», ovvero dal contenuto delle testimonianze. Il corollario è, per la difesa, che non vi era nulla su cui mentire, visto che - come assodato dalle sentenze - nelle feste a Villa San Martino non accadeva nulla di illecito. Ma ormai il cosiddetto processo «Ruby ter» vive di vita propria, e poco conta che ad Arcore andassero in scena reati o «cene eleganti»: adesso nel mirino della Procura c'è il groviglio di rapporti che prima e soprattutto dopo ha legato Berlusconi con le giovani donne delle feste, con le loro pretese sempre più assillanti di soldi, dove alla fine era difficile distinguere l'accordo sottobanco, le richieste di aiuto, i ricatti. Ieri, se l'udienza si fosse tenuta, sarebbe stato interrogato un personaggio-chiave: Giuseppe Spinelli, il ragioniere di fiducia del Cav, che in molti casi fu l'ufficiale pagatore. Ma per sentire la sua versione si dovrà aspettare ancora a lungo.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Ruby Ter, Silvio Berlusconi: disposta perizia e processo rinviato. La pm: "Depresso, vecchio e malato. Ma deve essere giudicato". Libero Quotidiano l'08 settembre 2021. Il processo Ruby Ter è stato rinviato al 15 settembre: il collegio della settima sezione penale di Milano ha deciso che serve una perizia medico legale sulle condizioni di salute di Silvio Berlusconi. Perizia giustificata dalla necessità di “poter prendere una decisione motivata e ragionata” sul processo Ruby ter. “Noi vorremmo indicare un cardiologo e uno psichiatra”, ha spiegato alle parti il presidente Marco Tremolada. Per i giudici è diventato “indispensabile un accertamento peritale tecnico”, da qui il rinvio al 15 settembre. Quello di Berlusconi viene descritto dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano come un “quadro di malattia di vecchiaia, costellato da patologie compatibili con la vecchiaia, il quadro di un uomo vecchio che nel corso della sua vita ha avuto tante patologie, ma se non fosse supportato da una serie di medici infinita e di avvocati sarebbe qui a farsi il processo”. Secondo la pm il quadro che emerge dalle relazioni mediche presentate dalla difesa non è “tale da costringere 50 persone a rinviare il processo”. Inoltre la Siciliano ha spiegato che la Procura “si è fidata” delle relazioni mediche depositate dalla difesa a fine maggio e che avevano portato a un rinvio del processo di tre mesi e mezzo, dato che era emersa una “gravissima situazione psicologica” legata a una “patologia depressiva”. Poi però “è arrivata l’estate e con la soddisfazione di un essere umano che guarda un altro essere umano stare meglio, l’abbiamo visto migliorare”. E, dopo aver elencato una per una tutte le patologie di cui soffre il leader di Forza Italia, tra cui la "fibrillazione atriale" ma anche "gotta e diabete", e gli interventi subiti negli anni e dopo aver ripetuto che è "il quadro di un uomo vecchio con patologie di vecchiaia", la Siciliano ha chiarito che alla difesa è stato anche offerta la possibilità che l'ex premier si collegasse "da remoto da casa" per le udienze, ma "tutte queste nostre proposte sono state respinte". E ancora: "Berlusconi può fruire delle migliori cure che la nostra medicina può offrire". E dunque, ci produciamo in una estrema sintesi, poiché ricco deve essere processato...

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 9 settembre 2021. Silvio Berlusconi deve essere processato a tutti i costi. Anche se le sue condizioni di salute non sono certamente delle migliori. Anzi. La Procura di Milano non intende, dunque, fare un passo indietro nei confronti dell'ex premier e ha deciso di tirare dritto, pur in presenza di un quadro clinico gravemente compromesso. Ieri mattina si doveva discutere dell'istanza di rinvio del processo "Ruby ter" in corso davanti al Tribunale di Milano. In programma era prevista la testimonianza dell'ex contabile di Berlusconi, il ragioniere Giuseppe Spinelli. Il difensore dell'ex premier, l'avvocato Federico Cecconi, aveva depositato il giorno prima una richiesta di legittimo impedimento per il suo assistito, impossibilitato a partecipare al processo proprio a causa delle precarie condizioni fisiche. Berlusconi, infatti, nelle ultime settimane era stato ricoverato tre volte all'ospedale San Raffaele di Milano per controlli approfonditi sulle frequenti aritmie cardiache dovute ai postumi di un intervento chirurgico a cuore aperto effettuato nel 2016 negli Stati Uniti. Ad aggravare il suo stato di salute si è aggiunto poi il long Covid, la sindrome post-virale che lo sta debilitando dallo scor so anno. Di diverso avviso, come detto, la dottoressa Tiziana Siciliano, una delle vice del procuratore milanese Francesco Greco, che ha condotto le indagini, insieme al pm Luca Gaglio, sulle serate che Berlusconi organizzava nella sua villa di Arcore. Per la magistrata la patologia dell'ex premier sarebbe semplicemente la "vecchiaia" (Berlusconi compirà 85 anni tra poco). «Lo abbiamo visto scorrazzare in kart nella sua Sardegna, parlare con i leader politici, decidere del nostro futuro e di quello dei nostri figli», ha esordito Siciliano, respingendo l'istanza di legittimo impedimento. «Se non fosse supportato da una serie di medici infinita e di avvocati - ha aggiunto sarebbe qui a farsi il processo», ricordando che quello di Berlusconi è «il quadro di uomo vecchio, molto vecchio, che nel corso della sua vita ha avuto tante patologie». Immediata è stata la replica dell'avvocato Cecconi: «Noi non vogliamo rinviare sine die il processo: vogliamo solo che Berlusconi sia messo nelle condizioni di potervi partecipare in maniera serena». E rispondendo indirettamente alle parole della rappresentante della Procura, Cecconi ha precisato: «C'è stato sicuramente un moderato miglioramento nel periodo estivo, che però negli ultimi tempi è stato al tempo stesso condizionato da diversi fattori, come le aritmie e il long Covid, che sono quelli che maggiormente preoccupano i medici». Dopo i toni decisamente duri della Procura, per uscire dall'impasse il giudice Marco Tremolada, presidente del collegio, ha disposto una perizia che verrà effettuata dal professore Riccardo Zoia, direttore dell'Istituto di medicina legale di Milano. L'incarico sarà affidato il 15 settembre. «Non abbiamo mai chiesto una verifica sulle condizioni di salute dando per scontato che la realtà che ci veniva presentata fosse da accettare, non perchè siamo stupidi o perchè condizionati dall'altitonanza del nome dell'imputato ma perchè Berlusconi è vecchio», ha quindi replicato la dottoressa Siciliano. Il processo Ruby ter per Berlusconi è iniziato nel 2018. Nel 2010 il Cav era stato indagato a Milano per concussione, in quanto, secondo l'accusa, aveva abusato della sua qualità di presidente del Consiglio per esercitare un'indebita pressione sui funzionari della Questura milanese affinchè rimettessero in libertà Karima El Mahroug, alias Ruby, all'epoca 17enne. Le indagini condotte dalla pm antimafia Ilda Boccassini senza risparmio di uomini e mezzi, furono poi finalizzate a dimostrare che durante le feste nella villa di Arcore ci fosse prostituzione. Condannato nel 2013 in primo grado a 7 anni di carcere, nonché all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, Berlusconi fu quindi assolto da tutte le accuse sia in appello che in Cassazione. Per la Procura, però, le testimonianze delle partecipanti alle serate che avevano smentito la prostituzione furono tutte false e reticenti.

Quel troppo zelo di Sallusti nel chiedere la riabilitazione di Berlusconi. Per Salvini, Berlusconi avrebbe diritti e meriti di partecipare alla corsa al Quirinale, dopo tutto quello che ha dimostrato di saper fare nella sua vita. Francesco Damato su Il Dubbio l'8 settembre 2021. Conservo ancora nitido il tenero ricordo dell’adolescente Marina Berlusconi già in apprendistato manageriale che, seduta in un angolo della stanza della villa di Arcore dove il padre riuniva i dirigenti del suo gruppo, prendeva diligentemente appunti su ciò che si discuteva. Erano i tempi, fra l’altro, in cui l’allora Fininvest era alle prese con l’offensiva del Pci, in particolare del giovane Walter Veltroni, contro le interruzioni pubblicitarie di film e altri spettacoli all’insegna del no alle interruzioni, appunto, delle “emozioni”. Cui Berlusconi, o “il dottore”, come noi lo chiamavamo, accettò dopo qualche esitazione di opporre lo slogan del “vietato vietare”. Non poteva immaginare, il Cavaliere, altro titolo che si usava generalmente per parlare e scrivere di lui, che sarebbe arrivato anche per un liberale come lui, refrattario – secondo i suoi critici e avversari- a ogni vincolo o semplice regola, il momento di dover vietare qualcosa come presidente del Consiglio proponendo leggi e firmando decreti. Gli anni passano e passano, almeno in parte, le tenerezze: persino quelle filiali, se sono vere le voci giuntemi di una certa energia che la tosta, tostissima Marina Berlusconi ogni tanto usa anche nei riguardi del padre che si sottrae alla sua devota sorveglianza in tema di salute, amicizie e quant’altro. E come darle torto, d’altronde, conoscendo le imprudenze delle quali Berlusconi è capace con la sua generosità, affettività e comprensione per gli amici che spesso abusano di lui, o lo tradiscono con sfrontatezza? Non mi ha pertanto stupito per niente leggere di recente, in una intervista del mio amico Augusto Minzolini, la infastidita reazione della presidente della Mondadori alla terza volta, se non ricordo male, in cui l’appena nuovo direttore del Giornale di famiglia parlava, pur compiaciuto, della “riabilitazione” conquistatasi da Berlusconi, dopo e nonostante le traversie giudiziarie, rimanendo protagonista della politica. O addirittura occupando ancora più saldamente il centro della scena col suo moderatismo nel centrodestra a trazione elettoralmente leghista o persino meloniana. E con le sue visioni e relazioni internazionali. Ma riabilitato da che cosa? Chiedeva praticamente la figlia ricordando a Minzolini le cattiverie che il padre aveva dovuto subire e per le quali gli spettavano “risarcimenti” e non riabilitazioni. E neppure in questo, francamente, si poteva darle torto più di tanto perché, al netto degli errori indubbiamente imputabili come a tutti gli esseri umani, un po’ di accanimento Berlusconi lo ha sicuramente subìto: anche o a cominciare da quella curiosa e controversa condanna definitiva per frode fiscale, costatagli il seggio al Senato e comminata a uno dei maggiori, se non al maggiore contribuente italiano. Con questi precedenti ho provato a immaginare la faccia e le parole di Marina Berlusconi, ieri, di fronte all’editoriale col quale il fortunatamente ex direttore del Giornale Alessandro Sallusti, ora al volante di Libero, ha scritto una lettera aperta al presidente della Repubblica Sergio Mattarella perché in questi ultimi mesi del suo mandato al Quirinale trovi il modo, senza peraltro specificare quale, di “riabilitare” Berlusconi. Magari, pur senza scriverlo esplicitamente, per metterlo in condizione di partecipare meglio, a 85 anni quasi compiuti e coi problemi di salute evidenziati dal suo costante monitoraggio all’ospedale San Raffaele di Milano, alla ormai imminente nuova edizione della corsa al Colle più alto di Roma. Dove, peraltro, sullo stesso Libero, in una intervista a tutto campo, Giorgia Meloni aveva appena attribuito “non molte possibilità di salire” all’ex presidente del Consiglio. Che pure l’aveva da poco ricevuta con molta carineria nel suo rifugio sardo, dandole ragione nello scontro avuto con Salvini e con gli stessi forzisti per la esclusione del suo partito dal nuovo CdA della Rai. E lasciandola incantata davanti alla sua eccezionale collezione di farfalle, non catturate certamente sotto il romano Arco di Tito. Che differenza – avrà commentato Marina Berlusconi, senza bisogno che nessuno glielo ricordasse lasciandole sulla scrivania qualche ritaglio di giornale – da quella specie di energumeno che tanti considerano Matteo Salvini anche tra i forzisti. Il quale quando parla, di suo o rispondendo a qualche domanda, delle possibilità, probabilità e quant’altro di una partecipazione diretta di Berlusconi alla corsa al Quirinale dice che ne avrebbe tutti i diritti e meriti dopo tutto quello che ha dimostrato di saper fare nella sua vita di imprenditore e di politico. E con ciò lealmente e amichevolmente affidandosi totalmente alla valutazione dello stesso Berlusconi sulla praticabilità e opportunità di una partecipazione diretta alla corsa, e non certo – si deve presumere – come il solito, onorifico candidato “di bandiera” del centrodestra: cioè come un semplice Pietro Nenni, Francesco De Martino e persino gli inconsapevoli Amintore Fanfani e Arnaldo Forlani qualsiasi degli anni della cosiddetta prima Repubblica per conto, rispettivamente, dei socialisti, o della sinistra momentaneamente unita, o della Dc. Ah, Sallusti tu quoque, potrebbero gridargli Berlusconi padre e figlia, tuttavia attribuendone generosamente l’errore al “troppo zelo” che il principe Charles- Maurice di Talleyrand- Perigord sconsigliava ai suoi collaboratori in ogni fase della sua lunga e camaleontica carriera politica.

Disposta una perizia sulle condizioni di salute del Cav. Ruby ter, la Pm furiosa: “Berlusconi è solo vecchio, dovrebbe stare in aula”. Paolo Comi su Il Riformista il 9 Settembre 2021. Galeotta è stata l’ultima vacanza nell’amata Sardegna, con troppi giri in kart nel rigoglioso parco di villa Certosa e troppe foto con i politici in visita. Ieri mattina, la procuratrice aggiunta Tiziana Siciliano, in apertura d’udienza del processo milanese Ruby ter, ha avuto parole di fuoco per la richiesta di rinvio per motivi di salute presentata dai legali di Silvio Berlusconi, accusato di corruzione in atti giudiziari. Si tratta di un “quadro di malattia di vecchiaia”, ha spiegato la magistrata davanti ai giudici, ricordando che questa estate l’imputato «lo abbiamo visto scorrazzare in kart nella sua Sardegna, parlare con i leader politici, decidere del nostro futuro e di quello dei nostri figli». «Se non fosse supportato da una serie di medici infinita e di avvocati sarebbe qui a farsi il processo», ha precisato Siciliano, titolare del procedimento con il pm Luca Gaglio. Il collegio, presieduto da Marco Tremolada, ha rinviato all’udienza del 15 settembre dove verrà conferito l’incarico ai periti per accertare le effettive condizioni di salute dell’ex premier. «C’è stato sicuramente un moderato miglioramento nel periodo estivo, che però negli ultimi tempi è stato al tempo stesso condizionato da diversi e importanti episodi soprattutto di fibrillazione atriale, che sono quelli che maggiormente preoccupano i medici», ha precisato, invece, il difensore di Berlusconi, l’avvocato Federico Cecconi. Berlusconi, ha aggiunto Cecconi, ha «ancora necessità di riposo assoluto per evitare» ci sia una «recrudescenza di questi episodi». Dalla fine dello scorso mese di agosto l’ex premier è stato ricoverato tre volte all’ospedale San Raffaele. L’ultima volta è stata all’inizio di questa settimana per sottoporsi a un controllo medico durato circa un’ora. A capo del pool di medici che cura la salute di Berlusconi c’è Alberto Zangrillo, primario dell’Unità operativa di anestesia e rianimazione generale e cardiovascolare. Fra i problemi che affliggono ex premier, oltre alle frequenti aritmie cardiache dovute ai postumi di un intervento chirurgico a cuore aperto effettuato nel 2016 negli Stati Uniti, ci sono poi gli effetti del “long Covid”. Lo scorso 26 maggio il Tribunale di Milano aveva concesso un rinvio di oltre tre mesi, confidando in un miglioramento della salute di Berlusconi, rigettando la richiesta di accusa e difesa di stralciare temporaneamente la sua posizione per proseguire il dibattimento solo per gli altri 28 imputati, tra cui le molte delle “olgettine” che frequentavano villa San Martino. Se a Milano il procedimento è alle battute iniziali, a Siena, dove era arrivato un pezzo di fascicolo per competenza territoriale, è già arrivata la prima sentenza, con la condanna a due anni di reclusione di Danilo Mariani, un pianista senese che partecipava alle “cene eleganti” di Arcore. La posizione di Mariani – su richiesta della sua difesa – era stata stralciata. Rinvio del processo per Berlusconi con la prossima udienza già fissata per il 20 ottobre. Nessuna incertezza sullo stato di salute di Berlusconi: la pm Valentina Magnini ha ritenuto sufficiente la documentazione sanitaria prodotta, senza bisogno di ulteriori accertamenti medici, o perizie, sulle condizioni dell’ex premier. Nei confronti di Berlusconi la magistrata ha chiesto a febbraio del 2020 una condanna a quattro anni e due mesi. Stralcio della posizione anche a Roma, dove Berlusconi è difeso dall’avvocato Franco Coppi. Il tribunale capitolino ha rinviato agli inizi del prossimo mese di novembre. Paolo Comi

Le toghe vogliono il suo scalpo. “Vivo o morto Berlusconi va condannato”, la persecuzione senza fine del partito dei Pm. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Settembre 2021. Non lo vogliono mollare. L’ordine del partito dei Pm è quello: prendetelo. Vivo o morto. Dead or alive, si diceva nel lontano west. Qui da noi è uguale. Nei prossimi giorni Silvio Berlusconi compirà 85 anni. Da una trentina d’anni è fra i tre o quattro leader politici più prestigiosi dei quali l’Italia disponga. Da altrettanti è il capo indiscusso della destra e dei liberali. È conosciuto nel mondo come statista. È stato varie volte presidente del Consiglio, varie volte capo dell’opposizione. Ha una carriera da imprenditore lunga oltre sessanta anni. I primi trenta tranquilli. In quel periodo ha accumulato una quantità inaudita di ricchezze e neppure un avviso di garanzia. I secondi trenta, cioè da quando è entrato in politica, sono stati invece anni molto turbolenti. Dal dicembre del 1994 è stato circondato da un numero incredibile di Pm, con ogni probabilità coordinati, i quali hanno cercato in tutti i modi di metterlo in prigione, di eliminarlo dalla lotta politica. Raramente, molto raramente i suoi avversari si sono opposti a questo disegno. I Pm però non sono riusciti a metterlo in prigione: cento volte, più o meno, hanno avviato un processo. Li hanno persi tutti. Tranne uno, quello concluso con la sentenza della sezione feriale della Cassazione, presieduta dal famoso giudice Esposito. Lo condannarono, in quell’occasione, per un’evasione fiscale di circa due milioni su alcuni miliardi di dichiarazione dei redditi. Nella dichiarazione lui non c’entrava nulla, era la dichiarazione di Mediaset. Lui all’epoca era presidente del Consiglio, non compilava certo lui le carte fiscali dell’azienda. L’amministratore delegato che firmò quella dichiarazione fu assolto. Una condanna di questo genere, per una evasione fiscale della quale oltretutto non si è responsabili, non esiste in giurisprudenza. Precedenti zero. Recentemente è stata resa pubblica una dichiarazione di uno dei giudici della Cassazione che lo condannarono, il quale confessò che la condanna era frutto di un complotto. Ora la sentenza è all’esame della corte di Strasburgo. E a Brescia pende una richiesta di revisione del processo. Le cifre comunque dicono che nella grande guerra contro Berlusconi i Pm sono stati sconfitti su tutta la linea. In 27 anni di strenue battaglie (costosissime per l’erario) hanno ottenuto un solo risultato: tenere sotto botta il capo della corrente liberale dello schieramento politico e impedire in questo modo una riforma ragionevole della giustizia, in linea con la Costituzione. A loro non basta. Loro vogliono lo scalpo. Vogliono una condanna penale vera e piena. A 85 anni di età, a 90, a 100 , prima o dopo la morte, non gliene frega niente: lo scalpo, lo scalpo, lo scalpo. Ora una Pm milanese si oppone alle dichiarazioni dei medici che sostengono che Berlusconi non sta bene. Lei nega. Chissà perché, e su che basi. Dice solo, sprezzantemente: è vecchio, i vecchi stanno male, si sa, niente di nuovo: ma io lo voglio alla sbarra. Chissà, magari un giorno diventerà vecchia anche lei, e imparerà il rispetto. Probabile la prima ipotesi, meno la seconda. Lo vuole in aula, lo vuole condannato. Lo accusa di avere troppi avvocati e troppi medici che lo curano. È una colpa. Pensa probabilmente che la giustizia migliore sia quella fatta in presenza di pochissimi avvocati, magari un po’ incompetenti, meglio se nessuno. E alla larga dai medici, vil razza dannata. Il processo ennesimo al quale Berlusconi è sottoposto è un processo del tutto folle. Da commedia surreale. È uno strascico del processo Ruby (fatti di 12 o 13 anni fa). Ma nel processo Ruby, Berlusconi è stato del tutto assolto. Innocente, hanno stabilito la corte d’Appello e poi la Cassazione, facendo fare una figura barbina ai Pm e al tribunale di primo grado. Anche a parecchi giornali e giornalisti. E allora? I Pm non hanno accettato la sentenza. Hanno preteso i tempi supplementari. Hanno detto: i giudici dell’Appello e della Cassazione erano dei cretini e hanno creduto ai testimoni: se lo hanno assolto è perché i testimoni erano falsi. Da cosa si deduce? Dal semplice fatto che Berlusconi è colpevole perché è colpevole perché è colpevole. Se qualcuno dice che è innocente, evidentemente mente. Va processato anche lui, o anche lei. E condannato. Quindi: nuovo processo. Roba da Venezuela, da Turchia, probabilmente da Corea del Nord. Se la sentenza non soddisfa i Pm si rifà tutto daccapo e si chiede che siano escluse le prove di innocenza. Una volta sentivo sempre ripetere, solennemente: le sentenze si rispettano, si rispettano. Sì, ma se sono di colpevolezza, altrimenti si stracciano. Vivo o morto, lo vogliono. Non c’è da stupirsi: si sa, il partito dei Pm è questa piccola cosa qui. E chi non lo sa si legga Palamara. Ma i partiti politici? Neanche ora trovano il coraggio per insorgere? Per dire: Berlusconi è un capo politico. È stato perseguitato da un’orda di Pm. Assolto da centinaia di giudici. Lasciatelo stare. Basta con le belve.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

"Pm belve su Berlusconi vogliono il suo scalpo. Il Pd lo candidi al Colle". Luca Fazzo l'11 Settembre 2021 su Il Giornale. Il direttore del "Riformista": "Così la politica riprenderebbe il primato che le spetta". «Vogliono lo scalpo, lo scalpo, lo scalpo». Ieri sul suo giornale lei ha raccontato così l'attacco giudiziario a Silvio Berlusconi. E ha concluso: «basta con le belve». Belve è una parola forte, direttore, stiamo parlando di magistrati della Repubblica. «L'ho scritto e lo rivendico - replica Piero Sansonetti, direttore del Riformista - perché so che è vero. Lì in mezzo, soprattutto tra i pubblici ministeri, ci sono delle belve. Gente che dà la caccia a Berlusconi con un unico obiettivo: prenderlo, vivo o morto. Dead or alive, come nel Far West».

Però lei non spiega il movente. Perché ce l'avrebbero tanto con il Cavaliere? Perché è partita la caccia all'uomo?

«Un movente è strettamente politico, è la necessità di tenere sottobotta costantemente il capo della componente liberale dello schieramento politico italiano per impedire che venga scalfito il potere incontrollato che dagli anni Settata la magistratura ha assunto in contrasto con lo stato di diritto e con la Costituzione. Per questo serve neutralizzare la componente liberale e garantista dello schieramento, far fuori il suo leader indiscusso».

E il secondo movente?

«Un movente più personale: il rancore, l'odio che una parte dei nostri magistrati prova per Silvio Berlusconi. E quando a un corpo dello Stato si dà il potere di annientare le persone senza che nessuno possa impedirglielo, a quel punto si dà campo aperto anche ai regolamenti di conti personali, alla voglia di vendetta».

Però l'altro giorno nell'aula del processo Ruby il pubblico ministero ha avuto parole umane, ha detto che Berlusconi è un vecchio e che ha diritto a una vecchiaia serena anche se ha commesso dei reati.

«Ma quali reati? Quello è un processo surreale, uno strascico del primo processo Ruby dove Berlusconi è stato assolto con formula piena, dove i pm hanno fatto una figuraccia colossale e insieme a loro i giornali che li hanno fiancheggiati. Ma non si arrendono, anzi adesso dicono che se i giudici hanno assolto Berlusconi è perché hanno creduto a dei testimoni falsi. In pratica danno dei cretini ai loro colleghi. E a me quelle frasi della pm tutto sembrano che umane, per me trasudano disprezzo, lei dice è un vecchio ed è normale che un vecchio stia male, noi lo processiamo lo stesso". Io mi auguro che quando questa pm diventerà vecchia imparerà il rispetto, me lo auguro ma ci credo poco».

Loro dicono: i reati vanno perseguiti.

«E certo! Ma mi devono spiegare perché Berlusconi nei trent'anni in cui si è limitato a fare l'imprenditore non ha ricevuto nemmeno una multa per sosta vietata, e quando è sceso in politica ha iniziato a diventare il bersaglio di decine di inchieste per i reati più infamanti. Intere Procure non hanno fatto altro che dargli la caccia. Eppure alla fine l'unica striminzita condanna che sono riusciti a rifilargli è stata per una presunta evasione fiscale da due milioni, un granello di sabbia sui miliardi di tasse che paga Fininvest, e peraltro quando lui da tempo non era più in azienda perché faceva il presidente del Consiglio».

Lei nell'articolo di ieri se la prende con «il famoso giudice Esposito». Ma l'assegnazione del processo a Esposito fu possibile solo grazie a connivenze nel cuore della Cassazione. Quando c'è di mezzo Berlusconi i giudici smettono di litigare tra di loro?

«Io non vedo una corrente della magistratura in grado di opporsi alla persecuzione di Berlusconi. Probabilmente ci sono moltissimi magistrati che vedono come me questa degenerazione del partito dei pm ma nessuno ha la capacità di alzare la voce, di dire basta. Luca Palamara c'è stato trascinato per i capelli e alla fine ha raccontato delle cose agghiaccianti, e cosa gli è successo? È stato isolato e cacciato con ignominia, proprio per avere raccontato cosa si nasconde nei sotterranei fangosi del partito dei pm».

Lo strapotere dei pm non è colpa anche della politica che rinuncia a difendere i suoi spazi? Che alla fine è succube, subalterna, intimidita?

«Certo, e io non ho mai capito quanto ciò dipenda da incapacità, da debolezza culturale, da convinzioni ideologiche ottocentesche. Alla fine però credo che si tratti semplicemente di vigliaccheria, davanti al potere di vita e di morte dei pm molti parlamentari tremano di paura. Però i tempi sono maturi perché il Partito democratico si liberi da queste catene ed esca dalla sacca che in cui si è cacciato, prigioniero dei 5 Stelle, del partito dei pm e della persecuzione a Berlusconi: sì, perché in fondo anche il Pd è una vittima di quella persecuzione, che gli ha impedito di provare davvero a vincere la sfida con il Cavaliere. Per uscire dalla sacca il Pd ha oggi davanti una occasione gigantesca».

Quale?

«Candidi Berlusconi alla presidenza della Repubblica. Sarebbe una mossa geniale, che metterebbe in difficoltà anche la destra e metterebbe a capo dello Stato una delle personalità più prestigiose della politica di questi anni. Portando Berlusconi al Quirinale il Pd aprirebbe la stagione in cui la politica riprende il primato che le spetta sulla magistratura. E consentirebbe a Draghi di restare a Palazzo Chigi. O preferiscono che ci vada Salvini?».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Ruby ter, Berlusconi: "Processo avanti senza di me, perizia psichiatrica lede mia storia e mio onore". Giudici fissano nuova udienza. su La Repubblica il 16 settembre 2021. Il tribunale aveva nominato un collegio di medici per stabilire le sue condizioni di salute: "Si proceda in mia assenza, da pm toni inaccettabili". Dopo la dichiarazione il collegio della Settima Penale ha annullato la perizia. I legali dell'ex premier: "E' malato, scelta fatta suo malgrado". Per Silvio Berlusconi la decisione dei giudici di Milano del caso Ruby ter di sottoporlo a una "illimitata perizia psichiatrica" è "lesiva della mia storia e della mia onorabilità", oltre che un "evidente pregiudizio nei miei confronti". Lo scrive l'ex premier in una dichiarazione depositata al presidente del collegio, spiegando che "non posso quindi accettare questa decisione" e affermando che "si proceda, dunque, in mia assenza alla celebrazione di un processo" che definisce "ingiusto". Dopo la dichiarazione dell'ex premier la perizia medico legale sulle condizioni di salute di Silvio Berlusconi, che era stata già disposta e non era ancora iniziata, non si farà più. Sono venuti meno, infatti, i presupposti per i quali i giudici della settima penale l'avevano decisa, ossia il legittimo impedimento presentato l'8 settembre. Ora il collegio dovrà fissare una nuova udienza 'ravvicinata' per andare avanti col dibattimento al posto di quella 'lontana' del 17 novembre in cui si sarebbe dovuto discutere sulla perizia, dopo il deposito. "Ho appreso che nel corso dell'ultima udienza tenutasi in data 15 settembre 2021 - scrive Berlusconi nella lettera -  il collegio da Lei presieduto ha ritenuto di disporre nei miei confronti una perizia per stabilire se effettivamente vi sia la mia impossibilità a partecipare al processo. La decisione appare sorprendente per più ragioni". "Innanzitutto le relazioni mediche depositate sono pervenute alle medesime conclusioni - aggiunge - che avevano indotto codesto Tribunale a rinviare più volte le udienze. In particolare si ricordi che la stessa Procura della Repubblica, in data 19 e 28 maggio 2021, chiese lo stralcio della mia posizione condividendo la fondatezza delle ragioni mediche. Quella stessa Procura nel corso dell'udienza dell'8 settembre, con toni e modi davvero inaccettabili nei confronti miei e dei medici che mi hanno per molte volte visitato, ha chiesto di disattendere le medesime conclusioni e procedere oltre". "Pur nella persistenza del suo attuale stato di defedazione", ossia di deperimento, Silvio Berlusconi "acconsente, suo malgrado, alla prosecuzione del dibattimento in sua assenza". E ciò perché "una volta appreso il contenuto del quesito peritale disposto dal Tribunale ed, in particolar modo, l'ampiezza degli approfondimenti anche psichiatrici demandati, ha ritenuto, del tutto comprensibilmente, gli stessi inaccettabili". Lo scrive l'avvocato Federico Cecconi, chiarendo che "si tratta, inevitabilmente, di decisione che rischia di costituire un grave vulnus per la sua difesa, in un momento particolarmente delicato del processo". "La decisione di sottoporre Silvio Berlusconi a una perizia psichiatrica è fuori da qualsiasi logica e quindi inaccettabile. Anche perché soltanto l'ipotesi di una perizia di questo genere contribuisce ad uno stravolgimento della realtà e soprattutto rappresenta un'offesa profonda a un uomo di Stato, a un leader politico che ha guidato l'Italia per decenni dopo essere stato grande capitano d'industria e grande uomo di sport". Lo afferma il coordinatore di Fi, Antonio Tajani, commentando la decisione dei magistrati della settima sezione Penale del Tribunale di Milano. "Bene fa, quindi, Berlusconi a rifiutare una tale scelta del Tribunale di Milano che lo sta processando per fatti accaduti in un altro procedimento in cui è stato assolto con sentenza definitiva. Sono certo che anche questa volta ci sarà il riconoscimento della correttezza dei suoi comportamenti. Tutta Forza Italia è al suo fianco e rafforzerà il suo impegno per sconfiggere il Covid, per garantire stabilità e la realizzazione di tutte le riforme necessarie al nostro Paese", conclude Tajani.

"Perizia psichiatrica? Dai pm pregiudizi: ledono la mia storia e il mio onore". Silvio Berlusconi il 16 Settembre 2021 su Il Giornale. La lettera del Cavaliere al tribunale di Milano dopo la richiesta di perizia per accertare le condizioni di salute: "Decisione al di fuori di ogni logica e del tutto incongrua rispetto alla mia storia e al mio presente". Egregio signor Presidente del Tribunale di Milano, Sezione VII penale, ho appreso che nel corso dell’ultima udienza tenutasi in data 15 settembre 2021, il Collegio da Lei presieduto ha ritenuto di disporre nei miei confronti una perizia per stabilire se effettivamente vi sia la mia impossibilità a partecipare al processo. La decisione appare sorprendente per più ragioni. Innanzitutto le relazioni mediche depositate sono pervenute alle medesime conclusioni che avevano indotto codesto Tribunale a rinviare più volte le udienze. In particolare, si ricordi che la stessa Procura della Repubblica, in data 19 e 28 maggio 2021, chiese lo stralcio della mia posizione condividendo la fondatezza delle ragioni mediche. Quella stessa Procura nel corso dell’udienza dell’8 settembre, con toni e modi davvero inaccettabili nei confronti miei e dei medici che mi hanno per molte volte visitato, ha chiesto di disattendere le medesime conclusioni e procedere oltre. Ma la decisione di sottopormi a perizia non solo medico-legale e cardiologica, ma anche psichiatrica, appare al di fuori di ogni logica e del tutto incongrua rispetto alla mia storia e al mio presente. Nell’ambito delle consulenze depositate vi è stato anche un contributo sotto tale profilo, ma esclusivamente per dimostrare la correlazione che lega lo stress alla patologia cardiaca di cui sono portatore. L’ipotesi di sottopormi a una ampia ed illimitata perizia psichiatrica da parte del Tribunale dimostra, per ciò che ho fatto nella vita in molteplici settori fra cui l’imprenditoria, lo sport e la politica, un evidente pregiudizio nei miei confronti e ben mi fa comprendere quale sarà anche l’esito finale di questo ingiusto processo. Non posso quindi accettare tale decisione, che è lesiva della mia storia e della mia onorabilità. Si proceda, dunque, in mia assenza alla celebrazione di un processo che neppure sarebbe dovuto iniziare, nella consapevolezza che anche successivamente verrà riconosciuta la assoluta correttezza del mio comportamento sarò assolto da ogni accusa. Silvio Berlusconi 

"Dal tribunale una richiesta offensiva e umiliante. Con altri imputati sarebbero stati più rispettosi". Anna Maria Greco il 17 Settembre 2021 su Il Giornale. Il presidente dei penalisti: "Verso Berlusconi c'è particolare animosità. Per valutare le conseguenze cardiache dello stress, che cosa c'entra lo psichiatra?"

Avvocato Giandomenico Caiazza, lei è presidente dell'Unione dei penalisti italiani, che effetto le fa vedere un leader politico ed ex premier sottoposto a perizia medica, anche psichiatrica, da un tribunale che vuole processarlo?

«La perizia medica rientra nelle ordinarie attività di controllo del tribunale di fronte a richieste di impedimento, non è scandaloso disporla ma frequente nei processi penali. Quello che sorprende è addirittura la perizia psichiatrica. Nella nota di risposta di Berlusconi al tribunale, leggo un riferimento al fatto che la difesa abbia inserito un riferimento allo stress che potrebbe causare la partecipazione al processo su un imputato con malattie cardiologiche. Io non conosco l'ordinanza ma sarebbe molto strano che non contenesse una motivazione di una decisione del genere. Sono comunque stupito, perché l'imputato ha dedotto impedimenti di natura clinica oggettiva e il ricorso allo psichiatra, spero oltre le intenzioni dello stesso tribunale, suona offensivo ed umiliante per qualunque imputato. Ancor di più se si tratta di chi ha rivestito cariche pubbliche di primissimo livello ed è ancora un leader politico. Comprendo, dunque, la reazione dell'interessato».

Che cosa dovranno stabilire il medico legale, lo psichiatra e il cardiologo, incaricati dal tribunale di Milano, riguardo alla posizione di Berlusconi nel Ruby ter?

«Devono decidere se le ragioni sanitarie documentate siano tali da determinare un'impossibilità a comparire nel processo. E questo perché la stessa difesa ha prospettato che una condizione di stress per un processo di quella gravità può avere conseguenze pesanti sulle condizioni cardiache. Ma questo lo stabilisce il cardiologo, che c'entra lo psichiatra? Mi pare un'inutile mortificazione, una mancanza di rispetto verso Berlusconi».

La decisione arriva dopo che per diverse udienze la difesa ha opposto il legittimo impedimento, basato sui ricoveri e sulla necessità di riposo dell'imputato, ma per i pm il quadro non è grave, solo legato alla malattia di vecchiaia, dicono. Che ne pensa?

«C'è modo e modo di esprimere una legittima opinione diversa dall'imputato, ma ancora una volta parlare di vecchiaia in quei termini mi sembra una mancanza di riguardo, il sintomo di una particolare animosità nei suoi confronti».

La decisione, dice Berlusconi, è «lesiva della mia storia e della mia onorabilità» e mostra un «evidente pregiudizio nei miei confronti». È d'accordo con queste parole?

«Non so se in una condizione analoga e con un imputato diverso da Berlusconi si sarebbe parlato di vecchiaia in termini così sprezzanti e si sarebbe arrivati a disporre una perizia psichiatrica. Mi sembra legittimo dubitarne. Questa aggressività rispetto all'età e la decisione di ricorrere ad uno psichiatra non si giustificano visto che si discute sulla possibilità di un imputato di intervenire o meno al processo».

A questo punto il leader di Forza Italia dichiara di non poter accettare la decisione del tribunale, affermando che si può procedere in sua assenza alla celebrazione di un processo che definisce ingiusto. Che cosa succederà adesso?

«Mi pare di capire che Berlusconi rinunci ad eccepire l'impedimento a partecipare al processo e quindi a sospenderlo, ma preferisca che vada avanti senza di lui. Reagisce, in questo modo, ad una decisione che percepisce come offensiva nei suoi confronti». Anna Maria Greco

"Perizia psichiatrica inutile serve soltanto a screditare". Stefano Zurlo il 18 Settembre 2021 su Il Giornale. L'ex presidente del Senato: "I magistrati sono fermi a 25 anni fa. Il caso Palamara non ha insegnato nulla".

La prende con sarcasmo: «Hanno esaurito il credito ma sono ancora lì a sparlare».

Chi?

«I magistrati», risponde rapido Marcello Pera, ex presidente del Senato, filosofo, accademico. Dopo scandali e accuse reciproche far le toghe, ora le polemiche riguardano i giudici di rito ambrosiano e la decisione, sconcertante, di disporre una perizia psichiatrica nei confronti di Silvio Berlusconi. «L'intera vicenda - riprende l'autore di molti libri e pamphlet, a Palazzo Madama dal 1996 al 2013 - ha dell'incredibile».

Perché, professore?

«Per almeno tre ragioni. La prima naturalmente è che c'è già stata una sentenza della cassazione sul caso Ruby».

Il Rubygate doveva finire con quel verdetto?

«Sì e invece lo hanno riaperto».

E ora al cardiologo affiancano lo psichiatra.

«Della perizia psichiatrica non c'è palesemente bisogno, se non a scopo di discredito. Ma non c'è solo questo: c'è un linguaggio pesante, come quando dicono che Berlusconi è affetto da vecchiaia. Non vogliono usare un vocabolario più consono, quello di cui si servirebbero per rivolgersi ai loro padri: quelli sono anziani, il Cavaliere è un vecchio».

La terza ragione?

«Questi magistrati sono ormai privi di autorevolezza. Così Berlusconi farà come altre volte ha fatto, approfittando dei falli inutili dei giudici: volgerà la situazione a proprio beneficio».

Sembra di essere tornati al passato, ai duelli e agli attacchi che speravamo di aver superato una volta per tutte. Professore, che succede?

«Anche questo è incredibile. Dopo il caso Palamara - che non è uno scandalo ma porta a galla il normale funzionamento del consiglio superiore della magistratura da quando è nato - si poteva sperare in un'azione di recupero di credibilità».

Invece, un ex presidente del Consiglio viene sottoposto ad un test per capire se c'è con la testa.

«Non c'è niente da fare: questi magistrati vanno avanti alla stessa maniera degli ultimi venticinque anni».

Ma l'opinione pubblica non ha voltato loro le spalle?

«Certo, la differenza è che oggi c'è sempre meno gente, compresi i tifosi di ieri, che sia disposta a seguirli».

Come finirà questa storia?

«Alla fine i magistrati saranno travolti e questo naturalmente sarà un danno per le istituzioni democratiche».

Le riforme?

«Se Draghi e Mattarella non avessero altre agende importanti, avrebbero fatto bene a spendere qualche parola sul tema della radicale modifica dell'ordinamento costituzionale della magistratura, invece di somministrarci la cosiddetta riforma Cartabia».

Davvero, non salva niente?

«Se vogliamo davvero mettere mano alla giustizia e porla al servizio del cittadino e del bene comune, dobbiamo avere il coraggio di cambiare alcuni articoli della Costituzione. Altrimenti, si andrà avanti con questo o quell'intervento, ma sarà solo un'operazione di cosmesi».

I partiti non ci sono riusciti. È dai tempi di Mani pulite, dal 1992, che l'agenda della politica reclama interventi. Ma tutte le proposte sono rimaste sulla carta.

«Se i partiti fossero vivi, dovrebbero anch'essi meditare qualcosa».

Professore, sempre pessimista? Critiche e obiezioni per tutti, dal Quirinale a Palazzo Chigi e al Parlamento?

«È quel che vedo e constato: zitti gli uni, afoni gli altri».

Stefano Zurlo

La patologia delle toghe. Augusto Minzolini il 17 Settembre 2021 su Il Giornale. C'è sempre una goccia che fa traboccare il vaso quando è colmo. La "trovata" del Tribunale di Milano di sottoporre Silvio Berlusconi ad una perizia psichiatrica nell'ennesimo processo a cui è sottoposto nella sua vita, è la classica goccia. C'è sempre una goccia che fa traboccare il vaso quando è colmo. La «trovata», perché non ha nulla di logico e di razionale, del Tribunale di Milano di sottoporre Silvio Berlusconi ad una perizia psichiatrica nell'ennesimo processo a cui è sottoposto nella sua vita, è la classica goccia. È la prova che le vicende processuali dell'ex premier non hanno nulla a che vedere con la giustizia, ma somigliano ad una vera e propria persecuzione con finalità politiche. Sottoporre, infatti, Berlusconi ad una perizia psichiatrica significa gettare un'ombra sul suo passato, sul ruolo che ha svolto in politica e nelle istituzioni (per non parlare della sua storia di imprenditore) e, nel presente, tagliarne le ambizioni, privarlo cioè di un domani. Magari l'esempio potrà sembrare esagerato, ma la vicenda fa venire in mente, con tutte le differenze del caso, il trattamento riservato ai dissidenti in Unione Sovietica che venivano posti di fronte alla scelta: o dichiararsi colpevoli, o essere rinchiusi in un psikhushka, un ospedale psichiatrico. Un paragone che, applicato al nostro sistema, dimostra che la vecchia lezione per cui bisogna «difendersi nel processo», con la magistratura che abbiamo, non ha senso. Semmai ci sono situazioni, e constatarlo già di per sé fa venire i brividi, in cui è necessario «difendersi dal processo». Del resto, come si può spiegare in maniera diversa il caso di un'assoluzione piena in Cassazione, come quella che ha avuto Berlusconi sul «caso» Ruby, che si porta dietro una miriade di processi per «corruzione in atti giudiziari» con il solo scopo di salvare la faccia all'accusa? Cioè a quei pm che, nella loro opera di persecuzione del personaggio, hanno dilapidato soldi pubblici, arrivando addirittura a trasformare la presunta vittima (Ruby), che non si è mai sentita tale, in un'imputata. Questa storia fa parte a buon titolo del capitolo degli «assurdi», di quelli che descriveva Vladimir Bukovskij in un libro del 1972, «una nuova malattia mentale in Urss: l'opposizione». Appunto, la «patologia» psichiatrica che un certo tipo di toghe vede in Berlusconi, è quella di essersi opposto all'uso politico della Giustizia. Solo che nel Paese i presunti «malati» che denunciano la degenerazione del nostro sistema giudiziario si sono moltiplicati e alcuni hanno nomi inaspettati. «La politica - ha dichiarato Luciano Violante a Il Giornale - ha lasciato il campo alla magistratura e la magistratura se lo è preso». «In Italia - è l'analisi di Sabino Cassese - si è affermato un vero e proprio quarto potere, le procure». Discorsi che un tempo faceva solo Berlusconi. Ora un po' tutti. Magari dopo aver letto i racconti di Palamara. O assistendo alle cronache del Tribunale di Milano, dove i pm si denunciano l'un l'altro e si indagano l'un l'altro. Le firme sotto i referendum sulla giustizia, nei fatti, sono solo il termometro della sfiducia verso una certa magistratura, che ha fatto venire meno in Italia anche la speranza del mugnaio di Potsdam, cioè che esista almeno un giudice a Berlino. Augusto Minzolini

Silvio Berlusconi, Antonio Tajani: "La decisione del Tribunale di fare una perizia psichiatrica è illogica e offensiva”. Libero Quotidiano il 17 settembre 2021. “La decisione del tribunale di sottoporre Silvio Berlusconi a perizia psichiatrica è priva di ogni logica. Ha fatto bene Berlusconi a rifiutarsi. Sarebbe un’offesa alla sua storia di leader di partito, di capitano d’impresa e di uomo di sport. Mi sembra un accanimento nei suoi confronti” così il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani alla sede dell’Associazione stampa estera a margine della conferenza stampa di presentazione vertice Partito popolare europeo del 20-22 settembre.

Nicola Porro, perizia psichiatrica a Berlusconi: "Brunetta, Carfagna e Gelmini... nulla da dire?" Libero Quotidiano il 17 settembre 2021. L'ultima porcheria della magistratura contro Silvio Berlusconi? La richiesta di una perizia psichiatrica nell'ambito del caso Ruby-ter. Già, le toghe volevano verificare la salute mentale del leader di Forza Italia. Troppo, anche per chi, come Berlusconi, da più di 20 anni vive sotto costante assedio giudiziario. Tanto che in questo caso, il Cavaliere, con una durissima missiva rivolta ai magistrati, ha rifiutato in toto di sottoporsi a tale perizia, definita "offensiva e lesiva della mia personalità". E ancora, nella missiva Berlusconi aggiungeva di proseguire il processo anche in sua assenza. Invito immediatamente "accolto" dalle toghe, secondo le quali il rifiuto di sottoporsi alla perizia significa rinunciare al legittimo impedimento. In questo contesto, come notava a caldo Dagospia, la condanna per Berlusconi in questo processo lunare, ora, diventa molto più probabile. Quasi scontata: la sua assenza in aula peserà, eccome. E in virtù della probabile condanna, il leader di Forza Italia potrebbe essere tagliato fuori dai giochi per il Quirinale. E fino a qui, i fatti. E sulla base di questi fatti fanno molto rumore, e scalpore, le parole di Nicola Porro nella sua rubrica quotidiana, la Zuppa di Porro, dove commenta quanto accaduto. "Vogliono fare la perizia psichiatrica al Berlusca e solo a destra i giornali lo difendono - premette: toc toc, ministri del Cav che un tempo stavate davanti al palazzo di giustizia, i vari Brunetta, Carfagna, Gelmini, nulla da dire?", picchia duro Porro, rimarcando il loro silenzio (almeno fino alla messa in onda della rubrica). 

Berlusconi perseguitato, lo sfogo di Gasparri: "Perizia psichiatrica? Sì, per i magistrati". Libero Quotidiano il 17 settembre 2021. "Vogliono fare la perizia psichiatrica a Silvio Berlusconi? La perizia psichiatrica andrebbe fatta a chi l’ha proposta! È un gesto offensivo verso Berlusconi e verso milioni e milioni di italiani che lo votano". Questo il durissimo messaggio che accompagna il video postato sui social da Maurizio Gasparri sulla perizia psichiatrica richiesta per il processo Ruby ter nei confronti del leader di Forza Italia. Il Cavaliere, da par suo, ha rifiutato di sottoporsi a simile esame, affermando che il processo potrà proseguire anche in sua assenza. E ovviamente la magistratura ha raccolto l'assist, considerando quanto detto da Berlusconi una rinuncia al legittimo impedimento.

Prodi "scagiona" il Cav: "La perizia psichiatrica ennesima follia italiana". Stefano Zurlo il 21 Settembre 2021 su Il Giornale. L'ex premier interviene in favore di Berlusconi. E chiude all'ipotesi Colle: "Sarei un incosciente". Rivalità e ruggini sono sepolte. Ora Romano Prodi sembra riconoscere che con Silvio Berlusconi si è superato il segno. Almeno in quest'ultima incredibile tornata giudiziaria. «La perizia psichiatrica è una delle ennesime follie dell'Italia», afferma l'ex premier che fu il leader dell'Ulivo e forse il più tenace avversario del Cavaliere. Siamo al Castello di Santena, in provincia di Torino, e per l'occasione Prodi riceve il Premio Cavour 2021. Giovanni Minoli pone le domande e naturalmente non si lascia sfuggire la ghiotta opportunità. Così gli chiede di quella richiesta di perizia avanzata dai giudici del Ruby Ter che ha provocato l'ira del Cavaliere; l'ex numero uno della Commissione europea ha ormai sotterrato l'ascia di guerra e deve essere entrato in un'altra dimensione: ha appena pubblicato le memorie di un ottuagenario, Strana vita, la mia e scruta orizzonti più rarefatti. Minoli lo stuzzica, lui risponde senza acrimonia, prendendo implicitamente le difese del Cavaliere. La perizia psichiatrica, chiesta dal tribunale di Milano, è una follia. Appartiene al catalogo delle bizzarrie italiane. La storia è nota: il tribunale ha disposto l'esame, uno sfregio personale ma anche per il Paese, e Berlusconi ha risposto per le rime: i giudici vadano pure avanti, lui non si sottoporrà ad alcun test, considerato a dir poco umiliante. La corte a questo punto ha annullato la perizia ormai inutile, ma il danno era fatto. E Prodi, avversario per una vita, stigmatizza un gesto che deve essergli apparso insensato. Un oltraggio ad uno dei grandi protagonisti della storia patria del Dopoguerra. Per la verità, Prodi non si ferma qua e va oltre, osservando con compiacimento l'evoluzione di Forza Italia: l'ingresso degli azzurri nel Ppe «ha avuto l'esito di spostare Forza Italia verso una linea europea». Dunque, il prossimo anno - butta lì Minoli - il Cavaliere potrebbe ricevere il Premio Santena. «Questo - replica lui - dipende dalla giuria, non da me». Certo, nella biografia, Prodi ricostruisce un incontro illuminante con Helmut Kohl, allora stella polare dei Popolari. Lo statista tedesco dava in privato giudizi taglienti su Berlusconi, ma aveva deciso di accoglierlo nella famiglia dei Popolari europei. Prodi, scandalizzato e disorientato, gli chiede in quel meeting: «Ma che stai facendo?», l'altro gli fa capire che quella è la strada da seguire. «Aveva ragione lui - ammette ora il professore bolognese - Forza Italia è oggi una forza europeista. Quello è stato il capolavoro di Kohl».

Insomma, il gioco dei ricordi, sollecitati anche da Minoli, porta Prodi a schierarsi due volte con Berlusconi. Mai visto prima. Così la chiacchierata con Minoli si fa sorprendente e sfratta vecchi luoghi comuni; contemporaneamente arriva l'ennesimo disimpegno rispetto al Quirinale: «Ho 82 anni, affrontare un settennato sarebbe da incoscienti». E alla salita al Quirinale, scrive nelle confessioni, preferisce la salita allo Stelvio. «Almeno finché mi è possibile. Resta l'amarezza per i 101 franchi tiratori che lo impallinarono nel 2013, in realtà molti di più, 118 o 120, ma quella è ormai una storia archiviata. Anche se quella congiura resta un mistero di palazzo ben custodito. Su Berlusconi, invece, il giudizio è ora quasi benevolo e quella condanna della perizia, forse una svista più che un colpo a freddo, è un attestato di solidarietà dopo le infinite liti e punture di spillo del passato. A 82 anni, anche Prodi critica una magistratura sempre più in crisi. Stefano Zurlo

Vittorio Feltri, perizia psichiatrica al Cav? Allora un esame di latino per chi lo vuole processare. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 17 settembre 2021. Di questi tempi cupi si discute di riforma della giustizia e ciascuno dice la sua con qualche ragione. Vedremo come andrà a finire, non sono ottimista, ma spero di sbagliare. Io non ho studiato giurisprudenza ma chiedo ai magistrati se conoscono bene il diritto romano che secondo me è ancora oggi alla base della materia giudiziaria. Credo altresì che la lingua latina, attualmente snobbata, sia ancora basilare e andrebbe approfondita non solo da chi poi indossa la toga, ma anche dai cittadini. La vecchia lingua madre non è del tutto vero sia morta, semmai è trascurata e ciò crea dei danni alla comunicazione. Un esempio cretino ma significativo è il seguente: in latino si dice sì o no, quasi mai forse. Il che fa capire che duemila anni fa i discorsi erano più concreti di oggi, molto più diretti e non si prestavano a tanti giri di parole causa di troppi dubbi. Il diritto romano era espresso in modo chiaro e consentiva di capire dove erano i torti e dove le ragioni. Si basava sulla realtà sociale dell'epoca e non dava spazio a equivoci. Oggi invece, basta leggere una qualsiasi sentenza, l'abitudine è quella di menare il can per l'aia, benché le aie non esistano praticamente più. Il problema del latino dimenticato, o quasi, rende difficile non tanto la conversazione quanto la prosa scritta. Nessuno o pochi sanno cosa sia la consecutio temporum, sicché il congiuntivo che non esprime certezze è diventato facoltativo. Purtroppo l'abbandono del latino è foriero di confusione espressiva. Negli anni Cinquanta, alle scuole medie, la lingua di Cicerone era obbligatoria sin dal primo anno, e al terzo gli allievi traducevano il De bello gallico, che oggi invece viene affrontato in seconda liceo (quinta ginnasio, si diceva una volta). Questo dettaglio fa capire che la scuola si è squalificata. Cassata la riforma Gentile si è compiuto un disastro da cui non ce la facciamo più ad uscire. Inutile prendersela con i ministri dell'Istruzione e con gli insegnanti. È la struttura dell'istruzione che si è sfaldata. Allorché la media fu unificata negli anni Sessanta, si scoprì che mancavano professori sufficienti a coprire tutte le cattedre, per cui vennero cooptati vari studenti universitari. Che non erano preparati pedagogicamente. Fu uno sfracello le cui conseguenze anche oggi si fanno sentire. Il latinorum cessò di essere una palestra decisiva, e il risultato è evidente. Date una occhiata ai documenti emanati dai giudici e capirete. Oggi apprendiamo che volevano sottoporre a perizia psichiatrica Silvio Berlusconi. Farei piuttosto un esame di latino a chi lo vuole processare. 

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 19 settembre 2021. Comprendiamo l'irritazione di Silvio Berlusconi nell'apprendere che i magistrati, quelli che lo vogliono a processo (l'ennesimo), hanno chiesto di sottoporlo a perizia psichiatrica. La qualcosa, interpretata in senso malevolo, insinua che il più grande imprenditore italiano non abbia tutte le rotelle funzionanti. È normale che il Cavaliere si sia offeso a sangue e pretenda di rifiutare l'esame. Sul piano emotivo è difficile dargli torto. Tuttavia io al posto suo avrei accettato il confronto con gli strizzacervelli per una ragione semplice. Egli da mezzo secolo ed oltre è unanimemente considerato tra gli uomini più intelligenti e capaci d'Italia. Giudizio confortato dai risultati concreti ottenuti in vari campi: da giovanissimo Silvio ha costruito una città satellite modello, Milano 2, un capolavoro, poi si è inventato l'emittenza privata, mettendo in piedi un impero tuttora grandioso, con Mediolanum è diventato un banchiere formidabile, nel mondo del calcio ha spopolato come nessun altro. Un personaggio tanto abile non può che essere un genio, è impossibile che un cretino rincoglionito sia in grado di dominare su mercati tanto diversi. Se Silvio avesse accettato di essere esaminato dal punto di vista mentale avrebbe avuto esiti esaltanti. Nessun medico che non sia pazzo potrebbe dargli del rimbambito. Non esiste connazionale normodotato che non ammiri il Cavaliere, del quale perfino gli avversari politici riconoscono i meriti. In parole povere, di questo individuo si può dire di tutto meno che sia scemo. L'esito della eventuale perizia, qualora si fosse svolta, non sarebbe stato negativo, anzi, avrebbe decretato la superiorità intellettuale del soggetto in questione. Perfino in politica, dove di solito emergono i mediocri, Berlusconi ha ottenuto un successo mai visto: è riuscito a vincere alcune elezioni nazionali con un partito messo in piedi in poche settimane. La superiorità di Silvio è di una evidenza sfacciata e questo lo sanno benissimo anche i giudici benché fingano di ignorarlo, dimostrando di capire poco, anzi nulla, degli imputati che essi si ostinano a perseguire senza un motivo molto diverso dall'odio. O dall'invidia che è il motore di questa società marcia, la quale considera la ricchezza un peccato mortale anziché una benedizione di Dio.

Il nemico pubblico resta il Cav. La Procura di Milano affonda ma continua la persecuzione contro Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 18 Settembre 2021. Che cosa succederebbe se in un luogo istituzionale della politica, mettiamo il Governo o il Parlamento, si insinuasse il dubbio che Marco Tremolada, presidente della settima sezione penale del tribunale di Milano, potrebbe essere “pazzo”, e che la pm Tiziana Siciliano è solo una “vecchia”? In fondo, questo gioco di maliziosa fantasia potrebbe trovare supporti e credibilità persino all’interno dello stesso palazzo di giustizia di Milano. Il presidente Tremolada si è attirato non poche antipatie dopo la sentenza di assoluzione dei vertici Eni, nelle cui motivazioni non ha risparmiato critiche urticanti su certi comportamenti della pubblica accusa, che ha caparbiamente presentato ricorso in appello. E, con il clima di scontro e di guerriglia permanente che ormai domina le giornate della magistratura milanese e gli schieramenti da curva nord pro e contro il tal pm o il tal giudice, trovare qualcuno che abbia considerato una follia la sentenza Eni non è difficile. Quanto a Tiziana Siciliano, è un dato di fatto che, essendo lei nata nel 1955, qualcuno che sia uso a adoperare il suo raffinato lessico d’aula, possa definirla una “vecchia”. Un termine che, essendo lei una donna, sarebbe ancor più offensivo di quanto sia risuonato nell’aula del processo “Ruby ter”, quando lei apostrofò in quel modo l’imputato Silvio Berlusconi.

Che cosa succederebbe dunque se in Parlamento, dopo che per esempio un capogruppo avesse sprezzantemente definito “solo una vecchia” la pubblico ministero, il presidente avesse richiesto una perizia psichiatrica per il dottor Tremolada? È un paradosso, non potrebbe mai accadere. Ma perché le istituzioni, i partiti politici, il sistema mediatico, l’opinione pubblica devono consentire che tanta violenza, tanto disprezzo per la persona e per la simbologia rappresentata da un ex presidente del consiglio, un uomo di Stato, un grande imprenditore, vengano diffuse a piene mani in un’aula di giustizia? In quel luogo in cui la civiltà di un Paese è rappresentato dalla dea con la bilancia, che dovrebbe rappresentare l’equità e la saggezza, ma soprattutto l’uguaglianza di ogni cittadino davanti alla legge? Silvio Berlusconi non è stato mai trattato alla pari degli altri cittadini. Non ha mai potuto godere dei diritti di noi persone “normali”. È il Caino cui non è mai stato neanche dedicato un Comitato ad personam. La persecuzione nei suoi confronti non ha tregua. Persino oggi, mentre il Titanic delle toghe sta affondando, c’è ancora qualcuno che fa suonare l’orchestra. La ballata delle manette. Quasi a raccontarci che lì dentro non è cambiato niente. Che se anche il procuratore Greco e l’ex “dottor sottile” del pool Mani Pulite si prendono a schiaffoni, se anche i sostituti si schierano con Paolo Storari contro il capo, se anche le carte segrete ormai non vengono più depositate in edicola, perché le edicole sono chiuse e i giornalisti invece di fare lo scoop corrono terrorizzati a restituire le carte al procuratore. Se anche succede tutto questo, c’è sempre un’isola speciale dedicata a lui, un luogo dove splende ancora il sole del prestigio della procura milanese e dove si può impunemente tenere strette le manette ai polsi di Berlusconi, quel povero vecchio pazzo. Il film continua, pornografi in toga e pornostar da tastiera sono sempre al loro posto, in quell’isola si suona ancora la stessa musica, mentre il transatlantico affonda. Ricordate? Berlusconi aveva appena vinto le elezioni del 2008 e ancora non si era riusciti a incastrarlo come politico corrotto. Sarebbe stato così semplice eliminare l’Uomo Nero per via giudiziaria come era stato fatto con Bettino Craxi e gli altri della prima repubblica. Del resto Luca Palamara non ha scritto nel libro con Sallusti che lui stesso, che era il capo dei sindacalisti in toga, aveva imbracciato il fucile contro il presidente del consiglio? Così si creò il pornofilm.

Il primo tempo fu girato a Casoria. L’innocentissima cena di compleanno di una diciottenne, con mamma papà e amici imberbi fu fatale alla presenza di Berlusconi, e grande scoop per una cronista locale di Repubblica. La notizia fu trattata con la stessa pruderie che avrebbe meritato l’irruzione di un gruppo di suore in un bordello a luci rosse. E la povera Noemi Letizia fu trasformata in una giovane messalina e mai più lasciata a vivere in pace le sue avventure di ragazza.

Il secondo tempo sposta la troupe del pornofilm a Bari, la protagonista è una fanciulla meno giovane e meno innocente. Dietro la macchina da presa c’è ancora un cronista locale, del Corriere questa volta. La zoomata coinvolge anche un magistrato, da poco insediato al vertice della procura della repubblica, che viene subito trascinato per i capelli a giustificare sul perché non abbia ancora messo le manette ai polsi dell’Uomo Nero. In effetti quella toga una grave macchia l’aveva nel suo dna, non faceva parte della banda vincente dei magistrati, quella di sinistra. I colleghi di Lecce lo indagarono per abuso d’ufficio e favoreggiamento. Fu poi prosciolto, ma solo dopo ampio sputtanamento da parte di pornografi in toga e pornostar da tastiera.

Il terzo tempo del film è anche il piatto forte. Siamo a Milano. La protagonista una giovane marocchina, che ha solo il torto di avere diciassette anni e mezzo e non diciotto, e di dimostrarne qualcuno di più, per l’aspetto, la bellezza appariscente e le movenze sinuose. Anche in questo terzo tempo la zoomata riprende una toga che diventa vittima. È il procuratore aggiunto che ha la delega per i reati contro la Pubblica amministrazione, quindi anche per il reato di concussione su cui si indaga nei confronti di Silvio Berlusconi. Ma non è di Magistratura Democratica, come potrebbe “imbracciare il fucile” nello stile Palamara? Meglio passare le carte a una collega, quella giusta per quel ruolo, anzi cacciare addirittura il pm “sbagliato” da Milano, magari farsi dare un aiutino dal massimo vertice dello Stato e del Csm.

