Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2020

 

LO SPETTACOLO

 

E LO SPORT

 

SECONDA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2020, consequenziale a quello del 2019. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

INDICE

PRIMA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Un Giro di …Giostra.

Nudi e crudi.

Il Cinema delle donne e dei Gay.

Coppie che scoppiano.

Le scazzottate dei divi.

Gli acciacchi della Star.

Hall of Fame 2020.

Cinema e Musica Italiana da Oscar.

Grande Fratello Vip, perché i Big si (s)vendono così?

AC/DC.

Achille Lauro.

Adele.

Adriana Chechik.

Adriana Volpe.

Adriano Celentano.

Adriano Pappalardo.

Agostina Belli.

Ai Weiwei.

Aida Yespica.

Al Bano.

Alba Parietti.

Alberto Fortis.

Aldo Savoldello, in arte Mago Silvan.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Alex Britti.

Al Pacino.

Alena Seredova.

Alessandra Amoroso.

Alessandra Cantini.

Alessandro Bergonzoni.

Alessandro Gassmann.

Alessandro Mahmoud in arte Mahmood.

Alessandro Preziosi.

Alessia Marcuzzi.

Alfonso Signorini.

Alvaro Vitali.

Amadeus.

Amandha Fox.

Amanda Lear.

Ambra Angiolini.

Andrea Delogu.

Andrea Roncato.

Andrea Sartoretti.

Andrea Vianello.

Andrew Garrido.

Andy Luotto.

Angelica Scent.

Annalisa.

Anna Galiena. 

Anna Pepe.

Anna Valle.

Anna Falchi.

Anne Moore.

Anna Tatangelo e Gigi D'Alessio.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonio Ricci.

Antonello Venditti.

Antonio Zequila.

Arisa.

Asa Akira.

Asia Argento.

Asia Gianese.

Asia Valente.

Asmik Grigorian.

Autumn Falls.

Baby Marylin.

Bar Refaeli.

Barbara Alberti.

Barbara Bouchet.

Barbara Costa.

Barbara De Rossi.

Barbara D'Urso.

Beatrice Rana.

Beatrice Venezi.

Belen Rodriguez.

Bella Hadid.

Benedetta Porcaroli.

Benji & Fede.

Bianca Balti.

Bianca Guaccero.

Billie Eilish.

Billy Cobham.

Bobby Solo.

Brad Pitt.

Brigitte Bardot.

Brigitte Nielsen.

Brunori Sas.

Bugo.

 

SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cameron Diaz.

Carla Bruni.

Carla Vistarini.

Carlo Conti.

Carlo Verdone.

Carol Alt.

Caterina Balivo.

Caterina Caselli.

Caterina Collovati.

Caterina Guzzanti.

Caterina Piretti: Katiuscia.

Catherine Spaak.

Cécile de France.

Charlie Sheen.

Checco Zalone.

Chiara Ferragni e Fedez.

Chrissie Hynde.

Christian De Sica.

Claudia Gerini.

Claudia Galanti.

Claudio Amendola.

Claudio Baglioni.

Claudio Bergamin.

Claudio Bisio.

Claudio Cecchetto.

Claudio Lippi.

Clementino.

Clint Eastwood.

Cochi e Renato.

Costantino della Gherardesca.

Cristina D'Avena.

Cristina Quaranta.

Daisy Taylor.

Dalila Di Lazzaro.

Dana Vespoli.

Daniela Martani.

Daniela Rosati.

Danika e Steve Mori.

Danny D.

Dante Ferretti.

Dario Argento.

Dario Brunori.

David Guetta.

Davide Livermore.

Davide Mengacci.

Davide Parenti.

Demi Moore.

Diego Abatantuono.

Diego «Zoro» Bianchi.

Diletta Leotta.

Domiziana Giordano.

Donatella Rettore.

Donnie Yen, l'erede di Bruce Lee.

Duffy.

Ed Sheeran.

Edoardo ed Eugenio Bennato.

Elena Sofia Ricci.

Elena Sonzogni.

Elenoire Casalegno.

Eleonora Abbagnato.

Eleonora Giorgi.

Eleonora Daniele.

Elettra Lamborghini.

Elio Germano.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Canalis.

Elisabetta Gregoraci.

Elodie.

Elton John.

Ema Stockholma.

Emma Marrone.

Emis Killa.

Enrica Bonaccorti.

Enrico Bertolino.

Enrico Brignano.

Enrico Lucherini.

Enrico Montesano.

Enrico Nigiotti.

Enrico Remigio: il milionario.

Enrico Ruggeri.

Enrico Vanzina.

Enzo Iacchetti.

Enzo Ghinazzi-Pupo.

Enzo Salvi.

Erjona Sulejmani.

Eros Ramazzotti.

Eva Henger.

Eva Robin’s – Roberto Coatti.

Evan Seinfeld.

Eveline Dellai.

Ezio Bosso.

Ezio Greggio.

Fabio Canino.

Fabio Rovazzi.

Fabio Volo.

Fabri Fibra.

Fabrizio Corona.

Fasma.

Fausto Leali.

Federico Buffa.

Federico Zampaglione.

Ferdinando Salzano.

Ficarra e Picone.

Fiordaliso.

Fiorella Mannoia.

Fiorella Pierobon.

Fiorello Catena.

Fiorello Rosario.

Flavio Briatore.

Francesca Brambilla: "Bonas".

Francesca Calissoni.

Francesca Cipriani.

Francesca Sofia Novello.

Francesco Baccini.

Francesco Facchinetti.

Francesco Gabbani.

Francesco Guccini.

Francesco Sarcina e le Vibrazioni.

Franco Nero.

Franco Simone.

Franco Trentalance.

Fred De Palma.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gegè Telesforo.

Gemma Galgani.

Gene Gnocchi.

Georgina Rodriguez.

Gerardina Trovato.

Gerry Scotti.

Ghali.

Gialappa’s Band.

Giancarlo Giannini.

Giancarlo Magalli.

Gianfranco D' Angelo.

Gianfranco Vissani.

Gianluca Grignani.

Gianluca Fubelli: in arte Scintilla.

Gianna Dior.

Gianna Nannini.

Gianni Morandi.

Gianni Sperti.

Gigi Proietti.

Gina Lollobrigida.

Gino Paoli.

Giobbe Covatta.

Giorgio J. Squarcia.

Giorgio Moroder.

Giorgio Panariello.

Giovanna Civitillo.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanna Ralli.

Giovanni Allevi.

Giovanni Benincasa.

Giovanni Muciaccia.

Giovanni Veronesi.

Giuliana De Sio.

Giulia Di Quilio.

Giulio Rapetti: Mogol.

Giuseppe Cionfoli.

Giuseppe Povia.

Giuseppe Vetrano.

Gue Pequeno.

Gwyneth Paltrow.

Heather Parisi.

Helen Mirren.

Hitomi Tanaka.

Hoara Borselli.

Ilona Staller, per tutti Cicciolina.

Imen Jane.

Imma Battaglia.

Ines Trocchia.

Irene Ferri.

Isabella De Bernardi.

Isabella Orsini.

Isabella Rossellini.

Iva Zanicchi.

Ivan Gonzalez.

 

TERZA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

J-Ax.

Jacopo D’Emblema.

Jake Lloyd.

Jamie Lee Curtis.

Jane Birkin e Serge Gainsbourg.

Jason Momoa.

Jennifer Lopez.

Jerry Calà.

Jessica Rizzo, ovvero Eugenia Valentini.

Jim Carrey.

Joaquin Phoenix.

Joe Bastianich.

Johnny Depp.

Johnny Dorelli.

Jon Bon Jovi.

Jonas Kaufmann.

Jordan Jeffrey Baby, ossia Jordan Tinti.

Julija Majarcuk.

Julio Iglesias.

Junior Cally.

Justin Bieber.

Justin Timberlake.

Justine Mattera.

Katia Follesa.

Katia Ricciarelli.

Keanu Reeves.

Kevin Spacey.

Kim Kardashian.

Kristen Stewart.

Lacey Starr.

Lady Gaga.

Lando Buzzanca.

Laura Pausini.

Le Calippe: Debora Russo e Romina Olivi.

Le Donatella: Giulia e Silvia Provvedi.

Led Zeppelin.

Lele Mora.

Le Las Ketchup.

Le Lollipop.

Leo Gullotta.

Leonardo DiCaprio.

Levante.

Liana Orfei.

Ligabue.

Liliana Fiorelli.

Lillo&Greg.

Lino Banfi.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Battistello.

Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Lory Del Santo.

Luca Argentero.

Luca Barbareschi.

Luca Bizzarri e Paolo Paolo Kessisoglu.

Luca Ferrero.

Luca Guadagnino.

Luciana Turina.

Luigi Calagna e Sofia Scalia: Me contro Te.

Luigi Mario Favoloso.

Luisa Ranieri.

Lulu Chu.

Luna Star.

Macauley Culkin.

Maccio Capatonda: Marcello Macchia.

Madonna.

Maitland Ward.

Malcolm McDowell.

Malena Mastromarino.

Manila Nazzaro.

Manlio Dovì.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marcia Sedoc.

Marco Bellocchio.

Marco Carta.

Marco Castoldi, in arte Morgan.

Marco Giallini.

Marco Giusti.

Marco Masini.

Marco Mazzoli.

Marco Milano.

Marco Predolin.

Margherita Sarfatti.

Maria Cristina Maccà: la Mariangela e Uga Fantozzi.

Maria De Filippi.

Maria Giovanna Elmi.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Teresa Ruta.

Marianna Pizzolato.

Mario Salieri.

Marilena Di Stilio.

Marina La Rosa.

Marina Mantero.

Marino Bartoletti.

Mario Biondi.

Marisa Bruni Tedeschi.

Marisa Laurito.

Marta Losito.

Martina Colombari.

Martina Smeraldi.

Mason.

Massimo Boldi.

Massimo Cannoletta de “L’Eredità”.

Massimo Ceccherini.

Massimo Ghini.

Massimo Giletti.

Matilda De Angelis.

Matt Dillon.

Matthew McConaughey.

Maurizia Paradiso.

Maurizio Battista.

Maurizio Costanzo.

Maurizio Ferrini.

Mauro Coruzzi, in arte Platinette.

Max Felicitas.

Max Giusti.

Max Pezzali e gli 883.

Mel Gibson.

Mia Khalifa.

Mia Malkova.

Michael Stefano.

Michela Miti.

Michele Bravi.

Michele Cucuzza.

Michele Duilio Rinaldi.

Michele Mirabella.

Michelle Hunziker.

Miguel Bosè.

Mika.

Mick Jagger.

Milly D’Abbraccio.

Milva.

Mina.

Mingo De Pasquale.

Mirko Scarcella.

Myss Keta.

Myrta Merlino.

Monica Bellucci.

Monica Leofreddi.

Monica Setta.

Monica Vitti.

Morena Capoccia.

Morgana Forcella.

Nadia Bengala.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Noemi Blonde.

Naomi Campbell.

Niccolò Fabi.

Nicola Di Bari.

Nicola Savino.

Nicole Grimaudo.

Nicoletta Mantovani.

Nicolò De Devitiis.

Niko Pandetta.

Nina Moric.

Ninetto Davoli.

Nino Formicola.

Nino Frassica.

Oasis. Liam e Noel Gallagher.

Oliver Stone.

Orietta Berti.

Orlando Bloom.

Ornella Muti.

Ornella Vanoni.

Ottaviano Dell'Acqua.

Pamela Anderson.

Paola Barale.

Paola e Chiara.

Paola Ferrari.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Saulino.

Paola Turci.

Paolina Saulino.

Paolo Bonolis.

Paolo Conte.

Paolo Conticini.

Paolo Jannacci.

Paolo Ruffini e Diana Del Bufalo.

Paolo Sorrentino.

Paolo Virzì.

Pasquale Panella.

Patty Pravo: Nicoletta Strambelli.

Patrizia De Blanck.

Patrizia Mirigliani.

Patti Smith.

Paul McCartney.

Peppino Gagliardi.

Peppino di Capri.

Peter Gabriel.

Pierfrancesco Favino.

Pier Luigi Pizzi.

Piero Chiambretti.

Piero Pelù.

Pif.

Pilar Fogliati.

Pino Donaggio.

Pino Scotto.

Pino Strabioli.

Pio e Amedeo. Pio d’Antini e Amedeo Grieco.

Pippo Baudo.

Pippo Franco.

Placido Domingo.

Plinio Fernando.

Pooh.

Quentin Tarantino.

Raffaella Carrà.

Rancore.

Raoul Bova.

Red Ronnie.

Renato Zero.

Renzo Arbore.

Riccardo Cocciante.

Riccardo Muti.

Riccardo Scamarcio.

Ricchi e Poveri.

Righeira.

Ringo.

Ringo Starr.

Rita Dalla Chiesa.

Rita Pavone.

Rita Rusic.

Robert De Niro.

Roberta Beta.

Roberta Bruzzone.

Roberto Benigni.

Roberto Bolle.

Robbie Williams.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Rocco Steele.

Rodrigo Alves, il "Ken Umano".

Rockets.

Rosanna Lambertucci.

Roy Paci.

Sabina Ciuffini.

Sabrina Ferilli.

Sabrina Salerno.

Sally D’Angelo.

Salvo Veneziano.

Samantha De Grenet.

Sandra Milo.

Sara Croce: "Bonas".

Sara Tommasi.

Sarah Slave.

Sean Connery.

Selena Gomez.

Serena Grandi.

Serena Rossi.

Sergio e Pietro Castellitto.

Sergio Sylvestre.

Sergio Staino.

Sfera Ebbasta.

Shannen Doherty.

Shara: al secolo Sarah Ancarola.

Sharon Mitchell.

Sharon Stone.

Silvia Rocca.

Simona Izzo.

Simona Ventura.

Sinead O'Connor.

Skin.

Sofia Siena.

Sonia Bergamasco.

Sophie Turner.

Sylvie Lubamba.

Spice Girls.

Stefania Sandrelli.

Stefano Bollani.

Stefano Fresi.

Stella Usvardi: Kicca Martini.

Steve Holmes.

Susanna Messaggio.

Suzanne Somers.

Tazenda.

Taylor Mega.

Taylor Swift.

Tecla Insolia.

Teo Teocoli.

The Kolors.

Tinto Brass.

Tiromancino.

Tiziano Ferro.

Tom Hanks.

Tommaso Paradiso.

Tommaso Zorzi.

Tony Binarelli.

Tony Colombo e la moglie Tina Rispoli.

Tony Dallara.

Tony Sperandeo.

Tony Vilar.

Tosca Tiziana Donati.

Traci Lords.

Uccio De Santis.

Umberto Smaila.

Umberto Tozzi.

Ursula Andress.

Valentina Nappi.

Valentina Pegorer.

Valentina Sampaio.

Valentine Demy alias Marisa Parra.

Valeria Curtis.

Valeria Marini.

Vanessa Incontrada.

Vasco Rossi. 

Vera Gemma.

Verona van de Leur.

Veronica Maya.

Victor Quadrelli.

Victoria Cabello.

Vincenzo Mollica.

Viola Valentino.

Vittorio Brumotti.

Vittorio Cecchi Gori.

Vladimir Luxuria.

Wanda Nara.

Willie Garson.

Wilma Goich ed Edoardo Vianello: I Vianella.

Zaawaadi.

Zucchero.

 

QUARTA PARTE

 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

70 anni di moda e glamour in mostra.

Sanremo 2020, le 10 canzoni più bizzarre mai presentate in gara.

I Comizi di Sanremo.

Sanremo in salsa Leopolda.

Finalmente Sanremo…oltre le polemiche.

Il Debutto.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

L’ultima Serata.

Pronti per Sanremo 2021.

 

QUINTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le competizioni stravaganti.

Gli Spartani: i masochisti dello sport.

I Famelici.

Quelli che…Lottano.

Quelli che l’Atletica.

Quelli che…le Biciclette. 

Quelli che…il Calcio.

Quelli che…la Palla a Volo.

Quelli che…il Basket.

Quelli che…Il Rugby.

Quelli che…i Motori. 

Quelli che…il Tennis.

Quelli che…le Lame.

Quelli che…sulla Neve.

Quelli che…il Biathlon.

Quelli che …in Acqua.

Quelli che…lo Skate.

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SECONDA PARTE

 

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Cameron Diaz.

Francesco Tortora per "corriere.it" il 9 agosto 2020. E’ stata una delle star di Hollywood più pagate al mondo e nel 2014, quando la sua carriera era all’apice, ha annunciato il ritiro dalle scene. A sei anni dall’improvviso addio al cinema, Cameron Diaz ha spiegato i motivi di questa decisione durante un’intervista con Gwyneth Paltrow nel podcast condotto da quest’ultima e intitolato «In Goop Health».

Per niente pentita. L’attrice di «Tutti pazzi per Mary» e «Il matrimonio del mio migliore amico» non è apparsa affatto pentita e ha confessato: «Quando ho scelto di chiudere con il cinema mi sono sentito in pace. Ho sentito la pace nella mia anima. Finalmente stavo prendendo tempo per me stessa. Quando giri un film, Hollywood ti possiede! Devi essere lì 12 ore al giorno, per mesi, e non hai tempo per nient’altro. E ho capito che avevo delegato parti della mia vita ad altre persone. E loro se l’erano presa! Ho capito che dovevo riprendere il controllo, assumermi le mie responsabilità. Non avevo altra scelta. Ho dovuto riparare le mie relazioni e ho dovuto costruirne altre».

Il matrimonio e la figlia. Nello stesso anno in cui si è ritirata, Cameron ha conosciuto il marito Benji Madden, chitarrista dei Good Charlotte con il quale nel 2019 ha avuto una bambina , Raddix: «Ho deciso che volevo qualcos’altro dalla mia vita - ha continuato -. È molto stancante lavorare a un tale livello, essere una figura pubblica e mettersi in mostra. C’è molta energia che ti travolge in ogni momento quando sei così sotto i riflettori come attrice e ti esponi. Allo stesso tempo gli attori a Hollywood sono infantilizzati. Siamo messi in una posizione in cui tutti si prendono cura di noi. Non deve succedere niente a noi perché siamo la star del film. Ho lasciato il cinema perché avevo bisogno di capire se ero ancora in grado di cavarmela da sola e di affrontare il mondo».

Tiziana Lapelosa per “Libero Quotidiano” il 5 gennaio 2020. Ecco svelato il «progetto segreto» di cui Cameron Diaz parlava la scorsa estate: essere una mamma. E lo è diventata. Giorni fa (pochi o tanti non si sa) la Mary di cui tutti sono diventati pazzi, ex modella, e forse anche ex attrice, ha realizzato il sogno che la ossessionava da quando, nel 2015, ha sposato dopo un anno di fidanzamento Benji Madden, l' uomo di cui si è perdutamente innamorata e per il quale ha messo da parte «la vita incredibile» che non avrebbe potuto avere «se avessi dei figli...». Così dichiarava anni fa, quando il desiderio di maternità non aveva ancora fatto capolino nella sua vita. Anzi, i figli lei, protagonista di pellicole quali "The Mask" o come "Tutti pazzi per Mary" che l' hanno consacrata al grande pubblico, proprio non li voleva. E a chi le chiedeva il perché rispondeva proprio così: non si può avere una vita «incredibile» con dei mocciosi ad intralciare il percorso. «È semplicemente una scelta differente», aveva specificato. Tanto di cappello. Intorno a noi è pieno di donne sicure di non volere bimbi tra i piedi, perché danno fastidio, perché rappresentano un ostacolo per la carriera, perché per una donna diventare mamma non è lo scopo della vita, perché manca la materia prima, perché ci si sente inadeguati, perché, perché, perché...

L' inversione. Ma poi, ad un certo punto, qualcosa si è "rotto" nella vita della Diaz, come del resto succede a tantissime donne di cui sopra. Ad un certo punto l' attrice che non deve chiedere niente in quanto tutto ha, l' attrice che riceve proposte milionarie per girare un film, l' attrice dalla vita «incredibile» sente che le manca qualcosa. E quel qualcosa è la maternità, un figlio. Soprattutto ora che ha trovato un uomo degno di esserne padre. Ma l' età non aiuta. Quaranta candeline sono già state spente. Non che non si possa restare incinta, però è più difficile, come non mancano di sottolineare gli esperti. E infatti, lei non ci riesce. Si dice che la Diaz abbia fatto di tutto per riuscirci, sempre lontano dai riflettori. Si racconta di un' attrice ritirata a vita privata, indifferente ai copioni e agli assegni che le arrivavano pur di averla protagonista in un film di sicuro successo al botteghino. Si racconta di una Diaz ossessionata dall' idea di diventare madre al punto da non fare altro che parlare di figli. «Vuole un bambino, non parla d' altro», la confessione ad un magazine americano di una persona vicina alla coppia. «Non potrei essere più orgoglioso di mia moglie. La diva californiana si sveglia con una missione: provare a rendere il mondo un posto migliore. Sono sempre stupito dalla forza, dal coraggio e dalla vulnerabilità che mostra nell' incoraggiare le altre donne ad amare se stesse», aveva, del resto scritto il marito sui social quasi a voler rafforzare la sua missione. Si racconta pure di una Diaz che a Nicole Kidman chiede consigli sui metodi miracolosi per la fertilità, e pare che si sia addirittura immersa nelle sacre acque degli aborigeni australiani per cambiare il proprio destino. Ce l' ha fatta, a 47 anni. Non sappiamo se la piccola Raddix, questo il nome della bambina, sia nata in modo naturale, con la fecondazione assistita o surrogata. Sappiamo che i volti di Cameron Diaz e del marito, cantante dei Good Charlotte, adesso sono solcati dalla felicità. A chi assomiglierà la nuova arrivata difficile saperlo. Si sa, però, che la Diaz è ora tutta casa e famiglia, e chissenefrega della carriera. I neo genitori hanno deciso di non pubblicare foto e lo hanno spiegato con un post su Instagram: «... Siamo così felici, fortunati e grati di iniziare questo nuovo decennio annunciando la nascita di nostra figlia, Raddix Madden. Ha catturato immediatamente i nostri cuori e completato la nostra famiglia. Siamo molto contenti di condividere questa notizia, ma sentiamo anche un forte istinto di proteggere la privacy della nostra piccola, quindi non pubblicheremo foto o condivideremo altri dettagli, a parte il fatto che è davvero carina! Anzi, per alcuni è stupenda». Alla Diaz è andata bene, anzi benissimo. E speriamo che vada benissimo pure a tutte quelle donne che desiderano diventare mamme. A qualsiasi età.

·        Carla Bruni.

Serena Tibaldi per "la Repubblica" il 17 novembre 2020. La top model intelligente e anticonformista. L'impeccabile première dame di Francia. La cantautrice intensa che tiene il palco - che sia l'Ariston a Sanremo o l'Olympia a Parigi - armata solo di chitarra. 52 anni, nata a Torino e francese d'adozione, un figlio di 19 anni, Aurélien, avuto con il filosofo Raphaël Enthoven, una figlia, Giulia, di 9 anni nata dal legame con Nicolas Sarkozy, e un album - il sesto - uscito da poco nonostante le difficoltà della pandemia. Carla Bruni ha sempre fatto a modo suo.

Perché crede che il pubblico sia ancora tanto legato alla sua generazione di top model?

«Ogni decennio ha un mito. Per esempio, i tennisti come McEnroe, Borg, Lendl erano le divinità degli anni 80. E così noi negli anni 90. Anche se per la verità non è che il nostro lavoro fosse così complicato».

Sarà, ma le vostre foto dilagano sui social media, a prescindere dalle modelle in voga oggi.

«Noi avevamo il tempo di fare le cose per bene, di imparare. Linda Evangelista è diventata il mito che è perché ne ha avuto il tempo. Ora si fa tutto di fretta, tanto c'è il digitale che poi sistema, leviga e illumina».

 In un documentario del 1995, "Unzipped", a una sfilata la si vede gongolare perché il backstage aperto solleticava "il suo innato esibizionismo".

 «Cercavo solo di fare la spiritosa, all'epoca c'era molta più libertà rispetto a oggi: il politicamente noioso ha sostituito pure il politicamente corretto».

In effetti i celebri nudi fotografati da Helmut Newton oggi non sarebbero permessi.

«Pensare che le sue donne sono così potenti. Helmut non chiedeva mai nulla sul set, eravamo noi a voler far parte della sua visione, ci fidavamo di lui. Ed era così sicuro che per ogni foto scattava al massimo due volte. Oggi di scatti se ne fanno duecento, e con risultati molto diversi».

Un episodio che riassume la sua carriera da modella?

«Gli show d'alta moda di Gianni Versace: si sfilava al Ritz, sulla piscina che veniva coperta. E poi facevamo festa nelle suite tutta la notte, magari finendo per fare anche dei servizi fotografici tutte assieme. Era come stare in famiglia».

Ogni show era un evento.

«Una volta Prince scrisse un brano per una sfilata di Gianni (1995, ndr ) in cui ci nominava una a una. Le strofe coincidevano con la nostra uscita in passerella: noi non l'avevamo mai ascoltata, non sapevamo se sfilare, ridere o ballare».

Siete rimaste in contatto tra voi?

«Con Naomi non dico che ci sentiamo ogni giorno, ma quasi».

Il suo passato nella moda ha creato dei pregiudizi quando ha iniziato a cantare?

«Sì, ma tanto è una vita che ogni mio gesto è visto con sospetto. Però questo scetticismo mi ha aiutato: tanti pensavano fosse solo un'operazione di immagine, ma poi ascoltandola hanno scoperto che la mia musica è "vera", piaccia o non piaccia. Dopo l'uscita del primo album ( Quelqu' un m' a dit del 2002, ndr) ho ricevuto bellissime lettere di persone che lo commentavano: sta succedendo di nuovo con questo disco, ne sono felice».

Come si è preparata alle registrazioni?

«Prima di entrare in studio ho ascoltato a lungo l'ultimo album di Leonard Cohen, cupo e intenso, e tutto Fabrizio De André, un poeta straordinario: avessi scritto io Via del campo, poi avrei smesso. Come puoi continuare dopo aver creato un capolavoro simile?».

Il disco s' intitola "Carla Bruni".

«Non mi veniva in mente altro, perciò mi sono detta: faccio come Whitney Houston, che ha chiamato il suo primo album Whitney. Certo, in genere si fa al debutto, a 19 anni, non a 52. Pazienza (ride, ndr)».

La moda, la musica, i cinque anni all'Eliseo: cambiare non la spaventa.

«Sta parlando con una che da bambina ha cambiato nazione, ha cambiato lingua, e in un certo senso ha pure cambiato padre (dopo la scomparsa di Alberto Bruni Tedeschi nel 1996, ha scoperto che il suo padre biologico è l'italo-brasiliano Maurizio Remmert, ndr). No, non ho mai avuto problemi con i cambiamenti».

Le è pesato vivere sempre sotto i riflettori?

«Non sono ipocrita: questa notorietà me la sono quasi sempre cercata. Evidentemente mi ha fatto comodo».

Oggi di solito la si vede in jeans. Una scelta stilistica per non distrarre dal suo lavoro?

«Sì. Anzi, ai primi concerti ero ancora meno attenta, finché dopo uno show Farida Khelfa, grande amica e leggendaria modella, venne in camerino a dirmi che sì, ero brava, ma che non potevo presentarmi sul palco con le mie vecchie Clarks tutte rovinate (ride, ndr ) ».

Una donna è sempre giudicata per ciò che indossa.

«Sempre. Quando Nicolas era Presidente, mi ricordo degli articoli che accusavano Angela Merkel di essere troppo poco curata nel vestire. A nessun giornalista è mai venuto in mente di analizzare lo stile di mio marito, non avrebbero osato. Ma con le donne si può. Ridicolo».

Che tipo di madre è?

«Ansiosa, ma non lo do a vedere. E per mantenere la mia autorità fumo di nascosto in terrazzo».

Restando in famiglia, sua sorella Valeria Bruni Tedeschi canta nell'unico pezzo in italiano, "Voglio l'amore".

«Eravamo assieme in lockdown, l'avrà sentito almeno quaranta volte: cantarla con lei era il minimo!».

·        Carla Vistarini.

Francesco Melchionda per lintellettualedissidente.it il 26 ottobre 2020. Incontrare Carla Vistarini significa navigare a mare aperto e affrontare, senza filtri e maschera, cinquant’anni, se non di più, di canzone italiana, televisione, teatro, cinema e libri. In un sabato d’ottobre, caldo e soleggiato come solo nelle città levantine, Carla ci accoglie a casa sua, nel suo nido (così mi è parso), dalle parti di Prati. Ci “addivaniamo”, direbbe Roberto D’Agostino, in un grande salone. Le pareti, bianche come lo zucchero filato, sono stracolme di libri, di ogni genere ed epoca. Qua e là, cimeli, i Telegatti vinti, la statuetta del David di Donatello, e locandine di spettacoli teatrali. L’antidiva per antonomasia – mi piace definirla così – apre i cassetti dei ricordi, rispolvera aneddoti, scava nel suo passato, indugia a riflessioni che, probabilmente, non aveva mai maturato. Curiosa e avida di letture come pochi, Carla Vistarini ha speso la sua vita artistica e personale mettendo a disposizione degli altri le sue parole, la sua creatività, e, anche se non sembra, la sua sensibilità. Tutti, o quasi, si sono appoggiati al suo talento. Mina, Patti Pravo, Renato Zero, Ornella Vanoni, Mia Martini, Gigi Proietti, sono solo alcune delle stelle italiane rese celebri dalla sua poesia e semplicità. Come il sommo JJ Cale, Carla non hai mai voluto che i riflettori sulla sua vita fossero accesi. Anzi. Alle luci della ribalta, all’apparenza, ai colori ingannevoli e fatui dello star system, ha sempre preferito il silenzio, il riserbo, frutto anche, forse, di un’educazione rigida, severa. Alla mondanità, l’amicizia, l’amore, i viaggi.

Carla Vistarini, la sua carriera artistica ha inizio sul finire degli anni Sessanta. Prima di addentrarci nel mondo autoriale, le chiedo: com’è nata la passione per la musica?

«La passione è nata molto presto, in famiglia, da piccola: canzoni napoletane, arie d’opera, qualche standard americano come The Way You Look Tonight con l’orchestra di Ray Conniff, che apriva i programmi serali alla radio. Una festa. Si ascoltava tanto la radio, allora. Poi, negli anni dell’adolescenza sono piombati sul pianeta Terra i Beatles, e fu un colpo di fulmine. Quella musica era mia, per testi e sonorità. E lo era anche come fattore  generazionale: mi ci identificavo totalmente».

Anche lei, come tanti della sua generazione, mitizzò i quattro di Liverpool?

«Sì, assolutamente. Avevo una foto di George Harrison incollata sull’ultima pagina del diario scolastico».

Perché I Beatles e non I Rolling Stones?

«I Rolling Stones sono arrivati leggermente dopo. Mi piacevano anche loro, ma i Beatles per me erano fuori gara, Numeri Uno. Nel ’65 riuscii ad andare a uno dei quattro concerti che tennero a Roma all’Adriano. Ricordo che convincere qualcuno in famiglia a darmi i soldi del biglietto fu un’impresa. A quell’epoca avere 15, 16 anni era una sorta di limbo sociale sospeso tra infanzia e giovinezza, senza più i privilegi dell’essere bambino e non ancora l’autonomia dell’età adulta. Noi, primi baby boomers, non eravamo quel target sociale, culturale e anche economico, che sono i “giovani” oggi. Quella piccola grande rivoluzione iniziava proprio in quegli anni».

I Beatles, ad essere sinceri, non erano, però, dei grandi performer dal vivo, a differenza dei Cream, dei The Who, etc…

«Opinioni, e io non sono d’accordo. Avendoli ascoltati dal vivo posso dire che erano travolgenti. Qualsiasi virtuosismo tecnico perde la partita opposto allo tsunami di una fenomenale forza espressiva. Consideriamo poi che, in quegli anni, le apparecchiature tecniche erano elementari, confrontate con ciò di cui si dispone oggi. Quasi primitive. Tutto veniva ingigantito. Anche gli errori».

Roma, forse anche più di Milano, è stata la culla della musica leggera italiana. Come si è trovata, poi, nei suoi vent’anni, a scrivere canzoni per Mina, Vanoni, Patti Pravo, Mia Martini, Renato Zero?

«Sul finire dei Sessanta, c’erano dei luoghi a Roma, come il Piper e gli studi radiofonici di Bandiera Gialla, dove si creavano le occasioni di incontro per i ragazzi della mia generazione e per ascoltare insieme la musica che ci piaceva: il rock, il beat, il rythm and blues. Non esistevano le radio private, l’unica emittente era La Rai. Al Piper c’era il gruppetto di ragazzini di cui facevo parte con i futuri colleghi e star come Renato Zero, Patty Pravo, Mita Medici, Roberto D’Agostino, e altri, tra cui Luigi Lopez, che è stato il mio coautore storico in tante delle canzoni che poi avrei scritto. A Bandiera Gialla, invece, conobbi Gianni Boncompagni e Arbore che erano i conduttori del programma e che, essendo molto più grandi di noi ragazzini del pubblico, erano diventati una sorta di punto di riferimento musicale. Fu proprio Gianni Boncompagni, infatti, successivamente a indirizzarci alla RCA perché, ascoltando le nostre canzoni, le aveva trovate belle, orecchiabili. La RCA Italiana, altro luogo leggendario. Ricordo il fermento che vi si respirava. Era come essere ai blocchi di partenza per una corsa straordinaria nella musica e nella vita. E ai blocchi accanto, pronti a scattare, con me, con noi, c’erano De Gregori, Venditti, Dalla, Paolo Conte, Patti Pravo, Mia Martini, Amedeo Minghi, Riccardo Cocciante e altri. Scrivere per molti di loro è stato, fortunatamente, inevitabile».

Perché, secondo lei, i cantanti, sempre, o quasi, sentono la necessità di affidarsi a un autore? Incapacità, ignoranza, timidezza?