Succede poi che se il film si chiude con un finale brillante per l’imputato, che, come l’eroe di un bel western, dopo tante traversie arriva trionfante alla vittoria e pensa già di volare felice tra le braccia della sua bella, e vede persino all’orizzonte il Titanic delle toghe che affonda, ecco che le poche toghe rimaste accendono la ballata delle manette: Ruby uno e due e tre. Perché, maledetti testimoni, avete dato ragione a Berlusconi e al tribunale dell’appello e a quello della cassazione? Siete falsi e corrotti. E noi continueremo a processarvi all’infinito insieme al vostro corruttore, all’Uomo Nero, al Nemico. Che è un vecchio, che è pazzo. La Ballata delle manette. Suonala ancora, Sam.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

L'esame psichiatrico richiesto dalle toghe di Milano. Perizia psichiatrica per Berlusconi, anche la sinistra si schiera col Cav: “È assurda”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 18 Settembre 2021. L’offensiva dei magistrati di Milano verso Silvio Berlusconi è stata, direbbe Lapalisse, offensiva. La richiesta di perizia psichiatrica sull’imputato – la si voglia definire inusuale, atipica o provocatoria – è senza precedenti. Per la notorietà del processo, il Ruby Ter, e per quella del protagonista, che ha dato riprova pubblica di lucidità anche negli ultimi tempi. L’incontro con il premier Mario Draghi, durato oltre un’ora e definito tanto cordiale quanto costruttivo, mal si addirebbe a un soggetto psicofragile. Che infatti insorge con una reazione pronta e piccata. «Sento lesa la mia storia e onorabilità», ringhia da Arcore. Il centrodestra si indigna, gli avvocati fanno sapere che Berlusconi non sarà più in aula. Tanto che il magistrato che presiede la settima sezione penale di Milano sente la necessità di replicare con una nota. E mette le mani avanti spiegando che con quella richiesta di perizia si volevano accertare “esclusivamente” le condizioni di salute, «tali da permettere una attiva partecipazione al processo» dell’imputato, «così come declinata dalla più recente giurisprudenza di legittimità sul punto». E quindi non limitata alla sola “partecipazione fisica” alle udienze, ma anche all’accertamento di eventuali ‘ostacoli’ nella “articolazione di una linea difensiva” nel dibattimento, oltre che a stabilire se l’impedimento per motivi di salute avesse una “eventuale irreversibilità”. Com’è, come non è, l’affondo senza precedenti scuote le coscienze anche al di fuori del perimetro berlusconiano. È il portavoce del senatore Andrea Marcucci (Base Riformista) Aldo Rosati, a lanciarsi con un post social: «La perizia psichiatrica chiesta dai giudici ad un signore che è stato due volte Presidente del Consiglio è un affronto palese. Credo che Silvio Berlusconi abbia fatto benissimo a sottrarsi a questa umiliazione».

«Non conosco bene le richieste difensive e gli atti del processo», precisa il deputato Pd Enrico Borghi, membro del Copasir, «ma certo così a prima vista sembra una richiesta piuttosto discutibile». Rincara la dose il deputato dem Fausto Raciti, vice presidente della commissione Affari Costituzionali a Montecitorio: «La trovo una assurdità sul piano giuridico e un’offesa sul piano democratico. Non si tratta solo di Berlusconi e del trascinarsi stanco dei suoi processi, ma di una insolenza nei confronti di un uomo politico che varrebbe come precedente». Un eccesso che preoccupa una paladina dei diritti quale Emma Bonino. La senatrice, che di recente è rientrata in Più Europa, è sgomenta. «Non avrei mai pensato che si sarebbe potuti arrivare a questo punto, pur negli scenari più foschi della situazione della malagiustizia di questo Paese». Un giurista di grande fama come Angelo Piazza, già ministro della Funzione pubblica (socialista dello Sdi, poi Rosa nel Pugno) non ha dubbi: «Dal suo punto di vista Berlusconi ha ragione a rifiutare la perizia. Per lui il provvedimento suona come uno sfregio, più ancora che una provocazione». Chi con gli sfregi giudiziari ha dovuto fare i conti in casa sin da giovane è Bobo Craxi, che oggi corre per il Comune di Roma a sostegno di Roberto Gualtieri. «Siamo di fronte a una persecuzione politica e giudiziaria bella e buona. È il leader politico di un partito democratico e non c’è Paese nell’Occidente europeo che abbia vissuto un trattamento di questa natura. C’è qualcosa di malato negli inquirenti, non nell’imputato». Per Italia Viva parla il deputato Roberto Giachetti: «Penso che quell’atto non sia provocatorio ma persecutorio. Il colpo di coda di una piazza, quella di Milano, avvolta e travolta dai veleni interni dentro la più ampia sensazione di sbandamento che sta dando la magistratura associata attraverso (non più isolati) suoi ‘autorevoli’ rappresentanti». Da registrare infine le parole del presidente emerito della Consulta, Cesare Mirabelli, affidate a Formiche.net. «La decisione di Berlusconi è stata un atto di grande coraggio», chiosa il giurista. «È probabile che la decisione di non volersi sottoporre alla perizia psichiatrica metta seriamente in discussione l’imparzialità del giudice chiamato a esprimersi sul Ruby ter».

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Berlusconi vittima delle follie parallele di un manicomio metaforico. La procura di Milano chiese 4 mesi fa “lo stralcio” della posizione di Berlusconi dal processo Ma l’ 8 settembre scorso ha cambiato orientamento. Francesco Damato su Il Dubbio il 18 settembre 2021. Il manicomio, per quanto metaforico, al quale Silvio Berlusconi si è sentito destinato da quell’“ampia e illimitata perizia psichiatrica”, come lui l’ha definita, disposta dal Tribunale di Milano che lo sta processando dal 2018 per “induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria”, si è dissolto solo formalmente con la sua orgogliosa rinuncia, appena comunicata al presidente della settima sezione, a chiedere per ragioni di salute altri rinvii di udienze nel prosieguo del processo. Che pertanto continuerà in sua assenza, non so se concludendosi rapidamente, e incrociando chissà quali scadenze politiche e istituzionali per la solita, presunta casualità, con un’assoluzione o una condanna, pessimisticamente più prevista dall’interessato. Secondo il quale proprio la disposizione di quell’ampia e illimitata perizia psichiatrica, anziché di una semplice perizia “medico- legale e cardiologica”, come ha scritto Berlusconi nella lettera, proverebbe “un evidente pregiudizio” nei suoi confronti, e quindi una predisposizione a condannarlo. Il manicomio, sempre metaforico, per carità, grazie all’abolizione disposta tanti anni fa dalla legge Basaglia, rimane aperto perché stento personalmente a capire, per esempio, il cambiamento intervenuto fra maggio e settembre di quest’anno nella linea della Procura di Milano, e fatta notare nella lettera di Berlusconi. In particolare, la Procura diretta da Francesco Greco, che sta concludendo il suo mandato tra imbarazzanti polemiche, se non le vogliamo meglio definire inquietanti, chiese 4 mesi fa “lo stralcio” della posizione di Berlusconi dal processo “condividendo – ha scritto l’imputato – la fondatezza delle ragioni mediche” esposte nelle relazioni depositate in tribunale. Ma l’ 8 settembre scorso, in occasione di un’altra udienza cui Berlusconi si sentiva impedito a partecipare per ragioni di salute, fra un controllo e l’altro al San Raffaele, la Procura ha cambiato atteggiamento “con toni e metodi davvero inaccettabili nei confronti miei e dei medici che mi hanno per molte volte visitato”, ha scritto l’ex presidente del Consiglio. Che cosa è o può essere accaduto fra maggio e settembre per fare cambiare opinioni, umori e quant’altro nella Procura milanese sino a fare di Berlusconi un possibile malato di mente? Al Foglio di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa, in un giudizio che accomuna pm e giudici, si sono dati questa risposta: la volontà “più o memo inconsapevole” degli uni e degli altri di “recuperare il prestigio giustizialista di una struttura giudiziaria, quella milanese, che è attraversata da tensioni e da veri e propri scandali che sono arrivati alle denunce reciproche tra magistrati che hanno ricoperto e ricoprono ruoli apicali”. È evidente il richiamo alle polemiche già accennate fra le quali si sta concludendo l’esperienza di Francesco Greco alla Procura ambrosiana, sbottato in una intervista al Corriere della Sera contro il sempre più diffuso carattere “corporativo” e “autoreferenziale” della magistratura. Cui è seguito, fra l’altro, un preavviso di querela di Piercamillo Davigo sul Fatto Quotidiano. Col quale collabora lo stesso Davigo: il “dottor Sottile” fra gli inquirenti di Mani pulite, salito nella carriera giudiziaria sino a presidente di sezione della Cassazione, approdato infine al Csm, decadutovi col pensionamento e ora sotto indagine per i verbali secretati dell’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara su una loggia affaristica, politica e giudiziaria, finiti nei suoi cassetti nel Palazzo dei Marescialli e infine approdati sui giornali. “Può darsi che qualche manettaro impenitente ci caschi, che creda alla favola di un tribunale che non guarda in faccia a nessuno e di un Berlusconi che si nasconde dietro ai referti medici” per sottrarsi al giudizio e quant’altro, hanno temuto al Foglio opponendo a questo scenario una “verità talmente lampante” di arbitrio da “far sperare che questa volta siano davvero pochissimi a farsi intontire da queste manovre, tanto insistenti da diventare quasi stucchevoli”. Al manicomio metaforico appartiene tuttavia l’intera storia di questo processo noto come Ruby ter, e articolato in ben sette spezzoni, versioni e quant’altro. Tutto parte dal sospetto avvertito e denunciato alla Procura milanese nel 2013 dalle giudici di primo grado che condannarono Berlusconi a 7 anni per prostituzione minorile, nonostante le testimonianze presuntivamente false e remunerate delle sue vittime o complici. Ma quella condanna fu smentita dall’assoluzione l’anno dopo in appello, l’anno ancora successivo dalla Cassazione. Eppure Berlusconi – incredibile a dirsi fuori da un pur metaforico manicomio ha continuato ad essere indagato e processato per induzione, ripeto, a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria”. Che è un reato, sancito dall’articolo 377 bis del codice penale, che prevede una condanna da 2 a 6 anni. Il codice parla anche della possibilità che il fatto si riveli nel processo un reato ancora “più grave”, spero non configurabile come tale per il proposito attribuito all’“imputato” Berlusconi, a torto o a ragione, da avversari e persino da amici consolidati, di partecipare a 85 anni compiuti alla gara per il Quirinale, quando la corsa si aprirà ufficialmente con la convocazione delle Camere congiunte per l’elezione, col concorso dei delegati regionali, del successore di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Ed entriamo così in un altro reparto del sempre più metaforico manicomio.

 Vittorio Sgarbi e la perizia psichiatrica a Silvio Berlusconi: "I giudici vogliono togliergli le aziende". Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 18 settembre 2021.

«Devono finirla con questa rottura di coglioni: il processo non ha fondamento!».

Onorevole Sgarbi...

«No, ascolti: io ho partecipato a tutti i Bunga Bunga, e quelle erano mantenute, non prostitute! È come processare qualcuno perché ha tanti dipendenti. So bene di cosa parlo: alcune di quelle ragazze ho provato a portarmele a letto: non ci sono mai state».

Voleva rubare le ragazze a Berlusconi?

«Sì. Io portavo ad Arcore dieci amiche, volevo dimostrargli che avevo anch' io la mia armata. Lui si faceva trovare con le solite venti giovani, tutte bellissime. Il presupposto della prostituzione è del tutto infondato. Berlusconi non ha mai pagato una donna, ha sempre avuto un grande orgoglio».

Parliamo con l'onorevole Vittorio Sgarbi mentre sta andando in macchina da Parma a Guastalla, nella Bassa Reggiana. I magistrati del Ruby ter hanno chiesto a Berlusconi di sottoporsi a una perizia psichiatrica per stabilire se effettivamente sussista l'impossibilità a partecipare al processo. Lui si è rifiutato, sottolineando che sarebbe stata lesiva della sua storia e dell'onore. «Io li avrei mandati a fanculo, come ho sempre fatto. Detengo il record di denunce e querele ricevute: 670, di cui 540 vinte, l'ultima contro l'ex giudice Piercamillo Davigo».

Torniamo alla perizia psichiatrica.

«È una specie di contrappasso: da tempo le persone più avvedute la chiedono per i magistrati. Chi chiede la perizia psichiatrica aun uomo come Berlusconi, con la sua carriera e i suoi successi, merita di subirla».

Lo sta dicendo lei...

«Certo. C'è anche chi chiede la visita ai magistrati ogni tot di anni per vedere come stanno di mente».

Il Cavaliere, dopo aver rifiutato la perizia, va incontro a una probabile condanna. Come giudica la scelta?

«I suoi avvocati sono sempre stati prudenti. La campagna diffamatoria contro di lui e le ragazze meritava querele a giornali e trasmissioni, invece i legali hanno sempre detto "stiamo tranquilli", "meglio di no". Berlusconi quindi ha sempre mantenuto un basso profilo. Stavolta invece penso che abbia fatto di testa sua, d'altronde la richiesta dei magistrati era offensiva. Se tu dici "devi fare la visita psichiatrica" vuoi dire "possiamo salvarti soltanto se affermi che sei un deficiente". Berlusconi dovrebbe denunciarli. Oltretutto un processo a un 85enne è uno sfregio perché non puoi arrestarlo, sarebbe un'altra finzione giuridica. Che poi ripeto, manca il presupposto della prostituzione: che cazzo processi!».

Per il Tribunale di Milano la perizia è a garanzia dell'imputato.

«Esatto. Apparentemente la formula non è contro, ma a favore. Ad esempio il cameriere bengalese che ha ucciso il senatore Ludovico Corrao tagliandogli il collo è libero per questioni psichiatriche, è stato considerato matto o giù di lì. Se Berlusconi si fosse presentato in tribunale dando i numeri se la sarebbe cavata».

È una manovra di una parte della magistratura per impedirgli di diventare presidente della Repubblica?

«Non credo. Era un miraggio più che una possibilità concreta: non ha i voti sufficienti, gliene mancherebbero una quarantina. Penso piuttosto che i giudici volessero provare ad assolverlo ritenendolo incapace di intendere e volere».

Lo volevano umiliare: vuole dire questo?

«Sarebbe stata la conseguenza. Se avessero potuto dimostrare che era preda di raptus sessuali probabilmente avrebbero chiuso la vicenda. Peccato però che Berlusconi non sia un grande amatore e che le ragazze fossero lì per fare canzonette, ballare... Non erano puttane. Berlusconi ha mantenuto delle donne per puro divertimento, ma non per affari sessuali. Aggiungo una cosa».

Prego.

«Dietro ci potrebbe essere una questione provocatoria legata alle aziende: se ti dichiarano infermo di mente perdi il controllo delle società. Se sei inabile di testa non puoi proseguire l'attività di imprenditore».

Fino a qualche settimana fa si parlava di Prodi come possibile successore di Mattarella. Lei ha appena pubblicato un post su Facebook: «Romano Prodi ha scritto un libro dal titolo "Strana vita, la mia". Non leggerlo migliorerà la nostra». Pare di capire che le sia piaciuto.

«Molto. Giudizio positivo. Il prossimo presidente comunque sarà Draghi. Fine. A meno che non ci sia un'operazione alla Renzi, il quale tirò fuori dal congelatore Mattarella che nessuno sapeva più neanche se fosse vivo».

Il prossimo premier?

«Salvini, Meloni o Giorgetti».

L'ultima volta che ha sentito Berlusconi?

«L'8 maggio, per il mio compleanno. Voleva sapere come stessi dopo il cancro. "Sono ammalato anch' io", mi ha detto. "Qual è la tua malattia, Silvio?". "I giudici"». 

Perizia su Berlusconi, Renzi: "Sguaiata provocazione". Francesco Boezi il 18 Settembre 2021 su Il Giornale. Matteo Renzi torna sulla richiesta di perizia psichiatrica per Silvio Berlusconi. Per il leader d'Iv in questi anni c'è stata una "persecuzione". Matteo Renzi non smette di dire la sua sulla perizia psichiatrica richiesta per Silvio Berlusconi in funzione del Ruby ter. Poco fa, durante la presentazione senese di "Controcorrente", l'ultimo libro del leader d'Italia Viva ed a sua volta ex premier, Renzi ha ribadito il suo pensiero attorno a quanto avanzato dal Tribunale di Milano. Smentendo peraltro le voci riportate oggi su un presunto incontro estivo tra il vertice di Forza Italia e quello d'Italia Viva in funzione dell'elezione del prossimo presidente della Repubblica, il senatore d'Iv ha dichiarato che è "giusto verificare se è malato o meno" ma anche che "chiedere una perizia del genere assume i contorni di una inutile, sguaiata provocazione". Toni forti, in buona sostanza, che confermano come Renzi sia fermo nel giudicare quanto emerso durante la giornata di ieri. Una visione - quella dell'ex premier - che interpreta il tutto in modo netto: "Non si fa altro che confermare - ha fatto infatti presente il politico - che in questi anni c'è stata una persecuzione: non potrei definire altrimenti la perizia psichiatrica per un signore di 85 anni. Giusto - ha continuato Matteo Renzi - che Berlusconi presenti ricorso, e alla sinistra dico: arriverà il momento di dare un giudizio politico sulla sua vicenda senza cercare di combatterlo per via giudiziaria". Insomma, gli avversari di Silvio Berlusconi dovrebbero confrontarsi sul piano politico e basta. Ma è un ragionamento che certa sinistra ha sempre fatto fatica a digerire. Poi, come premesso, la smentita secca sul summit estivo: "Non vedo Berlusconi dal gennaio 2015 - ha proseguito il senatore - e non ho mai parlato con lui di Quirinale, di vicende giudiziarie si, di altro no. Ricordo - ha aggiunto Renzi - che Berlusconi non ha mai votato la fiducia al un mio governo e che io sono orgoglioso di aver eletto Sergio Mattarella, quando si ruppe il dialogo iniziato con il noto patto del Nazareno". Insomma, il retroscena de Il Corriere della Sera non corrisponderebbe alla realtà. Nel corso di queste ore, Forza Italia aveva peraltro domandato a tutte le forze politiche di non restare inermi dinanzi all'accaduto. Durante la presentazione del libro, il leader d'Iv, che sta organizzando la raccolta firme per il referendum sull'abolizione del reddito di cittadinanza, ha annunciato che, per due appuntamenti referendari prossimi, e cioè quelli per la legalizzazione dell'eutanasia e la liberalizzazione della cannabis, Iv si esprimerà, lasciano libertà di scelta: "Sui referendum per eutanasia e cannabis lasciamo libertà: personalmente non ho firmato e soprattutto il quesito sull'eutanasia mi lascia perplesso e credo di sentirmi in linea con la maggioranza dei cittadini ed aggiungo dei cattolici". Qualche distinguo dunque esiste. E ancora: "Questo referendum - ha dichiarato Renzi - inserisce una norma particolare come l'intervento attivo. Giuridicamente è un tema complicato ma su questi temi etici lasciamo libertà", ha chiosato.

Silvio Berlusconi, l'ultima porcheria dei giudici: "Era un favore a lui". Gli danno del matto e lo sfottono pure. Tommaso Montesano su Libero Quotidiano il 18 settembre 2021. Solo un «accertamento delle condizioni di salute» della parte interessata. Ovvero di Silvio Berlusconi. Una valutazione, attraverso una perizia medica, doverosamente «non limitata» a esaminare la capacità di «partecipazione fisica dell'imputato» alle udienze, ma anche volta ad accertare l'«insussistenza di un eventuale ostacolo all'effettiva articolazione di una linea difensiva» nell'intero dibattimento. E comunque sulla necessità di valutare le condizioni fisiche, anche psichiche, dell'ex premier, «come risulta da verbale d'udienza né la difesa né il pm hanno proposto osservazioni». Con una nota irrituale, è il presidente del tribunale di Milano in persona, Roberto Bichi, a difendere l'operato dei giudici della settima sezione penale, che mercoledì - su richiesta dei pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio - hanno disposto nei confronti di Berlusconi una perizia per stabilire l'effettivo impedimento a partecipare al processo "Ruby ter", nel quale è imputato per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza, del Cavaliere. Richiesta che lo stesso Berlusconi, l'altro ieri, ha definito «sorprendente», «al di fuori di ogni logica» e «lesiva» della sua storia e reputazione. Esempio di quel «pregiudizio» che ben fa comprendere, a detta del numero uno azzurro, quale sarà l'esito finale di questo «ingiusto processo».

I DATI DELLA PERSECUZIONE - A questo proposito, anche ieri, il Cav si è sfogato in privato, snocciolando i dati di quella che appare sempre di più come una persecuzione: «I procedimenti instaurati dopo la mia discesa in campo politica sono quantomeno 90 e hanno impegnato, in oltre 3.800 udienze, 130 avvocati e 50 consulenti». Adesso arriva la nota del presidente del Tribunale, che in nome della «più recente giurisprudenza» alza il muro a difesa dei suoi giudici, quindi confermando la necessità di un accertamento, anche di natura «psichiatrica», nei confronti di Berlusconi. «È una tenaglia che una parte della magistratura ormai da tempo sta stringendo attorno a Silvio Berlusconi. L'accerchiamento è sotto gli occhi di tutti. Ieri Milano, oggi Palermo», attacca Sestino Giacomoni, deputato azzurro e storico braccio destro dell'ex premier. Il riferimento è al processo d'appello sulla presunta trattativa "Stato-mafia", nel quale il sostituto procuratore generale di Palermo, Giuseppe Fici, ha affermato che Marcello Dell'Utri «ha sponsorizzato la nascita di Forza Italia nel mondo di Cosa nostra e della 'Ndrangheta». 

IL PARTITO SCALPITA - Una morsa inspiegabile soprattutto perché sono gli stessi camici bianchi a certificare la necessità di tutelare lo stato di salute di Berlusconi. L'ex premier, in vista del vertice del Ppe in programma a Roma dal 20 al 22 settembre, vorrebbe partecipare, «ma i medici gli hanno sconsigliato una presenza, gli consigliano riposo», rivela Antonio Tajani, vicepresidente di FI. Probabile che la partecipazione sia assicurata con un collegamento video o telefonico. Di certo il partito scalpita per stare vicino al suo leader: ieri i vertici forzisti hanno iniziato a interrogarsi sulle iniziative da assumere a sostegno di Berlusconi (gazebo nelle città o passi in Parlamento le più gettonate). All'ex premier è arrivata la solidarietà degli alleati. Lega in primis. Matteo Salvini ha definito quello contro Berlusconi «un accanimento giudiziario che non ha precedenti nella storia repubblicana. La perizia psichiatrica? Dovrebbe essere qualcun altro a essere visitato». Sulla stessa lunghezza d'onda Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera (Fratelli d'Italia): «Richiesta vergognosa oltre che offensiva. Le perizie psichiatriche debbano essere fatte a taluni magistrati». Michaela Biancofiore, deputata di Coraggio Italia, rilancia la proposta - già avanzata da Libero- di nominare Berlusconi senatore a vita: «Sarebbe un gesto storico di pacificazione nazionale. La nomina da parte di Sergio Mattarella potrebbe essere il minimo riconoscimento» per quanto subìto dal Cav per 25 anni. Da sinistra, arriva il sostegno di Bobo Craxi: «C'è qualcosa di malato negli inquirenti, non nell'imputato. Siamo di fronte a una persecuzione politica e giudiziaria bella e buona».

Silvio Berlusconi, perizia psichiatrica? Filippo Facci: chi sono i magistrati fuori di testa che ne hanno bisogno. "Berlusconi sempre trasparente con me", "Non le credo". Botta e risposta Gruber-Bernabè. E in studio cala il gelo. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 17 settembre 2021. Non è quel tipo di persona che alle parole «psichiatra» o «neurologo» o «psicologo» si mette a urlare «Io non sono mica matto» perché ignora la medicina ola vita: lui è quello che nel 1990 omaggiò gli amici con un'edizione privata dell'Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam, rilegata a mano e in pelle, stampata su carta avorio espressamente fabbricata per lui dalla tipografia Campi, composta in monotype come due secoli fa: va da sé che per «folle» indicava se stesso, come scrisse nella prefazione dove rammentava come l'intuizione rivoluzionaria sia «sempre percepita al suo manifestarsi come priva di buon senso». Quindi non è che Berlusconi abbia paura delle parole o dell'ignoranza: dovrebbe aver paura dei giudici (in senso lato, o anche frontale) perché la questione è giudiziaria. Qui in effetti non si tratta della perizietta d'ufficio, o di una che chieda di formalizzare lo stato di salute di Berlusconi magari informandosi dall'esercito di luminari che lo assiste da anni (tutti complici suoi) ma si tratta, bensì, di non accettare dei giudici che ormai discettano e pontificano su qualsiasi argomento a qualsiasi livello e che senza la loro autorevole ed autorizzata perizia (perché la perizia sono loro) farebbero periziare anche il Sole affinché renda conto di dove vada a nascondersi tutte le notti. 

Pregiudizio?

Ora vogliono una perizia (anche) psichiatrica che si protragga per due mesi perché gli italiani, eh, gli italiani devono sapere: bramano di conoscere se realmente il paziente di 84 anni abbia avuto «importanti episodi di recrudescenza su un quadro di "long covid" aggravato da patologie esistenti e in parte sopravvenute» (che cosa strana, e sospetta) e soprattutto sono stupefatti perché nelle relazioni, quelle dei medici di Berlusconi, «non viene indicato un termine ragionevole entro il quale poter avere un possibile miglioramento». Pazzesco: non hanno la palla di vetro non possono esprimere una valutazione, direbbe un giudice, «prognostica». Eh, in effetti la vita non è molto prognostica. Ma bisogna darsi da fare lo stesso, ci sono ben 28 persone tra cui molte «olgettine» accusate anche di falsa testimonianza nel processo «Ruby» rifatto in pratica per la terza volta, in attesa della quarta (se Berlusconi sarà vivo: si attende perizia dei giudici) e insomma il Paese vuole sapere, forse lo vuole anche l'Europa. Ma quale pregiudizio: l'hanno capito tutti che la magistratura nei confronti di Berlusconi non ne ha. Nessuno pensa che stiano facendo ogni cosa possibile e immaginabile (anche inimmaginabile, ormai) per condannarlo e spazzarlo via dagli scenari italiani di cui si ostina a essere un perno. Ieri il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano ha detto che Berlusconi «se non fosse supportato da una serie di medici infinita, e di avvocati, sarebbe qui a farsi il processo». Ah, ecco, i soliti privilegi dei ricchi: farsi curare al meglio, e persino difendersi al meglio da una magistratura notoriamente inoffensiva, che certo non ce l'ha con lui. La perizia psichiatrica - ma lo scriviamo da anni - andrebbe fatta obbligatoriamente ai magistrati, che decidono della vita umana al pari o molto più di altri professionisti che le perizie sono abituati a farle: chirurghi e medici e piloti e autisti su tutti.

La casistica

Andrebbe rispolverata la casistica raccolta da un ex consigliere del Csm, laddove si ricordava che i magistrati italiani non vengono sottoposti a esami psichiatrici (né prima né durante) come appunto è obbligatorio per altri professionisti. Se un giudice è pazzo, posto che ce ne si accorga, pazienza: deciderà della libertà altrui. In passato raccontammo di un giudice che si vide respingere una denuncia perché ritenuto infermo di mente: concluse tranquillamente la sua carriera; del giudice che in piena udienza si alzava gridando «Ho i ceci sul fuoco», di uno che era fissato sull'incostituzionalità dell'ora legale (andava alle udienze in base all'ora solare) e c'è anche quello che aveva compiuto atti osceni con un ragazzo adescato al cinema ma fu prosciolto dal Csm che gli riconobbe una totale incapacità di intendere e di volere: ma riprese servizio. Il collega e amico Stefano Zurlo, anni fa, raccolse una grande quantità di sentenze emesse dalla sezione disciplinare del Csm su magistrati che non avevano pagato il conto al ristorante, avevano dimenticato innocenti in carcere, perso fascicoli e anni di lavoro altrui, che in qualche caso erano - loro sì - da periziare perché erano davvero mezzi pazzi, uno l'avevano visto chiedere l'elemosina per strada, un altro aveva spalmato l'ufficio di Nutella, un altro aveva urlato «ti spacco il culo» a un avvocato: gente che era in piena attività ma di cui non possiamo neppure conoscere i nomi, perché il Csm, con lettera del 27 agosto 2008, ha invocato la legge sulla privacy e la protezione dei dati personali: come per i minori e le vittime di violenze sessuali. Insomma, prima di chiedere una perizia psichiatrica per Berlusconi, come dire, i giudici potrebbero dare il buon esempio.

Otto e Mezzo, lo sfregio di Giannini a Berlusconi: "Si goda la vecchiaia", Lilli Gruber gode. Libero Quotidiano il 17 settembre 2021. "Questa è una vicenda stucchevole, va avanti da 27 anni il tentativo di Berlusconi di sfuggire ai suoi processi": Massimo Giannini, ospite di Lilli Gruber nello studio di Otto e mezzo, commenta così il rifiuto del Cavaliere di sottoporsi a una perizia medica e psichiatrica nell'ambito del processo Ruby-ter. Il direttore de La Stampa ha messo in dubbio anche i suoi ricoveri in ospedale: "Poiché ogni volta che si avvicina un'udienza lui si ricovera al San Raffaele, è chiaro che i magistrati dicano: 'Ti presenti o non ti presenti? Facciamo una perizia psichiatrica oppure no?'". Secondo Giannini, però, il comportamento del leader azzurro è sbagliato: "Lui affronta la questione come ha sempre fatto: sfida i magistrati. Dice: 'Fate il processo, io non verrò'". Dal punto di vista politico, invece, il direttore del quotidiano torinese non crede che sia la fine di Berlusconi, ma allo stesso tempo ha spiegato: "Diciamo che non se la passa tanto bene politicamente già da qualche anno. Dire che lui è finito è sbagliato, perché Berlusconi non finisce mai. Ogni volta muore e risorge". Parole dure, infine, anche sulla possibilità che il Cavaliere salga al Colle dopo la fine del mandato di Sergio Mattarella. "E' ancora convinto di poter fare il presidente della Repubblica, quindi sta giocando la sua partita", ha continuato Massimo Giannini. Che poi ha voluto persino dare un consiglio a Berlusconi: "Io gli direi di godersi la serena vecchiaia". 

DiMartedì, Alessandro Sallusti contro Stefano Feltri: "Carlo De Benedetti in carcere, Berlusconi mai". Libero Quotidiano il 22 settembre 2021. Continua a dividere, Silvio Berlusconi. La richiesta di perizia psichiatrica per il Cav avanzata dai pm del processo Ruby Ter anima la serata a DiMartedì, su La7, con Giovanni Floris che innesca un vivacissimo confronto tra Alessandro Sallusti, direttore di Libero, e Stefano Feltri, alla guida di Domani. L'editore di ques'ultimo, che punta a "svuotare" Repubblica e Fatto quotidiano, è quel Carlo De Benedetti "nemico" storico dell'ex premier e leader di Forza Italia. E proprio lì va a parare Sallusti. "Mi spiace che ancora a distanza di anni si sia ancora qui a combattere questa guerra civile, tutti contro un uomo". Secondo Marco Damilano, direttore dell'Espresso, il giorno più importante di Berlusconi è stato quando è andato a fare servizio civile. "Secondo me - replica Sallusti - è stato quando ha portato Putin a Pratica di Mare e ha messo fine alla Guerra fredda. O quando a Onna raggiunse un consenso personale superiore a quello di Draghi oggi o del suo stesso partito". Quindi, rivolgendosi a Feltri: "Se fosse intellettualmente onesto dovrebbe ricordarlo, De Benedetti è stato in carcere per tangenti ma Feltri non gli nega il diritto di essere proprietario del suo giornale. Il tuo direttore in carcere c'è stato, Berlusconi in carcere non c'è mai stato". Il direttore di Domani, piuttosto imbarazzato, non potendo negare un fatto inoppugnabile, la butta ovviamente in politica: "E grazie, si è fatto le leggi da solo per non andarci". Il tenore della discussione scivola inevitabilmente sull'anti-berlusconismo militante, tanto che sempre Feltri a fronte della raffica di reati contestati al Cav e inchieste varie, a domanda di Floris risponde così: "Berlusconi perseguitato? No, siamo noi a essere perseguitati da lui e dalla sua esigenza di nascondersi dai processi". Gira che ti rigira, si torna sempre al punto di partenza.

Alessandro Sallusti: "Berlusconi è un folle, i magistrati che lo perseguitano piccoli uomini che fanno tristezza". Libero Quotidiano il 17 settembre 2021. Anche negli uomini più forti e tenaci c'è un limite alla sopportazione superato il quale non il dolore o la paura ma la dignità impone la resa, parola fino a ieri non prevista nel vocabolario di Silvio Berlusconi. E invece il Cavaliere ha annunciato ai magistrati che non intende più combattere per fare valere la sua verità e i suoi diritti di persona ammalata nell'ultimo - ridicolo diciamo noi - processo che lo vede imputato a Milano. I pm e i giudici che ancora lo stanno braccando si accomodino pure ed emettano una sentenza di condanna che appare scritta ancora prima della camera di consiglio, ma non potranno, come da loro richiesto come condizione per rinviare il processo, sottoporre Berlusconi a visita psichiatrica per stabilirne la capacità di intendere e volere.  Non è la prima volta nella storia che mediocri e frustrati burocrati provano a umiliare i grandi uomini loro contemporanei. Ma per stabilire che Silvio Berlusconi è un po' mattacchione non c'era bisogno di alcuna visita, bastava leggere la sua biografia. Bisogna infatti essere matti, quando hai una vita piena di agi frutto di precedenti mattane (per esempio inventarsi dal nulla la prima televisione privata nazionale, la prima banca senza sportelli o il grande Milan) a voler lasciare tutto per prendersi sulle spalle un Paese dell'Occidente che stava per finire nelle mani del più grande partito comunista d'Europa. Roba da matti, come aver preso due partiti ritenuti di fatto fuori dall'arco costituzionale, An e Lega, e averli portati - garantendo per loro - a governare con successo una grande democrazia. Bisogna davvero essere matti ad aver immaginato di cambiare gli equilibri del mondo portando la madre Russia al suo posto naturale, cioè al centro dell'Europa, ed essere arrivato a un soffio dal farlo. Da matti dare lavoro a decine di migliaia di persone, pagare decine di miliardi di euro di tasse, ma soprattutto è da matti pensare di fare tutto questo e farla franca in un Paese come il nostro che non conosce la parola riconoscenza e dove anche gli arbitri fanno i giocatori, siano essi presidenti della repubblica o magistrati. Sì, in Silvio Berlusconi ho riconosciuto più volte la lucida follia che manda avanti il mondo e questi piccoli uomini che si accaniscono contro di lui mi fanno una grande tristezza. Oggi più che mai.

All’appello del tribunale di Milano per 7 volte: “Assente”. Luciano Scateni su La Voce delle Voci il 17 Settembre 2021. Una santa alleanza connette le mancate sedute del ‘Rubi ter’ (processo davvero pericoloso per la condizione di uomo libero di Berlusconi) con le bizze della sua salute a corrente alterna. ‘Saltata’ sette volte, record da Guinness dei primati, la presenza in aula dell’imputato è stata giustificata con il ripetuto riacutizzarsi di malanni, certificati dal medico personale e avvalorati da rapidi quanto strategici ricoveri nell’ospedale ‘amico’ dove opera il luminare a lui dedicato. Liberata la delicata dalle ombre maligne del complottismo, agli scettici che valutano con zero la credibilità della puntuale coincidenza udienze-rinvii va dato atto di credibilità alla tesi sull’uso discutibile del tema salute per non presentarsi e assistere a testimonianze molto scomode, ad accuse documentate del Pubblico Ministero. Fossero lecite le richieste di rinvio del processo, cioè se fossero autentiche le denunce di inabilità a prenderne parte per motivi di salute, il tribunale potrebbe esercitare il diritto di accertarlo come avviene per chi si assenta dal lavoro, a causa di malanni. Per impedire abusi e false motivazioni i lavoratori in questione sono sottoposti a verifica a domicilio. E invece, perché fidarsi ciecamente del parere, per quanto autorevole, di un prof che garantisce l’autenticità dei mali di Berlusconi? I magistrati milanesi (in buona compagnia di qualche milione di italiani) per fugare ogni dubbio hanno chiesto che l’imputato sia sottoposto a perizia psichiatrica, che si possa finalmente giudicare in presenza per le accuse di corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza.  Sul termine ‘psichiatrica’ avrebbe ragione l’ex cavaliere, Non sembra che ‘dia i numeri’, se non definisce i residui di Forza Italia come un partito determinante per il futuro del Paese. Basterà un controllo medico a smentire o confermare lo stato di incompatibilità con la presenza al processo. Molto probabilmente imbeccato dal sontuoso staff di legali che lo difendono, Berlusconi ha invitato i magistrati inquirenti a portare a compimento il processo in sua assenza ed è una strategia frutto di furbizia:eviterebbe il ‘disagio’ di dover rispondere ad accuse documentate e  l’umiliazione di subire testimonianze che finirebbero per sottrargli dignità, l’onorabilità che invoca per contestare la richiesta di perizia psichiatrica. L’Italia è stata pubblicamente indicata, come Paese leader nel fronteggiare la pandemia, da Fauci, riconosciuto numero uno degli esperti in virologia del mondo. Il ‘nostro Covid trend’: nuovi ricoveri – 14% nella settimana dall’8 al 14 settembre, decessi – 6,7%, isolamento domiciliare – 8,8%, ricoveri con sintomi – 3,3%, terapie intensive – 1,6%. In ospedale quasi esclusivamente persone non vaccinate. Nonostante questa evidenza ci sono ancora politici e medici (738 quelli attualmente sospesi dagli Ordini professionali), intellettuali (Cacciari), deputati, che rifiutano di vaccinarsi. I lavoratori che rifiutano il ‘green pass’ saranno sospesi e privati dello stipendio (ma non licenziati). Filippo Anelli, presidente della Fnomceo. Rivolto ai negazionisti: “Rischiate di non lavorare più. Non buttate all’aria una laurea in Medicina, soprattutto in un momento di emergenza dove serve il contributo di tutti i medici”

Berlusconi contro i pm: scontro tra pugili ormai fuori dal ring. Il braccio di ferro tra Arcore e la procura di Milano ha segnato la vicenda della seconda Repubblica: da una parte il leader politico più potente, dall'altra i samurai di Mani Pulite. Ma entrambi ormai sono guerrieri esausti e invecchiati. Paolo Delgado su Il Dubbio il 17 settembre 2021. C’era una volta la guerra tra la Procura di Milano e Silvio Berlusconi. Fu un duello coi fiocchi, da libri di storia del futuro: drammatico, pieno di comprensibile tensione, ricco di colpi di scena. Si fronteggiavano il leader politico più potente del Paese e la Procura della Repubblica più agguerrita. Da una parte il politico seduttore che metà Paese adorava e l’altra metà aborriva. Dall’altra magistrati che dopo l’epopea di Mani pulite erano per moltissimi italiani i nuovi cavalieri della tavola rotonda. Il Paese stava in mezzo. Parteggiava. Tifava per l’uno o per gli altri. Pagava i prezzi della battaglia infinita senza neppure rendersene conto. Starà agli storici di domani chiarire in che modo quell’ordalia che ha occupato più di ogni altra cosa la vita politica del belpaese per un paio di decenni abbia inciso sulla parabola italiana, se e quali danni abbia prodotto. Sull’importanza che assegneranno a quella tenzone infinita, combattuta a volte con le armi della guerriglia e altre volte con quelle dello scontro in campo aperto, invece ci sono pochi dubbi. Il braccio di ferro tra Arcore e la procura ha segnato la vicenda della seconda Repubblica ancor più di quanto non abbia fatto, nell’età effimera del bipolarismo, il confronto tra il centrodestra dell’imputatisssimo e il centrosinistra del professor Prodi. Storia di ieri. Passioni spente a cui si guarda con nostalgia e un pizzico di malinconia. Silvio Berlusconi non è politicamente morto. Gioca ancora una sua parte ma nella scacchiera del Palazzo gli spetta tutt’al più il ruolo dell’alfiere non quello del coronato. Dicono che sogni ancora l’ascesa al Colle, ma lo bisbigliano con quella tenerezza venata di commiserazione con la quale si allude ai gagliardi di un tempo ormai traditi e rapinati di ogni lucidità dall’età spietata. Da temibile minaccia per una democrazia che si voleva, con molta esagerazione, minacciata dal “conflitto di interessi” è diventato l’apprezzato garante di una destra moderata e civile: “Quando c’era lui…”. Gli eroi in toga sono un ricordo appassito, quasi svanito. I samurai di Mani pulite si scannano, comunicano a colpi di denunce reciproche, mettono in scena lo spettacolo sanguinolento di un potere che si disgrega, si dilania, si azzanna. Il capitale di fiducia conquistato, a torto o a ragione, con l’inchiesta che seppellì trent’anni fa la prima Repubblica è stato dissipato sino agli ultimi spiccetti. Restano solo i debiti contratti nei giorni del trionfo. Il cavalier Silvio e i samurai togati non ci sono più. Resta solo il loro eterno conflitto, il duello combattuto da guerrieri esausti e invecchiati che faticano anche solo a reggere la spada senza stramazzare. La procura non rinuncia alle sue mosse sprezzanti, chiede con poco o nessun senso della misura una perizia psichiatrica per il gaudente che le amichette chiamavano un tempo papi. Il sovrano senza più regno replica con la consueta alterigia rifiutandosi di sottostare, costi quel che costi. Nell’agone si affrontano, da una parte e dall’altra, figure troppo simili agli zombie che spopolano nelle serie tv. Il Paese segue con vivo disinteresse.

Una decisione senza precedenti. Perizia psichiatrica contro Berlusconi, i Pm volevano mandare il Cav al manicomio. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Settembre 2021. I giudici hanno chiesto una perizia psichiatrica su Berlusconi. Una “illimitata perizia psichiatrica”, dice il documento ufficiale. Che è scritto in lingua italiana. Ed è la prima volta, credo. Un tempo queste cose si scrivevano coi caratteri cirillici. Mi pare di ricordare che fu fatta una cosa del genere durante il processo a Bucharin, nel 1938. Il Pm in quell’occasione si chiamava Vyšinskij. La decisione dei magistrati, al processo Ruby-ter, non ha precedenti. Berlusconi ha rifiutato la perizia psichiatrica e ha chiesto che il processo vada avanti senza di lui. I giudici hanno preso atto della richiesta di Berlusconi e hanno deciso di proseguire il processo. Berlusconi è convinto che vogliano arrivare alla condanna. Ha rilasciato delle dichiarazioni furenti. Del resto quello che è successo ieri è inaudito. Riassumo brevemente i fatti. Innanzitutto vi dico di questo processo. Che già di per sé è un fatto inedito e in contrasto evidente con tutte le regole scritte e non scritte del diritto, e anche della Costituzione. Cosa succede? Berlusconi viene processato per il famoso caso Ruby. Accusato di “prostituzione minorile”. Condannato in primo grado a una pena pesantissima, sette anni. Assolto pienamente in appello e in Cassazione. È innocente. Non c’è il reato. È definitivo. Definitivo? Ovunque, nel mondo libero, lo sarebbe, ma non in un paese caduto sotto dittatura giudiziaria, cioè l’Italia. I Pm decidono che la sentenza non vale e processano i testimoni per falso. Dicono che Berlusconi li ha comprati, e in questo modo vanno in collisione evidente con i giudici che li hanno accolti, li hanno ritenuti attendibili e hanno assolto Berlusconi. Ora la magistratura, col Ruby ter, processa i testimoni, Berlusconi e, di fatto, anche la Cassazione. Di nuovo: è un fatto senza precedenti. Poi la seconda parte di questa commedia assurda. Il processo si fa. Contro ogni logica. Vabbé. Berlusconi sta male. Conseguenze del Covid in una persona anziana. Presenta ampie perizie sul suo stato di salute. Addirittura la Procura chiede lo stralcio della sua posizione. Il giudice però respinge la richiesta e si limita a concedere un breve rinvio. Fine del rinvio. Nuove perizie: Berlusconi sta male ancora e non può essere in aula. La Procura cambia posizione e chiede una perizia, perché non crede alle perizie dei medici presentate dalla difesa. Dice, con sprezzo: è vecchio e basta. Avrà gli acciacchi della vecchiaia ma deve comunque andare alla sbarra. Il giudice accoglie la richiesta dell’accusa e la aggrava: “perizia psichiatrica illimitata”. Berlusconi risponde con un breve comunicato: «Questa decisione è lesiva della mia storia e della mia onorabilità. La decisione della Corte dimostra, per ciò che ho fatto durante la mia vita in molteplici settori – fra cui l’imprenditoria, lo sport e la politica – un evidente pregiudizio nei miei confronti e ben mi fa comprendere quale sarà anche l’esito finale di questo ingiusto processo». Di conseguenza, dice Berlusconi, «non posso accettare questa decisione e chiedo che si proceda in mia assenza». Ora il processo andrà avanti. Con tutte le sue insensatezze. Per il nostro paese è una pagina abbastanza vergognosa. Un gruppetto di magistrati che riesce prima a imbastire un processo – che oggettivamente è sia la ripetizione di un processo già concluso, e quindi è illegale, sia un processo alla Corte d’Appello e poi alla Cassazione che hanno assolto Berlusconi – e poi a chiedere una perizia psichiatrica per uno dei principali leader politici italiani. Quel che stupisce è la mancanza di reazioni. Dico di reazioni politiche. Possibile che il Pd non insorga? Eppure si trova di fronte a uno degli atti più gravi di delegittimazione del potere democratico. A un tentativo evidente e smaccato da parte di settori della magistratura di umiliare la politica. Forse anche di intervenire nella battaglia per il Quirinale. È abbastanza probabile, anzi, che sia così. Si sa che Berlusconi ha l’ambizione di correre per la successione a Mattarella. I giudici si son detti: con una perizia psichiatrica blocchiamo tutto. O non l’accetta, e allora noi vinciamo il processo, oppure l’accetta, lo facciamo dichiarare matto e il Quirinale se lo sogna. Adesso, siccome ho scritto queste cose, molti diranno che sono un berlusconiano. Io non lo sono, non lo sono mai stato. Ho idee politiche lontanissime da quelle di Berlusconi, che è un esponente e un leader della destra centrista e moderata. Io sono di sinistra, vengo dal Pci, non voterò mai per Berlusconi. Però, proprio perché vengo dal Pci, forse, ho ancora una forte idea antifascista. E a me pare che questa deriva fascista che la magistratura sta imponendo al paese vada fermata. Penso che la sinistra dovrebbe essere la prima a dire basta. e forse anche a chiedere che intervenga Mattarella per fermare questa follia. E dovrebbe convocare delle manifestazioni in piazza per chiedere che l’attacco autoritario della magistratura sia sconfitto. Abbiamo passato tanti anni, quando eravamo ragazzi, a dire che non volevamo i colonnelli. Giusto, diosanto, però nemmeno i Pm per favore.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Accuse al rallentatore e rimpalli di fascicoli: i buchi del "Ruby ter". Luca Fazzo il 17 Settembre 2021 su Il Giornale. Inchiesta aperta nel 2013. Però da allora non ha fatto passi avanti. La colpa non è del Cav, ma della lentezza della procura milanese. Giudici che vanno, giudici che vengono, giudici che hanno altro da fare, giudici che spezzettano i processi. Per capire come sia possibile che a oltre dieci anni dai fatti si trascini ancora nelle aule del tribunale milanese il processo cui ieri il Cavaliere - indignato per la richiesta di visita psichiatrica - decide di non partecipare più, bisogna ricostruire per bene il percorso seguito dai fascicoli di indagine sulle feste a casa di Silvio Berlusconi ad Arcore. Per approdare ad un dato curioso: se la giustizia è ancora lì a chiedersi cosa accadesse a Villa San Martino il sabato sera, e quanti centimetri di epidermide venissero effettivamente esposti nella saletta del «bunga bunga», la colpa non è tanto dei rinvii per motivi di salute chiesti dal principale imputato, né di altre forme di ostruzionismo, ma dalla lentezza quasi da moviola con cui la magistratura milanese ha proceduto sulla strada dell'accertamento della verità. Come se tirare in lungo i processi al leader di Forza Italia, alla fine, andasse bene anche e soprattutto ai giudici. Se si guarda indietro, in tutta la fase iniziale del procedimento le richieste di rinvio delle udienze per il «legittimo impedimento» dell'ex premier si contano su poche dita, e sono quasi tutte legate a circostanze oggettive: la visita di controllo di un pacemaker in America, i postumi dell'operazione al cuore a Milano, il ricovero in ospedale. In tutte queste occasioni il tribunale non ha ritenuto necessario verificare con una visita fiscale lo stato dell'imputato. Lo ha fatto per la prima volta l'altro ieri, e Berlusconi era pronto a farsi visitare. Fin quando ha scoperto che avrebbe dovuto anche incontrare anche degli psichiatri, mandati a verificare non solo lo stress giudiziario da cui dice di essere afflitto ma il suo stato cognitivo. Un insulto. Ora il Cavaliere, con la sua lettera ai giudici, annuncia che fa un passo indietro: non chiederà più rinvii, il processo può andare avanti senza la sua presenza. Ma se si è arrivati a questo punto, a dieci anni dai fatti, è per le lentezze del sistema. Ufficialmente, tutto comincia la bellezza di otto anni fa, il 23 maggio 2013, quando il giudice Giulia Turri condanna Berlusconi a sette anni di carcere: è la sentenza del filone principale del caso Ruby, quella che verrà spazzata via dalle assoluzioni con formula piena in appello e in Cassazione. Quel giorno il giudice trasmette alla Procura le testimonianze di trentadue testimoni: son tutti quelli (ragazze, giornalisti, musicisti, gente di passaggio) che hanno osato venire in aula a negare di avere assistito a niente di illecito né di troppo sconveniente durante le serate di Arcore. Se hanno negato, è la tesi della Procura, vuol dire che hanno mentito: per proteggere Berlusconi. Servono sei mesi perché, a gennaio 2014, la Procura apra ufficialmente l'inchiesta: Berlusconi viene indagato per corruzione in atti giudiziari, con l'accusa di avere pagato i testimoni che lo hanno difeso; per costoro all'accusa di corruzione si aggiunge anche quella di falsa testimonianza. Potrebbe essere una indagine veloce: i pagamenti a buona parte dei testi sono avvenuti alla luce del sole, con bonifici, e sono ammessi dallo stesso Berlusconi. Il quale però spiega di avere solo voluto aiutare ragazze inguaiate dall'esposizione mediatica, o in altri casi - come il massaggiatore o il pianista - continuato a pagare gente che lavorava per lui da anni. A quel punto l'indagine non è complessa: bisogna solo capire se i testimoni hanno davvero mentito. E capire il senso di quei soldi. Invece passa più di un anno senza che non accada praticamente niente. Ogni tanto sui giornali esce la notizia di un altro bonifico scoperto dai pm, e niente più; a marzo 2015 la Procura chiede la proroga delle indagini, a giugno chiede il rinvio a giudizio di Berlusconi, delle Olgettine e degli altri. E qui il fascicolo inizia a inabissarsi, nonostante il clamore mediatico. Bisogna aspettare il febbraio dell'anno dopo perché inizi l'udienza preliminare. E qui accade l'imponderabile perché il giudice spezzetta il processo in sette processi-fotocopia destinati a sette tribunali diversi. A Milano vengono rinviati a giudizio il Cavaliere e altri ventuno imputati: ma anche qui il processo si spezza in due, davanti a tribunali diversi. Intanto da Treviso e da Pescara un paio di tronconi viene rispedito a Milano dai giudici del posto, e i tempi si allungano ancora. Quando poi a maggio 2018 i processi milanesi sembrano pronti per partire si scopre che non si possono unificare perché non sono ancora arrivate certe carte, e che comunque nessuno li può celebrare perché da una parte i giudici sono stati nel frattempo trasferiti e dall'altra c'è il giudice che aveva già condannato (sbagliando) il Cavaliere. A settembre sembra che si parta, ma a febbraio 2019 ci si ferma di nuovo perché anche i giudici di Torino hanno rispedito gli atti a Milano. E poi dicono che è colpa di Berlusconi.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Da ilmessaggero.it il 6 ottobre 2021. «Cene eleganti? Ci viene da ridere, non scherziamo». Così Barbara Guerra e Alessandra Sorcinelli, due delle giovani che presero parte alle serate di Arcore e che sono imputate nel caso Ruby ter assieme a Silvio Berlusconi, hanno risposto alle domande dei cronisti al termine dell'udienza, dopo essersi presentate in aula oggi. Entrambe hanno detto che l'ex premier «ci ha rovinato la vita» e si sono dette pronte a parlare durante l'esame in aula nelle prossime udienze. «Berlusconi mi ha rovinato la vita - ha ripetuto Barbara Guerra -  Non lo sento, non ho rapporti e deve stare a casa a fare il nonno. Sono molto risentita e indignata, io vengo da una buona famiglia: ho studiato e sentirmi dare della escort da anni non me lo merito». La giovane sta valutando se testimoniare a processo. «Sono pronta a parlare in aula, visto che chi è imputato non si prende la responsabilità di venire e metterci la faccia. Io sono ancora qui oggi, la mia vita è stata bloccata e danneggiata, la mia dignità messa sotto terra e sono qui per far luce e riprendere la mia vita prima di questo schifo». «Berlusconi non lo vedo più e non lo sento più, non mi interessa più la sua vita - ha spiegato Alessandra Sorcinelli - lui ha sempre cercato di risolvere solo i suoi interessi e io sono rimasta coinvolta in questa storia e ora penserò alla mia vita e a dimostrare la mia innocenza». Ai cronisti che le hanno chiesto se in aula nell'interrogatorio dirà cose che non ha mai detto, Sorcinelli ha risposto: «Vedremo». E a chi le ha chiesto se quelle di villa San Martino fossero «cene eleganti» - ossia la versione che le ragazze hanno portato in aula nei processi sul caso Ruby in cambio di denaro per l'accusa (da qui le accuse di falsa testimonianza e corruzione in atti giudiziari) - Sorcinelli ha risposto: «Mi viene da ridere». Il suo legale, l'avvocato Luigi Liguori, ha chiarito che «renderà l'esame per dimostrare la sua innocenza, per chiarire alcune circostanze» proprio in relazione alle serate e rappresentare la «verità». Anche Barbara Guerra si è detta pronta a chiarire: «Parlerò in aula, anche perché chi è imputato non viene e non ci mette la faccia, sono d'accordo col pm Siciliano, è vecchio ma poteva presentarsi». Qualcuna le ha chiesto anche cosa ne pensasse dell'ipotesi di una corsa di Berlusconi alla Presidenza della Repubblica e lei ha risposto: «Per me deve stare a casa a fare il nonno». Ha detto ancora che vuole «riprendere la mia vita in mano, la mia vita è bloccata a causa sua e valuterò se ci sono cose in più da dire, sono molto risentita con lui, molto indignata, non posso sentirmi dare della escort da anni, doveva proteggermi, mi ha rovinato la vita. Cene eleganti? Mi viene da ridere, no comment». E ha riferito «come già avevo detto ad una televisione tempo fa che all'ultima cena in Sardegna a cui avevo partecipato sono scappata per la vergogna vedendo quelle scene». Già Marysthell Polanco, un'altra delle cosiddette “olgettine”, tempo fa in aula aveva detto di essere pronta a rendere esame in aula per «dire la verità» nelle prossime udienze. Il processo a carico di Silvio Berlusconi e altri 28 imputati è ripreso stamani dopo la rinuncia con una lettera da parte dell'ex premier alla perizia medico legale, che comprendeva anche accertamenti psichiatrici. Perizia che era stata disposta dai giudici dopo l'ennesimo legittimo impedimento presentato dalla difesa del Cavaliere per motivi di salute nell'ultima udienza. I giudici della settima penale, dopo aver trattato una serie di questioni tecniche, hanno deciso di acquisire i verbali resi in fase di indagine nel 2015 da Giuseppe Spinelli, ragioniere di fiducia di Berlusconi e presunto «ufficiale pagatore» delle “olgettine”. Spinelli, infatti, avrebbe dovuto testimoniare oggi, ma non può per motivi di salute e ha presentato un impedimento.

La pm lascia il Tribunale dei minori. Annamaria Fiorillo, dal caso Ruby a candidata con il Pd…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Luglio 2021. «È stata una decisione sofferta», aveva dichiarato allora alle tv e a diversi quotidiani, quando aveva deciso di parlare. E chissà se sta soffrendo ancora oggi in conferenza stampa Annamaria Fiorillo, la pm del tribunale dei minori del “caso Ruby”, mentre annuncia la propria entrata in politica con il Pd. Proprio con il partito storicamente avversario dell’anticomunista Silvio Berlusconi. Sarà la numero uno nella lista della candidata sindaca Margherita Silvestrini, che tenta una sfida impossibile a Gallarate (Varese), in terra leghista, contro il sindaco uscente Andrea Cassani per il quale lo stesso Matteo Salvini si è già fatto vedere in città nei giorni scorsi. Ma alle sfide l’ex pm è abituata, non manca di coraggio, anche se forse di originalità. Rispolvera la famosa frase di Kennedy su che cosa si può fare per il proprio Paese, per dire che lei è di Gallarate e che metterà la propria esperienza di pubblico ministero al servizio della città. Così, quando sarà (se eletta) consigliera comunale di opposizione, capirà la differenza tra il piccolo potere della politica e il grande potere della magistratura. Ottima cosa. Aveva colto la sua occasione il 10 novembre del 2010, la dottoressa Fiorillo. Non una data particolare, nel calendario della giustizia milanese. Il “caso Ruby”, la famosa notte del suo fermo in questura, la telefonata del premier Berlusconi alla questura di via Fatebenefratelli e poi il rilascio della ragazza e l’affidamento alla consigliera regionale Nicole Minetti erano cose di mesi prima, il 27 maggio. Lei, la pm del tribunale dei minori cui i funzionari di questura si erano rivolti prima di prendere la decisione, nella relazione al suo superiore aveva scritto di non ricordare se avesse o no dato quell’autorizzazione. Quindi il ministro Roberto Maroni aveva detto in aula che quella notte ogni procedura era stata rispettata. Ma quel 10 novembre la sconosciuta pm Fiorillo trovò il suo momento. La si vide nelle immagini delle tv mentre usciva dal tribunale dei minori, il suo luogo di lavoro, procedeva di qualche passo, poi si fermava, tornava indietro e puntava le telecamere. Ce ne erano tante, anche tedesche, perché era in corso un’udienza che riguardava una signora accusata da Berlino di sottrazione di minori. Così ricostruiva quel giorno il quotidiano La Repubblica il blitz della pm minorile del “caso Ruby”. «Se volete, avrei da dirvi io qualcosa. Mi chiamo Annamaria Fiorillo, sono sostituto procuratore dei minori e quello che ha dichiarato in aula Maroni non mi va giù». Da quel momento è diventata un personaggio, uno dei tanti anti-Berlusconi. Suo malgrado, certo. Lei non aveva alcuna intenzione di svolgere un ruolo politico. A quello provvede ora che è in pensione. E si candida proprio nel Pd. Non per esempio in Forza Italia: farebbe miglior figura sulla sua passata imparzialità. Ma quel giorno, davanti a una moltitudine di telecamere, e poi in tante interviste nei giorni successivi, lei voleva solo fare chiarezza. Cioè voleva dire che la sua frase «non ricordo di aver autorizzato» la consegna di Ruby a Minetti in realtà voleva dire «ricordo di non aver autorizzato». Peccato che non solo la sua superiore, la dottoressa Frediani, ma lo stesso procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati l’avessero intesa nel primo senso e avessero ambedue dichiarato che quella notte ogni regola era stata rispettata. Ma lei no, lei ha voluto averla vinta. Butta lì frasi come «…non sto a badare alla politica, o al governo che cade o resta» e che se Ruby era la nipote di Mubarak «…io sono Nefertiti, la regina del Nilo». Ma soprattutto racconta di aver investito del caso il Csm: «È una mia iniziativa, non l’ho concordata con il mio capo né con nessun altro… ho chiesto al Csm di chiarire le discrepanze tra la spiegazione del ministro in aula e la mia esperienza personale». Le andrà male, in prima istanza, e porterà a casa una censura dal Csm, per violazione di riserbo e anche per la violazione del divieto ai sostituti pm di fare dichiarazioni sull’attività del proprio ufficio. Inutile sarà l’appassionata difesa del suo legale, lo storico dirigente di Magistratura Democratica e procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi. Che avrà poi soddisfazione dalla Cassazione e da una seconda decisione del Csm, che manderà “assolta” l’impavida pm. Nella stessa giornata di quel 17 luglio 2014 Silvio Berlusconi sarà assolto in appello da tutti i reati. In particolare con la formula più ampia, «perché il fatto non sussiste» dall’accusa di aver fatto pressione sui dirigenti della questura la famosa notte del “caso Ruby”. Quella in cui la magistrata, oggi già esponente politica, Annamaria Fiorillo aveva detto di «non ricordare». Salvo precisare in seguito. E poi candidarsi con gli avversari storici di Berlusconi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Giuseppe Guastella per il "Corriere della Sera" l'8 luglio 2021. Una volta si paragonò a Forrest Gump, lo stralunato e ingenuo personaggio interpretato da Tom Hanks. E un po' deve esserlo ancora Annamaria Fiorillo visto che ancora si meraviglia che faccia notizia la sua candidatura alle prossime amministrative a Gallarate (Varese) in una lista civica di sinistra, come anticipato dal Giornale. Fiorillo, va ricordato, balzò alle cronache per il caso Ruby quando, come pm della Procura per i minorenni, il 27 maggio 2010 si occupò della marocchina Karima El Mahroug che a 17 anni era stata portata in Questura da dove uscì dopo una telefonata in cui il premier Silvio Berlusconi disse di aver saputo che era nipote di Mubarak. Ruby fu affidata a Nicole Minetti, ma Fiorillo escluse di averlo autorizzato e al processo disse che «nessun magistrato degno di questo nome» lo avrebbe fatto.

Si candida a sinistra, allora è vero, come sospetta qualcuno, che lei è anti-berlusconiana?

«Non avevo e non ho nulla contro Berlusconi né contro il suo partito. Conosco il sindaco di Gallarate di FI e non lo considero un avversario». 

Perché si è candidata?

«Vivo a Gallarate con il mio compagno dirigente d' azienda in pensione e in provincia di Varese per diversi anni ho insegnato discipline giuridiche ed economiche nelle scuole superiori prima di entrare in magistratura nel 1998. Ho 68 anni, da gennaio sono in pensione. Ho una vita piena e appagante. Mi sono chiesta "che faccio?"».

E cosa si è risposta?

«La risposta che mi sono data è che non ci si può fermare e non ci si può accontentare perché non c' è mai fine al meglio. È il mio motto. Voglio mettere e a disposizione degli altri il mio bagaglio di conoscenze e di esperienze». 

Perché proprio nella lista civica per Margherita Silvestrini sindaco che si ispira alla sinistra?

«Perché per me conta la persona. Perché Margherita Silvestrini, donna che ha avuto una lunga militanza nel Pd ed è stata assessore ai servizi sociali di Gallarate, ha un grande valore umano e politico. Non ho alcuna ambizione politica. Non mi sono mai riconosciuta in nessun partito come in nessuna delle correnti della magistratura, come non mi riconosco assolutamente in nessuna ideologia. Qualcuno potrebbe addirittura pensare che io sia una qualunquista, ma non è così perché ho un' idea alta della politica».

Cioè?

«Ritengo che sia necessario che ciascuno si assuma le proprie responsabilità, che sia resiliente». 

Se la lista vincerà, lei cosa farà?

«È possibile che abbia un incarico confacente alla mia esperienza». 

Non teme le critiche per essere stata come magistrato coinvolta nella vicenda Ruby?

«Non vedo perché. È una cosa che è avvenuta per caso dato che ero di turno il giorno in cui Ruby finì in questura».