«I cantanti puri, gli interpreti, sono come gli attori, hanno sempre bisogno di qualcuno che scriva per loro qualcosa di bello. Mentre i cantautori fanno tutto da soli, i cantanti “creano” il loro apporto artistico alla canzone col talento della loro interpretazione. E’ “scrivere” anche quello. La critica ha sempre fatto dei distinguo artistici tra cantautori da una parte e cantanti e autori dall’altra, privilegiando i cantautori, ma penso che sia stato e sia ancora , una sorta di pregiudizio veterointellettuale che poi il tempo pensa a riequilibrare. Le canzoni più belle, che siano di cantautori o di autori puri, restano per generazioni, le altre no».

Cosa le chiedevano i produttori discografici quando si cimentava nella scrittura di un testo?

«Niente. Aspettavano. Con Luigi Lopez suonavamo, componevamo e scrivevamo tutto il giorno, e per noi non era un lavoro, ma un divertimento. I critici più severi eravamo noi stessi. Solo quando eravamo soddisfatti della canzone finita, andavamo a proporla al discografico. Alla RCA c’era Ennio Melis, con Lilli Greco e altri mitici produttori e scopritori di talenti. E tutti si aspettavano che tu gli portassi qualcosa di bello,  completo».

Come nascevano i testi delle canzoni? Da una sofferenza, un ricordo, un amore non corrisposto?

«I nostri testi non nascevano da qualcosa di strettamente autobiografico. Sarebbe stata un bacino poco ricco a cui attingere, la vita personale, visto che eravamo solo dei ventenni. Penso piuttosto che l’ispirazione, se così possiamo definirla, nasceva dall’ascolto di tanta musica e dalle infinite letture di libri di ogni genere, classici e popolari, divorati voracemente dalla più tenera infanzia in poi, per tutta la vita. Sono arrivata ai miei vent’anni con una carica tale di libri letti, che mi sembrava di aver vissuto mille vite, e scrivere era naturale. L’unica mia canzone autobiografica, almeno in parte, è “La nevicata del ’56”, perché nasce dal mio ricordo personale di bambina di 7 anni che vede la neve per la prima volta, in quell’inverno lontano».

Qual è stato il più grande cantante italiano del secondo dopoguerra?

«E’ una domanda che mi mette in difficoltà, non saprei rispondere e farei torto a troppi. Per cui dico che sono tutti i cantanti e le cantanti che mi hanno fatto l’onore di cantare mie canzoni e che qui ringrazio pubblicamente. Faccio un solo nome, per ricordare una delle più grandi voci della canzone italiana: Mario Musella, che oggi non c’è più, voce blues degli Showmen, mitico gruppo napoletano per cui scrissi “Mi sei entrata nel cuore”, prima mia canzone a entrare in classifica. Era il 1970».

Messa spalle al muro, chi butterebbe dalla torre: Celentano o Mina?

«Pur di non rispondere, mi butto io».

Considera anche lei, come Giorgio Bocca, che Celentano sia stato un cretino di talento?

«No.  Penso che uno che ha fatto quella carriera straordinaria, che si è inventato stili e linguaggi nuovissimi, sia un genio.

Cicerone sosteneva che, ancor di più dell’amore, nulla è più importante, fecondo e piacevole dell’amicizia. In un mondo di narcisisti e arrivisti, è riuscita ad avere amici nel mondo della canzone e televisione italiane?

«Pochissimi veri amici, miriadi di conoscenti. Per il mio lavoro sono rimasta sempre dietro le quinte, attenta a non apparire, a fare un passo indietro rispetto ad altri, e per questo la parte mondana e sociale della vita ne ha risentito. Ma essere schivi e riservati aiuta a salvarsi dall’effimero. E questo credo sia stata la mia salvezza, la mia fortuna».

Da dove nasce questa sua attenzione morbosa per la sua riservatezza?

«Rispondo con uno dei libri che da piccola mi colpì di più: “Incompreso”. Lì c’è un bambino che gli adulti non capiscono e che ogni cosa ferisce. Ecco,  essere riservati è una difesa, una sorta di argine che permette di aggirare l’incomprensione, il distacco degli altri, che ancora oggi mi spaventa. E, poi, da ragazzina ho ricevuto un’educazione severa, dove il silenzio era d’oro, e si parlava solo se interpellati. I capricci, poi, non erano proprio contemplati».

Lei a chi e a cosa si ribellava?

«Mi ribellavo alla invisibilità che avevo avuto fino ai 14-15 anni, quando poi scoprii la musica e capii che c’ero anch’io. Esistevo. Scoprii che quell’invisibilità sociale non era solo mia, ma di tutti i ragazzini di quella generazione. Dovevamo conquistarci un posto al sole. E direi che ce l’abbiamo fatta».

Come apprese la morte di Mia Martini e che cosa le ha lasciato nel cuore?

«L’appresi dalla televisione, ed è stato un colpo fortissimo. Era da tempo che non ci sentivamo, Mimì era andata vivere, se ricordo bene, in Umbria. La nostra amicizia è stata di poche parole e tante canzoni. Viaggi lontani, successi, ma non capitava mai che io e lei parlassimo di cose personali, riservate. Fra noi c’era una comprensione silenziosa. E pudore.  La sua morte mi ha lasciato senza parole. Quando succede qualcosa di così tragico, senti che non hai intuito un dolore immenso, un disagio, una sofferenza e ti domandi cosa potevi fare e non hai fatto per tentare di evitarlo».

Negli anni Novanta, se non erro, ha lavorato anche con Luciano Pavarotti? Perché la produzione sentì il bisogno di affidarsi a degli autori?

«Con Luciano è stata un’esperienza bellissima e molto divertente. Tutto iniziò perché il primo Pavarotti and friends, in termini di audience televisiva, non andò come sperato. La Rai, che aveva con Pavarotti un contratto per più edizioni, doveva incrementare gli ascolti soprattutto per non perdere i contratti pubblicitari. Fu così che Mario Maffucci, all’epoca  capostruttura di Raiuno, mi chiamò dicendomi che avevano bisogno di un autore per rilanciare l’evento. Mi tuffai nell’avventura, lo rilanciammo, successo clamoroso seguito da circa sei o sette successive edizioni insieme».

Ho capito. Ma a cosa serve un autore in un concerto musicale con artisti di fama mondiale?

«Un evento televisivo come il Pavarotti & Friends non è un semplice concerto musicale. Può sembrarlo, e allora vuol dire che abbiamo lavorato bene. In realtà si tratta di un vero e proprio spettacolo di arte varia, con una marea di contenuti, sia musicali che di altro genere, prosa, esibizioni varie, ecc., una folla di artisti e musicisti, un intrico indescrivibile di materiale elettrico, acustico, digitale e meccanico di dimensioni inimmaginabili. prove da fare e niente tempo a disposizione. Tutto questo corre il rischio di diventare un caos o un minestrone artistico e tecnico indifferenziato se qualcuno, un autore,  non interviene a contestualizzare ogni cosa in un racconto fluido e ricco. A cominciare da una scaletta perfetta che faccia alternare armonicamente i brani, agevolando nel contempo il lavoro dei tecnici, macchinisti, microfonisti, ecc.  che adeguano la parte tecnica ad ogni esibizione. Poi c’è da scrivere il vero e proprio copione, con i testi per introdurre i cantanti  e i vari interventi in palcoscenico che siano momenti attraenti per il pubblico e non una mera presentazione, e contemporaneamente spazio indispensabile di servizio per esigenze tecniche.  Tutto è scritto e pensato perché possa far crescere, durante il concerto, l’attenzione del pubblico e quindi televisivamente parlando, l’audience. Va creata una sorta di suspense, di trepida attesa per l’ingresso delle varie star».

Quali sono gli artisti o personaggi che l’hanno colpita di più?

«La Principessa Diana per la sua riservatezza piena di grazia e mistero, e poi Eric Clapton, gentile e silenzioso».

Quali musicisti jazz hanno particolarmente inciso nella sua vita?

«Bill Evans e Chet Baker su tutti».

La sua carriera, negli anni, ha virato, poi, anche in altri ambiti. Cosa la spinse a inoltrarsi, ad esempio, nel varietà televisivo italiano. Curiosità, voglia di cambiare, necessità economica?

«L’inizio con la televisione è stato, come sempre, un’occasione che io ho colto al volo. All’epoca, prima metà degli anni Settanta, c’era un piccolo programma a episodi che s’intitolava 15 Minuti Con… Ogni episodio era una sorta di minimonografia di un gruppo musicale o di un cantante. I Pooh, che mi conoscevano, fecero il mio nome e così fui convocata da Giovanni Salvi, altra figura leggendaria della Rai, che mi spiegò che stavano cercando un autore, esperto di musica e discografia, che  potesse scrivere dei testi di raccordo tra una canzone e l’altra, per un certo numero di cantanti. E così iniziai un viaggio dentro la Rai che poi è durato per oltre trent’anni e per innumerevoli programmi e varietà».

Molti commentatori fanno risalire l’inizio del trash televisivo agli anni del Bagaglino, alle donne scosciate, alle torte in faccia. Cosa pensa di quel periodo che l’ha vista, comunque, partecipe in qualità di autore?

«I commentatori commentano, gli altri fanno. Il Bagaglino è stato una compagnia di teatro-cabaret “all’antica italiana” fondata da Castellacci e Pingitore, di cui facevano parte, tra gli altri, attori del calibro di Oreste Lionello e Leo Gullotta. Io entrai come autore quando dal Salone Margherita si debuttò in tv su Raiuno con “Crème Caramel”. Ascolti stratosferici, da Festival di Sanremo o partite dell’Italia. Era il periodo di  Tangentopoli e questo, probabilmente, ci ha permesso di fare satira a tutto spiano, spaziando dalle battutacce alle citazioni più colte, che forse non tutti avevano l’arguzia di cogliere. Abbiamo fatto  ridere e sorridere mezza Italia, facendo anche informazione,  aggiustando in corsa, fino all’ultimo secondo prima della diretta, gli sketch e le battute di stretta attualità.  E poi non ci dimentichiamo che Oreste Lionello, oltre  a essere un finissimo attore, colto e ironico, era anche la voce e l’anima di Woody Allen per Italia,  e Allen lo adorava, riconoscendogli gran parte del proprio successo. C’erano le ballerine, le soubrettes, le paillettes, ma su Raiuno – perché è sulla Rai che abbiamo iniziato – non abbiamo mai ricevuto censure per essere stati troppo trasgressivi. Amatissima Rai».

In che stato di salute è il nostro cinema italiano? Le piacerebbe ancora sceneggiare una storia?

«Parto dalla seconda domanda. Mi piacerebbe moltissimo sceneggiare una storia, scrivere è il mio mestiere. Per quanto riguarda lo stato di salute, del grande schermo, l’impressione che ho del cinema italiano, in qualità di giurato (avendo vinto un Donatello faccio parte della giuria dei Premi David e vedo tutti i film che escono), è che siano sempre gli stessi attori e attrici ad entrare e uscire da un film all’altro, come una porta girevole. Ci saranno mille motivi validi. Uno dei quali, penso, è che chi produce ormai non se la sente più di rischiare i propri soldi, come avveniva un tempo. Per fare un film oggi si spera nel Ministero. Gli aiuti sono dosati in base al progetto, premiando la partecipazione di nomi di grido. E poi c’è l’incognita distribuzione.  I distributori italiani, se non hanno un pacchetto di nomi importanti, che garantiscano pubblico, è molto difficile che portino il film nelle sale. Ed è per questo che tanti film indipendenti, magari belli, restano nel cassetto».

Come ha conciliato, in questi decenni, la visibilità, la vetrina, la vanità, il luccichio del tubo catodico, con la sua proverbiale riservatezza?

«Il luccichio a me piace, purché sia degli altri. Io trovo che ci voglia un grandissimo coraggio nell’apparire, nell’essere vistosi, colorati. Lo spettacolo è una favola, una magia. E io ammiro chi si traveste per gli altri, regalando spensieratezza e divertimento. C’è in questo donarsi un fattore umano, emotivo e psicologico, che va sempre rispettato e ricordato. Si fa l’errore, spesso,  di guardare solo alla fama e al possibile  narcisismo di chi si esibisce. Gli artisti sono acrobati che, per il pubblico, camminano su un filo sottilissimo, che forse è solo un’invenzione.  Se lei pensa a Gigi Proietti, che è un animale da palcoscenico, non si può non provare altro che ammirazione».

Si racconta, dietro le quinte, che Proietti tratti male le persone con cui lavora. E’ vero?

«Con me, non è mai successo. Né mai l’ho visto accadere».

Come mai la televisione è considerato il satana corruttore? Perché esercita un fascino così tanto profondo nella psiche dei televisivi?

«Forse  perché entra in tutte le case, come oggi internet. E poi perché davanti alla tivù si è passivi, si assorbe solamente, non si interagisce. Si può essere manipolati».

Perché la Rai è considerata il grande viperaio italiano?

«Manco dalla  Rai da tanti anni e non so cosa oggi vi avvenga. Sicuramente, quando vi lavoravo io, pur con tutte le storture del caso, legate alla politica e al cosiddetto manuale Cencelli, era un’altra Rai, più sacrale e interessata alla qualità del prodotto, degli artisti e della scrittura. Era molto più facile lavorare, come è capitato a me,  senza, necessariamente, “conoscere” qualcuno».

Le è mai stata messa la museruola nella scrittura di un testo?

«Io non l’ho mai avuta. Al massimo mi hanno chiesto di dare un certo indirizzo artistico al programma, ma censura vera e propria, mai.

Da autrice a scrittrice, il passo è stato breve, anche se più recente. Di quale libro va più fiera?

«Il libro di cui vado più fiera è, in realtà, un romanzo, “Città Sporca”, che esiste solo in forma digitale, come ebook».

Perché, poi, solo in ebook?

«Perché mi sono scontrata col misterioso mondo dell’editoria, a quel tempo a me ignoto. Era il 2013 e avevo  terminato  di scrivere “Città sporca”. Che fare? Non  volevo infastidire  amici o colleghi per farmi presentare qualcuno dell’ambiente. Gli amici non si scocciano, semmai si aiutano. Così ho scritto agli editori – tutti, dal grande al piccolo –  presentando loro le mie credenziali artistiche. Un curriculum di tutto rispetto: premi, successi, classifiche. Nulla, nessuno mi ha mai risposto. Idem per gli agenti letterari.  Allora, in forma anonima, e con lo pseudonimo di Slowhand (omaggio a Eric Clapton), partecipai a un torneo letterario organizzato da GeMS, il secondo gruppo editoriale italiano. Dopo mesi di selezioni – eravamo partecipanti ma anche giudici – solo i primi dieci romanzi finalisti avevano diritto alla pubblicazione. E se al primo classificato era concesso l’onore della pubblicazione cartacea, con gli altri nove, invece, si procedeva alla pubblicazione di un ebook. E io ero fra i nove. Non può immaginare la gioia. Questa esperienza mi ha lasciato due insegnamenti: 1) che a nessuno interessa nulla di quello che sei, di quello che hai fatto nella carriera; 2) che c’è ancora spazio vitale per chi ha qualcosa di interessante da dire e raccontare. Bisogna mettersi in gioco ogni volta da capo. È stata un’esperienza dura, meritocratica, ma bellissima, che mi ha permesso poi di pubblicare altri libri».

Crede, anche lei, nel valore salvifico della scrittura?

«Credo più nel valore salvifico della musica. Ma anche la scrittura, negli anni, mi ha dato una grossa mano».

Quali sono, oltre ai suoi amatissimi gialli, gli scrittori che l’hanno segnata in modo particolare? I classici o, piuttosto, autori più contemporanei?

«Tutti. Ne cito solo alcuni, l’elenco sarebbe infinito. Alla rinfusa:  Borges, Chandler, Sciascia, Orwell, D.H. Lawrence, e i classici, Pirandello, Goethe».

·        Carlo Conti.

Anticipazione da “Oggi” il 10 giugno 2020. «Sono in una fase della vita, sia a livello professionale che umano, in cui desidero solo quello che già ho. Sono un uomo sereno e felice». Così Carlo Conti in un’intervista esclusiva a OGGI alla vigilia del suo nuovo programma su Rai 1 «Top dieci»: ««È un programma in cui giochiamo con le classifiche, un pretesto per fare show». A OGGI Conti racconta la sua quarantena: ««Sono un privilegiato, non mi lamento… Ho pensato che se questa cosa fosse successa 50 anni fa, mi sarei trovato in una situazione difficile: mia mamma era sola, perché mio babbo è morto quando avevo 18 mesi, e vivevamo in un piccolo bilocale in affitto. Lei si dava da fare, con mille lavori e in una situazione del genere non avrebbe avuto i soldi per andare avanti. Pensando a questo, mi rendo conto di quante famiglie oggi si trovano in difficoltà e vanno aiutate». E sul futuro dice: «Sono ottimista. Confido nei medici, che stanno facendo passi avanti nella cura del virus. Mia mamma era un’infermiera : ora chiamiamo medici e infermieri eroi, ma lo sono sempre stati, lo sono tutti i giorni, la loro è una missione. Spero ci sia un lento ma inesorabile ritorno alla normalità, con intelligenza e attenzione».

Quanto guadagna Carlo Conti? Le cifre da capogiro del conduttore. Notizie.it il 03/01/2020. Quanto guadagna Carlo Conti? Conduttore molto amato dal pubblico del piccolo schermo, è senza dubbio pilastro della Rai e uno dei volti storici della televisione italiana. Per anni ha condotto game show, tra i quali L’Eredità, per poi giungere alle trasmissioni in prima serata del calibro di Tale e Quale Show, La Corrida e Sanremo.

Quanto guadagna Carlo Conti? Conosciuto e apprezzato in tutta Italia, Carlo Conti ha fatto recentemente parlare di sé per via del suo colorito insolitamente pallido. L’abbronzatura lo caratterizza da sempre ed è anche motivo della sua notorietà. Sono numerosi i programmi che Conti ha condotto in questi anni di permanenza nella televisione di Stato, ogni format affidatogli riscuote grande successo. Proprio per questo il suo compenso è piuttosto elevato rispetto ad altri colleghi della Rai. Secondo alcuni rumors, il fiorentino guadagnerebbe circa due milioni di euro annui. Quando è stato direttore artistico del Festival di Sanremo, ha ricevuto uno stipendio di 500.000 euro. Queste cifre da capogiro incassate grazie al Festival, hanno sollevato polemiche ma secondo quanto riportato dal collega Massimo Giletti, parrebbe che Carlo Conti abbia portato 7 milioni in più in cassa alla Rai.

Le dichiarazioni di Carlo Conti. Recentemente Carlo Conti ha partecipato come ospite a “Vieni da me”, condotto da Caterina Balivo. Alla domanda in merito ai guadagni, il diretto interessato ha risposto con sincerità: “Dichiaro tutto! Sto bene, guadagno bene […] riesco anche a fare dei bei regali a mio figlio […] Ho già tutto quello che desidero”. Parlando a proposito del figlio, l’uomo si è commosso. Quella del genitore sembra essere la professione più difficile.

·        Carlo Verdone.

Gloria Satta per “il Messaggero” il 2 dicembre 2020. «Rinunciare alla tombolata sarà dura, ma le regole vanno rispettate. Con la speranza di uscire presto da questo periodo terrificante, il peggiore che il nostro Paese abbia vissuto dal Dopoguerra». Il Natale in formato Covid di Carlo Verdone somiglierà a quello di milioni di italiani: dominato dalle restrizioni, contagiato dalla preoccupazione, caratterizzato da una tavolata ultra-ridotta. Insomma, un Natale all' insegna del mitico «lo famo strano», solo che questa volta non c' è niente da ridere. L' attore e regista, che il 25 dicembre è sempre stato abituato a riunirsi con parenti e amici, quest' anno festeggerà esclusivamente con Giulia e Paolo, i suoi figli, e Gianna, la mamma dei ragazzi.

Farete il tampone prima di ritrovarvi a tavola?

«Certo, seguiremo tutte le disposizioni. Non abbiamo scelta, ed è giusto farlo».

Davvero le dispiacerà rinunciare alla tombola?

«Se è per questo mi mancherà anche il Mercante in Fiera. I giochi delle feste rappresentano una tradizione che mi è stata inculcata dai miei genitori. L' ho sempre rispettata, cercando di tramandarla ai miei figli».

Farà i regali quest' anno?

«Sì, non voglio rinunciare. Almeno i miei familiari troveranno un pacchetto sotto l' albero».

Qualcuno pensa che, per evitare gli assembramenti nei luoghi dello shopping, per una volta i doni si potrebbero evitare.

«Non sono d' accordo. Se gli acquisti si fanno disciplinatamente e con il giusto distanziamento, non c' è pericolo. Dobbiamo pensare anche ai commercianti che dal Covid hanno già ricevuto una batosta».

Con che stato d' animo si prepara ad affrontare questo Natale diverso da tutti gli altri?

«Sarò sincero, sono un po' triste. Non ne posso più di vedere gli amici sullo schermo del computer, ho bisogno dei contatti umani e invece mi sento solo. Questo 2020 che non ci ha portato niente di buono, e parlo anche a livello personale: ad eccezione dell' unico fatto positivo, cioè l' operazione alle anche che mi ha rimesso in sesto, ho visto andarsene tante persone care mentre il mondo intero precipitava nel panico. Ma c' è una cosa che mi ha impressionato».

Quale?

«La fragilità di noi tutti. I neurologi non hanno mai lavorato tanto come in questo periodo per placare le paure, le insonnie e le crisi di panico. Come avevo previsto all' inizio del primo lockdown, il consumo di ansiolitici e antidepressivi è schizzato alle stelle».

Anche per lei?

«No, no! Se c' è mai stato un periodo in cui abbia fatto a meno delle pillole, è proprio in quest' anno di pandemia. Mi sono disintossicato. E non ho avuto un solo attacco d' ansia. Al contrario, ho fatto coraggio a tante persone».

Anche a suo cognato Christian De Sica che è stato colpito dal virus?

«Saperlo contagiato mi è dispiaciuto molto e ho cercato di aiutarlo da lontano, ma Christian è stato bravissimo, forte e coraggioso. Si è curato in casa fino a guarire».

Il Covid le è mai passato vicino?

«Altroché! A marzo, poco prima del lockdown, mi trovavo in Lombardia per promuovere il mio ultimo film Si vive una volta sola (rimandato alla riapertura delle sale, ndr) tra mille abbracci, selfie e strette di mano. Non venire contagiato è stato un miracolo».

E più di recente?

«Nelle ultime settimane per ben cinque volte ho ricevuto la telefonata che nessuno vorrebbe ricevere: Sono positivo, dovresti fare il test anche tu. Erano amici che magari la sera prima si trovavano a chiacchierare nel mio salotto...E ogni volta mi è andata bene, si chiama botta di fortuna».

Cosa direbbe a negazionisti e no mask?

«Che comportarsi in maniera irresponsabile provoca danni non solo a loro stessi ma a tutti, pure a chi rispetta le regole».

Che futuro si aspetta per il cinema, messo in ginocchio dalla pandemia?

«Quando l' incubo sarà finito, le sale torneranno a riempirsi. Ne sono convinto anche per quanto riguarda teatri e musica. La gente non ne può più del divano di casa».

Alla vigilia di questo Natale strano, cosa le dà speranza?

«Il fatto che un gran numero di aziende molto serie abbia pronto il vaccino. E io, che da 40 anni mi proteggo regolarmente da influenza e pneumococco, non vedo l' ora di farlo. La luce in fondo al tunnel è sempre più vicina. Ci siamo quasi, continuiamo a resistere».

Ci cambierà tutto quello che stiamo vivendo?

«Non ho dubbi, il virus lascerà dei segni indelebili anche in chi non è stato contagiato».

Non le viene voglia di girare una commedia sulla pandemia?

«Scherziamo? Il Covid dobbiamo solo dimenticarlo».

Nino Materi per “Il Giornale” il 7 dicembre 2020. Lui adora il pubblico e il pubblico adora lui. «Furio», il marito-fissato della povera «Magda», direbbe: «E allora lo vedi che la cosa è reciproca?». Carriera entusiasmante, quella di Carlo Verdone, dove solo l' operatore ACI in una mitica telefonata trovò il coraggio di dirgli: «Ma va a cagher!». Dagli altri, invece, solo applausi. Meritati. Perché prendere il posto nel cuore degli italiani dei fantastici quattro supereroi della commedia italiana (Sordi, Tognazzi, Gassman, Manfredi) era un' impresa quasi impossibile. Però Carlo Verdone c' è riuscito, forte di un talento naturale plasmato da impegno e passione. Grande interprete e regista non solo a parere dei fan, ma anche a giudizio dei critici, masticatori insaziabili di pane e «specifico filmico». La sua (e la nostra) fortuna iniziò con Non stop, il varietà Rai di comicità d' avanguardia che nel triennio 77-79 portò alla ribalta del piccolo schermo alcuni dei futuri «mostri» cinematografici elaborati dall' attore romano. Nel 1980 irrompe nelle sale la pellicola d' esordio, Un sacco bello; il bis l' anno dopo con Bianco, rosso e Verdone. Due capolavori. Successi senza eguali. È il periodo di massima energia trasformista di Carlo, una specie di mimesi tra «Zelig syndrome» e camaleontismo fregoliano. Fin da giovanissimo sui palcoscenici delle cantine periferiche Verdone sperimenta macchiette irresistibili, specchio dei tempi e del carattere nazionale: dal politico trombonesco con l' eloquio «seempree teesoo!», al cittadino ansiogeno che estrae la pistola dal borsello di pelle marrone, mostrando orgogliosamente il porto d' armi al grido di «Chi me l' ha data questa? Questo!». Maschere ancora attuali tra la vacua oratoria tipica degli uomini di Palazzo e l' esigenza (percepita?) di sicurezza da parte dei cittadini. Verdone inventa un nuovo linguaggio somaticamente rivoluzionario; impossibile non notare quel ragazzo geniale; non credere nella sua alchimia comica; non dargli fiducia. Al resto provvede la bravura di Verdone. La notorietà cresce. Diventando celebrità. Un mito. Ma della porta accanto. «In 40 anni di carriera sono rimasto un uomo semplice. Il pubblico lo ha apprezzato. Forse è questo il segreto della mia longevità». Da bimbo aveva il terrore di perdersi. Come quella volta allo stadio quando per un attimo non vide papà e poi gli corse incontro sussurrando: «Non lasciarmi mai più...». «Grazie a lui mi sono sempre ritrovato, anche nei momenti difficili della vita. Mi ha insegnato a stupirmi davanti al bello dell' arte».

Com' è maturata l' idea di diventare attore?

«Ero un ragazzo timido. Non avrei mai pensato di fare questo mestiere».

Il 17 novembre Carlo Verdone ha compiuto 70 anni.

«Mi ha telefonato il presidente della Repubblica per farmi gli auguri. Ho ricevuto centinaia di messaggi da persone sconosciute. Un' emozione travolgente. Mi sono fatto tre domande».

Quali?

«Davvero ho 70 anni? Sono proprio io quello a cui la gente vuole così bene? Mi merito tutto questo? Sembra un sogno».

Invece è la realtà.

«Ho festeggiato, ma senza esagerazioni. Proseguirò nella mia missione».

Quale «missione»?

«Divertire con intelligenza attraverso storie più mature. Sarei patetico se oggi riproponessi gli schemi del passato».

Il suo 27esimo film è bloccato dall' emergenza Covid. Il titolo sembra una profezia: Si vive una volta sola.

«Racconto le vicende di quattro medici. Potrebbero pure loro far parte di quella ampia schiera in camice bianco impegnata nella lotta contro la pandemia».

Un virus infame che non permette neppure di dare un' ultima carezza ai cari prima dell' addio.

«È una condizione straziante. Ma dovremmo riflettere su una cosa».

Cioè?

«I like sui social e le amicizie virtuali sono inganni che nascondono la nostra solitudine. Non ci si può rincretinire stando otto ore attaccati all' i-phone. La tecnologia è una gran cosa, ma gli eccessi sono pericolosi».

A proposito di «eccessi». L' ha colpita la morte di Maradona?

«Lo conobbi in casa di Massimo Troisi. Un ragazzo gradevole, umile. Per lo sport è stato un dono di Dio».

Poi Dio si è dimenticato di Diego. E Diego si è scordato di Dio.

«La sua fine mi suscita pena e tenerezza».

Torniamo alla famiglia Verdone. Che tipo era sua madre?

«Dolce e piena di ironia. È la donna che mi ha compreso di più. Incoraggiandomi a fare l' attore».

Ha due figli, Paolo e Giulia. Che rapporto avete?

«Meraviglioso. Se dovessi sbagliare qualcosa con loro non me lo perdonerei. Sono sicuro che mi ricorderanno come un buon padre».

Lei, invece, che ricordi ha del periodo a cavallo tra la fine degli anni '70 e i primi anni '80?

«Terribili, fra terrorismo e stragi. E quella parola - «proletariato» - usata a sproposito per coprire gli atti criminali di una banda di vigliacchi. Ipocrisie ideologiche che la Marcia dei quarantamila spazzò via».

Un mese dopo quella marcia epocale (15 ottobre 1980), la terra tremò in Irpinia e Basilicata (23 novembre). Tremila morti. La ricostruzione ha comportato scandali e uno spreco di denaro pubblico senza precedenti. Lo sviluppo è rimasto una chimera. Per il Sud l' ennesima occasione mancata.

«L' anno successivo, in Bianco, rosso e Verdone, focalizzai uno degli episodi del film sul personaggio di Pasquale Amitrano che, emigrato in Germania, torna a Matera per le elezioni. Va a votare, ma al momento di consegnare la scheda al presidente di seggio sfoga tutta la sua rabbia per le ingiustizie patite dal momento in cui ha messo piede nel Belpaese. Da allora ad oggi la situazione non è granché migliorata».

I colpevoli?

«In Italia abbiamo una classe politica inadeguata. Senza qualità. A volte si arriva nelle stanze del potere più in forza dei giochi di potere che in base a preparazione e competenza. Nel Sud, abbandonato a se stesso, il fenomeno è ancora più grave. Speriamo nei giovani».

Magari il disagio fosse limitato al Mezzogiorno...

«Il degrado riguarda l' intera società italiana. Il mio compito è far ridere, ma questa società fa piangere».

Cosa la indigna di più?

«L' ignoranza di chi è chiamato ad amministrare la cosa pubblica. Ma le sembra giusto che posti-chiave vengano occupati in base ai pacchetti elettorali piuttosto che ai titolo di studio?».

A proposito di «titoli di studio», lei può vantare un curriculum accademico da Guinness: una laurea in Lettere moderne con 110 e lode, due lauree honoris causa (in Medicina e Beni Culturali) e un' iscrizione onoraria nell' Ordine dei Farmacisti. Ma è vero che lei ha una vocazione particolare per le diagnosi sanitarie (rigorosamente esatte)?

«La medicina mi ha affascinato fin da piccolo. È una specie di tradizione di famiglia. Ho un ampio giro di pazienti che da anni mi chiedono consigli. Io dico la mia, ma poi raccomando loro: Chiedi conferma a uno specialista».

Si narra che col suo intuito «abbia salvato la vita a quattro persone».

«Anche di più. A Natale ricevo molti pacchi-dono di ringraziamento».

Qualcuno le chiede «dritte» anche sul Coronavirus?

«Il Covid è una cosa seria, figlia anche degli effetti perversi della globalizzazione e del mancato rispetto nei confronti della natura. Ma in tema di pandemia, meglio lasciare la parola ai virologi».

Virologi che però si fanno la guerra l' uno contro l' altro nei salotti-tv. Una smania presenzialista che li ha trasfigurati in macchiette simili al suo dottor «Raniero Cotto Borroni» che nel film Viaggi di nozze, rispondendo a una telefonata mentre sta facendo sesso con la moglie «Fosca», dice: «No...non mi disturba affatto».

«Ogni programma televisivo ha il proprio virologo di fiducia. La gente viene rimbambita a colpi di informazioni contraddittorie. Con la conseguenza, negativa, di lasciare spazio alle tesi negazioniste.

Parla per esperienza personale?

«All' inizio un mio conoscente non prendeva sul serio l' esistenza del Covid. Ma un brutto giorno è stato contagiato, finendo nel reparto intensivo. L' ho rivisto qualche tempo fa al bar: dimagrito e con un' aria sofferta. Mi ha guardato e ha detto: Ora ho capito. Tutti possiamo sbagliare...».

Lei appartiene alla categoria a rischio degli «attori famosi», forse la più soggetta al capitombolo della depressione. Ha mai temuto di cadere vittima del male oscuro?

«È una patologia che non temo. La mia vita è troppo piena di passioni, interessi e affetti per correre un rischio di questo tipo».

Molti suoi colleghi ne hanno invece sofferto.

«Avevano commesso l' errore di mettere il lavoro al primo posto. E quando la carriera è giunta al tramonto, si sono ritrovati soli. Finiti in un tunnel buio. La salvezza è invece la famiglia, gli affetti più cari che non tradiscono mai e ti restano accanto fino all' ultimo dei giorni. Io questi affetti ho la fortuna di averli. E mi li tengo stretti».

I ricordi sono una buona compagnia?

«Quando i ricordi si intrecciano con i buoni esempi, diventano più di una buona compagnia: si integrano con l' anima».

La sua anima è ricca di «ricordi» e «buoni esempi»?

«Sono quelli che mi hanno lasciato in dote i miei genitori. E i miei nonni. Conservo ancora una lettera scritta dal fronte di guerra da mio nonno paterno. È indirizzata a mia nonna e dice: Ho un lapis in mano ma le dita mi tremano dal freddo: ti prego di far studiare Mario, costi quel che costi. Mario è mio padre e quando leggo quel foglio ingiallito trattengo a stento le lacrime».

Mario Verdone ha poi studiato davvero, diventando uno tra i più apprezzati critici e docenti di cinematografia.

«Pur provenendo da una famiglia poverissima il suo livello intellettuale era altissimo, tanto che Norberto Bobbio lo scelse come primo assistente. Grazie a papà ho conosciuto persone di massimo livello culturale. I suoi insegnamenti mi hanno introdotto alle meraviglie della pittura, del teatro, della letteratura, del cinema».

Ma è vero che suo padre la bocciò a un esame universitario?

«La sera prima dell' esame gli dissi che non ero preparato solo su due autori. Il giorno dopo mi fece le domande proprio su quelli. Mio padre era così. Non poteva accettare che suo figlio fosse favorito in qualche modo. Se oggi nutro per lui una sconfinata ammirazione è anche per questo suo modo di essere onesto e integerrimo».

Un atteggiamento assai poco «italiano».

«Nella patria delle raccomandazioni e dei nepotismi, papà ha incarnato la parte migliore del nostro Paese».

Anche per questo l' Italia le suscita malinconia?

«Ma è possibile che ogni giorno ci sia qualcuno che ruba, violenta, uccide? Che le virtuose potenzialità del web vengano da alcuni utilizzate per veicolare orrori di ogni genere? Tutto ciò mi crea tristezza. E mi spinge a trovare rifugio guardano cielo e nuvole, i miei soggetti fotografici preferiti».

Come mai ha deciso di immortalare il cielo?

«Perché il mondo è bello. Ma solo se si guarda in alto».

Sarà un Natale triste. Orfano di tavolate, baci e abbracci. Lei cercherà conforto nelle sue foto?

«Quegli scatti per me sono preghiere senza parole».

Dagospia il 17 novembre 2020. Dal profilo Facebook di “Che tempo che fa”. “È un compleanno molto importante, però io la data la dico, non me ne vergogno, compio 70 anni. È volato veramente il tempo! Come mai li porto bene? Sarà anche il fatto che non prendo quasi mai il sole, un dermatologo mi disse: "come mai la pelle del sedere non ha rughe? Perché è sempre all’oscuro!" Festeggerò da solo, nella solitudine, che devo fare? Aspetteremo tempi migliori.” - Le parole a Che Tempo Che Fa di Carlo Verdone, pronto a festeggiare i 70 anni.  

L’OMAGGIO DELLE SUE ATTRICI. Da leggo.it il 17 novembre 2020.

Paola Minaccioni. Scusa, Carlo, ma gli auguri non te li faccio. Mi metti in difficoltà, farti gli auguri non è facile, sa. Eh perché mi verrebbe da ringraziarti per quello che fai, per l'artista che sei, per la persona meravigliosa che sei. Ti direi che mi colpisce di te il tuo essere leggero e complicato, normale e straordinario. Dovrei dire quanto sei generoso. Quanto si chiacchiera bene con te, di tutto. Non è da tutti. Quanto sei educato? Ne vogliamo parlare? Sei così educato che mi ti menerei. Mi verrebbe insomma di scrivere cose esagerate che un lettore potrebbe commentare: che sviolinata, che esagerata. Me faresti fare una brutta figura, capisci? Vajielo a spiega', che tu sei esagerato. Ti avrei voluto conoscere da piccolo, da bambino, per vederti che già prendevi appunti, avrei voluto vedere dove si è formato questo tuo istinto. Sei una specie di strumento della felicità, come te movi fai stare bene tutti. Anche quando stai fermo e nun fai niente. Pure così riesci a raccontare una storia, con uno sguardo. Credo che tu abbia raggiunto il più ambizioso dei traguardi, essere amato incondizionatamente da tutti. Da tutti. Tièttelo stretto sto amore perché te lo meriti tutto. Buon Compleanno, Carlo.

Claudia Gerini: «Grande artista , ma resta un ragazzo di Ponte Sisto». «Carlo festeggia un compleanno tondo, un grande traguardo e io, che gli sono affezionata al punto da considerarlo un’anima gemella, gli auguro di restare ciò che è per i prossimi 100 anni: un uomo e un professionista speciale capace di una grande umiltà. È l’unico attore-regista-sceneggiatore che ha mantenuto un bellissimo rapporto col pubblico per 40 anni, è un artista che ha segnato profondamente la nostra vita culturale, ma alla fine resta sempre un ragazzo di Ponte Sisto». Sua partner in scena in Viaggi di nozze, Sono pazzo di Iris Blond e Grande, grosso e Verdone, Claudia Gerini è legatissima a Verdone anche sul piano personale. (Michela Greco)

Nancy Brilli: «Un intellettuale intrappolato dentro il corpo del Patata». «Carlo è un intellettuale intrappolato nel corpo del Patata, c’è una continua tensione in lui tra l’essere un raffinato e un tenerone: è unico. Dal punto di vista professionale, semplicemente, è un artista speciale perché fa tanto ridere, sempre». Al regista che nel 1988 la volle in Compagni di scuola nel ruolo di Federica, seducente e malinconica animatrice della rimpatriata tra ex compagni di liceo, Nancy Brilli augura di «continuare a divertirsi facendo il suo lavoro e di amarlo come ha sempre fatto. E gli auguro di diventare grandissimo anche all’estero così come lo è in Italia, c’è ancora tempo». (Michela Greco)

Eleonora Giorgi: «Con il nostro Borotalco ha segnato una generazione intera». Anno 1982. Borotalco, terzo film di Verdone, è un’altra pietra miliare. Al suo fianco, come protagonista femminile, c’era Eleonora Giorgi, nei panni di Nadia Vandelli, brillante venditrice di enciclopedie. «Io ho fatto commedie di grande successo popolare ma nessuna ha avuto l’impatto che ha avuto Borotalco – aveva detto l’attrice in occasione del trentacinquesimo anniversario del film - Perché qui Carlo delinea il personaggio di una ragazzina che era emblematica di quegli anni. I ragazzi ancora mi parlano di questo film, vuol dire che Carlo aveva scritto qualcosa di veramente. (M.Gre.)

Paola Cortellesi: «La sua ironia ci fa perdonare il nostro essere imperfetti». Carlo Verdone e Paola Cortellesi hanno duettato sul grande schermo, nel 2014, in Sotto una buona stella, commedia sul confronto e il ricambio generazionale in cui lei è Luisa, la vicina di casa che riporta un po’ di luce nella vita disastrata di lui. «Attraverso i suoi racconti – dice l’attrice di Verdone - guardiamo un po’ di noi stessi e attraverso la sua ironia troviamo il modo di perdonarci per essere imperfetti. Lavorare con lui è una gioia e un privilegio, ma il regalo più grande, quando l’ho conosciuto, è stato constatare che in questo grande artista ci fosse effettivamente l’uomo eccezionale che avevo sempre immaginato». (M.Gre.)

Isabella De Bernardi: «Per me lui è come uno zio, gli auguro tanta leggerezza». «Carlo è una persona molto sensibile, è uno che tende a pensare tanto, forse troppo, perciò gli auguro soprattutto tanta leggerezza». Rimasta celebre per le battute cult della sua Fiorenza nel film d’esordio Un sacco bello – «Guarda che io a mi’ padre gli ho già sputato in faccia, attento fascio!» - Isabella De Bernardi ha un legame speciale con l’attore-regista: «Oltre ad avermi resa famosa, per me Carlo è stato un amico speciale e in tutti questi anni è ormai diventato un parente: uno zio, anzi un cugino. Ha un immenso talento artistico ed è un uomo attento, affettuoso, sensibile e pieno di umanità». (M.Gre.)

Ilenia Pastorelli: «Sul set pensavo a cose tristi per non scoppiare a ridere». Ultima tra le protagoniste femminili del cinema verdoniano (in attesa che Si vive una volta sola, bloccato dall’emergenza Covid, arrivi finalmente al pubblico) Ilenia Pastorelli era Luna in Benedetta follia (2018). Si è sempre dichiarata una fan scatenata di Verdone, una di quelle che sanno a memoria i dialoghi dei suo film. E sul set con lui, aveva detto in un’intervista a Vanity Fair, «Difficile è stato non ridere alle battute di Carlo. A volte, per non scoppiare nel botta e risposta, mi sono fermata a pensare a delle cose tristi. Mia nonna malata, mia zia con la febbre...». 

I 70 anni dell'attore e regista romano. Qual è il film più bello di Carlo Verdone? Redazione su Il Riformista il 17 Novembre 2020. “Lo famo strano”, e come sennò? Carlo Verdone compie 70 anni e sembra il compleanno di uno di famiglia. Dell’ingenuo e dell’irascibile, dello sfigato, del tonto, del tamarro, del secchione e dell’ipocondrico, del rockettaro e del romanticone e di ogni altra maschera, personaggio o macchietta attraverso cui l’attore, regista e sceneggiatore romano ha raccontato l’Italia in 40 anni di carriera. In 27 film da regista, 39 da attore, nove i David di Donatello vinti. E nessuna voglia di fermarsi: sta scrivendo un libro di racconti, ha portato in mostra le sue fotografie ed è alle prese con una serie che dovrebbe uscire nel 2021. Come il suo ultimo film: Si vive una volta sola, che doveva arrivare nelle sale nel 2020 e che il coronavirus ha bloccato. Se ne parla l’anno prossimo, sempre con lo stesso entusiasmo. “Che dirvi? So’ tanti – ha scritto sui social Verdone citando Bruce Springsteen – Ma la mente è lucida, lo spirito positivo, le anche robuste. Quindi la corsa continua! Born to run finché potrò“. Il regista, attore, mattatore tra i più rappresentativi della commedia italiana ha ringraziato i fan sui social per tutti gli auguri e gli omaggi che gli stanno arrivando in queste ore. IlRiformista.it si unisce a questi. E lo fa a modo suo, alla maniera di Verdone, o meglio di uno dei protagonisti di Viaggi di Nozze, Ivano. Lo facciamo “strano” anche noi scegliendo il suo miglior film. Ogni redattore il suo preferito, il prediletto; coscienti di quanto possa essere parziale e divisivo. Comunque, non abbiamo litigato, piuttosto riso. Ecco il contest, un gioco aperto a osservazioni e opinioni.

Scegliere un film preferito tra tutti quelli di Carlo Verdone per me è molto difficile. Alcune battute di Borotalco, Gallo Cedrone, Viaggi di nozze, Bianco Rosso e Verdone e Un sacco bello (solo per citarne alcuni) mi accompagnano ancora oggi nel quotidiano. Penso a Compagni di scuola che credo sia probabilmente il migliore, un vero e proprio cult con un cast eccezionale. Insomma scegliere il preferito mi mette alle strette per cui scelgo un film cui sono particolarmente legato. E scelgo Troppo forte. È stato uno dei primi film che ho avuto in VHS e l’ho visto e rivisto decine di volte. E il monologo della Palude del Caimano con gli “anticorpi coi controcojoni” è più attuale che mai… (Davide Nunziante)

“Non ce la faccio più!”. Chi almeno una volta nella vita non l’ha detto figurandosi l’immagine di Magda Ghiglioni del film Bianco, Rosso e Verdone seduta sul water mentre si dondola esasperata. Tra silenzi e rassegnazione, la storia di Magda e Furio è l’incarnazione tragicomica di donne sottomesse che riescono a trovare il coraggio di cambiare e di uomini che, forse, non cambieranno mai. (Roberta Caiano)

Maledetto il giorno che t’ho incontrato: è uno dei primi film in cui si vede Carlo Verdone uscire dalla sua Roma e dall’Italia. Una commedia sentimentale tra Milano, Londra e la Cornovaglia che vede protagonisti Bernardo e Camilla (Margherita Buy). Lui giornalista e scrittore alla ricerca dello scoop impossibile sulla reale natura della scomparsa di Jimi Hendrix, lei attrice complessata che si innamora prima del suo analista e poi del suo regista teatrale. Entrambi soffrono di depressione e ipocondria e, spesso, si ‘consolano‘ con farmaci. Tra loro nasce prima l’amicizia, poi l’amore. (Ciro Cuozzo)

Un sacco bello: uno dei tanti film simbolo della capacità di Verdone di non essere esclusivo protagonista della scena e suo debutto sul grande schermo. Nel film che narra le tre storie parallele dei protagonisti Leo, Enzo e Ruggero (tutti interpretati da Verdone), è indimenticabile il ‘duetto’ col Mario Brega che interpreta il padre dell’hippie Ruggero, tornato a casa dopo due anni in una ‘comune’ in Toscana. Una scena simbolo dello scontro generazionale e della tipica ipocrisia italiana. (Carmine Di Niro)

Non può che diventare un voltafaccia questa faccenda. Sono pazzo di Iris Blonde mi ha sempre catturato: un titolo fantastico, quel fascino da opera minore, la blefaroptosi della cameriera, le tastiere anni ’80, l’amore impossibile e una malinconia che soltanto un treno che non vorremmo mai partisse. Ma la battuta, la parte, lo spezzone da ricordare e imitare – e ridere – insieme con gli amici è sempre stato un altro. Devo quindi tradire Iris Blonde per Borotalco. Tutta colpa di Manuel Fantoni, maschera di velleità e millanteria. E un monologo indimenticabile. Quel film fu anche una dedica a Lucio Dalla: Iris Blonde sarebbe potuta comunque essere il personaggio di una sua canzone. (Antonio Lamorte)

Nei film di Verdone c’è uno sguardo profondo, ironico e preveggente sul nostro tempo. In Borotalco, Manuel Fantoni anticipa lo storytelling della politica, oggi materia per spacconi. In Viaggi di Nozze c’è lo spostamento dell’antipolitica nelle periferie urbane. In Viaggio con Papà quello che tocca le corde del cuore, unendo le due icone di Verdone e Alberto Sordi. Ne La Grande Bellezza è magistrale, e chissà perché la metà delle scene di Verdone, tra cui un metaforico pianto sulla scalinata del Campidoglio, venne poi tagliata da Sorrentino. Oggi c’è un suo film che non riusciamo a vedere, Si vive una volta sola. Non esce causa covid, proprio come noi.

(Aldo Torchiaro)

Marco Cicala per il Venerdì- la Repubblica il 16 novembre 2020. A ricevermi nella sua casa in cima al Gianicolo è un Carlo Verdone dall' andatura solenne e l' aria preoccupata. Il passo cadenzato è conseguenza dell' intervento alle anche che Verdone ha subìto un mese e mezzo fa. Quanto all' aria preoccupata, trovatemi un essere umano dotato di buon senso che in questi giorni non ce l' abbia. Ma, a proposito di Covid e malattie in generale, una precisazione preliminare è d' obbligo: contrariamente a quanto ripete la vulgata. Carlo Verdone non è un ipocondriaco. «Se lo fossi non avrei affrontato in pieno virus un' operazione con la quale m'hanno segato in due per poi riappiccicarmi». Non solo. Cultore di medicina e medicine, passa le giornate della convalescenza a consigliare e confortare amici: «Il cinquanta per cento di loro ha il virus». Della cerchia faceva parte per caso anche qualche negazionista? «Altroché. Ce n' era uno con cui stavo per rompere, non lo reggevo più. Poi s' è ammalato. L' hanno ricoverato. "E adesso come la mettiamo?" gli ho chiesto. La risposta è stata un flebile: "Me so' sbajato"». Mascherinizzata, il più possibile igienizzata e distanziata, questa intervista sarebbe dovuta partire da Si vive una volta sola, l' ultimo film di Verdone che quasi nessuno - chi scrive incluso - ha visto. Perché la pandemia ne ha fatto un fantasma, un recluso in attesa di scarcerazione: «Penso che mi sia venuto molto bene, ma come noi italiani fatica a uscire di casa. Doveva arrivare nelle sale a febbraio, poi è slittato a novembre. Adesso dipenderà da come si evolve la situazione» racconta Verdone, che nel cast è affiancato da Anna Foglietta, Max Tortora e Rocco Papaleo. Sorte beffarda, interpretano un quartetto di medici tanto cazzuti in sala operatoria quanto sgangherati nella vita privata. «Ma l' ospedale è solo il pretesto di una commedia sull' amicizia» dice il regista, ventisette film in quarant' anni di carriera. E quasi settanta anagrafici. Li festeggerà martedì prossimo. Allora ripartiamo dai titoli di testa. Quando, nei primi Ottanta, irruppe sulla scena ridando brio alla sfiorita commedia italiana, le affibbiarono il patentino di "erede di Alberto Sordi". Era un complimento. Ma poi non ha finito per diventare un cappio, per costringerla a rifare sempre Verdone?

«Il pericolo c' era. Ma credo di aver sempre cercato di cambiare toni, registri, personaggi».

E c' è riuscito?

«Continuo a provarci. Durante il lockdown ho scritto un libro, il soggetto di un nuovo film, e otto puntate su dieci di una serie tv nella quale mi racconto in un modo un po' diverso. Si intitolerà Vita da Carlo. È una specie di autoanalisi. Racconta le mie giornate in forma solo appena romanzata. Speriamo di poterla girare a marzo. Andrà su Amazon Prime Video».

Qual è il film che le è venuto peggio?

«Stasera a casa di Alice non era male. Ma, giocando su stereotipi già molto visti nella commedia italiana, arrivava un po' in ritardo».

Sul piano degli incassi invece C' era un cinese in coma, anno 2000, segnò una battuta d' arresto.

«Era una commedia acida, graffiante. Ma forse il pubblico s' era un po' stufato. Allora mi sono detto: il modo migliore per non perdere la prossima battaglia è non combatterla. Mi sono fermato per due anni. Ho preso i miei due figli e insieme abbiamo fatto il giro del mondo. Sullo schermo sono tornato in punta dei piedi con Ma che colpa abbiamo noi, dove non ero protagonista. Il pubblico ha reagito bene. Poi ho girato L' amore è eterno finché dura e quindi Il mio miglior nemico che ha fatto il botto incassando 21 milioni di euro».

Dicono che continui a battagliare con i produttori. Ma tutti gli incassi e i premi che ha raccolto non le fanno da corazza?

«Beh, con Mario Cecchi Gori era più facile. Anche se una mia idea non lo convinceva, alla fine mi dava sempre il via libera, dicendo: "Tanto i film li fai tutti bene". Ora con Aurelio De Laurentiis è un po' diverso. Se non siamo d' accordo ci blocchiamo a discuterne per mesi. Sono dispute anche abbastanza accese e stremanti. Però un produttore non può convincere un regista a fare quello che non vuole. E comunque Aurelio è ancora di quei produttori d' una volta che si appassionano ai film. In America farà pure un sacco di altre cose, ma in Italia ne "produce" in pratica solo due: il Napoli e Carlo Verdone».

Si vive una volta sola: da credente, lei non può sottoscrivere il titolo del suo film.

«Dal punto di vista umano si vive una volta sola. Ma credendo in Dio penso che l' anima sia eterna».

Ho letto che pratica una singolare forma di preghiera: fotografare le nuvole.

«Una quarantina di quelle foto sono state esposte al Museo Madre di Napoli. Ma non erano nate per essere mostrate. Non volevo che la gente pensasse: "Adesso Verdone s' è messo pure a fa' il fotografo". A convincermi è stata Elisabetta Sgarbi. Qualcuno le aveva parlato di quelle immagini. Lei ha voluto vederle e le sono piaciute. Le foto, ormai circa cinquecento, sono un mio momento intimo, mistico: una preghiera senza parole. Le conoscevano solo i miei figli e qualche amico. Rappresentano una parte di me. Non sono un depresso, ma ho un lato malinconico, crepuscolare, leopardiano. E non l' ho mai nascosto. Non sopporto quegli attori comici che si fanno vedere sempre sorridenti, con la battuta pronta, e poi magari nel privato sono tutto il contrario. Penso che a un certo punto devi mostrarti per quello che sei davvero. Vede, io non sono un misantropo, ma so bastare a me stesso. Entro certi limiti, non sto male da solo. Coltivo le mie passioni: la scrittura, il giardinaggio, la musica o, appunto, la fotografia. Quegli scatti ai cieli costituiscono una specie di compensazione spirituale al mio lavoro».

In che senso?

«Nei film sono sempre affiancato da una o un coprotagonista oppure da un gruppo di attori, insomma: sto sempre rinchiuso dentro un "autobus di facce". Le commedie sono un diluvio di parole e di interni. Solo raramente puoi concederti di filmare uno sfondo, un paesaggio. Nelle mie foto invece non c' è mai un essere umano: solo eventi atmosferici. Per me il cielo è "l' umore di Dio", mi stupiscono sempre i suoi cambiamenti. Le foto le faccio qui in terrazza, nella mia casa di campagna in Sabina o nei dintorni. Potrebbero essere state scattate ovunque. Ma ogni volta che le guardo mi rassicurano. Perché sento che il cielo è vita, che nel cielo c' è sempre vita».

Ha conosciuto bene l' ultimo Alberto Sordi. Un uomo che nel privato aveva rituali quotidiani rigorosissimi. Anche lei ha i suoi rituali?

«Tutti ne abbiamo. Di più o meno nevrotici. Il suo giardiniere mi raccontò che, quando si ritirava a scrivere sull'isolotto norvegese, Ingmar Bergman lo pregava di non usare le cesoie. Perché sull' isola voleva il silenzio assoluto. Girava per casa in pantofole perché odiava perfino il rumore dei propri passi. Anche io scrivo nel silenzio. Tutt' al più con un sottofondo di musica minimalista a bassissimo volume. Quando sono in viaggio non posso spostarmi senza il mio iPod: contiene una compilation di musiche indispensabili per farmi prendere sonno. I brani sono: L' Inno dei Cherubini di Cajkovskij, Steel Cathedrals di David Sylvian e Sakamoto, più alcuni pezzi ambient di Brian Eno. Sto a letto con la cuffietta e gli occhi che mi si chiudono: "Adesso spengo" mi ripeto. Ma finisce sempre che verso le sei di mattina mi sveglio con la compilation che mi gira ancora nelle orecchie. Oltre a queste, ho le fissazioni rituali di chiunque. Prima di andare a dormire ricontrollo cinque o sei volte che la porta di casa sia chiusa bene e la chiavetta del gas stia in posizione orizzontale».

Ho letto anche che, mentre nel cinema infuriavano le denunce di molestie sessuali, lei ha deciso di proteggersi piazzando una videocamera sul pianerottolo.

«È sempre in funzione. L' ho messa perché, soprattutto la domenica pomeriggio, iniziava a ripetersi troppo spesso una stessa scena. Qualcuno mi suona alla porta. Dato che non ha citofonato, io apro pensando che si tratti di un vicino del palazzo. Invece mi piombano in casa gruppi di ragazzi che vogliono filmarsi insieme a me. Magari in videochiamata con la sorella, la fidanzata, la madre: "Guarda ma', sto a casa de Verdoneee!". In qualche caso però si sono presentate anche delle ragazze da sole. Imploravano: non mi cacciare via, non mi denunciare! Voglio solo lasciarti un cd per farti ascoltare le mie imitazioni... E poi puntualmente svenivano o si facevano prendere da un attacco di panico. Me toccava andà a cercà un calmante. Siccome questi episodi avvenivano nell' ingresso di casa, con la porta aperta, ho pensato che sarebbe stato prudente filmarli. Casomai a una di quelle fosse venuta l' idea di graffiarsi in faccia e poi andare a dire in commissariato che j' ero zompato addosso. Da questo punto di vista la mia vita privata è una tragedia. Prima di uscire devo chiamare il portiere e chiedere: via libera? C' è sempre qualcuno appostato fuori con un copione in mano».

Tutti i suoi film sono il frutto del lavoro di Verdone "pedinatore" degli italiani. Ma da quando la sua faccia è diventata conosciuta come fa a studiarli, a spiarli senza farsene accorgere?

«Continuo a indagare sulla gente, ma a volto scoperto. Mi alzo sempre abbastanza presto e faccio il mio giretto mattutino. La chiacchiera col giornalaio, col barista, col fioraio egiziano o con la tintora egiziana. Le farmacie restano un ottimo punto di osservazione. Ci ho trascorso ore. Ma adesso col Covid sono off limits».

Negli anni ‘80 lei diagnosticò con largo anticipo una piaga sociale che si andava diffondendo tra gli italiani: la mitomania. Ora sui social ha raggiunto l' apoteosi. In che rapporti è Verdone con Facebook e compagnia postante?

«All' inizio mi ero detto: non ci metterò mai piede. Ma sono subito cominciati i problemi. Perché presero a fioccare dei falsi Carlo Verdone che mettevano in rete immagini e commenti spacciandosi per me. Dopo una serie di denunce, siamo riusciti a fermarli. A quel punto però dalla Polizia postale mi hanno detto: lo vuole un consiglio? Per finirla con 'sta storia si apra un profilo suo e buonanotte. Il risultato? Una foto che mi mostra mentre torno a camminare dopo l' operazione ha fatto 112 mila like, 4 milioni con le condivisioni. Ma nella mia pagina non voglio essere narcisista, esibizionista. A chi mi segue cerco sempre di dare qualche piccola cosa originale: una vecchia foto di Roma, di qualche grande artista che ho conosciuto. Oppure un aneddoto, un racconto. Insomma, non mi metto lì a postare un selfie di me al ristorante davanti all' aragosta».

Si considera un uomo mite?

«Sì».

Ma il Vecchio Testamento insegna che quando un tipo mite s' incazza sono dolori. A lei cosa la fa imbestialire, cosa la ferisce di più?

«Il tradimento di un amico. In vita mia ne ho sofferti tre o quattro di quelli brutti. In casi simili non reagisco né a gesti né a parole. Chiudo e basta. Le cose che mi fanno più male sono i voltafaccia e l' invidia. Non sono un santo. Ho i miei tre o quattro bei difettacci, ma tra questi l' invidia non c'è. Mi ricordo di quando Massimo Troisi esordì con Ricomincio da tre. Era lo stesso anno di Bianco, rosso e Verdone, ma il suo film incassò trenta volte più del mio. Dopo averlo visto mi dissi che era nato un attore dai tempi comici straordinari. E volli incontrare Massimo. Ma non per chiedergli: facciamo un film insieme? No, solo per conoscerlo. Oltre a essere un grande attore era un uomo intelligente, sensibile, acuto. Ho imparato molto da lui».

Le battute dei suoi personaggi sono entrate nell' immaginario collettivo come quelle dei primi film del suo quasi coetaneo Nanni Moretti. Fate un cinema molto diverso, ma siete vicini di casa. Che rapporti avete?

«Non ci frequentiamo. Lui è una persona molto riservata e io lo rispetto. Se ci incrociamo al ristorante facciamo due chiacchiere su quello che stiamo facendo o stanno facendo i nostri figli. Tempo pochi minuti e arrivederci».

Verdone, i suoi primi film ci fecero scoprire una gioventù scombinata, ma candida, solitaria. E sparita.

«Erano figure poetiche che prendevo dalla realtà di quegli anni. Ragazzi che a forza di star soli diventavano quasi personaggi fiabeschi. Oggi nessuno è più in grado di stare da solo. I giovani vogliono rimanere connessi, vedersi. Guarda che casino ti alzano se gli togli l' aperitivo».

Insieme a quegli stralunati è scomparsa pure la Roma in cui si aggiravano. Ora prevale la rappresentazione della metropoli-Suburra. Ma non ha già stufato?

«Quella rappresentazione è uno specchio della realtà, perché Roma si è effettivamente incattivita. Forse però è arrivato il momento di superare Gomorre e Suburre. Senza sdolcinatezze, ma bisognerebbe raccontare Roma anche con altri sentimenti. Alla fine l' eccitazione della violenza, delle bande e dei traffici criminali che cosa ha prodotto nei ragazzi? Anni fa, un mio amico che insegnava in una scuola di periferia mi raccontò che agli studenti aveva assegnato un tema dal titolo: Qual è il primo desiderio che vorresti si realizzasse appena diventerai maggiorenne? Uno rispose: "Vorrei comannà tutto er Prenestino". Un altro: "Vorrei fondà 'na banda più cattiva de quella daa Majana". Un altro ancora: "Vorrei da' 'na lezione a mi' padre che m' ha rovinato 'a vita". Tutte risposte arrabbiate. Comprese quelle delle ragazze, che erano le più violente. Da qui la domanda: che cosa abbiamo fatto negli ultimi decenni per le periferie? Niente. La politica ha improvvisato. Le ha abbandonate. E i ragazzi che si sono detti? Si sono detti: "Famo da soli. Prennemose Roma, Ostia, le periferie».

Alla soglia dei 70 anni soffre di nostalgia o la affronta con romanissimo fatalismo?

«Il tempo va avanti e non possiamo farci niente. Però se mi chiedessero: "Pagheresti per essere nato qualche anno più tardi e poter vivere di più?", risponderei: "No. Al limite pagherei per essere nato qualche anno prima". I 50, i 60, e malgrado tutto anche i 70, furono anni strepitosi. Quando li racconto ai miei figli sgranano gli occhi come se non ci credessero. Provo rimpianto? Sì. Ma non bisogna mai guardarsi troppo indietro. Sarebbe una forma di codardia».

Maturando, il senso di condivisione delle amicizie giovanili tramonta?

«Col tempo le vecchie amicizie tendono a indebolirsi. Perché ci si mette in mezzo il lavoro tuo e quello dell' altro. La tua famiglia e la sua. Anche se dovrei farlo di più, cerco di coltivare amicizie soprattutto fuori dal mondo del cinema. Frequentare la gente dello spettacolo è di una noia mortale. Si parla solo di soldi. Tra i miei amici ci sono medici, avvocati, direttori di banca. Anche il mio sceneggiatore Pasquale Plastino e il regista Giovanni Veronesi, ma con loro non parliamo mai di cinema».

Il complimento più bello ricevuto in 40 anni di carriera?

«Diversi anni fa, all' una di notte, sul ponte di Regina Coeli, un energumeno in motocicletta mi urlò: "A Ca', grazie pe' avemme dato er soriso a 'n' adolescenza de mmerda!". Sulle prime rimasi spaventato. Ma poi mi dissi che quella frase valeva più di un Oscar. Però la gratificazione più grande è quella delle persone che prima di morire chiedono di vedermi. Vogliono ringraziarmi per i miei film. Che in dvd gli hanno fatto compagnia durante la terapia del dolore».

Oggi soffre di ansia da Covid?

«No. Sono molto preoccupato, ma cerco di prenderla con filosofia. Penso alle famiglie che vivono in 50 metri quadrati. Ho già fatto 7 tamponi. Esco solo se necessario: 'ndo devo annà? All' inizio, oltre alla mascherina, usavo i guanti. Poi hanno consigliato di toglierli perché era meglio il gel igienizzante. Di questo virus continuiamo a sapere poco. Quest' estate ci hanno detto che sarebbe praticamente sparito. E la gente se n' è andata in Sardegna, in Corsica, in Croazia Alla faccia dell' Oms - tanto bistrattata da Trump - che invece aveva avvertito di una seconda ondata in arrivo. La gestione politica dell' emergenza è una cosa molto difficile. Io non mi fido della politica. Perché il politico ha sempre paura che le decisioni impopolari lo mettano contro quelli della sua compagine e gli facciano perdere voti. E così tende a lasciar correre. Mentre bisognerebbe essere molto decisi».

Cinema e teatri andavano chiusi o tenuti aperti?

«Certo, i cinema sono luoghi a rischio molto basso. Su 200 posti se ne possono occupare solo 60. Gli spettatori sono distanziati, con mascherina e non parlano tra loro. Però quando 100 scienziati hanno scritto al presidente Mattarella parlando di un momento molto pericoloso e chiedendo un nuovo lockdown, credo che non avessero preso di mira cinema e teatri in quanto tali, ma ciò che comportano in termini di mobilità delle persone. Penso che la preoccupazione fosse quella di ridurre gli spostamenti della gente in generale. Che dirle? Forse si tratta di misure eccessive, anche perché i grandi contenitori del virus sono piuttosto i trasporti pubblici. Ma se la scienza ci dice che adesso il Covid puoi beccartelo anche solo facendo capolino in un negozio, allora dobbiamo dar retta alla scienza e starcene zitti».

Carlo Verdone operato: “Non potevo più camminare”. Notizie.it il 28/09/2020. Carlo Verdone si è sottoposto a un delicato intervento e ha annunciato via social l'inaspettato traguardo da lui raggiunto. Carlo Verdone è stato operato ad entrambe alle gambe. Il famoso attore ha annunciato di essersi sottoposto al delicato intervento dopo sette anni in cui gli era praticamente impossibile camminare. Attraverso i social Carlo Verdone si è mostrato in un breve video in cui – con l’aiuto delle stampelle – muove qualche passo. L’attore ha rivelato che per lui si tratterebbe di un enorme traguardo seguito al delicato intervento da lui subito nei giorni scorsi. “Dopo sette anni di atroce dolore alle anche per le cartilagini scomparse, mi sono deciso giovedì 17 di operarmi in un colpo solo alla ricostruzione di entrambe perché non ero più in grado di camminare per pochi metri”, ha affermato via social il famoso attore romano, e ha aggiunto: “Oggi un piccolo miracolo!”, mostrandosi mentre muoveva piccoli passi nel salone del suo appartamento. Con il suo post l’attore ha ringraziato i chirurghi che l’hanno operato e ha affermato che per la prima volta dopo gli ultimi lunghi 7 anni, non proverebbe dolore. In tanti gli hanno fatto gli auguri di pronta guarigione e si sono detti entusiasti per l’inaspettato annuncio dell’attore. L’attore, che ha ricevuto una laurea honoris causa in medicina, ha anche confessato di essersi deciso a sottoporsi all’operazione dopo moltissimo tempo in cui gli era impossibile camminare, e adesso – dopo alcuni giorni di riposo – potrà dire finalmente addio anche alle stampelle.