Annamaria Fiorillo, l'ex toga del caso Ruby si candida: "Non ho nulla contro Berlusconi", ecco cosa diceva in aula. Libero Quotidiano l'08 luglio 2021. Si chiama Annamaria Fiorillo, ha 68 anni, e fu la pm del tribunale dei minori quando scoppiò il caso-Ruby che travolse Silvio Berlusconi. Ora, l'ex toga scende in politica e si candida. E lo fa a sinistra, in una lista civica, così come rivelato da Il Giornale. Scende in campo alle amministrative a Gallarate, provincia di Varese. E, ovviamente, la scelta fa polemica: proprio lei, pm nel caso che forse più di tutti ha incrinato la parabola politica del leader di Forza Italia? Proprio la toga del caso di Ruby Rubacuori? Sì, proprio lei. Una volta a processo, riferendosi alla scelta di affidare Ruby a Nicole Minetti, disse che "nessuno magistrato degno di questo nome" lo avrebbe fatto. Insomma, una che ha le idee chiare. Ma ora, intervistata dal Corriere della Sera, nega di essere anti-berlusconiana. Curioso. Glielo chiedono a bruciapelo, domanda diretta: è vero oppure no? "Non avevo e non ho nulla contro Berlusconi né contro il suo partito - risponde la Fiorillo -. Conosco il sindaco di Gallarate di FI e non lo considero un avversario". Quando le chiedono perché abbia scelto di darsi alla politica, risponde: "Vivo a Gallarate con il mio compagno dirigente d'azienda in pensione e in provincia di Varese per diversi anni ho insegnato discipline giuridiche ed economiche nelle scuole superiori prima di entrare in magistratura nel 1998. Ho 68 anni, da gennaio sono in pensione. Ho una vita piena e appagante. Mi sono chiesta che faccio?".

Il Corsera insiste: ma perché proprio nella lista civica per Margherita Silvestrini sindaco che si ispira alla sinistra? "Perché per me conta la persona. Perché Margherita Silvestrini, donna che ha avuto una lunga militanza nel Pd ed è stata assessore ai servizi sociali di Gallarate, ha un grande valore umano e politico. Non ho alcuna ambizione politica", conclude la Fiorillo. Per carità, le crediamo. Eppure, nutrire un piccolo sospetto resta legittimo...

Quarta repubblica, Alessandro Sallusti contro Michele Santoro: "Tu eri divisivo, cosa sono state le tue trasmissioni". Libero Quotidiano l'11 maggio 2021. "Non la vedrete più questa televisione". Michele Santoro e Alessandro Sallusti, faccia a faccia da Nicola Porro a Quarta repubblica, guardano con un sorriso pieno di nostalgia lo stralcio della mitica puntata di Servizio Pubblico del gennaio 2011, quella della indimenticabile intervista di Silvio Berlusconi. Il Cav contesta a Santoro la presenza di Marco Travaglio, "10 condanne per diffamazione", il giornalista che gli rinfaccia "E Sallusti allora cos'è?", l'ex premier che costringe il direttore del Fatto quotidiano ad alzarsi per poi spolverare e pulire la poltroncina su cui si si siederà. In una parola: cult. "Quella scena di disprezzo per il suo interlocutore pensavo che fosse la fine di Berlusconi, invece gli ha regalato la simpatia dei suoi sostenitori", ricorda Santoro con un misto di rammarico e divertimento. "Con Berlusconi c'era lui che combatteva in campo e c'eravamo noi che contrastavamo Berlusconi, finito questo dualismo non c'è stato più niente". E Sallusti conferma: "Tu eri talmente divisivo che il giorno dopo la tua trasmissione la gente comprava i giornali di destra per leggere le nostre critiche".  Critiche che Sallusti ribadisce anche da Porro: "Ritieni violento che un signore come Berlusconi abbia subito 24 processi oppure sei convinto che la violenza è solo quando lo Stato è venuto a casa tua?".  E ancora: "Nelle tue trasmissioni è nata la cultura del sospetto, il giustizialismo e anche l'odio". In una parola: la culla del Movimento 5 Stelle, il "travaglismo" imperante, il giornalismo e la politica a braccetto con le Procure. Santoro prova a difendersi: "Sono i demeriti dei partiti che hanno portato i 5 stelle al successo, Grillo ha fatto il suo lavoro". Quel che è certo, conclude Santoro, è che "la violenza di Stato è scritta nella Dna della nostra Repubblica. Questo Paese dopo il crollo del muro aveva la possibilità di liberarsi e Berlusconi ha colto questa possibilità, ha avuto un'intelligenza tattica che gli altri non hanno avuto".

Claudio Sabelli Fioretti per “il Fatto Quotidiano” il 12 maggio 2021. Solo i cretini non cambiano idea. Frase ormai famosissima anche se cretina. Sarebbe una frase intelligente se fosse completa. Perché se cambi idea devi almeno avere il pudore di dire chi o che cosa ti ha fatto cambiare idea. Io ero del Pci, ma poi c'è stata l'invasione dell'Ungheria e ho stracciato la tessera. Io facevo il tifo per la Lazio, ma poi mi accorsi che c'erano troppi fascisti fra i dirigenti e i giocatori. Io stavo bene con mia moglie, ma poi ho scoperto che mi tradiva col mio migliore amico. Io ero felice di lavorare in quel giornale, ma poi è arrivato un direttore antipatico. Cambiare idea è un diritto. Ve lo dico io che ho passato anni a intervistare gente sul tema dei "voltagabbana". Ricordo arrampicate sugli specchi mitiche come quella di Emilio Fede che, tifoso della Juventus, quando andò a lavorare per Berlusconi divenne tifoso del Milan perché - mi disse - si era accorto che il Milan giocava molto meglio. Così, forte delle mie esperienze passate, sono corso a leggere l'intervista che Michele Santoro ha rilasciato a Pietro Senaldi, direttore di Libero. Una delle tante interviste che sta rilasciando in questi giorni di giri della Madonna Pellegrina per lanciare il suo libro Nient' altro che la verità, basato sul suo lungo incontro con il mafioso Maurizio Avola, uno di quelli cattivi, uno che racconta di avere ammazzato 80 persone, compresi alcuni fra i giudici eroi della lotta antimafia. E che cosa scopro? Scopro che Santoro ha cambiato idea. Che oggi pensa che Berlusconi e Dell'Utri non c'entrano con la mafia, che la mafia comandava ai politici non il contrario, che fu un errore la trasmissione su Libero Grassi in staffetta con Maurizio Costanzo. E a ben leggere si scopre anche che secondo lui Matteo Salvini crea problemi alla sinistra molto più di quanto facesse Berlusconi. E che la Rai lottizzata era molto meglio della Rai di oggi. E che i grillini hanno contribuito a peggiorare il sistema che volevano abbattere. Solo i cretini non cambiano idea. Tutto merito di Maurizio Avola.

Felice Manti per "il Giornale" l'11 maggio 2021. A volte ritornano. L' ultima sera in cui Michele Santoro aveva varcato gli studi Mediaset c' era ancora la lira. Ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica, l' ex conduttore di Samarcanda e Moby Dick è sembrato perfettamente a suo agio. Il suo libro sul pentito di mafia Maurizio Avola ha spaccato l' antimafia rossa, i giornali si sono messi a cercarlo, ha dispensato interviste e commenti taglienti sulla giustizia. Santoro è così, prendere o lasciare. Ricorda quando a 18 anni la sua casa era stata perquisita per alcune soffiate su Piazza Fontana «Avevo 18 anni, vidi la polizia alle 5 del mattino, con i mitra. Mio padre ferroviere, mentre rovesciavano i cassetti di mia madre con dentro le mutande, mi guardava, come a dire cosa hai fatto, poi ha capito». Si parla di mafia e di giustizia. La tesi che dietro le stragi di Capaci e Via D' Amelio non ci fossero i servizi segreti, sostenuta da Avola con colpevole (e sospetto) ritardo, non trova aderenze con carte e atti dei tribolati processi sulle morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, tanto che ancora l' altro giorno a Tommaso Labate del Corriere della Sera Santoro si era arreso all' evidenza: «La mano sul fuoco non la metto per nessuno». Quale migliore scenario, quello di un giustizialismo alle corde con i suoi esponenti finiti nella polvere, per sparigliare le carte? «Cosa nostra è sparita nel nulla? Noi non sappiamo cos' è diventata, parliamo di quello che era trent' anni fa». Poi difende Avola: «Ha ucciso 80 persone ma non è un mostro - e Porro lo contesta subito - Il bene e il male non sono così separati, sono bivi nei quali ci troviamo». Sulle stragi di Capaci e Via d' Amelio assolve il Cavaliere: «La mafia non ha preso ordini da Berlusconi. La sua statura come politico è fuori discussione, come i suoi giganteschi conflitti d' interessi». Poi si rimangia l' idea che i servizi non c' entrassero nulla. «Non ci sono le prove». Dopo aver ipotizzato un possibile format Rai-Mediaset come quello con Maurizio Costanzo negli anni '90 su Libero Grassi - suo pallino anche nel libro - scorrono le immagini del linciaggio mediatico contro Falcone. «Pensavo che si fosse fatto strumentalizzare con il Palazzo e da Andreotti, ormai non più organico a Cosa nostra. Ho sbagliato», è la sua scusa. Al direttore del Giornale Sallusti che lo rimprovera di aver già dato credito a pentiti come Massimo Ciancimino Santoro risponde che senza i pentiti non sapremmo niente. «Sì, ma di quelli affidabili, ribatte Sallusti». «Ma io non posso verificare, tocca alla magistratura farlo», sibila. «Non ha certo bisogno di dimostrare quanto è autorevole nell' antimafia - dice al Giornale il massmediologo Klaus Davi - Anche se la sua provocazione su Avola può essere discutibile lui l' ha usata per riproporsi nel sistema mediatico e ha vinto anche questa volta. Che la sua tesi sia vera o meno è totalmente ininfluente. Con tutto il suo peso ha saputo imporre il suo racconto a un mondo, quello degli antimafiosi, che era diventato asfittico e autoreferenziale, sterile». E quando Porro lo accusa di aver dato spazio ai grillini, come «quelli che applaudivano i nemici di Falcone» lui si inalbera. «Era l' Italia delle battaglie referendarie, del maggioritario, dell' antimafia come frontiera indispensabile». Non è vero, dice ancora Sallusti, hai creato tu la cultura del sospetto, il giustizialismo, l' odio mediatico. «Mai stati forcaioli», ribatte Santoro. Sallusti e Porro sorridono. Sipario.

Ecco la svolta di Santoro: così rivaluta il Cav. Federico Giuliani il 10 Maggio 2021 su Il Giornale. Ospite a Quarta Repubblica su Rete4 Michele Santoro ha parlato, tra le altre questioni, di Silvio Berlusconi e degli anni del berlusconismo. "Fare l'ospite non è nella mia natura. Già stare seduto mi mette in imbarazzo". Dopo 22 anni Michele Santoro torna in uno studio Mediaset. Il giornalista e scrittore è stato intervistato da Nicola Porro a Quarta Repubblica, il talk show dedicato ad attualità politica ed economica. Santoro ha parlato, tra l'altro, della sua ultima fatica Nient’altro che la verità (Marsilio), testo in cui si narra la storia del killer mafioso Maurizio Avola. "Questa volta ho deciso di parlare con il pubblico in tutte le sue articolazioni perché il libro merita di essere segnalato all'attenzione. Mi auguro che qualcuno lo legga", ha esordito Santoro. Che, nel corso della puntata, ha ricordato approfonditamente anche dei suoi trascorsi e delle sue battaglie con Silvio Berlusconi.

Il Bene e il Male. Il giornalista ha quindi raccontato un episodio della sua vita per dare l'idea dell'aria che si respirava ai tempi della strage di Piazza Fontana. "Avevo 18 anni. In Italia si è seguita subito la pista anarchica. Sono state perquisite 50 case. Una di queste era la mia. I militari sono entrati. Cercavano esplosivi perché un informatore ha detto che da me potevano trovarli", ha dichiarato Santoro. "La mia strada poteva diventare quella di tanti ragazzi che poi hanno scelto la strada di terrorismo. Il bene e il male non sono così separati. Sono bivi nei quali ci troviamo nella nostra vita", ha aggiunto. All'epoca, ha sostenuto Santoro, c'era uno Stato "che non poteva considerarsi completamente dalla parte del bene". "Oggi è facile ricostruire quei fatti e dividere in buoni e cattivi. La violenza che ho subito io poteva portarmi a scegliere la strada del terrorismo. Poi ho avuto la fortuna di avere una educazione e mi sono salvato. Ma altri non si sono salvati", ha chiosato l'ospite di Porro. Santoro ha quindi tratteggiato il killer Avola: "Dire che è un mostro vuol dire impedirci di pensare tutto ciò che c'è stato intorno a lui. Le complicità, i magistrati, i poliziotti, l'insieme di una società corrotta che quando questo andava a scuola, solo perché non era bravo, lo consideravano uno senza capacità. Quindi quando incontra il male, il male gli dà il rispetto. È lì che diventa gigantesca la sua passione per il male".

Mafia e toghe sporche. Nel suo libro Santoro sostiene che è la Mafia a decidere. "Lo ribadisco. Non nego che ci siano complicità, servizi segreti, politici che cercano forme di collusioni, favoreggiatori. Ma Cosa Nostra non aspettava gli ordini che arrivavano dai servizi segreti. Altrimenti tutto sarebbe stato deciso dallo Stato", ha sottolineato Santoro, stroncando una narrazione per anni predominante. "Berlusconi non ha dato l'ordine di fare stragi e non le ha ideate", ha quindi aggiunto il giornalista. Per quanto riguarda il nodo "toghe sporche", se fosse vero che la magistratura è inquinata da una loggia più o meno segreta, saremmo di fronte a un problema per la democrazia. "Dopo il crollo della prima repubblica non abbiamo mai creato una nuova repubblica. Il passaggio di Berlusconi non ha portato riforme che sarebbero servite. Abbiamo perso 20 anni. Non c'erano partiti seri. Oggi siamo agli sgoccioli", ha commentato Santoro.

Gli anni del berlusconismo. Santoro, parlando del passato, ha tuttavia ricordato come ai tempi di Berlusconi ci fosse un dualismo – da una parte la visione del Cav, dall'altra quella di chi lo combatteva – mentre oggi "non è rimasto più nulla". Nel frattempo il Movimento 5 Stelle è salito al potere "senza avere la cultura per governare un Paese" perché "i partiti si sono sgretolati". Il direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti, presente in studio nelle vesti di ospite, ha incalzato Santoro con alcune domande. "Ritieni violento che un signore come Berlusconi abbia subito 24 processi oppure sei convinto che la violenza è solo quando lo Stato è venuto a casa tua?", ha chiesto Sallusti al suo interlocutore. Santoro ha quindi parlato specificatamente di Silvio Berlusconi, "rivalutandone", in parte, la figura: "La sua statura è fuori discussione, così come le sue capacità politiche. Berlusconi ha avuto un'intelligenza tattica che gli altri non hanno avuto. Oggi i protagonisti della politica sono tutti minori tranne Draghi. Che però non viene dalla storia politica italiana". A detta di Santoro, insomma, ci troviamo in una democrazia "molto più in crisi di allora perché non siamo mai usciti dalla prima repubblica".

Libertà e politicamente corretto. Per quanto riguarda le polemiche che hanno travolto i comici Pio e Amedeo, Santoro sembra avere le idee chiarissime: "Non possiamo ridurre il linguaggio di due comici a quello del politicamente corretto. Questa è la fine della libertà. Possiamo guardarli o non guardarli, ma non possiamo giudicarli col metro con cui giudicheremmo un politico". Santoro ha infine parlato del lockdown causato dalla pandemia di Covid-19 e della sofferenza derivante dalla mancanza di libertà. "Non mi piace delegare la mia vita al potere. Ciò che è successo è “siamo noi che gestiamo la vostra vita. Fidatevi di noi”. L'espropriazione della creatività di ognuno di noi, in futuro, farà dei danni".

Conchita Sannino per repubblica.it il 4 maggio 2021. Il complotto inesistente, ovvero la lunga vicenda della sentenza dei diritti Mediaset che vide la conferma della condanna in Cassazione per Silvio Berlusconi (4 anni: con l'accusa di frode fiscale) fu disseminato di mistificazioni. E di testimoni singolari: o colti subito in "casa", nello stesso entourage di Forza Italia, come nel caso dei tre dipendenti delle imprese del senatore Fi Domenico De Siano, che accusarono l'allora presidente che firmò la sentenza, Antonio Esposito; o presentati e lanciati post-mortem, come nel caso del giudice Amedeo Franco (scomparso due anni fa), che si fece registrare mentre diceva che quel verdetto "era stata una porcheria". Senza mai rivelare tuttavia che proprio lui, Franco, giudice di quel collegio, era stato sonoramente scoperto dai colleghi - come rivelò Repubblica il 23 luglio 2020 - mentre provava a registrare, un unicum nella storia della corte suprema, le parole della camera di consiglio. Clamorosa la scena ricostruita dal nostro giornale: Franco che scappa in bagno mentre si inceppa il registratore che ha attivato in tasca, e i colleghi che, insospettiti da quel gracchiare, lo inseguono e trovano il piccolo dispositivo a poca distanza dal lavello. Inquietanti fatti su cui è tornato Report, il programma condotto da Sigfrido Ranucci con l'articolata inchiesta di Luca Chianca. Ma sarà il Gip di Napoli, tra pochi giorni, a dirimere una delle puntate del grave caso giudiziario. E' quella che riguarda i lavoratori Giovanni Fiorentino, Domenico Morgera e Michele D'Ambrosio, tutti e tre legati a De Siano, interrogati dall'avvocato della difesa Berlusconi, Bruno La Rosa. Tutti e tre scaraventano su Esposito, che ha avuto la sventura di andare a villeggiare in uno degli hotel di proprietà di De Siano, le accuse di "pregiudizi" del magistrato contro l'ex premier, etichettato - a loro dire - con insulti dinanzi a loro. Tuto materiale che da ben sette anni, dal 2014, pende dinanzi alla Corte europea per i diritti dell'uomo: dove l'agguerrito collegio della difesa di Berlusconi ha depositato il materiale che proverebbe che l'ex premier fu condannato con una sentenza, a loro dire, "politica". A Napoli, invece, il 12 maggio prossimo, proprio sulle parole dei tre testimoni pro-Berlusconi, il Gip dovrà decidere se accogliere la richiesta di archiviazione del pm, oppure se dare ragione all'opposizione della difesa del giudice Esposito. Che contesta una serie di contraddizioni e di incongruenze sia sulla sostanza, sia sulle modalità di raccolta delle parole di quei tre cittadini ischitani, tanto legati al senatore forzista, che puntano il dito contro l'allora presidente del collegio che condannò il Cavaliere. Una incredibile storia all'italiana, si potrebbe dire, di come provare a costruire una contronarrazione di quella sentenza: su cui ha indagato anche la Procura di Roma, che solo qualche mese fa ha notificato un avviso di chiusura indagini a carico dei giornalisti de Il Riformista e di casa Mediaset, con le ipotesi di diffamazione contro il giudice Esposito, inchiesta portata avamti dall'aggiunto Paolo Ielo con il procuratore capo Michele Prestipino. Una vicenda che viene dettagliatamente ricostruita da Chianca, per Report. Il giornalista Rai si è messo sulle tracce dei testimoni, scoprendo che poi alcuni smentiscono, altri vengono indagati e una donna è condannata per falsa testimonianza. Tornano gli audio di cui è protagonista anche il giudice Franco, che - all'indomani della sentenza - va a Palazzo Grazioli dal Cavaliere. Report è entrato in possesso dell'audio originale di quelle conversazioni, alcune inedite. In una di queste, Berlusconi dice: "E' andato Gianni Letta da Santacroce e ci ha detto 'Ormai avete quel collegio lì e ve lo tenete' ". L'ex premier si riferisce al contatto che il suo fedelissimo sottosegretario di Stato, Gianni Letta, avrebbe avuto con l'allora presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, anche lui scomparso. E si sente ancora Berlusconi che dice: "Il procuratore della Cassazione andiamo a toccarlo con un nostro amico". Evidente che, al di là delle intenzioni dell'entourage berlusconiano di avvicinare l'allora sostituto procuratore generale, oggi Pg della Cassazione, Antonio Mura, nessuno poté far breccia in un varco considerato insormontabile. Si conferma poi un'altra circostanza: se l'avvocato Franco Coppi avesse chiesto il rinvio, la sentenza e quel materiale incandescente sarebbe passato in Cassazione in mano alla presidenza di Gennaro Marasca: a lungo autorevole esponente della fu Md, integerrimo magistrato, oltre che ex assessore bassoliniano. Compaiono poi le interviste video inedite ai tre giudici che facevano parte di quel collegio: Ercole Aprile e Claudio D'Isa, oltre al giudice Esposito, raccontano di quel gesto di Franco. L'intenzione, verosimilmente, era di immortalare per sempre quella camera di Consiglio. Franco spinse il pulsante di quel registratore. Per quale motivo, lo fece? Soprattutto: a vantaggio di chi? Con ogni probabilità, non lo sapremo mai.    

Complotto per il complotto. Report Rai PUNTATA DEL 03/05/2021 di Luca Chianca collaborazione di Alessia Marzi. Silvio Berlusconi viene condannato il 1 agosto 2013 per frode fiscale nel processo Mediaset. La sentenza parla di 7,3 mln di euro evasi. Secondo i giudici Berlusconi è l'ideatore e sviluppatore del sistema che consentiva la disponibilità di denaro occulto direttamente o attraverso persone di sua fiducia. Presidente del collegio arbitrale è il giudice Antonio Esposito che dopo la lettura del dispositivo di condanna dell'ex presidente del Consiglio diventa il bersaglio di una campagna di stampa che si è protratta fino ai giorni nostri. Quando esce la sentenza spuntano diversi testimoni che sostengono che il giudice Esposito avrebbe dato dei giudizi tranchant su Berlusconi. Report si è messo sulle tracce dei testimoni, scoprendo che poi alcuni smentiscono, altri vengono indagati e una donna è condannata per falsa testimonianza. La vicenda torna d'attualità la scorsa estate perché viene diffusa la notizia che la sentenza sarebbe stata un'esecuzione politica per mano giudiziaria. A raccontarlo a Berlusconi è Amedeo Franco, morto due anni fa: è il relatore del collegio che qualche mese dopo la sentenza va a Palazzo Grazioli dal Cavaliere. Il giudice però durante quegli incontri riservati viene registrato a sua insaputa. Report è entrato in possesso dell'audio originale di quelle conversazioni, alcune inedite, che ribaltano il racconto fatto finora da alcuni organi di stampa e ha ricostruito quanto accaduto in Cassazione anche grazie alle interviste esclusive a tre giudici che facevano parte di quel collegio.

La nota inviata in redazione dall'avv. Niccolò Ghedini.

COMPLOTTO PER IL COMPLOTTO Di Luca Chianca Collaborazione Alessia Marzi Immagini Alfredo Farina Montaggio Emanuele Redondi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A proposito della macchina del fango, vediamo quella che è stata messa in piedi contro i magistrati che avevano condannato Berlusconi nel 2013, lo faremo attraverso interviste, documenti e soprattutto brani inediti di una registrazione che contiene la voce di uno di quei magistrati che avevano condannato Berlusconi.

SILVIO BERLUSCONI - 2 AGOSTO 2013 “Io sono qui, io resto qui, io non mollo, continueremo tutti insieme a combattere questa battaglia di democrazia e di libertà. E tutti insieme riusciremo a vincere e a cambiare il nostro paese facendolo diventare un paese dove i cittadini non abbiano paura di trovarsi senza colpa in carcere di vedere calpestata la propria libertà. Io sono innocente”.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Silvio Berlusconi da poco condannato in via definitiva riceve il conforto del suo popolo giunto da tutta Italia sotto palazzo Grazioli. Il presidente del collegio che lo ha giudicato è Antonio Esposito.

ANTONIO ESPOSITO – EX PRESIDENTE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Dopo quella sentenza io ricevetti lettere minatorie, telefonate di ingiurie, di minacce.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Con oltre 40 articoli dedicati tutti al Giudice Esposito, Il Giornale della famiglia Berlusconi, inizia una campagna di stampa contro il presidente del collegio, appena due giorni dopo la sentenza.

LUCA CHIANCA Le cene allegre di Esposito che è il giudice e presidente del collegio.

ALESSANDRO SALLUSTI – DIRETTORE IL GIORNALE Quando esce quella sentenza spuntano dei testimoni partecipanti ad alcune cene precedenti la sentenza in cui il giudice Esposito dava dei giudizi tranchant su Berlusconi e addirittura annunciava che gli avrebbe fatto un mazzo così.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Mai fu più indigesta una pasta a patate e provola, per il giudice Esposito, un giudice con le spalle larghe, è stato… ha seguito il processo contro il fallito attentato all' Addaura nei confronti del giudice Falcone, poi quello, il processo che ha portato alla condanna del governatore Cuffaro per aver favorito esponenti di Cosa Nostra, le infiltrazioni mafiose in Lombardia, il processo Antonveneta. Però a noi il giudice Esposito interessa in quanto presidente del collegio di quei magistrati di Cassazione che hanno condannato in via definitiva Berlusconi il primo agosto del 2013. È l’unica sentenza, condanna definitiva dell’ex premier. Secondo i magistrati, Berlusconi aveva messo in piedi un sistema, era il creatore, lo sviluppatore di un sistema teso a rendere disponibile una quantità di denaro, di capitali all’estero. Come avveniva? Insomma, Mediaset acquistava i diritti di società produttrici all’estero per programmi che avrebbe dovuto trasmettere sui propri canali. Solo che li acquistava attraverso delle società fittizie e poi Mediaset, ricomprava sempre da questa società fittizie i diritti, pagando di più, molto più del prezzo con cui li aveva acquistati. Questo aveva due ricadute: da una parte avevi un abbassamento dei costi delle tasse e dall’altra consentiva di esportare dei capitali all’estero e creare dei fondi neri. Questo è stato il sistema che è stato messo in piedi per decenni, avrebbe consentito negli anni di risparmiare costi per 360 milioni di euro. Ecco insomma, è andato tuto prescritto tranne la tranche 2002-2003: evasione stimata: 7,3 milioni di euro. Ed è per questo che Berlusconi è stato condannato. Ma appena viene emessa la sentenza, partono gli attacchi nei confronti del presidente del collegio Esposito, emergono delle dichiarazioni che il giudice avrebbe fatto contro Berlusconi e avrebbe pregiudicato la sua serenità di giudizio. Insomma, è così? Galeotta è stata una cena a base di pasta e patate e provola, la sua passione, per un attore, il nostro Luca Chianca. Tutti lui li trova questi personaggi…

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Scalea, provincia di Cosenza. Anno 2011. Il presidente del collegio che condanna Berlusconi, Antonio Esposito, si trova da queste parti perché è da un suo vecchio amico che al bar gli presenta il suo socio d'affari Massimo Castiello.

ANTONIO ESPOSITO – EX PRESIDENTE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Cade il discorso su pasta e patate dice Castiello, mia moglie la sa fare benissimo con la provola e quindi si può fare quando viene Franco Nero questa estate. Eh allora… LUCA CHIANCA Altro che la Provola…

ANTONIO ESPOSITO – EX PRESIDENTE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 …perché io ero un estimatore di Franco Nero.

LUCA CHIANCA Franco Nero, era Franco Nero.

ANTONIO ESPOSITO – EX PRESIDENTE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Allora accettai. Era Franco Nero.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il padrone di casa è grande amico dell'attore Franco Nero mentre il giudice Esposito un grande appassionato dei suoi film e così due anni prima la sentenza cenano tutti insieme a Villa Sandra con vista sullo splendido golfo di Policastro. È in quel contesto che Esposito avrebbe confidato l’intenzione di punire Berlusconi. A raccontare tutto al Giornale, è Massimo Castiello, padrone di casa, e ammiratore di Berlusconi.

ANTONIO ESPOSITO – EX PRESIDENTE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Esce questo articolo: se becco Berlusconi gli faccio un mazzo. Parole che Castiello dice che io avrei detto durante la cena, che io non ho mai detto.

LUCA CHIANCA Dirà anche altre cose…

ANTONIO ESPOSITO – EX PRESIDENTE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Dirà poi, a tavola disse Berlusconi mi sta sulle palle. Io non ho mai detto questo.

LUCA CHIANCA E come se lo spiega?

ANTONIO ESPOSITO – EX PRESIDENTE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Bisognerebbe chiederlo a Castiello.

LUCA CHIANCA Buongiorno signora, c'è il dottor Castiello? DONNA È un giornalista della Rai.

MASSIMO CASTIELLO - IMPRENDITORE Ascolti le dico subito una cosa io sono sotto processo, il mio giudice naturale, rispondo solo a lui, chiaro? e ho fiducia moltissimo nella giustizia non ho altro da dire. LUCA CHIANCA Io non sono un giudice, chiaramente faccio un altro lavoro.

MASSIMO CASTIELLO - IMPRENDITORE Il giudice naturale è il mio magistrato al quale rispondo stop; ho fiducia nella giustizia e non possiamo più parlare.

LUCA CHIANCA Se lei mi raccontasse semplicemente la storia, la famosa cena con Franco Nero.

MASSIMO CASTIELLO - IMPRENDITORE Tante belle cose. Arrivederla, arrivederla, scusi.

LUCA CHIANCA Senta…

MASSIMO CASTIELLO - IMPRENDITORE Arrivederla.

LUCA CHIANCA Semplicemente…

MASSIMO CASTIELLO - IMPRENDITORE Io rispondo solo al mio giudice naturale che è il mio magistrato.

LUCA CHIANCA Lei dice di aver sentito dire il dottor Esposito…

 MASSIMO CASTIELLO - IMPRENDITORE Arrivederla.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Alla cena organizzata da Castiello c’era anche Domenico Fama. Un amico in comune che smentisce la versione di Castiello.

LUCA CHIANCA Il giornale della famiglia Berlusconi scrive che Esposito sembrerebbe aver detto che “a Berlusconi gli faccio un mazzo tanto”. DOMENICO FAMA Io non l'ho mai sentito, ma questo l'ho già detto ai magistrati.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E a mettere in dubbio la versione di Castiello è anche l’altro commensale Franco Nero, che davanti ai magistrati nega di aver sentito le frasi di Esposito riportate dal Giornale.

LUCA CHIANCA Esposito odiava Berlusconi: queste sono le parole che titolate di Franco Nero, poi in realtà Franco Nero dirà altre cose davanti al giudice no, dice: “ribadisco che non mi ricordo assolutamente se Esposito avesse detto le frasi riportate sul il Giornale.

ALESSANDRO SALLUSTI – DIRETTORE IL GIORNALE No, no, Franco Nero esce questo giornale e non fa assolutamente nulla, non ci ha né smentito né querelato.

LUCA CHIANCA No, l'unico in realtà che dice che le cose sono andate così rimane Castiello, che è l’imprenditore, c'ha provato anche la moglie, ma è stata condannata per falsa testimonianza.

ALESSANDRO SALLUSTI – DIRETTORE IL GIORNALE Quando uno testimonia una cosa che non può provare perché non è registrata può anche essere che viene condannata per falsa testimonianza. Io faccio il giornalista se una persona con nome e cognome e che ha titolo di farlo dice di aver sentito delle parole il fatto che lo dica è una notizia.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Proprio sulla base dei titoli del Giornale non confermati, Giacomo Saccomanno, avvocato calabrese sceso in politica con il centrodestra, si spinge addirittura a fare un esposto alla Procura di Roma per accertare quello che era accaduto nella cena del giudice Esposito.

GIACOMO SACCOMANNO – AVVOCATO E RESPONSABILE LEGA SALVINI PREMIER REGIONE CALABRIA Se fosse stata vera quella circostanza, avrebbe messo in discussione completamente diciamo la serenità della corte.

LUCA CHIANCA Che poi è stato smentito un po' da tutti.

GIACOMO SACCOMANNO – AVVOCATO E RESPONSABILE LEGA SALVINI PREMIER REGIONE CALABRIA Però quando sono uscite questi articoli dei giornalisti, nessuno li ha smentiti.

LUCA CHIANCA E lei li ha presi per buoni.

GIACOMO SACCOMANNO – AVVOCATO E RESPONSABILE LEGA SALVINI PREMIER REGIONE CALABRIA E quando esce, nessuno smentisce…

LUCA CHIANCA E c'ha fatto pure la denuncia…

GIACOMO SACCOMANNO – AVVOCATO E RESPONSABILE LEGA SALVINI PREMIER REGIONE CALABRIA E certo, l’ho fatto, fate gli accertamenti, no?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’avvocato Saccomanno, ex Forza Italia, e attuale leader in Calabria del partito Salvini Premier, presenta una denuncia contro Esposito. Ma basata su cosa? Questo è il paradosso. Basata su quelle dichiarazioni che sono state pubblicate su “Il Giornale”. Saccomanno chiede ai magistrati di verificare se la presunta antipatia manifestata da Esposito durante le cene, potesse in qualche modo inficiare la serenità di giudizio con la quale è stata espressa la condanna di Berlusconi. Ora ovviamente la denuncia è finita nel nulla, però quelle dichiarazioni erano nate nel corso di una cena che si erano svolti due anni prima. Commensali, oltre il giudice Esposito, c’era anche l’attore Franco Nero, poi c’era un amico comune, Domenico Fama, e soprattutto l’imprenditore Castiello. È da lui che parte tutta quanta la vicenda. È lui che chiama Il Giornale della famiglia Berlusconi, e dice guardate che ho sentito il giudice Esposito proferire la sua antipatia nei confronti di Berlusconi. Addirittura, anticipare l’esito di una sentenza che ci sarebbe stata due anni dopo. Se becco Berlusconi, gli faccio un mazzo… queste dichiarazioni vengono pubblicate da IL Giornale che pubblica anche dichiarazioni di Franco Nero, Esposito denuncia a Milano, però Il Giornale ad un certo punto, vista la mala parata, transa, e il Tribunale poi penale condannerà la moglie di Castiello per diffamazione. Ma non contento, il giudice Esposito presenta anche una denuncia presso la procura di Roma, dove Castiello è accusato di false dichiarazioni ai magistrati. Lì finisce anche Franco Nero, che nega immediatamente di aver detto quelle cose che aveva pubblicato Il Giornale, anche Domenico Fama, l’altro commensale nega di aver mai ascoltato dalla bocca di Esposito frasi contro Berlusconi… e allora c’è da chiedersi, ma perché Castiello ha proferito quelle dichiarazioni, ha riportato quelle cose al Giornale? Una motivazione la danno i magistrati di Milano che hanno condannato la moglie. Ecco, secondo loro, Castiello sarebbe risultato inattendibile in quanto le sue affermazioni sono state smentite più volte e perché avrebbe agito Castiello? Sempre secondo i magistrati verosimilmente per ragioni di natura politica, di visibilità, comunque per appoggiare Berlusconi. Ma questo avrebbe avuto la ricaduta di innescare un processo di diffamazione da parte dei mezzi di comunicazione nei confronti del magistrato Esposito. Però insomma, dopo un po’ di tempo Esposito viene coinvolto in un’altra vicenda. Questa volta galeotto è un piccolo albergo di Ischia che è stato scelto probabilmente perché il giudice ipotizzava una riservatezza elvetica, visto il nome hotel “Svizzera”, dentro però troverà 3 testimoni particolari, un cameriere, un bagnino e un ristoratore. Particolari per chi lavora nel luogo dove lavorano, per chi li stipendia e soprattutto anche per dove abitano.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L’hotel Svizzera, dove ha trascorso le vacanze estive il giudice Antonio Esposito negli anni precedenti la sentenza che ha condannato Berlusconi appartiene alla potente famiglia del coordinatore di Forza Italia Domenico De Siano.

ANTONIO ESPOSITO – EX PRESIDENTE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Avevo trovato quest'alberghetto dove si mangiava molto bene, tranquillo, sapevo chi era il proprietario dell'albergo, in quel momento era il sindaco Di Lacco Ameno.

LUCA CHIANCA Attuale senatore di Forza Italia.

ANTONIO ESPOSITO – EX PRESIDENTE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Domenico De Siano, coordinatore di Forza Italia in Campania.

LUCA CHIANNCA Anche lì si scatena…

ANTONIO ESPOSITO – EX PRESIDENTE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Eh… secondo quello che dicono….

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ed è in questo albergo che il giudice Esposito avrebbe incontrato tre dipendenti del senatore di Forza Italia. D'Ambrosio Michele, responsabile del ristorante, Domenico Morgera, bagnino termale, Fiorentino Giovanni cameriere. Rilasciano all’avvocato di Berlusconi dichiarazioni sui comportamenti del giudice Esposito, durante le vacanze.

BRUNO LAROSA – AVVOCATO SILVIO BERLUSCONI È la persona che lei vede in questa foto? Non faccia così… Insomma…

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Nel marzo del 2014, il responsabile del ristorante, il bagnino e il cameriere dell’albergo di famiglia del senatore di Forza Italia De Siano vengono convocati nello studio dell'avvocato di Berlusconi, Bruno Larosa, che li registra in un questo esilarante video le loro dichiarazioni su quello che dicono di aver ascoltato dal giudice Esposito, durante le vacanze.

MICHELE D'AMBROSIO - RESPONSABILE RISTORANTE HOTEL SVIZZERA (NA) Un giorno mi ha domandato, chi è il vostro proprietario e gli dissi il nome così, ma lui sta con Forza Italia e io dicevo sì e lui mi rispondeva ah sta con quella chiavica di Berlusconi.

BRUNO LAROSA – AVVOCATO SILVIO BERLUSCONI Proprio chiavica ha detto eh? Cioè che cosa?

MICHELE D'AMBROSIO - RESPONSABILE RISTORANTE HOTEL SVIZZERA (NA) Sì, sì. E disse pure, se mi capita gli farò un mazzo così a Berlusconi.

BRUNO LAROSA – AVVOCATO SILVIO BERLUSCONI Quindi a Berlusconi se mi capita l'occasione…

MICHELE D'AMBROSIO - RESPONSABILE RISTORANTE HOTEL SVIZZERA (NA) Gli farò un mazzo così.

DOMENICO MORGERA – BAGNINO TERMALE HOTEL SVIZZERA (NA) E ha fatto delle affermazioni sul proprietario dell'azienda e su Silvio Berlusconi. Lui diceva che il titolare della struttura aveva fatto una scelta politica sbagliata come diceva lui e in napoletano disse: che bella chiavica.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Proprio Domenico Morgera, bagnino dell’albergo di Desiano, abita in questa bella villa in collina, e scopriamo che uno dei testimoni chiave contro il giudice Esposito vive dove compare il nome del coordinatore di Forza Italia in Campania, Domenico De Siano.

LUCA CHIANCA Salve, io cercavo da un lato il senatore de Siano e dall'altro Domenico Morgera.

DONNA Qua non c'è nessuno.

LUCA CHIANCA Però dico Domenico vive qui o no?

DONNA Sì.

LUCA CHIANCA Morgera.

DONNA Sì.

LUCA CHIANCA Ma questa è casa anche del senatore?

DONNA Non lo so.

LUCA CHIANCA E come non lo sa? Qua c'è scritto così!

DONNA Spegni la telecamera e poi te lo dico.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L'abbiamo spenta ma senza successo. Così il giorno dopo siamo andati a cercarlo in uno degli alberghi che il senatore De Siano ha sull'isola.

DOMENICO MORGERA – BAGNINO TERMALE HOTEL SVIZZERA (NA) Di che si tratta, mi scusi?

LUCA CHIANCA La sua testimonianza su Esposito e Berlusconi.

DOMENICO MORGERA – BAGNINO TERMALE HOTEL SVIZZERA (NA) Guardi però c'è un procedimento in corso.

LUCA CHIANCA Lei ha sentito dire da Esposito che Berlusconi era una bella chiavica, ho qui la trascrizione del verbale.

DOMENICO MORGERA – BAGNINO TERMALE HOTEL SVIZZERA (NA) Le ripeto c'è un procedimento in corso.

LUCA CHIANCA Ma dall'avvocato Larosa di Napoli chi ce l'ha portata?

DOMENICO MORGERA – BAGNINO TERMALE HOTEL SVIZZERA (NA) Le ripeto, non voglio dare dichiarazioni.

LUCA CHIANCA Cioè lei è uno storico della famiglia De Siano. Lei e suo figlio lavorate per la famiglia De Siano da anni, nel senso siete quasi parte integrante della sua famiglia.

DOMENICO MORGERA – BAGNINO TERMALE HOTEL SVIZZERA (NA) No, non siamo parte, io sono una persona che alla fine del mese percepisce uno stipendio dalla famiglia De Siano. Punto.

LUCA CHIANCA Ok.

DOMENICO MORGERA – BAGNINO TERMALE HOTEL SVIZZERA (NA) Niente di più, niente di meno.

LUCA CHIANCA E ha la residenza a casa loro.

DOMENICO MORGERA – BAGNINO TERMALE HOTEL SVIZZERA (NA) Ma io c'ho la residenza a casa loro perché io aiutavo il papà che c’aveva dei problemi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L’altro testimone contro il Giudice Esposito è il cameriere Giovanni Fiorentino. Anche lui lavora stabilmente negli alberghi del Coordinatore di Forza Italia in Campania De Siano. Riporta alcune dichiarazioni del giudice quando rientrava in albergo.

BRUNO LAROSA – AVVOCATO SILVIO BERLUSCONI Lo ha sentito esprimere giudizi su Silvio Berlusconi?

GIOVANNI FIORENTINO – CAMERIERE HOTEL SVIZZERA (NA) Sì, chiedeva spesso di chi era l'albergo.

BRUNO LAROSA – AVVOCATO SILVIO BERLUSCONI Sì.

GIOVANNI FIORENTINO – CAMERIERE HOTEL SVIZZERA (NA) E rispondevo de Siano diciamo.

BRUNO LAROSA – AVVOCATO SILVIO BERLUSCONI E quindi?

GIOVANNI FIORENTINO – CAMERIERE HOTEL SVIZZERA (NA) E la sua risposta sta insieme a quella chiavica di Berlusconi diceva.

BRUNO LAROSA – AVVOCATO SILVIO BERLUSCONI Sta con quella chiavica…

GIOVANNI FIORENTINO – CAMERIERE HOTEL SVIZZERA (NA) Di Berlusconi.

BRUNO LAROSA – AVVOCATO DI SILVIO BERLUSCONI Di Berlusconi, questo è avvenuto una sola volta, più volte? GIOVANNI FIORENTINO – CAMERIERE HOTEL SVIZZERA (NA) Diciamo più volte, perché, era un continuo diciamo.

ANTONIO ESPOSITO – EX PRESIDENTE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Ma c'è di più, voglio aggiungere, che era un continuo tant'è che all'ingresso del ristorante invece di dire buonasera era solito affermare ancora vi devono arrestare riferendosi al dott. Berlusconi e al mio datore di lavoro.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il cameriere Giovanni Fiorentino, così determinato con l’avvocato di Berlusconi nel denunciare il giudice Esposito, ora appare molto più discreto.

LUCA CHIANCA Giovanni buongiorno come stai?

GIOVANNI FIORENTINO – CAMERIERE HOTEL SVIZZERA (NA) Buongiorno sono impegnato, non posso… devo scappare. LUCA CHIANCA Aspetta, aspetta, mi sto occupando di sta vicenda di Berlusconi.

GIOVANNI FIORENTINO – CAMERIERE HOTEL SVIZZERA (NA) No, guardi… sono impegnato.

LUCA CHIANCA Spiegami soltanto come sei andato a finire nello studio dell'avvocato Larosa.

GIOVANNI FIORENTINO – CAMERIERE HOTEL SVIZZERA (NA) Va a finire male, lasciami stare.

LUCA CHIANCA Dall'avvocato Larosa, avete raccontato che il giudice Esposito insisteva sempre nel parlar male di Berlusconi e di De Siano, ma te l'ha suggerito De Siano di andare dall'avvocato Larosa eh? Giovanni, dai.

GIOVANNI FIORENTINO – CAMERIERE HOTEL SVIZZERA (NA) Sto lavorando, per favore non insistete.

LUCA CHIANCA Dai però… Vorrei capire come nasce questa storia.

GIOVANNI FIORENTINO – CAMERIERE HOTEL SVIZZERA (NA) Fate le persone serie, una sola volta basta per cortesia.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E così, dopo diversi giorni di contatti telefonici non andati a buon fine, incontriamo finalmente il senatore di Forza Italia Domenico De Siano, nel centro di Roma.

LUCA CHIANCA Uno di loro vive a casa di sua madre o a casa sua.

DOMENICO DE SIANO – SENATORE FORZA ITALIA A casa mia perché io vivo con mia mamma, sono persone che collaborano con la mia famiglia da tantissimi anni. Nel momento in cui hanno percepito determinate cose, si sono resi sensibili nel verificare come poter… LUCA CHIANCA Darle una mano.

DOMENICO DE SIANO – SENATORE FORZA ITALIA No darle una mano a me no…

LUCA CHIANCA Beh nei confronti di Berlusconi lei se la può rivendere come cosa no?

DOMENICO DE SIANO – SENATORE FORZA ITALIA Non è questo lo spirito.

LUCA CHIANCA Abbiamo questi tre che dicono queste cose no? questo è il punto, no?.

DOMENICO DE SIANO – SENATORE FORZA ITALIA Non è questo lo spirito che ci anima si erano limitati a raccontare delle cose che hanno ascoltato.

LUCA CHIANCA Lei dice quelle cose le ha dette il giudice.

DOMENICO DE SIANO – SENATORE FORZA ITALIA E certamente mica se le inventavano.

LUCA CHIANCA No ma lei se lo immagina.

DOMENICO DE SIANO – SENATORE FORZA ITALIA Io non è che me lo immagino io l'ho ascoltato dalle testimonianze delle persone.

LUCA CHIANCA Dalle testimonianze dei suoi dipendenti.

DOMENICO DE SIANO – SENATORE FORZA ITALIA Esattamente.

LUCA CHIANCA Di uno che vive da lei.

DOMENICO DE SIANO – SENATORE FORZA ITALIA E perché, una persona che…

LUCA CHIANCA Suscita perplessità questa cosa…

DOMENICO DE SIANO – SENATORE FORZA ITALIA Può suscitare perplessità però non è detto che non sia vero, anzi per me è vero. Io ci credo. A me viene da piangere in determinate situazioni perché sono gravi.

LUCA CHIANCA Ma non è anche grave che lei porta i suoi dipendenti a parlare con l'avvocato di Berlusconi a far fare dichiarazioni del genere.

DOMENICO DE SIANO – SENATORE FORZA ITALIA I miei dipendenti mi hanno semplicemente chiesto come fare per potersi mettere in contatto e poter dire quello che avevano ascoltato.

LUCA CHIANCA Addirittura di loro spontanea volontà?

DOMENICO DE SIANO – SENATORE FORZA ITALIA Certamente sì non si meravigli, mica son tutte persone, certo…

LUCA CHIANCA Lì c'è il rischio di falsa testimonianza dalla parte dei dipendenti eh?

DOMENICO DE SIANO – SENATORE FORZA ITALIA Certamente sì, non c'è problema.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il giudice Esposito aveva scelto come luogo di vacanza un piccolo alberghetto di Ischia che è però di proprietà della famiglia del senatore De Siano che è leader di Forza Italia in Campania. Tre suoi dipendenti dicono di aver ascoltato delle esternazioni del giudice Esposito nella quali manifestava la sua antipatia per Berlusconi. Lo avrebbe definito addirittura una chiavica, così dice il ristoratore, che avrebbe anche aggiunto di aver ascoltato il giudice Esposito anticipare l’esito di una sentenza che ci sarebbe stata qualche mese dopo, di aver detto insomma, se becco Berlusconi, gli faccio un mazzo così. Insomma, ha ripetuto le dichiarazioni che erano state pubblicate qualche mese prima da Il Giornale della famiglia Berlusconi. Ecco, queste dichiarazioni finiscono in un video raccolto dal legale di fiducia di Berlusconi, l’avvocato Larosa, e vengono allegati dai legali di Berlusconi al ricorso che era stato presentato presso la corte europea dei diritti dell’uomo. Questo perché i legali ipotizzano che sia stata lesa, siano stati lesi i diritti dell’imputato, che sia in discussione la terzietà dei magistrati che l’hanno giudicato, in particolare quella del giudice Esposito. Quando però Esposito viene a sapere tutto questo, presenta una denuncia presso il Tribunale, presso la procura di Napoli. Una denuncia nei confronti dei 3 testimoni che però è stata chiesta l’archiviazione dal magistrato. Noi leggendo gli atti però abbiamo riscontrato una piccola anomalia: intanto che non è stata… non si è proceduto all’interrogatorio dei 3 testimoni, e questo fatto è stato… l’archiviazione è stata chiesta in base al fatto che secondo il pm mancano gli elementi per ritenere che il ristoratore, il bagnino e il cameriere, abbiano dichiarato il falso in mancanza, scrive, di un interesse specifico nella vicenda. Ecco, lascia un po’ perplessi perché in effetti i tre sono dipendenti del leader delle attività di famiglia del leader di Forza Italia in Campania e inoltre lascia un po’ perplessi anche in virtù della tempistica con cui si è svolta tutta questa vicenda. Il 31 marzo del 2014 Berlusconi incarica il legale Larosa, nel giro di 5 giorni vengono convocati, registrati i 3 testimoni e il video spedito e allegato al ricorso presentato presso la corte europea dei diritti dell’uomo. Ecco, un dossier abbastanza corposo, al quale viene anche poi allegato l’anno scorso, un file, una registrazione. Su c’è incisa la voce di un giudice di Cassazione che era in collegio insieme al giudice Esposito, è il relatore giudice Amedeo Franco che è morto e nessuno gli potrà chiedergli conto di quello che aveva detto, e definisce quella sentenza una porcheria.

MARIASTELLA GELMINI – DEPUTATA FORZA ITALIA 30/06/2020 Grazie presidente ho chiesto la parola per segnalare in quest'aula la gravità dei fatti che sono stati pubblicati da un quotidiano Il Riformista, proprio questa mattina. Noi oggi possiamo affermare con ancora più chiarezza che non si è trattato di una sentenza, ma di un'esecuzione politica per mano giudiziaria.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L’audio a cui si riferisce l’onorevole Gelmini pubblicato a luglio dello scorso anno contiene la voce del Giudice Amedeo Franco, il relatore del collegio, presieduto da Esposito, che ha condannato Berlusconi. Franco aveva incontrato Berlusconi in modo riservato più volte dopo la sentenza e gli aveva confessato i retroscena riguardanti i giudici che l’avevano condannato.

REGISTRAZIONE AMBIENTALE AMEDEO FRANCO - EX RELATORE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione com'è capitato. Dall'inizio sono sempre stato un suo ammiratore anche se devo stare zitto perché in quell'ambiente è meglio non parlare.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Franco non immaginava che qualcuno avesse registrato le sue parole. E solo dopo la sua morte, il 30 giugno del 2020, il Riformista di Sansonetti pubblica in esclusiva il suo audio. E Mediaset, nel programma Quarta Repubblica, anticipa i contenuti della registrazione del Giudice Franco con Berlusconi.

PIERO SANSONETTI – DIRETTORE IL RIFORMISTA È una cosa clamorosa la sua dichiarazione dopodiché, Berlusconi la tenne riservata per molti anni. LUCA CHIANCA Perché la tenne riservata per molti anni?

PIERO SANSONETTI – DIRETTORE IL RIFORMISTA Quelli sono un po' affari suoi, io credo che la tenne riservata finché Franco era vivo anche per non creare casini a Franco suppongo, ma la registrazione è vera.

LUCA CHIANCA Che sia lui non c'è dubbio, ma lo dice un magistrato oggi morto a cui non possiamo chiedere più nulla. PIERO SANSONETTI – DIRETTORE IL RIFORMISTA L'hanno messo sotto accusa Berlusconi per la strage di Firenze perché un pentito, non si sa nemmeno chi fosse, 30 anni dopo ha detto mi sa che c'entra Berlusconi, titoloni sui giornali. Ma perché quello lo prendete considerazione e se un serio magistrato dice mi vergogno, ho partecipato… LUCA CHIANCA Perché è morto sto magistrato.

PIERO SANSONETTI – DIRETTORE IL RIFORMISTA E cosa c'entra che è morto?

LUCA CHIANCA Non possiamo chiedergli altro a questo magistrato.

PIERO SANSONETTI – DIRETTORE IL RIFORMISTA Io la cosa che trovo più anomala è che un giudice così importante mi racconti che quella sentenza era stata emanata da un plotone d'esecuzione.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ma come entra in contatto il giudice Amedeo Franco con Berlusconi? Qui entra in scena l’ex magistrato dalle mille relazioni, oggi in Italia Viva. Cosimo Ferri, all'epoca sottosegretario alla Giustizia del governo Letta, poi coinvolto nello scandalo Palamara. È lui il link tra Berlusconi e Franco.

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Io mi ricordo che lo incontrai in un convegno in Puglia e mi fermò dopo la relazione e mi espresse il desiderio di incontrare il Presidente Berlusconi e in effetti poi gli organizzai due incontri.

LUCA CHIANCA Incontro anomalo lo possiamo definire così: il giudice che lo condanna si presenta a casa del condannato accompagnato da Cosimo Ferri che ex magistrato, anzi magistrato, sottosegretario.

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA A parte che io l'ho percepita dal presidente Franco come uno sfogo.

LUCA CHIANCA Onorevole non è normale andare dall'ex presidente del consiglio, capo dell'opposizione a sfogarsi, un giudice della corte di Cassazione… Ma dico ma pure lei che ce lo porta dico…

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ma se uno te lo chiede un collega che stimi, persona per bene…

LUCA CHIANCA Ma si fa un passo indietro… è una cosa gravissima!

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA La cosa grave! se uno mi chiede: voglio andare, poteva anche andare insomma… Ci vuole andare a un appuntamento infatti primo ho chiesto al presidente.

LUCA CHIANCA Chi è che lo registra?

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA E che ne so, se lo sapessi…

LUCA CHIANCA Eravate lei, Franco e Berlusconi e basta, voi tre?

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Sì noi tre.

LUCA CHIANCA E quindi uno dei tre ha registrato però…

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Che ne so, io no di certo, e non sapevo niente, quindi glielo posso spiegare… Franco non penso.

LUCA CHIANCA Quindi rimane Berlusconi il regista di tutta l'operazione!

COSIMO FERRI – DEPUTATO ITALIA VIVA Ma no, ma no, che ne so, chi ha registrato. Posso dire che io non ero stato e che Franco penso non sia stato.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Rimane Berlusconi. Ci risulta infatti che sia stato proprio lo staff del Presidente a registrare due volte di nascosto il Giudice Franco. In sei mesi Franco incontra Berlusconi almeno 3 volte. Due volte con Ferri, l'altra solo con Berlusconi. In uno dei colloqui il giudice Franco insinua dubbi sulla qualità del collegio che l’ha giudicato. A partire dal fatto che Berlusconi è stato giudicato dal collegio estivo della Cassazione.

REGISTRAZIONE AMBIENTALE AMEDEO FRANCO - EX RELATORE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 La vicenda processuale è molto strana, che senso ha mandarla alla feriale, questo è lo sbaglio, mandarla alla feriale.

SILVIO BERLUSCONI Mandarla a..

AMEDEO FRANCO - EX RELATORE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Mandarla alla sezione feriale.

SILVIO BERLUSCONI Ah certo, certo.

AMEDEO FRANCO - EX RELATORE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Praticamente quella è un'incompetenza, praticamente una questione così delicata, va alla sezione competente non va dove stanno 5 di cui uno solo per necessità capisce di questa cosa e gli altri 4 non capiscono niente, poi una sezione feriale è sempre fatta con gli ultimi appena arrivati, ragazzini.

ANTONIO ESPOSITO – EX PRESIDENTE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Ma si rende conto che lui stava nel collegio, c'ero io che stavo lì da 18 anni in Cassazione, D’Isa stava da 7 anni.

LUCA CHIANCA Lei era uno di quei ragazzini, dice non avevate le competenze…

CLAUDIO D'ISA – EX GIUDICE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Allora il problema è questo, io per esempio sono stato assistente di diritto tributato, sono stato docente della scuola della Pubblica amministrazione proprio in materia di reati tributari, sono membro di una commissione regionale tributaria quindi un po' di tributario, di finanziario, lo mastico. LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Anche il dubbio che insinua Franco a Berlusconi in merito alla volontà di far giudicare il suo caso alla sezione feriale della cassazione per danneggiarlo, non è supportato dalle procedure. Infatti, come ogni anno, a metà maggio vengono formati i collegi della sezione feriale. Nel 2013 sono in tutto 15 e vengono composti da tutti quei magistrati che danno la loro disponibilità a lavorare durante il periodo estivo.

ANTONIO ESPOSITO – EX PRESIDENTE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Il 22 maggio 2013 nessuno sapeva se, quando, come questo processo sarebbe arrivato in Cassazione.

LUCA CHIANCA Comunque parliamo di Silvio Berlusconi…

ANTONIO ESPOSITO – EX PRESIDENTE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Sì, ma non esiste, questi sono 15 collegi come si fa a sapere che il processo arriva e sarà assegnato a quel collegio.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L'assegnazione al collegio dipende solo dalla data di prescrizione e solo il 9 luglio 2013 dalla Corte d'appello di Milano arrivano in Cassazione le carte del processo Mediaset con su scritto: urgentissimo, prescrizione 1° agosto.

6/7/2020 DA QUARTA REPUBBLICA NICOLA PORRO – CONDUTTORE E AUTORE QUARTA REPUBBLICA In realtà questi calcoli erano sbagliati, la vera prescrizione sarebbe avvenuta il 26 settembre del 2013 quindi, c'era tutto il tempo per andare nella sezione tributaria ordinaria con la quale secondo quello che dice uno dei magistrati ci sarebbero state persone più competenti. LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Effettivamente il calcolo fatto dalla Corte d'appello è sbagliato, lo rifanno e secondo i nuovi conti la prescrizione cade a settembre.

ANTONIO ESPOSITO – EX PRESIDENTE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Comunque, era sempre feriale. Il processo sarebbe ritornato alla sezione solo se il termine di prescrizione scadeva oltre il 31 ottobre. LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Eppure, per Sansonetti la tesi è quella del complotto orchestrata dai giudici 29/6/2020 DA QUARTA REPUBBLICA PIERO SANSONETTI – DIRETTORE IL RIFORMISTA È un complotto, sì, che qui ci sia stato un complotto mi pare evidente del resto oltre a questa registrazione che di per sé potrebbe non dimostrare tutto, c'è in contemporanea una sentenza del tribunale civile di Milano, che affronta la questione e stabilisce che il reato non ci fu. Porta centinaia di documenti e spiega che il reato non ci fu, quindi il reato fu inventato, quindi fu un complotto. Punto. LUCA CHIANCA FUORI CAMPO NUOVO I documenti citati dal direttore del Riformista non appartengono al processo Mediaset. Sono le Carte del processo Mediatrade

LUCA CHIANCA Questa qua è la sentenza, l'intestazione, e qua si fa riferimento a Mediatrade, Mediatrade e ancora Mediatrade. Che non è Mediaset, è Mediatrade.

PIERO SANSONETTI – DIRETTORE IL RIFORMISTA Ho capito ma i soldi sono quelli. Addirittura, la sentenza ribalta l'ipotesi dell'evasione fiscale.

LUCA CHIANCA Il processo Mediatrade fa riferimento a un'assoluzione definitiva in Cassazione di tutti gli imputati, son due storie completamente diverse.

PIERO SANSONETTI – DIRETTORE IL RIFORMISTA Non sono affatto cose diverse, sono la stessa.

LUCA CHIANCA Però questo il leitmotiv della narrazione che viene fatta a sostegno di questo grande complotto contro Berlusconi.

PIERO SANSONETTI – DIRETTORE IL RIFORMISTA Su questo deciderà la corte di Strasburgo, c'ha le carte, ha visto quali sono le… ma poi non è che adesso, ragioniamo, non è che gli avvocati di Berlusconi sono andati a Strasburgo con una sentenza che non li riguarda.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Vedremo. Nelle more proprio per aver confuso la sentenza Mediatrade con quella Mediaset, Sansonetti è stato sanzionato dall'ordine dei giornalisti. “Si tratta chiaramente di due vicende processuali diverse”, scrive il collegio di disciplina. Nel processo Mediatrade, si tratta sempre di diritti televisivi, ma le società e i flussi di denaro sono diversi. Lì poi Silvio Berlusconi è stato prosciolto immediatamente, gli altri imputati Piersilvio, il figlio, e Confalonieri. Assolti in Cassazione del 2016. Rimane la condanna per il processo Mediaset. Ad un certo punto abbiamo visto che il relatore di quel collegio di quella condanna, sentenza, il giudice Franco va a casa di Berlusconi. E a portarcelo è Cosimo Ferri, ex sottosegretario del ministero della Giustizia, ex magistrato, ora in aspettativa, è stato coinvolto nella vicenda Palamara, non è stato indagato, ma intercettato mentre lui e gli altri si scambiavano consigli su come spartirsi le procure di mezza Italia. Ora il giudice Franco, parla Berlusconi di un collegio di magistrati quella della Cassazione equivalenti a un plotone di esecuzione addirittura e istilla dei dubbi sulla qualità di quel collegio. Dice si tratta di un collegio, di una sessione feriale, di un consiglio formato da dei ragazzini. Insomma, a guardarli non sembrano giudici di primo pelo. Comunque Franco va casa di uno che ha condannato. Perché? E nella ricostruzione di tutta questa vicenda emerge anche che il giudice che è stato registrato a sua insaputa da Berlusconi, a sua volta aveva tentato di registrare i colleghi magistrati di cassazione, mentre erano riuniti in consiglio, e stavano per decidere la condanna di Berlusconi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati allora. Silvio Berlusconi era stato condannato nel 2013 in maniera definitiva per aver evaso 7,3 milioni di euro di tasse. Ecco a distanza di 7 anni spunta un nastro, sopra è registrata la voce del relatore del collegio di quei magistrati di Cassazione che l’avevano condannato. Ecco, quel giudice è morto, aveva definito la sentenza una “porcheria” e nessuno è in grado di potergli chiedere conto di quelle dichiarazioni. Ma il nostro Luca Chianca che ha trovato anche altri brani originali di questo nastro ha scoperto poi che questo giudice che è stato registrato a sua insaputa da Berlusconi a sua volta aveva anche tentato di registrare i suoi colleghi mentre erano riuniti in camera di consiglio e stavano per decidere la condanna di Silvio Berlusconi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Anche l’ex consigliere del Csm Luca Palamara, ha frequentato il giudice Amedeo Franco dice di averlo sentito lamentarsi delle pressioni subite prima della sentenza su Berlusconi.

LUCA PALAMARA – EX MAGISTRATO Franco mi dice quello che già avevo vissuto nella mia pregressa esperienza quando io da presidente dell'Anm prendevo un aereo per andare a difendere i Pm o i giudici di Milano impegnati nel processo di Berlusconi LUCA CHIANCA C'è una manina o no? Perché qui la questione è questa, c'è una manina che chiede al dottor Franco: mi devi condannare Berlusconi o non c'è quella manina.

LUCA PALAMARA – EX MAGISTRATO Io direi che c'è una tensione generale che non va molto lontana dalla manina tanto per essere chiari.

LUCA CHIANCA Eh, però lei mi deve dire la manina chi è?