Carlo Verdone tuona contro il politicamente corretto: "Basta, è una patologia". Carlo Verdone dal palco del Piccolo Cinema America si sfoga contro il politicamente corretto esasperato che incatena gli sceneggiatori e lancia un monito sul futuro del cinema. Francesca Galici, Sabato 29/08/2020 su Il Giornale. Quella di Carlo Verdone ora è una voce di rottura nel panorama cinematografico italiano. Il celebre attore e regista romano, infatti, ieri è salito sul palco del Piccolo Cinema America e ha condannato con toni duri il politicamente corretto imperante negli ambienti della sinistra, a cui strizza l'occhio anche la kermesse romana. Il protagonista di alcune delle commedie all'italiana più divertenti tra gli anni Ottanta e Novanta ha pronta una nuova produzione, che non è stata ancora portata in sala a causa della pandemia di Covid. Si vive una volta sola non verrà lanciato in anteprima sulle piattaforme di streaming come hanno fatto alcuni suoi colleghi, perché Carlo Verdone preferisce aspettare che si possano nuovamente portare i film nei cinema il prossimo anno. Il cast del film è di quelli d'eccezione, perché accanto all'attore e regista ci sono anche Anna Foglietta, Rocco Papaleo e Max Tortora. È proprio prendendo spunto dal suo nuovo film, che è stato presentato in anteprima alla stampa qualche mese fa, che Carlo Verdone ha detto la sua sul politicamente corretto, puntando il dito contro i censori e i nostalgici della buoncostume. "Il mio ultimo film, permettete la presunzione, credo mi sia venuto molto bene", dice Carlo Verdone parlando alla folla, prima di spiegare cosa ha fatto scattare in lui la rabbia contro il politicamente corretto. "Quando ho fatto vedere il film, a un certo punto c'è stata una critica che mi ha fatto la critica perché c'era in primo piano il sedere di mia figlia, che aveva gli slip", spiega Verdone raccontando la scena al pubblico del Piccolo Cinema America. "A un certo punto (la critica, ndr) mi ha fatto un articolo contro: 'È disgustoso...'. Sembrava una critica del 1932, ma che cavolo è? Ma non può stare con le mutande così? A quel punto là mi sono cascate le braccia", conclude Carlo Verdone, evidentemente esasperato per il clima che si respira nel Paese. A questo punto il regista lancia un monito: "Guardate che se continuiamo così, con questo politicamente corretto portato all'esasperazione noi avremo dei grossi problemi in sede di sceneggiatura". Secondo Carlo Verdone, infatti, il politically correct che piace tanto agli ambienti radical chic è un "errore micidiale, perché a forza di seguire il politicamente corretto, uno si sente sempre incatenato in qualche modo". Per lui, l'attività censoria in atto è fortemente limitante alla libertà di espressione, soprattutto nel mondo dell'arte. Una catena che per il regista influirà negativamente sulla qualità delle pellicole: "Faremo meno ridere, avremo meno battute, non si potrà dire nulla perché si offende quello... Sono d'accordissimo, fumiamo di meno, però ci sono delle cose sulle quali francamente non sono d'accordo."

Alla platea dell'arena del Piccolo Cinema America, Carlo Verdone ha spiegato che sono tanti i colleghi a pensarla come lui: "Anche tanti miei colleghi iniziano ad averne un po' le palle piene di questo politicamente corretto, perché sta diventando un po' una patologia. Basta per cortesia".

Da agi.it il 24 luglio 2020. "Magari me viene er Covid, lo sdereno co' 10 minuti". Quarant'anni dopo, lo spirito del bullo Enzo di “Un sacco bello”, esordio cinematografico di Carlo Verdone, è più vivo che mai tra i fan che attendono l'arrivo del regista tra il Tufello e Val Melaina. C'è da festeggiare un un anniversario di quelli tondi, quarant'anni dal film che ha lanciato il grande attore e regista icona di una Roma popolare, malinconica e al tempo stesso sofisticata. In una rotatoria all'ombra dei palazzoni grigi di via Giovanni Conti, il Municipio III di Roma ha deciso di omaggiare l'artista apponendo una targa in ricordo del 'palo della morte', un lampione con il simbolo del teschio dove nel film Enzo incontrava l'amico Sergio (Renato Scarpa) per pianificare un viaggio estivo in auto da Roma fino a Cracovia a caccia di belle ragazze. Un viaggio che rimarrà una chimera, quasi un sogno di fuga dalle periferie assolate e desolate di Roma nell'estate del 1980. È un'iniziativa voluta dall'assessore municipale alla Cultura, Christian Raimo, e dal minisindaco Giovanni Caudo per regalare un momento di incontro in periferia tra l'attore e il suo pubblico e rilanciare le proiezioni cinematografiche dopo la pandemia di coronavirus. L'affetto della gente quasi esonda, ci sono centinaia di persone e l'incontro si sposta nel giardino interno ai palazzoni. La voce di Verdone si sente a malapena tra le grida di incitamento dei presenti: "Sei il Re di Roma". "Quando io ho girato qui non c'era niente, tutti i palazzi erano in costruzione, sembrava una scena di Mamma Roma di Pasolini. Oggi le periferie sono cambiate, delle cose sicuramente sono migliorate, è difficile trovare scorci che diano quelle emozioni", racconta Verdone. "Oggi non sarebbe possibile ripetere "Un sacco bello" - aggiunge - è cambiata la storia. Oggi Enzo andrebbe in vacanza a Ibiza con altri cento tutti uguali a lui, stessi tatuaggi e stessi capelli". Poi la concessione al pubblico in attesa, la battuta "Love, love, love", recitata dall'hippy Ruggero, altro personaggio dello stesso film. Prima di andare via l'attore è stato omaggiato dal Municipio con una targa: "La dedico a tutti voi, a questo quartiere, che ha avuto tanta poesia perché oltre che risate c'era poesia, un pizzico di malinconia e anche molta follia. Ve la dedico con tutto il cuore". L'attore va via tra i cori da stadio, questa sera la pellicola verrà proiettata in un cinema all'aperto della zona. Quasi un sogno di fuga da una Roma deserta e timorosa nell'estate del coronavirus. 

Verdone, 40 anni dopo al "palo della morte": "Ma la Roma di Un sacco bello non esiste più". Pubblicato mercoledì, 22 luglio 2020 su La Repubblica.it da Franco Montini. Un enorme traliccio dell’alta tensione, con una targhetta che recita “pericolo di morte”, posto nel bel mezzo di un’ampia strada di scorrimento, via Giovanni Conti nel quartiere di Vigne Nuove. Qui, nell’estate del 1979, Carlo Verdone girò una celeberrima sequenza del suo film d’esordio "Un sacco bello" (uscito nel gennaio del 1980), passata alla storia come la scena del "palo della morte". Da allora, ogni estate, i fan dell’attore romano si danno appuntamento lì per una festosa celebrazione. Il rito si ripete regolarmente da quarant’anni e venerdì pomeriggio, presente proprio Verdone, il presidente del III° Municipio, Giovanni Caudo apporrà una targa commemorativa.

Verdone, il traliccio in questione, ovvero il palo della morte, esiste ancora?

«Non ne sono sicuro e lo scoprirò io stesso dopodomani, quando, per la prima volta, parteciperò al rito. In questi anni, di notte, confesso di essere passato qualche volta in via Conti, ma non ho riconosciuto nulla. In quaranta anni è cambiato tutto: quando girai il film, il palo della morte era una presenza in mezzo al nulla, nel tempo sono spuntati palazzi, strade, piazze».

Avrebbe mai immaginato che quella scena si sarebbe stampata nell’immaginario collettivo?

«Naturalmente no e mi emoziona molto l’affetto di cui, dopo tanto tempo, continua ad essere circondato "Un sacco bello". Direi che, più passa il tempo, più cresce il valore, sociologico, paesaggistico e poetico del mio film. Il fatto è che "Un sacco bello" ha saputo cogliere il sapore di un’epoca irrimediabilmente perduta, quando, nonostante le sue miserie e una diffusa solitudine esistenziale, Roma era ancora piena di racconti, di umanità, di solidarietà. Una città più pacata, meno confusionaria, più vivibile».

Non pensa che la Roma della pandemia ricordi un po’ quella di "Un sacco bello"?

«Assolutamente no. La Roma vuota e deserta del lockdown non mi è mai sembrata bella e affascinante: comunicava l’immagine di una città malata, sconfitta dal virus».

"Un sacco bello" si avvale di una colonna sonora firmata da Ennio Morricone, che nel genere commedia ha lavorato meno che sul versante drammatico.

«È vero, ma Morricone era una persona dotata di grande ironia, cosa che gli ha permesso di scrivere anche splendide colonne sonore brillanti. Per ciò che riguarda il mio film, l’inserimento di un fischio, per altro già utilizzato in "Per un pugno di dollari", è stata una bella e geniale intuizione».

Nella scena del palo della morte, accanto a lei c’era Renato Scarpa.

«E ci sarà anche dopodomani: prima a Vigne Nuove, poi al CineVillage Talenti, dove alle 21.15 sarà proiettato il film. La riuscita di quella scena era dovuta proprio al contrasto fra i due personaggi accomunati da una profonda solitudine ma diametralmente opposti. Enzo, romano, mitomane, esagerato e Sergio, milanese, timido, educato. Renato Scarpa è stato uno splendido compagno di lavoro».

Le auto dei film di Verdone, dallo schermo allo scaffale. Pubblicato lunedì, 20 luglio 2020 da Federico Pesce su La Repubblica.it Quattro modellini in scala 1:18 delle automobili appartenute ai rispettivi personaggi di Un Sacco bello e Bianco Rosso e Verdone. “… Pronto parlo con Infinite Statue? Sono un ammiratore del grande Carlo Verdone, desidererei sapere se avete i quattro modellini di auto che lui ha usato nei film Un Sacco bello e Bianco, Rosso e Verdone, in scala 1 a 18”.  Chi parla non è un tizio qualunque ma proprio lui, lo stesso Verdone in carne e ossa, impegnato a girare uno spot che lo riguarda molto da vicino. Sta recitando la parte di Furio, il mitico personaggio maniaco della precisione che nel film capolavoro del 1981 tormenta la moglie Magda. Nello spot – con quella stessa voce cantilenante e puntigliosa – finge ora di chiamare al telefono Infinite Statue per accaparrarsi da subito, prima ancora che escano sul mercato, i quattro oggetti a lui molto cari. Già, ma cos’è Infinite Statue? E’ una piccola azienda con base a Savona che da 13 anni realizza oggetti da collezione legati al mondo del cinema e del fumetto. Oggetti di altissima qualità interamente dipinti a mano e numerati uno per uno, rigorosamente in edizione limitata e che una volta esauriti non verranno più replicati. “Per questo le nostre opere sono destinate ad acquistare valore nel tempo”, spiega Roberto Gallanti, presidente di Cosmic Group che dal 2011 detiene il 100 per cento della piccola azienda ligure e ne distribuisce i prodotti in tutta Europa. “Il nostro Art Director, Fabio Berruti, si avvale di collaboratori che sono dei veri e propri artisti, scultori altamente specializzati e decoratori dal talento unico, ora alle prese con la realizzazione in scala delle  quattro auto utilizzate dai personaggi di Carlo Verdone”. Come dimenticarli. Enzo, il bullo romanaccio che al volante della sua Fiat Dino rigorosamente nera (con la saetta rossa sulle fiancate …) cerca a Ferragosto di partire per la Polonia, con la certezza di barattare avventure erotiche con penne bic e collant (era il 1980, il Muro di Berlino era ancora in piedi). Mimmo, quello un po’ sempliciotto (il suo intercalare in che senso ha segnato una generazione), che deve portare la nonna (l’indimenticata Sora Lella) a votare a Roma, e la fa viaggiare nei sedili posteriori della sua Fiat 1100 per darle modo di stendere le gambe.  E poi c’è Pasquale Amitrano, l’emigrato con l’Alfasud rossa: dalla Germania deve raggiungere il sud d’Italia anche lui per votare, e durante un viaggio epico gliene capitano di tutti colori. Infine Furio, marito di Magda, proprietario della Fiat 131 bianca che nel film, prima di partire, chiama l’ACI per sapere con maniacale puntiglio le condizioni meteorologiche che troverà in autostrada (qui vi risparmiamo la risposta dell’operatore ACI …). Quattro modellini dunque, in scala 1:18 “che arriveranno sul mercato verso gennaio”, spiega ancora Gallanti. “Non usciranno tutte insieme ma una ogni tre mesi, e contiamo di realizzarne circa un mille a esemplare, 1500 al massimo”.  Nella linea “Cars Legacy Collection” rientrano anche la Dune Buggy di Bud Spencer, di prossima uscita, e la Bianchina del Ragionier Fantozzi. Per lei però non c’è più nulla da fare, è esaurita da tempo.

La "maledizione" di Viaggi di Nozze: Carlo Verdone si fratturò la colonna vertebrale sul set. Viaggi di Nozze è uno dei film più famosi di Carlo Verdone: non tutti sanno, però, che per girarlo Carlo Verdone corse un grave rischio. Erika Pomella, Martedì 21/07/2020 su Il Giornale. Viaggi di Nozze è forse il film più famoso di Carlo Verdone. Uscito nelle sale nel 1995, la pellicola ha avuto il merito di descrivere una certa idea di italianità, in grado di spaziare tra molti stereotipi. Dal coatto romano, all'ingenuo che sposa la sua fidanzatina di sempre, Carlo Verdone si diverte nell'interpretare ruoli molto diversi tra loro, che richiedono anche un tipo diverso di recitazione. Naturalmente il personaggio più iconico di Viaggi di Nozze è Ivano, un romano arricchito del tutto privo di tatto ed educazione che convola a giuste nozze con Jessica, interpretata da una Claudia Gerini che, proprio con questo ruolo, si assicurò un posto di rilievo nell'industria cinematografica italiana. Viaggi di Nozze al suo debutto incassò circa 30 miliardi di lire: un successo nazionale che riuscì a sconfiggere sia la competizione della Disney, che arrivò seconda con Pocahontas, sia del cinepanettone annuale, Vacanze di Natale '95. Tra le scene più iconiche del film c'è, senza dubbio, quella in cui Ivano e Jessica, che come al solito non si curano di regole e restrizioni, si trovano a fare sesso all'aquafan, in una scena girata a Tivoli. All'inizio la scena avrebbe dovuto essere girata a Tarquinia. Secondo il copione originale, infatti, Jessica avrebbe dovuto rimanere nuda, mentre prendeva il sole. Il problema era che, intorno al set, c'erano dei paparazzi pronti a scattare delle foto. Infastidito, Carlo Verdone decise dunque di cambiare tutto all'ultimo minuto, di creare una scena totalmente nuova, lontana dagli occhi indiscreti della macchina da presa. Claudia Gerini si disse d'accordo alla modifica e in meno di un'ora i due attori erano pronti a interpretare la scena che poi sarebbe andata nel montaggio definitivo. Proprio durante questa scena, lo spettatore può vedere Ivano che si tuffa in piscina per raggiungere Jessica, alla promessa del "'o vojo fà strano", una delle battute più rappresentative del film. Durante il tuffo, però, Carlo Verdone batté accidentalmente la schiena e finì col farsi molto male. Si fratturò, infatti, la colonna vertebrale e fu costretto ad essere operato. E ricordare l'evento è lo stesso attore e regista, che sul suo sito ufficiale scrive: "Recitai tutto il film con dei dolori atroci per via dell’ernia del disco alla quale si aggiunse una frattura alla colonna durante un tuffo di Ivano. Il chirurgo che mi operò non si spiegava come avevo fatto a resistere… Fatto sta che non godetti nulla del successo enorme di quel film perché dopo una settimana dall’uscita finii in sala operatoria…"

Dagospia il 6 maggio 2020. Giallo, Rosso e Verdone. “Con il personaggio di Furio si divertì pure Paulo Roberto Falcão che non capiva una parola di italiano. Il giorno dopo aver visto in anteprima “Bianco, Rosso e Verdone” mi chiamò per chiedermi il numero di un’attrice. Io non glielo ho dato”. Dal cinema alla musica fino al calcio, Carlo Verdone si racconta su Youtube in un incontro con i ragazzi del settore giovanile del Bologna. “Sergio Leone non amava Furio. Organizzò una proiezione privata con Sordi, Monica Vitti e Falcão, da poco arrivato a Roma. Alla fine Sordi mi abbracciò e mi fece i complimenti per Furio, e così anche la Vitti. Leone masticò amaro: “Boh, se je piace a loro…”. L’attore-regista romano rivela come diventò tifoso della Roma. “Fu grazie a un mio compagno di banco che fece un bel disegno di un centravanti giallorosso e me lo regalò con la promessa che sarei diventato romanista”. La prima partita in curva sud: “Fu un Roma-Napoli, gol di Manfredini”. Le figurine Panini: “Non trovavo mai quella di Pascutti. Un giorno lo incontro in un ristorante. Lui mi confessa di essere un mio ammiratore’. E io: ‘Mi hai fatto buttare un sacco di soldi’. “Il mio sogno era diventare calciatore. Poi sono diventato un “pedinatore di italiani”: “Sono curioso. Continuo a essere timido, riservato, mi piace guardare la gente, ascoltare storie. Racconto la realtà...” A 28 anni, il primo film. “Quello che mi ha dato più soddisfazione è stato ‘Borotalco’. “Mi sono sentito male dalla felicità. Avevo avuto successo con “Un sacco bello”. Poi dopo ‘Bianco, Rosso e Verdone’ i produttori mi mollarono perché mi identificavano con i “personaggi’ e non credevano che avessi un futuro come attore. Sono rimasto diversi mesi senza lavorare. Ritornai all’università pensando che quello del cinema fosse un mondo di matti. Dopo 3 mesi arriva una telefonata di Mario Vittorio Cecchi Gori. Mi disse: ‘Credo a te come attore’. Con ‘Borotalco’ venne fuori un film veramente bello che raccontava anche i colorati anni ’80. Io e lo sceneggiatore la sera della prima ci mettemmo in un angolo a vedere le persone che uscivano dal cinema. Me la stava facendo sotto, mi giocavo la carriera. Uno passò e disse: Mi so’ ammazzate dalle risate, quanto è forte sto film.... Me lo vado a rivedere domani”. Quel film vinse 5 David di Donatello e io presi il volo. La prova d’autore alla regia resta Compagni di Scuola. “Un film che non morirà mai. Rappresenta non i vizi dei tempi ma degli uomini”.  E poi “Viaggi di Nozze: “Tutti erano scettici sul fatto che tornassi a fare i personaggi. Andò benissimo. Fu un’altra grande emozione”. Ai giovani che vogliono tentare la strada del cinema lancia un avvertimento: “Fare una carriera come la mia è molto difficile. Il cinema richiede tantissimi sacrifici, si va incontro a molteplici umiliazioni, bisogna avere grande passione e mettere in conto che si può soffrire molto. Oggi devi fare grandi incassi. È tutto business. Un mondo spietato, competitivo. A un ragazzo direi: ‘pensaci dieci volte’. È un lavoro che ti può far male. Oggi per fare qualcosa di diverso e originale, è veramente dura...” Si vive una volta sola è in stand-by: “L’ho fermato 2 giorni prima dell’esplosione del coronavirus. Avevo fatto un tour di promozione al nord incontrando migliaia di persone. Ho toccato 20mila mani, non so come abbia fatto a non prendermi il virus…Ora dobbiamo stabilire come far uscire il film, forse su Amazon o su Sky, dipende dal produttore. Per tornare al cinema dobbiamo attendere che la pandemia sia azzerata”. Nel frattempo Verdone non si annoia. "Sto scrivendo un libro e mi confronto con gli sceneggiatori per il nuovo film. E poi ascolto musica". I giovani si divertono con Dua Lipa? Io li spingerei a riascoltare qualcosa dei primi Beatles. Parte tutto da loro". Tra gli italiani, sceglie Vasco, il Venditti dei suoi primi album, De Gregori, Dalla. "I talent? Non so se facciano bene ai ragazzi. Danno grande popolarità nell’immediato ma gli artisti che escono da lì si consumano presto”. Irrompe Walter Sabatini, ex ds giallorosso, oggi al Bologna: “Verdone è un mio idolo. Ho sempre temuto i suoi giudizi sulla Roma. Li giudicavo attendibili”. Il capo-scouting dei rossoblù Marco Di Vaio confessa: “Sono cresciuto con i film di Verdone e le canzoni di Venditti. Io sono laziale ma due romanisti mi hanno accompagnato tutta la vita…”. Difficile trovare "poesia" in questo calcio, ora che non c'è più Totti: "Calciatori così non li avremo più", sospira Verdone che poi mostra con orgoglio una maglia autografata di CR7: “E’ quella della finale di Champions vinta con il Manchester United. Non l’ho mai lavata”. L'ammissione: “Non saprei fare un film corale sul calcio o sullo sport. Meglio raccontare la storia di un allenatore o di un singolo atleta". Mihajlovic? "Un allenatore perfetto per il Bologna, ha dato molte motivazioni, l’ha messa bene in campo. Ha continuato nonostante le cure ad essere presente. Lo terrei a lungo…”. Il mio maestro di vita? "Mio padre. Era un intellettuale ma mi portava a giocare a calcio al Circo Massimo, alla Galleria Nazionale d’Arte moderna, al cinema e allo stadio. Mi ha insegnato a coltivare le passioni…”

Arianna Finos per “la Repubblica” l'1 maggio 2020. Torneremo a sorridere. Anche del virus. Carlo Verdone, 69 anni, spende le giornate nel suo attico romano lavorando al nuovo libro e a un progetto cinematografico, "un racconto corale, che non c'entra nulla con la pandemia - spiega - ma che non potrà, come nessun altro film che parli del presente, non considerare ciò che è avvenuto in questo periodo, che resterà nei libri di storia e che ha fermato il mondo. Anche in una commedia, una battuta, un riferimento, non potranno non esserci".

Cosa le resterà di questo momento?

"Lo considero un anno che non esiste più, va cancellato. Lo abbiamo buttato al gabinetto. Ci sono stati tanti morti, non una guerra ma un evento altrettanto traumatizzante. Sono orgoglioso per come hanno reagito gli italiani, ci prendevano in giro, siamo stati responsabili e solidali, altro che scusa per non lavorare. Oggi c'è bisogno di costruire un vero, grande partito ambientalista che coinvolga tutto il mondo".

Che cosa l'ha colpita di più?

"La  figura degli anziani. Quel che è successo ha sancito la mortificazione di persone che a settant'anni sono ancora in buona salute, vecchie solo anagraficamente. Mi ha dato fastidio il cinismo dei Paesi del Nord Europa verso gli anziani, come fossero uno scarto della società 'se more, more, salviamo i giovani'. Enea, lasciando Troia, ha portato sulle spalle il padre Anchise, mica l'ha mollato. I bambini, con la loro purezza, e gli anziani, biblioteche della nostra memoria, sono le parti migliore della società. Ma che vogliamo fare a meno delle Sore Lella? Ogni volta che sui miei social posto la Sora Lella la gente la ricorda con amore, perché ha riso con lei nei miei film, ma anche perché l'avrebbe voluta come nonna, con la sua saggezza, il suo sguardo sardonico, quel bon senso e la profondità. Oggi pagheremo oro per avere in casa una Sora Lella".

Come trascorre questi giorni?

"La mattina cerco di fare io la spesa, anche per prendere una boccata d'aria, bardato con guanti e mascherina. Mi piace osservare le persone, ma ora le vedo tese, tutti hanno fretta di correre a casa. La farmacista mi ha spiegato la gente ha fatto incetta di una medicina che io uso da molti anni, ora indicata utile contro il virus, ne hanno fatto scorta come stecche di sigarette. All'altro estremo una situazione come quella davanti al fruttivendolo lunedì scorso: un tizio spiegava che il giorno prima non aveva trovato un preservativo, le farmacie erano chiuse, alla fine aveva tagliato l'indice dei guanti che usiamo in questi giorni, ha funzionato. E l'altro dietro, serio: 'Ma lo sai che m'hai dato un'idea?'".

Come organizza le sue giornate?

"In tarda mattinata scrivo il nuovo libro, il pomeriggio ho una riunione con gli sceneggiatori su internet. Mezz'ora di pettegolezzi assurdi che ci fanno ridere tanto, prima di iniziare a lavorare. Poi, quando faccio pausa, vado in terrazzo, ho sempre la macchina fotografica pronta. Sono un appassionato fotografo dei cieli, studio i grandi maestri. Elisabetta Sgarbi e Paolo Mereghetti hanno voluto le foto, che avevano visto solo i miei figli, e ne faranno una mostra a luglio alla Milanesiana che si svolgerà a Napoli. Ma in questi giorni il cielo non aiuta, è di una banalità malinconica, inespressivo. Sembra che abbia anche lui paura della pandemia".

La colonna sonora di questi giorni?

"Quando lavoro mi serve il silenzio assoluto, non posso neanche ascoltare il rumore dei miei passi, ho delle pantofole da Sindaco del Rione Sanità. Ho la sindrome che aveva Ingmar Bergman, me lo ha raccontato il suo giardiniere, l'ho conosciuto qualche anno fa. Quando non lavoro metto i Led Zeppelin e Mark Lanegan, se ho bisogno di serenità, David Crosby. Di notte musica classica a basso volume, Mahler, Debussy".

Che capitolo sta scrivendo del libro?

"Il primo viaggio fatto in macchina con mio padre. Per anni viaggiava con l'autista poi mamma e noi figli lo convincemmo a prendere una macchina, anche per la gita domenicale. Ma lui, che teneva grandi conferenze, è stato bocciato sette volte all'esame per la patente. Finalmente un giorno torna dalla motorizzazione, 'ce l'ho fatta', è stata una festa. Un mese dopo ci fa scendere di casa e davanti ai portici c'era una 1100 nera con le gomme fasciate di bianco. Ci batteva il cuore, entravamo dentro come fosse San Pietro.

Un giorno papà mi dice ti porto con me, doveva consegnare un articolo all'Ansa. Io ero emozionato. Parte in prima e resta con quella marcia, andavamo a venti all'ora, finalmente mette in terza, arriviamo in Piazza Venezia, gira per una stradina e mi fa 'vedi che bella la nostra macchina?', non raddrizza l'auto e andiamo dritti contro un muro, lui gli occhiali spaccati, io una ferita in testa, la folla, mia madre arriva in taxi, 'fregnone, tu non devi guidare più!'. Pietro Sadun, pittore astrattista anni Sessanta e amico di papà va a vedere il muro e ne fa un quadro bellissimo, si chiama 'Incidente'. Papà non guidò per i successivi tre anni, poi riprese, anche perché dovemmo licenziare l'autista: mia madre trovò un profilattico e fece una scenata a papà. Ci avvertì la polizia che il tizio andava tutte le sere a Caracalla a prostitute".

Quando uscirà "Si vive una volta sola"?

"In autunno lo vedrete. Un dolore che non sia arrivato in sala. Con gli attori abbiamo fatto un tour nel Nord: Torino, Milano, vicino Codogno, Piacenza. Ho abbracciato e stretto la mano a migliaia di persone, un miracolo che ne sia uscito indenne".

Stiamo tornando a sorridere?

"Detesto i pessimisti, la risata incarna la speranza, l'intelligenza, l'ironia. Dopo la Seconda guerra mondiale siamo tornati a sorridere ed è nata la commedia all'italiana, grande nel mondo. In questi giorni in tanti ridono con i miei social, con i miei film ho fatto compagnia ai miei amici malati di Bergamo e Brescia, che erano soli a casa. Sono guariti tutti. Altro che ipocondriaco: ho regalato leggerezza e conforto, mi sono scoperto più saggio. Le persone mature non buttatele via, perché possono servire ancora molto".

Carlo Verdone: "Sono un uomo fortunato ma ho avuto anni di merda" Carlo Verdone si racconta a Vanity Fair tra la malattia e la morte di sua madre e il divorzio dalla madre dei suoi figli, avvenuto senza rancori. Francesca Galici, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. Carlo Verdone è uno degli attori più stimati del panorama cinematografico italiano. Ha all'attivo decine di film di successo e la sua stessa vita potrebbe essere presa come spunto per la realizzazione di una sceneggiatura. Tante luci e tante ombre hanno segnato l'esistenza di Carlo Verdone, che si è raccontato senza filtri, come forse ha fatto raramente, nell'ultimo numero di Vanity Fair. Chi è davvero Carlo Verdone? "Sotto tanti aspetti, un uomo molto fortunato. È successo tutto quello che sognavo potesse succedere. Però poi se rifletto, non è vero che non abbia avuto momenti di grande difficoltà", ammette l'attore nel ripercorrere la sua vita dall'infanzia. Quando era ragazzo, sua madre si ammalò di una grave patologia neurologica che non le lasciò scampo. "Per me furono quattro anni di merda. Era la persona a cui volevo più bene al mondo, la vedevo sfiorire e il solo guardarla mi faceva disperare", dice Carlo Verdone, che ricorda quei momenti con grande dolore: "Con la tristezza e il cuore rotto, dovevo continuare a far ridere e la scissione era brutale. Durante il giorno giravo Acqua e sapone e al tramonto tornavo da lei. Nuotare tra Natasha Hovey, la Sora Lella, Padre Spinetti e il dolore reale fu un’esperienza tremenda." Furono anni molto difficili per uno degli attori simbolo del cinema romano, che è arrivato a non perdonarsi per l'idea che in quegli anni lo accompagnava spesso. C'è stato un periodo durante il quale desiderava fortemente che sua madre morisse il prima possibile ma era semplicemente il pensiero disperato di un figlio che non sopportava l'idea di vedere sua madre soffrire così tanto senza poter fare niente per lei. Quello non fu l'unico grande dolore che Carlo Verdone ha dovuto affrontare nella sua vita perché, anche se diverso, anche quello per la separazione dalla madre dei suoi figli, Gianna Scarpelli, l'ha segnato nel profondo. L'attore si presentò senza avvocato nel giorno dell'udienza per il divorzio, una scelta inusuale e da molti incomprensibile, anche dal giudice titolare della causa. "Decida lei, per me non è cambiato niente", disse Carlo Verdone al giudice. Nessun rimorso o rimpianto per quella decisione da parte dell'attore, che nell'intervista racconta il risvolto positivo di quella giornata. Al termine dell'udienza, dopo la decisione, Gianna Scarpelli gli si avvicinò chiedendogli cosa avesse da fare quell'estate. "Io vado in Sardegna con i bambini, se non hai niente da fare vieni, loro saranno contenti", gli disse la donna, che aveva già prenotato la camera d'albergo per l'ormai ex marito, sicura che lui non gli avrebbe negato del tempo da trascorrere insieme con i bambini.

Malcom Pagani per Vanity Fair il 6 febbraio 2020. Tutti i battiti del suo cuore: «Da bradicardico, se stiamo ai freddi numeri, ho cinquanta pulsazioni al minuto. Ma ai tempi dei sudori improvvisi, dei giramenti di testa, dei formicolii sul labbro e dei frangenti in cui mi sembrava di morire da un momento all’altro, ne avevo 160». Era l’epoca dei primi successi: «In cui io, riservato, introverso e un po’ malinconico ero stato lanciato come un sasso da una mazzafionda al solo scopo di invitare tutti alla leggerezza e provocare la risata negli altri. Un compito terribile, al quale non ero preparato e una forma di violenza che mi costrinse, da peggior nemico di me stesso, a mettere in discussione il mio carattere». Per farsi forza, sostiene Carlo Verdone «ricorrevo a una frase che mi ripeteva sempre mia madre. “Si vive una volta sola” diceva e aveva ragione». Nel suo ventisettesimo film che recupera nel titolo il precetto materno e mette al centro della scena quattro persone incapaci di trovare fuori da corsie e operazioni una ricetta utile a guarire da insicurezze e nevrosi, Verdone, medico mancato, si traveste da dottore e guardandosi indietro si scopre diverso da ieri: «Potrei dire migliore».

Formuli una diagnosi.

«Oggi affronto ostacoli che non mi sarei mai immaginato di superare a trent’anni. E dalla maggior parte dei miei problemi sono guarito».

Che problemi erano?

«Per un timido la vita non è una passeggiata. Crede che fosse facile dover rispondere alle aspettative della gente o essere riconosciuti per strada da un giorno all’altro? Non sapevano neanche come mi chiamassi. “Lei è quello dei due cervi? Quello che alza gli occhi al cielo in tv?”».

La popolarità gliela restituì Non Stop di Enzo Trapani.

«Enzo, teorico dell’improvvisazione selvaggia, ci sequestrò per tre mesi a Torino in pieno inverno. Aveva facoltà di girare anche il sabato e io a Roma non riuscivo a tornare mai. Prima di andare in scena e dare sfogo ai miei sketch attraversavo atroci tormenti». 

Che tipo di tormenti?

«Farò ridere? Parlerò bene? Risulterò simpatico? I miei colleghi d’avventura erano sciolti, disinvolti, tranquilli. Io passavo una notte in bianco dopo l’altra e riproponevo un repertorio che avevo sperimentato soltanto nei teatrini off».

Andò bene.

«Ma la televisione mi cambiò la vita e la popolarità rappresentò una tempesta interiore. Mi tremavano le gambe. Ero bloccato. Fragile. L’ansia mi divorava».

Come ne uscì?

«Grazie a Piero Bellanova, uno dei più autorevoli psicanalisti italiani. Con mio padre, di cui era amico, condivideva la passione per il futurismo e accettò di incontrarmi un paio di volte alla settimana. Andò subito al punto: “Carlo, qui non c’è niente da analizzare”, disse. “Il tuo corpo reagisce a uno stravolgimento e i farmaci non servono a niente: ti devi adattare al destino che cambia e piano piano il quadro si addolcirà”».

Messa così sembrerebbe semplice.

«Avevo una 127 bianca. L’avevo acquistata a 27 anni, nel 1978, con i risparmi di Non Stop nonostante il dirigente Rai di allora, Bruno Gambarotta, mi avesse vivamente sconsigliato di farlo: “Li spenda meglio i primi soldini che ha guadagnato, dell’auto non ha nessun bisogno, molto presto avrà chi la accompagnerà guidando al suo posto”».

I tempi non erano ancora maturi.

«All’epoca ero fidanzato con Gianna che sarebbe poi diventata mia moglie. Abitava a Vitinia, vicino a Ostia e io non andavo più a trovarla perché mi girava sempre più spesso la testa e avevo paura di svenire o di avere un infarto mentre guidavo. Lo raccontai a Bellanova e lui decise di sottopormi a delle sfide: “Dobbiamo andare alla radice del problema e devi metterti alla prova”».