LUCA PALAMARA – EX MAGISTRATO Ma la manina non è identifica in una persona, se sapessi la persona sarei andato a fare il giorno dopo la denuncia, se il dottor Franco mi avesse detto c'è tizio che mi vuole, mi dice di condannare Berlusconi il minuto dopo sarei andato a farlo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il giudice Franco nei colloqui registrati di nascosto dice a Berlusconi di aver tentato di informare anche Ernesto Lupo, all'epoca consigliere giuridico dell’allora Presidente della Repubblica Napolitano. SILVIO BERLUSCONI Ma cosa sa il Presidente, che!?

AMEDEO FRANCO - EX RELATORE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Lo sa che è stata una porcheria.

SILVIO BERLUSCONI mmm AMEDEO FRANCO - EX RELATORE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Io quando l'ho detto a Lupo, guarda mi hanno coinvolto in questa faccenda maledetta, io non… a questo punto ha cambiato discorso cioè non vogliono sentire. LUCA CHIANCA Se non era d'accordo con quella sentenza perché non lo ha detto?

ERNESTO LUPO – EX CONSIGLIERE GIURIDICO PRESIDENTE REPUBBLICA 2013-2015 Se era in disaccordo Franco poteva non firmare è una cosa che a me è capitata più volte.

LUCA CHIANCA Perché non l'ha fatto secondo lei?

ERNESTO LUPO – EX CONSIGLIERE GIURIDICO PRESIDENTE REPUBBLICA 2013-2015 È una di quelle cose che richiederebbe che fosse in vita, ecco perché è molto grave che tutto questo sia emerso soltanto dopo la sua morte. Uno che è stato giudice di un imputato va dall'imputato a parlare del giudizio, ma è qualcosa di una gravità eccezionale.  LUCA CHIANCA Nell'audio con Berlusconi, Franco dice che tentò di dirle della porcheria della sentenza, ma lei...  ERNESTO LUPO – EX CONSIGLIERE GIURIDICO PRESIDENTE REPUBBLICA 2013-2015 Rimase nella sua mente comunque...è certissimo che questo termine non l'usò non parlammo neanche della sentenza parlammo solo delle polemiche del processo. LUCA CHIANCA Franco dice anche che Napolitano sapeva che era una porcheria.

ERNESTO LUPO – EX CONSIGLIERE GIURIDICO PRESIDENTE REPUBBLICA 2013-2015 Escludo nella maniera più assoluta che il Presidente abbia mai inciso sulle sentenze.

LUCA CHIANCA NUOVO FUORI CAMPO Un altro retroscena di quello che sarebbe accaduto in quella camera di consiglio ce lo racconta Luca Palamara, quando era al Csm parla con Ercole Aprile, uno dei giudici del collegio che ha condannato Berlusconi.

LUCA CHIANCA Il consigliere Aprile, suo collega, viene da lei e le dice che cosa?

LUCA PALAMARA – EX MAGISTRATO Che in quella camera di consiglio c'erano state che voi umani non potete immaginare. Se qualcosa non ha funzionato perché non venne denunciato nell'immediatezza?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Oggi Ercole Aprile, uno dei giudici che condannò Berlusconi, dopo la parentesi al Csm, è tornato in Cassazione. Lo incontriamo davanti al palazzaccio, dove ci rivela un sospetto: che il giudice Franco abbia tentato di registrare i colleghi che erano riuniti in camera di consiglio mentre stavano decidendo sull’imminente condanna di Berlusconi.

LUCA CHIANCA Lei a Palamara addirittura dirà che in quella camera di consiglio ho visto cose che voi umani non potete immaginare.

ERCOLE APRILE – EX GIUDICE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Guardi io questa frase, in questi termini, non l'ho pronunciata. Ritenevo che la figura di Amedeo Franco non fosse adeguata.

LUCA CHIANCA E che cosa è successo in quella feriale, che lei addirittura la porta…

ERCOLE APRILE – EX GIUDICE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Innanzitutto in quell'occasione lui mise la mano alla tasca, si sentì un gracchiare, un… come se stesse registrando. Si alzò in piedi, di scatto, e scappò in bagno. Noi lì per lì rimanemmo gelati.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Anche un altro giudice del collegio che condannò Berlusconi conferma il sospetto che Franco avesse tentato di registrare le decisioni dei colleghi.

CLAUDIO D'ISA – EX GIUDICE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Dopo un po’ di tempo, subito dopo uscì dalla camera di consiglio per il bagno anche un altro collega, il collega de Marzo, rientrò con un apparecchietto, l'ho trovato nel bagno LUCA CHIANCA Un registratore?

CLAUDIO D'ISA – EX GIUDICE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Un registratore, quelli piccolini, lo mettemmo in funzione, si sentì questo gracchiare di voce e poi niente muto non c'erano nessuna registrazione.

LUCA CHIANCA Però perché non l'avete segnalato o denunciato?

ERCOLE APRILE – EX GIUDICE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Perché non avevamo la certezza.

LUCA CHIANCA Perché voi puntate il dito contro di lui però?

ERCOLE APRILE – EX GIUDICE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Noi abbiamo capito che c'era qualcosa che non andava successivamente, perché a distanza di qualche mese scrisse una sentenza con la quale criticava la decisione che era stata adottata ad agosto 2013.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A quale sentenza si riferisce il giudice Aprile? A quella che aveva scritto in qualità di relatore il giudice Franco nel 2014, è un’altra sentenza rispetto a quella che aveva visto la condanna di Berlusconi. Però lui sente il bisogno di scrivere quali sono stati gli errori commessi dal collegio giudicante Berlusconi. Ecco sono due sentenze che non c’entrano nulla l’una con l’altra, tanto che la Corte di Cassazione addirittura sente il bisogno di stigmatizzare l’episodio e di uscire con un comunicato stampa dove sottolinea che le due sentenze non c’entrano nulla l’una con l’altra, un fatto che non ha precedenti nella storia della Cassazione. Ma perché il giudice Franco scrive quelle cose? Aveva incontrato Berlusconi nei mesi precedenti però il legale di Berlusconi l’avvocato Ghedini ci dice “guardate che non c’è alcuna correlazione fra quello che scrive il giudice Franco e gli incontri che ha avuto precedentemente da Berlusconi”. E perché poi esce dopo 7 anni di distanza quel nastro dove Franco giudica una “porcheria” quella sentenza di condanna. Per i legali di Berlusconi si tratta semplicemente di rispetto per un giudice morto, però a guardar bene è anche scaduto il termine della prescrizione per un reato, quello che prevede la violazione del segreto di quello che accade in una camera di consiglio di quei giudici che proprio Franco aveva tentato probabilmente di registrare in modo maldestro, perché abbiamo sentito che probabilmente ha schiacciato il pulsante sbagliato, si è sentito gracchiare, è scappato in bagno dove poi un altro giudice avrebbe trovato un piccolo registratorino. Ecco anche qui il giudice è morto, a Franco non possiamo chiedere conto di questo episodio. Ma se fosse stato lui a tentare di registrare le decisioni dei suoi colleghi, per conto di chi l’avrebbe fatto? Nel corso della sua inchiesta il nostro Luca ha trovato dei brani inediti di questa registrazione fatta da Berlusconi al giudice, ed emerge un contesto che si muove intorno, nelle ore in prossimità della decisione di condanna. Lo stesso Berlusconi lo sentiremo dalla sua voce, dice, ammette di aver tentato di toccare il procuratore generale della Cassazione, di colui cioè che avrebbe dovuto chiedere la condanna di Berlusconi, e di aver inviato anche l’ex sottosegretario Letta da quello che è il presidente della Corte di Cassazione, il magistrato Santacroce, noto per essersi occupato di alcune delle inchieste dove c’erano i misteri d’Italia, la P2, Ustica. Quando è stato nominato presidente della Cassazione erano state sollevate anche alcune polemiche perché Santacroce era stato uno degli invitati alle cene di Cesare Previti.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quello che finora nessuno aveva ascoltato però, sono le parole che si scambiano nei mesi precedenti. Parole che fanno capire quanto il giudice Franco fosse disponibile a trovare una soluzione per venire incontro alle richieste di Berlusconi, che chiede di intervenire sul Presidente Napolitano. Ma Franco ha paura di essere accusato.

REGISTRAZIONE AMBIENTALE AMEDEO FRANCO - EX RELATORE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Si direbbe subito è stato corrotto è stato pagato, è stato... Quindi bisogna trovare il modo perché se si faccia una lettera al presidente della Repubblica soprattutto se è segreta, secondo me non va bene.

SILVIO BERLUSCONI E chiedergli un incontro?

AMEDEO FRANCO - EX RELATORE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 E che gli dico?

SILVIO BERLUSCONI Allora presidente ci pensi lei e veda.

AMEDEO FRANCO - EX RELATORE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Io ci penso, vediamo se possiamo trovare qualche modo.

SILVIO BERLUSCONI Io da questo punto di vista le garantisco che.

AMEDEO FRANCO - EX RELATORE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Presidente io le devo dire io, per me, se trovo un modo anche per sgravarmi la coscienza, perché mi porto dentro questo peso del...ci continuo a pensare.

SILVIO BERLUSCONI Io attendo le decisioni sue.

AMEDEO FRANCO - EX RELATORE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Io se ha bisogno di qualche cosa, io vengo, non c'è problema SILVIO BERLUSCONI Grazie.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E le anomalie dei giorni precedenti la sentenza non finiscono qui. Quello che emerge dalle registrazioni in nostro possesso è che Berlusconi mandò anche Gianni Letta, il suo uomo più fidato, a parlare con il Primo Presidente della Cassazione, Santacroce.

SILVIO BERLUSCONI È andato Gianni Letta da Santacroce, e ci ha detto: “ormai avete quel collegio, lì ve lo tenete. Abbiamo un relatore assolutamente sopra le parti.

CLAUDIO D'ISA – EX GIUDICE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Unica cosa che mi lasciò perplesso è che Franco più di una volta mi chiese il Primo presidente ti vuole parlare il Primo presidente della Corte di cassazione che all'epoca era il dottor Santacroce, dice ma perché mi vuole...no ti vuole parlare, dissi guarda Franco, per questo processo il mio unico referente è il Presidente Esposito.

LUCA CHIANCA Il suo collega D'Isa mi dice che Amedeo Franco ha più volte insistito con lui per andare a parlare al Presidente Santacroce, le risulta questo?

ANTONIO ESPOSITO – EX PRESIDENTE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 No, posso solo dire che in una occasione, il primo presidente mi disse venite un giorno qui, portami tutto il collegio, voglio conoscerlo. E io gli dissi no, non li porto perché questo potrebbe sembrare molto antipatico, allora dice ma io sono pur sempre il Primo presidente va be' se tu vuoi chiamateli.

LUCA CHIANCA L'ha fatto poi?

ANTONIO ESPOSITO – EX PRESIDENTE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Eh non lo so.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E infine, un fatto ancora inedito emerge sempre dalle registrazioni di Berlusconi: l’aver contattato attraverso mediatori prima del processo anche il Procuratore della Cassazione Mura, il rappresentante dell'accusa.

REGISTRAZIONE AMBIENTALE SILVIO BERLUSCONI Il procuratore di Cassazione, andiamo a toccarlo con un nostro amico.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il procuratore Mura lo abbiamo raggiunto al telefono per capire che cosa fosse successo in quei giorni di fine luglio del 2013.

LUCA CHIANCA Berlusconi a un certo punto dice fa riferimento al fatto che l’abbia toccato, cioè abbiano toccato lei con un amico. Toccato s’intende il fatto che qualcuno l’abbia avvicinata.

ANTONIO MURA – PROCURATORE CASSAZIONE 2013 Non credo di avere nessuna dichiarazione da fare in questo campo.

LUCA CHIANCA Volevo solo sapere se lei conferma quello che lui dice ad Amedeo Franco fondamentalmente, il presidente Berlusconi dice che l’ha toccata ANTONIO MURA – PROCURATORE CASSAZIONE 2013 Io le ripeto da tutta la mia vita professionale evito ogni commento.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Non vuole commentare, quello che farà in quei giorni però è chiedere Mura in la conferma della condanna d’appello attraverso una dura requisitoria, anche se Franco, prima della sentenza, sembrava di altro avviso, su come sarebbe andata.

REGISTRAZIONE AMBIENTALE AMEDEO FRANCO - EX RELATORE SEZIONE FERIALE CASSAZIONE 2013 Se io avessi immaginato soltanto mi facevo ricoverare in ospedale e risolvevo il problema. Non mi sono fatto ricoverare esclusivamente perché ero sicurissimo...mi avevano assicurato che avresti... la difesa sua o di qualcun'altro richiesta o rinvio, quindi che chiedo a fare io?

SILVIO BERLUSCONI Non abbiamo chiesto il rinvio perché Coppi ha deciso di non farlo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’avvocato Ghedini ci scrive che Letta era stato inviato con Coppi dal giudice Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, perché aveva sempre svolto un ruolo importante nella comunicazione e non bisognava sottovalutare la ricaduta mediatica che avrebbe avuto una sentenza di condanna. Ora Coppi ha evitato come abbiamo sentito da Berlusconi di chiedere il rinvio, giustamente era stata calcolata male la data di prescrizione, e comunque il rinvio avrebbe comunque comportato che il procedimento sarebbe nuovamente stato incardinato in una sessione feriale. Quale sarebbe stata l’alternativa in quel momento? Che non ci sarebbe stato quel collegio e neanche il presidente Esposito. Ci sarebbe stato come presidente Gennaro Marasca, ex assessore della giunta di Bassolino, stiamo parlando del Partito democratico di sinistra, Marasca è un esponente di ferro storico di Magistratura democratica. Forse alla fine il giudice Esposito sarebbe sembrato anche un moderato. Ma questa ovviamente è una lettura che facciamo noi, in piena libertà. Dopodiché c’è una domanda: perché il giudice Franco va a distanza di pochi mesi a casa di colui che aveva contribuito a condannare? Lo fa per sincero pentimento o perché ambisce a un posto all’interno del Csm, visto che ci saranno da lì a poco delle nomine? Questo non lo sappiamo. Sappiamo però per certo che ha chiesto una mano al consulente del Quirinale, il consulente giuridico Lupo. Sappiamo anche che poi a proporlo al Csm è stato il membro laico allora in quota Forza Italia, Casellati, che però oggi ci scrive e ci dice che rivendica l’assoluta indipendenza di quella scelta. Fatto sta che poi è stato proposto, il plenum l’ha votato, con l’astensione però del giudice Aprile, Franco non lo convinceva perché aveva il sospetto che aveva tentato di registrarlo maldestramente mentre stava con gli altri giudici in camera di consiglio a decidere l’imminente sentenza di condanna di Berlusconi. Ora a distanza di tanto tempo, tutto questo materiale che abbiamo visto è sul tavolo della Corte europea dei diritti dell’uomo, dal 2014 che c’è questo ricorso perché i magistrati pensano che siano stati lesi i diritti dell’imputato Berlusconi, proprio per la mancanza di terzietà sospettano, dei magistrati. La corte dovrà decidere su tutto quello che abbiamo visto, sulla storia di dichiarazioni che emergono a distanza di anni, nastri di giudici registrati che emergono dopo 7 anni, ai quali non si può neppure chiedere conto di quelle affermazioni, delle testimonianze del cameriere, del bagnino, del ristoratore. Ecco, sono 7 anni che il dossier è lì, la Corte deve decidere, li abbiamo anche sentiti quelli della Corte, hanno detto che è in lavorazione e hanno promesso che decideranno entro l’anno. Insomma, in bocca al lupo.

Che brutta fine Report…Ora ridateci la Gabanelli. Ecco come ti costruisco un teorema a mezzo stampa. Sì, teorema: non c'è altro modo per definire quello costruito contro il "pentimento" del giudice che condannò Berlusconi. Davide Varì su Il Dubbio il 4 maggio 2021. Ecco come ti costruisco un teorema a mezzo stampa. Sì, teorema. Ci spiace, ma non c’è altro modo per definire la puntata che Report ha dedicato alla vicenda della famigerata frode fiscale costata a Silvio Berlusconi una condanna a 4 anni, la decadenza da senatore e l’interdizione dai pubblici uffici. Una condanna che assai difficilmente sarebbe finita nei libri di storia se non fosse che qualche tempo dopo è spuntato un audio nel quale il giudice Amedeo Franco, uno dei togati della sezione feriale di cassazione che condannò il Cavaliere, chiese esplicitamente scusa per quella sentenza che definì “una porcheria”. Lo fece anni dopo, in un incontro privato con Berlusconi; incontro che venne prontamente registrato: «Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà…A mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia…L’impressione che tutta questa vicenda sia stata guidata dall’alto», affermò Franco nel 2013. E poi: «In effetti hanno fatto una porcheria perché che senso ha mandarla alla sezione feriale? Voglio per sgravarmi la coscienza, perché mi porto questo peso del…ci continuo a pensare. Non mi libero…Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo». «Sussiste una malafede del presidente del Collegio, sicuramente». E così, non potendo contestare la validità di quell’audio, i segugi di Report hanno pensato bene di gettare qua e là qualche ombra sul giudice Franco, il quale nel frattempo è morto: “Come mai Franco ha incontrato Berlusconi?”, si son chiesti retoricamente i giornalisti concentrandosi sulla “manina” che avviò quella registrazione e ignorando bellamente il contenuto clamoroso di quell’audio che lasciava intravvedere uno spaccato inquietante all’interno della magistratura. Lo stesso che vediamo sempre più chiaramente in questi giorni. Fatto sta che l’obiettivo della trasmissione a quel punto è diventato uno e uno soltanto: dimostrare il teorema e screditare chiunque sostenesse la buona fede della “confessione” del giudice Franco. E qui entra in gioco Antonio Esposito, il presidente di quel collegio che in Cassazione condannò il Cavaliere. Esposito venne “accusato” da almeno tre persone di avere un atteggiamento, per così dire, preconcetto nei confronti dell’imputato eccellente: “A Berlusconi, se mi capita l’occasione, gli devo fare il mazzo così”, pare abbia detto più di una volta. E così, saltata a piè pari la portata di quelle rivelazioni, Report avvia una sorta di “indagine difensiva” per conto del giudice Esposito cercando di mettere in dubbio la testimonianza dei tre “accusatori” rivelando i loro presunti legami con alcuni dirigenti di Forza Italia di Ischia, figuriamoci. In effetti è lì, a Ischia che il giudice Esposito amava trascorrere le vacanze. E nella tenaglia è finito anche Piero Sansonetti il quale è stato sentito perché ha osato pubblicare l’audio-confessione di Franco. Il fatto di dar parola a Sansonetti – che come sapete ha fondato e diretto questo giornale – è sembrato un gesto di grande onestà intellettuale da parte di Report. Ma poi Sansonetti stesso ci ha rivelato che quel paio di minuti andati in onda erano un piccolissimo estratto di un’intervista durata quasi un’ora e mezza. Ecco di fronte a questo nuovo Report ci viene in mente una sola cosa: ridateci la Gabanelli!

Giovanni Bianconi per corriere.it il 17 maggio 2021. «Il ricorrente signor Silvio Berlusconi ha beneficiato di una procedura dinanzi a un tribunale indipendente, imparziale e costituito per legge? Ha avuto diritto a un processo equo? Ha disposto del tempo necessario alla preparazione della sua difesa?». Sono alcune delle 10 domande che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rivolto al governo italiano, e alle quali il governo dovrà rispondere entro il prossimo 15 settembre. A quasi otto anni dalla sentenza della Cassazione che l’1 agosto 2013 rese definitiva la condanna a quattro anni di reclusione (con un anno condonato) per frode fiscale che costò al fondatore di Forza Italia ed ex presidente del Consiglio la decadenza dalla carica di senatore, quella lunga e complessa vicenda giudiziaria continua a occupare i giudici di Strasburgo. Che con grande lentezza hanno recentemente rianimato il fascicolo numero 8683/14, intitolato «Berlusconi contro Italia», che giaceva sui loro tavoli dall’inizio del 2014. Nel frattempo l’ex premier ha scontato la pena, ha ottenuto la riabilitazione ed è stato rieletto al Parlamento europeo, ma il verdetto del 2013 continua ad avere effetti per lui importanti su altri versanti; ad esempio il diritto della Fininvest a detenere le quote eccedenti il 9,99 per cento di Banca Mediolanum, contestato proprio a causa della perdita dei requisiti di «onorabilità» (dovuta alla condanna) da parte dell’ex Cavaliere, azionista di maggioranza del gruppo. Per provare a rimuovere quell’ostacolo i suoi avvocati hanno proposto alla Corte d’appello di Brescia la revisione del processo milanese, che però appare un risultato complicato da raggiungere; e, sia pure con i tempi lentissimi dei ricorsi europei, continuano a percorrere anche la strada di Strasburgo. La folta e qualificata pattuglia di avvocati composta da Andrea Saccucci, Franco Coppi, Niccolò Ghedini, Bruno Nascimbene, Keir Starmer e Steven Powles ha presentato alla Corte una ricostruzione dei fatti in cui si ripercorre la complessa vicenda giudiziaria che, insieme a tre pronunce di prescrizione per alcuni reati contestati, è arrivata fino alla dichiarazione di colpevolezza dell’imputato Berlusconi da parte del tribunale e della Corte d’appello di Milano nel 2012 e nel 2013, confermate dalla Cassazione nell’estate dello stesso anno. Ma la cronologia è puntellata anche da una serie di presunte violazioni dei diritti della difesa che vanno dai mancati riconoscimenti del legittimo impedimento dell’ex premier a partecipare a cinque udienze al drastico taglio dei testimoni richiesti dalla difesa, dal rigetto dell’istanza di trasferimento del processo ad altra sede alla mancata traduzione in italiano di alcuni documenti provenienti dall’estero, e altro ancora. Si tratta di contestazioni già presentate ai giudici di merito e di legittimità italiani, tutte puntualmente respinte. Ma dopo il verdetto definitivo gli avvocati non si sono arresi, e ritenendo che fossero stati lesi alcuni principi sanciti dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo hanno deciso di proseguire la loro battaglia a Strasburgo. Dove i giudici, al termine di un vaglio di ammissibilità durato sette anni, hanno stabilito di chiedere conto delle «doglianze» di Berlusconi al governo italiano. Chiamato a fornire risposte scritte ai quesiti. «L’azione per la quale il ricorrente è stato condannato — domanda la Corte — costituiva reato secondo il diritto nazionale al momento in cui è stata commessa? Il ricorrente si è visto infliggere una pena più grave rispetto a quella applicabile al momento in cui la violazione è stata commessa, in ragione della mancata applicazione delle circostanze attenuanti? Il ricorrente è stato processato due volte per la stessa offesa sul territorio dello Stato?». L’Italia risponderà prevedibilmente di no, in linea con i magistrati che hanno emesso le sentenze e svolto accertamenti successivi; come quelli che a Roma hanno recentemente archiviato l’indagine su ipotetiche irregolarità nell’assegnazione della causa alla sezione feriale della Cassazione. Alle osservazioni del governo replicheranno i difensori di Berlusconi, in un contraddittorio scritto che precederà il verdetto finale. Dai tempi del tutto imprevedibili. Alla Corte i legali dell’ex premier s’erano già rivolti per contestare la decadenza da senatore, ma dopo la discussione davanti alla Grande Chambre hanno rinunciato perché con la riabilitazione il loro assistito aveva riottenuto i diritti che gli erano stati tolti; inutile rischiare una sentenza contraria quando non c’erano più interessi in gioco. In questo caso invece hanno deciso di insistere. Almeno per ora.

"L'Italia spieghi la condanna al Cav". La Corte europea richiama le toghe. Luca Sablone il 17 Maggio 2021 su Il Giornale. La Corte europea dei diritti dell'uomo interroga il nostro Paese dopo la condanna per frode fiscale: "Il Cav ha avuto un processo equo?" A otto anni dalla sentenza della Cassazione che rese definitiva la condanna per frode fiscale che costò a Silvio Berlusconi la decadenza dalla carica di senatore, arriva la svolta della Corte europea dei diritti dell'uomo. Al governo italiano sono state rivolte 10 domande alle quali si attende risposta entro il prossimo 15 settembre. "Il ricorrente signor Silvio Berlusconi ha beneficiato di una procedura dinanzi a un tribunale indipendente, imparziale e costituito per legge? Ha avuto diritto a un processo equo? Ha disposto del tempo necessario alla preparazione della sua difesa?", sono alcuni degli interrogativi posti nei confronti del nostro Paese. Dunque i giudici hanno stabilito che l'esecutivo italiano dovrà rispondere in maniera scritta ai quesiti presentati. Ad esempio la Corte chiede se l'azione per la quale il Cav è stato condannato "costituiva reato secondo il diritto nazionale al momento in cui è stata commessa". Ma anche se si è visto infliggere "una pena più grave rispetto a quella applicabile al momento in cui la violazione è stata commessa, in ragione della mancata applicazione delle circostanze attenuanti". Tra le altre domande, riferisce il Corriere della Sera, si vuole far luce anche sul fatto che il ricorrente sia stato o meno "processato due volte per la stessa offesa sul territorio dello Stato". La risposta dell'Italia potrebbe essere "no", considerando i magistrati che hanno emesso le sentenze e svolto accertamenti successivi (come l'archiviazione dell'indagine sulle ipotetiche irregolarità nell'assegnazione della causa alla sezione feriale della Cassazione). Alle osservazioni del governo italiano replicheranno poi i difensori di Berlusconi, leader di Forza Italia, in un contraddittorio scritto che infine porterà al verdetto finale i cui tempi risultano essere del tutto imprevedibili.

La mossa degli avvocati. Il fronte degli avvocati - composto da Andrea Saccucci, Franco Coppi, Niccolò Ghedini, Bruno Nascimbene, Keir Starmer e Steven Powles - ha presentato alla Corte la ricostruzione dei fatti per ripercorrere la vicenda giudiziaria culminata con la conferma della Cassazione dopo la dichiarazione di colpevolezza del Cav da parte del tribunale e della Corte d'appello di Milano nel 2012 e nel 2013. La cronologia è però corredata da diverse presunte violazioni dei diritti della difesa: si denunciano ad esempio i mancati riconoscimenti del legittimo impedimento di Berlusconi a partecipare a cinque udienze, il rigetto dell'istanza di trasferimento del processo ad altra sede e il drastico taglio dei testimoni richiesti dalla difesa. Gli avvocati hanno proseguito la loro battaglia a Strasburgo poiché ritengono che siano stati lesi alcuni principi sanciti dalla Convenzione europea sui diritti dell'uomo.

La CEDU interroga il governo italiano. Berlusconi, a otto anni dalla condanna la Corte europea interroga l’Italia: “Ha avuto un processo equo?” Carmine Di Niro su Il Riformista il 17 Maggio 2021. Otto anni dopo la sentenza della Corte di Cassazione che ha reso definitiva la condanna per frode fiscale nei confronti di Silvio Berlusconi, quattro anni di cui uno condonato, che costo al leader di Forza Italia la decadenza dalla carica di senatore per gli effetti della legge Severino, la CEDU (Corte europea dei diritti dell’uomo) interroga l’Italia sul processo subito dal Cavaliere. “Il ricorrente signor Silvio Berlusconi ha beneficiato di una procedura dinanzi a un tribunale indipendente, imparziale e costituito per legge? Ha avuto diritto a un processo equo? Ha disposto del tempo necessario alla preparazione della sua difesa?”, sono alcune delle 10 domande rivolte dalla Corte al governo italiano, come riporta oggi il Corriere delle Sera, e alle quali il governo dovrà rispondere entro il prossimo 15 settembre. La lunga e intricata questione legata al processo nei confronti di Berlusconi, con la sentenza di Cassazione che il primo agosto 2013 rese definitiva la condanna a quattro anni di reclusione al numero uno di Forza Italia, continua dunque a occupare i giudici di Strasburgo. L’Italia, prevedibilmente, difenderà l’operato dei magistrati che hanno emesso la sentenza di condanna definitiva nei confronti di Berlusconi. Uno scenario in linea anche con la recente archiviazione dell’indagine su presunte irregolarità nell’assegnazione della causa alla sezione feriale della Cassazione. Alle osservazioni del governo italiano replicheranno quindi i difensori di Berlusconi, quindi si arriverà ad un verdetto finale dalla tempistica incerta, vista la lentezza con la quale la CEDU ha ripreso in mano il fascicolo numero 8683/14, intitolato “Berlusconi contro Italia”, che giaceva sui loro tavoli dall’inizio del 2014. Il team di legali di Berlusconi, composto dagli ‘storici’ Franco Coppi e Niccolò Ghedini (oltre a Andrea Saccucci, Bruno Nascimbene, Keir Starmer e Steven Powles) punta al riconoscimento da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo di una serie di violazioni del diritto di difesa, dal taglio dei testimoni richiesti della difesa al mancato riconoscimento del legittimo impedimento dell’ex premier a partecipare a cinque udienze, fino al rigetto dell’istanza di trasferimento del processo ad altra sede. Tra gli atti presentati a Strasburgo dal team di avvocati di Berlusconi ci sono anche le dichiarazioni registrare in casa dell’ex premier in cui uno dei giudici di quel collegio, Amedeo Franco, scomparso due anni fa, dichiarò la sua contrarietà al verdetto (mai messa agli atti, ndr) e soprattutto il suo giudizio su una sentenza definita “una porcheria”. Sul processo costato la decadenza da senator Berlusconi ha recentemente chiesto la revisione alla Corte di Appello di Brescia. Si costituirà a propria tutela dinanzi alla Corte europea anche l’ex giudice (ora in pensione) Antonio Esposito, presidente di quel collegio della Cassazione che condannò Berlusconi. A Repubblica l’exx giudice ha spiegato che i suoi difensori “hanno predisposto un’istanza di partecipazione al giudizio dinanzi alla Cedu”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

La Cedu all’Italia: Berlusconi ha avuto un processo equo? Le dieci domande alla nostra giustizia della Corte europea dei diritti dell'uomo sulla sentenza che costò all'ex premier una condanna per frode fiscale e la decadenza dalla carica da senatore. Paolo Delgado su Il Dubbio il 18 maggio 2021. Le dieci domande che la Corte europea dei diritti dell’uomo pone al governo italiano per decidere sul ricorso contro la condanna per frode fiscale presentato da Silvio Berlusconi nel 2013 arriva come la luce di una stella morta. La sentenza avrà il suo peso sul versante economico, avendo dovuto Fininvest vendere buona parte delle quote di Mediolanum in suo possesso proprio in seguito alla sentenza ed essendo previsto, in caso di accoglimento del ricorso, il rimborso. L’eventuale ricaduta politica è garantita, perché una sentenza europea a favore del leader di Fi siglerebbe e rafforzerebbe una sorta di “riabilitazione politica” che di fatto c’è già stata negli ultimi anni, con il passaggio di Berlusconi dal ruolo di capo-reprobo a quello opposto di unico leader ragionevole, serio e affidabile della destra italiana. Quello col quale tutti erano pronti a governare, dal Pd ai 5S, al grido di “Ursula, Ursula”. Ma non è possibile azzardare neppure un vago paragone con il terremoto che si sarebbe prodotto pochi anni fa.In realtà l’eterna vicenda del braccio di ferro tra il capo azzurro e la magistratura prosegue. È noto che un paio di giorni fa in tutte le redazioni le condizioni di salute del leader di Fi erano date per gravi o molto gravi. Erano voci infondate, Il degente è stato dimesso proprio il giorno dopo, evocando così il sospetto che dietro alla lunga malattia ci sia, ancora una volta, l’esigenza di sottrarsi al processo di Siena per le “olgettine”. Si tratta però davvero solo di una coda. Quella sfida è terminata. Non superata, però. Il duello a colpi di procedimenti legali da una parte e leggi ad personam dall’altra non ha solo segnato una lunga epoca. Ha anche modificato la natura stessa della competizione politica in Italia e in questo senso gli effetti di quella sfida all’ultima sentenza non sono superati. I numeri parlano da sé. Berlusconi è stato coinvolto in oltre 20 processi. Tra archiviazioni, assoluzioni, prescrizioni, amnistie ma anche leggi fatte apposta per depenalizzare i reati per cui l’allora premier rischiava la condanna. In effetti è stato condannato solo una volta, appunto nel 2013. Non è finito in prigione come il suo ex braccio destro Marcello Dell’Utri. Ha espiato la pena svolgendo servizi sociali ma in compenso è stato cacciato dal Parlamento, umiliazione che ancora gli brucia più di ogni altra. Proprio perché evitata con ogni mezzo sino a quel momento, quella condanna chiuse di fatto un’epoca, anche se di procedimenti giudiziari ancora aperti e di processi in corso contro Berlusconi ancora ce ne sono. Già il numero esorbitante di procedimenti rivela quanto la partita tra il leader della destra italiana e la magistratura, e in particolare la procura di Milano, fosse diventata una questione personale, qualcosa di molto vicino alla faida. Berlusconi, da parte sua, ha cercato per dieci anni con ogni mezzo di sottrarsi ai processi non esitando a obbligare la sua maggioranza a votare leggi fatte apposta per salvarlo e in un caso a piegarsi a un voto umiliante e grottesco come quello nel quale le Camere decisero che Ruby la ragazza minorenne che finì per creare a Berlusconi più guai di qualsiasi altra indagine era la stata scambiata davvero per nipote di Mubarak. Tutto questo ha modificato il senso stesso del conflitto politico. La lotta è diventata contra personam, con l’obiettivo cioè di colpire e affondare il leder più che il suo partito e le sue idee. La sede eminente di quella conflittualità è pertanto slittata dalle aule parlamentari a quelle di giustizia. La politica, nella sua conflittualità latente con il potere togato, ha rinunciato a muoversi sul piano delle leggi di sistema, considerando il potere della magistratura troppo forte per essere apertamente sfidato, rifluendo, almeno nel caso di Berlusconi, nella difesa personale del singolo leader, dunque con leggi che non potevano che essere considerate odiose, essendo cucite a misura di singolo indagato. Se si va a cercare l’origine di molti dei guasti che flagellano la politica italiana, dal populismo a una sorta di “contrapposizione personalizzata”, non è difficile rintracciala.

Quel fax perduto e il "plotone di esecuzione" armi della difesa verso la revisione. Luca Fazzo il 18 Maggio 2021 su Il Giornale. I ritardi della Corte Ue non hanno permesso di ascoltare il giudice Franco, ora scomparso. Gli scenari in caso di verdetto favorevole. Non è vero che non è mai troppo tardi. Perché se la Corte europea dei diritti dell'Uomo avesse deciso di affrontare il caso Berlusconi un po' più celermente, avrebbe avuto uno strumento cruciale per capire cosa davvero accadde quando il Cavaliere fu condannato a due anni di carcere: uno strumento che oggi non ha più. Fu nel 2016, dopo tre anni dalla condanna del leader di Forza Italia per i diritti tv, che i suoi legali decisero di integrare il ricorso alla Corte con un documento inedito: la trascrizione dell'incontro di Berlusconi con Renato Franco, uno dei giudici di Cassazione che lo avevano condannato, che spiegava di avere fatto parte suo malgrado di un «plotone d'esecuzione», capitanato dal collega Antonio Esposito, deciso a liberare l'Italia dal Caimano per via giudiziaria. Se i giudici di Strasburgo si fossero mossi allora potevano convocare Franco, ascoltare dalla sua viva voce il racconto della camera di consiglio in cui secondo lui si era formalizzata una decisione già presa prima e fuori di essa. Ora Franco è morto. Contro di lui, sulla sua scelta di confidare tutto a Berlusconi, fioccano insulti da cui non può difendersi. E la Corte europea dovrà basarsi solo sulle sue registrazioni. Ma avrà anche sul tavolo gli elementi di fatto che quelle confidenze confermano: a partire dalla anomalia della assegnazione del fascicolo Berlusconi proprio alla sezione feriale presieduta da Esposito. Forse non è un caso che solo dall'estate scorsa, quando la storia dell'audio di Renato Franco è divenuta di pubblico dominio, che la Corte sia uscita da un letargo durato anni, decidendo di affrontare il caso (non irrilevante, comunque la si guardi) di un leader politico che affermava di essere stato cacciato dal potere per via giudiziaria. Ora, comunque, la questione è aperta, con le prima delle due domande che la Cedu rivolge all'Italia, sulla «attribuzione dell'affare alla sezione feriale della Cassazione». Seconda domanda: Esposito era un giudice imparziale, «tenuto conto delle dichiarazioni rilasciate alla stampa poco dopo la lettura del dispositivo e prima del deposito delle motivazioni»? C'è dell'altro, nelle spiegazioni che l'Italia dovrà dare alla Corte per rivendicare la legittimità della condanna di Berlusconi. A partire dal ruolo di Edoardo D'Avossa, il giudice milanese che pronunciò la sentenza di primo grado mentre presiedeva da tempo un altro tribunale, e di cui Strasburgo vorrebbe sapere se «esercitò le sue funzioni fuori dai termini previsti dal Consiglio superiore della magistratura». O le tappe forzate imposte al processo d'appello dal giudice Alessandra Galli, che in cinque occasioni decise di celebrare le udienze nonostante i certificati medici dell'imputato. Aspetti importanti ma marginali, rispetto a quello che si annuncia come il clou della questione, l'approdo del fascicolo inviato da Milano alla Cassazione, nel luglio 2013, e affidato dai vertici alla sezione presieduta di Esposito. È qui che le confidenze del giudice Franco a Berlusconi hanno trovato i maggiori riscontri. Il fascicolo milanese indicava nella copertina come data di prescrizione dei reati l'1 agosto, che portò all'assegnazione alla sezione feriale. Poco dopo però i giudici milanesi si accorgono dell'errore di calcolo, avvisano con un fax la Cassazione che c'è tempo fino al 14 settembre, il processo può andare alla seconda sezione: che in passato ha assolto gli imputati di reati analoghi, e altri ne assolverà in seguito. Ma una manina provvidenziale fa sì che il fax si perda per quattro giorni tra le cancellerie della Suprema Corte. Quando arriva a destinazione, è troppo tardi per togliere il fascicolo a Esposito. Quanto questo sia compatibile con il principio del «giudice stabilito per legge» sancito dalla Convenzione dei diritti dell'Uomo, dovrà deciderlo ora la Corte. Una condanna dell'Italia non avrebbe come effetto diretto l'annullamento della condanna di Berlusconi, peraltro già scontata e cancellata dalla riabilitazione. Ma aprirebbe le porte alla richiesta di revisione del processo avanzata nei mesi scorsi dai difensori del Cavaliere. È una istanza i cui contenuti non sono noti ma che conterrebbero elementi nuovi, ancora più espliciti di quelli ora all'esame di Strasburgo.

Pietro Senaldi sul ricorso vinto da Silvio Berlusconi in Europa: "Ora le procure indaghino Bruxelles". Libero Quotidiano il 17 maggio 2021. La notizia del giorno, per il condirettore di Libero Pietro Senaldi, è quella che la Corte Europea ha accolto il ricorso di Silvio Berlusconi che contestava la legittimità della sentenza che otto anni fa lo ha estromesso dal Parlamento. Un capitolo molto importante della vita politica di Berlusconi che ovviamente gli ha creato non pochi problemi. "Egoisticamente ricordo", dice Senaldi, "che ci sono parecchi giornalisti, fra i quali il sottoscritto, che attualmente sono indagati dalla Procura per aver pubblicato dei verbali di uno dei giudici che emise la sentenza che sosteneva che questo verdetto non fosse tanto per la quale. Mi chiedo", incalza Senaldi, "se adesso le procure indagheranno anche Bruxelles".

"Danno irrecuperabile. Politica e giustizia inquinate da 25 anni". Stefano Zurlo il 18 Maggio 2021 su Il Giornale.  L'avvocato: "Sette anni sono un periodo lunghissimo prima di chiedere chiarimenti". Nessuna sorpresa. «Piuttosto - spiega Gaetano Pecorella, avvocato ed ex parlamentare azzurro - osservo che Strasburgo ha chiesto chiarimenti all'Italia dopo sette anni».

È strano?

«Sette anni sono un periodo lunghissimo, ancora di più per Berlusconi. Il tempo da questo punto di vista non è galantuomo: politicamente il danno è compiuto e non è più recuperabile. Poi c'è un altro aspetto: perché proprio adesso?»

La Corte dei diritti dell'uomo è ingolfata da centinaia di procedimenti.

«Spiegazione che non spiega. Io credo che la serie quasi infinita di scandali che sta travolgendo il nostro Paese abbia aperto gli occhi di quei giudici».

Pongono le stesse domande che interrogano l'opinione pubblica?

«Certo. Quando si legge che uno dei membri del collegio che condannò il Cavaliere, Amedeo Franco, è andato da lui per chiedergli scusa, si resta senza parole».

La procura di Roma è giunta ad altre conclusioni: Franco semplicemente avrebbe cercato di compiacere il Cavaliere.

«Ho letto questa ricostruzione che però non convince per nulla. I pm della capitale dicono che le ragioni di questo atteggiamento non sono comprensibili».

In effetti, il giudice è morto e non è così semplice capire a posteriori i passi del suo percorso. Davvero le parole della Procura di Roma non le bastano?

«No, è accaduto un fatto gravissimo, mai sentito nella storia della Repubblica, e lo si supera così, con una disinvoltura senza spessore. Mi pare, con tutto il rispetto, che questa interpretazione sia molto debole: Franco, a quanto ne sappiamo, non chiese nulla al Cavaliere, ma parlò con toni durissimi, evocando un plotone di esecuzione e pressioni per giungere a quella conclusione».

Quindi quelle di Strasburgo sono domande legittime?

«Mi paiono domande doverose: la giustizia è al centro di un conflitto lacerante dai tempi gloriosi di Mani pulite ed è giusto provare a capire».

Lei è parte in causa, visto che ha difeso Berlusconi per molti anni.

«Palamara non me lo sono inventato io. E Palamara descrive le commistioni fra politica e giustizia che hanno inquinato i processi e le nomine negli ultimi venticinque anni. Insomma, quello che sostiene Franco, vero o no che sia, va inquadrato in un contesto allarmante».

Che cosa è accaduto con Mani pulite?

«La magistratura, culturalmente orientata a sinistra, ha scardinato la prima repubblica, arrestandosi per una ragione o per l'altra sulla porta di Botteghe oscure e del Pci-Pds, l'unico partito salvatosi dal naufragio».

Insomma, sinistra e sinistra giudiziaria avrebbero agito a tenaglia?

«Gli schemi e le semplificazioni non mi appassionano, la realtà è sempre più complessa, però alcune dinamiche dovrebbero essere spiegate».

In concreto?

«Con Mani pulite la magistratura non è più uno strumento del potere politico, ma diventa essa stessa potere e qui comincia fatalmente la sua crisi».

Perché fatalmente?

«Perché chi conquista il potere poi non si accontenta di quello che ha, ma ne vuole sempre di più. È esattamente quel che è successo in questi anni e che trova conferma, per esempio, nella vicenda Amara e nel pellegrinaggio di quei verbali da una procura all'altra. La magistratura che aveva messo ko la politica si è divisa in gruppi che si sono azzannati l'un l'altro. E per lungo tempo l'unico collante che compattava le diverse anime in conflitto è stato proprio l'antiberlusconismo quasi militante e dichiarato. Un fenomeno su cui è giusto che Strasburgo indaghi. Poi anche quello non è bastato più e siamo arrivati alla guerra dei verbali di questi giorni. Il punto più avvilente di un processo di degenerazione cominciato quando Di Pietro era l'uomo più potente d'Italia».

(ANSA il 17 maggio 2021) "Ho dato mandato ai miei legali di chiedere di potere partecipare al giudizio che si svolgerà a Strasburgo, presenteremo delle memorie e documenti". E' quanto annuncia l'ex giudice Antonio Esposito, presidente della sezione di corte di Cassazione che nel 2013 emise la sentenza nel procedimento Mediaset per evasione fiscale, commentando la decisione della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che ha rivolto dieci domande al Governo italiano in relazione alla vicenda giudiziaria che coinvolse l'ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.

Esposito resiste. La sua trasferta ha già sbalordito la Corte europea. Luca Fazzo il 19 Maggio 2021 su Il Giornale. Per i giudici di Strasburgo è insolito che una toga riveli ai cronisti i suoi sfoghi. Bisognerebbe averli calcati, quegli ovattati corridoi affacciati sui canali silenziosi dell'Alsazia. E bisognerebbe averli visti dal vivo entrare in aula, i giudici della Corte europea dei diritti dell'Uomo, compassati e inarrivabili nelle loro palandrane nere. E allora si immaginerebbe lo stupore, financo l'incredulità, davanti a un collega come il giudice Antonio Esposito (nella foto). Non solo per il suo annuncio l'altro giorno, a botta calda, in cui promette di presentarsi fisicamente a Strasburgo quando si deciderà il caso 8683/14, «Berlusconi contre l'Italie»: d'altronde lì alla Corte sono abituati ai tipi d'ogni genere che si vanno a piazzare per ore o giorni sotto le loro finestre - dai terrapiattisti ai fan di Apo Ocalan - lamentando un diritto negato. Certo, forse sarebbe la prima volta che ai cancelli blindati busserebbe un collega. Ma lì, nella grande aula disegnata da Richard Rogers, gli strepiti della strada non arrivano neanche. A lasciare increduli i giudici della Corte, nel voluminoso carteggio arrivato nel remoto 2013 dall'Italia, e strada facendo via via arricchito di nuovi documenti, è probabilmente anche altro. Perché quando da un magistrato o un giurista viene designato dal suo paese a fare parte della Corte sa di ricevere un grande onore, e di sottoscrivere in contemporanea un patto assoluto di riservatezza. Con la stampa non si parla. Un ufficio apposito, efficiente e cortese, vigila che dagli uffici non esca un refolo. Così tutto immaginerebbero, i quarantasette giudici di Strasburgo, tranne che di poter alzare il telefono un'ora dopo avere pronunciato una sentenza. E di chiamare un giornalista amico per spiegargli che l'imputato è stato condannato «perché non poteva non sapere». Cioè, come si legge nell'atto di incolpazione di Esposito avanti al Consiglio superiore della magistratura, sollecitare «utilizzando canali personali privilegiati ai quali già in precedenza aveva fatto ricorso la pubblicità di notizie relative alla propria attività di ufficio e alla trattazione del processo». Il Csm, come è noto, alla fine assolse Esposito: era «braccato da una stampa ostile», e si era difeso. Ma quell'atto di incolpazione è destinato a finire anch'esso nell'incarto sottoposto all'attenzione dei giudici di Strasburgo per un motivo preciso: perché l'alto magistrato veniva accusato proprio di essere venuto meno a principi sanciti dalla Corte europea. La Procura generale della Cassazione (non Ghedini, non Berlusconi) attribuiva a Esposito la «violazione del dovere generale di riserbo imposto al magistrato anche dall'art. 10, paragrafo 2, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, nella interpretazione che ne è data dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, per garantire la credibilità del potere giudiziario». E insomma se Esposito andasse davvero a Strasburgo a cercare di dire la sua, i quarantasette in toga nera saprebbero di avere davanti un collega tanto illustre quanto figlio di una cultura, di un mondo, di un modus vivendi distante dal loro. Non si stupirebbero, si badi. Perché del giudice Esposito, in realtà, hanno già pennellate sufficienti a ritrarlo nelle carte in mano alla Corte. A partire dalla trascrizione dell'audio dell'accorato racconto di Amedeo Franco, il giudice che dopo avere condannato Berlusconi andò da lui a confessare di avere fatto parte di un «plotone di esecuzione» comandato proprio da Esposito: e dalle altre testimonianze raccolte in questi mesi, dopo la pubblicazione dell'audio del giudice, dove persone di ogni tipo, prive di qualunque rapporto con la difesa di Berlusconi, hanno confermato il disagio, l'angoscia di Franco per avere accettato di firmare una sentenza in cui non credeva, decisa da Esposito prima ancora di iniziare l'udienza. È questo, probabilmente, che suonerà quasi inverosimile ai giudici di Strasburgo: che vengono da 47 paesi diversi, e dove la giustizia funziona con i pregi e le pecche delle cose umane. Ma dove le sentenze si decidono alla fine dei processi. Ma converrà davvero, a Esposito, andare a Strasburgo?

Da “Libero Quotidiano” il 19 maggio 2021. Pubblichiamo uno del libro "Il Sistema", scritto da Alessandro Sallusti e Luca Palamara, nel quale l' ex presidente dell' Anm, intervistato dal direttore di Libero, svela i retroscena sulla mancata sanzione del giudice Antonio Esposito, presidente della Corte che condannò Berlusconi. «Quel giorno, era il 15 dicembre 2014, che con i colleghi del Csm della commissione disciplinare dovevamo decidere se sanzionare o no il giudice di cassazione Antonio Esposito, ero conscio che non stavamo giudicando il comportamento di un collega ma la storia recente dell' Italia». Riassumiamo. L' 1 agosto 2013 la sessione feriale della Corte di Cassazione presieduta da Antonio Esposito, dopo sette ore di camera di consiglio condanna in via definitiva Silvio Berlusconi a quattro anni, tre coperti da indulto, per frode fiscale nel processo sui diritti Mediaset. Da Milano il procuratore Bruti Liberati commenta soddisfatto: «La pena è immediatamente eseguibile».  Matteo Renzi gli fa eco: «Game over». Cinque giorni dopo, il 6 agosto, sul quotidiano Il Mattino di Napoli esce un' intervista ad Esposto, firmata dal giornalista Antonio Manzo, che aveva registrato il colloquio, in cui il giudice anticipa di fatto le motivazioni della sentenza: «Berlusconi condannato perché sapeva», è il titolo che rispecchia il contenuto e il pensiero espresso dal magistrato, come stabilirà, nel 2017, il tribunale civile di Napoli cui Esposito si era rivolto - chiedendo due milioni di danni - sostenendo di non aver mai detto quelle cose a Manzo. Per gli avvocati di Berlusconi l' anticipazione delle motivazioni è una grave violazione della legge e dei diritti dell' imputato. Il caso ha un clamore tale che per forza deve finire davanti al Csm, il supremo organo. «La pratica la ereditiamo dalla precedente consigliatura che aveva preferito rinviare e lavarsene le mani. In effetti le cose stavano così come dicevano gli avvocati di Berlusconi, c' è poco da dire. Ma si poteva noi offrire un assist a Berlusconi, dopo che per vent' anni si era cercato di metterlo all' angolo con ogni mezzo, proprio quando l' obiettivo era stato raggiunto?».

Me lo dica lei.

«Era una responsabilità enorme che andava oltre il merito della vicenda. Condannare Esposito sarebbe stata una opzione corretta - lo aveva chiesto anche la Procura generale -ma inevitabilmente avrebbe messo in dubbio la credibilità della sentenza sui diritti Mediaset. Viceversa assolvere Esposito avrebbe rafforzato la credibilità di quella decisione. Senza voler violare il segreto della Camera di consiglio, posso testimoniare che questo ragionamento logico aleggiava nell' aria, per usare un eufemismo».

E cosa altro "aleggiava nell' aria"?

«Almeno altre due cose oltre questa, una della quali mi riguardava personalmente».

Partiamo da questa.

«Anni prima avevo conosciuto e frequentato, dal 2011 al 2013 il giudice di Cassazione Amedeo Franco, uno dei membri della corte che condannò il Cavaliere».

Quello che dopo la sentenza andò da Berlusconi a scusarsi sostenendo che lui era contrario alla condanna, che ci furono pressioni e che quella corte si comportò come un «plotone di esecuzione» e che per arrivare a quel verdetto «c' erano state pressioni da molto in alto», il tutto registrato in un audio che compare sulla scena nel 2020.

«Proprio lui, ci incontrammo più volte a cene, di solito il mercoledì sera, a casa di Paolo Glinni, magistrato in pensione che mi aveva presentato Filippo Catalano, collega amico di mio padre conosciuto durante la mia presidenza all' Anm.

Non dopo la sentenza come fece con Berlusconi, ma nelle settimane che la precedettero, Amedeo Franco mi parlò delle sue preoccupazioni sia per il modo anomalo con cui si era formato il collegio giudicante che per le pressioni che si stavano concentrando affinchè l' esito fosse di un certo tipo, in altre parole di condanna».

E lei che reazione ebbe?

«Queste confidenze di Franco oggi, per mia volontà, sono nelle carte processuali che mi riguardano. All' epoca me le tenni per me».

Ma come, un magistrato quale lei è viene a conoscenza di una possibile turbativa su una sentenza che riguarda il capo dell' opposizione di un Paese democratico e invece che segnalare all' autorità giudiziaria la tiene per se?

«Capisco il senso della domanda. Ho commesso il reato di omessa denuncia? Sì, probabilmente l' ho commesso, ma il primo a non denunciare nelle sedi opportune - se vogliamo essere onesti - fu proprio Franco che pure aveva in mano, unico perché a me non fece nomi, tutti gli elementi. Parlai di quei colloqui durante la seduta del Csm per il disciplinare su Esposito? No, non ne feci cenno. Il contesto nel quale mi muovevo e operavo era lo stesso "sistema" che in quel momento stava avvolgendo Franco. Alle mie orecchie quelle parole non mi sembravano di un marziano, non mi sorpresero. Sapevo benissimo che le cose potevano anche andare così».

E così andarono. Ha più rivisto Franco?

«L' anno successivo, inizio 2014, durante la mia campagna elettorale per accedere al Csm. Mi parlò chiaramente della sua ambizione di essere nominato presidente di sezione della Cassazione. Con il senno di poi e senza possibilità di verifica - nel frattempo Amedeo Franco è morto - mi chiedo se il suo arrendersi alle pressioni di cui parlava riguardo alla sentenza era in qualche modo legato a promozioni a cui lui aspirava e che magari qualcuno gli aveva garantito per ammorbidirlo».

Pensa che qualcuno poteva averlo in mano?

«Quello che è certo è che dopo la sentenza Berlusconi, Franco inizia a chiamare insistentemente il Quirinale. Lo ha raccontato di recente, in una intervista al Corriere della Sera, Ernesto Lupo, allora consigliere per gli affari giuridici del Presidente Napolitano. Più telefonate per lamentarsi della «porcheria della sentenza Berlusconi», riferisce Lupo.

E soprattutto del fatto che «il Csm non lo vuole promuovere a presidente di Cassazione».

Sarà poi promosso?

«Ovvio, nella seduta del Csm il 15 gennaio 2015. Faceva par-te di un pacchetto blindato. E qui accadde la seconda cosa anomala di questa vicenda».

Si spieghi.

«I "pacchetti" di nomine, come abbiamo visto in precedenza, vengono confezionati dalle correnti e portati al Csm dove normalmente vengono approvati all'unanimità. In quel caso non fu così. Si astiene il consigliere Ercole Aprile, che di Franco era stato collega nel collegio che aveva condannato Berlusconi. Sapendo di questa sua intenzione lo interrogo suoi motivi. Mi dice: "Perché in quella camera di consiglio ho visto cose indicibili, cose che voi umani - citando la famosa frase di Blade Runner - non potete nemmeno immaginare"».

Si spieghi meglio.

«Se uno si astiene dovrebbe spiegarne il motivo, che in questo caso non può che riguarda-re cosa successe nella camera di consiglio che condannò Berlusconi. Non si può lanciare il sasso e ritirare la mano limitandosi a dire nei corridoi: "Cose che voi umani ...". Gli umani avrebbero diritto di sapere, e il Csm pure».

Si è parlato di un tentativo di Franco di registrare la seduta e lo stesso Franco dirà che c'è stata una intrusione dall'esterno. Quale è la verità?

«Ciò che è successo lo sanno solo loro. Quello che io voglio dire, è che la verità è stata chiu-sa in cassaforte, non la si deve sapere».

Le faccio sul dottor Aprile la stessa domanda che ho appena fatto su di lei. Un magistrato che è stato testimone di un possibile reato, quale è un'anomalia in camera di consiglio, non avrebbe l'obbligo di denunciare in modo dettagliato come qualsiasi cittadino a conoscenza o addirittura testimone di fatti sospetti?

«Certo che lo avrebbe. Ma le rispondo allo stesso modo di prima. I magistrati fanno parte di un "sistema" e a quello rispondono. Secondo lei c'è un solo magistrato in tutta Italia che ha il coraggio di convocare Ercole Aprile per chiedergli di dettagliare la sua ipotesi di reato?».

In un paese normale dovrebbe esserci.

«Ma non c'è, e infatti non c'è stato, a differenza di quanto accade in tutti gli altri ambiti. Lei si immagini se un consigliere di amministrazione di una grande società dichiara, uscito dalla seduta in cui si approva il bilancio, di avere visto cose fuori dal mondo. In poche ore quella società verrebbe circondata e setacciata dalla Guardia di Finanza e da una schiera di Pm. Nel nostro mondo non è così, cane non mangia cane».

Domanda banale. Perchè?

«Perché di mezzo c'è Silvio Berlusconi, perché ne va della tua carriera, dell'onore al corpo al quale appartieni. Se si provasse una anomalia in quella sentenza cadrebbe un castello costruito in vent'anni di lavoro sul fronte politico e su quello giudiziario. Non è possibile che accada».

Veniamo alla terza cosa che "aleggiava nell'aria" in quella seduta del Csm che ovviamente si concluse con l'assoluzione del giudice Esposito.

«Da poco il Csm aveva aperto un'inchiesta disciplinare nei confronti di Ferdinando Esposito, figlio di Antonio e magistrato alla procura di Milano. Diciamo un ragazzo esuberante, che io conoscevo bene per via di alcuni comuni amici».

Condannato pure, il 7 luglio del 2016, dal tribunale di Brescia per tentata induzione indebita.

«Ma era solo l' ultima di una serie di, chiamiamole così, disavventure. La prima fu quando in servizio a Cosenza fece un grave incidente stradale la cui dinamica non fu mai chiarita. E poi a Milano le frequentazioni pubbliche con una indagata, Nicole Minetti, consigliera regionale lombarda di Forza Italia coinvolta nel caso Ruby, e ancora i pasticci economici con un amico che gli aveva affittato un attico vista Duomo che lui non voleva più pagare al quale - risulta dalle carte di quel processo - disse: «Attento, alle tue aziende può capitare di tutto con una inchiesta sbagliata».

Ci sono pure richieste di prestiti fuori luogo e, ciliegina sulla torta, la frequentazione per un certo periodo, proprio quello antecedente la sentenza di suo padre, di Arcore, il quartier generale di Berlusconi il quale con la Procura di Milano qualche conto aperto l' aveva».

Un bel curriculum per un magistrato, non c' è che dire.

«Già, ma nonostante tutto quando andavo a Milano a volte lo incontravo. Di nascosto perché se lo avessero saputo in Procura sicuramente non avrebbero gradito. Non vedevano l' ora di liberarsene, e lo fecero sapere chiaramente al Csm».

I motivi a occhio non mancavano.

«Non mancavano, ma quella pratica finì su un binario morto, e Milano smise di fare fretta. Ferdinando Esposito fu trasferito poi a Torino ma il procedimento disciplinare, nonostante la rilevanza delle accuse, rinvio dopo rinvio, impedimento dopo impedimento, è ancora lì, sospeso nel vuoto. L' ultima udienza saltata è di inizio dicembre 2020».

Ma sono passati sei anni, una enormità.

«I tempi della giustizia variano, quelli del Csm deputato a decidere sui colleghi sono particolarmente elastici. Ma qui stiamo parlando del figlio del giudice che ha condannato Silvio Berlusconi in un contesto che è quello che abbiamo appena visto. Inutile che mi chieda se le due cose - la sentenza di assoluzione del padre e la lentezza del disciplinare del figlio - siano in relazione. È una domanda irricevibile perché è maliziosa e perché non ci sono risposte basate su documenti».

Ma lei un' idea se la sarà pur fatta.

«Faccio mia la frase del giudice Aprile: "Ho visto cose che voi umani non potete neppure immaginare", e a volte quelle cose le ho anche fatte, ma sempre e solo per difendere il "sistema" di cui facevo parte. Io sono stato sempre consapevole che all' interno della magistratura ci fosse un determinato clima che riguardava il livello politico. Ma non prendiamoci in giro, tutti dentro la magistratura sapevano che il clima era quello, e tutti si adeguano. Può essere che il caso della sentenza su Berlusconi sia stata condi zionata da questa logica oppure no, fu frutto di una libera volontà. Ma le volontà sono anche libere di seguire il percorso che si ritiene più utile o conveniente di altri».

Secondo lei anche la sentenza del giudice civile del tribunale di Milano Raimondo Mesiano che condannava Berlusconi a risarcire 750 milioni di euro a Carlo De Benedetti per la causa sulla spartizione della Mondadori rientra in questa logica?

«Non sono in grado, e non mi va, di entrare nel merito dei singoli processi. Io ho svolto un ruolo che aveva a che fare con la politica giudiziaria, non con le sentenze. Ma detto questo le confesso che tra le tante che ho fatto, la difesa dell' autonomia di quel giudice attaccato da tutto il centrodestra l' indomani della sentenza, eravamo nel 2009 ed ero presidente dell' Anm, è stata dentro di me la meno convinta di tutte. Quella cifra, oltre a fare una certa impressione, appariva oggettivamente esagerata rispetto a tanti parametri, tanto è vero che in appello, nel 2013, venne sensibilmente ridotta, se non erro a 470 milioni che restano comunque una somma ragguardevole, alcuni sostengono ancora sproporzionata al valore reale dell' azienda Mondadori. Ma oltre che delle cifre, tra di noi si parlava di una voce che girava al punto da essere riportata da alcuni giornali. Che era la seguente. Chi ha scritto in verità quella sentenza? Mesiano di suo pugno o ci fu una manina esterna?»

Lei che idea si è fatto?

«Le mie idee non contano, in quel momento neppure per me che pure ovviamente le avevo. Conta solo stare uniti contro un nemico comune, in guerra funziona così e chi sostiene il contrario è un ipocrita. Sfido a trovare una sola persona che in quei giorni si sia espressa nel merito di una sentenza di centinaia di pagine. Nemmeno io l' ho fatto. Si stava dissanguando Berlusconi, per di più a vantaggio dell' icona della sinistra Carlo De Benedetti e questa era l' unica cosa che in quel momento contava. Come ho già detto, ci è venuta in aiuto la questione dei "calzini azzurri" indossati da Mesiano mandata in onda da Canale 5 il giorno successivo la sentenza a mo' di scherno. È stata un' arma di distrazione di massa, non potevamo desiderare di meglio. Si parlava dei calzini e non dell' abnormità della sentenza per la quale un po' di imbarazzo, devo ammettere, l' avevamo. Sui calzini di Mesiano si convoca una giunta dell' Anm e una seduta del Csm, si parla addirittura di sciopero dei magistrati. Parte la grancassa mediatica. Si muovono un po' tutti dalla Federazione Nazionale della Stampa e L' Ordine dei Giornalisti ai partiti e giornali di sinistra, insomma il "sistema" si attiva. Visto oggi fa sorridere, ma allora erano cose estremamente serie. Non si poteva lasciare solo un collega che aveva dato una botta micidiale al Presidente del Consiglio».

Marco Travaglio usa la morte di Battiato contro Berlusconi: "Parlamento pieno di t***" Libero Quotidiano il 19 maggio 2021. Riesce a strumentalizzare persino Franco Battiato, Marco Travaglio. Nel suo editoriale sul Fatto quotidiano di oggi 19 maggio, dopo la morte del Maestro, il direttore usa le sue canzoni per attaccare ancora una volta Silvio Berlusconi. E per sottolineare il rapporto che Battiato aveva con lui. Per esempio da subito dice che chiamava il cantautore "Francuzzo" e ricorda che alla vigilia del primo numero del Fatto lui gli disse: "Caromarco (lo diceva tutto attaccato con quella voce di seta, nda), ti devo fare un regalo. Una canzone che ho scritto con Sgalambro e anche con te, ma a tua insaputa. Dammi una mail". Quindi gli arriva una traccia provvisoria di Inneres Auge (l'occhio interiore o il terzo occhio, in tedesco). "La ascolto e capisco", scrive Travaglio, ovviamente lui ci vede solo un riferimento a Berlusconi "'Uno dice: che male c'è / a organizzare feste private / con delle belle ragazze / per allietare primari e servitori dello Stato? / Non ci siamo capiti./ E perché mai dovremmo pagare / anche gli extra a dei rincogl***iti? / Che cosa possono le leggi / dove regna soltanto il denaro? / La giustizia non è altro che una pubblica merce'. Parlava di B., anzi di quelli che con argomenti fallaci giustificavano i suoi scandali". Eccolo lì, il solito Travaglio. Pure Battiato era contro il Cav. E ancora, scrive: "Ricordo il suo sincero, candido stupore per la ridicola canea che si era levata quando, al Parlamento europeo, s' era permesso un giudizio sugli abitanti di quello italiano: 'Queste tr*** che stanno in Parlamento farebbero qualsiasi cosa. È una cosa inaccettabile. Aprissero un casino'. Apriti cielo. Le solite voci del padrone lo accusarono - pensate un po' - di sessismo e di antipolitica". All'epoca, era il 2013, si infuriò anche Laura Boldrini che disse: “Stento a credere che un uomo di cultura come Battiato, impegnato ora in un’esperienza di governo in una regione importante come la Sicilia, possa aver pronunciato parole tanto volgari. Da presidente della Camera dei Deputati e da donna respingo nel modo più fermo l’insulto che da lui arriva alla dignità del Parlamento. Neanche il suo prestigio lo autorizza ad usare espressioni così indiscriminatamente offensiva”. Ma Travaglio ricorda che Battiato parlava "dei politici, più uomini che donne, che si vendono al miglior offerente. Come li chiami tu, se non tr***? Ca*** c'entra il sessismo?'  Per quello, dopo soli cinque mesi, fu cacciato da assessore alla Cultura della sua Sicilia, per ordini superiori dai palazzi e dai colli di Roma: 'Ecco, vedi? Sono proprio delle tr***, ahah". 

La banda dei cronisti giacobini. Le dieci risposte che Marco Travaglio e i suoi ragazzi non sanno dare. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Maggio 2021. La banda dei cronisti giacobini è brava a rivolgere domande retoriche a Berlusconi, ma inciampa e balbetta se si cimenta nelle risposte che il governo italiano dovrà fornire alla Commissione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) sulla regolarità del processo che condannò il leader di Forza Italia a quattro anni per frode fiscale. Il direttore del Fatto Marco Travaglio, troppo impegnato nel difendere l’indifendibile Davigo senza far troppo male agli altri suoi magistrati preferiti Ardita e Di Matteo, passa la palla al vice-giacobino Barbacetto. Se ne sarà già pentito, supponiamo, perché il vice non è proprio capace, poverino. Intanto a tre domande su dieci non risponde, a una dice “si”, alle altre fa commentini sarcastici del tipo “l’eterna strategia di fuga dal processo” oppure “molti anni” o “erano fatti diversi”. Si sarà stancato, povero ragazzo. Cominciamo con il dire che la notizia è che la Cedu ha accolto il ricorso presentato da Silvio Berlusconi dopo che la condanna a quattro anni di reclusione, ma soprattutto a cinque di interdizione dai pubblici uffici, avevano determinato la sua espulsione dal Senato e il suo affidamento ai servizi sociali. È vero che sono passati otto anni da quei giorni e che la decisione di oggi potrebbe anche avere a che fare con la slavina che sta trascinando inesorabilmente verso il basso la magistratura militante in Italia. Ma il fatto rimane e il procedimento è iniziato e pende a Brescia anche la richiesta di rifare daccapo il processo. Anche perché la verità storica merita finalmente di emergere. Come dimenticare la fretta di quei giorni? Tutto è andato di corsa. Chi dice che la giustizia italiana è lenta non conosce le inchieste contro Berlusconi. Guardiamo le date dell’unico processo in cui sono riusciti a condannare l’uomo politico più inquisito del mondo. Il primo grado si conclude con una sentenza di condanna il 26 ottobre 2012, l’appello l’8 maggio 2013 e la cassazione il primo agosto dello stesso anno. Dieci mesi per tre gradi di giudizio. Che hanno cambiato il quadro politico, impallinando la parte liberale e riformatrice del centro-destra con un’interpretazione restrittiva della Legge Severino. Che hanno avuto come protagonisti anche il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, che si era affrettato a dire che la sentenza era immediatamente eseguibile, e il segretario del Pd Matteo Renzi che aveva pronunciato il famoso “game over”. La scelta dei tempi è fondamentale in questa vicenda che ha cambiato il corso della storia. Cominciamo con il ricordare quel grande prestigioso quotidiano che nel mese di luglio 2013, appena due mesi dopo l’appello, cominciò a dissertare di allarme prescrizione per il processo Berlusconi e dell’importanza dell’interdizione del medesimo dai pubblici uffici. Qua e là lasciando intendere, forse suggerendo, che per mettere al riparo il processo lo si sarebbe potuto affidare per tempo alla sezione feriale della cassazione. Quel che poi succederà, guarda caso. Si corre, si corre sempre, quando si tratta dell’uomo politico più inquisito del mondo. Ed è inutile che il giudice Esposito, che poi fu il presidente di quella sezione che pronunciò la condanna definitiva di Berlusconi e che fissò la data di udienza il 30 luglio ritenendo che la prescrizione scattasse il primo agosto, si difenda dicendo che lui non sapeva che nel frattempo la corte d’appello di Milano avesse segnalato altre date di scadenza, cioè successive al 14 settembre. Se la comunicazione di rettifica di quelle scadenze era stata inviata, con due diverse note del 5 e dell’8 luglio, non c’era forse tutto il tempo per restituire le carte alla sezione competente per materia perché giudicasse con una conoscenza specifica di quella tipologia di reati che forse i magistrati della feriale potevano non avere? O forse solo ai politici si può imputare il “non poteva non sapere”? Questo punto è l’oggetto della domanda numero uno che la Cedu ha posto al governo italiano: era regolare l’assegnazione alla sezione feriale della cassazione? Si, risponde il vice-giacobino del Fatto, perché così la pensa il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo. Il quale avrebbe effettuato puntuali ricerche nell’ambito di uno dei tanti processi aperti dal giudice Esposito contro alcuni giornalisti, quello che accusava di vilipendio Piero Sansonetti. Che è stato archiviato, ma che è diventato occasione per mettere alcuni puntini sulle “i” e soprattutto tentare di mettere una pietra tombale sulle parole di qualcuno che non c’è più, e cioè quello che era stato il relatore nel processo, il giudice Amedeo Franco che, in diversi incontri, da lui stesso sollecitati con l’intermediazione di Cosimo Ferri, con Silvio Berlusconi, aveva ripetutamente detto frasi del tipo “hanno fatto una porcheria, perché che senso ha mandarla alla feriale”? La procura di Roma ha fatto un “bel lavoro”. Tanto che, secondo il Fatto, questa attività investigativa, veramente sproporzionata per un processo di diffamazione a mezzo stampa ( o vilipendio), potrebbe servire da base all’avvocatura dello Stato per rispondere picche alla Cedu. “Bel lavoro” per screditare la testimonianza registrata nel 2016 del giudice Franco (deceduto nel 2019), ma poco utile nella motivazione, perché gli stessi procuratori romani che ci hanno lavorato non sanno spiegare il motivo per cui il giudice Franco ha voluto incontrare il presidente Berlusconi e fargli quelle rivelazioni. Né la ragione per cui, all’interno della camera di consiglio, lo stesso avesse tentato maldestramente di registrare la seduta. Così le indagini della procura di Roma restano solo un piccolo tentativo di dare una mano. Ma la risposta al primo quesito ne porta con sé subito un’altra, sui diritti della difesa. Perché questa, sempre per la fretta, non ha avuto diritto ai trenta giorni previsti per preparare le proprie deduzioni, essendo i giorni stati ridotti a 20. Il che si può fare solo se c’è l’immediato rischio prescrizione. Ma qui il cane si morde la coda, perché abbiamo visto che il rischio non c’era, come correttamente sottolineato dalla corte d’appello di Milano con le sue due note alla cassazione. La Corte europea dei diritti dell’uomo si domanda anche, e ne chiede conto al governo italiano, se l’imputato Silvio Berlusconi sia stato “giudicato da un tribunale imparziale”, visto che il presidente Esposito, subito dopo la sentenza, ma prima della deposizione delle motivazioni nella cancelleria del tribunale, aveva reso dichiarazioni al giornalista Antonio Manzo del Mattino di Napoli, che aveva titolato “Berlusconi condannato perché sapeva”. Come a dire che, pur non avendo il leader di Forza Italia nessun incarico in Mediaset e non avendo firmato il bilancio e di conseguenza non avendo potuto macchiarsi di quella frode fiscale di cui era accusato, però “non poteva non sapere”. Siamo sempre lì. C’è sempre qualcuno, il giudice magari, che può “non sapere”. Ma gli altri no. Speriamo che il governo, quando risponderà alla Cedu, non ascolti le sirene del Fatto, ma ricordi che in seguito a quelle dichiarazioni e allo scoop del Mattino, il giudice Esposito aveva querelato il cronista e il quotidiano, chiedendo due milioni di euro di risarcimento. Ma aveva clamorosamente perso la causa. Cosa che gli uomini di Travaglio tengono ben nascosta. “Un articolo vero nel titolo e nel contenuto –avevano scritto i giudici napoletani- rispettoso del pensiero e delle considerazioni espresse dal soggetto interessato”. Questi sono fatti. Così come, per venire alla domanda numero dieci, l’ultima cui il vice giacobino di Travaglio non sa rispondere, se non balbettando “sono fatti diversi”, è opportuno ricordare che esiste un principio sacrosanto del diritto che afferma “ne bis in idem”, non sarai giudicato due volte per lo stesso fatto. E Berlusconi era stato già assolto due volte dall’accusa di frode fiscale nel processo Mediatrade e nell’inchiesta sui diritti tv. Proprio come è stato assolto nel processo Mediaset Fedele Confalonieri, quello che aveva firmato il bilancio incriminato. Ma è sempre Berlusconi, come già un tempo Bettino Craxi, quello che non poteva non sapere.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Piazzapulita, Alessandro Sallusti contro "il comunista Napolitano" al Quirinale: perché non lo hanno mai indagato". Libero Quotidiano il 03 dicembre 2021. Basta balle sul Silvio Berlusconi "divisivo" al Quirinale. "Sarà anche divisivo - commenta Alessandro Sallusti in collegamento con Corrado Formigli a Piazzapulita, su La7 - ma per la sinistra sarebbe divisivo qualsiasi presidente del centrodestra". Come dire, spiega il direttore di Libero: a sinistra contano di mantenere ostinatamente la "golden share" sul Colle, la possibilità cioè di decidere in ultima istanza chi far diventare presidente della Repubblica, nonostante i numeri in Parlamento dicano chiaramente che Pd e Movimento 5 Stelle non hanno la matematica dalla loro parte. "La sinistra e i 5 Stelle ritengono divisivo chiunque non sia della loro parte", sottolinea ancora Sallusti. "Era divisivo anche Mattarella, è stato divisivo Scalfaro, è stato divisivo Giorgio Napoliano...".  "Napolitano è stato un comunista che ha votato a favore della invasione dell'Ungheria da parte dei carri armati sovietici". "Non aveva dei precedenti giudiziari...", ribatte Antonio Padellaro, che con il Fatto quotidiano ha lanciato una petizione contro il Cav al Quirinale. E Sallusti, che ha fatto una petizione di segno opposto, "Non rubateci il Quirinale", gli fa notare un semplice dato di fatto: "Perché non era considerato reato stare dalla parte dell'Urss". "Nei prossimi giorni - ha ricordato Sallusti su LiberoTv - potete aderire alla nostra campagna andando sul sito Change.org o passando attraverso il link sul sito di Libero o mandando una mail all’indirizzo nonrubateilquirinale@gmail.com. Credo che valga la pena non farci mettere i piedi in testa dal Fatto Quotidiano".

Silvio Berlusconi e la condanna a Mediaset: il ruolo indiretto di Giorgio Napolitano. Libero Quotidiano il 20 maggio 2021. La Corte europea ha chiesto al governo italiano di rispondere alle sue domande sulla condanna di Silvio Berlusconi di otto anni fa sulla vicenda Mediaset. Il concetto è: siamo sicuri che si sia trattato di un processo equo? I dubbi li hanno in molti, scrive Augusto Minzolini su Il Giornale. Il quale osserva che "sia pure indirettamente, la corsa al Quirinale ebbe parte in quella vicenda". Ricorda Minzolini che "dalle elezioni del 2013 uscì un Parlamento ingovernabile per le coalizioni tradizionali; venne rieletto Capo dello Stato Giorgio Napolitano ma con l'idea che sarebbe stata una proroga, una riconferma a tempo". In quello scenario l'allora segretario del Pd Bersani tentò un'alleanza con il M5s che rifiutò. Quindi si creò un governo Pd-Forza Italia guidato da Enrico Letta. "Se fosse andata avanti quell'esperienza, negli equilibri di quell'alleanza, quando il Nap si fosse dimesso, il Quirinale sarebbe andato a un esponente di Forza Italia, probabilmente a Berlusconi", ragiona Minzolini. Bastava solo questa ipotesi "a terrorizzare una magistratura che si muoveva con logiche politiche, come ha raccontato l'ex-Presidente dell'Associazione magistrati Palamara. Così, per spazzare via dalle cose possibili una simile prospettiva, arrivò quella condanna in un processo che, tra i tanti affrontati dal Cav, si basava su un'accusa assurda". Insomma, l'obiettivo era di stroncare il futuro politico di Berlusconi. "Non per nulla nelle trattative per una possibile grazia che Napolitano portò avanti con gli avvocati di Berlusconi la conditio sine qua non era che il leader di Forza Italia si ritirasse dalla vita politica. In sintesi: evitare, nel momento in cui il Nap avesse mollato la carica, che il Cav fosse candidabile per il Colle", prosegue Minzolini. E ora a questa ipotesi credono tutti. Ne è sicuro Giacomo Portas, renziano: "Certo che fu condannato per impedirgli di andare al Colle", "ecco perché, lo dico pubblicamente, io sono pronto a votarlo anche oggi per il Quirinale". "Di fatto, dice Sestino Giacomoni, "andò così".  "Sembrerà strano", aggiunge Enrico Costa, ora approdato ad Azione "ma Berlusconi ha più possibilità di essere eletto oggi che allora. Quel clima di ostilità nei suoi confronti si è smussato. Semmai rischia che lo scherzo glielo facciano dentro il centrodestra". 

L’ex magistrato Palamara rivela: «Napolitano fu il regista delle inchieste su Berlusconi». Davide Ventola martedì 26 Gennaio 2021 su Il Secolo d'Italia. «Voglio essere chiaro, dal 2008 fino al 2011, quando Berlusconi cade sotto i colpi dello spread, come da prassi costante dell’Associazione nazionale magistrati ho sempre condiviso la mia attività seguendo una prassi costante con il presidente Giorgio Napolitano. È impensabile sostenere che negli anni di cui stiamo parlando l’Anm si sia mossa fuori dalla copertura del Quirinale, con il quale io condividevo ogni decisione che comportasse una rilevanza politica”. Lo racconta Luca Palamara, nel libro intervista con Alessandro Sallusti, “Il Sistema” edito da Rizzoli (pagg 205, euro 19) Nel colloquio con il direttore del Giornale, l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, ora radiato, ribadisce l’assoluta sintonia con l’allora presidente, Giorgio Napolitano. «Ho sempre condiviso la mia attività con il capo dello Stato. Non ci potevano essere deviazioni dalla linea. Sul Cavaliere non era ammessa discrezionalità». Chiede Sallusti: «Mi sta dicendo che il Quirinale approvava, se non qualcosa di più, la linea dello scontro frontale con il governo?». La risposta di Palamara è sconvolgente. «Esattamente, ma mi sento di essere più esplicito e dettagliato. Nella magistratura vige un clima di terrore interno che non lascia spazio a deviazioni dalla linea concordata». E la linea concordata era far cadere Berlusconi in ogni modo. A questo punto, Palamara cita quanto accaduto nel gennaio 2011. «Partono le perquisizioni nelle abitazioni di numerose ragazze.  Berlusconi viene indagato per concussione, lo dico onestamente, siamo tutti un po’ perplessi. Vede, qui scatta la discrezionalità, ma su Berlusconi la discrezionalità non può esistere». L’obiettivo era farlo cadere a tutti i costi. E l’allora inquilino del Quirinale era molto più di un osservatore privilegiato, secondo l’accusa di Palamara.

Chi è Luca Palamara. Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati e ex membro del Csm radiato dall’ordine giudiziario per la prima volta nella storia della magistratura, ha raccontato, incalzato dalle domande di Alessandro Sallusti, nel libro Il Sistema – Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana” cosa sia il ‘Sistema’ che ha pesantemente influenzato la politica italiana. Una carriera brillante avviata con la presidenza dell’Associazione nazionale magistrati a trentanove anni, Palamara a quarantacinque viene eletto nel Consiglio superiore della magistratura e, alla guida della corrente di centro, Unità per la Costituzione, contribuisce a determinare le decisioni dell’organo di autogoverno dei giudici. A fine maggio 2019, accusato di rapporti indebiti con imprenditori e politici e di aver lavorato illecitamente per orientare incarichi e nomine, è diventato l’emblema del malcostume giudiziario.

Quell'"equo processo" violato 226 volte. Massimo Malpica il 19 Maggio 2021 su Il Giornale. Non solo Cav. Anzi. A scorrere le sentenze della Corte europea dei Diritti dell'Uomo contro l'Italia, c'è solo l'imbarazzo della scelta. Solo negli ultimi 12 anni, dal 2010 a oggi, il nostro Paese è stato «condannato» ben 410 volte, con una media di 34 sentenze l'anno, e la cifra sale a 483 condanne considerando gli ultimi 20 anni. Tutte le decisioni della Cedu sono state diligentemente tradotte e messe online dal ministero della Giustizia, non per voglia di mettersi da soli alla berlina, bensì come parte degli obblighi «di attuare le misure necessarie ad adempiere le sentenze di condanna», spiega sempre il sito web del dicastero di via Arenula. E dopo quello della consistenza numerica, l'altro dato che salta all'occhio è quello dei diritti violati, che vede la giustizia o meglio, la malagiustizia nostrana fare la parte del leone, con il tribunale di Strasburgo chiamato con inquietante frequenza a bacchettare l'Italia per le sue mancanze. Quasi la metà di tutte le condanne ricevute dal nostro Paese, infatti, riguarda la violazione del diritto a un equo processo, con ben 226 pronunce derivanti dal mancato rispetto dell'articolo 6 della convenzione europea dei diritti dell'uomo da parte del potere giudiziario italiano. In buona parte, si tratta di violazione della ragionevole durata del processo, male che innesca circa il 90 per cento di tutto il contenzioso Cedu che ci riguarda. E oltre all'equo processo, l'Italia (e il nostro sistema giustizia) è stata condannata anche per violazione della proibizione della tortura (76 sentenze), del diritto a un ricorso effettivo (50 condanne), del diritto a libertà e sicurezza (21), del rispetto alla vita privata-familiare (116 sentenze contro l'Italia) e pure del diritto alla vita, in 29 occasioni. Ma la sentenza probabilmente più celebre tra le condanne ricevute dal nostro Paese riguarda invece l'articolo 7 della convenzione, il principio nulla poena sine lege, ossia la condanna per un fatto che non costituiva reato quando è stato commesso, che ha visto la Cedu bacchettare l'Italia «appena» 12 volte dal 2002 a oggi. Ed è per la violazione di questo principio che la Corte di Strasburgo sanzionò l'Italia nella primavera del 2015, ritenendo che l'ex funzionario del Sisde Bruno Contrada non avrebbe dovuto essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché al momento dei fatti contestati, avvenuti tra 1979 e 1988, il concorso esterno non era «sufficientemente chiaro e il ricorrente non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti». Contrada da quella sentenza ricevette solo 10mila euro di rimborso per i danni morali, ma ottenne soddisfazione dopo la sua interminabile odissea giudiziaria: due anni dopo la Cassazione revocò la sua condanna, passata in giudicato. E ad aprile dell'anno scorso l'ex numero due del Sisde ha ricevuto 670mila euro di risarcimento per la sua ingiusta detenzione avendo trascorso 8 anni tra carcere e domiciliari - dalla Corte d'Appello di Palermo.

Carlo Nordio e il dossier-Berlusconi alla Corte europea: "Perché è saltato fuori ora", lo zampino di Palamara. Libero Quotidiano il 18 maggio 2021. Ci sono tre "anomalie" nel processo a Silvio Berlusconi. Carlo Nordio, ex magistrato, in una intervista a Il Giornale spiega la decisione della Corte europea di chiedere conto al governo della condanna del leader di Forza Italia. Primo: "Non si era mai visto un presidente di Cassazione dare un'intervista subito dopo il verdetto, ma prima della pubblicazione delle motivazioni". Considerando poi che "Antonio Esposito aveva mostrato una sensibilità particolare. Ricordo anche che la Cassazione è un organo collegiale e in qualche modo un'intervista impegna tutti". Secondo: "L'incredibile storia delle dichiarazioni di Amedeo Franco che di quel collegio era membro e relatore: anche questa circostanza è senza precedenti ma è ancora più inquietante della precedente. Un giudice sente il dovere di andare a incontrare un condannato e in sostanza chiedergli scusa". Terzo, "il più grave di tutti": "È l'emersione del sistema descritto da Luca Palamara. Palamara spiega che la linea dell'Anm era quella di contrastare Salvini anche quando aveva ragione. Naturale porsi quindi una domanda semplice semplice: non è che ci sia stato un atteggiamento più ruvido anche con il Cavaliere?". Guai a parlare però di "golpe giudiziario". "Non ci sono stati complotti o chissà che altro, basta meno, molto meno. Ci possono essere un procedimento o una sentenza orientati. E mi viene un sospetto sui tempi". "Credo che il dossier Berlusconi sia saltato fuori da un cassetto adesso perché a Strasburgo sono rimasti scossi da questa successione di scandali senza paragoni in Occidente e abbiano deciso di capire come stanno le cose. La vicenda Palamara ha lasciato il segno e la Corte ha deciso di alzare il coperchio della pentola". Del resto, "l'Anm e il Csm sono al centro di una crisi colossale e invece di andare a fondo hanno provato a chiuderla con l'espulsione a razzo di Palamara" ma "lo scandalo soffocato da una parte torna fuori dall'altra. E questa volta è pure peggio. Non ci sono più le nomine, ma le inchieste". Da Palamara quindi ad Amara, "la vicenda improbabile della loggia Ungheria. Una storia sconcertante dove autorevoli magistrati con incarichi di primissimo piano si smentiscono l'un l'altro. E dove, per quel che sappiamo, si ha la sensazione che tutti o quasi abbiano fatto un passo falso".  Insomma, conclude Nordio, "troppe mosse qui paiono anomale" e "credo anche che non abbiamo raggiunto il punto più basso: altro verrà fuori nelle prossime settimane".

"Tre anomalie anti Cav. Strasburgo si è mossa dopo il caos al Csm". Stefano Zurlo il 18 Maggio 2021 su Il Giornale. L'ex pm: "La vicenda Palamara ha lasciato il segno. E la Corte Ue ha deciso di intervenire".

Ironizza: «Avevo in mano tre indizi».

A Strasburgo hanno preso sul serio il ricorso del Cavaliere e ora chiedono spiegazioni all'Italia.

Se l'aspettava?

«Che ci fosse un fumus e anche qualcosa di più - afferma Carlo Nordio, uno dei più noti magistrati italiani, oggi in pensione dopo una lunga carriera come pubblico ministero a Venezia - lo avevo intuito da tre elementi».

Il primo?

«Non si era mai visto un presidente di Cassazione dare un'intervista subito dopo il verdetto, ma prima della pubblicazione delle motivazioni».

Una procedura anomala?

«Diciamo che Antonio Esposito aveva mostrato una sensibilità particolare. Ricordo anche che la Cassazione è un organo collegiale e in qualche modo un'intervista impegna tutti».

Il secondo punto?

«L'incredibile storia delle dichiarazioni di Amedeo Franco che di quel collegio era membro e relatore: anche questa circostanza è senza precedenti ma è ancora più inquietante della precedente. Un giudice sente il dovere di andare a incontrare un condannato e in sostanza chiedergli scusa. Infine c'è il terzo indizio, il più grave di tutti».

E qual è?

«È l'emersione del sistema descritto da Luca Palamara. Palamara spiega che la linea dell'Anm era quella di contrastare Salvini anche quando aveva ragione. Naturale porsi quindi una domanda semplice semplice: non è che ci sia stato un atteggiamento più ruvido anche con il Cavaliere?»

Qualcuno parla di golpe giudiziario

«Ma no, non esageriamo e non usiamo paroloni altisonanti. Non ci sono stati complotti o chissà che altro, basta meno, molto meno. Ci possono essere un procedimento o una sentenza orientati. E mi viene un sospetto sui tempi».

Come mai Strasburgo procede proprio adesso?

«Appunto. Tanto per cominciare, sappiamo che sono lentissimi, quasi peggio dell'Italia, e ci chiediamo se non sia l'Italia ad evolvere verso standard europei, ma l'Europa a sprofondare verso ritmi tricolori. Però, a parte questa velocità di crociera bassissima, io credo che il dossier Berlusconi sia saltato fuori da un cassetto adesso perché a Strasburgo sono rimasti scossi da questa successione di scandali senza paragoni in Occidente e abbiano deciso di capire come stanno le cose. La vicenda Palamara ha lasciato il segno e la Corte ha deciso di alzare il coperchio della pentola».

Palamara è stato radiato dalla magistratura. Un segno di fermezza?

«Al contrario: l'Anm e il Csm sono al centro di una crisi colossale e invece di andare a fondo hanno provato a chiuderla con l'espulsione a razzo di Palamara».

Risultato?

«Lo scandalo soffocato da una parte torna fuori dall'altra. E questa volta è pure peggio. Non ci sono più le nomine, ma le inchieste».

Da Palamara a Amara?

«Sì. È la vicenda improbabile della loggia Ungheria. Una storia sconcertante dove autorevoli magistrati con incarichi di primissimo piano si smentiscono l'un l'altro. E dove, per quel che sappiamo, si ha la sensazione che tutti o quasi abbiano fatto un passo falso».

Ma cosa avrebbe dovuto fare il pm di Milano Paolo Storari?

«Io avrei scritto le mie critiche al procuratore della Repubblica, poi se non mi avesse ascoltato gli avrei inviato le mie osservazioni pregandolo di inoltrarle al procuratore generale o all'ufficio di presidenza del Csm».

Ma se non ci si fida più del proprio interlocutore?

«La strada più corretta è questa. Si chiama principio di lealtà, certo non si può condividere il passaggio sottobanco ad un singolo consigliere di fogli e di incartamenti delicatissimi. Troppe mosse qui paiono anomale e io penso che davanti alle notizie in arrivo dall'Italia, l'Europa abbia deciso di approfondire il fascicolo su Berlusconi. Credo anche che non abbiamo raggiunto il punto più basso: altro verrà fuori nelle prossime settimane».

L'intervista. Parla Antonio Manzo, ecco cosa disse Antonio Esposito di Amedeo Franco. Francesco Lo Dico su Il Riformista il 17 Luglio 2020. È il primo agosto 2013. Silvio Berlusconi viene condannato in via definitiva a quattro anni di reclusione per frode fiscale nel processo sui diritti Mediaset. Come tutti i cronisti giudiziari d’Italia, Antonio Manzo, allora colonna portante della mitica Area globale del Mattino coordinata da Pietro Perone, assiste in diretta tv alla sentenza che ha visto piombare in Cassazione le troupe televisive di mezzo mondo, Cnn compresa. Ma Antonio Manzo, oggi direttore de La città di Salerno, è anche l’unico giornalista d’Italia che poco dopo la lettura della sentenza beneficia di un’inattesa telefonata. Quella del presidente del Collegio che ha appena letto la condanna per Berlusconi: il giudice Antonio Esposito. Fu la telefonata che si concluse con la promessa di una intervista sul processo appena celebrato, che lo stesso Esposito avrebbe dato nel corso di un’altra telefonata quattro giorni dopo. Fu una conversazione di 34 minuti che valse uno scoop al Mattino (“Berlusconi condannato perché sapeva”, era stata l’anticipazione clamorosa del quotidiano napoletano), ma anche una querela per diffamazione al giornale e a Manzo stesso. «Noi non andremo a dire quello non poteva non sapere, no tu, noi possiamo, potremo dire, diremo nella motivazione eventualmente… tu eri, tu venivi portato a conoscenza di quello che succedeva», svelò il giudice nell’intervista. Esposito parlò di una chiacchierata informale, di una manipolazione. Chiese un risarcimento di due milioni di euro. Ma fu sconfitto. Tre anni fa, il presidente della quarta sezione civile del Tribunale di Napoli, Pietro Lupi, diede torto al giudice e confermò come la rivelazione fosse «sostanzialmente corrispondente al contenuto dell’intervista, come si apprezza dall’ascolto della registrazione», corretto il lavoro di editing e prive di fondamento le obiezioni di Esposito. Che, pur in assenza di un’espressa domanda, aveva “incautamente fornito al giornalista” la rivelazione. Non l’unica, a dire il vero. Perché per la prima volta, Antonio Manzo racconta al Riformista molti contenuti inediti di quella lunga telefonata. Che anche stavolta non mancheranno di far discutere.

Sono passati sette anni, Antonio. Ricordi come andarono le cose?

Esposito mi chiamò forse mezz’ora dopo la lettura della sentenza: saranno state le 18.30 o le 19 al massimo. Quando vidi sul display del telefonino il nome del giudice mi alzai in fretta e furia dalla scrivania e raggiunsi la stanza di Alessandro Barbano. Non bussai neppure. Il direttore era a colloquio con altre persone. Gli mostrai il telefonino senza dire una parola. Barbano trasecolò. Mi fece cenno di rispondere».

Tu rispondi e il giudice ti anticipa le motivazioni della sentenza, che sarebbero state depositate dalla sezione feriale della Cassazione soltanto il 29 agosto.

No. Nel corso di quella prima conversazione provo già a sottoporgli qualche domanda sulla sentenza, ma Esposito mi dice che in quel momento non ne vuole parlare. “Ok”, gli rispondo, “però facciamo patto e promessa che l’intervista la farai con me. Se non la fai con un amico, non puoi farla con nessun altro”. Esposito ride, concorda, riaggancia. Ci risentiamo per l’intervista tre giorni dopo, il 4 agosto.

Un amico? È per questo che ti chiamò?

Conoscevo Esposito da trent’anni, sin dai tempi in cui era pretore a Sapri. Quella non era certo la prima telefonata che mi faceva. Né la prima sulla sentenza Berlusconi, né la prima in generale. Mi chiamò, ad esempio, anche per annunciarmi che era stato designato alla presidenza della Sezione feriale che avrebbe giudicato il Cavaliere. O per giudicare positivamente il comportamento composto di Totò Cuffaro, che lui aveva condannato per mafia.

Dunque ti telefonò per condividere la solennità di quel momento? Era stato il primo giudice a condannare definitivamente Berlusconi dopo 88 diversi processi. Esposito aveva appena letto la sentenza. Ben conoscendo il personaggio, avvertii in lui una comprensibile “accelerazione emotiva”.

Accelerazione emotiva, ma anche giudiziaria. La prescrizione, solo per una parte dell’accusa – frode per l’anno 2002 – sarebbe scattata a detta di autorevoli fonti il 25 settembre. Per la presunta frode del 2003 c’era tempo addirittura fino al 25 settembre dell’anno successivo. Ma sul fascicolo era segnata, sotto la dicitura “urgentissimo”, la data dell’1 agosto. Ti disse qualcosa a proposito di questa discrepanza?

Hai ragione. Difatti gli chiesi anche io di questa accelerazione. Esposito rispose che la convocazione della feriale serviva a evitare la prescrizione. Che era, insomma, un atto dovuto. Doveva fissare l’udienza subito, il prima possibile.

Ma Esposito sapeva che in realtà sarebbe scattata solo a settembre?

Mi rispose che dovevano agire sulla base dell’indicazione della sezione di provenienza, che indicava come scadenza il primo agosto. “Se si accorgono che il fascicolo sta per andare in prescrizione”, mi disse, “lo mandano alla feriale, capito?”

Obiettasti qualcosa?

Sì, gli dissi che quel termine oscillava, che la scadenza in realtà oscillasse. Sul Mattino del 21 luglio, poco prima della sentenza, avevo scritto infatti che da calcoli milanesi era emerso che la prescrizione sarebbe scattata il 13 settembre.

Esposito che ti rispose?

Mi disse testualmente: “Questo non lo so”.

Non lo sapeva. Quindi si limitò a eseguire senza aver fatto i calcoli?

Ribadì che doveva fissare l’udienza sulla base delle indicazioni della sezione di provenienza, che aveva affidato tutto alla feriale per evitare la prescrizione del primo agosto. Precisò che aveva fissato molte udienze oltre a quella di Berlusconi. Disse, alla lettera, di quei processi: “Li acchiappiamo per i capelli: di qua non si scappa, non esiste proprio”

La condanna in appello era del maggio 2012. Dopo un anno e mezzo arrivò la sentenza definitiva in Cassazione. Un record.

Glielo feci notare. “Hanno fatto le cose a tamburo battente, proprio per evitare la prescrizione”, commentò. “Per me il processo di Berlusconi era un processo come gli altri, ma che dovevo fare? Dovevo fare finta di non vederlo? Era una strada obbligata, hai capito insomma?”, si difese. “Certo”, aggiunse, “si potevano fare i calcoli dopo, ma io devo stare a quello che mi dice la sezione di provenienza. Io non lo posso sapere se Milano ha sbagliato oppure no, giusto?”.

Neanche lui sembrava troppo convinto delle date, o sbaglio?

Rispose che a Milano avevano fatto i calcoli anche sulla base delle interruzioni perché il processo era stato interrotto diverse volte. “È andato due volte in Cassazione, due volte alla Corte costituzionale”, precisò.

Quindi conosceva bene l’iter processuale.

Certamente. Semplicemente non aveva rifatto i calcoli. Ma io a quel punto della telefonata insisto: “Tutti d’accordo sulla data”?

E cosa risponde il giudice?

“No, quella spetta solo a me, va bene? Sono io che fisso i processi”.

Quindi avrebbe potuto spostare la data in avanti, in teoria.

Sì, poteva farlo. Anche se l’indicazione era quella dell’1 agosto. Mi spiegò peraltro che dal 10 agosto in poi, in ragione dei turni e delle ferie concordate, avrebbe presieduto il collegio un altro collega, Marasca.

Se non avesse corso, sarebbe stato un altro collegio a emettere la sentenza. E non il suo. Chiaro.

Abbastanza chiaro.

Da quello che si intuisce dalle conversazioni del giudice Franco con Berlusconi, arrivare alla sentenza non fu facile. Esposito te ne parlò?

Mi disse che i membri del collegio erano stati in Camera di Consiglio per sette ore consecutive: ci fu solo una breve pausa per dei panini. Vennero analizzati tutti e 91 motivi di ricorso degli imputati, di cui 46 riguardavano il solo Berlusconi. “Ma questo non darlo, non darlo”, sottolineò.

Tra i colleghi di Esposito c’era anche il relatore della sentenza, il giudice Franco. Ti disse per caso se anche lui aveva condiviso la sentenza di condanna? Se il verdetto era stato unanime?

“Questo non te lo posso dire”, mi risponde. Ma a questo punto aggiunge un dettaglio importante: “È uscita un’indiscrezione che mi indurrà a fare una segnalazione al Consiglio dell’ordine”.

E qual era l’indiscrezione?

Mi rispose e ti rispondo: “L’indiscrezione era relativa alla linea morbida del relatore, che si era contrapposta alla rigida chiusura ermetica del presidente, hai capito?”. Si riferiva a un’indiscrezione apparsa su Il Giornale.

Capito benissimo, il relatore era Amedeo Franco. In pratica Esposito alluse al disaccordo sulla condanna che sarebbe emerso solo oggi nelle parole consegnate dal defunto relatore a Berlusconi. L’indiscrezione lo aveva preoccupato, sembra.

Esattamente. E ti spiego perché.

Spiegami.

Esposito parlò di questa indiscrezione con il primo presidente della Cassazione. “Ma ci siamo detti: vabbè, lasciamo stare”, mi racconta. “Io non ho alcun interesse ad accendere il fuoco”, conclude.

Molto chiaro. Non voleva che emergesse il disaccordo, altrimenti sarebbe saltato il processo. Corretto?

Ciononostante, mandò una smentita al Giornale. Ma non approfondii oltre, perché in quel momento volevo arrivare alla sentenza.

Peraltro, pare che dei membri di quel collegio, Franco fosse l’unico specializzato in reati tributari. Sulla base della tua lunga conoscenza di Esposito, sai dirci se avesse avuto qualche familiarità professionale con la materia fiscale in passato?

Che io sappia non se n’è mai occupato. Era sempre stato un “cane da presa”, se mi puoi passare l’espressione colorita, in materia di reati urbanistici.

Come ha documentato il nostro giornale, Franco andò da Berlusconi nel 2014 e gli parlò di un “plotone d’esecuzione”, di una sentenza vergognosa e calata dall’alto. Che firmò anche se non condivideva. Esposito ti fece mai cenno alle perplessità del giudice Franco, che molti stanno tentando di screditare post-mortem?

No. Non mi disse nulla del genere. Fatto è che nei giorni precedenti la celebrazione del processo, Esposito mi chiamò.

E che cosa ti disse? Ricordi qualche dettaglio che potesse far sorgere il minimo sospetto di un giudizio pilotato?

Nel corso di quelle telefonate cercai di capire qualcosa, innanzitutto, sul tipo di processo che avrebbe fatto. Ma per motivi di legittimo riserbo, mi astengo dal fare valutazioni che oggi potrebbero apparire come presunti pregiudizi.

Esposito presentò a tal proposito un esposto (rimasto senza reati né indagati e quasi archiviato) contro le dichiarazioni rese all’avvocato Bruno Larosa (al tempo tra i difensori di Silvio Berlusconi) da tre dipendenti dell’hotel di Lacco Ameno, dipendenti di Domenico De Siano, il coordinatore regionale di Forza Italia. I quali riferirono di aver sentito Esposito, nel 2014, definire Berlusconi “una chiavica”. Ne parlò mai in questi termini anche con te?

Posso dirti che il suo giudizio era tutt’altro che equanime.

Dunque reputi anche tu che Esposito potesse insultare Berlusconi con questi epiteti?

Non credo che Esposito si spingesse a tanto, nel pubblicizzare un sentimento politicamente negativo.

Lo odiava politicamente quindi?

Non credo che gli fosse simpatico, dato umano. Ma ribadisco: oppongo il mio riserbo.

A febbraio scorso il tribunale civile ha messo in discussione, nella sostanza, quella sentenza definitiva della Cassazione. Che te ne pare?

È la conferma che probabilmente un collegio composto anche da esperti in reati tributari e, quindi, con attitudini professionali più inclini alla valutazione di reati economico-fiscali avrebbe potuto decidere diversamente.

Torniamo alla telefonata. A questo punto arriva il momento clou. Quello in cui il giudice ti rivela il cuore del ragionamento che ha portato alla condanna di Berlusconi, che tutti apprenderanno soltanto il 29 agosto, una volta depositate le motivazioni. Come è andata di preciso?

Io voglio sapere della sentenza. Perciò vado dritto al punto e gli chiedo: “Senti una cosa, in Italia negli ultimi 20 anni è passato un principio molto contestato: quello del «non poteva non sapere». È giuridicamente sostenibile”?, gli chiedo.

Ed Esposito?

“Ma no, assolutamente no. Che significa non poteva non sapere? Bisogna vedere la valutazione di fatto. Bisogna vedere quale posizione occupi. Se hai portato un certo contributo a quello che ha portato all’evento. Non poteva non sapere può significare tutto o non significare niente”, fa lui.

E come arrivi a ottenere la rivelazione?

“No, non mi portare su questo argomento”, dice lui. “Ma io, ma io. Ho capito”, rispondo. Poi il giudice fa una pausa e mi dice tutto: “Noi non andremo a dire quello non poteva non sapere. Noi possiamo, potremo, diremo nella motivazione: eventualmente tu venivi portato a conoscenza di quello che succedeva. Non è che non potevi non sapere perché tu eri il capo. Non è detto che devi sapere se tu sei il capo, o no? Tu non potevi non sapere, perché Tizio, Caio e Sempronio hanno detto che te lo hanno riferito, insomma. E allora è un po’ diverso questo fatto. Questo in sentenza noi lo diremo, va bene?”.

Sono parole piuttosto inequivocabili. Ma allora perché ti fece causa?

Nell’intervista che pubblicai, anteposi a questa rivelazione una domanda. «Non è questo il motivo per cui si è giunti alla condanna? E qual è allora?». Esposito disse che nella conversazione non era stata formulata. Ma come spiegai io, come spiegò il Mattino, e come confermò il giudice della sezione civile del Tribunale di Napoli, si trattò di un’operazione di editing, che inframmezzava quella lunga risposta, e chiariva meglio ai lettori la relazione tra la risposta stessa e l’argomento trattato.

Cosa disse esattamente il Tribunale a proposito di quello scoop?

Il tribunale spiegò che il giudice era consapevole di avermi rivelato la motivazione della condanna di Berlusconi e non poteva lagnarsene. «Il dottor Esposito – scrisse il Tribunale di Napoli – doveva necessariamente essere consapevole di ciò» e ricorda anche che il magistrato «non riesce a trattenersi ed in pochi secondi pronuncia quelle frasi che non possono che rivolgersi ai giudici che devono scrivere la motivazione del caso Mediaset».

Esposito contestò anche che si trattasse di un’intervista. Parlò di una chiacchierata con un amico.

Sai come cominciò quella conversazione?

Mi butto. Ciao?

Spiritoso (ride, ndr.). No, cominciò così: “L’unica persona con cui puoi fare un’intervista seria sono io”. Così gli dissi. E ci mettemmo a ridere.

L’indomani, quando pubblicasti l’intervista, non doveva essere altrettanto di buon’umore, immagino.

Mi chiamò alle 9 del mattino. Era infuriato. “Hai scritto cose che non ti ho detto”, urlò. Poi attaccò.

Era già stato redarguito?

Non ne ho certezza, ma penso proprio di sì. Dai vertici dello Stato e del Csm.

L’intervista fece subito scalpore. Finisti sotto il fuoco incrociato di alcuni colleghi. Un po’ come Franco oggi. Perché?

Perché in molti lessero nella mia intervista, o meglio vollero leggere per motivi di “parrocchia”, un atto di sabotaggio. Una bomba scagliata contro il processo del secolo. La storia ha dimostrato che si trattò invece di una semplice operazione giornalistica. Raccolsi una rivelazione e la condivisi con i lettori. Puro e semplice giornalismo.

A farti la guerra, fu in particolare il Fatto quotidiano. Che ritagliò pezzi di conversazioni di quella intervista che potessero mettere in cattiva luce te, e in buona luce Esposito. Perché lo difesero a tuo modo di vedere?

Perché Esposito aveva condannato Berlusconi. L’unico che ci era riuscito. Esposito si candidava così a diventare la punta avanzata dell’antiberlusconismo nazionale. A prescindere dal merito di quell’intervista, andava difeso. Da lì a breve sarebbe subentrata l’applicazione, peraltro retroattiva, della legge Severino che avrebbe segnato l’estromissione di Berlusconi dal Parlamento.

Fatto sta che a febbraio del 2014 il Csm aprì il processo contro Esposito, proprio per aver violato il dovere del riserbo con l’intervista che ti aveva concesso. Il Csm lo assolse dieci mesi dopo con motivazioni lunghe 50 pagine. Che idea ti sei fatto di quella sentenza, visto e considerato che il Tribunale tre anni dopo riconobbe invece le responsabilità del giudice nella causa intentata contro di te?

Il Procuratore generale aveva chiesto per Esposito la censura. Ma il Csm lo salvò.

Quando il Csm salvò Esposito, pensasti: “cavolo, qui perdo la causa, i giudici non si fanno la guerra tra loro?” Eri preoccupato insomma?

Preoccupato sì. Sospettoso no. “C’è un giudice a Berlino”, pensai. Nonostante le molte lezioni dal vivo che ebbi la fortuna di avere, in materia, dal presidente Francesco Cossiga, restai fiducioso.

Ha mai risentito Esposito dopo quella lite seguita all’intervista?

No, mai più.

Ma in definitiva, reputi che il giudice Esposito provò umanamente soddisfazione in cuor suo, per aver condannato Berlusconi, o che in fondo ne fu in parte rammaricato come Franco?

Ti rispondo con una citazione di Leonardo Sciascia: “I giudici che hanno un potere delegato dal popolo debbono soffrire il loro potere, invece di gustarlo”..

Francesco Lo Dico

La sentenza che ha cambiato la storia del Paese. La porcata contro Berlusconi, dall’udienza illegale alle balle di Travaglio. Piero Sansonetti su Il Riformista il 23 Luglio 2020. L’udienza della sezione feriale della Cassazione, presieduta dall’ormai famosissimo presidente Antonio Esposito, che il primo agosto del 2013 condannò Berlusconi a quattro anni di prigione per frode fiscale, fu una udienza illegale. E su questo c’è poco da discutere: ci sono le carte, delle quali ora vi parlerò (e che in parte riproduciamo fotograficamente su questa pagina) che parlano in modo chiarissimo e non smentibile. La domanda che ora dovremo farci è questa: fu un errore involontario (e gravissimo) della Cassazione, la convocazione illegale di quella udienza, o fu un errore voluto, cioè doloso, cioè frutto di un disegno? A questa domanda io non so rispondere. Mi auguro che lo faranno al più presto le autorità competenti, come si dice in questi casi. Perché la domanda che faccio è drammatica e riguarda la legalità, da una parte, e la storia della Repubblica dall’altra. Quella condanna – l’unica ricevuta nella sua vita da Berlusconi dopo circa 70 procedimenti giudiziari – cambiò la storia del nostro paese, cambiò i rapporti tra destra e sinistra, consegnò a Salvini le chiavi della destra che fino a quel momento erano state nelle mani dei moderati, favorì l’avanzata travolgente del movimento di Grillo. Quello che posso fare io, ora, è provare ad illustrarvi i fatti nel modo più semplice possibile.

Premessa: Berlusconi viene giudicato dalla sezione feriale della Cassazione, presieduta da Antonio Esposito, il 31 luglio del 2013. Molti giuristi sostengono che la scelta di questa sezione lo danneggiò, perché non era una sezione specializzata. Recentemente questo giornale ha pubblicato una dichiarazione di uno dei giudici che parteciparono alla sentenza, e più precisamente il relatore – il dottor Amedeo Franco – il quale sosteneva che quella sezione fu scelta perché si sapeva che era “un plotone di esecuzione”. Testuale: “un plotone di esecuzione”, detto da uno dei magistrati che giudicarono. La decisione di affidare l’udienza e la sentenza alla feriale di Esposito, secondo chi difende questa scelta, avvenne perché la prescrizione scadeva il 1 agosto. Marco Travaglio ha scritto questa cosa decine di volte sul suo giornale, anche con toni un pochino saputelli, come qualche volta gli capita. Noi invece, che avevamo dato un occhio ai documenti, sostenevamo che la prescrizione per una parte del reato sarebbe scattata solo a settembre, e per l’altra metà, addirittura, a settembre dell’anno successivo. E quindi che non c’era nessun bisogno di ricorrere alla sezione feriale. Ora però aggiungiamo un particolare più grave, che non conoscevamo. I difensori di Berlusconi vengono avvertiti il 10 luglio della convocazione dell’udienza. In teoria la difesa avrebbe diritto a 30 giorni di tempo, dal momento della convocazione, per prepararsi. Quindi l’udienza si sarebbe dovuta tenere non prima del 10 agosto, e comunque non sarebbe toccata alla feriale di Esposito, e ragionevolmente si sarebbe potuta svolgere a settembre ed essere affidata alla sezione specializzata. C’è, in termini di legge, la possibilità di ridurre i termini (e dunque i diritti) della difesa (cioè i 30 giorni per preparasi), solo se rispettare quei termini farebbe scattare la prescrizione. Dice Travaglio (e dicono i suoi): ho le carte (e le pubblica anche sul Fatto) la prescrizione scattava il 1 agosto. Beh, le carte di Travaglio sono sbagliate. Perché il 5 luglio, e cioè cinque giorni prima che scatti la convocazione di Berlusconi, la seconda sezione penale della Corte d’Appello di Milano trasmette alla Cancelleria centrale penale della Cassazione una comunicazione urgente. Ricopio qui il testo, senza cambiare una virgola: “Facendo seguito agli atti già trasmessi, inoltro per le determinazioni di Vostra competenza ai fini della fissazione dell’udienza il prospetto aggiornato del calcolo della prescrizione… in rettifica di quello già inviato”. Firmato, il Presidente di sezione dott. Flavio Lapertosa. E qual è questo termine della prescrizione? 14 settembre 2013 per la prima parte del processo, 14 settembre 2014 per la seconda parte. Capito? Questa lettera è del 5 luglio. Quindi il 10 luglio, quando viene convocato Berlusconi con la riduzione a 20 giorni dei termini di difesa, la Cassazione sapeva che non sarebbe scattata la prescrizione. Dunque commette una gravissima irregolarità. E’ molto probabile che questa irregolarità, e questa violazione dei diritti della difesa, sia stata determinante nella condanna di Berlusconi, nella sua destinazione ai servizi sociali per un anno, nella sua espulsione dal Parlamento con le conseguenze politiche abbastanza conosciute e che hanno riguardato tutto il Paese. Fu un errore? Fu una mascalzonata?

P.S. Quando io ho sostenuto, un paio di settimane fa, che la prescrizione sarebbe scattata solo a metà settembre, Marco Travaglio mi ha molto severamente bacchettato. Ha detto che non sapevo scrivere (cosa pare già acclarata attraverso una consulenza col giudice Esposito) e che non sapevo neanche leggere. Perché – diceva Marco – ci sono le carte che dimostrano che la prescrizione sarebbe scattata il 1 agosto. Vedi, Marco, la questione non è quella di saper leggere. E’ che se dai ascolto al primo magistratello che viene a offrirti una notizia o una consulenza, e non verifichi con accuratezza, poi scrivi le stupidaggini. Magari le scrivi anche benino, questo non si discute, ma sempre stupidaggini restano.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Macelleria Rai. Report mi ha censurato: visto che non sono Fedez, la Rai si scuserà? Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Maggio 2021. Sono stato censurato anche io dalla Rai. Non sono Fedez, non ho la sua voce, non canto come lui, ho un numero di follower cento volte più modesto del suo, e un conto in banca 10 mila volte più piccolo. Dal palco del primo maggio ho parlato solo una volta, da ragazzo, mezzo secolo fa, un anno che i sindacati lasciarono un piccolo spazio a noi studenti, ma solo pochi minuti (allora c’era uno strano modo di celebrare la festa del lavoro: invece dei cantanti parlavano i sindacalisti, oppure gli operai, gli studenti, gli impiegati. Immagino che a molti di voi queste strane abitudini del passato appariranno un po’ astruse. pensate che qualche volta salivano sul palco persino dei rappresentanti della casta, soprattutto dei partiti di sinistra). Comunque, ribadisco, nel mio piccolo, anch’io sono stato censurato. Proprio ieri. Vi racconto bene. Un paio di mesi è venuto a trovarmi un giornalista di Report (programma di Rai 3) e mi ha fatto un’intervista. Io ho accettato di parlare anche perché nonostante la mia età avanzata resto un ingenuo. Mi fido sempre degli altri. Penso sempre di essere circondato da gente onesta. Non so se dipende dal mio carattere, o dal mio garantismo, o da un difetto di intelligenza. L’intervista è durata un po’ più di un’ora. Riguardava lo scandalo del processo a Berlusconi sull’evasione fiscale di Mediaset (quello che finì con la condanna a quattro anni di carcere), e la denuncia che di questo scandalo fece uno dei giudici che aveva partecipato alla sentenza di condanna, un certo giudice Amedeo Franco, che qualche anno dopo confessò, allo stesso Berlusconi, che non era stato un processo ma un plotone di esecuzione. Disse proprio così: un plotone di esecuzione, una porcheria. Non succede spesso che un giudice dica che una sentenza che lui stesso ha firmato era una puttanata. Questo Franco doveva essere un giudice spregiudicato, come spesso sono i giudici, ma con una certa coscienza personale. E capacità di autocritica. Lunedì scorso è andato in onda il servizio di Report che conteneva la mia intervista. Di settanta minuti di discussione accesa tra me e l’intervistatore (che giustamente era molto aggressivo) ne sono andati in onda tre o quattro. Non scherzo, eh: tre o quattro. E dopo le mie parole è comparso un giudice supremo – si chiama Ranucci, è il padrone assoluto della trasmissione – il quale ha spiegato agli ascoltatori che tutto quello che io avevo detto (pochissime cose) era roba da non prendere in considerazione perché era stata censurata dall’ordine dei giornalisti (tempio, come voi ben sapete, della libertà). Non mi era mai successa una cosa così. Penso che a poche persone sia successo. L’ho presa bene. Sono abituato alle insolenze e del resto faccio questo mestiere ormai da 50 anni, lo ho fatto sempre in trincea, ho rifiutato un paio di volte di entrare in Rai. Credo di aver fatto bene. Dov’è la censura? Beh, se uno viene qui e mi intervista per un’ora e poi taglia il 97 per cento dell’intervista, voi come la chiamate? Io non dico che le interviste vadano date integralmente, si possono – al limite – persino dimezzare (anche se è una operazione davvero scorretta) ma ridurle al 3 per cento o al 4 per cento dell’intervista integrale non è giornalismo, francamente. È evidente manipolazione e censura. Chissà se l’amministratore delegato della Rai, Salini (che giustamente ha detto, sulla polemica Fedez: “Se qualcuno della Rai ha parlato di ‘sistema’ mi scuso”) dirà: se qualcuno davvero ha tagliato del 97 per cento un’intervista mi scuso e prometto che non succederà più. Continuo ad avere fiducia totale nella gente: sono sicuro che lo farà.

P.S. Tra le cose, a proposito del giudice Esposito, che Report ha nascosto, c’è la notizia che il giudice Esposito scrive sul Fatto Quotidiano. Cioè che il giudice che ha condannato Berlusconi è un collaboratore di Travaglio. Voi pensate che in qualunque altro paese al mondo una circostanza del genere passerebbe sotto silenzio? E poi c’è l’altra notizia nascosta: che nella giurisprudenza italiana non c’è traccia di persone condannate per l’evasione fiscale di un’azienda del cui consiglio di amministrazione non fanno parte. Né prima della sentenza contro Berlusconi, né dopo. È un caso unico. Diciamo pure un reato non reato assolutamente ad personam.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 16 aprile 2021. Un imputato che non riesce a liberarsi dei postumi del Covid. E un processo arrivato sul ciglio della fine che non riesce a finire. Davanti al tribunale di Siena ieri si consuma la sesta udienza a vuoto del caso Ruby ter, con giudici, pm ed avvocati che si ritrovano in aula già quasi rassegnati al viaggio a vuoto. Perché tutti sanno che gli accertamenti clinici che hanno reso necessario il ricovero di Silvio Berlusconi all' ospedale San Raffaele non sono terminati, l' ex premier è da ormai otto giorni ricoverato in attesa delle decisioni dei medici ma non intende rinunciare ad essere presente all' udienza, perché è un' udienza decisiva, quella al cui termine i giudici si ritirerebbero per emettere la sentenza. E prima che lo facciano l' imputato Berlusconi vuole prendere la parola per convincerli di essere innocente. Non ho mai pagato nessun testimone per mentire in aula durante il processo Ruby, vuole dire il Cavaliere, per il semplice motivo che non avevo nulla da nascondere sulle mie feste ad Arcore. E men che meno ho corrotto il pianista Danilo Mariani, che lavora per me da una vita, e che ho sempre pagato per il suo lavoro. Per questo gli avvocati di Berlusconi chiedono al tribunale di rinviare nuovamente l' udienza. Il pubblico ministero Valentina Magnini si oppone. La dottoressa non crede al certificato medico, pensa di trovarsi di fronte ad una malattia inventata solo per impedire che si faccia la sentenza: per Berlusconi ha chiesto quattro anni e due mesi, per Mariani quattro e mezzo, chiede una perizia. É la scena già vista in altri processi al leader di Forza Italia, dove i giudici ordinavano visite fiscali che si concludevano quasi sempre con la conferma dei certificati medici. Ma ieri il tribunale non si accoda al pm, il certificato arrivato dal San Raffaele è più che sufficiente. Udienza rinviata al 22 aprile, con la speranza che Berlusconi per allora si sia ripreso. Il tribunale dice di no, oltre che al pm, anche ai difensori di Danilo Mariani. Il musicista è esasperato da un processo che si trascina ormai da oltre cinque anni, vorrebbe uscirne in un modo o nell' altro, ma la sua sorte è legata a quella di Berlusconi. Ieri Salvatore Pino, il suo legale, chiede che il processo sia spezzato in due, e che almeno per Mariani si pronunci la sentenza. Niente da fare, i giudici gli rispondono che «per evidenti ragioni di economia processuale» il processo deve restare unico. Se giudicassero Mariani, il giudice Ottavio Mosti e i suoi colleghi non potrebbero più giudicare Berlusconi, subentrerebbero altri giudici e si dovrebbero rifare almeno arringhe e requisitoria. Meglio aspettare che Berlusconi guarisca. D' altronde l' idea che l' ex premier stia affastellando rinvii solo per schivare la sentenza, come sembra ritenere il pm, non fa i conti con almeno due dati di fatto. Il primo è che comunque, in un modo o nell' altro, la sentenza arriverà, anche perché la prescrizione non decorre. Il secondo è che di tutti i processi per falsa testimonianza e corruzione giudiziaria scaturiti dal Rubygate questo è quello dove le chance di una assoluzione sembrano più alte. Mariani non è un Olgettina, ha assistito solo alla parte iniziale delle feste: e quindi, anche se una parte più allegra fosse effettivamente andata in scena, lui potrebbe davvero non averla vista. E che i pagamenti da parte di Berlusconi siano iniziati da ben prima del caso Ruby è documentato.

(ANSA il 19 maggio 2021) "Noi crediamo assolutamente che Berlusconi sia seriamente malato e affetto da una patologia severa e questo dicono i certificati medici e le consulenze". Lo ha detto il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano nel processo milanese sul caso Ruby ter chiedendo che la posizione del leader di FI venga stralciata "temporaneamente" da quella degli altri imputati. Richiesta a cui si è associata la difesa dell'ex premier col legale Federico Cecconi che ha chiarito che per il Cavaliere è necessario un periodo "di riposo assoluto" con una struttura "domestica-ospedaliera" ad Arcore. I giudici devono decidere sulla richiesta della Procura.

Da liberoquotidiano.it il 19 maggio 2021. “Quelle di Silvio Berlusconi sono le condizioni di una persona che è stata dimessa sabato scorso e che adesso è costantemente monitorata a casa”. Così l’avvocato Federico Cecconi ha risposto ai giornalisti che, dopo l’udienza sul Ruby Ter, lo hanno incalzato sulle condizioni dell’ex presidente del Consiglio. Il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano in aula ha affermato di credere “assolutamente che Silvio Berlusconi sia seriamente malato e affetto da una patologia severa, lo dicono i certificati medici e le consulenze”. Per questo la richiesta del pm è che la posizione del leader di Forza Italia venga stralciata “temporaneamente” da quella degli altri imputati. Richiesta a cui si è associata la difesa del Cav, per il quale è stata attrezzata una parte importante dell’abitazione di Arcore in qualità di struttura “domestica-ospedaliera”. “Certo che siamo preoccupati per le sue condizioni di salute, si tratta di un soggetto defedato”, ha dichiarato l’avvocato Cecconi: “I pm? Non hanno fatto altro che constatare giustamente quelli che sono i dati rinvenibili dalla disamina delle numerose certificazioni e relazioni mediche che abbiamo versato agli atti del processo”. Inoltre il legale del Cav ha voluto fare chiarezza su alcune illazioni sulla salute di Berlusconi, che nei giorni scorsi è stato descritto da qualcuno addirittura in punto di morte: “Erano uscite tutta una serie di notizie fantasiose, il professor Zangrillo aveva giustamente smorzato sul nascere quel tipo di speculazione. La situazione è comunque di degenza domiciliare”.

Simona Ravizza per corriere.it il 20 maggio 2021. Chi ben conosce Silvio Berlusconi e il suo stato di salute sa che dietro la definizione di «soggetto defedato» usata ieri dall’avvocato Federico Cecconi c’è un uomo di 84 anni con il fisico indebolito e al limite delle forze. Il fondatore di Fininvest, Mediaset e Forza Italia è stato dimesso sabato dopo 5 giorni di ricovero per una gastroenterite, che vanno ad aggiungersi ai 24 giorni trascorsi sempre al San Raffaele tra il 6 e il 30 aprile. Da subito i ben informati hanno sottolineato le condizioni di salute non buone dell’ex premier: nessuna strategia processuale, piuttosto problemi immunitari scatenati dai postumi del Covid che vanno a sommarsi a una patologia infiammatoria cronica e a disturbi del ritmo cardiaco. Le difese immunitarie del leader dalle mille battaglie adesso sono messe a dura prova. L’operazione a cuore aperto nel giugno 2016 per la sostituzione della valvola aortica, con il medico di fiducia Alberto Zangrillo che aveva parlato di rischio di vita e la storica fidanzata Francesca Pascale ritratta a piangere alla finestra. Il ritorno in sala operatoria per un’occlusione intestinale nell’aprile 2019, con Forza Italia presa alla sprovvista nel giorno della presentazione delle liste alle Europee. Poi il Covid, lo scorso settembre, con l’insorgere di una polmonite bilaterale e Berlusconi stesso che ha ammesso: «Temevo di non farcela». I momenti di preoccupazione per la salute di Silvio Berlusconi negli anni si sono rincorsi senza mai intaccare la sua capacità di risollevarsi. Stavolta è più difficile delle altre perché, confida chi gli è vicino, l’organismo è consumato. Ciò non toglie che il rincorrersi di voci della scorsa settimana su un Berlusconi moribondo fossero fuori luogo. Venerdì, in un pomeriggio di impazzimento social, solo il tweet di Zangrillo («I miei pazienti stanno TUTTI bene») è riuscito a fare rientrare l’allarme. Riposo, assoluto riposo. Nella villa di Arcore è stata allestita una vera e propria camera d’ospedale dove l’ex premier, ora in compagnia di Marta Fascina, può essere monitorato h 24. È il compromesso raggiunto con i medici per potere restare a casa. E riprovare per l’ennesima volta a riprendere le forze per reggersi in piedi. La foto che lo ritrae sabato scorso all’uscita del San Raffaele con il vicepresidente del gruppo San Donato Kamel Ghribi forse parla più di qualsiasi certificato medico: il sorriso beffardo ritratto sulla copertina del Time nel novembre 2011 con le rughe non nascoste dal photoshop non c’è più. Piuttosto c’è l’immagine di un leader stanco e debole. Ma, probabilmente, ancora in grado di sorprendere. Questo, perlomeno, è quanto si augura chi gli sta vicino ed è abituato ad avere a che fare con un uomo che non riesce a sottrarsi alle sfide. Le forze sono sempre meno, ma lo spirito non lo abbandona.