In cosa consistevano le sfide di Bellanova?

«Non solo mi intimò di mettermi al volante, ma pretese di farmi allungare la strada passando per Ostia: “Prima di andarla a trovare arrivi sul lungomare, fai due giri della rotonda, respiri forte e poi riprendi il cammino”. Ostia a fine anni ’70 era più o meno il Bronx. “No professore” piagnucolai: “Ostia de notte no, la prego. Lei me vuò fa’ morì”. “Non morirai, ma se non farai come dico, da me non tornare proprio”.  Andai. La prima volta stipai le tasche di gettoni e arrivai a Ostia in condizioni pietose. Telefonai a Gianna: “Sto malissimo, per favore, vienimi a prendere”. Riaccadde la stessa cosa almeno quattro volte e alla fine, pur ridotto uno straccio, riuscii a tornare a casa da solo. Esanime, ma vivo. Bellanova aveva capito tutto».

Cosa aveva capito?

«Che i problemi non si aggirano. Devi combatterli e puoi anche vincere. Il difficile è esserne consapevoli. Da quel giorno comunque non ho avuto più un solo attacco di panico e invece di imbottirmi di farmaci ho imparato a conoscere meglio me stesso».

Chi è Carlo Verdone?

«Sotto tanti aspetti, un uomo molto fortunato. È successo tutto quello che sognavo potesse succedere. Però poi se rifletto, non è vero che non abbia avuto momenti di grande difficoltà. Quando mia madre si è ammalata di una sindrome neurologica rara e spietata per me furono quattro anni di merda. Era la persona a cui volevo più bene al mondo, la vedevo sfiorire e il solo guardarla mi faceva disperare. Era arrivata a pesare 39 chili. Con la tristezza e il cuore rotto, dovevo continuare a far ridere e la scissione era brutale. Durante il giorno giravo Acqua e sapone e al tramonto tornavo da lei. Nuotare tra Natasha Hovey, la Sora Lella, Padre Spinetti e il dolore reale fu un’esperienza tremenda. Stavo perdendo mia madre e mi ricordo che faticavo a perdonarmi perché desideravo morisse il prima possibile. Non si poteva vedere una persona ridotta così. Non si poteva accettare di sapere che soffrisse così tanto». (Qui la voce di Verdone si incrina e si affaccia la commozione, ndr).

Momenti tristi.

«Fu triste anche il momento della separazione. Il giorno in cui io e Gianna andammo in tribunale per le pratiche mi presentai senza legale. Il giudice era sconvolto: “Ma lei non ha un avvocato?”. Implicitamente mi stava dicendo: “Guardi che sua moglie vincerà su tutta la linea”. Lo anticipai: “Decida lei, per me non è cambiato niente”. Fu brutto, ma Gianna si dimostrò speciale. Accettai ogni decisione senza fiatare e poi alla fine della liturgia lei si avvicinò: “Che fai quest’estate? Parti? Hai programmi?”. Allargai le braccia. “Cosa vuoi che faccia?”. “Io vado in Sardegna con i bambini, se non hai niente da fare vieni, loro saranno contenti”. Aveva già prenotato una stanza perché sapeva che le avrei detto di sì. Fu una cosa molto bella». 

Perché finisce l’amore?

«Ah, vattelo a spiega’. Non lo so, dirlo è difficile. Non lo so, non lo so davvero. Il tempo gioca sicuramente la sua partita. Poi credo ci abbia messo un macigno la pesantezza del percorso che ho fatto e che sto tuttora facendo. Un mestiere in cui smetti di appartenerti e spendi tutto quello che hai per il produttore, per il film e per il pubblico. Sposi loro. Sposi un lavoro. Sposi le aspettative. Sei sempre sotto esame, non sei libero e questo incide. Forse ero io a non riuscire più a dare tanto al rapporto o forse mi serviva la grande alleanza degli inizi. Fino a un certo punto resse, poi la distanza si allargò e probabilmente su certe cose non andavamo più d’accordo. Una consolazione però mi resta».

Quale?

«Pur nella tristezza della separazione io e Gianna siamo stati intelligenti. Ci siamo detti: “Va bene, non stiamo più insieme però facciamo sì che i nostri ragazzi non soffrano oltre misura”. Lo abbiamo fatto, credo e spero, nel migliore dei modi. Siamo stati uniti e assennati. I miei amici e le mie amiche che si sono separati sono ancora increduli: “Ma come ci siete riusciti? Io ho passato la vita a litigare, a far scrivere l’avvocato, a discutere di tutto e a litigare su ogni cosa”. Giulia e Paolo, i nostri figli, questa amarezza non l’hanno vissuta. Sono il nostro orgoglio. Hanno una dignità enorme, non hanno mai chiesto niente e non si sono mai sentiti i figli “di”. Se io o Gianna ci azzardavamo ad alzare il telefono per provare ad aiutarli non ci rivolgevano la parola per una settimana». 

Quello che ci ha dato, l’ha sottratto alla vita privata?

 «Assolutamente sì e l’ho sottratto anche ai miei amici. Si vive una volta sola è una storia di amicizia e quando mi sono trovato a scrivere con Giovanni Veronesi ho pensato soprattutto a loro. Agli amici perduti. Ai rapporti che quando avevo vent’anni credevo fossero indissolubili. Eterni. L’amicizia era veramente importante. Condividevamo le stesse passioni: lo studio, il cineclub, la musica, le cantine umide in cui recitare. Eravamo un gruppetto di 6 o 7 persone e non facevamo altro che stare insieme. A volte qualcuno si fidanzava con la compagna di quello con il quale il rapporto era ormai logoro. Ma non c’era né gelosia né rabbia. Dicevi: “Vabbè, m’è andata male, però se è felice con lui va bene così”».

Poi che accade nell’amicizia?

«Irrompono le famiglie, il lavoro, i figli, la stanchezza. La tragedia è dai 30 a 40 anni e il primo segnale d’allarme suona quando getti la spugna, preferisci restare a casa e dici: “Non andiamo all’ultimo spettacolo, ve prego, che domattina me devo alza’ presto”. Non ce la fai più, ti mancano le energie e lasci per strada tante cose fino a quando, magicamente, a 50 anni la situazione migliora perché ti aggredisce uno sconfinato desiderio d’evasione. Ti fa piacere parlare o andare a mangiare con qualcuno. Torni a confrontarti, a incontrarti, a scambiarti qualcosa. Finalmente, arrivato quasi a 70 anni, riesco a rivedere delle persone che avevo perso: non gente di cinema, per carità di dio. I miei veri amici, salvo pochissime eccezioni, non fanno parte del mio mondo. E mi creda, è bellissimo».

Lei 70 anni li compirà a novembre. 

«Ogni tanto mi guardo allo specchio e mi ripeto: “Ma io ho davvero 70 anni?”. Ancora mi domando come sia stato possibile arrivarci e cosa mi sia davvero successo nella vita. Il primo biglietto di un mio spettacolo teatrale venne venduto nel 1977. Quasi 45 anni fa. E sto ancora lavorando».

Le sembra incredibile?

«Mi dico: “Ma non è che la mia vita non è altro che un sogno? Che magari non è successo niente?”. Sembra una battuta, ma me lo domando veramente».

Cosa significa avere 70 anni?

«Esteticamente non li dimostro però nel corpo ogni tanto si rompe qualcosa. È come una macchina antica dalla carrozzeria che sembra reggere e il cui motore a volte si blocca».

E la immalinconisce?

«Per niente. Non sono mica triste di andare verso i 70: l’arco della vita è quello perché mi dovrei disperare? Si disperavano altri attori, tutti morti depressi, Alberto Sordi compreso. Ringraziando dio ho figli, passioni, un percorso credo ineccepibile e molti ricordi magnifici. Mi chiedono: “Ma il giorno che lascerai il tuo mestiere, come farai?”. Rispondo che sarà un grandissimo giorno: la missione è stata compiuta nel migliore dei modi».

Bilanci?

«Ho fatto esattamente quello che dovevo. I personaggi, i film da protagonista, quelli corali come Si vive una volta sola».

Momenti nascosti, quasi sepolti?

«La prima volta che mi spinsi oltre Roma lo feci per andare all’Hop Frog di Viareggio. Era un circolo di estrema sinistra dove si erano esibiti Lucia Poli, Donato Sannini, il Patagruppo e dove io arrivavo con il mio prete di campagna, terrorizzato dall’accoglienza che avrei ricevuto. La gente mi guardava con aria truce, l’eskimo addosso e i volti ostili. Ero nervoso, andai a pisciare e accanto al cesso trovai una siringa: “Ma dove sono capitato?”, mi dissi. Andò bene, ma non era scontato. Niente è stato scontato».

Orgogli?

«Grande Grosso e Verdone. Di solito sono molto critico con me stesso e non faccio altro che dirmi: “Questa la dovevi di’ meglio, quest’altra avresti potuto girarla in modo diverso, questa scena è inutile e sarebbe stata da tagliare”. Ma sapevo che quello era il mio ultimo film da mattatore e mi permisi dei virtuosismi. Ci misi dentro personaggi cupi e raffinatissimi come il professor Cotti Borroni. Quando sei sicuro di te stesso puoi anche osare».

Che segno credi di aver lasciato?

«Non tanto il successo che è effimero, né il rapporto con il pubblico che è profondo, solido e non cambierà. Sono stato felice perché mi hanno capito. I miei film erano pieni di dettagli poetici e mi chiedevo sempre: “Ma la gente li apprezzerà?”. Mi ricordo una sera di tanti anni fa, era l’82, Borotalco era in sala da una settimana e tornavo a casa. A un certo punto mi accorgo che alcuni  ragazzi mi inseguono in motorino. Mi fermo. “Ci faresti un autografo?”. È notte, con me non ho niente. “Come si fa?”, dico. “Aspetti un attimo”, fa uno “io abito qui vicino, porto dei pezzi di carta con una penna”. Aspettiamo al freddo il suo ritorno e un ventenne mi dice:  “Ma lei si rende conto di quello che ha fatto per noi?”, “Vuoi la verità? No”, “Ci ha regalato la leggerezza e una felicità interiore che neanche se la immagina”. Mi colpì tantissimo. “Ma guarda te”, mi dissi, “io che non lo volevo fare questo lavoro. Io che avevo paura di tutto”».

Quali erano le sue paure da bambino?

«Perdermi. Stare negli spazi grandi e smarrirmi. Non sapere come tornare dalle persone che mi volevano bene. Essere con mio padre in un posto, circondati dalla folla e improvvisamente non trovarlo più. Una volta mi accadde allo stadio e fu una cosa disperante. A un tratto, come in Un sacco bello, si sentì dall’altoparlante la voce di una poliziotta: “Il bambino Carlo Verdone è pregato di portarsi vicino all’ingresso della tribuna Montemario”. Quando rividi papà lo abbracciai fortissimo e gli disse: “Non mi lasciare mai più”. Non era la prima volta che mi perdevo».

Davvero?

«Andai per la prima volta a Siena, una città labirintica che mi colpiva per la sua severità, la sua bellezza austera e il suo mistero, che ero piccolissimo. Giocavo in via Di Vallepiatta e la mia palla cominciò a rotolare in discesa. Più la seguivo più non sapevo dove mi trovassi fino a quando non persi il senso dell’orientamento. Mi ritrovai a piangere ai bordi della strada e arrivò una signora: “Cittino? Che ti è successo? Dove sono i tuoi genitori?”. Mi riportò a casa e li vidi, come in una fotografia, tutti ad aspettarmi sull’uscio. Preoccupati. Stravolti. Sogno di perdermi ancora oggi. Incubi che ciclicamente tornano a farmi visita. Non so più dove sono e non riesco a trovare la via di uscita. Cerco mamma o papà, ma non ci sono. In un Luna Park, in un labirinto di vetro, non entrerei mai».

È una prefigurazione quasi psicanalitica del futuro. A un certo punto si cammina da soli e si rischia di perdersi.

«È vero. Ed è difficile da accettare. Non è un caso che tante paure le abbia cancellate, ma mi resta quella del giorno in cui me ne andrò. Non temo il dolore fisico, ma la disperazione dei miei figli. So che per loro sarà una catastrofe, mi atterrisce e così, ingenuamente, li preparo».

E loro?

«Si incazzano. L’altro giorno dico a Giulia: “Guarda, ho trovato queste 7 foto e questi 7 video, sono bellissimi. Un domani, quando non ci sarò più”. Non mi ha fatto neanche finire la frase: “ahhh, mo’ ricominci?”, “No Giulia, ascoltami, un domani, quando non ci sarò più, devi prendere questi video e queste foto e farci un documentario. Ci siamo io te, Paolo. È bellissimo”. “Papà”, ha alzato la voce, “adesso hai rotto veramente le palle”. Esorcizzano, però so che si preoccupano esattamente come capitava a me quando ero bambino, mia madre non tornava e io diventavo pazzo. Alla fine un po’ della mia ansia l’ho trasmessa anche a loro, soprattutto a Paolo. Se non rispondo al telefono, va subito in fibrillazione».

I suoi figli hanno poco più di 30 anni. L’età che aveva quando Lietta Tornabuoni la incontrò a casa di Sergio Leone. Disse che lei sembrava un burocrate cinquantenne: insicuro, bislacco, spaventato, oppresso dall’idea dell’affermazione. 

«Ricordo bene quell’incontro, ma Lietta non comprese che per Leone io avevo una specie di devozione. Ero intimidito dalla sua presenza, ma non ne ero schiacciato. Dentro di me avevo le idee chiarissime. È stata la mia grande fortuna».

Che rapporto ha con la noia?

«Un rapporto meraviglioso. La noia è una carezza, una bella coperta che mi avvolge e mi fa ricaricare le batterie. Detesto quelle persone che affollano le estati di programmi assurdi saltando da Mykonos a Ibiza, perché “ti devi” divertire, “non puoi” annoiarti e se non ti diverti ti incazzi. Ma chi l’ha detto? A me d’estate piace non avere nessuno tra i piedi. Voglio stare da solo. È il periodo che mi aiuta a creare, a inventare, a riflettere. Se poi vogliamo parla’ di chi s’annoia perché non ha un cazzo da fa’ parliamo di tutt’altro». (Sorride)

L’ha visto il film di Zalone? Le è piaciuto? Si è annoiato?

«Ha fatto un tentativo: alcune cose funzionano, altre meno. Ma anche se da spettatore posso criticare, apprezzo lo sforzo, il coraggio e l’intenzione di fare qualcosa di lontano dai suoi precedenti. In fin dei conti pur essendo due persone completamente diverse e pur essendo la sua comicità molto lontana dalla mia, capisco le mille tensioni che ha avuto. Lo rispetto. Non è certo uno sciocco. Ha rischiato sapendo di rischiare».

E lei, con Si vive una volta sola ha rischiato?

«Temevo che l’interazione tra i personaggi si rivelasse un gioco sterile e senza spessore. Dal secondo giorno però è accaduto un miracolo e ho irrobustito un film che un regista meno esperto avrebbe potuto facilmente sbagliare e che invece ha una sua filosofia. Quindi, no, io e il film rischiamo poco. E lo dico per la prima volta. Faccio sempre mille “corna” e sono scaramantico perché so che l’esito di un film dipende dal pubblico e da quanti biglietti staccheremo, ma su quello che abbiamo fatto non ho mezzo rimpianto. È stata un’opera di concentrazione straordinaria tra 4 amici che sono felici di ritrovarsi anche fuori dal set. Non accade quasi mai: di solito, a film finito, ognuno va per la sua strada e chi si è visto si è visto».

Mi ha detto che il film parla di amicizia.

«Sono 4 medici. Una équipe chirurgica di prim’ordine che tra i propri pazienti ha addirittura il Papa. Tanto sono imperatori tra i ferri, tanto miserabili nel privato. Hanno una vita di una solitudine spaventosa e si fanno forza stando sempre insieme anche fuori dal lavoro. Ma tutta questa vicinanza, porta all’insofferenza e a una cattiveria feroce, da liceali. A un certo punto la dinamica subisce uno scossone e accadono cose sorprendenti: ahò, non è che stamo a parla’ di un film de Bergman, però sono fiducioso e contento del risultato».

C’è un’evoluzione. Prima dell’uscita di Un sacco bello, per la tensione, non riusciva neanche a dormire. 

«Ero tesissimo. Non ci capii niente. Lo andai a vedere alla sesta settimana di programmazione, da clandestino. Mi vergognavo di vedermi sullo schermo. Oggi sono più equilibrato, più paziente, anche meno egoista. Vedo le cose in maniera più distaccata, cerco di non drammatizzare e sono sicuramente più sensibile ai problemi del prossimo, degli amici come dei giovani artisti, a differenza di tanti miei colleghi che fanno i liberali ma se la tirano un po’ troppo e che se poi gli chiedi una cosa è come se gli chiedessi chissà che. Poi rido e cerco di far ridere gli altri».

Perché?

«Perché ridere è fondamentale. Uscire la mattina e avere sempre il grugno, non fa bene».

 Cosa fa quando sta da solo?

«Ero insonne, adesso cerco di dormire presto. Prima di abbandonarmi alla mia playlist, guardo Roma dall’alto. Sconfinata e buia perché Roma è una città tremendamente buia. Mi sembra sempre bella, ma immalinconita. Depressa».

Come mai?

«Perché ci siamo ridotti così? Perché non ci sono esempi, ma solo follie. Perché manca l’educazione civica e la burocrazia ha divorato tutto. Mancano i sacerdoti del bello. Ma dove cazzo sono i sacerdoti del bello? Senza una scuola che insegni ad amministrare questo patrimonio non ne usciremo».

E le dispiace?

«Moltissimo. Prima Roma era una grande città. Ora è solo una città grande».

Filippo Mazzarella per corriere.it il 13 gennaio 2020. Un sacco bello, fortunatissimo esordio di Carlo Verdone (il titolo mutuava uno dei “tormentoni” verbali già resi celebri dai suoi sketch televisivi), celebra in questi giorni i suoi primi quarant’anni ma non ha perso un grammo della sua vis comica e, anzi, ha acquisito con il passare del tempo anche uno status di film-manifesto che all’epoca era più difficile individuare. Ambientato in una Roma ferragostana sinistramente spopolata e assolata, è costituito da tre episodi intrecciati fra loro in cui Verdone (che interpreta -pirandellianamente?- ben sei personaggi: i tre protagonisti più tre comprimari) è mattatore assoluto e riflette malinconicamente in filigrana, facendo sua la tradizione della miglior commedia all’italiana, sull’Italia coeva, sulle debolezze e le insicurezze dei “giovani” di quel tempo, sui riverberi e la tensione ancora palpabile del piombo degli anni Settanta. Una dichiarazione di intenti e di profondità di osservazione poi (quasi) sempre rispettata nel corso di una carriera cinematografica che lo ha visto impegnato come regista per altri ventisette film (contando anche l’imminente Si vive una volta sola, in uscita tra un mese). Nell’imminenza del Ferragosto, il trentenne immaturo Enzo (armato di penne a sfera e calze di nylon, l’armamentario tradizionale per far capitolare le donne dell’Est come da sciagurato luogo comune del ventennio precedente) convince l’amico Sergio a partire per Cracovia col miraggio di avventure sessuali. E quando quest’ultimo verrà ricoverato in ospedale per una fulminante calcolosi biliare non si darà per vinto, cercando un rimpiazzo con cui completare l’impresa. L’ingenuo mammone trasteverino Leo, invece, dovrebbe raggiungere la genitrice a Ladispoli: ma si imbatte nella solare Marisol, una turista spagnola rimasta senza alloggio, che dopo averlo convinto ad accompagnarla per Roma riesce a farsi ospitare a casa sua. Ma quando crede che fra loro possa esserci del tenero, il fidanzato della ragazza fa improvvisamente irruzione. L’hippie fuori tempo massimo Ruggero, infine, che si è ritirato in una comunità umbra dove ancora si professano l’“amore libero” e il distacco dalla società dei consumi, incontra il padre a un incrocio dove sta elemosinando con la fidanzata Fiorenza. E quest’ultimo ne approfitta, spalleggiato da un prete, un professore e un parente, per cercare di convincere il ragazzo a tornare nei ranghi. Le vicende di tutti si concluderanno amaramente, dopo che un sinistro e inspiegabile boato (triste presagio del 2 agosto bolognese di quell’anno?) avrà squassato nella notte la Capitale.

La chiamata di Sergio Leone. Dopo la straordinaria popolarità conquistata con il suo variegato mondo di personaggi problematici, buffi e/o paranoici esibito nella seminale trasmissione televisiva di cabaret Non Stop (Raiuno, 1977-1979) diretta dal compianto e geniale Enzo Trapani, Verdone viene tempestato di richieste da produttori, registi e attori che ne intravedono il potenziale su grande schermo e vorrebbero farlo debuttare al cinema: Adriano Celentano lo vorrebbe per un ruolo in Asso, Pasquale Festa Campanile gli fa un provino (stando alla leggenda disastroso) per Il corpo della ragassa. Ma Carlo non si sente pronto: ed è solo quando riceve la telefonata del maestro Sergio Leone, che si offre di produrre il suo esordio, che la situazione si sblocca. Grazie ai due principi della sceneggiatura che lo affiancano (Leo Benvenuti e Piero De Bernardi), Un sacco bello prende forma: e diventa un’opera già personale, in grado di andare oltre la mera riproposizione delle tipologie televisive. Tanto che, sempre su consiglio di Leone, dopo aver interpellato prima Steno e poi Lina Wertmüller, l’unico possibile regista del film diventa Verdone stesso.

Tour de force. Imperniato soprattutto sulla sua capacità trasformistica (anche se la lunga sequenza in cui incarna Ruggero e i suoi tre “dissuasori” è paradossalmente la più debole del film) più che sulla narrazione in senso stretto, Un sacco bello si rivela da subito un tour de force attoriale incredibile per Verdone (premiato per questo motivo con un David di Donatello speciale), soprattutto per quanto concerne l’armonizzazione “interna” di caratteri e tipologie diversissimi chiamati a reggere un tempo di racconto più lungo e complesso rispetto agli standard del piccolo schermo. Anche perché fino ad allora (ma anche dopo…), se si eccettuano i paragoni “esotici” con la poliedricità di Peter Sellers, nessuno nel cinema italiano (e men che meno un esordiente) si era mai giocato una carta simile. Un possibile punto di riferimento, infatti, poteva essere la mattatorialità polimorfa di Gassman e Tognazzi in I mostri di Dino Risi: ma, a differenza di Un sacco bello, quello era un film a episodi in senso “classico”, dove ogni metamorfosi costituiva elemento a sé. In questa logica, il peso dei comprimari (poi sempre centrale nel cinema di Verdone) è quasi inesistente. Anche se il Sergio di Renato Scarpa e il papà del magnifico Mario Brega non si dimenticano.

Il Senso del tragico. Se la superficie di Un sacco bello onorava le aspettative “pop” del pubblico pantografando ed espandendo le peculiarità che avevano decretato il successo televisivo del “personaggio” Verdone, l’anima del film andava già a svelare e anticipare il doppiofondo tragico e malinconico di tutti i suoi lavori successivi da “autore”. Come negare che, a conti fatti, asciugata delle sue qualità di divertimento più epidermiche, l’opera prima di Verdone non fosse -anche- lo spaccato al fondo doloroso di una società di individui spaesati e incapaci di affrontare la solitudine, le istituzioni e finanche il reale? Il cinema di Verdone, è sempre stato, tra le altre cose, in equilibrio fra tragico e “politico”: Un sacco bello ne è stato il detonatore, poi replicato nel non meno riuscito e amato Bianco Rosso e Verdone (ancora “tripartito” e ancora attraversato da inquietudini parallele sul presente – come l’avanzare del crollo dell’ideologia comunista sostenuta ciecamente dall’indimenticabile “Sora” Lella Fabrizi). Il resto, come si dice, è storia.

·        Carol Alt.

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” il 26 luglio 2020. Ha l'eleganza naturale delle modelle, svetta sui tacchi, è intatta nell'immaginario degli italiani per le commedie colorate di Carlo Vanzina. È Carol Alt. Ha un primato singolare: ha interpretato un film a New York durante il Covid-19, L'ultimo grande amico , il regista è l'italiano Filippo Prandi.

Di cosa parla?

«È la storia di James Whitey Bulger, il gangster di Boston morto due anni fa che già Johnny Depp portò al cinema in Black Mass , e qui ha il volto di Eric Roberts. Io sono una giornalista tv da cui Bulger è ossessionato. Recitavo in solitudine davanti al green screen, la tecnica con cui si sovrappongono diverse immagini. Ero da sola, una troupe di 5 persone. È stato il mio lockdown. L'ho vissuto a New York, con i miei gatti. Non mi è mancato nulla, il mio lavoro è concentrazione e solitudine. Sono una eremita».

È stata, dagli Anni 80, il sogno proibito degli italiani.

«Non mi sono mai sentita sexy. Da adolescente ero robusta, lavoravo in una pasticceria e assaggiavo tutti i dolci. Ho perso 20 chili a 18 anni e cresciuta 20 centimetri in un anno, ho dovuto lasciare la danza, nessun ragazzo voleva ballare con me».

Erano anni...

«Più liberi, ero più rilassata anche se piena di lavoro. Oggi è l'epoca di Instagram e del Politically Correct , è tutto di pubblico dominio, devi dire sempre la parola giusta con un velo di ipocrisia».

Ha vissuto molestie?

«Tutto il tempo, succede a ogni bella attrice. La differenza è che sta a noi scegliere. Ho perso tanti ruoli, penso alla serie tv Hotel . Come ho reagito? Mi sono detta, ok, così va la vita, andiamo avanti».

E la moda è cambiata?

«Totalmente, oggi i marchi globalizzati riprendono le sfilate e le ricopiano pari pari».

L'Italia è il suo destino, qui conobbe l'amore della sua vita, Ayrton Senna, il pilota brasiliano morto nel 1994 nel circuito di Imola .

«Non sapevo chi fosse, a una sfilata i fotografi mi chiesero di fare qualche scatto con lui, mi disse che era un driver e pensavo che fosse l'autista. Era molto più basso di me, mi batteva il cuore, d'istinto mi sono tolta i tacchi. Lui ha sorriso e ha detto: grazie. Io: No problem. Ero sposata. Mi colpì la sua sensibilità, nessun ragazzo prima di lui mi aveva parlato di Dio e della Bibbia. Mi disse: dobbiamo sbrigarci, non abbiamo molto tempo».

Un presentimento?

«Sapeva di fare un mestiere pericoloso. Quando morì ero in Florida per una serie tv, ricordo tutto, la mia stanza d'albergo, com' ero vestita... Mi buttai nel lavoro».

E Hollywood?

«È una città senz' anima, io sono una newyorchese. Il mio sangue è americano, il mio cuore è italiano».

Compleanno importante: i suoi primi 60 anni?

«Io me ne sento 35, sono gli altri che mi trattano da donna matura. Qui al Filming Italy Sardegna Festival mi danno un premio alla carriera: è troppo presto! Arrivare in Italia dagli USA col virus è stata un'impresa, avevo una dozzina di poliziotti intorno, nominavo la direttrice artistica, Tiziana Rocca, come se fosse il mio passaporto».

Lei doveva interpretare «Sotto il vestito niente»?

«Non volevo farlo, ne stavo facendo un altro in cui dovevo uccidere e non volevo rivivere la violenza. Carlo Vanzina, uomo gentile, simpatico, mi offrì Via Montenapoleone ».

È vero che per il film su Marina Ripa di Meana...

«Lei voleva Raquel Welch, rosse entrambe, coetanee, Carlo Vanzina la convinse dicendole che non recitava da 15 anni».

Mantenersi così giovane?

«Il segreto è nell'alimentazione, solo cibi crudi. Non sono mamma ma ho la mia, mia sorella, le mie nipoti. Sono circondata dall'amore».

I. Rav. per “il Messaggero” il 10 aprile 2020. I suoi primi 60 anni, tondi a dicembre, sono passati con un solo rimpianto non aver vissuto pienamente l'amore clandestino con il pilota Ayrton Senna, frequentato durante il matrimonio con Ron Greschner e nessun ritocco a quella bellezza che quarant'anni fa ne fece, come lei stessa dice, «il volto degli Anni 80».

Popolare in Italia grazie a Carlo Vanzina, che la lanciò con Via Montenapoleone, l'ex supermodella, attrice e fervente crudista Carol Alt è nel cast di Un figlio di nome Erasmus, in streaming a Pasqua.

Torna in Italia 11 anni dopo Piper: perché tanto tempo?

«Dopo gli Anni '90 in Italia non c'era più posto per me. Non l'ho scelto io. Ho continuato a recitare negli Stati Uniti, ma sognavo di tornare».

Qui le è rimasto qualche amico?

«Ho sempre voluto bene a Luca Barbareschi. E mi manca Carlo Vanzina. Era generoso e sensibile. Un giorno, alla fine de I miei primi 40 anni, mi disse: Ti ho guardata per due mesi così intensamente che conosco a memoria il tuo viso. Vent'anni dopo ci siamo ritrovati per Piper. Il primo giorno mi guarda al monitor e dice: Carol, tranquilla, il tuo volto non è cambiato. Ti ricordi? Io lo conosco a memoria».

È vero che Berlusconi fu un suo ammiratore?

«Mi regalò una cornucopia d'argento. Ma l'ha voluta il mio ex marito, con il divorzio ho perso quasi tutto. Però qualche regalo di Berlusconi ce l'ho ancora: una collana con una farfalla che uso nei red carpet. Il Cavaliere ha finanziato tutta la mia carriera».

Non ha mai sostenuto pubblicamente il MeToo: perché?

«Il rischio molestie c'è e c'è sempre stato, soprattutto nella moda. Quello che non mi convince è la linea di confine, quando non è chiara la differenza tra molestia e legittima attrazione».

Ha conosciuto Woody Allen. Che ne pensa?

«Mi sembra atroce distruggere una carriera su una presunzione di colpevolezza. Con me è stato splendido».

In Italia nessuno l'ha mai molestata?

«Mai. Anche perché ero molto protetta: intorno alla mia immagine circolavano parecchi soldi. Ci stavano attenti, a me».

Oggi i soldi li fanno le influencer. Che ne pensa di Chiara Ferragni?

«Chi, scusi?».

Un'influencer. La più seguita. Conosce la categoria?

«Non saprei dire di cosa si occupino. Di certo oggi i ragazzi sono fortunati: se hanno qualche talento, possono metterlo a frutto. Ai miei tempi, se eri una modella potevi fare solo quello».

La moda è cambiata molto da allora?

«E cambierà ancora. Le sfilate scompariranno. Costano tanto, e il giorno dopo trovi tutto nei megastore. E poi il corona ci insegna che puoi fare gli stessi show anche online».

Rimpianti?

«Il pensiero di Senna non mi abbandona mai. Ci sono momenti in cui lo sento vicino, lo sogno. Quando l'ho perso, è cambiato tutto. È stata la cosa più devastante della mia vita».

Un nuovo amore?

«Col coronavirus è dura anche su Tinder. E con le mascherine non ci si può baciare».

Sessant'anni: come fa a mantenersi così bella?

«Sono fissata con l'alimentazione e ho ottimi geni: mia madre a 87 anni è bellissima. E poi una volta un truccatore di Milano mi disse: a 20 anni hai la faccia con cui sei nata, a 40 quella per cui hai lavorato, a 60 quella che ti meriti».

Carol Alt: «Ayrton Senna mi disse: sbrighiamoci, abbiamo poco tempo». Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Michela Proietti. Quando lo conobbe, si tolse le scarpe per non farlo apparire basso: «Lui mi ringraziò». E fu colpo di fulmine: «Alla prima cena con lui ho toccato le stelle... la chimica era fuori dal comune». «Aveva forse un presentimento». Carol Alt nel film «I miei primi 40 anni», girato da Carlo Vanzina nel 1987 e tratto dal romanzo di Marina Ripa di Meana Quando incontra per la prima volta Ayrton Senna — il grande amore della sua vita —, Carol Alt si sfila le scarpe. «Eravamo a Milano nel backstage della sfilata di Ferragamo e i fotografi continuavano a chiedermi di posare accanto a questo tizio dal nome strano». Altissima lei, un po’ di meno lui, con il physique du rôle perfetto del campione di Formula 1. « Non sapevo neppure chi fosse, poi quando finalmente l’ho visto ho capito che la cosa giusta da fare era scendere dai tacchi. E lui mi ha ringraziato». C’è tutta Carol Alt in quella foto: la bellezza, l’intelligenza. E la simpatia. «Sono una comedian nata: il mio fisico non corrisponde ai classici canoni dell’attore comico, ma far ridere mi riesce davvero bene». Non a caso il prossimo film che la vede protagonista è una commedia prodotta da Eagle Pictures in uscita nelle sale il 26 marzo: in Un figlio di nome Erasmus di Alberto Ferrari recita al fianco di Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu, Ricky Memphis e Daniele Liotti. Un ritorno al cinema e in Italia, dove immagina il futuro: «Nelle mie vene scorre sangue italiano».

Cosa ricorda del suo arrivo in Italia?

«Tutto, come fosse ieri: sono atterrata a Roma il 20 luglio del 1979. In quel viaggio c’erano tante prime volte: la prima volta in aereo, in Italia, a Roma... Dal finestrino del bus cominciai a battere la mano contro il vetro: “guardate, il Colosseo!”».

Subito dopo finì sulla copertina di Harper’s Bazaar Collection.

«Mi ritrovai a lavorare dalle 6 di mattina alle 2 del pomeriggio, scattando con i più grandi fotografi, da Patrick Demarchelier ad Albert Watson: era tutto eccitante e strano, vivevo al Grand Hotel e mangiavo sul set panini di prosciutto di Parma imburrati e senza crosta. Qualcuno la toglieva».