Tommaso Labate per il "Corriere della Sera" il 30 luglio 2021. Che sapesse scegliere con maniacale cura l'autore da citare, ecco, questo lo si era capito quando, dovendo ripercorrere tanti anni dopo le tappe che avevano portato al passaggio della campanella tra Silvio Berlusconi e Mario Monti, aveva pescato dal mazzo la carta di Jurgen Habermas. Quello che per fior di berlusconiani era stato semplicemente «un golpe», per lei era invece «ciò che il filosofo tedesco aveva definito "a quiet coup d'etat"». Ch'era un po' la stessa cosa, ma detta in modo che suonasse assai meglio. L'altro giorno, invece, l'autore preso a prestito è stato Enrico Mattei, il leggendario presidente dell'Eni che a metà degli anni Cinquanta si vantava di usare i partiti «allo stesso modo di come uso i taxi: salgo, pago la corsa, scendo». Con una dichiarazione mandata alle agenzie, Marta Fascina, deputata e compagna di Silvio Berlusconi, s' intesta mediaticamente la custodia dell'ortodossia del Cavaliere e sferza quelli che dentro Forza Italia si sono rifiutati di sostenere gli emendamenti azzurri alla riforma Cartabia. Se ai tempi in cui citava Harbermas dalle colonne de Il Giornale le sue analisi erano considerate il metro per capire che cosa potesse pensare l'ex premier sulle questioni via via dibattute, adesso che evoca nientemeno che Mattei - di fronte a un partito ormai decimato da settantasette addii - la sua sembra la chiave che tenta di blindare la casa con la porta ormai scassinata. Casa in cui, tra i superstiti, ci sono anche quelli che si interrogano su come mai la «linea» debba arrivare proprio da chi, in un partito costellato a ogni latitudine da un'incredibile densità di coordinatori e responsabili, non ricopre alcun ruolo. Né di coordinamento, né di responsabilità. Con un'incredibile aderenza alle teorie di Beppe Grillo sul vincolo di mandato, Fascina si è fatta promotrice di una legge costituzionale che faccia decadere dall'incarico parlamentare «chi cambia legittimamente idea e tradisce il patto con i cittadini». Si tratta, aggiunge, di impedire «di utilizzare i partiti come taxi per raggiungere lauti stipendi e posizioni di potere salvo poi, una volta raggiunto l'obiettivo, cambiare idea, ideali, valori, partito». Esempio di firstladysmo di ritorno, archiviati gli anni in cui era Francesca Pascale a scuotere i nervi del partito, con la sua nota l'onorevole Fascina sembra aver innervosito ulteriormente Forza Italia. Arrivata all'indomani degli addii di Lucio Malan e di Giusi Bartolozzi, quest' ultima vicinissima alla ministra Mara Carfagna, la dichiarazione sarebbe la spia del malessere montante di Berlusconi negli ultimi giorni. L'ex premier avrebbe vissuto malissimo il fatto che la delegazione forzista al governo sia intervenuta presso di lui per chiedergli di far ritirare l'emendamento alla riforma Cartabia e, sul punto, ci sarebbe stato anche un confronto telefonico con la Carfagna. Per non mettere in difficoltà il presidente del Consiglio Mario Draghi - aggiungendo la sua firma alla lista dei leader della maggioranza che hanno puntato i piedi sulla riforma della giustizia - Berlusconi ha optato la «griffe Fascina» in calce al suo avviso ai naviganti. Anche perché, avrebbe confessato tra l'arrabbiato e il dispiaciuto ai parlamentari che lo hanno raggiunto telefonicamente a Villa Certosa, dove si trova insieme alla sua compagna, «mi stanno arrivando incredibili pretese dalle persone più inaspettate». A tormentare le acque di un partito martoriato, c'è l'appuntamento in cui ciascun parlamentare vede moltiplicato il peso del proprio singolo voto, e cioè l'elezione del Capo dello Stato. Per questo, in Sardegna, si è tentato di mettere la sicura alla serratura di un taxi da cui sono scesi in tanti. Anche se forse si è scelto il fabbro sbagliato.

Lucio Malan. Fabrizio Roncone per “Sette – Corriere della Sera” l'11 agosto 2021. L’altro giorno arriva la notizia che il senatore Lucio Malan ha improvvisamente sentito scattare qualcosa nella propria coscienza politica e che, perciò, non si riconosce più nei valori di Forza Italia. Così, di botto. Dopo un quarto di secolo passato a fare il berlusconiano duro e puro. Una martellante crisi di coscienza. Un groppo in gola. E poi commozione, incredulità. Anche perché con Fratelli d’Italia avrà la certezza di essere rieletto. Trovalo un partito che a 60 anni suonati ti garantisce ancora un posto in Parlamento. Ma a lui la capriola è riuscita, ed è lì che atterra: da Giorgia Meloni, che viaggia con sondaggi spaventosi e offre, ovviamente, garanzia di scranno quasi certa. Intendiamoci: per lei, mediaticamente, un colpaccio. Malan s’arrampica invece sugli specchi. «Purtroppo non potevo continuare a sostenere questo governo guidato da Mario Draghi». Grandioso. Mitico. Detto da uno che difendeva il Cavaliere anche quando volevano farci credere che Ruby Rubacuori, olgettina di origini marocchine, fosse la nipote di Mubarak (314 deputati votarono a favore di questa orrenda bufala). Va detto che lo Zio Silvio è però sempre stato molto generoso e comprensivo con Malan: prima lo accoglie proveniente dalle file della Lega, poi gli garantisce a ripetizione stipendi da deputato e senatore, e altri incarichi, e prestigio. Lui ricambia lavorando tanto. Nel 2002, proprio a Palazzo Madama, Malan è addirittura travolto dal sospetto di aver votato, per 4 volte, al posto dei colleghi assenti. Lui dice che non è vero, certe fotografie non dimostrano un bel nulla, scrive dure lettere di smentita e, naturalmente, tutti subito gli crediamo. Perché poi Malan ha quest’aria da buono, il ciuffo biondo, è esponente della Chiesa valdese: e infatti, a un certo punto, pare impossibile che abbia assunto la seconda moglie come segretaria particolare nel suo ufficio di senatore pdl, e che dopo la moglie abbia fatto un bel contratto pure alla nipote della moglie. Invece è esattamente così (su YouTube trovate la sua strepitosa intervista a La Zanzara). Che gran baldoria, per anni, sul carrozzone dello Zio Silvio. Che storie. E che facce. Adesso però saltano giù, in fretta e furia, sperando di farla franca: e no, Malan, perché qui ci ricordiamo tutto di tutti.

(ANSA il 30 luglio 2021.  - "Recenti episodi di cronaca parlamentare ci forniscono uno spaccato della politica che ci rende poco 'onorevoli'. È noto che da 27 anni Forza Italia sostiene e promuove riforme all'insegna della giustizia giusta, efficiente e veloce e che ha nel proprio Dna il rispetto dei precetti costituzionali in tema di garantismo, separazione dei poteri, ragionevole durata dei processi, presunzione di innocenza. Ciononostante accade che parlamentari eletti nel nostro movimento decidano sorprendentemente di non votare emendamenti presentati dal nostro capogruppo in Commissione Giustizia e previamente condivisi con la Presidenza del gruppo. Con ciò deludendo le aspettative di milioni di cittadini che hanno creduto e credono nella nostra carta dei valori". Così, in una nota, Marta Fascina, deputata di Forza Italia. "Se vogliamo salvaguardare la nostra identità di partito liberale, moderato e garantista - prosegue - e con ciò togliere ossigeno a movimenti che hanno nel giustizialismo populista e manettaro la loro stella polare, non possiamo retrocedere dalle nostre storiche battaglie, dai nostri valori ed ammainare le nostre bandiere. Ecco perché ritengo che chi, tradendo il mandato elettorale dei cittadini oltre che la fiducia dei colleghi e dei dirigenti del partito, ha contestato i nostri emendamenti debba riflettere sull'etica politica che lo guida, sull'importanza che attribuisce ai valori della coerenza e del rispetto del mandato elettorale. In tal senso mi farò promotrice di una proposta di legge costituzionale che, derogando al divieto di mandato imperativo, preveda per chi legittimamente cambia idea e tradisce il patto con i cittadini e con il movimento politico che l'ha accolto e candidato, la decadenza immediata dall'incarico parlamentare. Non si tratta di silenziare le voci critiche di deputati o senatori, ma di impedire di utilizzare i partiti come taxi per raggiungere lauti stipendi e posizioni di potere, salvo poi (una volta raggiunto l'obbiettivo) cambiare idea, ideali, valori, partito". 

Granzotto e Berlusconi in crociera con i lettori. Paolo Granzotto il 30 Luglio 2021  su Il Giornale. Il diario di bordo dell'indimenticabile Paolo: "Silvio ha voluto raccontarsi senza filtri da quando aveva i calzoni corti e arricchendo la narrazione di aneddoti e battute come a una tavolata tra amici. E ha detto: sono contentissimo di essere venuto qui perché sapevo di trovare persone che credono da sempre nella libertà e nella democrazia". Un'intesa tra vecchi amici, se non a un ritrovo di famiglia. Per Silvio Berlusconi, il leader del centrodestra, il capo di Forza Italia, l'uomo della rivoluzione liberale e del miracolo del 1994, delle vittorie dal 1999 al 2001, della super rimonta del 2006, del trionfo del 2008, il rapporto con i lettori del Giornale è sempre stato affettuoso e complice. Come quando, era il 2012, si imbarcò con loro, in una dei Viaggi del Giornale, una crociera partita da Venezia a bordo della Msc Divina, ammiraglia della compagnia. Confessa, tra amici, che se non avesse fatto l'imprenditore avrebbe fatto il cantante. «Quando cantavo in Francia - racconta - usavo lo pseudonimo di Dani Daniel. E Le Figaro pubblicò una bellissima recensione: scrisse che davo espressività alle parole delle canzoni». Sono in tanti, cercano un autografo, una stretta di mano, un sorriso, una parola. Nessun culto della personalità, semmai affetto. C'è chi lo apprezza come capo politico, chi si identifica nel Berlusconi imprenditore. Il Cav ha quasi un legame di sangue con il Giornale, lo aiutò ai tempi di Montanelli, nessuno voleva farlo. «Per i lettori del Giornale ci sono sempre» dice. E Paolo Granzotto, rispondendo a un lettore così raccontava quell'incontro.

Caro Granzotto, perché a noi che siamo restati a terra non ci racconta come è andato l'incontro tra Silvio Berlusconi e i fortunati crocieristi? Un racconto non «ufficiale» destinato ai lettori dell'«Angolo» rimasti a bocca asciutta per l'occasione perduta e immagino non ripetibile? Augusto e Mara Sardelli e-mail.

Mai dire mai, cari Sardelli. Primo perché con le navi da crociera Silvio Berlusconi ha quel che lui stesso definisce «una certa pratica». Secondo perché non c'è alcun dubbio: si è sentito in famiglia, fra sodali e son certo che oltre a farlo felice, questo l'abbia corroborato: mai visto così in forma. Si è imbarcato da crocierista, dividendo gli (sterminati) spazi della nave senza particolari coperture da parte del servizio di sicurezza, per altro gentile e disponibile, oltre che discreto. Credo che abbia firmato una montagna così di dediche, vergate su una pagina del Giornale, su un taccuino, su una cartolina e perfino sui tovaglioli della sala da pranzo. Saranno stati un centinaio i lettori che hanno voluto farsi fotografare al suo fianco e a nessuno si negò. C'erano poi di quelli che si limitavano a semplicemente stringergli la mano, altri che gli volevano parlare: il Cavaliere stringeva le mani e ascoltava. Mi hanno raccontato (io ero in cabina a preparare l'«Angolo») che dopo cena ha intrattenuto i lettori facendo le ore piccole suonando qualcosa in un piano bar. Se n'erano sentite tante sul Cavaliere, che era depresso, che era giù. Mah, centinaia di lettori l'hanno trovato - e io sottoscrivo - alquanto pimpante anche se, quando si affrontava l'argomento, seriamente preoccupato per la situazione non solo economica, ma anche istituzionale in un Paese che ha urgente bisogno di riforme per mettersi a riparo da brutte sorprese.

Insomma, cari amici, la permanenza del Cavaliere a bordo della «Msc Divina», così si chiama la nave che sta dirigendosi a Istanbul, se ha rallegrato assai i crocieristi non credo di sbagliare affermando che ha rallegrato parimenti l'ospite d'onore. Il quale, il giorno successivo al suo imbarco, incalzato dal direttore Alessandro Sallusti ha tenuto banco in teatro, raccontando di sé partendo da quando aveva i calzoni corti e arricchendo la narrazione di aneddoti e di boutades, proprio come si farebbe a una tavolata tra amici.

Ma queste sono cose che sapete, avendole lette nelle cronache. Quello che potete solo immaginare è il rapporto di simpatia, di affinità che subito s'è creato tra Berlusconi e i lettori «di un Giornale che da quasi quarant'anni è la più importante bandiera della libertà». Aggiungendo, musica alle orecchie di chi questo quotidiano legge (e di chi ci lavora), «Sono venuto a parlare qui perché qui sapevo di trovare persone che credono nella libertà e nella democrazia sin dalla fondazione del Giornale, dai tempi di Indro. Sono contentissimo di essere qui».

Mica male. E mica male la sua dichiarazione conclusiva, il suo saluto prima di sbarcare. Dopo aver dato una risposta molto ben articolata e argomentata alla domanda che tutti avevano sulle labbra: «Ridiscenderà in campo?», risposta che voi conoscete per averla letta su queste pagine, il Cavaliere s'è accomiatato scandendo: «Sento sempre il dovere di non consegnare il Paese alla sinistra». Sarò anche ingeneroso, ma in quel momento, chissà perché, il mio pensiero è andato ai coriferi dell'antiberlusconismo isterico-compulsivo. Immaginandomeli tutti alle prese con un possente attacco di fegato. L'ennesimo che li tormenta. E non di certo l'ultimo. Paolo Granzotto Il Giornale, 18 settembre 2012

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 18 maggio 2021. Non ho capito, né voglio capire, perché Silvio Berlusconi venga processato a Siena. Pare che il Cavaliere abbia fatto una scopata malandrina e che ciò costituisca reato. La cosa mi turba perché, se i magistrati si mettono a indagare sul mio passato di maschio furbetto e incline ad accoppiarsi, sto fresco. Intendiamoci, non ho fatto granché sotto e sopra le lenzuola, però un ergastolo non me lo toglierebbe nessuno. Oggi sono a riposo. Ormai per me il sesso costituisce solamente fonte di nostalgia, tanto che, se mi condannassero, la mia sarebbe una pena alla memoria. Quasi una medaglia. Alcuni giorni fa si è discettato a lungo sull'arresto di vari ex terroristi che invece di andare in galera, secondo sentenze roboanti, si trasferirono in Francia dove, protetti dal governo grazie a una legge salva briganti, l'avevano fatta franca evitando cioè la galera. Non so cosa sia successo, il gruppo dei sanguinari, trascorsa una notte in una cella transalpina, sono subito stati liberati in attesa si compiano le procedure relative al rimpatrio, che probabilmente non avverrà mai. Infatti, la generosa sinistra italiana, appresa la notizia degli arresti nel Paese di Macron, si è scatenata in una difesa dei reprobi gridando ai quattro venti che costoro sono vecchi bacucchi e non meritano di essere ingabbiati trenta e rotti anni dopo i misfatti di cui sono stati autori. In soldoni, essi, quand'anche rientrassero qui, meriterebbero non la reclusione bensì una bella festa, la festa del perdono. Secondo me, Pietrostefani e compagnia assassina non pagheranno il fio e continueranno a campare, come sempre, da cittadini onesti (quali non sono stati) poiché si ritiene che il partito comunista armato, il quale si è ammantato di eroismo, vada esaltato e non castigato. Mentre Silvio Berlusconi non la passerà liscia, nonostante l'età, dal momento che si è imposta l'idea che il delitto peggiore non è ammazzare qualche cristiano bensì fare l'amore con una ragazza che ci sta. Roba da matti. Se Silvio anziché penetrare una donzella avesse sodomizzato un giovanotto nessuno gli avrebbe torto un capello. Anzi, ora lo porterebbero in trionfo perché i rapporti gay sono da applaudire, quelli etero sono stupri o qualcosa del genere. Tra poco entrerà in vigore la legge Zan che beatifica gli omosessuali, pertanto Berlusconi sarebbe celebrato, altro che tribunale, il suo posto sarebbe l'altare con la benedizione del cardinale Bassetti.

DAGONEWS il 14 maggio 2021. Il problema che mettendo in crisi l'organismo del Cavaliere è il cuore, più precisamente il miocardio. Nel 2006, Berlusconi si operò a Cleveland, negli Stati Uniti al cuore, dove gli venne applicato un pacemaker. Ora dovrebbe essere sostituito ma le condizioni generali non sopporterebbero un'operazione, anche con anestesia locale.

Da liberoquotidiano.it il 14 maggio 2021. Ancora preoccupazione per Silvio Berlusconi, l'ex premier e leader di Forza Italia ricoverato nuovamente l'11 maggio al San Raffaele di Milano, dove aveva da poco concluso, il primo maggio, un altro lungo ricovero. Le sue condizioni di salute infatti non sarebbero delle migliori. Le indiscrezioni si rincorrono da giorni ma ora arrivano delle conferme dal Sole 24 Ore, secondo cui il Cavaliere soffre di una infezione intestinale che potrebbe essere conseguenza del coronavirus che lo aveva colpito nei mesi scorsi. Berlusconi, riferiscono alcune fonti, resterà ricoverato ancora alcuni giorni e monitorato costantemente. Ieri, giovedì 13 maggio, il senese Danilo Mariani, pianista di molte serate nella villa di Berlusconi ad Arcore, è stato condannato dal Tribunale di Siena a 2 anni di reclusione (con sospensione della pena) per falsa testimonianza. Per i pm milanesi a Siena sarebbe stato completato il pagamento dall’ex premier a Mariani per indurlo a rendere testimonianze edulcorate sulle feste. E ancora, stando all'accusa, i "rimborsi spese" - pari a circa 170mila euro -sarebbero stati in verità dei pagamenti per indurlo proprio alla falsa testimonianza. Nel processo era imputato anche Berlusconi, ma il legale che lo assiste, Federico Cecconi, ha presentato richiesta di legittimo impedimento, una richiesta accolta dal collegio giudicante presieduto da Ottavio Mosti. Berlusconi era stato dimesso dal San Raffaele di Alberto Zangrillo, suo medico curante, lo scorso primo maggio dopo una degenza lunga 25 giorni. Poi, come detto, l'ulteriore ricovero. Secondo alcune fonti di Forza Italia, Berlusconi sarebbe alle prese con il cosiddetto long-Covid, sintomi e guai che il maledetto virus lascia in eredità a chi colpisce con gravi sintomi. Tra le conseguenze del long-Covid, debolezza, tachicardia, difficoltà del linguaggio, senso di ottundimento e tachicardia. Una serie di malesseri che possono avere conseguenze sugli organi come polmoni, cuore, reni e appunti intestino.

(Adnkronos il 14 maggio 2021) - Silvio Berlusconi è ancora al San Raffaele dopo il ricovero di martedì scorso per nuovi accertamenti legati agli strascichi del post Covid. Anche oggi sono circolate voci discordanti sul suo stato di salute, ma fonti qualificate azzurre assicurano che le sue condizioni fisiche non destano preoccupazione. Subito dopo il "verdetto" di assoluzione del tribunale di Catania per il caso Gregoretti, il presidente di Forza Italia, infatti, ha chiamato al telefono Matteo Salvini per complimentarsi con lui e manifestargli la sua solidarietà. "Dopo la decisione Gregoretti mi ha chiamato Berlusconi, non sta benissimo ma ne uscirà, è un guerriero'', ha detto il leader della Lega confermando il colloquio. Allo stato, non si sa quando Berlusconi verrà dimesso dall'ospedale. C'è chi assicurava che oggi sarebbe tornato a casa, ad Arcore, ma secondo le ultime indiscrezioni, apprende l'Adnkronos, l'ex premier potrebbe essere dimesso domani mattina. Il ricovero di oggi è solo l'ultimo di una lunga serie.

Nel maggio 1997 Berlusconi è stato operato per un tumore alla prostata.

Nel novembre 2006 ad Anversa ha subìto l'asportazione di un frammento del menisco del ginocchio destro; alcune settimane dopo è stato ricoverato in seguito a un malore durante un comizio. A dicembre dello stesso anno, a Cleveland (Usa) gli è stato impiantato un pacemaker al cuore.

Nell'ottobre 2010 è stato operato per una tendinite alla mano sinistra; nel marzo 2011 Berlusconi ha avuto un intervento chirurgico programmato, in una clinica privata di Milano, per riparare i danni alla mascella causati da un'aggressione avvenuta nel 2009. Nel 2013 ha un nuovo ricovero al San Raffaele per una patologia oculare chiamata uveite; nell'aprile 2014 è costretto a un ulteriore ricovero per una dolorosa infiammazione al ginocchio sinistro.

Nel novembre 2014 viene ancora ricoverato per una ricaduta dell'uveite, mentre nel dicembre 2015 è avvenuta la sostituzione programmata del pacemaker.

A marzo 2016, un intervento programmato per curare una cataratta all'occhio destro. Poi nel giugno 2016 il ricovero all'Ospedale San Raffaele di Milano, per uno scompenso cardiaco.

Nino Materi per “il Giornale” il 16 aprile 2021. È il 2 marzo 2019 quando Silvio Berlusconi - a Potenza per sostenere in campagna elettorale la candidatura del «suo» uomo (il generale Vito Bardi) alla presidenza della Regione Basilicata - entra nel «Gran Caffè Italia» in via Pretoria (la strada dello «struscio» cittadino, nel cuore del centro storico). Gli animi sono distesi, Berlusconi come sempre è di buon umore e disponibile alle domande dei giornalisti. Dopo essersi complimentato con il pasticciere per un dolce particolarmente gradito, il leader di Forza Italia si concede ai cronisti. In quei giorni a tenere banco c' era la polemica sull' Alta velocità ferroviaria Torino-Lione, con l' allora ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture, il grillino Danilo Toninelli (primo governo Conte), scatenato del dire tutto e il contrario di tutto. E proprio una di queste «toninellate» è oggetto della domanda a Berlusconi: «Presidente la Tav si farà? Come giudica l' atteggiamento ondivago di Toninelli?». Berlusconi sorride e allarga le braccia: «La Tav si farà. Ma è ridicolo quello che si vede. Toninelli che dice: Do il via, tanto tra sei mesi posso bloccarlo. Ma dai il via a dei lavori, a delle assunzioni, a delle spese importanti per il Paese e l' Europa e fra qualche mese te lo rimangi? Ma dove vivi? Sei scemo? Toninelli è scemo». Risate generali. Caso chiuso? Macché. Toninelli, permalosissimo, decide di querelare per diffamazione Berlusconi. Sembra una barzelletta, ma non lo è; la Procura della Repubblica di Potenza ha ritenuto infatti la denuncia tanto «seria» da avviare un procedimento giudiziario. Altro che archiviazione: l' ex presidente del Consiglio ha ricevuto un decreto di citazione a giudizio presso il Tribunale di Potenza. Da qui comincerà così il tour giudiziario di Toninelli che, durante il suo tribolato mandato ministeriale, pare abbia presentato più querele per diffamazioni che proposte di legge. Va precisato come, «nell' immediatezza dei fatti» (lo «scemo» rivolto da Berlusconi a Toninelli), l' ex ministro replicò via social all' epiteto del leader di Forza Italia con un post più offensivo dell' aggettivo ora al centro della causa potentina. Del resto fra i «record» detenuti da Silvio Berlusconi ce n' è uno indiscutibile: quello del maggior numero di insulti ricevuti. Fatto salvo il diritto di satira che ha consentito a generazioni di comici di «campare» per decenni irridendo il Cavaliere, ancora oggi il leader di Forza Italia rimane nel mirino dei tanti che preferiscono gli insulti agli argomenti. Tre giorni fa, a causa del legittimo impedimento di Berlusconi, la prima udienza del processo Toninelli-Berlusconi è stata rinviata al 6 luglio. Ma l' estate potrebbe portare consiglio. L' avvocato di Toninelli sottolinea infatti al Giornale: «Confido in una risoluzione bonaria del caso». Insomma, niente processo. E «nemici» come prima.

«La salute di Silvio Berlusconi è altamente compromessa. La prognosi non sarà breve». Redazione su L'Espresso il 26 maggio 2021. I tribunali di Roma e Milano si esprimono con due pareri differenti sullo stralcio della posizione del leader di Forza Italia nel processo Ruby Ter. La situazione di salute di Silvio Berlusconi è “altamente compressa”. Ad affermarlo è stato il giudice Anna Maria Pazienza, presidente di collegio della seconda penale, che ha disposto lo stralcio della posizione dell'ex premier imputato con Mariano Apicella per corruzione nell'ambito di uno dei filoni giunto a Roma per competenza da Milano dell'indagine Ruby Ter. La prossima udienza per Berlusconi si terrà il prossimo 2 novembre. «È pervenuta un'istanza di rinvio per legittimo impedimento nella quale si dice che la situazione di salute di Berlusconi è altamente compromessa, con un generale peggioramento del quadro. L'imputato è assolutamente impedito per motivi di salute a comparire a processo - ha aggiunto il giudice -. La situazione di salute non è di immediata risoluzione».  Ad avanzare la richiesta, nel corso dell'udienza di martedì mattina è stato il difensore di Berlusconi l'avvocato Franco Coppi, alla quale il pm Roberto Felici non si è opposto. Secondo l'accusa Berlusconi avrebbe pagato il cantante Apicella un totale di 157mila euro per indurlo a falsa testimonianza sul caso «olgettine» e sulle feste tenute ad Arcore. La richiesta di stralciare la posizione di Berlusconi da quella degli altri 28 imputati per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza è stata avanzata martedì anche nel processo milanese, venendo tuttavia respinta. «Il parere medico legale che abbiamo depositato segnala e conferma ancor più il persistere delle condizioni di salute severe di Berlusconi segnalando anche in termini di prognosi una durata ragionevolmente non breve che non gli permette di presenziare dignitosamente al processo», ha spiegato il suo legale Federico Cecconi. Nella scorsa udienza erano stati il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Luca Gaglio a chiedere di separare temporaneamente la posizione di Berlusconi da quella degli altri 28 imputati. E ciò perché il processo è «fermo da troppo tempo» e gli altri imputati hanno diritto ad un processo «dai tempi giusti». «I nuovi elementi medico sanitari depongono per la severità delle condizioni sia fisiche che psicologiche dell'imputato Berlusconi e non c'è alcuna evidenza della remissione della patologia in tempi brevi» ha spiegato il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano. «La gravità della patologia è un quadro chiaro emerso già la scorsa settimana e quindi sarebbe necessario un rinvio lungo, ma le altre parti hanno diritto di celebrare il processo in tempi ragionevoli». Il tribunale di Milano ha però respinto lo stralcio della posizione del leader di Forza Italia. «Tenuto conto della necessaria unitarietà della trattazione del processo, lo rinvia al 8 settembre 2021, sospendendo i termini di prescrizione per tutti gli imputati», ha spiegato il presidente della settima penale, il giudice Marco Tremolada. La procura ha annunciato l’intenzione di chiedere a settembre una perizia sulle condizioni di salute di Berlusconi.

Silvio Berlusconi, "patologia psicologica e psichiatrico-psicologica": verso una drammatica perizia. Libero Quotidiano il 26 maggio 2021. Una perizia sulla salute di Silvio Berlusconi, La chiede la Procura di Milano, nell'ambito del processo Ruby Ter che vede il leader di Forza Italia imputato. Il Tribunale ha deciso di non stralciare, come chiesto dallo stesso pm, la posizione dell'ex premier da quella degli altri imputati. Il processo, dunque, andrà avanti per tutti, con rinvio dell'udienza all'8 settembre prossimo. Ma a tenere banco in questa fase è soprattutto la condizione di Berlusconi, da settimane alle prese con ricoveri al San Raffaele per problemi legati alla sindrome del long-Covid. La polmonite bilaterale legata al coronavirus avuto in forma molto pesante lo scorso settembre starebbe infatti presentando il conto al Cav, il cui fisico di 86enne era già stato già messo a dura prova da un'operazione a cuore aperto e da ricorrenti guai cardiaci.  Secondo il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, "le pluripatologie fisiche non hanno possibilità di recupero, perché sono cronicizzate, così come ci sono state descritte, e le patologie, faccio presente che delle tre espresse una è psicologica e l'altra è psichiatrica-neurologica, danno un quadro che merita attenzione". Parole pronunciate in aula e che delineano un quadro decisamente preoccupante, anche perché da mesi di fatto Berlusconi non rilascia interviste né dichiarazioni pubbliche. A parlare e aggiornare gli italiani sulla sua salute sono così i suoi principali collaboratori, dal vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani ("Ha bisogno di riposo assoluto, deve riprendersi anche dal vaccino") e dal suo avvocato Federico Cecconi, legale proprio nel processo Ruby Ter, che non a caso ha parlato nelle ultime ore di "condizioni di salute severe" e di "prognosi di non breve durata". Motivi di salute che hanno obbligato ovviamente il Cav a saltare le udienze in cui aveva intenzione parlare, per esporre la propria versione dei fatti davanti al giudice. A fronte di questa situazione, il procuratore Siciliano ha avanzato l'ipotesi di richiedere a settembre una perizia sulla capacità "dell'imputato di partecipare al dibattimento".

Emilio Pucci per "il Messaggero" il 27 maggio 2021. «Le pluripatologie fisiche non hanno possibilità di recupero, perché sono cronicizzate, così come ci sono state descritte, e le patologie, faccio presente che delle tre espresse una è psicologica e l'altra è psichiatrica-neurologica, danno un quadro che merita attenzione». Così ha detto in aula il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, dopo che i giudici del processo Ruby ter hanno detto no alla separazione della posizione di Berlusconi da quelle degli altri imputati per motivi di salute, per far presente che potrebbe chiedere nell' udienza a settembre una perizia sulla capacità «dell'imputato di partecipare al dibattimento». Quelli della vecchia guardia azzurra non nascondono la preoccupazione. E' la schiera dei fedelissimi, coloro che sono con il Cavaliere da più di trent' anni, ad essere più sensibile alle notizie sullo stato di salute di Berlusconi. L' ultimo post dell'ex presidente del Consiglio è datato 5 aprile, da quel momento non ha partecipato più ad alcuna riunione politica. Il timore per la salute del presidente forzista non lo nasconde più nessuno, il solo sentir parlare di perizie psicologiche, psichiatriche, neurologiche, di «condizioni irreversibili», fa drizzare i capelli agli azzurri che hanno visto, e continuano a vedere, nel loro leader il leone che tanti hanno cercato di abbattere senza riuscirci. E' chiaro che ci sono le strategie difensive legali da considerare, le note vicende giudiziarie che hanno portato Berlusconi ad allontanarsi dalle scene. Ma la consapevolezza è che non è certo solo questione di linea dettata dagli avvocati. E allora l'allarme per la situazione sanitaria del leader ottantaquattrenne cresce sempre di più nel partito, soprattutto adesso che sono in corso manovre per sfilare parlamentari di FI. La decisione del Tribunale di Milano di non separare temporaneamente, come chiesto dai pm, la posizione di Berlusconi da quella degli altri imputati del caso Ruby ter e di far tenere il processo l' 8 settembre complica e non poco le cose. Settembre vuol dire campagna elettorale e un'eventuale condanna sbarrerebbe del tutto la strada al Cavaliere verso il Quirinale. L' accordo tra i leader del centrodestra è che, senza Draghi in campo, sia proprio Berlusconi il candidato della coalizione soprattutto nell' eventualità che la salute dell'ex premier sia tale da permettergli di esaudire il suo ultimo sogno. Come è ovvio c' è uno stretto riserbo sulle condizioni di Berlusconi. Da quando l'ex presidente del Consiglio a causa di una gastroenterite, una domenica notte di aprile, è stato ricoverato al San Raffaele. Ha avuto la febbre per diversi giorni, chi lo conosce riferisce che ad un certo punto le condizioni si siano seriamente aggravate, ma al di là delle indiscrezioni non confermate, è chiaro che si sono manifestate delle complicazioni, legate anche alle conseguenze del Covid. Il recupero c' è stato. Berlusconi è ritornato ad Arcore dove si è fatto costruire una vera e propria struttura ospedaliera. Con lui ci sono sempre un medico di guardia e un infermiere. Una stanza è stata allestita ad hoc per ogni evenienza, soprattutto per i noti problemi al cuore. C' è un letto d' ospedale, un lettino per la riabilitazione, le bombole dell'ossigeno, i ferri del mestiere, lampade speciali. E' controllato a vista, insomma. E' anche ingrassato di diversi chili, a causa soprattutto del cortisone, azzarda qualcuno. Ma l'ex presidente del Consiglio comunque non rinuncia, spiega chi lo ha visto anche di recente, a muoversi, a qualche chilometro di camminata ogni mattina all' interno del parco.  Di tanto in tanto vede l'amministratore delegato di Fininvest Pellegrino ma sono pochissimi gli ospiti ad essere ricevuti a villa San Martino. Ordine soprattutto di Marina, la primogenita che è la più presente tra i figli (spesso si unisce anche Piersilvio). C' è poi la fedelissima dell' ex premier Ronzulli, la compagna Fascina, il senatore Ghedini. L'ex presidente del Consiglio puntava allo stralcio del Ruby ter, una richiesta che verrà reiterata l'8 settembre. Da qui l'amarezza per il diniego a Milano. E guarda con irritazione all' ennesimo tentativo di svuotargli il partito. Tempo fa aveva designato Brugnaro come ipotetico leader di Altra Italia, un progetto civico che aveva portato avanti per poi rimetterlo nel cassetto. Vedeva nel sindaco di Venezia la figura proveniente dalla società civile che poteva rivitalizzare FI nel Veneto conquistato dalla Lega di Zaia. E ora assiste con delusione alla nascita di Coraggio Italia e alla fuoriuscita di deputati e senatori da FI. Per ora pensa alla salute, ma non essere riuscito a mettere la parola fine alle sue vicende giudiziarie lo angoscia. «E' chiaro che se il partito non si muove lo fanno gli altri», allarga le braccia uno dei berluscones. «Questi che vogliono andare via osserva però un big azzurro avrebbero potuto aspettare almeno fino alla partita sul Quirinale». Il Cavaliere punta a ristabilirsi, a superare lo scoglio del processo ma ancora non ha accantonato il sogno.

I paradossi. Il Fatto ironizza sulla salute di Berlusconi: assolto ma torturato da anni. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Maggio 2021. Per la prima volta nella sua storia giudiziaria Silvio Berlusconi ha avuto da parte di un pubblico ministero, l’aggiunto milanese Tiziana Siciliano, il riconoscimento della sua sincerità: se l’imputato dice che sta male, sta male davvero. E per lo stesso problema, per la prima volta, ha ricevuto gli auguri (sinceri) di Marco Travaglio, mentre il suo imitatore Pedullà fa del sarcasmo sul fatto che se si sta troppo male per andare in tribunale, non si può neanche stare al telefono e chiamare Renata Polverini, la figliuola prodiga tornata all’ovile. Naturalmente pubblici ministeri in toga e pm di redazione osservano il corpo di Berlusconi come se fosse un soggetto autonomo, distaccato dalla persona e da quel che le succede. Come se fosse normale il fatto che un grande imprenditore e importante uomo politico fosse processato settanta volte e da un migliaio di magistrati e che, quando finisce in ospedale, fosse in genere trattato come un impostore o un ragazzaccio che bigia scuola. Per cui si guarda con stupore un pubblico ministero che, per la prima volta in venticinque anni, quanto meno non tratta da bugiardo né l’imputato né una serie di medici che hanno stilato i documenti che certificano la sua malattia. Il paradosso è che gli unici che paiono aver capito in che cosa consiste la serie, che pare una di quelle televisive della Rai o di Mediaset, dei processi Ruby, sono i più cattivi di tutti, quelli del fortunato blog Spinoza, ospitati ogni giorno dal Fatto quotidiano nella rubrica opportunamente chiamata “La cattiveria”. Ecco che cosa hanno scritto ieri. “I pm del processo Ruby, ‘B. è seriamente malato’.  Del resto è il motivo per cui lo stanno processando”. È proprio così. Non per la commissione di reati, ma per una presunta patologia (che poi si chiama attrazione fatale nei confronti delle donne). Silvio Berlusconi viene palleggiato di aula in aula, di città in città, imputato permanente dei vari filoni Ruby, Ruby bis. E il Ruby ter, che poi si è disperso in svariati rivoli e tribunali. È proprio così, cari geniacci del blog Spinoza, si inquisisce e si processa la persona, non i fatti che dovrebbero costituire reato. Infatti nel 2021 l’ottantacinquenne leader di Forza Italia viene chiamato a rispondere ancora di code processuali (assurde, possono ammetterlo anche quelli che lo detestano?) per fatti del 2010 in cui è stato imputato di concussione e prostituzione minorile e poi assolto. ASSOLTO! Lo hanno accusato di aver concusso un funzionario di Polizia che non si è mai sentito pressato in alcun modo dal presidente del Consiglio e lo ha testimoniato fin dal primo momento. Poi la prostituzione minorile non di una dodicenne, ma di una bellissima prosperosa ragazza dall’apparente età di ventiquattro-venticinque anni, ma che all’anagrafe risultava essere quasi diciottenne. E quel “quasi” stava a significare che era minorenne. Una bella ragazza di cui nessuno conosceva l’età e che veniva invitata, insieme ad altre persone, dall’incauto presidente del Consiglio, mentre i cancelli di Villa San Martino, sua residenza, erano già spiati, insieme all’ andirivieni degli invitati, dagli occhiuti uomini della Procura della repubblica di Milano. Le indagini iniziano, a insaputa dello stesso Berlusconi che sarà iscritto nel registro degli indagati solo sei mesi dopo, nel luglio del 2010. L’assoluzione arriva quattro anni dopo, con formula piena, in appello e poi in Cassazione. Proprio quando nel frattempo era scattata la tenaglia della condanna per frode fiscale. Può non essere stressato e non finire in ospedale uno trattato in questo modo? Ma Silvio Berlusconi non è uno come gli altri. È il nemico, il Caimano, il Cavaliere nero. Quindi lo si processa anche per la “malattia” sessuale. E si portano alla sbarra anche i suoi amici. Così tutti i suoi testimoni, cioè gli invitati alle feste e persino i suoi legali, sono falsi e spergiuri, oltre che un po’ magnaccia. E il processo Ruby diventa il moltiplicatore di tanti piccoli Ruby, due tre quattro eccetera. E se lui dà denaro ai cantanti che allietavano le serate o a qualche ragazza, lo fa per corromperli, per indurli a non dire la verità su quelle serate. Ma quale verità? Su quel che succedeva, scrivono i giornali. Ma che cosa succedeva, visto che lui è stato assolto dall’unico reato a sfondo sessuale, cioè la prostituzione minorile? La storia infinita continua.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il Cav subisce insulti da 30 anni. Ora va a processo per uno "scemo". Nino Materi il 16 Aprile 2021 su Il Giornale. L'ex premier scherzò su Toninelli e l'ex ministro replicò duramente. Ma adesso lo porta in tribunale. È il 2 marzo 2019 quando Silvio Berlusconi - a Potenza per sostenere in campagna elettorale la candidatura del «suo» uomo (il generale Vito Bardi) alla presidenza della Regione Basilicata - entra nel «Gran Caffè Italia» in via Pretoria (la strada dello «struscio» cittadino, nel cuore del centro storico). Gli animi sono distesi, Berlusconi come sempre è di buon umore e disponibile alle domande dei giornalisti. Dopo essersi complimentato con il pasticciere per un dolce particolarmente gradito, il leader di Forza Italia si concede ai cronisti. In quei giorni a tenere banco c'era la polemica sull'Alta velocità ferroviaria Torino-Lione, con l'allora ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture, il grillino Danilo Toninelli (primo governo Conte), scatenato del dire tutto e il contrario di tutto. E proprio una di queste «toninellate» è oggetto della domanda a Berlusconi: «Presidente la Tav si farà? Come giudica l'atteggiamento ondivago di Toninelli?». Berlusconi sorride e allarga le braccia: «La Tav si farà. Ma è ridicolo quello che si vede. Toninelli che dice: Do il via, tanto tra sei mesi posso bloccarlo. Ma dai il via a dei lavori, a delle assunzioni, a delle spese importanti per il Paese e l'Europa e fra qualche mese te lo rimangi? Ma dove vivi? Sei scemo? Toninelli è scemo». Risate generali. Caso chiuso? Macché. Toninelli, permalosissimo, decide di querelare per diffamazione Berlusconi. Sembra una barzelletta, ma non lo è; la Procura della Repubblica di Potenza ha ritenuto infatti la denuncia tanto «seria» da avviare un procedimento giudiziario. Altro che archiviazione: l'ex presidente del Consiglio ha ricevuto un decreto di citazione a giudizio presso il Tribunale di Potenza. Da qui comincerà così il tour giudiziario di Toninelli che, durante il suo tribolato mandato ministeriale, pare abbia presentato più querele per diffamazioni che proposte di legge. Va precisato come, «nell'immediatezza dei fatti» (lo «scemo» rivolto da Berlusconi a Toninelli), l'ex ministro replicò via social all'epiteto del leader di Forza Italia con un post più offensivo dell'aggettivo ora al centro della causa potentina. Del resto fra i «record» detenuti da Silvio Berlusconi ce n'è uno indiscutibile: quello del maggior numero di insulti ricevuti. Fatto salvo il diritto di satira che ha consentito a generazioni di comici di «campare» per decenni irridendo il Cavaliere, ancora oggi il leader di Forza Italia rimane nel mirino dei tanti che preferiscono gli insulti agli argomenti. Tre giorni fa, a causa del legittimo impedimento di Berlusconi, la prima udienza del processo Toninelli-Berlusconi è stata rinviata al 6 luglio. Ma l'estate potrebbe portare consiglio. L'avvocato di Toninelli sottolinea infatti al Giornale: «Confido in una risoluzione bonaria del caso». Insomma, niente processo. E «nemici» come prima.

Silvio Berlusconi, libertà di insultarlo: Massimo Fini gli dà del "terrorista", per i magistrati non c'è reato. Libero Quotidiano il 24 aprile 2021. "Delinquente, terrorista, pregiudicato, malavitoso". Così il giornalista Massimo Fini, sul Fatto quotidiano, ha definito Silvio Berlusconi. "Il Cavaliere ha gettato una minorenne nelle braccia di una putt***", scrive tra l'altro. "Pensa che tutti siano come lui, disposti a corrompere, a farsi corrompere, interessati solo al denaro", un'altra citazione di Fini sul leader di Forza Italia. Il giudice Damiana Colla però, dopo la querela del Cav, ha detto che è tutto nella norma e la richiesta di risarcimento avanzata dall'ex presidente del Consiglio dev' essere respinta. Dando così lo spunto al titolo del Fatto: "B. delinquente e pericoloso: ecco perché si può dire". Per il giudice non c'è diffamazione "perché i fatti hanno appigli nella realtà, perché vanno inseriti in un contesto, perché la critica ha standard più sfumati rispetto alla cronaca". Il tribunale civile di Roma, scrive il Giornale, trova una spiegazione o una giustificazione per tutto. "Bollare il Cav come delinquente si intende colui che delinque e il magistrato ricorda la sentenza di condanna definitiva per evasione fiscale dell'ex premier, legittimando quindi l'espressione". Si giustifica anche l'insulto terrorista. Il Cavaliere aveva definito "criminale" la sentenza di condanna che gli impediva di fare il premier: "L'affermazione di Berlusconi era evidentemente espressione di sfiducia verso la magistratura che l'aveva pronunciata. Di qui - spiega il giudice - il paragone con i brigatisti che all'epoca si sono dati alla clandestinità, considerato che le affermazioni dell'attore (Berlusconi, ndr) erano assimilabili, nei presupposti e nelle finalità, ma evidentemente non nel merito, ad un pensiero eversivo dell'ordine democratico...", scrive il giudice nella sentenza che respinge la richiesta di risarcimento. "In tale prospettiva l'aver paragonato l'attore ad un terrorista - il quale invece di darsi alla clandestinità intendeva fare il Presidente del consiglio di uno Stato a cui non crede - appare legittimo esercizio del diritto di critica giornalistica", si legge sempre nella sentenza. Nel  frattempo però Berlusconi è a processo per aver dato dello "scemo" all'ex ministro Danilo Toninelli. E alla fine Berlusconi, nella disputa con Massimo Fini, dovrà pagherà pure le spese "di lite", pari a 10.343 euro.

Stefano Zurlo per “il Giornale” il 24 aprile 2021. I l catalogo dei complimenti è strepitoso: «Delinquente», «terrorista», «pregiudicato», «malavitoso». Il ritratto di Silvio Berlusconi disegnato da Massimo Fini sul Fatto Quotidiano è una collana con perle che brillano per la loro eleganza e sobrietà. Il Cavaliere - così lo apostrofa Fini - «ha gettato una minorenne nelle braccia di una puttana». O ancora, in un altro brano sempre in punta di clava: «Pensa che tutti siano come lui, disposti a corrompere, a farsi corrompere, interessati solo al denaro». Con tanto di citazione latineggiante che capovolge San Paolo: «Omnia sozza sozzis». Si va avanti così per pagine e pagine, ma per il giudice Damiana Colla è tutto nella norma. I limiti non sono stati superati e dunque la richiesta di risarcimento avanzata dall'ex presidente del Consiglio dev' essere respinta. Anzi, come titolava ieri proprio il Fatto: «B. delinquente e pericoloso: ecco perché si può dire». Proprio come Fini nel 2018. Il vocabolario delle contumelie viene sdoganato dalla sentenza e lanciato in faccia a un protagonista della storia contemporanea italiana senza provocare nemmeno un graffio all'immagine del Cavaliere. O meglio, non c'è diffamazione perché i fatti hanno appigli nella realtà, perché vanno inseriti in un contesto, perché la critica ha standard più sfumati rispetto alla cronaca. Certo, leggendo le «requisitorie» contro Berlusconi, peraltro un vero e proprio genere letterario, ci si chiede, pur con il massimo rispetto per la libertà di stampa, dove siano questi paletti e questi confini. Ma il tribunale civile di Roma trova una spiegazione o una giustificazione per tutto. Bollare il Cav come «delinquente», per capirci, ha un suo fondamento: con tale parola «si intende colui che delinque» e il magistrato ricorda la «sentenza di condanna definitiva per evasione fiscale» dell'ex premier, legittimando quindi l'espressione. E il Berlusconi «terrorista»? Qui si passa dal «nucleo di verità» al «contesto dell'articolo» e il contesto può fare miracoli. Siamo infatti in un clima preelettorale e nel corso di una manifestazione il Cavaliere aveva definito «criminale» la sentenza di condanna che gli impediva di fare il premier: «L'affermazione di Berlusconi era evidentemente espressione di sfiducia verso la magistratura che l'aveva pronunciata». Ecco quindi, nel pezzo, il Berlusconi «terrorista». Un'esagerazione? «Di qui - spiega il giudice - il paragone con i brigatisti che all'epoca si sono dati alla clandestinità, considerato che le affermazioni dell'attore (Berlusconi, ndr) erano assimilabili, nei presupposti e nelle finalità, ma evidentemente non nel merito, ad un pensiero eversivo dell'ordine democratico...». Berlusconi non risulta abbia mai imbracciato il mitra, ma per quel che serve il parallelo regge: «In tale prospettiva l'aver paragonato l'attore ad un terrorista - il quale invece di darsi alla clandestinità intendeva fare il Presidente del consiglio di uno Stato a cui non crede - appare legittimo esercizio del diritto di critica giornalistica». Si può restare sconcertati, ma per Damiana Colla non c'è termine utilizzato negli articoli che non trovi una sua compatibilità con le regole della democrazia. E la sempre evocata continenza, quel non andare troppo in là, scagliando frasi come pietre? Proprio Berlusconi è a processo per aver dato, nientemeno, dello «scemo» all'ex ministro Danilo Toninelli. Ma anche la continenza deve avere frontiere a fisarmonica. «Quest' uomo nefasto - va giù leggero leggero Fini - questo delinquente naturale, questo corruttore di magistrati, di finanzieri, questo colossale evasore fiscale, questo specialista nella compravendita di parlamentari a suon di milioni di euro, questo truffatore ai danni di una ragazza orfana e minorenne... è ancora sempre lì. Solo Robert Mugabe o Amin Dada possono stargli alla pari, ma quelli erano dittatori». Va bene intingere nell'inchiostro dell'indignazione, ma non è un po' troppo? «Le espressioni riportate - risponde il giudice - pur graffianti, e i toni utilizzati, pur aspri, appaiono frutto di una ragionata valutazione critica dell'attore, uomo politico coinvolto in numerosi procedimenti penali». Dunque, Berlusconi pagherà pure le spese «di lite», pari a 10.343 euro.

Magistratura, il vizio di fare politica delle toghe comincia con Tangentopoli: ecco la vera storia. Francesco Carella su Libero Quotidiano il 24 aprile 2021. Il recente rinvio a giudizio dell'ex ministro dell'Interno con l'accusa di sequestro di persone in relazione alla vicenda della nave Open Arms di fatto trasforma una legittima decisione di governo in un reato penale. Vi è poco da stupirsi. Si tratta solo dell'ultimo capitolo di un conflitto fra la giurisdizione e la politica aperto da decenni e che rischia di lesionare in profondità le istituzioni liberaldemocratiche del nostro Paese. Per capirne di più, occorre partire dalla stagione della "grande slavina", quando a mezzo di un'incessante azione della magistratura in poco più di un anno, tra il '92 e il '94, finiscono sotto inchiesta, per violazione delle norme sul finanziamento pubblico ai partiti, 385 deputati e 155 senatori dell'allora maggioranza di governo. In quei mesi, in Italia accade qualcosa di unico e che non trova riscontro in alcun Paese democratico, ovvero si realizza, in seguito alle inchieste di un gruppo di magistrati inquirenti, una radicale e violenta alterazione della rappresentanza politica con l'eliminazione dalla scena pubblica di tutti i partiti che avevano contribuito alla stesura della Costituzione e alla realizzazione del miracolo italiano in forza del quale il Paese passò in pochi decenni dalle macerie del Secondo conflitto mondiale a un ruolo di primo piano fra le maggiori potenze industriali dell'Occidente. A partire da quel biennio nulla sarà più come prima. Lo svolgimento della vita politica nella sua articolazione classica scandita da "elezioni - formazione di una maggioranza - sovranità della decisione politica" verrà condizionato pesantemente nei tempi e nei modi dagli interventi delle Procure. Eppure, vi fu chi nella tempesta di quei mesi intuì che la crisi in cui versava il Paese fosse di carattere sistemico e che, come tale, richiedesse una soluzione parlamentare in luogo di quella giudiziaria. Ciò non fu possibile, principalmente a causa dell'opposizione degli eredi del Pci. Si preferì cavalcare l'onda giustizialista, consentendo un'abnorme dilatazione delle funzioni giurisdizionali, convinti di poterne trarre benefici elettorali e non solo. Del resto, timori per finanziamenti illeciti e fenomeni corruttivi ve ne erano molti nel Partito comunista e non solo per l'ingente flusso di denaro proveniente dall'Urss. Lo storico Guido Crainz in Il Paese mancato. Dal miracolo economico agli anni '80, documenta che già nel marzo '74, nel corso di una direzione, il responsabile del bilancio, Guido Cappelloni, dice di essere «molto preoccupato sulla capillarità della corruzione che coinvolge anche il nostro partito». In quell'occasione così si espresse Armando Cossutta: «C'è un inquinamento nel rapporto con le amministrazioni pubbliche nel quale c'è di mezzo l'organizzazione del partito e poi ci sono dei singoli che fanno anche il loro interesse». Preoccupazioni che vengono risolte in parte con la legge di amnistia del 1989 e in parte scegliendo di agevolare lo sviluppo di ciò che Tate e Valinder chiamano «giudiziarizzazione della politica», ossia «lo spostamento delle competenze decisionali dal legislativo e dall'esecutivo verso i tribunali». Questo, per sommi capi, il contesto storico-politico in cui maturarono i due grandi fenomeni che ancora oggi condizionano la vita pubblica del Paese: la «politicizzazione della magistratura» - con l'inevitabile «perdita di quell'immagine di neutralità senza la quale non può esservi fiducia nella giustizia» - e la strumentalizzazione delle inchieste da parte della sinistra, al fine di eliminare quegli avversari che sul terreno politico non si è in grado di sconfiggere. È accaduto con il leader socialista Bettino Craxi e poi con Silvio Berlusconi, mentre ora si cerca di ripetere l'operazione nei confronti di Matteo Salvini. L'Italia scivola, in tal modo, verso una «democrazia giudiziaria». Uscirne sarà impresa difficile.

Storia e congiure. Così è nato l’uso politico della giustizia: da D’Artagnan e l’arresto di Fouquet ai giorni nostri. Alessandra Necci su Il Riformista il 13 Aprile 2021. “Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini e vi troverò materiale sufficiente a farlo impiccare”. Questa frase, pronunciata dal cardinale Richelieu, riassume il senso della giustizia politica. O meglio, dell’uso politico e strumentale che il potere può fare della giustizia. Non a caso descrive un’attitudine valida sotto ogni regime e in ogni epoca. Compresa quella attuale, come ben sa chi conosce le vicende che hanno accompagnato gli ultimi trent’anni della nostra storia nazionale. Certo oggi la pena di morte non esiste più, ma ci sono molti modi di infliggere una condanna alla morte civile, a una forma di ostracismo in patria o addirittura alla damnatio memoriae. Bastano quelle poche righe estrapolate di cui parlava Richelieu. Poiché, come diceva Benedetto Croce, “la storia è sempre storia contemporanea”, nel passato si trovano esempi indiscutibili di una tendenza che attraversa i secoli e ha qualcosa a che fare con una forma di assolutismo, di potere che rifiuta ogni controllo, respingendo quella bilancia che garantisce equilibrio alla democrazia. E per la quale strumento irrinunciabile è – o dovrebbe essere – una stampa libera e coraggiosa, mossa dal desiderio di cercare la verità e non la semplice conferma di pretestuosi teoremi. Né tanto meno dalla vocazione interessata a sostenere gruppi più o meno forti. Un archetipo in tal senso è Nicolas Fouquet, Sovrintendente delle Finanze di Mazzarino e Luigi XIV. Nato a Parigi nel 1615, proviene dalla noblesse de robe, la “nobiltà di toga” che si è arricchita con il commercio e poi ha acquistato per i propri rampolli delle cariche pubbliche. Laureato in diritto alla Sorbona, viene nominato grazie a Richelieu consigliere al Parlamento di Metz, quindi “relatore ai ricorsi”. Nel 1642 il “gran cardinale” muore e Giulio Mazzarino prende il suo posto come Primo ministro. Ė lui, insieme ad Anna d’Austria, a governare la Francia in nome del piccolo Luigi XIV. Durante la reggenza, però, i Grandi si fanno più facinorosi; il Parlamento di Parigi (composto da magistrati, non da parlamentari), che amministra la giustizia per conto del sovrano, diviene più potente e geloso delle proprie prerogative. Dopo poco, inizia la ribellione conosciuta come “Fronda”. Uno dei problemi maggiori, per la corona, è trovare denaro, necessario per fare la guerra, difendersi, pagare amici e nemici, distribuire prebende, mantenere il re e la corte. Il sistema finanziario è anacronistico, incapace di “una previsione di spesa”, ovvero quella che chiameremmo una finanziaria. Non esiste una Banca di Francia, né un vero ministero del Tesoro: le entrate non sono sufficienti, per cui il sovrano è spesso costretto a ricorrere ai banchieri, che gli prestano i soldi a tassi elevati. Può succedere che la monarchia non sia considerata affidabile; allora i banchieri concedono il prestito a colui che offre maggiori garanzie ed è quest’ultimo a dare i soldi al re, correndo grandi rischi ma ricavandone ampi utili. In questa “finanza creativa”, dove non mancano neppure i “titoli spazzatura”, le tasse vengono mangiate con anni di anticipo ed è necessaria un’abilità da prestigiatore perché il sistema non collassi. Mentre la guerra civile impazza, Mazzarino è costretto due volte all’esilio; la regina e il re bambino alla fuga da Parigi. Fra colpi di scena ben descritti da Alexandre Dumas, un uomo si impone, rendendosi insostituibile nel reperire le risorse necessarie allo Stato e poi nel porre le condizioni per la sconfitta del Parlamento: Nicolas Fouquet. Sempre lui aiuta il cardinale ad ammassare un’immensa fortuna. Per premio, nel febbraio 1653 viene nominato Sovrintendente delle Finanze. Inizia la fase di apogeo dello “Scoiattolo”: l’emblema dei Fouquet, infatti, è uno scoiattolo insieme alla divisa Quo non ascendet, “Fino a dove non salirà”? Un motto imprudente, ma che si addice al proteiforme, intelligente, abilissimo Nicolas, ovvero Monsieur le Surintendent. Fastoso, brillante, generoso, visionario, gran signore, colto, protettore delle arti, estimatore delle belle donne, capace di geniali intuizioni, Fouquet “il Magnifico” costruisce in quegli anni il castello di Vaux-le-Vicomte. In giro si dice che “ospiti il Perù a casa sua”: risponde solo al re, le spese di questi passano per lui. Ė Fouquet che firma per autorizzare le ordinanze di pagamento, sempre lui quello a cui i banchieri prestano i soldi. Inoltre, è procuratore generale del Parlamento. C’è però un rovescio della medaglia: tanta luce, tanto consenso gli attirano invidie feroci. Fra coloro che lo detestano c’è un oscuro commesso di Mazzarino, Jean-Baptiste Colbert, che vuole prenderne il posto. Nemmeno il cardinale, che gli deve tutto, lo ama davvero ma si guarda bene dal palesarlo. Si limita a porre le premesse per la caduta successiva, diffamandolo presso il re. Lo spartiacque è quel 9 marzo 1661 in cui “l’italiano” muore. Per Luigi XIV, ancora lontano dall’essere il re Sole, è il momento della “presa di potere”. Come dice lui stesso, “la faccia del teatro cambia”. Fouquet non se ne rende conto, anzi spera di essere nominato Primo ministro e non ascolta le voci allarmanti. Nella manciata di mesi in cui si consuma la sua perdita, Colbert riesce a “contaminare” il re con il suo odio feroce, convincendolo che il Sovrintendente è troppo potente, sa troppe cose e va eliminato. Luigi XIV, dal canto suo, ha dimenticato le prove di lealtà che questi gli ha dato e ne patisce la superiorità, i talenti. Inoltre, l’illecito arricchimento di Mazzarino necessita un capro espiatorio: non si può fare un processo al cardinale defunto, ma a Fouquet sì. La carica in Parlamento resta uno dei pochi “scudi di protezione”, poiché equivale a una “immunità”, tuttavia Colbert convince Fouquet a venderla, con la scusa che il sovrano ha bisogno di soldi. L’ingenuo cade nella trappola, manda il ricavato a Luigi XIV e questi, fregandosi le mani, esclama: “Si è messo in trappola da solo!”. L’ultima pennellata viene data quando il re va alla meravigliosa festa che il 17 agosto 1661 il Sovrintendente offre in suo onore a Vaux-le-Vicomte. Commenterà Voltaire: “Alle sei di pomeriggio Fouquet era il re di Francia, alle due del mattino non era più nulla”. Il 5 settembre viene arrestato a Nantes dal luogotenente dei moschettieri d’Artagnan. Inizia così un lunghissimo calvario giudiziario, che lo porta a peregrinare per anni in diverse carceri – “carcerazione preventiva” – senza nemmeno sapere di cosa sia accusato. Nel frattempo Colbert falsifica le prove, assiste senza averne diritto alle perquisizioni, avalla le peggiori nefandezze. Quando finalmente comincia il processo, la “Camera di giustizia” scelta per giudicare l’ex Sovrintendente è stata composta dai suoi nemici, i testimoni vengono corrotti o intimiditi, sui giudici si esercita una forte pressione, l’opinione pubblica viene montata con articoli scandalistici, false rivelazioni e delazioni ad arte. I capi di imputazione sono tantissimi ma alla fine si riducono a peculato e lesa maestà. Gli abusi commessi dalla corona sono tali che alla fine l’opinione pubblica e persino i giudici si convincono del fatto che Fouquet è soprattutto un capro espiatorio. E così, invece di condannarlo a morte come vorrebbe Luigi XIV, i magistrati optano per il bando a vita, dichiarandolo colpevole di peculato. Folle di rabbia, il re avoca a sé la sentenza, smentendo i giudici scelti da lui stesso, e la muta nel carcere a vita e nel sequestro dei beni. La sua vendetta si abbatte su quei magistrati che non sono stati abbastanza compiacenti e che cadono in disgrazia. Lo Scoiattolo viene lasciato in carcere a Pinerolo per circa vent’anni, nonostante le infinite pressioni dei letterati e di molti importanti personaggi perché venga liberato. Lì morirà, nel 1680. Commenta Saint-Simon: “Monsieur Fouquet… pagò i milioni che il cardinale Mazzarino aveva preso, l’invidia di Le Tellier e Colbert, un po’ troppa galanteria e splendore con 34 anni di carcere a Pinerolo, perché non avevano potuto fargli di peggio”. (In realtà gli anni di carcere erano 19, ndr). Nulla di nuovo sotto il sole, del resto. Era già capitato, sarebbe capitato ancora.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 12 aprile 2021. Per favore, giù le mani da Silvio Berlusconi. Sono trascorsi quasi trent' anni dalla discesa in politica del Dottore e siamo ancora qui a leggere dei suoi processi dovuti a questioni per noi assurde. Mi dicono che egli sia ancora alle prese con la causa Ruby, una ragazza che spesso era ospite ad Arcore pur non avendo ancora compiuto 18 anni, benché nè dimostrasse 25. Non ho ancora ben capito in che cosa consistano le accuse verso il grande imprenditore. Ma è un fatto che egli sia tuttora costretto a difendersi come si trattasse di un criminale, mentre posso testimoniare che l'uomo è sempre stato di una correttezza assoluta. Tiziana Parenti è stata dal marzo 1993 sostituto procuratore del pool milanese che si occupò dell' inchiesta Mani Pulite: in particolare, seguì l'indagine sulle cosiddette "tangenti rosse" (quelle riferibili al Pci). Dopo aver lasciato la magistratura nel 1994 e l' elezione al Parlamento con Forza Italia, ha intrapreso la professione di avvocato Mi risulta che lo vogliano incastrare perché con le donne con cui si accompagnava era generoso: le aiutava anche economicamente, ma senza esagerare. Se i ricchi non fossero capaci di amministrarsi oculatamente non sarebbero ricchi. So che a Villa San Martino periodicamente si organizzavano cene. Attorno al tavolo sedevano una ventina di persone composte, mangiavano le solite cose, lo dico perché io c' ero e posso testimoniare: pasta tricolore, rosso pomodoro, verde pesto e bianca. Cucina patriottica. Il secondo non me lo ricordo perché non lo mangiavo: ero già inappetente. Mentre le posate entravano in azione, i commensali venivano allietati dalla musica partenopea di Apicella e di un altro il cui nome mi sfugge. Ebbene, non ho mai visto nessuno che si sia tolto le mutande, cosa che se fosse avvenuta non mi sarebbe mai uscita di mente. Se c' era una particolarità memorabile di quelle sedute gastronomiche era la lunghezza: non finivano mai. Talora Berlusconi intonava una canzone composta da lui o mutuata dal repertorio francese. Alle ore 23 quasi tutti i convenuti, io compreso, se ne andavano. Mai assistito a scopate di gruppo e neppure di coppia. Quand' anche fossero avvenute non mi sarei scandalizzato, ognuno di noi fa ciò che gli garba. Non ho capito perché Silvio sia stato perseguitato dalla giustizia per questioni sessuali dubbie a cui nessuno ha mai assistito. Incomprensibile. Ridicolo. Ma questo è niente, perché qualche giovinetta può aver approfittato della situazione per portare a casa qualche euro. Altro mi stupisce. Se mi passate il termine, i due orchestrali so che non venivano retribuiti per le prestazioni professionali, erano semplici ospiti a cui il padrone di casa riconosceva una specie di rimborso spese per via della trasferta, vitto e alloggio. Adesso scopro che l'ex presidente del Consiglio, l'ultimo eletto dal popolo, è indagato anche per aver corrisposto ad Apicella e al collega un piccolo compenso risarcitorio. Si dà il caso che il Cavaliere debba difendersi in tribunale anche a causa della sua generosità, anzi signorilità. Se poi teniamo conto che egli ha subito una umiliante condanna anche per una vicenda che lo vedeva estraneo, ovvero una sorta di evasione fiscale della impresa di cui non era responsabile, facendo il politico e non più il dirigente di azienda, c'è da trasecolare. Ma c'è poco da fare: in Italia la giustizia non funziona, lo dimostrano i 30 mila detenuti innocenti risarciti dallo Stato, coi nostri soldi, mentre le persecuzioni sono all'ordine del giorno. Io sono stato querelato dal giudice Esposito della Cassazione, che condannò il Berlusca, per un articolo uscito sul sito di Libero da me non scritto. Questo per dire come gira la giostra. Ogni tanto dalla procura di Milano ricevo avvisi di garanzia dato che mi scambia per direttore responsabile quando non lo sono. Pertanto non mi meraviglio che Silvio, ben più importante di me, venga gettato nel tritacarne giudiziario per autentiche scemenze che gridano vendetta. Però non bisogna esagerare. La si smetta di torturare un signore di 84 anni che all'Italia ha fatto solo del bene, evitando che i comunisti si impossessassero del Palazzo. Personalmente a Silvio devo solo gratitudine, come tanti connazionali. Egli se non altro merita di essere lasciato in pace. È un padre della patria e non della corruzione.