Erano gli anni del film «Via Montenapoleone» di Carlo Vanzina: lei e Renée Simonsen (la supermodella danese co-protagonista) diventaste due icone nazionali.

«Un giorno mentre giravamo in via Montenapoleone lei sparì e Carlo Vanzina la cercava dappertutto. Dopo dieci minuti tornò con un sacchetto della Perla: aveva visto in vetrina un completo di lingerie ed era entrata a comperarlo perché era in arrivo John Taylor dei Duran Duran, il suo boyfriend».

Carol Alt con Ayrton Senna, suo amante dal 1990 fino alla morte del campione, il primo maggio 1994. Icona degli Anni ‘80, torna sul grande schermo: è in uscita il suo nuovo film «Un figlio di nome Erasmus»

Neanche un po’ di rivalità?

«No, perché era una gara persa: se eravamo insieme la gente si voltava a guardare lei, che era bionda e altissima. Sembravo la sorella bruttina».

La Milano da bere, le serate al Nepentha con le modelle: quanto c’è di vero di quella iconogra fia che è stata raccontata?

«Direi poco per quanto mi riguarda: lavoravo ogni santo giorno, mi svegliavo alle 4 del mattino per affrontare le due ore di trucco e capelli prima di posare. La verità è che se sei una top model non puoi uscire la sera. Quelle che vedi nei locali sono le modelline...».

Una vita un po’ noiosa.

«Se sei debole, fisicamente e psicologicamente, non puoi fare quel mestiere. Le agenzie erano pressanti, non sapevi mai se lo stilista di oggi ti avrebbe chiamato a sfilare anche domani: ho molti più amici nella moda oggi che allora. Non c’era tempo per le pubbliche relazioni: andavo a casa la sera e non volevo più vedere nessuno».

E il piatto dei playboy piangeva...

«Mi ricordo che uno di loro riuscì a convincere la portineria del mio hotel a organizzare una cena romantica per due in camera. Lo mandai via digiuno: ero troppo stanca. Neppure i diamanti funzionavano. Pensavo: posso comperarmeli da sola, ora mi riposo».

Poi ha incontrato Ayrton Senna.

«Ma è stato un caso: c’era mio marito a Milano (il giocatore di hockey su ghiaccio dei New York Rangers Ron Greschner), ma dopo una lite furiosa fece la valigia e ripartì. Il mio assistente per tirarmi su mi disse: “preparati che andiamo a una sfilata”. Lì i fotografi continuavano a urlare: “Carol fai una foto con blablabla ...”, un nome sconosciuto, credevo fosse un attore, e anche dopo la foto insieme continuavo a ignorare chi fosse Ayrton Senna».

Fu un colpo di fulmine?

«Sì. Lui mi invitò la sera stessa a cena, io rifiutai perché avevo già un impegno. Il mio assistente mi ordinò: “Carol sei matta, vai!”».

Cosa aveva di speciale?

«Era semplice, come nessun altro avessi conosciuto prima di allora. Quella sera siamo andati al ristorante e ho toccato le stelle. Non avevo idea di chi fosse, ma la chimica era fuori dal comune».

Vi sareste sposati prima o poi?

«Chi può dirlo, non ne parlavamo, ma era un tipo che faceva sul serio. Una volta mi disse: “Carol dobbiamo sbrigarci perché non abbiamo molto tempo”».

Cosa intendeva?

«Credo che fosse un presentimento, sapeva di fare un mestiere pericoloso. Era un modo per dirmi di stringere i tempi».

Siete stati gli amori delle vostre vite?

«Senza dubbio».

Senna era circondato da donne stupende, era gelosa?

«No, per nulla. Se sto insieme a una persona gli do tutta la mia fiducia. Neppure lui lo era: i brasiliani non sono come gli italiani».

Un ricordo insieme?

«Lui guidava la sua Ferrari in campagna, io accanto ridevo felice. Dopo quella corsa folle ci fermammo per fare benzina a Novara, ma Ayrton non sapeva come fare. Così bussò al finestrino del signore in fila dietro di noi, per farsi aiutare. Quel tipo cominciò a gridare: “Oddio ma tu sei Ayrton Senna!”. E la moglie accanto, gridando più forte: “E lei è Carol Alt!”: fu comico».

Carol Alt a 26 anni con Marina Ripa di Meana: il film «I miei primi 40 anni» era tratto dalla sua biografia (foto Olycom)

Lei era al colmo della sua popolarità, aveva girato «I Miei Primi 40 anni», il film biografia sulla vita di Marina Ripa di Meana.

«In Italia fu un successo incredibile: ma all’inizio Marina non voleva che fossi io la protagonista. Preferiva Rachel Welch, perchè aveva i capelli rossi e le tette grandi».

Come l’avete convinta?

«Mi invitò nel suo atelier e parlammo a lungo. Alla fine disse: “Sei tu quella giusta”. Anche Carlo Vanzina fece di tutto per persuaderla: dopo Via Montenapoleone voleva me a tutti i costi».

Quando vide il film cosa disse?

«Era felice. Il complimento più bello arrivò da suo marito Carlo: “Sei identica a lei, da oggi è come se avessi due mogli”».

Ha mai sognato di sposare un principe come Meghan Markle?

«Mai, amo troppo la mia libertà. Avrei fatto un’ eccezione con Ayrton: se fosse stato un principe gli avrei detto “prenditi la mia vita”».

Come giudica la scelta dei Duchi di Sussex di andarsene?

«Ridicola. Non riesco a immaginare come un reale possa smettere di essere quello che è solo cambiando Paese. Non potrà mai essere Harry il meccanico o Harry lo stilista. Non sarà credibile».

Ha votato Trump?

«Posso solo dire che è la prima volta che sento il futuro negli Stati Uniti incerto. Anche per questo vorrei vivere e lavorare in Italia».

Con chi vorrebbe lavorare?

«Con Christian De Sica e Lino Banfi. Persone che mi hanno sempre messo a mio agio. In Italia non mi è mai accaduto quello che negli Stati Uniti è successo con Weinstein. Tra gli uomini perbene che ho incontrato ci metto anche Dino Risi e Silvio Berlusconi».

Lei è stata mai a una sua cena?

«Sì certo. Berlusconi aveva visto tutti i miei film e invitò il cast di Due Vite Un Destino dove recitavo con Michael Nouri e Philippe Leroy. Ad un certo puntò alzando il calice disse: “Brindo al miglior attore del film: Carol Alt!”. Poi mi regalò una cornucopia in argento».

Oggi ha 59 anni e dice di essere felicemente single.

«Sono stata in coppia dai 13 ai 54 anni. Ora tutti vorrebbero vedermi fidanzata, ma è impossibile: sto troppo bene da sola».

La carriera — Carol Alt è nata il 1o dicembre 1960 nel quartiere Queens di New York. Il debutto nel mondo della moda è nel 1979, a 18 anni, con la cover di Harper’s Bazaar Italia Collection. Nel dicembre dello stesso anno diventa il volto Lancôme più giovane della storia. In Italia raggiunge la vetta della popolarità interpretando i film di Carlo Vanzina Via Montenapoleone e I miei primi 40 anni. Nel 2008 appare sulla copertina di Playboy.

La vita privata — Nel 1983 sposa il giocatore di hockey su ghiaccio Ron Greschner dal quale divorzia del 1996. Nel 1990 inizia una relazione con il campione di F1 Ayrton Senna che proseguirà fino alla morte del pilota avvenuta nel 1994 a Imola. In seguito avrà una storia con l’attore Warren Beatty

·        Caterina Balivo.

La confessione (inaspettata) della Balivo: "Ho litigato con la Santarelli dietro le quinte". Caterina Balivo ha confessato che in passato ha avuto una dura lite con la collega Elena Santarelli: "Alla fine non hanno preso nessuna delle due". Anna Rossi, Giovedì 26/12/2019, su Il Giornale. Sia Caterina Balivo che Elena Santarelli sono due personaggi televisivi molto amati. Entrambe sono madri e donne fortissime. Entrambe amano dirsi le cose in faccia, anche se queste "cose" non sono troppo belle. In questi giorni di festa, dove tutti - in teoria - dovrebbero essere più buoni, la Balivo ha fatto una confessione inaspettata. Al suo pubblico, infatti, ha rivelato di avere avuto una lite con la collega Elena diversi anni fa. La "rissa" sarebbe avvenuta - come dicevamo - diversi anni fa, dietro le quinte di un programma. Il tutto, quindi, sarebbe successo quando le due conduttrici non erano ancora famose, ma solamente due coetanee in cerca di successo. A scatenare la discussione, infatti, è stato proprio il senso di competizione. Ma cosa sarebbe accaduto? Stando a quanto rivelato dalla Balivo durante l'intervista a Ficarra e Picone, al cinema con il film Il primo Natale, il litigio sarebbe scoppiato in maniera del tutto inaspettata. "Una volta ho fatto anch’io un provino per fare la velina - ha confidato la presentatrice napoletana -. Purtroppo non mi hanno preso, ovviamente. Eravamo io ed Elena Santarelli. Mi ricordo anche una cosa strana. Litigai con Elena, davvero. Le dissi: "Tu sei troppo alta! Io non voglio fare il provino con te altrimenti non mi prendono". Alla fine al provino non hanno preso nessuna delle due. Diciamo che l’abbiamo risolta in questo modo". Insomma, tutto è bene quel che finisce bene. Anche perché di lì a poco, il successo avrebbe travolto entrambe. Inutile litigare per un posto, alla fine tutte sia Elena Santarelli che Caterina Balivo hanno trovato la propria strada...

·        Caterina Caselli.

Giulia Cavaliere per corriere.it il 10 aprile 2020. Caterina Caselli, la modenese che divenne il "casco d'oro" e dopo aver conquistato le classifiche conquistò anche il difficile mondo della discografia italiana, oggi compie 74 anni. Non si dice l'età di una signora, si sa, ma Caterina Caselli, negli ultimi anni - non l'ha nascosto - ha lottato contro un tumore difficile, contro qualcosa di feroce e quindi chissà che i numeri che testimoniano la sua bella vittoria non siano solo un grande piacere. Questo nostro, in ogni caso, è un omaggio. Siamo nei primi anni '60 a Modena, Caterina Caselli suona il basso, si esibisce nei dancing emiliani, nonostante la piena esplosione di beat e beatlemania con tutto il nuovo mondo del rock alle porte, ancora non è così usuale vedere una bassista protagonista di qualche complesso musicale, figuriamoci, poi, nella provincia italiana. Qualche tempo dopo Caselli partecipa alla sezione dedicata alle nuove voci al celebre Festival di Castrocare e lì viene notata da Alberto Carisch, viene messa sotto contratto discografico per la sua MRC e incide un primo 45 giri di scarso successo nonostante qualche partecipazione televisiva. L'anno successivo passa alla celebre CGD di Sugar incidendo i suoi primi adattamenti in italiano di pezzi di rilievo americani e inglesi e partecipa a manifestazioni di successo come il Cantagiro. Il successo di Caterina Caselli, il primo di una lunga serie, lo sappiamo, si intitola Nessuno mi può giudicare ed è uno dei protagonisti della sedicesima edizione del Festival della canzone italiana di Sanremo, anno 1966. Il pezzo era stato messo a punto per Adriano Celentano - pensateci, funziona - che però decide di cantare Il ragazzo della via Gluck. Il pezzo, allora, passa alla voce di Caselli che lo esegue, come da antico regolamento, con Gene Pitney. Ha un taglio di capelli mai visto su quel palco, un caschetto biondo perfetto che porta sul palco un look che di quel palco non è, da quel momento, per l'Italia, diventa "Casco d'oro" e ancora oggi è impossibile parlare di lei senza fare riferimento a quel suo taglio, appositamente creato, in fondo, per restare nella storia. Nessuno mi può giudicare e Il ragazzo della via Gluck, a fine festival, sono i due pezzi di maggior successo di vendita, una doppia vittoria, insomma. Nessuno mi può giudicare rimane al primo posto della classifica per undici settimane di seguito. Tradotto in diverse lingue, Nessuno mi può giudicare è il brano della svolta, il primo di molti pezzi di successo che manderanno Caselli in vetta alle classifiche decretandone il passaggio alla storia della nostra canzone nel decennio della sua svolta effettiva, i 60s. La sua è una formula che mescola la rassicurante presenza dolce di una splendida giovane donna della provincia italiana al massiccio imporsi del sound anglosassone e delle nuove mode pop nel nostro Paese, in buona sostanza è una vincente splendida rappresentazione rincuorante della novità e conquista in questo modo i più giovani - che tramite i suoi adattamenti di brani degli Stones, di Neil Diamond e molti altri va alla conquista del mondo musicale straniero e nuovo pur mantenendosi in realtà entro i confini concessi dal costume sicuro dello spettacolo italiano popolare. A corredo di quanto stava accadendo discograficamente, Caselli diventa anche protagonista della scena cinematografica italiana in ascesa per quanto riguarda il mondo dei musicarelli, tra gli altri sarà in Perdono, film che prende titolo e vicende dal suo grande successo del '66, seguito da classifica di Nessun mi può giudicare, che vince il Festivalbar. Negli anni Settanta l'attività discografica continua ma intanto arrivano anche il matrimonio con Piero Sugar e il figlio Filippo. Prosegue il successo ma nel 75 Caselli decide di ritirarsi dalle scene, continua a incidere qualche brano e intanto si dedica all'attività di talent scout per una discografica. Sebbene si pensi, visto il matrimonio con Sugar, che tutto per lei inizi da lì in realtà Caterina Caselli fonda una sua etichetta, la Ascolto e alla fine del 1982, dopo la chiusura, continua l'attività presso la CGD e solo più avanti entrerà a fare parte del management della Sugar music. Nel 1990 torna a Sanremo con Bisognerebbe non pensare che a te ma nel frattempo il suo ruolo di manager e scopritrice di talenti si fa centrale nella storia della discografia italiana e Caterina Caselli diventa una figura fondamentale nella storia del pop italiano; tra gli altri lancia Giuni Russo, Andrea Bocelli, gli Avion Travel,Elisa, i Negramaro, Malika Ayane, Raphael Gualazzi. Ancora oggi Caselli rappresenta il mondo Sugar music ed è lei il primo volto a cui si pensa non appena si nomina la storica discografica capace di curarsi insieme di fenomeni pop e culturali di rilievo.

·        Caterina Collovati.

Ida Di Grazia per leggo.it il 25 maggio 2020. Giornalista, conduttrice e opinionista tv, Caterina Collovati è la moglie dell’ex calciatore e campione del mondo dei mondiali dell’82 Fulvio Collovati. Fu un colpo di fulmine, lei 16 anni, lui 21, un grande amore da cui sono nate due figlie. La Collovati conduce dal martedì al giovedì la trasmissione Detto da voi su TeleLombardia dalle 8.30 alle 9.30.

Anche la sua trasmissione ha subito uno stop a causa del coronavirus, quando e come siete tornati in onda?

«Dal 4 maggio siamo rientrati più carichi che mai, soprattutto perché noi rispondiamo ad un pubblico lombardo. La nostra trasmissione dà un grandissimo spazio alle telefonate dei telespettatori, a maggior ragione in questa fase così complicata».

Come ha vissuto questo periodo di chiusura?

«Sembra retorico ma io mi sento diversa. È come se di colpo avessimo assunto una maturità in più, come se ci fossimo scrollati di dosso il superfluo».

Lei sta con suo marito da quasi 40 anni, come avete retto alla convivenza forzata?

«Posso dire che siamo una coppia a prova di lockdown. Ma da sempre condividiamo le stesse passioni, poi magari ci hanno salvato anche i cani, perché ne abbiamo due».

Lei è tra coloro che ha difeso Silvia Romano dagli attacchi social.

«Ho trovato tutto molto triste e vergognoso, ho una figlia della stessa età, l’idea che l’avessero trovata viva per me è stata pura gioia. Se anche avesse scelto di diventare musulmana non mi riguarda, con che diritto uno si permette di giudicare? Ma d’altronde questo è un paese in cui se una donna subisce una violenza la prima cosa che ti dicono è che te la sei cercata».

Spesso l’hanno definita integralista per le sue opinioni, come risponde?

«Se si intende una persona che ha principi sani, valori e una certa educazione allora sì. Ma non offendo mai».

Com’è andata a finire invece la polemica tra lei e Alba Parietti, hanno detto che voleva fare la caccia all’untore?

«Ecco questo è proprio l’esempio a cui mi riferivo, io non ho mai detto che Alba è un’untrice, perché non uso termini offensivi. Ho fatto solo una riflessione. Guardavo la trasmissione Carta bianca, quando ha raccontato di aver accusato i sintomi del Covid il 9 marzo e ha deciso di chiudersi in casa, mi sono ricordata che noi l’8 marzo stavamo insieme dalla D’Urso, e non solo non ha detto niente a nessuno in più l’ho vista andare anche dopo in trasmissione. Quindi ho detto ma che cosa sta raccontando e l’ho scritto su Instagram. E lei ha iniziato ad attaccarmi in maniera pesante anche in privato. Tutto qui».

Lei di cognome fa Cimmino, perché ha scelto di prendere quello di suo marito?

«Ho iniziato dopo il mondiale dell’82 con il giornalismo sportivo e uno dei produttori all’epoca mi disse che nonostante la giovane età, ero brava e di provare a proseguire su questa strada, tanto il cognome già ce l’avevo e ho detto di sì. È stato come avere un nome d’arte».

·        Caterina Guzzanti.

Dagospia il 20 maggio 2020. Da I Lunatici Rai Radio2.  Caterina Guzzanti è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino.

L'attrice romana ha raccontato: "I primi giorni di fase 2? Per me non è cambiato granché. Nel mio condominio abbiamo iniziato a ripulire il cancelletto, il portone, il numero del civico, abbiamo iniziato a fare questi lavori, qui per fortuna con i condomini andiamo d'amore e d'accordo. Sono felice, mi dà tanta soddisfazione e felicità fare delle cose concrete visto che faccio un mestiere che è fatto di fuffa, per dire. Quando vedi una parete pittata ho una bella soddisfazione. Bisognerebbe fare tutti un po' di attività manuale. Però almeno in questi mesi ho evitato di mettermi ai fornelli a fare il pane, purtroppo la cucina non è la mia passione, non è il mio forte".

Sui problemi del mondo dello spettacolo: "Non ho seguito benissimo, la data del 15 giugno mi pare uscita un po' all'improvviso. Tutti ci siamo fatti sentire a modo nostro, con più o meno garbo, probabilmente le nostre richieste sono state accolte, se non ci avessero fatto aprire per tutto il 2020 sarebbe stato veramente un problema. Mi auguro che la data del 15 giugno si riferisca alle arene e agli spazi all'aperto, al cinema a giugno già non ci va nessuno, figuriamoci adesso. Credo che sui film in uscita ci sia una lista d'attesa lunghissima e non so quanto il pubblico sarà felice di chiudersi dentro a una sala, nonostante le distanze. Sui teatri per esempio è assurdo che si dica che si riapre il 15 giugno, non c'è ancora un protocollo di sicurezza per i lavori sul palcoscenico. Non credo che qualcuno andrà a vedere attori che si girano attorno con una mascherina".

Sulla quarantena: "Mi ha lasciato un certo equilibrio interiore, anche se ho alternato ondate di depressione ed euforia, come se avessi una sindrome bipolare. Vorrei laurearmi in ingegneria genetica, ho dato un'occhiata, alcune cose me le ricordo, però non riesco a studiare da sola, non sono abbastanza disciplinata, se non c'è una condivisione della conoscenza non riesco ad organizzarmi. Ho iniziato a studiare lo spagnolo, ho fatto due lezioni e poi ho lasciato stare. Poi mi sono abbastanza rasserenata, mi fa impressione parlarne al passato, ma effettivamente oggi ho fatto un giro e tutti i negozi erano aperti. In questa quarantena la gente si è rivista qualsiasi cosa, ogni tanto mi fermano e mi dicono che mi hanno rivisto ieri sera, ma non sanno in cosa. Se tutti quelli che mi chiedono e mi hanno chiesto in questi anni quando esce la quarta stagione di Boris si iniziassero a vedere Liberi Tutti su Raiplay secondo me sarebbero molto soddisfatti. Boris? Il fatto che sia ancora tra le serie più viste in Italia dimostra che è un cult. Non invecchia".

Sulla Caterina Guzzanti bambina: "Non ho sempre voluto fare l'attrice. Volevo fare la veterinaria, poi mi sono presa tutta una serie di funghi dai gattini che raccoglievo per strada. Molti ne portavo a casa di nascosto. Mi impuntavo parecchio, per fortuna avevamo il giardino. Alla fine, chiedendolo ogni giorno, sono riuscita a farmi regalare il cane. Chiedendolo tutti i giorni. Corrado e Sabina erano complici, poi ho iniziato a fare questo lavoro, mi è piaciuto, mi è sembrato veramente un bel vivere. All'inizio non mi rendevo conto, se non è un hobby ci vuole grandissimo impegno. In questo momento stiamo soffrendo, è un bel casino, manca un protocollo condiviso, dovevo iniziare delle cose a maggio che per ora sono state rimandate a settembre, poi boh. L'idea di fatturare zero un po' fa... ". 

Sui natali in casa Guzzanti: "Siamo una famiglia normalissima, non ci mettiamo a fare i giullari, ma neanche nella vita in generale, lo facciamo per lavoro. Molte persone che fanno questo lavoro in realtà sono molto riservate, ci sono tanti esibizionisti ma anche persone molto timide".

Sul lavoro che c'è dietro ai suoi personaggi: "Biondic? Era nata da Corrado Guzzanti e Serena Dandini. Erano gli anni della Moric, di Megan Gale, ogni tanto veniva fuori una bona che faceva la pubblicità a una marca di telefonia che durava due o tre anni, arrivava a fare un film e poi finiva nel dimenticatoio. Veniva invitata spesso dappertutto ma non si capiva a fare cosa. L'idea era prendere in giro quel mondo lì, il mondo degli stacchetti. Susanna la ragazza di Facebook? E' una signora che ho incontrato a Viale Somalia, una persona molto simpatica, con grande voglia di chiacchierare, che mi ha  attaccato un gran bottone su sua figlia a Bracciano. Molti personaggi nascono anche da un incontro, tu rubi un po' il modo di parlare o di muoversi". 

·        Caterina Piretti: Katiuscia.

Katiuscia, l'icona degli anni Settanta: "Ho bruciato tutto in droga. Quel giorno in cui Montezemolo...". Tutta la verità, intervista-shock. Alessandra Menzani su Libero Quotidiano il 28 luglio 2020. Negli anni Settanta era la ragazzina dei fotoromanzi, un genere tutto italiano che è tornato in auge e in edicola con Sogno di Sprea Editore. Katiuscia era il suo nome d'arte: Caterina Piretti, oggi 63 anni, padre bolognese e madre albanese, ha conosciuto a 15 anni la fama, i soldi, ma anche le droghe pesanti. Nella sua autobiografia racconta la vita spericolata, quella volta che percorse la Via Del Mare contromano strafatta, quando il suo appartamento andò in fiamme a causa di una sigaretta spenta male, ma anche l'amore del figlio che l'ha salvata, la comunità di recupero, la vita normale e la serenità ritrovata. Con Libero l'ex fotomodella parla senza filtri.

Cosa ricorda degli anni dei fotoromanzi che l'hanno lanciata?

«Un periodo intenso, bellissimo. Eravamo una bella squadra, sempre le stesse persone, una famiglia. È stato un grandissimo successo inaspettato».

Nella sua biografia parlava di guadagni pazzeschi: 250milioni di vecchie lire all'anno, 20 milioni che spendeva ogni mese. Conferma?

«Guadagnavo veramente un sacco di soldi. Eravamo, in fin dei conti, i personaggi famosi pop. Prendevamo tanto e facevamo guadagnare tanto».

Era un po' la Chiara Ferragni dell'epoca?

«In effetti... C'ero solo io famosa, avevo 15 anni. Le ragazzine si rifacevano al mio modo di essere. Non ero la più bella, ero trasgressiva ma non ero bambocciona».

La trasgressione è andata oltre: è stata drogata ed eroinomane parecchi anni.

«Ne ho parlato nel libro che ho scritto per i giovani e per i genitori. Si finisce all'inferno ma da tutto si può uscire. Il successo è una doppia arma, non si deve rincorrere per forza».

Ma lei perché si drogava?

«Sono stata sempre molto curiosa e spregiudicata. Le due cose insieme sono una bomba a mano. Ho sperimentato tanto. Poi sono arrivata a un bivio: o andavo in India a finire la mia vita drogandomi o smettevo completamente. Ho scelto la seconda, anche perché avevo una motivazione fortissima: mio figlio, che all'epoca aveva sei anni. Non era scontato. Forse bisogna sempre toccare il fondo per risalire. Ah, poi c'è il buddismo, che mi dà un forte equilibrio».

Quanto tempo è stata in comunità?

«Sono andata in Sicilia nella struttura messa su da Mauro Rostagno. Ci sono stata tre anni e mezzo come malata, poi ho deciso di rimanere. Mi hanno affidato la comunità, ho fatto un percorso di due anni come responsabile e il cerchio si è chiuso. Era il 1989».

Ci racconta l'episodio di Luca Cordero di Montezemolo che le prestò cento dollari per sopravvivere?

«Eravamo in vacanza alle Maldive, ci siamo incontrati per caso. Lui era con la moglie e io con mio marito. Eravamo in un'isola sperduta e poi ci siamo ritrovati nell'aeroporto di Malè tutti quanti perché stavamo scappando: le Maldive erano una noia pazzesca. A Ceylon (Sri Lanka) ci siamo ammazzati dal divertimento e io e mio marito ci siamo trovati senza soldi. Lui voleva viaggiare da fricchettone, zero carta di credito, non sapevamo a gestire i soldi. Per fortuna Montezemolo ci ha prestato qualche dollaro».

Oggi lei come si guadagna da vivere?

«La mia vita pre-Covid, che spero ritorni presto, consiste nel fare fiere del fumetto, dove vendo quadri e stampe. Giro tutta l'Italia. E poi ho un negozio a Lucca in cui vendo bicchieri».

Nel nuovo Sogno, in edicola dal 24 luglio con le storie d'amore che avevano incantato gli italiani e lanciato volti come Ornella Muti, Sophia Loren e Franco Gasparri, che ruolo avrà?

«Il progetto mi è piaciuto da subito. Mario Sprea era lo sceneggiatore ed editore dei fotoromanzi all'epoca. Avrò una mia rubrica in cui posso scrivere di tutto, liberamente: ho carta bianca».

La televisione le interessa? «Nemmeno un po'. Né all'epoca né oggi. Sono stata in qualche programma solo per sponsorizzare il mio libro». Ha qualche rimpianto? «Né rimpianti né rimorsi. Anche le cose sbagliatissime che ho fatto fanno parte di un percorso. Sono quella che sono grazie a tutti gli errori che ho fatto».

·        Catherine Spaak.

Dagospia il 12 gennaio 2020. Da Le Lunatiche. Catherine Spaak è intervenuta nel corso della nuova trasmissione Le Lunatiche in onda su Rai Radio 2 ogni sabato e domenica dall’1 alle 5, condotta da Federica Elmi e Barbara Venditti.

Sulla notte: La notte passo molte ore a leggere, poi mi accorgo che sono le 2 di notte e mi impongo di andare a dormire.

Sulla sua carriera: Il mestiere di chi fa spettacolo è cambiato tantissimo, non mi va di criticare o giudicare. Allora già il mio modo di fare veniva scambiato per freddezza, distacco e addirittura snobismo, non era vero e non lo è, è soltanto il mio modo di fare. Adesso sicuramente il mio modo di fare è fuori moda ma questo è il mio carattere, il mio carattere è riservatezza, pacatezza e quindi non è una cosa costruita ma che mi appartiene molto. Oggigiorno forse le presentatrici, le attrici sono molto più disinvolte, sono diverse ed è giusto perché cambiano i tempi. Sin dagli anni ’60 avevo dentro di me la convinzione, che poi si è anche rivelata giusta, che una donna deve essere indipendente ma non solo nella mente o nel cuore ma proprio dal punto di vista economico. Per me il lavoro e l’indipendenza economica sono stati i punti fermi della mia vita e della mia dignità, perché essere donna non era facile in quegli anni così come non lo è nemmeno oggi, però più che mai nell’arco di questi 50 anni l’indipendenza economica per una donna ha significato indipendenza, libertà, autonomia che consentiva e che consente alla donna di fare le sue scelte e di non avere bisogno di un uomo.

Su Harem: Sono stata molto attratta e incuriosita da Kuki Gallmann. Quando ogni tanto facevamo gli special di Harem, io sono andata in Africa a filmare il luogo in cui vive, dove sono sepolti suo marito e i suoi figli, il suo nido che è su un albero. Kuki è una scrittrice, una donna che ha avuto una vita molto tormentata, sia sentimentale che anche per decisioni molto importanti. Ha scritto “Sognavo l’Africa”, non tutti la conoscono ma per me è stata un’avventura meravigliosa incontrarla, vederla in Africa, nella sua riserva, nel suo mondo, e mi ha lasciato un ricordo di grande forza fisica, psicologica. Non parlava solo dell’ambiente ma anche della crescita spirituale, della consapevolezza, dell’evoluzione psicologica della donna, quindi corrispondeva perfettamente a molti punti di vista miei. Ho passato quella settimana con lei andando a visitare tutti i luoghi dove ha vissuto con il marito, che poi è morto. È sicuramente la donna che in 15 anni di Harem mi ha lasciato il segno più importante. Mi manca la pace nel mondo per tutti noi. Bisogna che gli uomini imparino, che cambino per vivere meglio senza guerre.

Sulla solitudine: La cosa più importante che ho imparato e che credo sia importante per tutte le donne e anche gli uomini, è sapere vivere da soli, non aver paura della solitudine e dei nostri lati oscuri, perché in fondo tutti noi abbiamo paura di qualcosa. Quindi resistere all’idea delle paure che abbiamo e che non sono reali, bisogna imparare a stare tranquilli da soli in un mondo che è sempre più caotico e rumoroso, quindi riservarci il più possibile quando lo possiamo fare. Quindi lo dobbiamo trovare questo tempo per passare da sole qualche ora al giorno o anche meno, però per avere quella solitudine senza rumore, musica, suoni, telefoni, per imparare a respirare e avere un contatto con il nostro Io più profondo. Credo sia questa la cosa più importante che ho raccontato nella mia vita.

Sul film Febbre da cavallo: Non sono una giocatrice, un giorno mentre giravo un film a Montecarlo mi hanno invitata a giocare al casinò ma ho rifiutato però ho chiesto di giocare il 90, allora si sono messi a ridere perché nella roulette il 90 non esiste. Non sapevamo che stavamo girando un film che sarebbe rimasto impresso a così tante persone, ancora quando prendo un taxi mi dicono “Allora, come va Gabriella? Come vanno i cavalli?” e si ricordano anche le battute. Ci siamo molto divertiti, il merito è tutto del regista e poi noi attori ci siamo divertiti e siamo grati al successo del film e al segno che ha lasciato. Con Gigi abbiamo sfondato il soffitto dell’appartamento in cui giravamo la  scena dove io mi arrabbio e gli tiro i piatti.

·        Cécile de France.

Gloria Satta per il Messaggero il 26 gennaio 2020. Nella serie The New Pope, diretta dal premio Oscar Paolo Sorrentino e attualmente in onda su Sky, Cécile de France interpreta Sofia, la raffinata capo-marketing del Vaticano e appare in un' insolita versione sexy, spesso nuda o perfino impegnata in attività erotiche. Cambio di scena: nel film Rebelles di Allan Muduit, una commedia nera che esprime in pieno il nuovo Girl Power cinematografico, (successo da un milione di spettatori in Francia, esce da noi il 6 febbraio), l' attrice è Sandra, unghie esagerate e look leopardato. In passato è stata una reginetta di bellezza ma ora, torva e arrabbiata, fa l' operaia in un conservificio. E taglia il pene al capo che aveva cercato di violentarla. L' INNO Con l' aiuto di due colleghe, inscatola poi i resti dell' uomo e si dà alla fuga tra sparatorie e colpi di scena che fanno pensare al cult Thelma e Louise. «Il nostro film, definito un mix tra Ken Loach e Tarantino, è un inno al riscatto femminile e, malgrado la chiave grottesca, abbiamo evitato ogni caricatura», spiega Cécile al Rendez-vous Unifrance. Ha 44 anni, origini belghe, occhioni azzurri e una carriera benedetta da maestri come Dardenne, Rochant, Eastwood. Ma non se la tira per niente, anzi risulta simpatica e diretta.

Cosa l' ha spinta a girare Rebelles?

«Dopo aver interpretato tanti personaggi solari, positivi e accattivanti, mi divertiva l' idea di cambiare registro: la mia Sandra è antipatica, odia la madre e le proprie radici proletarie. Sono ancora la ragazzina che amava travestirsi».

Sta cambiando anche il cinema, sempre più orientato a puntare sulle protagoniste femminili?

«Senza dubbio. I registi si sono accorti che le donne fanno incassare e io, per fortuna, ho l' età giusta per cavalcare questa rivoluzione. Ma non mi passa per l' anticamera del cervello l' idea di portare sullo schermo dei proclami femministi: voglio raccontare delle storie interessanti e capaci di dare emozioni al pubblico».

Avverte anche nella società una virata femminista?

«Sì, c' è nell' aria un risveglio che produce una certa ebollizione. Mi fa pensare al secolo dei Lumi...La coscienza collettiva ha cominciato a riflettere sul ruolo della donna e il cinema ha il potere di influenzare la mentalità della gente, combattendo disparità e pregiudizi. A condizione di non essere mai noioso».

Rebelles è nato sulla scia del movimento #MeToo?

«No, il regista l' ha scritto prima della mobilitazione contro le molestie, quindi è un precursore. Le protagoniste del film non giocano a fare i maschi: sono all' avanguardia perché prendono in mano il proprio destino. E dimostrano che, quando una donna si emancipa, tutto è possibile».