Silvio Berlusconi, "quando disse no": Amadeo Laboccetta, in un libro tutta la verità sul golpe giudiziario. Amedeo Laboccetta su Libero Quotidiano il 06 aprile 2021. Un giorno di qualche anno fa, l'allora direttore del Tempo, Gianmarco Chiocci, mi fece intervistare per farmi raccontare quel mare di vicende opache che avevano visti protagonisti l'ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il vero autore del colpo di Stato contro Berlusconi, ed il ruolo del suo killer, Gianfranco Fini. Quell'intervista colpì molto il Cavaliere, tant' è che ricevetti nei giorni successivi una sua cordialissima telefonata. Mi invitò a raggiungerlo a Palazzo Grazioli, dove ci intrattenemmo per oltre tre ore. Fu in quella occasione che mi invitò a scrivere un libro per raccontare tutta la verità su quel che avevo visto e sentito in quei tormentati anni che portarono al colpo di Stato in Italia. Ero titubante. Non ero uno scrittore. Ma lui insistette vigorosamente. Telefonò durante un successivo incontro a sua figlia Marina, per chiedere una edizione speciale della Mondadori. Mi lasciai convincere. Cominciai a scrivere. Incontrai ex colleghi e tanti amici che avevano con me condiviso quei complessi momenti. Raccolsi prove inconfutabili e precise testimonianze. Fu un lavoro massacrante. Ma lo svolsi con puntualità e precisione. Direi un lavoro scientifico. Quando il libro era giunto quasi alla conclusione Berlusconi volle onorarlo con una sua bellissima prefazione. Che conservo gelosamente. Ricordo che volevo intitolare il mio libro "Intrigo a Palazzo". Ma il Cavaliere preferiva "Una storia Italiana". Vinse lui. Oramai era fatta. Il decollo era vicino. Me lo comunicò un entusiasta Cavaliere, sempre nel suo studio di Grazioli, davanti ad un fantastico gelato artigianale. Berlusconi ne è ghiotto. Ricordo che giunsero per salutarlo in quel che per me era uno storico giorno, Fedele Confalonieri, Niccolò Ghedini ed il mio amico Maurizio Gasparri, che da me era stato sempre informato, insieme al compianto Matteoli, su tutti i passaggi di quel mio nuovo impegno. Eravamo nel luglio del 2014. Ma il mio entusiasmo era destinato a durare poco. Dopo circa un mese, Berlusconi mi pregò di raggiungerlo urgentemente a Roma. Mi disse con tono cupo che lui era seriamente preoccupato per me. Che quel libro coraggioso poteva espormi ad enormi rischi, e mi chiedeva di riporlo in un cassetto. Ovviamente la presi molto male. Provai al tempo stesso rabbia e delusione. Ma lui fu fermo anche se lo fece con garbo e stile. Per me non era stato facile raccontare una valanga di episodi, ricostruire giorno dopo giorno quei terribili momenti. Compresa la famosa, agghiacciante telefonata, ascoltata in viva voce, tra Fini e Napolitano. Avevo scritto quel libro non solo per far conoscere la verità rispetto al golpe che ha cambiato la storia della nostra nazione, ma anche per liberarmi di un peso che non potevo più tenermi dentro. Quel libro non è stato mai smentito. Nessuno mai mi ha querelato. Ma non è stato mai pubblicato dalla Mondadori. Me ne tornai a Napoli con un profondo magone. Chiesi consiglio a molti. Tutti mi invitarono a lanciare il cuore oltre l'ostacolo. A provare con un'altra casa editrice. Portai in visione il libro a Marcello Veneziani nella sua magica casetta di Talamone. Il mio fraterno amico me lo restituì dopo solo 24 ore con una stupenda prefazione. La piccola ma combattiva Controcorrente del compianto Pietro Golia cominciò a studiare il libro. Nel dicembre 2015 con il titolo "Almirante Berlusconi Fini Tremonti Napolitano", e con sotto titolo "La vita è un incontro", andammo in stampa. La mia creatura fu presentata pochi giorni prima di quel Natale 2015 nei saloni dell'hotel Parker di Napoli, con Golia e Veneziani. Fu una serata magica. Le prime mille copie presero il volo. Il primo quotidiano che dette notizia del mio libro fu Libero con un pezzo che partiva dalla prima pagina a firma di Pierangelo Maurizio. Poi a seguire arrivarono il Tempo, il Giornale, il Mattino, il Roma... I giornaloni nazionali se ne guardarono bene dall'affrontare il tema.E le tv, salvo alcune, non furono da meno. All'epoca Giorgio Napolitano era ancora nel pieno della sua potenza. Tanto che fu riconfermato Presidente. Meglio non rischiare. Dopo quella serata a Napoli ricevetti telefonate da amici da tutta Italia per organizzare altre presentazioni. Da Berlusconi il più assoluto silenzio. Ma dopo pochi mesi si fece risentire. Nei primi di giugno del 2016 venne a Napoli per una manifestazione al Teatro Politeama. I suoi referenti mi chiesero di esser presente in sala. Il Cavaliere esordì con un ringraziamento nei miei confronti. Mi ringraziò pubblicamente per il mio coraggio e per aver voluto portare avanti una grande battaglia per la verità. Il giorno dopo ripeté la scena in un comizio ad Aversa. Nei giorni a seguire, ospite da Barbara D'urso, tornò sul mio libro. Lo fece anche a Porta a Porta. Ma il destino cinico era in agguato. Dopo qualche settimana da quella sua missione partenopea, il Cavalier Berlusconi fu colpito da gravissimi problemi al cuore. A questo punto penso proprio che dovrò scriverne un altro. 

Silvio Berlusconi contro la magistratura: "In 27 anni 86 processi, infiltrazioni ideologiche e opacità del sistema di potere". Libero Quotidiano il 27 marzo 2021. "In questi 27 anni, dieci dei quali al lavoro come presidente del Consiglio, ho subito ben 86 processi, per un totale di 3672 udienze": Silvio Berlusconi racconta le ingiustizie subite nel corso degli anni in un'intervista al Giornale e invoca la separazione dei poteri su cui si fonda ogni società liberale. A tal proposito aggiunge: "Da molti anni ho subito e denunciato le infiltrazioni ideologiche e le opacità del sistema di potere che caratterizzano una parte della magistratura, alcune procure e i vertici delle correnti organizzate". Il leader di Forza Italia, comunque, non se la prende con tutti i magistrati. Anzi crede che si debba fare una distinzione: "Tutto questo non riguarda i tanti magistrati che subiscono questo sistema e ne sono vittime, anzi getta un immeritato discredito anche sul lavoro di giudici integerrimi e coraggiosi". Secondo Berlusconi, quello che gli è accaduto non solo ha rovinato la sua vita per oltre 20 anni, ma ha anche "arrecato pena e danni ai miei familiari, ai miei amici, alle aziende che ho fondato", continua nell'intervista. E non è tutto. Perché secondo l'ex premier le ingiustizie subite hanno finito per danneggiare anche "i cittadini italiani, gli elettori di tutti gli schieramenti politici, perché ha alterato la rappresentanza democratica". Parlando dei numerosi processi subiti, poi, il leader azzurro spiega: "Mettendoli tutti in fila, si avrebbe un processo infinito, con udienze tutti i giorni, per dieci anni. Neanche Kafka avrebbe immaginato un incubo come questo. Credo siano un record assoluto, certamente in Italia e probabilmente nel mondo". Insomma, Berlusconi al fianco di Marta Cartabia per una immediata e profonda riforma del sistema giudiziario.

«Quegli 86 processi e il mio incubo kafkiano. A Cartabia chiedo di cambiare passo». Silvio Berlusconi: «Da un ministro competente come la professoressa Cartabia mi aspetto scelte semplicemente in linea con il principio costituzionale del giusto processo». Il Dubbio il 28 marzo 2021. «Ho subìto ben 86 processi, per un totale di 3672 udienze. Mettendole tutte in fila, si avrebbe un processo infinito, con udienze tutti i giorni, per dieci anni, senza soste neppure a Natale. Si rende conto di cosa significano queste cifre? Neanche Kafka avrebbe immaginato un incubo come questo. Credo siano un record assoluto, certamente in Italia e probabilmente nel mondo». Silvio Berlusconi si racconta in un’intervista al Giornale e si rivolge alla guardasigilli Marta Cartabia per invocare un cambio di passo netto sulla Giustizia. «Siamo consapevoli – spiega il Cav – che in materia di giustizia ci sono sensibilità diverse fra forze politiche che oggi collaborano ma che in circostanze normali sarebbero certamente avversarie. Io credo però che proprio da questa situazione anomala possano nascere le condizioni – se tutti agiranno con senso di responsabilità – per gettarci alle spalle alcuni dei veleni che hanno caratterizzato gli ultimi 30 anni della vita pubblica italiana. Da un ministro competente come la professoressa Cartabia mi aspetto scelte semplicemente in linea con il principio costituzionale del giusto processo».

"È una giustizia malata: fermiamo questi veleni". Il Cavaliere: "Da anni denuncio le infiltrazioni ideologiche tra le toghe e le opacità del sistema di potere che caratterizzano parte delle magistratura". Alessandro Sallusti - Sab, 27/03/2021 - su Il Giornale.

Presidente Berlusconi, Il libro Il Sistema racconta un'Italia sconosciuta al grande pubblico. A lei che effetto ha fatto leggerlo, immaginava che la rete da lei stesso più volte denunciata fosse così estesa e profonda?

«Non mi ha stupito, proprio perché da molti anni ho subíto e denunciato le infiltrazioni ideologiche e le opacità del sistema di potere che caratterizzano una parte della magistratura, alcune procure e i vertici delle correnti organizzate. Però fa molta impressione leggere queste stesse cose denunciate da chi ne è stato protagonista. L'ottimo libro-intervista che Lei, direttore, ha scritto con il giudice Palamara mette in luce un sistema che contraddice i cardini stessi dello stato di diritto, la terzietà della magistratura e la separazione dei poteri su cui si fondano le società liberali. Tutto questo non riguarda i tanti magistrati - sono una larga maggioranza - che subiscono questo sistema e ne sono vittime, anzi getta un immeritato discredito anche sul lavoro di giudici integerrimi e coraggiosi. Per questo credo sia un dovere morale e civile fare chiarezza in tutte le sedi competenti. Quello che mi è accaduto non ha rovinato la vita per oltre vent'anni solo a me ma ha arrecato pena e danni ai miei familiari, ai miei amici, alle aziende che ho fondato. Soprattutto ha danneggiato i cittadini italiani, gli elettori di tutti gli schieramenti politici, perché ha alterato la rappresentanza democratica».

Secondo Palamara lei era nell'obiettivo della magistratura quasi a prescindere: «Se torna Berlusconi - dice ricordando la vigilia delle elezioni politiche del 2008 stravinte dal Centrodestra - dobbiamo tornare tutti in campo per fermarlo». Per capire meglio di che cosa stiamo parlando può ricordarci i numeri e i costi dell'offensiva che ha subito?

«Caro direttore, come direbbe Dante Tu vuo' ch'io rinovelli disperato dolor che 'l cor mi preme, già pur pensando, pria ch'io ne favelli. Mi fa male solo a pensarci. In questi 27 anni, dieci dei quali al lavoro come presidente del Consiglio a tutt'oggi sono l'ultimo premier arrivato a Palazzo Chigi come leader eletto dalla maggioranza che aveva vinto le elezioni ho subìto ben 86 processi, per un totale di 3672 udienze. Mettendole tutte in fila, si avrebbe un processo infinito, con udienze tutti i giorni, per dieci anni, senza soste neppure a Natale. Si rende conto di cosa significano queste cifre? Neanche Kafka avrebbe immaginato un incubo come questo. Credo siano un record assoluto, certamente in Italia e probabilmente nel mondo. Ogni udienza poi ha significato per me diverse ore, normalmente un intero pomeriggio, impegnate con i miei avvocati per prepararla. Non oso dirle quanto mi è costato tutto questo, e a quanto sono ammontate le parcelle dei 105 avvocati e dei 30 consulenti di parte che ho dovuto impiegare. Farebbe troppa impressione. A questi costi si devono aggiungere i 550 milioni che sono stato costretto a versare a De Benedetti a seguito di un processo sulla Mondadori (di cui il 53% detenuto dalla mia famiglia ha un valore in borsa di poco più di 200 milioni!), processo che continuo a ritenere ingiusto».

Offensiva che nonostante gli onori postumi che sta ricevendo dai suoi avversari politici non accenna a placarsi, vedi i processi in corso sul caso Ruby nati da un processo - il caso Ruby - in cui lei è stato assolto in via definitiva per non aver commesso il fatto.

«In effetti su questa vicenda ci sono ancora dei processi aperti. Si vorrebbe dimostrare che io abbia corrotto dei testimoni per indurli a nascondere la verità su quello che sarebbe accaduto nelle famose cene a casa mia. È una costola del cosiddetto caso Ruby, che come lei ha ricordato si è concluso con la mia piena assoluzione. È una storia che forse merita di essere raccontata».

Come si svolgevano queste serate? Sono circolate descrizioni quasi morbose, si è parlato del famoso bunga-bunga.

«Come sa benissimo chiunque mi conosca, ho sempre amato la compagnia, mi piace ricevere ospiti nelle mie case e farli stare bene. In quelle serate si cenava, si faceva musica, si parlava di tutto, i più giovani qualche volta ballavano. (Io no, perché per un antico fioretto sono impegnato a non ballare!) Tutto qui. Queste sono le famose serate sulle quali si è favoleggiato. E il bunga-bunga era semplicemente una storiella che mi aveva raccontato Gheddafi in occasione della sua festa del Re dei Re sul destino speciale capitato a suoi collaboratori rapiti dall'unica tribù che non gli era sottomessa. Solo questo, ma molto divertente».

Eppure proprio gli ospiti di queste serate sarebbero stati corrotti per mantenere il silenzio.

«Fra i partecipanti a queste serate naturalmente c'erano miei amici. Per esempio, per accompagnare le cene con un po' di musica il mio amico Danilo Mariani, pianista, e il mio amico Mariano Apicella, ottimo cantante e fantastico musicista con il quale ho composto addirittura 130 canzoni. Entrambi venivano da me gratificati con 3.000 euro al mese prima di questi fatti (da 10 anni il primo, da 15 anni il secondo) ed hanno continuato ad esserlo sino ad ora con gli stessi 3.000 euro ogni mese. Denari su cui hanno ovviamente pagato le tasse ed erano quindi alla luce del sole. Avrei dovuto non incontrarli più? Perché mai? E poi, avrei avuto bisogno di pagare degli amici per ottenere un loro favore? Eppure secondo l'accusa queste gratificazioni sarebbero la prova di una corruzione per farli mentire in tribunale. Lo stesso vale per diverse ragazze, che coinvolte nello scandalo mediatico-giudiziario su queste cene si erano viste abbandonate dal fidanzato, si erano viste venir meno la possibilità di trovare un lavoro e quella di ottenere una casa in affitto. Mi sono sentito in dovere di aiutarle, perché la loro reputazione era risultata gravemente danneggiata per il solo fatto di essere state ospiti del Presidente del Consiglio. Sono state fatte oggetto delle insinuazioni più volgari e contro di loro è stato eretto un vero e proprio cordone sanitario nel mondo della moda, dello spettacolo e della televisione. Qualcuna di loro si rivolse a me talmente disperata da minacciare il suicidio. Questa è l'Italia, questo è quello che intendo quando parlo di persecuzione. E io ho ritenuto mio dovere dare una mano anche a loro».

Alcuni magistrati sostengono però che proprio qui sta la corruzione... chi ha beneficiato di queste «gratificazioni» e di questi aiuti le avrebbe garantito in cambio il silenzio su quanto avveniva davvero in quelle serate.

«Ma le pare possibile? Tutti i versamenti sono stati fatti in forma esplicita, senza mai nasconderlo. Vi sono molteplici bonifici bancari perfettamente tracciabili. Lei crede che se avessi mai voluto corrompere qualcuno lo avrei fatto in questo modo? Così, pubblicamente, in modo scoperto? Chi dice questo oltraggia non soltanto la mia onorabilità, ma anche la mia intelligenza. Non sarei un criminale, sarei un pazzo incosciente se avessi agito così, se mi fossi reso colpevole di un reato grave, il reato di corruzione semplicemente per evitare dei racconti su miei comportamenti magari criticabili ma certamente non classificabili come reati. Il fatto che qualche Pm si ostini a sostenere questa tesi è davvero assurdo e incomprensibile».

Palamara svela che il partito delle toghe aveva arruolato in segreto Gianfranco Fini per mettere in difficoltà il suo governo. Possibile che non se ne fosse accorto?

«Guardi, io sono una persona leale, e per natura credo nella buona fede e nella lealtà delle persone. Per me anche in politica la parola data ha un grande valore, così come la coerenza con la propria storia e con le proprie idee. Forse è un approccio ingenuo, non da politico esperto, ma non intendo cambiarlo. Gianfranco Fini si considerava un professionista della politica a differenza di me - e purtroppo ha dimostrato di esserlo. Su di lui non voglio aggiungere altro, è già stato giudicato dagli elettori e dalla storia».

Nel libro si parla più volte della condivisione - quasi una copertura - del Quirinale guidato da Giorgio Napolitano della politica giudiziaria messa in campo dal Sistema che manovrava contro di lei. Eppure Forza Italia votò per la sua rielezione a capo dello Stato....

«Vede, direttore, io ho anche quello che è un altro difetto, in politica. Quello di agire sempre in buona fede. Quella volta il Parlamento era paralizzato e l'elezione del capo dello Stato sembrava impossibile. Il candidato concordato con noi dell'opposizione, quel grande galantuomo recentemente scomparso che era Franco Marini, fu battuto dai franchi tiratori, che poi impallinarono anche il candidato proposto dalla sinistra, Romano Prodi. Di fronte alla paralisi, mancando la possibilità di raggiungere un accordo su altre figure che avessero la statura, il prestigio e l'autorevolezza per salire al Quirinale, accettammo la proposta del Pd di un secondo mandato al presidente Napolitano. Da lui mi dividevano non soltanto la storia e la cultura politica, opposte alla mia, ma anche una serie di vicende negli anni dei miei governi. Tutto questo però rientrava nel dissenso politico: non conoscevo e mai avrei potuto immaginare il ruolo attivo di Napolitano contro di me in una serie di manovre giudiziarie per danneggiare il presidente del Consiglio e il leader politico che aveva vinto le elezioni. Il mio profondo rispetto istituzionale per il Capo dello Stato mi impediva anche solo di prendere in considerazione quelle che consideravo dicerie. Negli anni purtroppo sono giunte invece autorevoli conferme, l'ultima delle quali nelle affermazioni di Palamara. Sono stato ingenuo? Forse sì. Ma sono fiero di credere nelle istituzioni anche quando questa può apparire un'ingenuità».

L'unica sentenza di condanna da lei subita, Presidente, quella dell'agosto 2013 per frode fiscale, è ancora avvolta nel mistero. Lei ha capito che cosa intendeva uno dei giudici, il dottor Ercole Aprile, quando si lasciò scappare che in «camera di consiglio ho visto cose che voi umani non potete immaginare»?

«Non so esattamente cosa intendesse il dottor Aprile, ma so che quella sentenza, l'unica condanna su 86 processi, è viziata da tante e tali anomalie che persino il Giudice relatore l'ha sconfessata. Confido che la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo farà finalmente giustizia su questa vicenda. In sintesi, sono stato accusato di una frode fiscale che non è mai avvenuta, ma che comunque non avrei potuto commettere io, visto che nel 1994 all'atto della mia discesa in campo avevo abbandonato tutte le cariche imprenditoriali e dirigenziali e non mi occupavo più in alcun modo delle aziende che avevo fondato. A riprova dell'inconsistenza di tutta la faccenda basti considerare che tutti i dirigenti del gruppo Fininvest che avevano i poteri loro sì - per commettere materialmente il reato sono stati giustamente assolti».

Le cito un passaggio del racconto di Palamara sulla sentenza Lodo Mondadori che le impose di versare 750 milioni a Carlo De Benedetti: Quella cifra apparve anche a noi oggettivamente esagerata ma dovevamo stare uniti attorno al giudice Mesiano... si stava dissanguando Berlusconi per di più a vantaggio dell'icona della sinistra Carlo De Benedetti.... Che effetto le fa?

«Il senso di chi ha dovuto arrendersi ad una profonda, totale ingiustizia, che ha danneggiato non solo me e la mia famiglia, ma anche una grande azienda patrimonio del Paese. Ho sempre considerato questa sentenza come qualcosa di infondato nel merito e illogico nell'entità. Per la verità, in sede di appello la somma che siamo stati condannati a pagare è stata ridotta a soli 550 milioni, una cifra comunque assurda, persino se avessimo avuto torto. La mia famiglia possedeva (e ancora possiede) il 53% della Mondadori, stimato in borsa poco più di 200 milioni. Meno della metà dell'indebito indennizzo che siamo stati costretti a versare a De Benedetti!».

Perché in tanti anni di governo il centrodestra non è riuscito a riformare il sistema giustizia?

«Alcuni nostri alleati lo hanno reso impossibile. Mi dissero chiaramente che avrebbero fatto cadere il governo se avessimo varato una riforma della giustizia sgradita all'Associazione nazionale magistrati. Quella di cui è stato a lungo Presidente proprio il dottor Palamara. Il Sistema che lui ha descritto ha condizionato la politica italiana, compresi certi nostri alleati, per tutti gli anni della Seconda repubblica».

Crede che la riforma potrà venire dal Governo Draghi?

«Questo è un governo di emergenza nato da una situazione di emergenza. Si basa sulla collaborazione fra forze politiche molto diverse tra loro come condizione per prendere decisioni rapide al fine di uscire dall'emergenza sanitaria ed economica legata alla pandemia. Noi intendiamo collaborare lealmente perché crediamo in questo governo e sappiamo che non ha alternative praticabili. Siamo consapevoli che in materia di giustizia ci sono sensibilità diverse fra forze politiche che oggi collaborano ma che in circostanze normali sarebbero certamente avversarie. Io credo però che proprio da questa situazione anomala possano nascere le condizioni se tutti agiranno con senso di responsabilità per gettarci alle spalle alcuni dei veleni che hanno caratterizzato gli ultimi 30 anni della vita pubblica italiana. Da un ministro competente come la professoressa Cartabia mi aspetto scelte semplicemente in linea con il principio costituzionale del giusto processo».

Gli anti-berlusconiani irriducibili rileggano Palamara. Il giornalista Furio Colombo chiede per il Cavaliere l'oblio. In nome di una giustizia ingiusta. Vittorio Sgarbi - Mar, 16/03/2021 - su Il Giornale. Con una fiducia cieca in un una giustizia marcia, il mio amico Furio Colombo scrive sul Fatto quotidiano l'ennesimo articolo su Silvio Berlusconi, rimpiangendo che non sia passato per le patrie galere, e che anzi venga scortato dai carabinieri, «riceva il saluto marziale e metallico dei corazzieri», che molti militari di molte armi si irrigidiscano al suo entrare e al suo uscire con il loro saluto a questa autorità impropria ma resistente. Potrebbe essere plausibile se, negli stessi giorni in cui Colombo legge il libro di Giuseppe Pesce Il lato B, centinaia di migliaia di italiani non avessero acquistato e letto il libro di Sallusti con Palamara in cui si chiariscono molti aspetti inquietanti sulla condanna di Berlusconi. Avendo lavorato per Agnelli, diffamato sul suo stesso giornale in un articolo di Tomaso Montanari, Colombo non può non sapere quale fu il rapporto di sudditanza dello Stato nei confronti di Agnelli, e quali fossero le incriminazioni di cui avrebbe potuto rispondere la classe dirigente della Fiat, parzialmente risparmiata dai magistrati. Ma soprattutto, sulla base dei paradossi giudiziari, come carabinieri e corazzieri abbiano salutato nel corso dei suoi mandati parlamentari Palmiro Togliatti, personalità politicamente certo più significativa di Berlusconi, e certamente responsabile della morte di Imre Nagy, ex presidente del Consiglio ungherese, avendo condiviso e sostenuto l'intervento armato sovietico contro la rivoluzione ungherese. Un comunista insospettabile come Pietro Ingrao ha testimoniato la soddisfazione di Togliatti per l'avvenuta invasione della ribelle Ungheria: e quando gli confidava di non dormire la notte per le vicende ungheresi, il segretario rispondeva di «aver bevuto un bicchiere di vino rosso in più» la sera del 4 novembre 1956. Analoga la posizione rispetto al maresciallo Tito, nonostante la persecuzione di innumerevoli innocenti con la disumana pratica delle foibe. Il 7 novembre 1946 Togliatti va a Belgrado e rilascia all'Unità la seguente dichiarazione: «Desideravo da tempo recarmi dal maresciallo Tito per esprimere la mia schietta e profonda ammirazione». Indiscutibile complice, nonché diretto responsabile di assassinio, come lo fu Mussolini con Matteotti, fautore della politica di Stalin, Togliatti ha avuto responsabilità storiche e politiche di gran lunga superiori a quelle di Berlusconi. Eppure, da ministro e da parlamentare, nessuno gli ha risparmiato gli onori dovuti al capo di un partito. «Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone!». Come sembra ignorare le responsabilità di Togliatti, così Colombo è certo di quelle di Berlusconi. Lo indurrei a meditare su queste parole di Palamara: «La magistratura si legge nel libro vuole farsi trovare pronta ai blocchi di partenza della nuova sfida a Berlusconi. È un segnale al governo che sta per arrivare, ma anche al nostro interno: non tollereremo un'opposizione blanda al berlusconismo». Solo dopo mi occuperei dei saluti dei corazzieri.

Il boss Giuseppe Graviano ha parlato con i pm dei soldi di Silvio Berlusconi. di Lirio Abbate su L'Espresso il 5 marzo 2021. Aperta a Firenze una nuova inchiesta sui capitali iniziali del leader di Forza Italia, con i giudici che volano a Palermo. Mentre il boss prosegue con la sua strategia, iniziata con una lettera del 2013 all’allora ministra Lorenzin e che oggi passa da un libro in lavorazione. C’è un’inchiesta giudiziaria destinata a creare seri problemi a Silvio Berlusconi. È stata aperta nei mesi scorsi dalla procura antimafia di Firenze. L’inchiesta parte dalle dichiarazioni fatte davanti ai giudici della corte d’Assise di Reggio Calabria dal boss Giuseppe Graviano, già condannato a diversi ergastoli per aver ordinato, tra gli altri, gli omicidi del beato Pino Puglisi, del piccolo Giuseppe Di Matteo, di altre vittime innocenti, donne e bambini, e le stragi di Firenze, Roma e Milano del 1993, quando decise che Cosa nostra doveva attaccare lo Stato. Il capomafia ha aggiunto che nel periodo in cui era latitante, avrebbe incontrato tre volte a Milano Silvio Berlusconi. E il boss ha sostenuto che l’ex Cavaliere, prima di iniziare la sua attività politica, gli avrebbe chiesto di essere aiutato in Sicilia. Secondo Graviano, però, molte delle attese che Cosa nostra aveva riposto in Berlusconi vennero meno: il “ribaltamento” del regime carcerario del 41bis non ci fu e neppure l’abolizione dell’ergastolo. «Per questo ho definito Berlusconi traditore», ha spiegato Graviano rispondendo alle domande del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, aggiungendo di essere stato latitante dal 1984 e che questa sua situazione non gli ha impedito di incontrare Berlusconi, «che sapeva della mia condizione». «Mio nonno», un facoltoso commerciante di frutta e verdura, ha detto Graviano «era in contatto con Berlusconi» e fu incaricato da Cosa nostra di agganciare l’ex presidente della Fininvest per investire somme di denaro al Nord. Missione riuscita, a detta del boss, sostenendo che «sono stati investiti nel settore immobiliare una cifra di circa venti miliardi di lire». Graviano dice che suo nonno è stato di fatto socio di Berlusconi: «I loro nomi apparivano solo su una scrittura privata che ha in mano mio cugino Salvo».

L’INTERROGATORIO. La procura di Firenze che indaga su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri nell’ambito delle stragi del 1993, adesso scava pure sui patrimoni iniziali dell’ex Cavaliere. In passato sui soldi di provenienza della mafia avevano indagato anche i pm di Palermo nell’ambito del processo in cui Dell’Utri è stato condannato per concorso in associazione mafiosa. Le dichiarazioni dell’ergastolano sembrano più una minaccia all’ex premier, un modo per tentare di incassare soldi e libertà. Lo scorso novembre, sulla base di queste esternazioni, i procuratori di Firenze sono andati nel carcere di Terni e hanno interrogato Giuseppe Graviano, che ha accettato di incontrare i magistrati rispondendo pure alle loro domande, assistito dal suo difensore di fiducia. Un lungo interrogatorio che i pm toscani hanno secretato. I riscontri alle sue affermazioni sono già stati avviati.

LA STRATEGIA. Nonostante le condanne all’ergastolo per delitti di mafia a cui Giuseppe Graviano e suo fratello Filippo sono stati definitivamente condannati, dalle loro mosse si intuisce che vogliono lasciare il carcere sfruttando tutti i mezzi possibili per tornare liberi. C’è il tentativo di smontare le accuse dei collaboratori di giustizia per poi chiedere di avviare una revisione dei processi e allo stesso tempo provare ad uscire dal circuito del 41bis, il carcere impermeabile, per transitare nel regime ordinario da cui è più facile ottenere la possibilità di essere scarcerati. Per questo motivo Giuseppe Graviano da diversi mesi ha coinvolto tutti i componenti della sua famiglia nel raccogliere dati e documenti e far scrivere un libro sulle sue vicende giudiziarie, raccontandole secondo la sua visione e il suo interesse, mettendo in discussione - secondo lui - le vecchie sentenze di condanna. Emerge il profilo di un uomo presuntuoso, ostinato ma anche di un abile oratore, attento osservatore e opportunista, un personaggio che vuole essere carismatico e al centro dell’attenzione, non a caso è un capo importante fra i corleonesi di Cosa nostra, con solidi agganci con il latitante Matteo Messina Denaro. Il fatto che abbia scelto di parlare in aula di Berlusconi è frutto di un calcolo che ha valutato con accortezza per lo sviluppo della sua strategia.

LA LETTERA ALLA MINISTRA. I segnali lanciati da Giuseppe Graviano a Silvio Berlusconi si leggono già nel 2013, quando il Cavaliere entra con il suo Popolo delle libertà, nel governo delle larghe intese di Enrico Letta. Il boss sceglie di scrivere una lettera di cinque pagine alla nuova ministra della Salute, Beatrice Lorenzin. Il capomafia apre il suo testo presentandosi e dichiarandosi innocente, «in espiazione dell’ergastolo ostativo», e «condannato solo per le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, senza riscontri», e poi «come ben sapete voi esponenti del Pdl, perché dal primo giorno del mio arresto mi è stato detto che se non avessi accusato il presidente di Forza Italia e collaboratori, venivo accusato di tutte le stragi del 1993 in poi, lo stesso i miei fratelli di altre accuse di associazione mafiosa, invitandomi a confermare le accuse dei collaboratori di giustizia nei confronti del senatore Berlusconi».

La lettera del boss Giuseppe Graviano alla ministra Beatrice Lorenzin del 2013. Scrive a Lorenzin, e la lettera è stata acquisita dalla procura di Firenze, e ricorda «la provenienza dei capitali per formare il patrimonio della famiglia Berlusconi». All’allora ministra indicata da Berlusconi, Graviano scrive che dimostrerà la sua estraneità «a tutto ciò che mi viene contestato e ingiustamente condannato e non maledico la causa che mi ha portato a questa tragica situazione e non giudico i politici che hanno varato queste leggi, in particolare il Centro destra, inumane e inesistenti in nessun altro paese del pianeta terra, non danno la possibilità di uscire dal carcere, se non si confermano le contestazioni, anche accusando persone innocenti, nel mio caso confermare le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia» e sottolinea che ci vorrebbe il coraggio di qualche politico «alle successive elezioni» rivolto ad «abolire la pena dell’ergastolo».  Nel circuito dei detenuti al 41bis c’è molta fibrillazione per il disegno strategico che i Graviano stanno portando avanti. E forse il boss, approfittando del nuovo cambio in via Arenula, sta pure pensando ad una lettera da inviare alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per spiegare le sue ragioni da mafioso ed ergastolano che vuole uscire.

LA DISSOCIAZIONE. Il giorno prima di interrogare Giuseppe Graviano, i procuratori aggiunti di Firenze, Luca Turco e Luca Tescaroli, hanno sentito Filippo Graviano. I pm hanno subito sottolineato il motivo della convocazione: «Siamo interessati al tema del concorso di altre persone nelle stragi del 1993-1994 e ai rapporti economici tra Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, lei (Filippo Graviano ndr) e la sua famiglia. È disponibile a parlarne? Vorremmo partire dal 28 luglio 2009 quando lei ha manifestato il proposito di dissociarsi “verso le scelte del passato”». La risposta del boss è immediata: «Fino al 2009 il mio nome non era di interesse di nessuna procura; nel 2009 ci fu l’inizio della collaborazione di Gaspare Spatuzza, io mi ero reso conto che la mia vita passata non era corretta e stavo facendo un percorso interno. Lui sosteneva che nel carcere di Tolmezzo gli avevo detto che stavamo aspettando qualcosa dall’esterno». In quell’occasione, come ha ricostruito Spatuzza, il boss gli disse che se certe cose non si fossero verificate, sarebbe arrivato il momento di parlare coi magistrati, annunciando la possibilità di una scelta di dissociazione dall’organizzazione. Per il collaboratore sarebbe l’ulteriore prova che un accordo con pezzi della politica ci fu. Ma il capomafia continua a negare questa circostanza. «Fatta questa premessa», dice ai pm Filippo Graviano, «mi proclamo innocente rispetto ai reati che mi sono stati attribuiti nella sentenza di Firenze (quella sulle stragi del 1993 ndr) e ritengo che, per me, questa sia una questione pregiudiziale rispetto alle domande che mi avete posto. Il mio interesse è quello di ottenere una revisione della mia posizione giudiziaria. Non sono disponibile a rispondere alle vostre domande. Mi sono dissociato da Cosa nostra facendo una dichiarazione espressa di dissociazione». E poi conclude: «Ammetto la mia responsabilità in relazione alla partecipazione a Cosa nostra palermitana, mandamento di Brancaccio, non sono mai stato capo del mandamento neppure come sostituto». L’interrogatorio, dopo un’ora, si conclude così.

IL SOPRALLUOGO A PALERMO. In relazione a questa indagine sulle stragi e sui soldi che secondo Graviano sono stati versati a Berlusconi, i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Firenze sono stati in trasferta dall’8 al 12 febbraio nella zona di Palermo per effettuare “accessi”, verifiche e sopralluoghi. Una spedizione tenuta riservata in cui i pm erano accompagnati da un gruppo di investigatori che si occupano proprio dell’inchiesta sugli attentati a Roma, Milano e Firenze in cui sono stati già condannati Giuseppe e Filippo Graviano. Questa trasferta, per le modalità con le quali è stata condotta, sembra la stessa usata quando si deve far effettuare il sopralluogo ad un nuovo collaboratore di giustizia che ricostruisce storie di cui è stato testimone o protagonista. Il piano dei Graviano è in atto, aspettano che qualcuno lo porti a compimento.

Le accuse. Articoli ad orologeria di Espresso e Fatto: tornano le falsità dei Graviano su Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Marzo 2021. I signori Filippo e Giuseppe Graviano, ergastolani condannati per reati gravissimi legati a Cosa Nostra, sono liberi, come ogni detenuto, di difendersi, di dichiararsi non colpevoli, di tentare un alleggerimento della propria posizione accusando altri, di fare i dissociati o i pentiti anche a scapito di altri. In poche parole, è loro diritto anche inventarsi le solite balle nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Vogliono agitare sotto il naso di qualche pubblico ministero il nome del presidente di Forza Italia come carotina per ingolosire? Liberissimi di giocare al gatto e il topo con l’amministrazione della giustizia per trarne qualche personale vantaggio. La prospettiva di un’intera vita al 41-bis non piace a nessuno. Ma quel che è intollerabile, inaccettabile e persino un po’ disgustoso è il fatto che esistano ancora magistrati disponibili, fin dall’inizio degli anni novanta, quando qualche ambiente di barbe finte aveva tentato di incastrare Berlusconi con l’operazione “Oceano”, a credere che quelle carotine siano davvero commestibili. Soprattutto dopo che, una prima volta negli anni novanta e una seconda nei duemila, precedenti tentativi di indagare Berlusconi e Dell’Utri per collegamenti alle cosche sono falliti e le inchieste hanno portato sempre e solo all’archiviazione. Energie investigative e soldi pubblici buttati via. Finirà così anche questa volta. E c’è da domandarsi a che cosa possa portare tanta testardaggine nel continuare a frugare, scavare, sapendo benissimo che se i fratelli Graviano, così come i loro predecessori esperti nell’arte della calunnia, avessero davvero qualche storia di vita che possa anche solo aver sfiorato quella – intensa e sempre pubblica – di Berlusconi, sarebbero già diventati gli eroi dell’antimafia militante. Meglio di Spatuzza, forse addirittura meglio di Buscetta. Due pubblici ministeri di Firenze che indagano sulle stragi (forse) mafiose del 1993 sono stati per cinque giorni a Palermo del novembre scorso. Ce lo raccontano i giornali in servizio permanente effettivo dalla parte dei Buoni contro colui che rappresenta il Male Assoluto. Funziona più o meno così: il settimanale L’Espresso, ridotto dalle glorie del passato a due paginette allegate come omaggio domenicale alla Repubblica, lancia l’amo come anticipazione il venerdì, disciplinatamente raccolto dal Fatto quotidiano del sabato. Apprendiamo così che il viaggio al sud è stato determinato dalle pubbliche, solite (nulla di nuovo) dichiarazioni di Giuseppe Graviano , nel novembre dell’anno scorso, davanti alla corte d’assise di Reggio Calabria, durante un processo che riguarda la ‘ndrangheta. Una storia trita e ritrita e già archiviata: Giuseppe Graviano avrebbe incontrato due volte l’imprenditore (non ancora politico) Berlusconi in latitanza, ma poi ne sarebbe stato tradito perché il leader di Forza Italia, dopo aver vinto le elezioni nel 1994 non aveva eliminato l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario e neanche l’ergastolo. Che cosa c’entra tutto ciò con le stragi del 1993 su cui ancora indaga la procura di Firenze? Assolutamente niente. A meno che non esista davvero qualcuno che pensi che Berlusconi e Dell’Utri abbiano chiesto ai fratelli Graviano di mettere per loro conto le bombe in cambio di qualche riforma in tema di giustizia. Se mi è permessa una piccola divagazione, vorrei ricordare che Vittorio Sgarbi e io nel 1996 siamo stati indagati per concorso esterno in associazione mafiosa per otto mesi proprio perché nella campagna elettorale del 1994 in Calabria avevamo proposto quelle riforme come nostra iniziativa individuale. Riforme che il centro-destra quando fu al governo si guardò bene dall’attuare, proprio perché non le aveva nel programma. Ve lo immaginate Ignazio La Russa che abolisce il 41-bis? O Bossi che si impegna contro l’ergastolo? Roba da Pannella, piuttosto. Non è chiaro se, come insinua il Fatto, Giuseppe Graviano abbia scelto il momento politico per lanciare il suo (piccolo) petardo, come già aveva fatto nel 2013 quando Silvio Berlusconi aveva aderito al governo di larghe intese guidato da Enrico Letta. Di certo non ha avuto un movente politico nel novembre 2020, quando c’era il governo Conte due e Forza Italia era all’opposizione. Ma forse la scelta politica e temporale l’hanno fatta proprio i giornali delusi dalla nascita del governo Draghi e incattiviti dalla presenza in maggioranza e anche dal rilancio politico di Berlusconi in Italia e in Europa. Non c’è oggi nessuna lettera, come quella inviata nel 2013 al ministro Lorenzin, in cui Graviano diceva che lo avevano obbligato a denunciare Berlusconi e che in caso contrario gli avrebbero attribuito tutte le stragi del 1993. Non c’è niente di niente che spieghi il momento scelto dall’Espresso e dal Fatto per pubblicare notizie di quattro mesi fa. Notizie? Ma lo sono davvero? L’unico fatto è il viaggetto (spero non sia costato troppo) dei pubblici ministeri fiorentini in Sicilia. Starebbero anche indagando, senza senso del ridicolo, sulla nascita del patrimonio iniziale dell’imprenditore Berlusconi. E già, perché il nonno dei fratelli Graviano sarebbe stato una sorta di socio occulto per conto di Cosa Nostra. Tutto già esaminato e archiviato da tempo come barzelletta. Durante il viaggio i due pubblici ministeri avrebbero però effettuato una piccola deviazione al carcere di Terni, dove è ristretto il fratello maggiore di Giuseppe, Filippo Graviano. E qui il discorso si fa serio, perché questo detenuto da dieci anni si dichiara un “dissociato” da Cosa Nostra, e dopo 27 anni di permanenza al regime del carcere impermeabile previsto dall’articolo 41 bis e dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 2019, ha cominciato a chiedere di avere un permesso premio. Ai magistrati ha però detto che non vuol parlare delle dichiarazioni di suo fratello se prima non si rimette in discussione la sua condanna per le bombe del 1993, rispetto alle quali si dichiara innocente. E si torna sempre lì, a quelle esplosioni (con vittime ) di Roma Milano e Firenze, che sono parse sempre strane rispetto agli obiettivi propri di Cosa Nostra. Ma non sono i fatti del passato a preoccupare oggi, piuttosto i messaggi. Perché ogni volta che Filippo Graviano prova a chiedere un permesso premio, ecco pronto il Fatto quotidiano a gridare allo scandalo, non senza ricordare che se un mafioso di quella levatura osa tanto, la colpa è della Corte Costituzionale e della sua sentenza che lo consente. E oggi pare già presa di mira la neo ministra di giustizia. Ecco che cosa scrive l’Espresso: «E forse il boss, approfittando del nuovo cambio in via Arenula, sta pure pensando ad una lettera da inviare alla ministra della giustizia Marta Cartabia, per spiegare le sue ragioni da mafioso ed ergastolano che vuole uscire». Ecco, il gioco è fatto: da Graviano a Cartabia, passando per Berlusconi. Due piccioni con una fava. Qual è l’obiettivo dei professionisti dell’antimafia?

Per Graviano un altro ergastolo e se la prende con Berlusconi, ma perfino il Fatto ci crede poco…Redazione su Il Riformista il  25 Luglio 2020. La Corte d’assise di Reggio Calabria ha condannato all’ergastolo il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Filippone, come mandanti di tre attentati avvenuti in Calabria contro i carabinieri tra il 1993 e il 1994 nei quali morirono Antonio Fava e Vincenzo Garofalo, brigadieri, e furono feriti altri quattro militari. Filippone è stato condannato anche a 18 anni per associazione mafiosa con il clan Piromalli. Il processo per gli attentati del ‘93 e del ‘94 ha avuto una corsia principale, nella quale si è discusso di quei due omicidi, e una corsia “complanare” nella quale si è parlato di Berlusconi. Anche se col processo Berlusconi non c’entrava proprio niente. Il protagonista assoluto della scena è stato Giuseppe Graviano, che all’inizio degli anni novanta ebbe un ruolo importante in Cosa Nostra, e che è il figlio di un vecchio boss di Brancaccio. Graviano, sollecitato più volte dal Procuratore aggiunto di Reggio Giuseppe Lombardo, ha parlato molto di Berlusconi, ma sempre in modo vago, senza mai affondare. Attirando su di sè le attenzioni dei sostenitori del processo ”Trattativa Stato mafia” e della teoria che Berlusconi c’entri con Cosa Nostra. Però anche loro non sono rimasti molto soddisfatti delle dichiarazioni di Graviano, che ha consegnato un suo memoriale ai giudici, nei quali accusa sì Berlusconi, ma per una questione che con la mafia c’entra poco: Graviano sostiene che suo nonno, insieme ad altri, avrebbe prestato 20 miliardi (di lire) a Berlusconi negli anni 60, e che non li avrebbe mai riavuti indietro. E sostiene anche (cosa che fa inorridire i sostenitori di Stato-Mafia) che non era Dell’Utri il tramite dei rapporti con Berlusconi. Il Fatto Quotidiano ieri ha dato un grande spazio al memoriale offerto da Graviano ai giudici. Il titolo principale della prima pagina era “Con noi B. guadagnò miliardi” (dove la B. sta per Berlusconi). Però, nelle pagine interne, l’articolo di Marco Lillo e Rocco Musolino è molto più prudente. Precisa cento volte che Graviano non è attendibile e che la sua versione è contraddittoria.

Il Domani al traino di Graviano. “Mafioso e stragista”, De Benedetti all’attacco di Berlusconi scatenando il suo "Domani". Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Marzo 2021. Questa volta a mettere in campo il carro armato contro Silvio Berlusconi, dopo l’Espresso e il Fatto, provvede direttamente un antico antagonista, forse vero nemico nei sentimenti, come Carlo De Benedetti. E usa il suo giocattolo privo di orpelli e controlli, il nuovo quotidiano Domani, che pare talvolta più un volantino di propaganda politica o giudiziaria che un giornale. Le prime quattro pagine sono dedicate interamente a lui, quel Silvio Berlusconi che, se pur ha dovuto alla fine della lunga battaglia sulla Mondadori pagare denaro sonante all’antico antagonista, resta un uomo di grande successo da invidiare: grande imprenditore, due volte presidente del consiglio, con una bella famiglia di figli e nipoti che lo adorano. Non è questa l’immagine che l’editore e il direttore di Domani e anche una antica firma di Repubblica come Attilio Bolzoni hanno dell’ex presidente del Consiglio. “L’ombra delle stragi torna su Berlusconi”, così l’apertura di Domani di ieri. E giù quattro pagine di non-notizie. Ma, scrivono i cronisti Attilio Bolzoni e Nello Trocchia, “basta incastrare insieme i fatti, metterli in fila, rileggere qualche documento…e tornare all’Italia di quasi trent’anni fa”. Eh si, perché prima delle 49 citazioni con cui il libro di Sallusti-Palamara commenta i complotti giudiziari che hanno preso di mira Berlusconi inaugurando il filone di investigazione sessuale, in tanti ci avevano già provato, nel percorso del professionismo dell’antimafia. Nessuno lo ricorda, ma prima ancora dell’inchiesta “Sistemi criminali” ce ne fu una chiamata “Oceano”, che presto si inabissò. Lo so, perché ci fu una parte di servizi segreti avversa agli uomini della Dia che svolgevano quelle indagini, che per lungo tempo mi inviò, mentre ero alla presidenza della commissione giustizia della Camera, lettere e documenti in perfetto stile “barbe finte”. Non ho mai fatto alcun uso di quei documenti. Ho solo dato riscontro del fatto di averli ricevuti indossando un foulard della Dia nel corso di un’intervista che mi aveva fatto Emilio Fede quando era direttore del Tg4. Era chiaro fin dal 1994 che Silvio Berlusconi fosse il bersaglio non solo di ambienti politici, ma anche giudiziari. I meno pericolosi erano i milanesi, fin da quando Saverio Borrelli aveva intimato “chi sa di avere scheletri nell’armadio non si candidi”. Altri furono più agguerriti. E puntarono alto. Da dove arriva questo palazzinaro brianzolo così volgare, dove ha preso i soldi per inventare e avere successo con le televisioni commerciali e comprare una squadra di calcio, il Milan, che mieterà successi nel mondo come nessun’altra? E come mai decide di entrare in politica subito vincendo le elezioni? Chi gli ha dato i voti? Quattro indagini ufficiali (più “Oceano”), quattro archiviazioni non sono ancora sufficienti. Qualche “pentito” lo si trova sempre, un tanto al chilo. Così oggi, a leggere gli informatissimi tre organi di stampa, Espresso, Fatto e Domani, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sarebbero di nuovo iscritti sul registro degli indagati a Firenze per “concorso in strage”. E si, sarebbero i mandanti delle bombe messe (forse) da Cosa Nostra nel 1993 in luoghi d’arte di Milano, Roma e Firenze. Lo scopo di quegli attentati? Creare paura e affidarsi all’ “uomo nuovo”. Bisogna risalire ai giorni che precedettero la famosa “discesa in campo”. C’è oggi un ergastolano al 41 bis, condannato per diverse stragi di mafia, Giuseppe Graviano, che sta assaporando gli ultimi provvedimenti della Corte Europea e della Corte Costituzionale sul regime del carcere impermeabile, e la possibilità, a certe condizioni, di poter avere permessi premio pur senza essere un “pentito”. Graviano è uno che dice e non dice, fa giochi di prestigio con le parole, si fa “sorprendere” a fare confidenze mentre passeggia nei cubicoli dell’aria nel carcere pieno di microspie. Ma l’ultima volta ha parlato anche in un’aula processuale, a Reggio Calabria, verso la fine del 2020, e ha detto che nel 1993, mentre era latitante, avrebbe incontrato tre volte Berlusconi a Milano e che quest’ultimo gli avrebbe chiesto aiuto in Sicilia per le future elezioni cui si sarebbe candidato nel 1994. Ma non è sufficiente Graviano, c’è anche Gaspare Spatuzza, quello le cui parole sono d’oro perché ha smascherato il complotto ordito tramite il falso pentito Scarantino, quando tutto avrebbe potuto essere chiaro fin dal 1992. Spatuzza dice che Graviano gli aveva già parlato di Berlusconi durante un incontro al bar Doney di via Veneto a Roma il 21 gennaio 1994. E, guarda caso, dice Domani, proprio in quei giorni anche Dell’Utri era a Roma, per partecipare alla convention di presentazione di Forza Italia. Chiaro il nesso? Cose di piccoli uomini, mafiosi a assassini, che cercano qualche via d’uscita dalla loro misera vita. Ma il punto è che i pubblici ministeri di Firenze si sono precipitati nei mesi scorsi in Sicilia e anche nelle diverse carceri a interrogare pentiti e non. E il punto è anche che “basta incastrare insieme i fatti, metterli in fila, rileggere qualche documento…” per far scattare le ghigliottine, senza prove, senza indizi, senza riscontri. E senza pudore. Facciamo un esempio facile, tenendo nelle mani l’articolo di “Domani”. Si parla dell’attentato contro Maurizio Costanzo. E lo si definisce “..protagonista di trasmissioni contro la mafia ma anche contrario alla discesa in campo di Silvio Berlusconi”. Chiara l’allusione? La mafia voleva uccidere il conduttore di Mediaset forse per un motivo o forse per l’altro o forse per tutti e due. Si potrebbe far notare che per esempio Fedele Confalonieri era molto perplesso sul fatto che Berlusconi entrasse in politica, mentre altri come il liberale professor Urbani gli spiegavano il disastro che avrebbe investito l’Italia qualora le elezioni fossero state vinte dalla gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, mentre le forze politiche del pentapartito che avevano governato l’Italia erano state spazzate via dalle inchieste di Tangentopoli. E come dimenticare quanto l’allora imprenditore di Arcore abbia supplicato Martinazzoli perché si candidasse contro Occhetto? Basterebbe un po’ di memoria sulla nascita di Forza Italia. O forse un po’ di volontà. Invece basta mettere insieme un po’ di pere e un po’ di mele, sale quanto basta. I famosi dati sui trecento detenuti cui non fu rinnovato il 41-bis, oggetto di “trattativa”, mentre si dimentica che di questi solo 18 erano di appartenenti alla mafia. O addirittura il “decreto Biondi”, che sarebbe stato emanato dal governo Berlusconi non, come era stato detto fino a ora, per scarcerare i corrotti, ma gli uomini delle cosche. E quali? Fare nomi e cognomi please, visto che dopo che il provvedimento fu ritirato in seguito al disconoscimento di paternità del ministro dell’interno Maroni, che ne era stato l’estensore insieme al collega guardasigilli, meno del 10 per cento degli scarcerati fu riarrestato. Quante stupidaggini! Una volta dell’Utri condannato per aver fatto da cerniera tra Cosa Nostra e Berlusconi, l’altra, nel processo “trattativa”, per aver tramato “contro” lo stesso presidente del consiglio. Ma intanto, ci racconta Domani, c’è un grande movimento di pubblici ministeri di mezza Italia di questi tempi che convergono sugli stessi due indagati come mandanti di stragi. Perché, come dice Graviano, “lui voleva scendere”, e ci voleva “una bella cosa”. Cioè le bombe e anche… – ci credete? – il decreto Biondi. Senza senso del ridicolo “Domani” scrive che “il contenuto del provvedimento sarebbe stato conosciuto con anticipo da Cosa Nostra”.

Ma davvero Silvio Berlusconi pensa di poter diventare presidente della Repubblica? Luca Bottura su L'Espresso il 3 novembre 2021. Qualcuno avvisi il cosiddetto Cav che lo stanno prendendo in giro. Che Silvio Berlusconi abbia sempre operato per il Paese ma che il paese fosse con la minuscola, cioè Arcore, è un dato di fatto che sembra sfuggire ai commentatori anche più navigati nel momento in cui lo inseriscono con qualche reale possibilità all’interno del cosiddetto Totoquirinale. Che all’estero sia considerato un’adorabile macchietta che riassume tutti gli stereotipi sull’Italia, e dunque che le famose Cancellerie lo ospiterebbero volentieri al massimo per farsi tradurre la barzelletta sulla mela che sa di culo, anche. Il cosiddetto Cav continua a scambiare la benevolenza che le curve della memoria assumono, da spigoli che erano, di cui si nutrono anche coloro che raccontarono le sue gesta in tribunale. L’uomo è simpatico, innegabilmente. Ma proprio per questo, se avesse un amico, sempre meglio che un’amica, magari è gratis, qualcuno del suo entourage dovrebbe dirgli che ha ragione Letta. Quello giovane. Che lo stanno, come diceva Hegel, a cogliona’. Che le possibilità di vederlo al Quirinale non sono prossime allo zero, perché siamo pur sempre il Paese in cui Claudio Durigon va a spiegare le pensioni a Draghi, ma, ecco, meglio di no. Dacché se davvero salisse al Colle, saremmo costretti a ricordare cosa è stato Silvio Berlusconi per questo curioso conglomerato di Alpi e mari: l’aggregatore del populismo gretto e livoroso che ieri lo illuse, oggi ci illude. Silvio, ricordati degli amici: meglio un posto da Papi della patria nel villone di Zeffirelli che ricordarci, barzellette o no, cosa hai combinato, a ’sta patria. ’Sta povera Patria.

Giudizio: Ci consenta

"Berlusconi al Quirinale? Consegno il passaporto". L'ultimo delirio di De Benedetti. Marco Leardi il 3 Novembre 2021 su Il Giornale. L'ingegnere si infervora dalla Gruber sull'ipotesi di vedere il Cavaliere alla presidenza della Repubblica. "Sarebbe una cosa indegna", ha attaccato, rinnovando lo storico livore verso l'ex premier. Carlo De Benedetti perde il pelo (ormai imbiancato) ma non il vizio. Sì, quello di attaccare Silvio Berlusconi. Lo ha fatto anche questa sera nel corso della sua ospitata a Otto e Mezzo, su La7. Nello studio di Lilli Gruber, coccolato dalle domande della conduttrice, l’ex editore di Repubblica ha espresso giudizi sprezzanti sull'ipotesi di vedere il leader di Forza Italia come prossimo Presidente della Repubblica. Il solo fatto che il Cavaliere sia stato annoverato tra i possibili candidati al Quirinale – con il sostegno del centrodestra - ha infastidito l'ingegnere, il quale non ha perso l'occasione di rinnovare il proprio storico livore nei confronti dell'ex premier. Sì, perché quella di De Benedetti nei riguardi del leader azzurro assomiglia ormai a un'ossessione, come hanno dimostrato le sue odierne parole. Solleticato da un domanda della Gruber sull'argomento, che somigliava più che altro a un assist, De Benedetti ha dichiarato: "Berlusconi è un fantasista, come sono fantasisti quanti pensano che possa andare al Quirinale". Poi l'ingegnere ha rincarato la dose: "Io anticipo che, nel caso in cui l’assemblea dei grandi elettori impazzisse e mandasse Berlusconi al Quirinale, io renderei il mio passaporto al Ministro degli Interni. Sarebbe una cosa indegna". Le sparate di De Benedetti, lì per lì, sono state sottolineate dalle risate complici della conduttrice e di Massimo Giannini, ospite in studio. Poco prima, l'ex editore di Repubblica aveva espresso il proprio apprezzamento per Sergio Mattarella, auspicando che possa rimanere ancora alla presidenza della Repubblica. Le affermazioni di De Benedetti sul Cavaliere, per quanto rancorose, hanno innescato immediate reazioni dal mondo politico quando ancora l'imprenditore discettava dalla Gruber sui massimi sistemi, dalle politiche di Joe Biden al clima. Passando per Arcore, chiaramente. "Comprendo il dispiacere dell'ingegner De Benedetti per l'eventuale elezione di Silvio Berlusconi al Quirinale. Mi pare esagerato però che egli voglia restituire il passaporto. Magari potrebbe bastare - come gesto di protesta - la restituzione in beneficenza di una parte dei lauti introiti scaturiti dalla celebre, rispettabile e per lui fortunata 'sentenza Mondadorì", ha replicato il parlamentare forzista Gianfranco Rotondi. Nel suo intervento a Otto e Mezzo, De Benedetti ha commentato a modo suo anche un'ipotetica elezione di Giorgia Meloni a premier. Sempre rispondendo a Lilli Gruber, l'ospite ha chiosato: "Non succede perché l'Europa non ce lo lascia fare. Votano gli italiani, è vero, ma gli italiani votano secondo ciò che gli conviene". Parole che hanno provocato la replica della leader di Fratelli d'Italia: "Carlo De Benedetti, imprenditore italiano naturalizzato svizzero, commendatore della Légion d'honneur francese, editore di Repubblica e poi de Il Domani, pontifica stasera dalla Gruber. Dice, tra le altre cose, che non si fida di me. Vuol dire che sto facendo bene il mio lavoro".

Marco Leardi. Classe 1989. Vivo a Crema dove sono nato. Ho una Laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d'impresa, sono giornalista. Da oltre 10 anni racconto la tv dietro le quinte, ma seguo anche la politica e la cronaca. Amo il mare e Capri, la mia isola del cuore. Detesto invece il politicamente corretto. Cattolico praticante, incorreggibile

Da huffingtonpost.it il 4 novembre 2021. “Se il Parlamento impazzisse e decidesse di eleggere Berlusconi al Quirinale, io rendo il mio passaporto al Ministero degli Interni. Sarebbe una cosa indegna”. Così Carlo De Benedetti, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7. L’Ingegnere elogia Mario Draghi, il cui merito, spiega, è stato di aver “portato la competenza. Dalla cretineria dell’uno vale uno è arrivata la competenza, che ha spiazzato tutti. Abbiamo un uomo preparatissimo, democratico, competente e gentile. Io avrei perso la pazienza venti volte al suo posto, lui è un uomo paziente. E ha fatto delle ottime scelte delle persone”. Parole più velenose invece nei confronti di Enrico Letta - “sicuramente una persona per bene, seria, però non ha la caratura del leader” - di Matteo Renzi - “non è una persona seria. Se fai il senatore, devi fare il senatore, non andare in Arabia Saudita o occuparti di società russe” - di Giancarlo Giorgetti - “La sua idea su Draghi al Quirinale mi sembra più che altro un’autocandidatura a fare il presidente del Consiglio” - e di Giorgia Meloni - “Lei premier? Non succede perché l’Europa non ce lo lascia fare”. La soluzione per Quirinale, secondo De Benedetti, è mantenere lo status quo:  “So che torcere un po’ la Costituzione può lasciare qualche conseguenza ma io dico: abbiamo due persone outstanding, il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica: lasciamole lavorare. Se le forze politiche concordassero su Mattarella alla prima votazione, Mattarella non potrebbe non accettare, penso. Io sono dell’opinione che Draghi non debba andare al Quirinale, ma in uno stato di emergenza che si prolungherà oltre il 31 dicembre e una situazione economica ancora da consolidare, avendo due fuoriclasse come Draghi e Mattarella, perché non approfittarne?”.