Ammetterà che la scena della castrazione è un po' forte...

«Rappresentava un' autentica scommessa. Abbiamo puntato sulla chiave tragicomica per rendere la situazione credibile e, al tempo stesso, disinnescarla. Ci siamo riusciti, credo».

Che effetto le ha fatto, dopo The Young Pope, tornare sul set di Sorrentino e dare una svolta al suo personaggio?

«È stato appassionante. Paolo mi ha spiegato che, attraverso il mio ruolo, intendeva rendere omaggio alla forza delle donne. È per questo che, nell' universo tutto maschile, misterioso e oscuro del Vaticano, Sofia è l' unica persona che indossi abiti chiari».

E il pubblico scopre la sua sensualità.

«Equivale alla luce e rende in pieno il carattere positivo del mio personaggio che fa molto bene a Papa Brannox-John Malkovich. Sul set ci siamo divertiti, Sorrentino sceglie soltanto attori simpatici e intelligenti. Se si farà la terza stagione della serie, sono pronta».

Intanto che progetti ha?

«Ho girato La comédie humaine, un film di Xavier Giannoli ispirato a Balzac, nel ruolo di una baronessa amante di Xavier Dolan. E The French Dispacht di Wes Anderson, un western. In De son vivant sarò invece un medico, diretta da Emmanuelle Bercot. È bello lavorare con le donne».

Arianna Finos per la Repubblica il 3 febbraio 2020. Cécile De France è uscita dai salotti borghesi del cinema francese per entrare nella commedia proletaria di Alain Auduit, Ribelli, un milione di spettatori Oltralpe. L' attrice belga - che in queste settimane vediamo su Sky nelle mise eleganti di Sophia in The New Pope di Paolo Sorrentino - ha fatto un' immersione nel trash per incarnare un' ex reginetta di bellezza: pelliccia di leopardo sintetica, trucco pesante e unghia finte - costretta a tornare nella città natale, Boulogne- sur-Mer e lavorare come operaia in una fabbrica di pesce in scatola. Aggredita dal capo, reagisce e ne causa la morte, fuggendo poi con due colleghe e una borsa piena di soldi. All' Hotel Du Collectionneur, sede dei Rendez-Vous, gli appuntamenti del cinema francese che vedremo in Italia, l' attrice belga si presenta con i capelli scarmigliati e un largo maglione infeltrito. «Faccio due film l' anno, per il resto trascorro il tempo con la famiglia, nella natura», spiega. Ce l' ha messa tutta per farsi sgradevole e trash in questo film. «Ci riesco, no? La volevamo così, detestabile, sprezzante. Non ha saputo tirar fuori niente dal titolo di Miss Nord-Pas-de-Calais, è vissuta in Costa Azzurra, uomini sempre sbagliati. Si vergogna delle sue origini proletarie. È una donna superficiale in un momento della vita in cui la vernice sta iniziando a sgretolarsi e gli artifici di bellezza sfioriscono. Vorrebbe, tornata a casa, guadagnare il minimo per potersene andare di nuovo. Ma piano piano cambia, scopre cose che non sa del suo passato, ritrova una parte mancante di sé che l' aiuta a ricongiungersi con la famiglia e le sue origini». Intanto con le sue colleghe ne combina di tutti i colori. «Quando mai capita di sparare, fuggire, colpire un uomo che cerca di violentarti staccandogli un pezzo di pene in un film burlesco, tragicomico, western, rock? È stato come trasformarsi in un' eroina tarantiniana alla Kill Bill, vivere la fuga di Thelma e Louise. Abbracciare i toni di certe commedie sociali di Ken Loach, o film come Full Monty. Cose che non si vedono nel cinema francese». Un film non femminista, ci tiene a dire, «un film femminile. Non contro gli uomini. Non diamo la colpa a nessuno, non c' è nessun discorso morale. Di certo il messaggio non è che bisogna staccare il pene ai violentatori. Semmai è un film in cui le donne non hanno bisogno di uomini per aver successo o sbagliare. Il film è stato una boccata d' aria fresca per il pubblico, che lo ha amato, così diverso dai drammi borghesi che siamo abituati a vedere. E alcune donne si sono ritrovate a vivere un' avventura per procura, attraverso le nostre tre antieroine». Quest' anno ai Rendez-Vous ci sono molte più registe del passato. «Le cose stanno cambiando, anche se c' è molto da fare. Dopo trenta film e ventisette anni di carriera per la prima volta in Mademoiselle De Joncquiéres sono stata pagata quanto il mio co-protagonista, Édouard Baer». Parla volentieri della sua Sophie, che in The New Pope mostra un lato oscuro e ambiguo. «Ha ragione, il personaggio si è sviluppato in modo incredibile. Nella prima serie ne abbiamo conosciuto la superfice, ora stiamo scoprendo la sua intimità, il marito, la vita amorosa. Paolo ha dato a me e Ludivine Seigner una grande occasione. Tutti i personaggi dell' universo di Sorrentino sono ambigui, ambivalenti, pieni di ombre. A partire dal papa Jude Law e dal nuovo pontefice John Malkovich». Cos' ha imparato in questo lungo viaggio con Sorrentino? «Tante cose. Ho studiato il suo sguardo, adoro il modo in cui sa mettere in scena gli attori, come una coreografia, una pittura, uno spettacolo teatrale. In Francia non c' è una costruzione, come fa lui, che utilizza musica, il coro, la composizione geometria dell' immagine. La sua è una ricerca estetica unica e fortissima, sorrentiniana direi. Io vengo dal teatro è questo modo di lavorare per me è perfetto. Essere diretta da lui mi fa sentire come una musa, la modella di un pittore: è come essere in un atelier di scultura e tu sei nuda - perché un artista usa l' immagine del tuo corpo - ma sai che questo artista sta creando qualcosa di unico e perciò sei felice di fargli da modella».

·        Charlie Sheen.

Charlie Sheen, tutti i suoi guai: dai problemi con alcol e droga alle accuse di stupro. Arianna Ascione il 4 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. La tormentata vita personale dell’attore di «Platoon» e «Hot Shots!», tra scandali, dipendenze e arresti.

Il licenziamento da «Due uomini e mezzo». Problemi sul set, arresti, divorzi burrascosi, l’annuncio della sieropositività: spesso più che dei film interpretati da Charlie Sheen (come «Hot Shots!», in onda martedì 4 agosto alle 21.00 su Comedy Central, «Platoon» e «Wall Street») si è parlato degli scandali che l’hanno visto protagonista. Il nome del bad boy di Hollywood, componente di una illustre dinastia di attori (fanno questo mestiere suo padre Martin e i suoi fratelli Emilio, Ramon e Renée Estevez), è finito più di una volta sui giornali per i suoi eccessi, tra difficoltà di gestione della rabbia e soprattutto dipendenze assortite che per anni hanno alimentato il suo comportamento autodistruttivo. Lo stesso che ha provocato il suo licenziamento da «Due uomini e mezzo», la popolarissima serie tv in cui ha recitato dal 2003 al 2011. Sheen è arrivato a guadagnare 1,25 milioni di dollari a episodio, ma è stato buttato fuori dalla produzione per aver rivolto a produttori e sceneggiatori della serie - in particolare al producer Chuck Lorre e al manager Mark Burg - pesanti insulti antisemiti.

Problemi con alcol e droghe. Risale al 1998 il suo ricovero in ospedale per un’overdose di cocaina che poteva essergli fatale. Sheen fu costretto a seguire una cura disintossicante, ma abbandonò la clinica dopo poche ore. Ha combattuto contro le sue dipendenze a più riprese fino al 2018, quando si è finalmente ripulito (ha detto di averlo fatto per i suoi figli). Ed è riuscito ad abbandonare anche un altro vizio: le sigarette. «Se potessi tornare indietro nel tempo e non iniziare lo farei assolutamente» ha confessato su Twitter lo scorso 4 luglio.

L’arresto per violenza domestica. Il giorno di Natale nel 2009 l’attore lo ha trascorso in una cella del Colorado: era stato arrestato qualche ora prima ad Aspen, nota località sciistica americana, accusato di violenza domestica nei confronti della terza moglie Brooke Mueller (le ha puntato un coltello alla gola). La coppia ha divorziato nel 2010 e Mueller ha richiesto - e ottenuto - l’emissione di un’ordinanza restrittiva.

La revisione degli assegni di divorzio. Il fu attore più pagato di Hollywood nel 2018 si è visto costretto a chiedere una revisione degli assegni di divorzio versati alle due ex mogli (Brooke Mueller e la seconda consorte, Denise Richards) per il mantenimento dei quattro figli. Per colpa dei suoi problemi infatti, ha rivelato, non è più riuscito «a trovare un lavoro stabile»: «Sono finito nella lista nera di Hollywood. Tutto ciò ha comportato una significativa riduzione dei miei guadagni».

L’intercettazione shock. La relazione con Scottine Ross, ex pornostar conosciuta con il nome d’arte Brett Rossi, è terminata in modo burrascoso nel 2014: lei lo ha denunciato per violenze, per averle inflitto stress emotivo, ma anche per averle nascosto di essere sieropositivo (l’attore ha in seguito smentito questa circostanza). Due anni dopo è stato accusato di aver cercato di assoldare qualcuno per eliminare l’ex fidanzata. Queste le parole di Sheen in un’intercettazione telefonica tra lui e il presunto sicario: «Deve essere sepolta. Sono disposto a spendere 20 mila dollari per ucciderla».

Le accuse di Corey Feldman. Nel documentario «(My) Truth: The Rape of Two Coreys» (2018) Corey Feldman ha accusato Charlie Sheen di aver stuprato nel 1986 Corey Haim, morto nel 2010 a soli 38 anni (accuse già apparse nel 2017 sul National Enquire). I due quell’anno recitavano in «Lucas» di David Seltzer: Sheen aveva 19 anni, mentre Haim ne aveva soltanto 14. «Queste accuse malate, contorte e bizzarre non si sono mai verificate» ha replicato Sheen, che ha invitato a «considerare la fonte e leggere cosa ha da dire Judy Haim» (ovvero la madre dell’attore che nel 2017 aveva già smentito la versione di Feldman).

·        Checco Zalone.

Giorgio Carbone per “Libero quotidiano” il 21 gennaio 2020. Che figura. Perdere il primato della classifica degli incassi dopo tre settimane di dominio può non essere un disonore. Ma perderlo contro due scalzacani di youtuber e perderlo sonoramente, facendo nel weekend la metà degli introiti degli scalzacane, eh sì, è roba d' andarsi quasi a nascondere. È successo. Nell' ultimo fine settimana. La macchina possente di Tolo Tolo di Checco Zalone s' è quasi stoppata, superata di molte lunghezze (in cifre, 5 milioni 438 contro 2.164.000) da Me contro Te, la vendetta del singor S del duo siciliano Luì e Sofì (all' anagrafe Luigi Calagna e Sofia Scalia). Chi sono costoro? Per i comuni spettatori cinematografici, ricordiamo che sono due studenti (lui oggi ventisettenne, lei ventiduenne) che sei anni fa ebbero l' idea vincente di un programmino su Youtube imperniato almeno all' inizio sulle gare di coppia (donde, Me contro Te). Zitti zitti, in sei anni si sono fatti uno show con miliardi di collegamenti (per la maggior parte dovuti a un pubblico in età prescolare). Un pubblico che s' è rivelato presente in dosi massicce quando i due hanno fatto il grande balzo del cinema. Come? Con una favoletta dove i magnifici due sono alle prese col solito mattocchio, il signor S. del titolo. Un balzo riuscito benissimo. Almeno nell' ultimo weekend (dove Zalone è stato sotterrato). Ma mettiamo che il ribaltone sia stata solo una combinazione, che tra qualche giorno (Me contro Te avrà esaurito i pochi giorni di programmazione previsti). Mettiamo che Tolo Tolo riprenda la testa. Intanto però in casa Zalone qualcuno comunque ha forse ragione di preoccuparsi. Perchè beccarle dagli youtuber potrebbe essere un incidente di percorso, come una Juventus che busca in casa dalla Spal, ma se intanto controlli il botteghino e scopri che dopo venti giorni gli introiti sono inferiori al previsto, allora sì che c' è qualche spazio per grigi pensieri. Bene. Constatazione del ventesimo giorno. Tolo Tolo sta facendo meno di Quo Vado (penultima zalonata) e di Sole a catinelle (terzultima). Intendiamoci. Tolo può recuperare. Essendo diventato per antonomasia «il film che tutti debbono vedere» è possibile che usufruisca di una cospicua coda di pubblico da qui a febbraio. Mettiamo però che abbia sparato tutte le principali cartucce. E allora vuol dire che l' indice di gradimento non è stato quello auspicato. Sul comico barese s' è abbattuto forse il castigamatti di sempre, il passaparola, un giudice infallibile dal parere non opinabile come può essere quello di un critico o di un press agent. Ora il passaparola di Tolo Tolo non si può definire entusiasta. Tanta gente è andata a vederlo ma qualche giorno, dopo al caffè o in ufficio, non ha rovesciato quel grande amore per il film («Sì è carino, però...», «Sì, lui fa sempre ridere però...», «Sì, c' è una scena che fa sbellicare, però...»). A furia di «Sì, però» Tolo Tolo sta facendo un' evidente fatica a rimontare quei venti milioni che lo separano dal boom di Quo vado. Cosa ha giocato contro lo Zalone numero cinque? Il tema dell' emigrazione, che infilato nel suo fulminante promo è stato uno splendido trampolino pubblicitario, ma diluito in un film di cento minuti ha inchiodato il film su parecchie sacche di noia (si sbadiglia, oh se si sbadiglia). Noia perché è spesso evidente che il Checco non sa che pesci pigliare, che il tema è troppo pesante e ingrato per le sue fragili spalle (di regista, se non di entertainer). E il dubbio forse magari comincia a divorarlo. Che potrà fare nel suo numero sei?

Me Contro Te, chi sono Luì e Sofì: la coppia nata su YouTube che ha battuto Checco Zalone al cinema. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Michela Rovelli. Non hanno neanche trent’anni e da un piccolo paese della Sicilia nel giro di cinque anni hanno conquistato milioni di bambini di tutta Italia. I loro nomi d’arte sono “Sofì” e “Luì”. Insieme formano il duo Me Contro Te che su YouTube vanta 4,6 milioni di iscritti, su Instagram 1,5 milioni e su TikTok 1,6 milioni. Non solo Youtuber, ma vera e propria meteora social, dunque, e non solo. Perché come capita sempre più spesso, le due star dai media nuovi e virtuali hanno tentato la conquista dei media più tradizionali. Con successo. Il più recente al cinema, dove il loro primo film, Me contro te il film - La vendetta del signor S, in un solo weekend ha incassato oltre 5 milioni di euro, riuscendo a battere l’ultima produzione di Checco Zalone, Tolo Tolo, incrollabile successo fermo in prima posizione al botteghino per venti giorni di fila.I loro nomi di battesimo sono Sofia Scalia e Luigi Calagna. Si conoscono (e fidanzano) nel 2013. Un anno dopo - il 4 ottobre 2014 - il loro primo video su YouTube, che oggi conta 3,6 milioni di visualizzazioni ma allora era stato creato quasi come un gioco. Sfondo lilla, i due ragazzi (giovanissimi) in primo piano a sfidarsi in una “Maze Runner Challenge”. Ognuno deve riuscire ad uscire da un labirinto disegnato su un iPad dall’altro. In mezzo, battute, scherzi e dolci prese in giro dei due fidanzati sempre affiatati. Senza trucco, senza microfoni, senza nessun effetto scenico ma soprattutto senza parolacce né allusioni. Il linguaggio dei Me Contro Te sin da subito è pulito, semplice, pensato per i bambini. E proprio i bambini - o il Team Trote, come loro chiamano i propri follower - sono i destinatari privilegiati di questo canale. E i genitori apprezzano. A metà tra fratelli maggiori e compagni di gioco, i due ragazzi siciliani si sono ritrovati a intrattenere milioni dei loro figli attraverso smartphone e tablet. Facendoli divertire senza mai esagerare. Una sorta di Albero Azzurro versione 2.0. Un successo, per grandi e piccoli, tanto da vincere nel 2018 il premio Moige, assegnato alla Camera dei Deputati dal Movimento Italiano Genitori ai programmi più adatti alle famiglie. Il canale Me Contro Te, si dice, «risulta particolarmente educativo e la visione dei loro filmati è consigliabile a un pubblico di bambini perché stimola la fantasia».Nei loro video si lanciano le cosiddette Challenge, sfide virali molto in voga tra gli YouTuber (e tra chi li segue), parlano della loro vita di tutti i giorni - in compagnia dei loro due chihuahua Kira e Ray - e giocano con lo slime, la gelatina gommosa e multicolor da produrre direttamente a casa che è diventata quasi una moda sui banchi di scuola dei più piccoli. Oltretutto, cantano. Nel 2016 i Me Contro Te aprono il loro secondo canale su YouTube (Me Contro Te Music, 1,2 milioni di iscritti) dove si danno alla musica. E infatti è cantato proprio da loro “Insieme”, il brano finale del film che sta scalando le classifiche. Nel 2018 infine, un terzo canale, Me Contro Te Extra (539mila iscritti), la cui descrizione è: «Tutto ciò che non vedete nei nostri daily vlog». Qui i due ragazzi mostrano il backstage della loro vita virtuale, con tanto di interviste e servizi televisivi che li riguardano.L’impero dei Me Contro Te non ha però confini molto più estesi, che oltre a YouTube coprono anche i principali social seguiti dai ragazzi più giovani - Instagram e TikTok - e che si è ampliato fino a coinvolgere televisione, editoria e ecommerce. Luì e Sofì nel 2016 partecipano alla seconda edizione del programma Sky SocialFace insieme alle più grandi star di YouTube, dai Mates a Favij. E nel 2017 vengono scelti da Disney Channel per la produzione LikeMe. Grandi successi anche in libreria. I loro libri, editi Mondadori Electa, fanno registrare vendite da capogiro. Il primo, Divertiti con Luì e Sofì - Il fantalibro dei Me Contro Te, risale al 2018. Seguito poi nel 2019 da Entra nel mondo di Luì e Sofì e infine Le fantafiabe di Luì e Sofì. La coppia non si è risparmiata nemmeno nel merchandising, con magliette, felpe, spille, teli mare e persino un album di figurine. Infine il cinema, con la commedia diretta da Gianluca Leuzzi che ha fatto prendere d’assalto le sale. Da un esercito di bambini.

Perché andare a vedere Tolo Tolo, il nuovo film di Checco Zalone. Lisa Pendezza il 27/12/2019 su Notizie.it. Se è vero che “bene o male purché se ne parli”, allora Checco Zalone ha fatto centro. Il suo nuovo film, Tolo Tolo, ha fatto discutere ben prima del suo arrivo nelle sale. Un po’ perché è di un volto noto come Luca Medici che stiamo parlando, un po’ perché difficilmente ci si può aspettare qualcosa di diverso quando si sceglie come trailer un videoclip come Immigrato. E allora piovono critiche e accuse di razzismo da un lato; plauso e l’augurio di diventare senatore a vita dall’altro. Ma per capire davvero cosa sia Tolo Tolo bisogna, prima di tutto, smettere di parlare per partito preso e andare al cinema. Noi di Notizie.it abbiamo assistito all’anteprima e vi spieghiamo perché dovreste vederlo anche voi. Ci vuole una dose non indifferente di coraggio per girare un film come Tolo Tolo, che ha il difficilissimo compito di raccontare in modo comico una realtà come quella dei migranti. Inevitabile finire in mezzo al fuoco incrociato di chi da un lato parla di razzismo e chi, dall’altro, di buonismo radical-chic. Entrambi dimostrano di aver capito ben poco di quello che Zalone vuole raccontare: la storia di un imprenditore fallito che si nasconde in Africa per sfuggire alle proprie responsabilità e alla propria famiglia, per poi decidere di compiere un viaggio che lo porterà dal Kenya all’Italia (superando il deserto, i lager libici e il Mediterraneo) come un qualsiasi migrante clandestino. Lo accompagnano nel suo percorso un appassionato di neorealismo, una donna combattiva dal passato misterioso e un bambino, Doudou (“come il cane di Berlusconi”), a cui Checco insegna a nuotare tolo tolo, ovvero solo solo. Ma chi comincia il cammino in solitaria e lo conclude parte di una comunità è proprio il protagonista. Insomma, il più tradizionale viaggio di formazione alla ricerca di un futuro migliore inserito nell’attualissimo contesto delle migrazioni, con battute non poi molto distanti da quelle che Zalone ha già inserito nelle sue opere precedenti (da “Nicholas, ti ho già spiegato la differenza tra te e le persone bianche” in Cado dalle nubi a “Farah è un po’ negra, ma giusto qualche gradazione” in Che bella giornata). Chi non ha mai canticchiato “gli uomini sessuali sono gente normali, proprio come noi”? Oggi inserirla in un film sarebbe impensabile, commenta lo stesso attore in un’intervista. A essere cambiati negli ultimi dieci anni siamo noi “italiani medi” di cui lo Zalone personaggio è il perfetto rappresentante, somma di (molti) vizi e (qualche) virtù. Non sappiamo più ridere dei nostri difetti (come individui e come società), non siamo più in grado di esorcizzare i problemi con una risata. Resta però intatta la capacità rara e acuta di Luca Medici di osservare il mondo e dipingerne i chiaroscuri giocando con i luoghi comuni e ribaltandoli, mescolando intrattenimento e riflessione. Ha ragione Alexis Michalik, che nel film interpreta il fotografo francese Alexandre Lemaitre: “Per me riuscire a far ridere è difficile, far ridere in modo intelligente è ancora più difficile e far ridere con umanità come fa lui è semplicemente meraviglioso”. Il risultato è un film che fa ridere ma soprattutto sorridere, talvolta anche amaramente, e che attraverso il filtro della comicità riesce a parlare di guerra, terrorismo e trafficanti di esseri umani, della disperazione di chi pur di compiere “il grande viaggio” è disposto a vendere il proprio corpo o i propri amici. Il tutto con una sensibilità e una poesia inaspettata per una commedia “popolare” come quelle di Luca Medici. In conclusione, non andate a vedere Tolo Tolo se quello che volete è un film sovranista e anti-immigrazione come è stato dipinto dall’uscita di Immigrato (un piccolo spoiler: nella pellicola non c’è traccia del videoclip), né tanto meno un manifesto contro Salvini o l’ennesimo racconto strappalacrime di un bambino migrante in fuga dalla guerra. Andate al cinema per osservare la questione migratoria con uno sguardo nuovo, per vederla per quello che è: una realtà tragica con cui convivere lasciando da parte allarmismi e discriminazioni, oltre gli slogan dei porti aperti e dei porti chiusi. Guardate Tolo Tolo per riflettere con leggerezza solo apparente sull’Italia di oggi e su cosa sta diventando. Per ricordare che – come diagnosticato da un sedicente medico su un pullman stipato in mezzo al deserto – “il fascismo è come la candida. È dentro tutti noi, basta solo un po’ di caldo e di stress” perché venga alla luce.

Tolo Tolo di Checco Zalone è un geniale sberleffo verso i cattivisti. Infuria il dibattito. Stroncato da destra, criticato a sinistra, premiato dal pubblico. Ma il successo è il primo segnale di un’inversione di tendenza: perché mostra che l'anti-politica non è più un fenomeno di massa. Massimiliano Panarari il 13 gennaio 2020 su L'Espresso. Stratosferico successo di pubblico e di critica. Già ottenerli ambedue è una mission (quasi) impossible. Farcela nell’epoca della crisi strutturale del cinema è un “miracolo italiano”. Tutti a vedere “ Tolo Tolo ”, dunque, perché in effetti Luca Medici (in arte Checco Zalone) è uno dei migliori e più caustici ritrattisti in circolazione dell’animus nazionale e si è rivelato via via sempre più capace di seguire in presa diretta i mutamenti repentini (oltre che le tendenze di lunga durata) della società italiana. Affinando le sue istantanee della figura - variamente declinata - dell’Arcitaliano, e affondandoci in maniera chirurgica il suo bisturi. Precisamente come in questi anni ha fatto pure - con un’altra cifra distintiva - Antonio Albanese, a conferma di quanto la comicità sia sempre più diventata nel corso di questi anni un potente telescopio “politico” per osservare l’antropologia italica. E per restituire un’immagine di noi che, a dispetto dei numerosi aedi compiaciuti dell’innocentismo ontologico e della deresponsabilizzazione a prescindere dell’intoccabile “popolo”, corrisponde decisamente di più a un’anamorfosi che non allo specchio che dovrebbe rimandare l’immagine autoassolutoria dei “più belli del reame”. E, così, proprio questa recente comicità dalla spiccata impronta satirica si è rivelata capace di illuminare le (tante) zone d’ombra del Belpaese. E per la verità, infatti, il primo film da regista di Medici-Zalone non è piaciuto proprio a tutti. Anzi, la pellicola ha lasciato sul campo tanti delusi e arrabbiati - alcuni veramente inferociti. Come le firme di alcuni degli house organ del destra-centro, la nuova configurazione di quello che era stato una volta il centrodestra, dove da tempo la componente liberalconservatrice risulta schiacciata dal nazionalpopulismo in salsa varia che la fa ideologicamente da padrone dettando l’agenda. L’insoddisfazione arriva anche da una parte del pubblico, perché molti dei fan zaloniani antemarcia hanno trovato il film non abbastanza ridanciano per le loro aspettative. E, per finire, ci sono i politici di destra-destra, da Ignazio La Russa (che ha invocato il rimborso per il film «noioso») a Simone Di Stefano (uno dei leader di Casa Pound). Per carità, de gustibus non est disputandum, ma caricare a testa bassa Tolo Tolo accusandolo di fare propaganda «buonista», «immigrazionista», «globalista» e «terzomondista», per non dire degli insulti internettiani che piovono su Zalone dai soliti leoni da tastiera e troll sovranisti, ci dice molto della visione del mondo di una certa destra populista, come pure dei pruriti e dei riflessi pavloviani di alcuni settori della società attuale. Contrariamente alla vulgata che il populsovranismo nostrano vuole accreditare, qui non siamo dalle parti del cinema progressista che, peraltro, con il genere narrativo “favolistico” (a cui appartiene per molti versi questo film) non ha una grande dimestichezza. La sinistra ha avuto parecchi problemi a metabolizzare lo zalonismo, come ha rilevato Andrea Minuz (nel suo “Quando c’eravamo noi. Nostalgia e crisi della sinistra nel cinema italiano da Berlinguer a Checco Zalone”, Rubbettino). E, se è vero che Paolo Virzì ha cosceneggiato la pellicola, cionondimeno nulla viene risparmiato a taluni tic da gauche caviar come pure all’opportunismo di qualche migrante. Come ha notato Paolo Di Paolo, Tolo Tolo rappresenta quindi, piuttosto, un film «poco conciliante» e «intelligente al punto che può sgusciare via da sotto qualunque cappello». Di qui il dibattito che imperversa in lungo e in largo. Ma strattonare da una parte o dall’altra una storia che sa essere ambivalente costituisce l’ennesima rappresentazione plastica di un Paese abituato da tempi immemori a mettere in scena lo scontro tra guelfi e ghibellini, e che ha vissuto un’ulteriore (e inquietante) spinta alla polarizzazione nell’epoca dei social e della politica dell’algoritmo. Due paiono, invece, gli elementi più veritieri di questa storia, e dell’esorbitante discussione scoppiata intorno al film. Il primo è che dagli scoppiettanti esordi di “Cado dalle nuvole” (2006), pellicola dopo pellicola, Checco Zalone sembra avere sovvertito il titolo del libro di Lenin “Un passo avanti e due indietro” (1904). Il rovesciamento del passo del gambero lo ha portato, quindi, a fare due passi in avanti congedandosi dal modello idealtipico del cinepanettone. Dove la volgarità e le risate crasse - di cui vari spettatori lamentano appunto la mancanza in Tolo Tolo - erano certamente al servizio della “logica del produttore”, per cui il meccanismo del dumbing down (l’abbassamento del livello qualitativo nei prodotti del mercato mediatico) serviva innanzitutto ad allargare la platea e il business. Ma si erano fatte anche cassa di risonanza - sempre più compiaciuta per tutto un pezzo del Paese - di atteggiamenti a cui l’Italia della tanto vituperata Prima Repubblica non aveva mai riconosciuto dignità formale. Ovvero il cinismo scambiato con scaltrezza, il becerume contrabbandato per sincerità e veracità, l’arroganza identificata con la sicurezza di sé, il pontificare senza preparazione su ogni argomento barattato come inalienabile diritto individuale a esprimersi. Tutti quanti sdoganati, e dilaganti, a partire dagli infiniti anni Ottanta che sono arrivati all’Italia odierna, infaticabile gabinetto dei dottor Caligari del populismo. Ecco perché l’ultimo Zalone ha scontentato diversi: il suo è un “qualunquismo buono” (come lo aveva etichettato Nicola Lagioia) e, in ogni caso, un “qualunquismo intelligente” (Mariarosa Mancuso), quando in molti, invece, ne vorrebbero da lui uno esclusivamente cattivo in linea con il proprio (idem) sentire. Attraverso i suoi personaggi mediocri, tronfi, improvvidi e saccenti, e mediante la maschera grottesca delle voci che fanno risorgere il «fascismo che è in tutti» (e che si rivela come l’infezione della candida), Checco ridicolizza e mette in caricatura l’Italia cattivista. Che, come sappiamo, è forte, diffusa, intollerante e pronta a sguainare gli artigli. E si è imbandierata dietro il vessillo della scorrettezza politica a tutti i costi che, importato dall’America, si è convertito nell’ossessione dei populisti nostrani. Anche se non ce n’era affatto bisogno, poiché corrisponde, a ben guardare, all’idea dell’Italia già illustrata qualche secolo fa da Francesco Guicciardini (1483-1540) col suo pessimismo disilluso riguardo l’«agire civile» dei nostri connazionali, tendente al «particulare» (e, spesso, direttamente al male), e viziato dall’interesse privato. In buona sostanza, anche lo zalonismo ci conferma come Guicciardini avesse già capito moltissimo dell’antropologia collettiva, essendo il portatore con la sua ragion pessimista di un realismo politico per certi versi più “realista” dell’onnipresente (e tirato per la giacchetta a seconda della bisogna) Machiavelli. Insomma, a dispetto degli anatemi dei politicamente scorrettissimi nostrani, Zalone non ha realizzato un film ideologicamente buonista, né men che meno “comunista”. E, invece, questo sì, si è messo a fare dell’anti-antipolitica, e ha satireggiato un po’ di tesi sovraniste. Di questi tempi rabbiosi e rancorosi, un’autentica boccata d’aria per il discorso pubblico.