Berlusconi e De Benedetti, storia di una passione autentica tra due ex amici. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'8 Settembre 2020. Allora, dilemma: che gli ha preso all’Ing (con la maiuscola, come Avv per Agnelli e Cav per il cavaliere) Carlo De Benedetti quando ha commentato la malattia (Covid a 83 anni con un sacco di problemi pregressi, come da manuale) di Silvio Berlusconi dandogli dell’ «imbroglione» e parlando del proprio personale orgasmo – «la mia maggior goduria» – quando quello fu costretto a rimborsare alla sua Cir un bel pacco di miliardi? Qui ci sarebbe da rifare la storia d’Italia con tutta la “guerra di Segrate” fra Berlusconi e De Benedetti quando fu giocata una partita mortale sulla Mondadori. Ma occorrerebbero pagine per chi non sa e non ricorda. Mettiamola invece sul piano personale. Li ho conosciuti e anzi li conosco entrambi, De Benedetti e Berlusconi, umanamente parlando. E quando ho visto questa sparata dell’ingegnere a commento della malattia che aveva costretto Berlusconi al ricovero recalcitrante per polmonite da Covid mi sono chiesto se avesse avuto una botta di follia. Ho pensato in questi giorni durante i quali si è scatenata la zuffa all’italiana con violenza verbale, battute da querela e da fogna, e insomma sono rimasto ipnotizzato come spettatore cronista dal solito clima da guerra civile mentale e verbale che ci accompagna dalla fine della guerra fredda, anzi da molto prima. Con calma, anzi con rammarico, direi che De Benedetti si è fatto prendere da uno dei suoi personali attacchi di odio. Carlo De Benedetti ed io scrivemmo insieme un libro intervista qualche anno fa e diventammo amici, io bevevo la sua stessa tisana giallina che gli portavano in caraffe e rievocammo la sua vita e le sue guerre. E devo dire che mi colpì presto la dicotomia, o se preferite la contraddizione, fra il suo aspetto pacioso, florido senza essere grasso, apparentemente misurato e contegnoso, ma colmo di disprezzo e con una schiuma interna di conti non saldati. Dette a me l’anteprima di aver voluto letteralmente licenziare Eugenio Scalfari proprio perché voleva cacciarlo via e sostituirlo dalla mattina alla sera con Ezio Mauro che dirigeva la Stampa, lasciando in braghe di tela l’avvocato Agnelli, editore de la Stampa, che non credeva ai suoi occhi. Mi parlò molto, molto male, di persone che sono morte e di cui dunque taccio il nome. Ne parlò in maniera sferzante. E anche con qualche ragione, penso. Mi colpì molto quando disse che essendo fuggito da bambino in Svizzera con i suoi a causa delle persecuzioni razziali, sperimentò la fame e la povertà e giurò a sé stesso di non voler più essere povero, ma anzi di voler diventare ricco, ricchissimo, straricco. E lo fece. Fu un imprenditore di motociclette, di auto, entrò e uscì dalla Fiat litigando con Agnelli cui lasciò in compenso la Panda («una specie di carrarmato brutto e solido che costava poco e rendeva molto»), mi parlò con commiserazione altera di Francesco Cossiga che dopo le loro guerre gli venne a portare come dono di pace un coltello da pastore sardo (ma non una parola sul fatto che Cossiga insieme a De Michelis perorarono la sua causa presso la Casa Bianca dopo che la Olivetti era stata messa sul libro nero delle aziende che passavano segreti americani ai russi). E naturalmente mi parlò della Olivetti di Adriano Olivetti, il gioiello italiano delle macchine da scrivere e anche dei primi computer (con scheda Ibm) che lui, l’Ingegnere, gettò nella spazzatura perché non rendeva. Mi disse di quando gli offrirono di finanziare un giovanotto, un certo Bill Gates, che fabbricava computer in garage e che purtroppo non lo fece. Una bella storia di vittorie e qualche sconfitta, ma con un bel cesto di sassi nelle scarpe che non cessavano di dolergli. Una di queste era il comportamento dei figli che lo avevano sostituito nelle aziende e che non volevano sapere dei giornali perché i giornali portano solo rogne e niente soldi. In particolare, il dente avvelenatissimo col figlio Rodolfo con cui ebbe dei chiarimenti che sembravano regolamenti di conti e che si conclusero poi con la vendita del gruppo Repubblica-L’Espresso che passò alla Fiat poco dopo aver insediato nella direzione lo sfortunato e bravo Carlo Verdelli che sarà poi cacciato dai nuovi padroni dalla mattina alla sera. Una vita di lotte feroci fra combattenti italiani in un panorama molto italiano, con qualche ombra russa dei tempi sovietici. Quando iniziammo la nostra intervista mi disse: «Immagino che lei voglia prima di tutto sapere qual era la storia degli agenti russi nell’Olivetti». E me la raccontò, a suo modo. Aveva distrutto Scalfari, un altro giornalista storico di Repubblica, Cossiga, Craxi, Agnelli. Ma più di tutti, naturalmente., l’oggetto del suo odio al vetriolo era Silvio Berlusconi di cui parlava peraltro – e con mia sorpresa – come di un vecchio amico che di tanto in tanto lo andava a trovare per chiedergli consiglio, cui lui benignamente accordava qualche suggerimento utile. I due, quanto ad essere nemici, lo furono in maniera totale, da grande gioco del capitalismo italiano con ogni sorta di colpo di scena, accusa di falso, corruzione, imbroglio. Schiere di avvocati se le dettero di santa ragione per anni. La Mondadori alla fine andò a Berlusconi con Panorama ma senza Repubblica e l’Espresso che andarono invece a De Benedetti, con passaggi milionari di soldi decisi dai giudici nei vari livelli della causa. Tutto ciò detto, resta aperta e non risolta la domanda: perché De Benedetti ha di fatto augurato la morte anziché la guarigione all’ex nemico caduto malato? Qualcuno forse obietterà: ma non esageriamo, certo che gli ha augurato la guarigione ma con una battutaccia senza conseguenze. Ecco: quando si vuole augurare lunga vita al nemico caduto da cavallo, si fa come fece Bersani il quale, senza farsi pubblicità, andò a trovare Silvio Berlusconi in ospedale ferito e scioccato dal lancio di una madonna di piombo, da parte di un odiatore di passaggio. L’odio, sia detto per amor di verità banale, è un sentimento umano che ha il suo ruolo nell’economia selvatica dell’essere. Quell’espressione di De Benedetti usata per esprimere disprezzo persino per la malattia fisica del corpo di Berlusconi, appartiene o no all’armeria dell’odio ideologico? Naturalmente le risposte saranno divise in due fra chi conferma e chi dissente, ma nel caso di diniego per dissenso – De Benedetti non voleva manifestare odio e augurare la morte, ma gli è soltanto sfuggito il piede dalla frizione – resterebbe in piedi la domanda d’obbligo successiva: De Benedetti ha superato il limite del logoramento e ha perso il controllo definitivo della muscolatura liscia del pensiero che dovrebbe regolare l’emissione dei gas emotivi? Nessuno può garantire, ma io voto sì. Per De Benedetti, penso, e per una discreta fetta di italiani andati in acido e fuori controllo, tutto ha a che fare con Berlusconi, come prima con Craxi. Berlusconi ha impedito – storicamente e vorrei sapere chi si sentisse di negarlo – che con la decapitazione della prima Repubblica vincesse la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto e del nuovo “coso” uscito dalla Bolognina. De Benedetti ha detto che per lui Berlusconi è ed è stato «una specie di Alberto Sordi» della politica italiana. Ora, ammesso che De Benedetti intendesse paragonare i personaggi miseri e imbarazzanti creati da Sordi, davvero lui o chiunque altro può dire che l’impensabile operazione politica che fece saltare i piani e le speranze del Pds con una impossibile alleanza fra i leghisti separatisti di Bossi e gli ex fascisti di Fini, fosse una “albertosordata”? Davvero? Una cosa da Ambra Jovinelli? Da Fratelli De Regie o da Sarchiapone di Walter Chiari? Davvero? Qui secondo me casca l’asino dell’innocenza pretesa nelle parole di De Benedetti. Il suo (mal)augurio a Berlusconi è stato maldestramente mascherato da sbuffo di insofferenza nei confronti di un preteso pagliaccio, un “albertosordo” dell’impresa e della politica. Sarebbe da imbecilli pensare che davvero De Benedetti lo pensasse perché tutta la sua (di De Benedetti) vita politica con la tessera numero uno del Partito Democratico è stata dedicata a combattere su tutti i campi sia alla luce del sole che nei vicoli notturni, contro quell’uomo che rovesciò il tavolo e bloccò il ribaltone destinato ad instaurare in Italia un sistema politico egemomìnizzato dal vecchio Pci. Per molti fu un lutto e fra quei molti c’era sicuramente De Benedetti. E tuttavia, come può un uomo del suo rango, fingere di essersi battuto contro un imbroglione che “albertosordeggiava”? È impossibile. Dunque, a mio parere, questa verità storica e fattuale esclude qualsiasi attenuante benevola per la maledizione che l’Ingegnere ha lanciato contro il vecchio nemico spaventato dalla morte, sorpreso dalla polmonite, ricoverato quasi con la forza, messo a brutto muso di fronte alla prospettiva di lasciarci la pelle. Come se non bastasse, e infatti non basta, De Benedetti come i bambini capricciosi che rifiutano di chiedere scusa alla nonna accoltellata in un momento d’ira, ha ribadito che diceva sul serio, che non si scusava di nulla e che aveva ragione lui. L’uscita di De Benedetti ha comunque funzionato anche da test di Rorschach, quello delle macchie d’inchiostro di fronte alle quali ognuno vede quel che ha già nella testa. C’è stata una pletora di gaglioffi che per il piacere di giocare come i pirati che si giocavano una bottiglia di rhum, si sono gettai nel gioco malaticcio sotto la rubrica “Piatto ricco mi ci ficco”. L’Italia dei codardi ha fatto quasi tutta un passo avanti per applaudire. De Benedetti ha giocato un pessimo finale di partita e purtroppo non saprà trovare dentro di sé la forza che altre volte ha trovato per fare un passo indietro e giocarsi la carta magnifica non dell’autocritica – che detesto – ma del decoro e del rispetto. Orsù, Ingegnere: ha ancora l’età per esibirsi in un colpo di reni che la restituisca alla postura del coraggio, l’unica uscita da questa storia.

I pm, Fini e il governo Monti: così il sistema attaccò il Cav. Il sistema funziona contro qualcuno ma anche a difesa di qualcuno. Con Berlusconi avviene contro, con Fini e con tanti altri a difesa. Alessandro Sallusti, Venerdì 29/01/2021 su Il Giornale. Per gentile concessione dell'editore Rizzoli pubblichiamo uno stralcio del libro Il sistema. Potere, politica affari: storia segreta della magistratura italiana, scritto dal direttore del Giornale, Alessandro Sallusti. Il 27 luglio 2011 Nitto Palma diventa ministro della Giustizia, il vostro rapporto non può neppure essere messo alla prova perché di lì a poco, il 16 novembre, quel governo cadrà. Durante l’estate tutto precipita velocemente. Il governo è indebolito per l’uscita dalla maggioranza, avvenuta un anno prima, di Gianfranco Fini e di un gruppo di deputati e senatori che avevano fondato il partito Futuro e Libertà. Si è fatta molta letteratura sul perché Fini abbia mollato Berlusconi, e se si è arrivati a ipotizzare una regia del Quirinale, oltre che una "moral suasion" della magistratura su di lui, per alcune inchieste che avrebbero potuto coinvolgerlo. Quando nel dicembre 2010 si parla di un possibile patto tra la magistratura e Gianfranco Fini, ben visto dal Colle, non si va lontano dalla verità. Con lui, in quel momento presidente della Camera, troviamo un’inaspettata sponda in campo avverso, quello del centrodestra di cui lui è il numero due dopo Silvio Berlusconi. Abbiamo più di un incontro, ci rassicura che con lui a dirigere la Camera non varerà nulla di sgradito ai magistrati. Tra noi certamente c’è un buon feeling che diventa collaborazione attiva nel fornirgli pareri e spunti per emendare leggi che, direttamente o indirettamente, riguardano il nostro mondo. C’è anche un singolare inedito che caratterizza i nostri incontri. In un’occasione in cui andiamo da Fini con la giunta dell’Anm al completo, con noi c’è anche Pierluigi Picardi, un magistrato della corrente di Area, teoricamente quella di sinistra e più ostile al governo. Quando i due si incontrano, seppur in veste ufficiale, si riconoscono e rievocano i tempi camerateschi di gioventù. Avevate trovato il Cavallo di Troia. C’è un fatto incontestabile. Nell’estate del 2010 "ll Giornale" pubblica un’inchiesta ipotizzando il coinvolgimento di Gianfranco Fini nella vendita sospetta al cognato Giancarlo Tulliani di una casa, la famosa "casa di Montecarlo" che faceva parte del patrimonio di An. Fini nega ripetutamente e, il 26 ottobre, la procura di Roma annuncia - fatto anomalo - non l’apertura, stranamente avvenuta senza alcuna fuga di notizie, bensì la chiusura per archiviazione di un’inchiesta lampo condotta personalmente dal procuratore capo di Roma Giovanni Ferrara, probabilmente la più veloce nella storia, su quella casa e su Fini. Ma anni dopo, il 13 febbraio 2017, Gianfranco Fini, per quella stessa ipotesi di reato, viene rinviato a giudizio per riciclaggio, e suo cognato scappa all’estero dove ancora oggi si trova, latitante a Dubai. Questa seconda inchiesta viene portata avanti dal nuovo procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e recepita dal giudice delle indagini preliminari Simonetta D’Alessandro, un cara amica che mi teneva aggiornato su tutto. Era solita organizzare cene ristrette a casa sua, alle quali partecipavano magistrati, giornalisti, uomini delle forze dell’ordine e delle istituzioni. Un volta disse di essere molto preoccupata che il suo nome potesse essere infangato all’interno dell’inchiesta Mafia capitale, per via di un ingiusto coinvolgimento di un consulente al quale aveva affidato degli incarichi, e che Pignatone l’aveva tranquillizzata scrivendole un biglietto. Ora, è evidente che nel 2010 Giovanni Ferrara probabilmente non ha compiuto una corretta valutazione. Se a causa della fretta o di qualcosa d’altro lo lascio scrivere a lei. Me ne guardo bene, io penso che in quel momento Fini che si allea con la sinistra fosse funzionale al disegno di indebolimento del governo che il "Sistema" stava perseguendo. Più che funzionale, credo. Però può scrivere un fatto che nessuno può smentire o contestare, un fatto che di nuovo riguarda l’intreccio tra politica e magistratura e che all’epoca sfuggì ai più. Un anno dopo aver archiviato l’inchiesta, Giovanni Ferrara si dimette da procuratore di Roma con qualche mese di anticipo sulla pensione e viene nominato, in quota Fli di Gianfranco Fini, sottosegretario agli Interni del governo Monti. Coincidenza sospetta, un indizio che lo strappo di Fini che affossò il centrodestra non fosse tutta farina del suo sacco. A prescindere dal caso singolo, il potere delle procure a volte è quello di fare un’inchiesta partendo da una velina e di tirarla per le lunghe, altre di non farla pur davanti all’evidenza dei fatti concreti. Soprattutto se la grande stampa - come per coincidenza avvenne nel caso di una casa in mattoni e cemento nel pieno centro di Montecarlo - gira la testa dall’altra parte o minimizza e i partiti di sinistra pure. Si ricordi la regola aurea del tre, le tre armi del "Sistema", una procura, un giornale amico, un partito che fa da spalla politica. Funziona contro qualcuno ma anche a difesa di qualcuno. Con Berlusconi avviene contro, con Fini e con tanti altri a difesa. E lo ripeto ancora una volta a scanso di equivoci. Io ora non sto discutendo se uno è o meno colpevole, mi riferisco a come, oltre un certo livello, i reati o presunti tali vengono gestiti in base a criteri che con "la giustizia è uguale per tutti" hanno poco a che vedere. Ma non solo con la giustizia, lo stesso vale per l’etica.

Caso Palamara, Settimanale “Chi”: tutti contro il Cavaliere. AgenPress.it il 17 Febbraio 2021. “Il primo agosto del 2013 la sezione feriale della Corte di Cassazione presieduta dal giudice Antonio Esposito condanna definitivamente Silvio Berlusconi per evasione fiscale al termine di un iter processuale contestato nella forma e nella sostanza dalla difesa del Cavaliere. Quello che successe in quella camera di consiglio è ancora, a distanza di anni, avvolto da sospetti e da misteri. Nel libro-intervista Il Sistema. Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana (Rizzoli, 288 pag., € 19) il magistrato Luca Palamara, all’epoca al vertice del sistema di correnti che governava la magistratura, offre alcuni spunti che gettano nuove ombre sinistre su quella decisione e sui quei giorni convulsi. «Nelle settimane precedenti la sentenza», mi racconta Palamara nel libro, «ebbi modo di incontrare privatamente Amedeo Franco, uno dei colleghi che avrebbero fatto parte del collegio giudicante. Ebbene, Franco mi parlò delle sue preoccupazioni sia per il modo anomalo con cui si era formato il collegio, sia per le pressioni che si stavano concentrando affinché l’esito fosse di un certo tipo, in altre parole di condanna per Berlusconi», confermando così la versione che lo stesso Franco diede successivamente a Berlusconi in un incontro privato avvenuto mesi dopo la sentenza («Mi spiace, presidente, quella corte era un plotone di esecuzione e io non ho potuto farci nulla»). Ma Luca Palamara va oltre. Il 15 gennaio del 2015 il Csm, l’organo di autogoverno dei magistrati in cui Palamara è nel frattempo stato eletto, deve affrontare la promozione del giudice Franco. L’unanimità è data per scontata, ma all’ultimo uno dei magistrati chiamati ad esprimere il voto si tira indietro. Il suo nome è Ercole Aprile, anche lui come Franco membro della giuria che condannò Berlusconi. Ecco cosa racconta di quel giorno Palamara nel libro: «Venuto a sapere della sua astensione lo interrogo sui motivi, e lui mi dice: “Perché in quella camera di consiglio ho visto cose indicibili, cose che voi umani – citando la famosa frase di Blade Runner non potete nemmeno immaginare”». E qui vale la pena di continuare con il racconto del libro. Chiedo a Palamara: si spieghi meglio. «Il motivo dell’astensione», risponde, «non può che riguardare ciò che successe nella camera di consiglio che condannò Berlusconi. Non si può lanciare il sasso e ritirare la mano limitandosi a dire “Cose che voi umani…”. Gli umani avrebbero diritto di sapere, il Csm anche». Lo incalzo: quale è la verità? «Ciò che è successo lo sanno solo loro, quello che io voglio dire è che la verità è stata chiusa in cassaforte, non la si deve sapere». Ma c’è, nel libro, un altro passaggio inedito che riguarda indirettamente quella sentenza su Berlusconi. Il giudice Esposito, che firmò la condanna, finisce sotto processo disciplinare davanti al Csm per aver rilasciato – poche ore dopo aver emesso la sentenza – una intervista al Mattino di Napoli in cui nella sostanza anticipava le motivazioni, cosa di per sé assai grave. Racconta Palamara: «La pratica la ereditiamo dalla precedente consiliatura del Csm che aveva preferito rinviare e lavarsene le mani. Io ero conscio che non stavamo giudicando il comportamento di un collega ma la storia recente d’Italia. In effetti, le cose stavano come dicevano gli avvocati di Berlusconi, c’è poco da discutere. Ma si poteva offri- re un assist a Berlusconi dopo che per vent’anni si era cercato di metterlo all’angolo con ogni mezzo proprio quando l’obiettivo era stato raggiunto?». Chiedo a Palamara: me lo dica lei. «Era una responsabilità enorme che andava oltre il merito della vicenda. Condannare Esposito sarebbe stata una opzione corretta – lo aveva chiesto anche la procura generale – ma inevitabilmente avrebbe messo in dubbio la credibilità della sentenza sui diritti Mediaset. Viceversa, non potete nemmeno immaginare”». E qui vale la pena di continuare con il racconto del libro. Chiedo a Palamara: si spieghi meglio. «Il motivo dell’astensione», risponde, «non può che riguardare ciò che successe nella camera di consiglio che condannò Berlusconi. Non si può lanciare il sasso e ritirare la mano limitandosi a dire “Cose che voi umani…”. Gli umani avrebbero diritto di sapere, il Csm anche». Lo incalzo: quale è la verità? «Ciò che è successo lo sanno solo loro, quello che io voglio dire è che la verità è stata chiusa in cassaforte, non la si deve sapere». Il giudice Ercole Aprile, parlando con Palamara, così descrisse la situazione nel Consiglio superiore della magistratura in quei giorni: «In quella camera di consiglio ho visto cose indicibili, cose che voi umani non potete nemmeno immaginare». A cosa si riferiva? «La verità è chiusa in cassaforte, non si deve sapere», commenta Palamara. Il giudice Antonio Laudati. Di lui, Palamara racconta a Sallusti: «Era arrivato a capo della procura di Bari per cercare di mettere ordine in un ufficio devastato da lotte interne e fughe di notizie». Invece, finisce nel tritacarne dei colleghi che lo accusano di voler salvare Berlusconi da un reato che non esiste.

I DUBBI DEL GIUDICE APRILE L’OFFENSIVA PARTE DA BARI UNA SENTENZA CON TROPPE OMBRE: assolvere Esposito avrebbe rafforzato quella decisione. Senza voler violare il segreto della camera di consiglio posso testimoniare che questo ragionamento logico aleggiava nell’aria, per usare un eufemismo». Palamara, insomma, ci dice che certe decisioni non vengono prese in punta di legge ma in base alla convenienza, in questo caso la convenienza di incastrare Silvio Berlusconi. E su questa tesi è illuminante anche la ricostruzione di quanto avvenne alla procura di Bari quando scoppia il caso di Patrizia D’Addario la presunta escort che un faccendiere pugliese, Gianpaolo Tarantini, infila in un letto di Berlusconi a Roma. Non c’è nessun reato, ma a Bari la procura – molto chiacchierata per precedenti intrecci con la giunta regionale di sinistra di Niki Vendola – si scatena. Racconta Palamara: «Il capo della procura di Bari è in scadenza, il suo successore, Antonio Laudati, anticipa il suo arrivo per cercare di mettere un po’ di ordine in quell’ufficio devastato da lotte interne e fughe di notizie», che tradotto significa gestire in modo equilibrato l’inchiesta su Berlusconi. Guai a lui. Laudati finisce nel tritacarne dei colleghi che lo accusano di voler salvare Berlusconi da un reato che non esiste. Chiedo a Palamara: parte la stagione dei veleni, ma mi lasci dire che Laudati verrà assolto da tutte le accuse. Lui risponde: «Sono felice per lui, ma allora non era possibile difenderlo, avrebbe voluto dire mettere in dubbio la fondatezza dell’inchiesta D’Addario e fare passare Berlusconi come vittima di magistrati scellerati. Neppure io, che Laudati lo conosco bene, posso farci nulla. Anzi, da presidente dell’Anm sono tra quelli che imbracciano il fucile contro di lui nonostante le correnti della sinistra giudiziaria pugliese fossero politicamente compromesse con il sistema locale attiguo alla sinistra politica». Ma Palamara va oltre: «Quello delle donne è un buon filone, mediaticamente funziona, e di certo indebolisce la figura del presidente Berlusconi». La magistratura ci si butta a capofitto fino a incrociare il caso Ruby: «La telefonata – si chiede Palamara – alla questura di Milano per segnalare la disponibilità di una consigliere regionale lombarda, Nicole Minetti, a prendersi in carica la giovane Ruby, fermata per una violenta lite con una amica, è davvero un reato così grave o può rientrare in una normale, sia pure delicata, segnalazione? Qui scatta la discrezionalità dei magistrati, ma all’epoca la discrezionalità su Berlusconi non poteva esistere. andava attaccato, punto». Berlusconi su Ruby sarà assolto sia in appello, sia in Cassazione. Ma il danno politico fu enorme. E Palamara ammette: «Il nostro obiettivo era contrastare Berlusconi, con qualsiasi mezzo». Ecco, qui sta la verità indicibile ancora oggi.”

Da ilmattino.it il 18 ottobre 2021. Caso escort nelle residenze dell'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: la Corte di Cassazione conferma due anni e dieci mesi di reclusione per Gianpaolo Tarantini. Diventa così definitiva la condanna dell'imprenditore barese. I giudici della Terza Sezione Penale della Cassazione hanno rigettato i ricorsi presentati tanto dai legali dell'imputato quanto dalla procura generale di Bari (un nuovo processo d'appello per un aumento di pena), confermando così la pena stabilita dalla Corte d'Appello del capoluogo pugliese.

Il reclutamento della prostituzione e la prescrizione

L'imprenditore barese era accusato di reclutamento della prostituzione per aver portato escort, tra il 2008 e il 2009, nelle residenze dell'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Tarantini, difeso dagli avvocati Nicola Quaranta e Vittorio Manes, a settembre del 2020 in Corte di Appello, ha visto ridotta la condanna da 7 anni e 10 mesi del primo grado a 2 anni e 10 mesi del secondo grado per prescrizione di 14 dei 24 episodi contestati. Condanna confermata oggi dai supremi giudici che hanno anche dichiarato inammissibile il ricorso della parte civile Patrizia D'Addario, che era stata esclusa in Appello ma 'riammessa' davanti alla Suprema Corte.

Rigettata la richiesta di un nuovo appello

Nel corso della requisitoria davanti ai giudici della Suprema Corte, il sostituto procuratore generale della Cassazione Luigi Giordano, in accoglimento del ricorso presentato dalla Procura Generale di Bari, aveva chiesto, invece, un processo d'Appello per valutare un aumento di pena. «Attendiamo le motivazioni della sentenza per capire quale è stato il ragionamento fatto per arrivare a questa decisione», ha commentato il difensore di Tarantini, l'avvocato Nicola Quaranta, dopo il verdetto dei giudici della Terza Sezione Penale di conferma della condanna a due anni e 10 mesi. 

La difesa: legge penale, non codice morale

«Noi applichiamo la legge penale non il codice morale». Così il professor Vittorio Manes, difensore assieme al collega Nicola Quaranta di Gianpaolo Tarantini, ha chiuso il dibattimento nel processo in Cassazione a carico dell'imprenditore pugliese accusato di reclutamento della prostituzione, facendo proprie le parole riecheggiate nel tribunale di Lille nel processo a Dominique Strauss-Kahn. Secondo i difensori di Tarantini, infatti, va valutata «la tassatività della fattispecie» di reclutamento contestata, anche perché mancano a loro parere, «i tratti dell'offensività» del reato. «Il reclutamento presuppone una stabilità del rapporto di adesione, assimilabile a un rapporto di subordinazione», mentre - ha sostenuto Manes - nel caso concreto «non c'è certezza sull'esito dell'ingaggio». Tra le richieste dei difensori al collegio anche quella di valutare l'eventuale rinvio degli atti alla Consulta affinché chiarisca i termini del reclutamento nell'ambito della legge Merlin.

 Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 25 ottobre 2021. Dunque, non erano cene eleganti. Ma quelle organizzate dall'allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, erano feste in cui più donne si prostituivano. Tredici anni dopo (le serate a Palazzo Grazioli cominciarono a settembre del 2008) la giustizia mette un primo punto definitivo su un pezzo di storia del nostro Paese. I giudici della Cassazione, la scorsa settimana, hanno infatti rigettato l'appello degli avvocati di Gianpaolo Tarantini, l'imprenditore barese che provò a scalare le grandi aziende italiane portando prostitute a casa dell'ex premier, confermando la condanna di appello a due anni e dieci mesi. Tarantini non andrà in carcere perché gli sono state riconosciute attenuanti e perché, soprattutto, una parte importante dei reati è andata prescritta. Ma quello che resta è uno spaccato inquietante: prostitute, alcune vicine a personaggi della criminalità organizzata, che frequentavano casa del presidente del Consiglio. Imprenditori che le pagavano nella speranza di ottenere prebende dal premier. L'ennesimo macigno lungo il cammino di Berlusconi verso un'ipotetica sedia da Presidente della Repubblica. "Tarantini e gli altri imputati - si legge infatti nella sentenza di Appello ora confermata dalla Cassazione - assecondavano il desiderio dell'allora premier Silvio Berlusconi, presso le residenze di Palazzo Grazioli, Villa Certosa e Villa San Martino, di circondarsi in momenti di diporto extra-istituzionale di donne avvenenti e disponibili". Non c'era dubbio, secondo i giudici, che quelle fossero prostitute. "Si muovevano nell'esclusiva prospettiva di conseguire munifiche elargizioni economiche o altri vantaggi personali o di dare una svolta alle proprie esistenze". "Sullo sfondo - continuano - di questo scenario ludico e disimpegnato si è nitidamente stagliata l'immagine dominante e assorbente di Gianpaolo Tarantini, il quale, una volta introdotto nelle "stanze del premier", si è adoperato a soddisfarne le urgenze sessuali mosso dalla finalità di lucrare dapprima la confidenza e quindi la gratitudine. Non a caso il progetto di Tarantini è stato proprio quello di sfruttare il supporto di Berlusconi per realizzare la propria ascesa economica dapprima mediante l'elezione a membro del parlamento europeo e poi, tramontato questo orizzonte, attraverso il coinvolgimento in un giro di commesse pubbliche riferibili a Protezione civile e Finmeccanica". Tarantini, dopo la decisione della Cassazione, ha ribadito la sua innocenza - "non ho costretto nessuno" - e ha difeso il Cavaliere - "puniscono me per colpire lui". Ma in realtà Berlusconi avrebbe in piedi anche un processo a Bari ma, in quello che probabilmente è la vicenda più incredibile e lunga della sua storia giudiziaria, è quasi scontato che non si potrà arrivare a una sentenza. L'ex premier è accusato di aver pagato Tarantini perché mentisse ai giudici sostenendo che quelle nelle sue residenze altro non erano che "cene eleganti". Una tesi ora bollata come fandonia. Ben a dodici anni dai fatti, a sette dall'udienza preliminare, a quasi tre da quella che avrebbe dovuto essere la prima udienza, il processo è bloccato e dovrà ora ripartire da zero: è arrivato un nuovo giudice e gli avvocati di Berlusconi (Roberto Sisto e Niccolò Ghedini) hanno riproposto una serie di questioni che erano già state respinte dal precedente giudice. La prossima udienza è fissata il 26 novembre, tra un mese. Nulla, rispetto a 12 anni

(ANSA il 20 ottobre 2021) - "Il giorno dopo la mia presenza in Tribunale ho ricevuto una telefonata da Berlusconi che mi invitava ad Arcore, io ho negato l'invito dicendo che, se voleva, di contattare i miei legali. I toni non erano molti amichevoli". Lo ha detto, parlando a margine dell'udienza sul caso Ruby ter, Barbara Guerra che dopo la scorsa udienza aveva attaccato il Cavaliere, così come Alessandra Sorcinelli, spiegando di voler dire la "verità" in aula e che le serate di Arcore non erano cene eleganti. Anche Sorcinelli oggi ha detto di aver ricevuto una telefonata dall'ex premier, "24 ore dopo" l'udienza del 6 ottobre, ma di non aver risposto. "Cene eleganti? Ci viene da ridere, non scherziamo", avevano detto Guerra e Sorcinelli, due delle giovani che presero parte alle serate a Villa San Martino e che sono imputate nel caso Ruby ter assieme a Berlusconi e altre 'olgettine', al termine dell'udienza del 6 ottobre. Entrambe avevano affermato che l'ex premier "ci ha rovinato la vita" e si erano dette pronte a parlare durante l'esame in aula nelle prossime udienze. Oggi sia Guerra che Sorcinelli, parlando sempre ai cronisti a margine dell'udienza, hanno raccontato di aver ricevuto, mentre erano assieme il 7 ottobre, chiamate dal leader di FI. "È durata 10 minuti questa conversazione - ha spiegato Guerra - poi magari quando ci sarà l'udienza con i magistrati farò presente anche di questa telefonata". In aula, ha aggiunto Guerra, difesa dal legale Nicola Giannantoni, "mi difenderò perché sono innocente, non sono stata corrotta e non ho preso soldi. Anzi, sono solo una vittima di questo processo". I toni della telefonata, ha spiegato, "non erano molti amichevoli, non ho più rapporti con lui e quindi sentirmi chiamare dopo 24 ore, dopo mesi che non ti sento è un po' strano". "Siamo due persone perbene, di buona famiglia - ha chiarito Sorcinelli, difesa dall'avvocato Luigi Liguori - e invece ci siamo trovate sui giornali come due criminali, due poco di buono. Abbiamo lasciato correre sperando nel buon senso delle persone che venivano qua a testimoniare, io sono qua come donna per riprendere la mia dignità che per 10 anni è stata calpestata, ho il diritto di difendermi e di chiarire situazioni in cui sono stata coinvolta per gente che aveva la responsabilità su quanto accaduto". Onestamente, ha aggiunto, "non posso risponderne io, io sono piccola così rispetto a un uomo così potente, ho anche un po' di paura. Berlusconi ha chiamato anche me - ha concluso - ma non ho risposto. Non ho voluto rispondere sapendo che era lui".

(ANSA il 20 ottobre 2021) - "E' una valutazione che certamente dovremo svolgere più avanti, certamente tenendo conto delle sue condizioni di salute, ma è un'opzione certamente praticabile". Così il legale di Silvio Berlusconi, l'avvocato Federico Cecconi, ha risposto ai cronisti sulla possibilità che l'ex premier decida di rendere l'esame da imputato nel processo milanese sul caso Ruby ter. Cecconi è tornato a parlare anche della lettera inviata nelle scorse settimane da Berlusconi ai giudici della settima penale nella quale, in sostanza, rinunciava ad essere sottoposto ad una perizia medico legale, disposta dai giudici dopo l'ennesimo legittimo impedimento per motivi di salute, perché contestava in particolare gli accertamenti psichiatrici. "La sua dichiarazione per come è stata recepita nella lettera inoltrata al Tribunale è molto chiara - ha chiarito l'avvocato - questo non vuol dire che non ci sia la massima forma di rispetto per il Tribunale che finora ha dato dimostrazione per ora di una obiettività nell'analisi delle risultanze processuali, fermo restando che abbiamo tutta una serie di aspetti processuali che dobbiamo andare a trattare". Oggi, nel processo a carico di Berlusconi e altri 28 imputati, tra cui la stessa Karima El Mahroug, viene sentito l'ultimo teste dell'accusa, un investigatore di polizia giudiziaria che sta ripercorrendo passo passo l'attività d'indagine svolta. Indagine che ha portato il procuratore aggiunto di Milano Tiziana Siciliano e il pm Luca Gaglio a contestare che il Cavaliere avrebbe corrotto con milioni di euro in totale le ospiti delle serate di Arcore affinché negassero il "bunga-bunga" sentite come testi nei processi sul caso Ruby. Dopo l'ultima deposizione nelle prossime udienze ci saranno gli esami degli imputati. Se Berlusconi, come chiarito dal legale, sta valutando se rendere esame, fuori dall'aula con dichiarazioni pubbliche già tre giovani (Guerra, Sorcinelli e Polanco) si sono dette pronte a "raccontare la verità".

Le strategie del "Sistema" contro il Cavaliere. Da Noemi a Ruby, Palamara svela tutti i tentativi per far fuori Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 29 Gennaio 2021. I cecchini che hanno puntato Silvio Berlusconi sono stati tanti, appostati su diversi Palazzi. Il primo, il più agguerrito, è stato il sindacato dei magistrati, che dopo la sua vittoria elettorale del 2008, si rafforzò immediatamente nella sua componente della sinistra più estrema. Anche Luca Palamara è della partita, ma la vera anima nera è Edmondo Bruti Liberati, lo stesso procuratore di Milano che dopo l’unica sentenza di condanna subìta dal leader di Forza Italia sentenziò che era immediatamente eseguibile, mentre il suo amico Matteo Renzi chiudeva la pratica con il suo famoso “game over”. Ma ben prima di poter cantar vittoria con il sigillo della cassazione, i cecchini avevano adocchiato non la vita politica del premier, ma quella personale. Gli piacciono le donne? È un tipo galante? Scaviamo su questo, qualcosa si troverà. E se non si trova lo si fa trovare. Si parte da un episodio dall’apparenza insignificante, del tutto innocente: Berlusconi che va a Casoria dove una ragazzina di nome Noemi Letizia festeggia i suoi diciotto anni. Il presidente del consiglio conosce il padre, che lo ha invitato all’evento, ma il fatto diventa presto irrilevante. Una cronista della redazione napoletana di Repubblica, che molto opportunamente gironzolava da quelle parti, porta a casa il suo piccolo scoop. Che diventerà presto una valanga. Lo scandalo sessuale, si sa, accende le pruderie del maschio latino e di tutti coloro che «danno consigli, non potendo più dare il cattivo esempio». Così i cecchini del “Sistema” di cui racconta Luca Palamara nel suo libro, si appostano sui tetti. Cecchini in toga e cecchini al computer. Passa solo qualche mese dalla sera di Casoria, quando si punta su Bari. Si parte dai “peccati” per trasformarli in reati. Il clima tra il governo e le toghe era già da guerra nucleare. Non c’era pm che aspettasse la notitia criminis per aprire un fascicolo intestato “Berlusconi più altri”, tutti con la lanterna in mano a cercare. Sembravano piccoli Diogene pensando di essere tanti Bartolo da Sassoferrato, quello definito lucerna juris. A Bari nell’estate del 2009 sta per insediarsi il nuovo procuratore capo Antonio Laudati, magistrato molto stimato, che appartiene alla corrente moderata di Magistratura indipendente. Già un piccolo difetto in partenza. La città è un verminaio di frequentazioni non sempre opportune tra schiere di magistrati (una cinquantina almeno, calcolerà il neo-procuratore) e ambienti imprenditoriali, in cui spiccherà Giampaolo Tarantini con le sue feste. Il “caso” di Patrizia D’Addario scoppierà anche qui con lo scoop di un cronista locale del Corriere della sera. Che si guarda bene dal frugare nei costumi sessuali dei magistrati festaioli, ma punta diritto su Silvio Berlusconi, cui Tarantini aveva presentato la ragazza (che verrà incoraggiata anche a scriverci sopra un libro) a Roma. I cecchini cominciano con il puntare Laudati, anche con la pallottola più schifosa, quella dell’esposto anonimo (uno di quelli con le impronte digitali sopra), cui seguirà una lamentela del procuratore generale su una presunta lentezza del dottor Laudati nel depositare le carte delle sue inchieste. Ecco dunque il sospetto più bruciante: intelligenza con il nemico. Per i cecchini in toga Silvio Berlusconi non era il presidente del consiglio, ma il Nemico. E il procuratore di Bari, se non si era trasformato in killer a sua volta, non poteva che esserne il complice, nemico a sua volta. Così Laudati finì indagato a Lecce per abuso d’ufficio e favoreggiamento. Superfluo dire che la sua posizione finirà poi archiviata. Ma quel che conta è ricordare che quel magistrato si era posto fuori dal “Sistema” e salvare lui avrebbe voluto dire salvare Berlusconi, cosa impensabile. Ormai i cecchini avevano colpito. Dice Luca Palamara su quel periodo: «Da presidente dell’Anm sono tra quelli che imbracciano il fucile». Quel fucile però ha solo due colpi in canna, uno per Laudati, l’altro per Berlusconi. E questo nonostante nello stesso periodo fossero state rese pubbliche alcune fotografie molto imbarazzanti per una serie di magistrati pugliesi. Che cosa ci facevano esponenti di Magistratura democratica come Gianrico Carofiglio, Francesca Pirrelli e Susanna De Felice al tavolo con il presidente della Regione Nicki Vendola da poco archiviato dagli stessi uffici per una vicenda che riguardava il mondo della sanità? Sciocchezzuole che non interessavano il Csm né il sindacato delle toghe. Gli antipasti erano ormai serviti, quando a Milano viene messo in tavola il piatto forte, il “caso Ruby”. Ritroviamo qui agguerrito più che mai il procuratore Bruti Liberati, ma anche colei che era considerata un po’ la giamburrasca della procura, quella Ilda Boccassini che da giovane era stata la “pm in blue jeans” e poi quella che aveva gridato il suo “j’accuse!” contro i suoi colleghi che avevano lasciato solo Giovanni Falcone fino al suo assassinio. Da allora si occupava di inchieste di mafia, i reati contro la pubblica amministrazione erano di competenza di Alfredo Robledo. Bruti scippa a Robledo l’inchiesta su una presunta concussione di cui si sarebbe reso responsabile il presidente del consiglio per la famosa telefonata alla questura di Milano per far consegnare Ruby alla consigliera regionale Nicole Minetti, e l’assegna a Boccassini. La quale si ingolosisce subito, afferra il trampolino nella speranza di sedere un domani al posto del suo capo. E fa anche il di più. Il Pornofilm nasce così, in una serata di maggio del 2010, al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano. Negli stessi uffici da cui era partita la caccia al cinghialone e sopra quella sala stampa in cui si brindò il giorno della prima informazione di garanzia nei confronti di Bettino Craxi. Ricordando tutto quel che seguì e il conflitto tra Bruti e Robledo anche per lo scippo su quell’inchiesta di cui si occupò il Csm fino alla defenestrazione del magistrato normale che stava fuori dal “Sistema”, c’è una domanda che andrebbe posta a tutti coloro che in quel tempo erano membri, togati e laici, di quel consiglio. Occhio alle date. Ruby viene fermata e rilasciata nella famosa notte di maggio del 2010. Silvio Berlusconi viene iscritto nel registro degli indagati il 21 dicembre e in seguito raggiunto da un invito a comparire il 14 gennaio 2011. Che cosa è successo tra Milano e Arcore tra maggio e dicembre del 2010? È successo che la ragazza viene ripetutamente interrogata, e anche che tutte le persone che frequentano la casa del presidente del consiglio sono pedinate, controllate, fotografate, intercettate. Per sei mesi si tesse la tela del ragno nei confronti del Nemico, cioè si indaga su di lui in violazione di ogni norma di procedura, comprese le guarentigie che riguardano i parlamentari. Coloro che in quei giorni erano membri del Csm si sono mai resi conto di quel che stava accadendo, o l’odio per il Nemico era comune a tutti? Se dubbi ci sono stati (e ci furono, a quanto ci racconta Palamara), pensò bene Bruti Liberati a spazzarli via. Chiese e ottenne dal suo referente al Csm, Giuseppe Cascini, la solidarietà della corporazione ai pubblici ministeri milanesi. Che arrivò, con la benedizione del Presidente della repubblica. Sappiamo come andò a finire quella vicenda, con la condanna di Silvio Berlusconi in primo grado e l’assoluzione in appello e cassazione. Ma nulla fu indolore. Non per lui, non per le ragazze trattate come prostitute, molte delle quali persero il lavoro e furono poi aiutate dal leader di Forza Italia che per quel motivo è ancor oggi processato. Ma non possiamo dimenticare il fatto che per fortuna ancor oggi c’è magistrato e magistrato. Chi è dentro il “Sistema” si salva, come il giudice Enrico Tranfa, presidente della corte d’appello che assolse nonostante il suo parere contrario e per quel motivo si dimise dalla magistratura con grande fanfara. E chi era fuori dal “Sistema”, come il pm Antonio Sangermano, che pure aveva condotto le indagini insieme a Ilda Boccassini, che seppe rispettare quella sentenza e osò persino denunciare la forzatura che fu fatta della Costituzione quando Berlusconi, su iniziativa di Matteo Renzi, fu espulso dal Senato dopo la sentenza della cassazione per un reato fiscale. Anche Sangermano fu esposto alla mira del cecchino sul tetto del palazzo di fronte. Si arrivò persino a chiederne le dimissioni dalla magistratura. Ecco quel che capita a chi sta fuori dal “Sistema”.

Quando con una telefonata all’alba iniziò la caccia a Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Luglio 2020. Mille giorni dopo Tangentopoli e Mani Pulite mi capitò di venir svegliata di notte. O forse era l’alba del 22 novembre 1994. Senza capire che ora fosse né dove io mi trovassi, risposi al telefono con l’immediata sensazione che qualcosa di grave fosse accaduto o stesse per accadere. Appresi così, dalla voce del mio amico Memmo Contestabile, sottosegretario alla giustizia, che il Corriere della sera sarebbe uscito a pagina piena con la notizia di un’informazione di garanzia al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Ci risiamo, ho pensato subito. Benché non frequentassi più da due anni la sala stampa del Palazzo di Giustizia di Milano, rividi con lo sguardo del passato il quarto piano con gli uffici della procura, immaginai gli sguardi soddisfatti dei sostituti procuratori che incedevano nel corridoio con il consueto codazzo dei cronisti giudiziari. Ebbi l’immagine plastica dell’ufficio da cui era partita la notizia in esclusiva per il Corriere e la faccia del giornalista prescelto per lo scoop. E la mente geniale di chi aveva scelto la data adatta. Ero andata a Napoli in compagnia del ministro guardasigilli Alfredo Biondi e il sottosegretario Contestabile, i quali con me, che ero Presidente della Commissione giustizia della Camera, avevano formato il primo gruppo dei garantisti ai tempi del governo Berlusconi. L’appuntamento era di quelli destinati a diventare storici. Se poi lo fu, sarà per motivi opposti a quelli sperati. La mattina in cui Berlusconi, e sarà la prima volta per un presidente del Consiglio in carica, riceverà un mandato di comparizione firmato dal pm Antonio Di Pietro, si sarebbe inaugurata la prima Conferenza mondiale sulla giustizia. E si inaugurò, davanti alla faccia sgomenta di personalità del mondo politico e giudiziario provenienti da tutto il mondo. E noi relatori costretti a sfilare in una passerella accecante di fotografi e televisioni. Tutti avevano visto il Corriere. Seppi da subito che il governo non sarebbe durato a lungo. La mia esperienza degli anni precedenti, prima ancora di Tangentopoli e fin dai tempi della Duomo Connection, mi aveva insegnato che una notizia di cronaca giudiziaria, se va a toccare la politica, non è mai frutto solo di attività giornalistica. E il Corriere non era l’Unità, ma era Confindustria e Mediobanca. Avevo negli occhi il percorso con cui si erano salvati i proprietari di grandi testate, chinando la testa davanti alle Procure ed evitando il carcere. Gli industriali della carta insieme ai propri giornalisti avevano svolto il ruolo di tricoteuses mentre i procuratori alzavano le ghigliottine. Il “matrimonio” non si era mai sciolto, fin dal giorno in cui il procuratore Borrelli aveva ammonito: «Chi ha scheletri nell’armadio non si candidi». Quell’armadio, nelle sue parole, stazionava in una stanza di casa Berlusconi. Che non solo si era candidato, ma aveva anche vinto le elezioni. Il primo conto lo aveva già pagato, nell’estate del 1994, quando era stato costretto a ritirare il famoso “decreto Biondi”, che aveva tentato di mettere ordine nei principi della custodia cautelare. Il provvedimento era stato da subito ribattezzato “salvaladri” e i pm di Milano avevano sfilato davanti alle telecamere con le barbe lunghe e gli occhi arrossati minacciando dimissioni di massa. Il decreto non sarà riconvertito, ma quegli stessi magistrati che, dicevano, con quelle scarcerazioni non potevano più lavorare, non riarrestarono quasi più nessuno. La manette erano dunque così indispensabili? La mattina del 22 novembre 1994 era stata anticipata da strani movimenti nei giorni precedenti, al quarto piano del palazzaccio di Milano. Numerosi cronisti avevano notato il passaggio di alti ufficiali dei carabinieri e un andirivieni di pm che scappavano via dai giornalisti con l’aria sorniona del gatto che si lecca i baffi dopo un buon pranzo. Quelli del Corriere sono stati più bravi degli altri? Mavalà. Certo, ci fu un cronista del quotidiano Avvenire che aveva qualche rapporto con ambienti in divisa e che ebbe l’intuizione (chiamiamola così) prima degli altri. Ma l’intrusione si risolse con la sua assunzione al primo quotidiano d’Italia. E lo scoop ebbe inizio, con troppi particolari perché si potesse sostenere che i cronisti non avevano in mano il pezzo di carta dell’invito a comparire. Qualche anno dopo lo confermò, gridandolo in faccia a Di Pietro durante una trasmissione tv, Sandro Sallusti, che era stato capocronista del Corriere. Da allora fu una slavina. I particolari dell’inchiesta, tutti i giorni, inonderanno ogni quotidiano, ogni televisione. Berlusconi apprenderà a mezzo stampa di essere indagato per una corruzione alla Guardia di Finanza, da cui sarà in seguito prosciolto. In seguito, appunto. Dopo che il suo governo sarà caduto. È particolarmente urticante, anche a rileggere dopo tanti anni, quel che scrivevano nei giorni successivi i giornali sulla “riservatezza” dello loro fonti. Roba da ridere, per chi come me aveva frequentato quegli uffici e quei corridoi, a volte partecipando al banchetto. Sentite questa: «Borrelli si chiude nel suo ufficio. Davigo, Colombo e Greco continuano a marciare nei corridoi con documenti e cartelle sottobraccio: sorridono, si guardano intorno, passano oltre. Senza parlare». Senza parlare? Ahah. Ho dichiarato diverse volte pubblicamente che le notizie coperte dal segreto me le avevano sempre date i magistrati e nessuno mi ha mai smentito. Non potrebbero. Intanto ogni giorno, sempre più smarrito e arrabbiato, Berlusconi apprendeva che un po’ tutte le Procure italiane gli avevano messo gli occhi addosso, che a Palermo pensavano lui fosse il mandante delle stragi di mafia. Fin da allora, ma certe toghe c’erano già, da quelle parti. Il ribaltone era nell’aria. Alla faccia di quello che avrebbe dovuto essere il controllore delle televisioni italiane, l’ultima parola sui media l’avevano sempre i procuratori. Ogni quotidiano, non solo il Corriere ma anche Repubblica, la Stampa e l’Unità erano i megafoni di Borrelli e i suoi sostituti. La loro parola era sempre d’oro. «Noi ci limitiamo ad applicare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale», sussurrava con voce flautata il procuratore capo. Tra virgolette. Ma quando le virgolette si chiudevano arrivava la polpa e si parlava di sedici interrogatori, di ampia documentazione di un sistema di conti bancari, e anche di una fiamma gialla in veste di pentito. Tutto falso, tutto inventato, perché Berlusconi verrà prosciolto. Dopo. Ogni giorno leggevo i quotidiani, guardavo le firme sotto le indiscrezioni e riconoscevo le impronte digitali del magistrato che aveva cantato sotto ogni notizia. I matrimoni tra pm e cronisti erano sempre indissolubili. Il terreno ormai era arato. Ormai anche alcuni di coloro che parteciparono fin dalla semina – parlo di ex cronisti giudiziari – ammettono che senza la complicità della stampa probabilmente non ci sarebbero stati (per lo meno non in quelle dimensioni) né Tangentopoli, né la caccia a Craxi né la fine del primo governo Berlusconi. E anche, dice qualcuno, non sarebbe successo niente senza la violazione di qualche regola. Ma intanto la storia è andata avanti in quel modo tutto politico, pieno di complicità e di imbrogli. In cui i giornalisti sono stati solo i cicisbei di qualcuno che contava più di loro. Quanto al primo governo Berlusconi, il colpetto finale lo diede, nel suo discorso di Capodanno, Oscar Luigi Scalfaro. Il peggior Presidente della Repubblica italiana. Ma i mandanti erano altri.

Il plotone d'esecuzione delle toghe. Silvio Berlusconi, dal 1994 a oggi storia di una persecuzione italiana. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'1 Luglio 2020. Il plotone d’esecuzione che il primo agosto del 2013 puntò le armi e portò a termine l’esecuzione contro l’innocente Silvio Berlusconi, non è stato il primo né l’unico. Anche se quella pronunciata dalla cassazione presieduta da Antonio Esposito, oggi amicone di Marco Travaglio, è stata l’unica sentenza di condanna. Ma ci hanno provato in tanti, almeno una settantina di volte. All’inizio, la palma del vincitore, per costanza e impegno, andò , in una gara senza concorrenti, al procuratore capo di Milano, il dottor Francesco Saverio Borrelli. Berlusconi, dopo l’ultimo defatigante vano tentativo per convincere Mino Martinazzoli a impugnare le redini del defunto pentapartito e candidarsi contro Achille Occhetto alle elezioni del 1994, stava cogitando. E intanto che lui cogitava se buttarsi in politica e impedire l’arrivo dei “comunisti” a Palazzo Chigi, Borrelli già sentenziava: chi ha scheletri nell’armadio, non si candidi. Intanto che lui sentenziava (benché dovesse sapere che i procuratori indagano, solo i giudici emettono sentenze) , i suoi uffici già lavoravano con il codice penale tra le mani. Era il 12 febbraio (le elezioni saranno il 28 marzo) e al Circolo della stampa il Polo delle libertà presentava le sue liste, quando in Procura volevano già arrestare Berlusconi junior, e ancora Borrelli sentenziava: il voto non ci può fermare, la giustizia è un juke-box, se il gettone è buono la canzone va suonata. Era già partita l’inchiesta sul Milan, la Procura stava già indagando a 360 gradi anche su Standa e Publitalia. Gli uomini della procura della repubblica di Milano, dal palcoscenico dei trionfi dei due anni precedenti, quelli di Mani Pulite in cui ogni regola era saltata ma loro si ritenevano invincibili, avevano affondato i denti nel collo di Silvio Berlusconi e non lo molleranno più. Salvo poi portare a casa anche un bel numero di sconfitte, dal caso Sme fino al processo Ruby, come si vedrà. Ma nel 1994, se il governo Berlusconi durerà solo otto mesi, il partito dei piemme ebbe sicuramente il suo peso. Dopo la vittoria elettorale del 28 marzo, quando il presidente Scalfaro darà al leader di Forza Italia l’incarico di formare il nuovo governo, ecco che da Milano si leverà di nuovo la voce del dottor Borrelli: se il presidente ci chiama, non potremo dire di no. Peccato fosse stato già chiamato un altro. Così parte la prima raffica di arresti di uomini Fininvest. Mentre i primi mesi di governo scorrono, ecco i due grandi inciampi. Il decreto Biondi sarà ucciso in culla, nel mese di luglio, dall’immagine scarmigliata e scomposta dei procuratori milanesi che dichiaravano senza pudore alcuno di non poter più lavorare in assenza del potere di manetta continua. E poi arrivò novembre, e il presidente del consiglio era a Napoli a presiedere un convegno internazionale sulla criminalità davanti agli alti rappresentanti di 140 Paesi, quando il Corriere amico del Pool dei procuratori sparò tutte le colonne di piombo (o di quel che era) della prima pagina per annunciare che Berlusconi era indagato e convocato da Di Pietro per corruzione della Guardia di finanza. Fu l’inizio della fine. Quel primo plotone d’esecuzione che si esercitò quell’anno seppe lavorare bene e ancor meglio seppe colpire. Un mese dopo, il primo governo Berlusconi, il primo della seconda repubblica, il primo presieduto da un non politico, era affondato. La storia dirà però quanto pretestuose e politiche fossero quelle accuse di corruzione della Guardia di finanza che avevano acceso un faro di discredito del presidente del consiglio in tutto il mondo. Per tutti e quattro i capi d’accusa la cassazione assolse Silvio Berlusconi “per non aver commesso il fatto”. Ma siamo alla fine del 2001, lui ha vinto di nuovo le elezioni, ma sono passati sette anni e quattro governi in cui il leader di Forza Italia è stato costretto all’opposizione anche grazie a quelle inchieste giudiziarie. Anni in cui la magistratura milanese aveva lavorato a tempo pieno sul proprio indagato preferito. Iniziano nel 1998 le indagini sul processo forse più politico di tutti, per la caratura e i nomi di quelli che ne furono i protagonisti, quello che riguardava la vicenda Sme, la Società Meridionale di Elettricità che nel lontano 1985 il presidente dell’Iri Romano Prodi (l’unico a scampare a Mani Pulite) voleva vendere in via privilegiata all’imprenditore Carlo de Benedetti, ignorando la presenza di altre cordate concorrenziali, tra cui quella di Barilla, Ferrero e la Fininvest di Berlusconi. Finì che la Sme non fu venduta, ma De Benedetti intentò una causa civile e la perse. Anni dopo qualcuno, in una intricata vicenda di storie politiche e personali, risollevò la storia dal dimenticatoio e la magistratura milanese fu lesta a indagare e fare processare Berlusconi, accusandolo di aver “aggiustato” la causa civile. Anche questa volta, di processo in processo, si arriverà alla cassazione del 2007. Assoluzione con formula piena. Se vogliamo completare il quadro di una storia che non è ancora finita e che dura da trentasei anni e ha al centro un uomo che si chiama Silvio come nome di battesimo, ma anche Imputato come nome acquisito e non ancora abbandonato, non possiamo trascurare, prima di arrivare alla vicenda del plotone di esecuzione del primo agosto 2013, il “caso Ruby”. Qui c’entra forse poco Borrelli (anche perché nel frattempo era arrivato Edmondo Bruti Liberati a presiedere la procura milanese), ma molto una pm, Ilda Boccassini, che in tutta la vicenda ha saputo mettere insieme tutte le sue pulsioni di donna -non tanto nei confronti dell’Imputato, quanto nei confronti di una serie di ragazze belle e ambiziose- con lo stile investigativo degli uomini della procura della repubblica di Milano. Quello stile noncurante nei confronti di regole come la competenza territoriale. Oppure, come nel caso Ruby, di interrogare in una certa data la ragazza, di avere, secondo l’ipotesi accusatoria, già elementi per iscrivere Berlusconi nel registro degli indagati, ma di aspettare, indugiare, come se non si fosse sicuri. Ma intanto l’orologio dei termini processuali va a rilento, anzi è fermo e non scade mai. Se l’orologio è fermo i termini non scadono e la prescrizione non arriva mai. Si può indagare all’infinito, spiare, controllare la casa, gli ospiti, le abitudini. Così da luglio si arriva a dicembre, si iscrive l’indagato, e poi d’un tratto è febbraio. E quando il Parlamento nega al procuratore la possibilità di perquisire casa e ufficio del dottor Spinelli, ragioniere di Berlusconi, ecco che l’Imputato viene scaraventato di peso nella gogna mediatica di un processo celebrato con rito immediato, quindi direttamente in aula. La giustizia non avrà le vesti delle tre componenti del tribunale di primo grado, quelle che Berlusconi chiamerà “comuniste e femministe”, che forse non erano neanche dispiaciute della definizione, ma che si distinsero, come un po’ tutti in questi processi, anche i giudici che poi assolsero, per la loro misoginia e il loro moralismo. Ogni ragazza che aveva frequentato la casa di Arcore non era altro che una puttana. Donne che odiano le altre donne, potremmo dire. Comunque l’altalena delle sentenze andò così: condanna in primo grado, assoluzione in appello e cassazione. Naturalmente non è finita qui, perché da cosa nasce cosa. E Rubi bis e poi ter, e poi chissà. Così come la parte più infamante (e ridicola, se Silvio l’Imputato me lo permette) che, oltre che corrotto e puttaniere vuol vedere in Berlusconi un mandante di stragi mafiose. Il combinato disposto tra la procura di Palermo e quella di Firenze fa aprire tre volte il fascicolo. Ecco la cadenza. Indagato nel 1996, archiviato nel 1998. Indagato nel 2009, archiviato nel 2013. Indagato nel 2019, ancora indagato. Ma aspettiamo l’inevitabile terza archiviazione. Che barba, che noia. Questa è una parte della storia giudiziaria, cioè politica, di Silvio Berlusconi. Certo, insieme alle tante assoluzioni e proscioglimenti, ci sono le cause andate in prescrizione. Ma questo non è un problema dell’Imputato, ma della magistratura. Quella stessa che passa il tempo a occuparsi della propria carriera, dei propri guadagni e degli intrallazzi politici. La storia dell’Imputato Berlusconi finisce qui. Poi c’è quella del condannato. Che è politica nella sua parte penale, anche se è un tribunale civile a dirci che non ci furono imbrogli né opacità nella compravendita di diritti di film Usa. Ed è politica perché uno di quei giudici che condannarono Berlusconi in Cassazione ce lo ha detto chiaramente. Ma è ancor più politica la coda che seguì quella sentenza, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, la legge Severino dai risvolti assurdi, la sua applicazione retroattiva benché i maggiori costituzionalisti del Paese fossero più che perplessi sulla sua applicabilità a Berlusconi. E un signore che era il segretario del Pd e che si chiama Matteo Renzi, che oggi si dice solidale con il Berlusconi che fu vittima di un plotone di esecuzione. Ma che allora ne preparò uno suo personale, di plotoni, stimolando i suoi senatori a votare in fretta per cacciare Silvio il Condannato dal Senato. Anche questo fa parte delle ingiustizie politiche che Silvio patisce da trentasei anni.

Mino Martinazzoli, il ricordo di Vittorio Feltri: "Odiava i politici, ecco perché lo ammiro". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 09 settembre 2021. In questi giorni quotidiani e tivù hanno ricordato Mino Martinazzoli, morto a 80 anni nella sua Brescia, dopo una vita piena come avvocato di grido e politico illustre. Di lui sono state scritte molte pagine intense, tutte meritate. Egli è stato un esponente democristiano di primo livello, fu ministro di Grazia e Giustizia. I suoi discorsi erano mirabili, incantavano esattamente come le arringhe che pronunciava in tribunale. Ma ci sono aspetti della sua personalità che i biografi improvvisati hanno taciuto. Provo io a colmare la lacuna.

Il quesito. All'inizio degli anni Novanta, quando imperversava l'inchiesta giudiziaria denominata Mani Pulite, lo Scudo Crociato cominciò a vacillare, perdeva consensi, mentre gli ex comunisti si rafforzavano sotto la guida di Achille Occhetto, ultimo segretario della Falce e martello. A quel punto Silvio Berlusconi ebbe l'idea di fondare un partito nuovo in grado di raccogliere i voti scaricati dal gruppo democristiano in crisi. Ma non sapeva a chi affidarne il timone. Interpellò anche me per avere un parere. Il Cavaliere mi domandò: lei sceglierebbe come capo Mariotto Segni oppure Mino Martinazzoli? La mia risposta fu secca: nessuno dei due. Perché, mi chiese il padrone delle emittenti private? Argomentai così la mia idea: Segni è bravo ma fragile, ha vinto il referendum sulle preferenze, un merito non trascurabile, però poi è sparito, mi rammenta quei tipi che trionfano alla lotteria di Capodanno, e poi smarriscono il biglietto fortunato. Lo lascerei alle sue elucubrazioni di ideologo stanco. E veniamo a Martinazzoli. Il quale è un genio, un principe del foro, un oratore mirabile, tuttavia non è popolare. Ama se stesso, giustamente, ma la politica non è il suo forte. Fisicamente sembra un cipresso che si trova a suo agio nel cimitero, il suo nome è Mino che è l'abbreviativo di Lumino, altro oggetto cimiteriale, esattamente come il fiore dei morti, cioè Crisantemino. Ovviamente scherzavo, ma Berlusconi pur ridendo mi prese sul serio, e mi interrogò di nuovo: Feltri, chi ci metterebbe lei a guidare il partito che ho in mente di organizzare? Non esitai. Quando dirigevo l'Europeo, settimanale storico, ordinai un sondaggio con questo quesito: qual è il personaggio più noto d'Italia? L'esito fu: il Cavaliere di Milano due. Pertanto, caro Silvio, faccia lei il leader e non se ne pentirà. Mi ascoltò e si mise alla testa di Forza Italia che poi, nel 1994, vinse inaspettatamente le elezioni. Nel frattempo scrissi sull'Indipendente, quotidiano scapigliato che all'epoca dirigevo con sommo divertimento, una serie di articoli comici nei quali sfottevo bonariamente Martinazzoli, che stava seppellendo la Dc, definendolo appunto Cipresso, Lumino e Crisantemino. Evidentemente i miei scherzi giornalistici non gli facevano piacere, cosicché un bel dì mi telefonò dicendomi che ne aveva piene le palle di leggerli.

Risposte evasive. Mi offrì la possibilità di fargli una intervista a Roma. Accettai, e un pomeriggio mi presentai nella sede democristiana (lui era segretario degli eredi di don Sturzo) armato di penna e taccuino. Lo interrogai a lungo ma le sue risposte erano evasive, retoriche; insistetti senza cavare un ragno dal buco. Alla fine, esausto, me ne andai. Il giorno appresso scrissi su Mino una mezza paginata a mio modo di vedere abbastanza brillante. Verso le 12 ricevetti una sua telefonata garbata, secondo il suo stile elegante e signorile. Ridendo mi disse: articolo interessante, peccato che lei non abbia intervistato me, bensì se stesso. Aveva ragione. Adesso che non c'è più, ammiro Martinazzoli perché la politica gli faceva schifo, tutta, tranne la sua.