Tolo Tolo di Checco Zalone il 28 dicembre 2019. Finché siamo in Puglia, anzi nelle Murge, in quel di Spinazzola, neanche 7000 abitanti, è tutto facile. Lo sappiamo. Lì Checco è re. Si permette anche il lusso di riesumare Nicola Di Bari come zio nostalgico del Duce, da unire a una mamma, due ex-mogli, un avvocato e una valanga di parenti vari. C’è pure un personaggetto minore, tal Gramegna interpretato da Gianni D’Addario che da galoppino locale alla Di Maio diventerà, in breve, assessore, sindaco, prefetto, ministro degli esteri, presidente del consiglio alla Conte. Una delle invenzioni migliori del film. E’ l’Italia che conosciamo e che nessuno oggi sa descrivere bene come Checco. Le cose si complicano quando l’azione si sposta in Africa, in Kenya, dove è finito il protagonista in fuga dai creditori ed ex-mogli e il film parte davvero a ritmo della magistrale “Vagabondo” di Nicola Di Bari. Anche perché questo Tolo Tolo, quinto film di Checco Zalone, il primo da regista, che oltre a interpretarlo lo ha scritto (soggetto e sceneggiatura) assieme a Paolo Virzì, è particolarmente ambizioso. Perché affronta temi importanti e vere tragedie umane come il viaggio della speranza dei migranti, i barconi, i porti chiusi con le armi della commedia all’italiana, pensiamo tutti ovviamente a ‘’Riusciranno i nostri eroi…’’ di Ettore Scola con Alberto Sordi e Bernard Blier, e magari anche del cinema comico, penso a "Due bianchi nell’Africa Nera" di Bruno Corbucci con Franco e Ciccio, sgangherata e immediata parodia del film di Scola. E non sempre commedia e cinema comico bastano per trattare temi così grandi. Si rischia, inoltre, di non essere capiti, di provocare ambiguità, polveroni, inutili dibattitti in tv. Si è già visto lo stato delle cose rispetto al video “Immigrato” lanciato come teaser del film che ha già provocato discussioni infinite anche nelle migliori famiglie. Esattamente come nel film di Scola, cinepanettone del lontano 1968, quel che interessa di più a Zalone e presumo anche a Virzì, vecchio age-scarpelliano nonché scola-monicelliano, è la parte più nostra, cioè il viaggio in Africa come metafora del viaggio dentro alla testa confusa dell’italiano medio. Con tanto di recupero del suo mai sopito fascismo, che, come spiega bene Checco, “è come la candida, con lo stress e col caldo esce fuori…”. Così, ogni tanto, durante il viaggio di ritorno dal Kenya verso l’Italia del piccolo imprenditore pugliese dato per disperso in Africa anche dal tg di Enrico Mentana e da “Non è l’Arena” di Massimo Giletti, a Zalone torna su la malattia. “Hai avuto un attacco di fascismo”, gli spiega un vecchio stregone di fronte a un Checco Zalone che si sente dentro la voce del Duce ai tempi dell’Impero. “Sai come si cura?”, gli chiede lo stregone. “Con Gentalyn?” risponde Checco. “No, con l’amore”. Ecco. Già trattare il fascismo come una malattia, anzi come la Candida, è una trovata divertente che ci fa capire da che parte stanno i due sceneggiatori. Anche la perdita di identità di Checco, che si sente “uno di loro”, uno dei tanti migranti in mezzo al deserto, che si innamora della bella Idjaba di Manda Touré e sogna un’Italia diversa, con la nazionale tutta nera mentre ascoltiamo Mino Reitano cantare “Italia Italia… Di terra bella e uguale non ce n’è!” è una trovata coraggiosa e notevole. E le scelte delle canzoni italiane d’epoca, devo dire, è quasi sempre magistrale, da “La lontananza” di Domenico Modugno a “L’arca di Noé” di Sergio Endrigo, che sentiamo quando parte il barcone verso l’Italia (“Partirà… la nave partirà…”), al “Viva l’Italia” di Francesco De Gregorio, forse un po’ ovvio. Insomma. Quando gioca sulle manie e sui gusti dell’italiano di provincia, quando il viaggio è dentro di sé, Checco è imbattile, come lo erano Alberto Sordi e Nino Manfredi ai tempi della commedia all’italiana. Magari le cose cambiano e qualcosa non funziona sempre quando ci si sposta dalla commedia a temi e situazioni più drammatiche. Anche perché non sono più i tempi di Scola e dell’Africa lontana del ’68, ma di qualcosa che abbiamo di fronte agli occhi tutti i giorni in tv e sui giornali, anche se non lo vogliamo vedere. La scelta di Zalone è sempre quella di rendere il tutto meno drammatico e realistico di come dovrebbe essere. Quindi non ci sono né morti in mare né sangue né situazioni poco spiegabili ai bambini in sala. La bella Idjaba si prostituisce o no? Qualcuno muore con l’arrivo della grande onda? E’ tutto confuso. Credo per scelta. E ci sembra strano con uno sceneggiatore così accorto come Paolo Virzì, che doveva essere anche il primo regista del film. Tutto il personaggio di Omar, Souleyman Silla, l’amico cameriere cinéphile pazzo del neorealismo italiano che vuole diventare regista, ha rivelato Checco in conferenza stampa, per esempio, è modellato proprio su un amico di Virzì. Mentre il personaggio del bel giornalista francese Alexandre, interpretato dalla star di ‘’Cyrano e io’’ Alexis Michalik, con tanto di assurda sponsorizzazione-marchetta a “Vanity Fair” (in nessun film di Checco avevamo mai visto uno sponsor, ahi,…), sembra ripreso paro-paro dal Manuel Zarzo di ‘’Riusciranno i nostri eroi…’’. Magari il bambino Dudù, con annessa battuta sul cane di Berlusconi, fa ridere ma è pesantina, è più vicino al bambino nero Boudu di ‘’’Piedone l’africano’’ con Bud Spencer. Elementi che nella costruzione drammatica del viaggio però non sempre funzionano benissimo. Anche perché non c’è un finale così forte come era quello esplosivo con Nino Manfredi del film di Scola. Anzi, ci sono forse un po’ troppi finali, a dire il vero. L’impressione è che, dovendo fare un grande film popolare targato Medusa, con lancio di 1100 copie il 1 gennaio, un film che deve arrivare almeno a 50 milioni di euro di incasso, Checco, che pure ha scelto temi così nobili e civili, si sia poi a tratti limitato nel realismo e nello schierarsi decisamente da una parte, antifascista sì antisalviniano chissà, anche se appare chiarissimo, almeno a me, cosa sta facendo e perché ha girato questo film, e gliene siamo sinceramente grati. In un periodo come questo, dopo i porti chiusi di Salvini, il razzismo quotidiano negli stadi, è già opera di grande coraggio vedere un film di così vasta diffusione e con un protagonista così popolare trattare temi civili dandoci un messaggio di speranza. Certo, con un regista più accorto, e molto cattolico, come Gennaro Nunziante, qualche grossolanità magari sarebbe stata evitata, penso a la canzoncina “la gnocca salva l’Africa”, o al cartone animato finale che mi ha lasciato un po’ perplesso. Ma credo che solo la visione del pubblico e il tempo ci possano dare uno sguardo non viziato su un film così coraggioso sul nostro presente. Perché sono tempi dove è facile sbagliare e non capire quello che gli altri ci stanno dicendo e quello che per noi è chiaro per altri è totalmente diverso. E sappiamo quanto Zalone abbia sempre odiato il moralismo e il cinema che giustifica ogni sua scelta. Meglio una battuta. Magari, alla fine, ‘’Tolo Tolo’’ è meno divertente dei suoi primi film, si sorride più che ridere, come ha detto Nichi Vendola in conferenza stampa, fa anche un grande cameo come se stesso, ma è decisamente più importante, ambizioso e difficile rispetto ai precedenti e si sente la fatica per farci pensare, per arrivare a tutti e non solamente a una fetta di pubblico. E certe battute, “è arrivato il cambiamento”, “ho parlato con i miei omologi”, “sto rimpiangendo la pizzica”, “Qui hanno fatto Il tè nel deserto… - E lo fanno ancora? – Bertolucci… - Qualsiasi marca va bene”, rimarranno. In sala dal 1 gennaio. 

"Zalone? Troppo buonista". Teresa Marchesi, Journalist and filmmaker il 27 dicembre 2019 su huffingtonpost.it. Altro che razzismo, il film è antirazzista e politicamente iper-corretto. Troppo anche per una di sinistra come me. Era scontato? Anche no. “Tolo Tolo”, il film di Checco Zalone/Luca Medici che invaderà tutte le sale d’Italia dal 1° gennaio, seppellisce tutte le accuse al suo contestato trailer ‘razzista’ semplicemente perché è l’esatto contrario: antirazzista, politicamente iper-corretto e tanto buonista - anche per una persona di sinistra come me - che forse gli incassi ne soffriranno. Quel videoclip provocatorio, “Immigrato”, è stato in sostanza una furba operazione di depistaggio. Da campione nazionale e incontrastato dei botteghini, Checco/Luca si avventura a dirigersi in proprio per la prima volta - dopo il divorzio dal suo alter ego Gennaro Nunziante, regista dei primi quattro film - e si annette la firma autorevole di Paolo Virzì, co-sceneggiatore. Ma dopo un poker di film acchiappatutto, al di là di ogni credo e bandiera, si concede anche il lusso di ipotecare qualche consenso di destra. Tra gli elettori della Meloni, per dire, molti non gradiranno che le sporadiche crisi mussoliniane del Nostro siano equiparate alle infezioni da Candida. Detta in soldoni: abbiamo tutti attacchi di fascismo, col caldo forte, ma "si combattono con l’amore". In più si mettono in burla gli approdi negati alle navi di salvataggio delle Onlus e si sbeffeggia un disoccupato ‘senzamestiere’ che scala le gerarchie diventando a velocità record Ministro degli Esteri, poi Presidente del Consiglio, e ancora più su. Sarà contento Salvini. L’unica vera ossessione del Checco protagonista è l’italica Idra fiscale, coi suoi mille volti e i suoi mille antipatici nomi. Quando la sua pacchiana impresa “Murgia e Sushi” in quel di Spinazzola (Puglia) fallisce - con un codazzo di debiti iperbolici - Checco scappa in Africa a fare il cameriere, dotato di mocassini Prada, mutande Dolce e Gabbana, camicia Armani e borsa Louis Vuitton. E qui, in fuga come il suo compagno di (s)ventura locale - cultore del Neorealismo - dalle feroci guerre del sub-continente, inizia il suo viaggio da ‘vagabondo’ a rovescio. “Vagabondo” come l’omonima hit vintage firmata dal corregionale Nicola di Bari, che fornisce anche uno dei camei attoriali del film. Però c’è anche la benedizione incarnata da Niki Vendola, che autoironizza sproloquiando, parodia di Zalone che fa la parodia di Vendola: una mise-en-abime, direbbero quelli colti...Quella di condividere - da bianchi ‘regolari’ tra i disperati africani - il ‘viaggio della speranza’, con tutte le traversie del caso, non è un’idea nuova. Lo spunto lo ha fornito Paolo Virzì, ma su qualcosa di molto simile si erano già esercitati Gianni Amelio con “Lamerica”, Aldo Baglio, Antonio Albanese…Con Zalone/Medici, onestamente, si ride parecchio, tra intermezzi musical che non esitano a mettere in burla i semi-affogati delle ‘carrette del mare’ (qualcuno inorridirà) e sbeffeggiano la salviniana massima “prima gli italiani”( “Per gli italiani prima la gnocca”, canta Checco, che si è innamorato di una pugnace africana). Sì, perché pesano, le canzoni - da Mino Reitano a De Gregori al Sergio Endrigo sanremese de “L’Arca di Noè” - tutte riconvertite al nuovo ‘credo’ di accoglienza. Nel disneyano (da “Dumbo”) cartoon finale, è una cicogna strabica che si addossa la colpa di depositare i bimbi nel continente africano, cioè nella parte sbagliata del mondo. Ma Checco promette ai bimbi sfigati quintalate di permessi di soggiorno. Quel che sorprende è che “Medusa” distribuisca, in competizione sullo stesso periodo festivo, due film come “Il Primo Natale” di Ficarra e Picone e il “Tolo Tolo” di Zalone, che giocano sullo stesso terreno non solo tematico ma anche geografico (in entrambi i casi il deserto è quello marocchino). Come si fa a piangere sulle sale di cinema vuote, se i potenziali campioni d’incasso italiani vanno insieme sul ring? Qualcuno ragiona sui costi dei biglietti per l’intera famiglia? In pista c’è anche “Pinocchio”, per non dire di “Star Wars”: un popolo che diserta i cinema, quanti film riuscirà a vedere nell’arco di tre settimane? Perché non diluire nel tempo i titoli ‘forti’ e le grandi scommesse produttive? Come diceva bene Nanni Moretti, continuiamo così, facciamoci del male…

Il comico: «Una storia poetica, non è contro Salvini». Pubblicato venerdì, 27 dicembre 2019 su Corriere.it da Valerio Cappelli. Trattandosi dell’uomo dei record, si parla molto di cifre con Checco Zalone, uscito da un film «complicato, faticoso, costoso, una bella avventura», dice il produttore Pietro Valsecchi. «Tolo Tolo», dall’1 gennaio per Medusa in 1200 copie. Aspettative? «Da 1 a 10? 10, niente ipocrisia, dobbiamo fare i soldi e riempire le sale», risponde Zalone. Le polemiche preventive: «Qualcuno ha parlato di sessismo: io non ho spogliato Manda Touré, non c’è una doccia, una tetta...». In realtà il polverone era sul razzismo dell’Italia di oggi, che all’anteprima nessuno ha scorto. «Il trailer non c'entra niente con il film — confessa Zalone —. Lo avevamo concepito come promozione, ma nessuno si aspettava che andasse a finire sulle prime pagine dei giornali». Un film che piacerà a Salvini? «Non c'è proprio nel film, comunque non volevo fare un film contro di lui. E poi se è contro di lui sarà Salvini stesso a dirlo». Gli fa eco il produttore Valsecchi: «Non avrei investito venti milioni di euro per fare un film contro Salvini». Il bambino del film (Massor Said Byria) dice una massima di Salvini: «È finita la pacchia». Il leader della Lega giorni fa ha proposto Zalone senatore a vita. «Chiacchiere — scherza il comico — io se non vedo i fatti... Salvini è l’espressione della gente, non mi pongo il problema». C’è il politico pugliese che scala il successo, e ogni volta sale sale, ministro degli Esteri, presidente del Consiglio... «Ha fatto la carriera di Di Maio, l’ho vestito come Conte e ha il linguaggio di Salvini. Ho creato un mostro. È una metafora sull’escalation verso il successo di un uomo che ricopre una carica superiore ai propri meriti». Anche il suo personaggio, che fugge per i debiti, si fa «metafora di chi è incapace di guardare oltre i suoi problemi contingenti, l’ex moglie, le tasse, mentre fuori, infuria la guerra civile».In Africa si atteggia a novello Mussolini: «È l’intolleranza che viene fuori nei momenti di difficoltà». Cameo di Nicky Vendola, ex Governatore pugliese che fa una battuta: «È un film che fa sorridere più che ridere, e commuove, turba, è molto poetico».

Crudeltà e sgradevolezze  sulle orme di Alberto Sordi. Pubblicato sabato, 28 dicembre 2019 su Corriere.it da Paolo Mereghetti. Il nuovo film del comico pugliese non ha timore di apparire sgradevole, come faceva Alberto Sordi. E ora vuole indirizzarci verso una lettura diversa. Il nuovo film con Checco Zalone pone più di una domanda. E non solo per la scelta di condividere soggetto e sceneggiatura con un «autore» come Paolo Virzì (al posto del tradizionale Gennaro Nunziante, tentato da altre avventure) così come aver deciso di assumere in proprio il ruolo di regista di sé stesso, ma anche per la scelta di un argomento altro e alto rispetto alle tradizionali disavventure del Candide opportunista con cui aveva conquistato il successo. Questa volta il personaggio Zalone, sempre apparentemente uguale nella sua commistione di qualunquismo e furberia, deve misurarsi con argomenti più spinosi del posto fisso o dell’assenteismo nazionale. Perché dopo aver ipnotizzato i cittadini di Spinazzola con i suoi sogni imprenditoriali (il sushi nelle Murge) ed essere fuggito in Africa lasciando ai parenti il peso dei suoi debiti, si trova ad affrontare quello che aveva sempre esorcizzato: il destino degli ultimi. Deve cercare di tornare in Italia insieme a un gruppo di migranti. Controvoglia, naturalmente. Da una parte c’è il personaggio che conosciamo, «meravigliosamente mediocre», che si ostina a non crescere, in sintonia con l’Italia più superficiale e opportunista e di cui gli ospiti del lussuoso resort africano dove Checco ha trovato lavoro come cameriere (se non è il Billionaire sembra una copia perfetta. Anche antropologicamente) sono il campionario ideale, con i loro luoghi comuni sulle tasse e il successo. Dall’altro c’è il lungo viaggio che deve intraprendere per fuggire dai terroristi e tornare in Italia, dove con i modi sommari dell’apologo affronta i passaggi obbligati di ogni odissea migrante: il viaggio nel deserto, la «sosta» in Libia, la traversata via mare. Costringendo il suo tradizionale personaggio a un salto di qualità. Non che diventi buono, per carità! Non sarebbe più Checco Zalone. Per tutto il viaggio sembra preoccuparsi solo della crema contro le occhiaie che non trova più, dei suoi vestiti griffati e mette sempre le sue necessità al di sopra di tutto, causando non pochi problemi ai compagni di viaggio. Chi cambia questa volta è il regista-sceneggiatore che non si limita più ad offrire al suo protagonista l’occasione per una risata, ma lo spinge verso un’altra direzione, costringendolo a misurarsi con qualcosa su cui in passato avrebbe preferito chiudere gli occhi o sorvolare con una battuta. E lo fa sia a livello di scrittura che di regia. L’esempio perfetto del primo è la tentazione mussoliniana, l’identificazione ducesca che trasfigura Zalone quando sembra non sopportare più la vicinanza con i migranti. Poteva essere una gag da lasciar interpretare al pubblico e invece il film si incarica di spiegarne il significato citando il Primo Levi di Se questo è un uomo, dove si legge che «la convinzione [che ogni straniero è nemico] giace in fondo agli animi come una infezione latente» pronta a venire a galla nei momenti di difficoltà. «Come con la candida», chiosa Zalone che non può evitare la battuta, ma la citazione da Levi è letterale e il messaggio non può arrivare più diretto e più chiaro. Qualcosa di simile mette in atto anche la regia, quando risolve certe situazioni con una canzone o un balletto, dove Zalone perde la sua specificità di personaggio per tirarsi fuori dalla storia e trasformarsi (brechtianamente? fellinianamente?) in un narratore complice, che non si accontenta solo di raccontare una storia ma vuole indirizzarci anche verso una possibile interpretazione, verso una diversa lettura. Mai ideologica, perché non è questo il compito di un comico, ma alla fine capace di evitare ogni etichetta, ogni preconcetto, ogni «infezione latente». Certo, Checco Zalone non è mai poetico, è sempre prosastico. Non vuole tradire un personaggio che si sente in dovere di essere comico: per questo non ha timore di apparire sgradevole, è spiccio e diretto nei suoi modi, non allude mai, dice senza timore. Proprio come faceva un altro grande attore-autore del cinema italiano, la cui crudeltà e sgradevolezza ne fecero il più vero e necessario dei nostri comici, Alberto Sordi. E forse Zalone sta imparando a seguire le sue orme.

Da corriere.it il 24 dicembre 2019. "Checco Zalone è sotto accusa perché é razzista? Ha fatto il film "Tolo tolo" ed è politicamente scorretto. Ma viva Checco Zalone, voglio senatore a vita Checco Zalone, non qualche reperto". Lo dice Matteo Salvini in un intervento pubblico a Chieti.

Folle, scorretto, irresistibile il film di Checco Zalone è uno schiaffo alla stupidità. Chiara Nicoletti il 29 Dicembre 2019 su Il Dubbio.  Tolo Tolo è stato scritto a quattro mani da Checco Zalone con Paolo Virzì, proprio da un’idea del regista di La prima cosa bella. Checco Zalone è un uomo nato per sognare. Lo dichiara il suo alter ego protagonista del suo primo film da regista, Tolo Tolo, e sembra una delle intenzioni alla base della pellicola in uscita nelle sale italiane dal 1 gennaio 2020. Grandi progetti, desiderio di realizzazione anche a discapito degli altri, questo il profilo del Checco di Tolo Tolo, anche questa volta e forse in maniera meno calcata e più veritiera, specchio dell’italiano medio, quello che si accontenta di vivere in mezzo ai luoghi comuni e guarda sempre la pagliuzza nell’occhio dell’altro. Recita la sinossi del film: «Non compreso da madre patria, Checco trova accoglienza in Africa. Ma una guerra lo costringerà a far ritorno percorrendo la tortuosa rotta dei migranti». Non serve altro per descrivere il film più coraggioso e politico di Luca Medici, in arte Checco Zalone perchè ora che l’ex comico di Zelig e re del botteghino è anche dietro la macchina da presa, è arrivato il vento di cambiamento: non più prendere in giro le nostre ipocrisie in maniera sottile e implicita, prediligendo la facile battuta, ma un umorismo tagliente, una satira dissacrante e metaforicamente violenta che prende lo spettatore per la camicia scuotendolo, li a rinfacciargli tutte le sue nefandezze, l’intolleranza, le bugie della politica a cui ci fa comodo credere per odiare, il razzismo. Il presagio di questo c’era stato, a giudicare dalle fiammanti polemiche dei giorni scorsi in seguito all’uscita del trailer del film, video musicale della canzone Immigrato, per il quale Zalone è stato accusato di essere razzista da una parte di Italia e in opposizione, quasi invitato a diventare senatore a vita da Matteo Salvini e il suo seguito. «Il trailer non c’entra niente con il film e ci aspettavamo di destare qualche polemica anche se non fino a questo punto» rivela Zalone e prosegue: «Non mi aspettavo di essere sulle prime pagine dei giornali e oggetto di dibattito nei talk show. Francamente mi son anche un po’ stancato e dopo 3 giorni non ho seguito più». A qualche ora dalla visione di Tolo Tolo, aleggia la definizione di film politico e anti- salviniano anche se c’è molto di più che una critica alla politica idi tolleranza zero sui rifugiati. Uno dei personaggi è un disoccupato dello stesso paese di Checco che nel corso di un breve tempo fa una carriera politica sfavillante. Nel descriverlo Zalone non si limita a descrivere Salvini: «Ha la carriera di Di Maio, l’ho vestito come Conte e ha il linguaggio di Salvini, diciamo che ho creato un mostro dei nostri tempi» scherza il regista. Cosa penserà quindi Matteo Salvini e chi lo supporta, di Tolo Tolo?: «E che cazzo ne so io di che dirà» risponde ridendo Zalone e aggiunge: «Tutto è politica. Io non mi metto a fare un film contro Salvini. Secondo me Salvini è l’espressione della gente e la gente si sentirà chiamata in causa». Prende di mira tutti infatti Checco, anche chi tanto parla ma niente fa, come i tanti intellettuali e forse anche la stampa che si riempie di frasi come quella che un famoso giornalista, incontrato sulla rotta tra camion affollati e camminate nel deserto, si vanta di decantare: «i più poveri che ho conosciuto sono quelli che hanno soltanto i soldi». Il Pierfrancesco Zalone detto Checco di Tolo Tolo conserva quell’egoismo strappa- risata dei suoi consueti personaggi ma le sue reazioni lasciano spesso increduli come la sua noncuranza in mezzo alla guerriglia. Di quella scena sotto le bombe racconta: «La scena della guerriglia in cui non vengo toccato da ciò che mi succede intorno l’ho improvvisata. Ho provato a girare me spaventato ma non funzionava mentre la vera metafora è quella che racconta chi non riesce a guardare a ciò che gli succede intorno, c’ha le cose sue. È grottesca la scena, ti scoppia una bomba vicino e non te ne frega niente. È congenito nell’uomo l’egoismo». Se le polemiche non l’hanno colpito, il neo- regista ci tiene però a rinnegare le accuse di sessismo, chiamando a supporto la sua co- protagonista Manda Touré: «Qualcuno ha parlato di sessismo eppure io non ho spogliato nessuno, non ho fatto vedere neanche il sedere di Manda. Le ho regalato un personaggio interessante, intenso, una donna battagliera che ci porta in salvo. Mi hanno dato del maschilista ma non è così, non c’è una tetta, una doccia». Tolo Tolo è stato scritto a quattro mani con Paolo Virzì, proprio da un’idea del regista di La prima cosa bella. Di questa sua prima esperienza dietro la macchina da presa Zalone rivela: «È andata così, Paolo Virzì aveva questo soggetto e piano piano mi rendevo conto che glielo stavo rubando, che in scrittura stavo costruendo il personaggio su di me. Quando siamo andati a girare non è che mi sia pentito ma mi son reso conto della difficoltà del dirigere. Lì un po’ ho bestemmiato perché si è anche un po’ accanita la sfortuna. Pensate che non pioveva in quella zona in Africa da vent’anni». Sarà la presenza virtuale di Virzì oppure dei segmenti di Mamma Roma di Pasolini omaggiati nel film ma il cammino di Luca Medici sembra ispirarsi ad un certo cinema italiano di vecchia memoria. Lo conferma Medici/ Zalone parlando dei suoi modelli: «Io guardo con estremo rispetto alla commedia italiana, a Dino Risi, ad Alberto Sordi con le dovute proporzioni. Questi sono i miei modelli». È proprio commentando Mamma Roma che Zalone si trova a spiegare anche la presenza, nel film, dei suoi “attacchi di fascismo”: «Inserire Mussolini è la prima idea che mi è venuta, faccio il coglione parlando come lui» racconta il regista e specifica: «È una metafora per descrivere l’intolleranza che ci viene fuori quando siamo nei momenti di difficoltà, con il caldo, lo stress, un po’ come la candida». Tolo Tolo senz’altro dividerà il pubblico. Verrà capito? Zalone chiude la presentazione del film citando De Gregori: «Credo che la gente sa benissimo dove andare, quelli che hanno letto un milione di libri e quelli che non sanno nemmeno parlare».

Il Tolo Tolo di Checco Zalone è un film contro i luoghi comuni. Quella del comico pugliese è una commedia-kolossal sulla tragedia dei migranti e sul nostro razzismo quotidiano. Che fa ridere meno fragorsamente degli altri film dell'attore, ma è anche assai più esigente. Fabio Ferzetti il 07 gennaio 2020 su La Repubblica. Sempre più veloci, sempre più scorretti. Se per la prima commedia sui lager nazisti abbiamo dovuto aspettare cinquant’anni, il primo film comico sulla tragedia dei migranti arriva quasi in diretta. Con allusioni freschissime alla situazione politica italiana (ma anche europea). E molte battute che si avventurano fragorosamente oltre la soglia della decenza. Si poteva temere che per il suo primo film da regista Luca Medici alias Checco Zalone sarebbe andato sul sicuro. Invece il temerario comico pugliese (con Paolo Virzì co-sceneggiatore) alza il tiro e rischia. In ogni senso. Girato per buona parte tra Marocco e Kenya, “Tolo Tolo” è quasi un kolossal che riepiloga e fa esplodere per così dire da dentro tutti i più insidiosi luoghi comuni del nostro razzismo, conclamato o inconsapevole, seguendo le peripezie del protagonista. Così Checco passa da imprenditore fallito a “migrante” bianco, di ritorno nel paese da cui era fuggito per bancarotta. Da figlio di mamma iperpremurosa a prigioniero dei lager libici. Da arciitaliano tutto griffato a profugo nel deserto e poi addirittura naufrago, unico europeo su un barcone di africani. Anche se perfino qui, nel momento potenzialmente più drammatico e insostenibile, Checco Zalone fa Checco Zalone intonando una serie di rime ribalde (a tratti un po’ coperte dalla musica, forse non a caso). Morale: si ride ancora molto, benché meno fragorosamente, sul fronte italiano (i parenti che sperano che «si estingua» così si estinguono anche i suoi debiti; il compaesano ignorante che fa una carriera politica fulminante; lo stesso Checco che quando è in crisi parla e si muove come Mussolini, l’idea più bella del film). Si fa un po’ più fatica sul fronte africano perché la bella di cui si innamora, il suo adorabile bimbetto, l’amicone appassionato di cinema italiano, sono solo simpatiche figurine di servizio. E forse non basta sognare una nazionale tutta composta di giocatori neri, come si vede in uno dei tanti flash memorabili. Bisogna anche farli giocare e segnare. Ma la strada è lunga e insidiosa, ci vuole tempo. Con tutto il seguito (e il potere non solo simbolico) che si ritrova, Checco Zalone ha rotto il ghiaccio, accidenti se lo ha rotto. Adesso tocca a noi guardare, ridere, capire. perché “Tolo Tolo” a modo suo è anche un film esigente. E questo non era davvero scontato.

Vittorio Sgarbi a Fuori dal Coro: "Checco Zalone salviniano o buonista? Per me è un Alberto Sordi". Libero Quotidiano l'8 Gennaio 2020. Checco Zalone con Tolo Tolo sta battendo i record d'incassi, ma soprattutto sta facendo discutere senza sosta. Al punto che Mario Giordano gli dedica ampio spazio in Fuori dal Coro, il programma che va in onda in prima serata su Rete4. Il mondo della politica sta commentando da giorni l'ultima fatica di Zalone, che ha scontentato un po' tutti: la sinistra si aspettava un film a favore dell'immigrazione, la destra sperava di rafforzare la tesi 'prima gli italiani'. Tolo Tolo non è niente di tutto ciò, e forse proprio in questo risiede la bravura di Zalone, che ha giocato con un tema di forte attualità e ha sbancato il botteghino.  Ospite a Fuori dal Coro, Vittorio Sgarbi è intervenuto sulla questione 'Zalone salviniano o buonista?'. Il critico d'arte lo ha definito un artista all'Alberto Sordi: "Da allora è cambiata l'Italia e sono cambiati gli italiani, il comico degli anni '50-'60 corrispondeva a quel mondo. Zalone invece appartiene ad un mondo con tante contaminazioni. È evidente che quando nomino Sordi non dico che gli assomiglia, ma indico una tipologia che gioca con gli italiani e i loro vizi. Zalone - ha aggiunto Sgarbi - prima parlava male dei meridionali essendo uno di loro, si sente uno che si è riscattato dal meridione. Ritengo lecito che La Russa (ospite di Mario Giordano, ndr) possa non apprezzare il film, ma anche lui può valutare la qualità delle sue battute che a volte funzionano, altre meno".

Caro Zalone, stavolta hai sbagliato. Domenico Ferrara su Il Giornale l'8 gennaio 2020. Ci ha abituato a essere dissacrante e politicamente scorretto, ma questa volta Checco Zalone ha sbagliato. Non sto parlando del film, che può piacere o meno. Parlo di una scena precisa della pellicola Tolo Tolo. Una scena tanto inopportuna quanto insignificante. Quasi buttata lì per mancanza di idee. O almeno spero. Perché, se al contrario il regista pugliese l’avesse proprio pensata quella scena, ecco allora in quel caso aggraverebbe la situazione. Ma di cosa sto parlando? A un certo punto Zalone, durante la traversata nel deserto fatta insieme a decine di migranti africani, scorge all’orizzonte alcune camionette militari battenti bandiera italiana. Scende dal camioncino e inizia a sbracciarsi, felice come una Pasqua. A bordo del mezzo dell’esercito si vedono due militari: uno intento a risolvere la settimana enigmistica e l’altro a guidare il carro. “Si dirige verso di noi, cosa faccio, gli sparo?”, chiede il conducente. Il collega risponde: “No, ti ricordo che non siamo qui per sparare alle persone, buttagli una bomba”. Boom. Il militare fancazzista, il militare approssimativo, il militare italiano. Falsi e offensivi stereotipi. In un periodo in cui i nostri militari vengono attaccati e muoiono nelle varie missioni, in un periodo intriso di sangue, attentati e bombe (quelle vere), ecco forse prendere di mira i nostri soldati (già bistrattati da una parte politica nostrana) non è proprio un bel segnale. E di sicuro è un mal riuscito tentativo di comicità e l’ennesimo schiaffo a chi rischia la vita per un ideale.

Dall’aggressione razzista  a «Tolo Tolo» di Zalone: «Io, l’africano di Sulbiate». Pubblicato mercoledì, 08 gennaio 2020 su Corriere.it da Leila Codecasa. Mohamed Ba, senegalese: fu pugnalato nel 2009. «Immigrato. Quanti spiccioli ti avrò già dato? All’uscita del supermercato, ti ho incontrato...». La canzone del nuovo film di Checco Zalone, «Tolo Tolo», anche a Sulbiate è un tormentone. Solo che in quel paese brianzolo si parla del film campione d’incassi anche per un altro motivo: Mohamed Ba, senegalese, 56 anni, da undici è un sulbiatese e ha recitato in «Tolo Tolo». Quando, un anno e mezzo, fa ha ricevuto la telefonata del comico pugliese che gli proponeva una parte nella pellicola, ha risposto: «Se mi chiami perche vuoi una faccia da immigrato davanti al supermercato che chiede elemosina, vai a cercare qualcun altro». Ma un incontro a casa di Zalone in Puglia ha cambiato tutto: «Ci siamo parlati e guardati negli occhi, ho capito che aveva una idea diversa per raccontare l’immigrazione, rovesciando la prospettiva». Così Ba è entrato nel cast. Interpreta il medico che soccorre il protagonista e gli dà una ricetta universale contro un virus che rende disumani. Ma non solo: scena dopo scena Ba è il Papa, poi uno scrittore affermato. Ba scrive per professione anche nella vita di tutti i giorni, oltre ad essere attore teatrale, mediatore culturale, esperto in temi di immigrazione e di integrazione. Vive a Sulbiate con la moglie, italiana, e i figli, ma continua a girare l’Italia e il mondo con i suoi progetti «per costruire relazioni di umanità tra gli uomini». Come ormai è noto «Tolo Tolo» è stato girato tra l’Africa e l’Italia «con Zalone sempre pronto ad ascoltare, a dare una mano. Con la sua leggerezza, sincera, ha messo a nudo il limite della società italiana di oggi». In Marocco, le comparse erano ragazzi in attesa dell’occasione per andare in Europa. «Abbiamo vissuto il loro dramma umano, ho parlato a lungo con loro, ho svelato che illusione sia l’Europa, la maggior parte mi ha giurato che non sarebbe più partita». Checco Zalone ha letto l’ultimo libro di Ba, «Il tempo dalla mia parte», che racconta della sua esperienza di migrante dall’Africa verso la Francia, del rifiuto di «permettere a qualcuno di trattarmi come un cane. Coi primi soldi ho acquistato un dizionario», fino all’arrivo in Italia, e un’aggressione, forse a sfondo razzista, subita dieci anni fa ad una fermata del bus a Milano. Un ragazzo gli si avvicinò, lo accoltellò all’addome, fuggì, non fu mai rintracciato. Ba lottò tra la vita e la morte per 14 giorni, scrisse una lettera al suo aggressore, chiamandolo fratello, dicendogli che «la ricerca dell’umanità è molto più bella dell’etnicità». Un’umanità di tutti i giorni: «Cerco di costruire un ponte perché il rischio del razzismo, quello di guardare tutte le cose dall’alto in basso, è piu’ vivo che mai. Anche in Italia”. Ora a Sulbiate lo fermano per dirgli che lo hanno visto in «Tolo Tolo», sorride amaro: «Ora non sono più l’africano, ma l’attore del film di Zalone. Chissà per quanto?».

Checco Zalone, la sinistra ci ripensa: il suo film è buonista. E da destra arriva una stroncatura. Il Secolo d'Italia domenica 29 dicembre 2019. Perché lasciare Checco Zalone alla destra? Deve essere partita da questa domanda Natalia Aspesi recensendo su Repubblica il film del comico pugliese Tolo Tolo. “Non avete capito – bacchetta la Aspesi – il suo film non è razzista, i buoni sono gli africani”. In pratica il trailer con la canzone “Immigrato” era solo un’esca per i sovranisti che ha fatto accapigliare il paese suscitando curiosità e attenzione per una pellicola tutta da decifrare. Non ci voleva la Aspesi in verità per capire che il trailer del film di Zalone era una mossa di marketing. Ma se anche fosse solo questo e non uno sberleffo al politicamente corretto, sono stati quelli di sinistra, con la loro polemica immotivata, a cascarci con fanatica ingenuità.

Checco Zalone, la critica di Cabona. Nella sua recensione del film sul Messaggero un critico non certo di sinistra, Maurizio Cabona, spegne le polemiche e derubrica il messaggio della pellicola a un banale luogo comune: “Diffidente verso immigrati africani, un fallito – alla lettera – italiano migra nell’Africa nera, dove si redime dai pregiudizi”. Un film schierato dalla parte dei migranti, alla fine.”Il prologo pugliese funziona e strappa il sorriso, se non la risata. Il resto del film è monotono, salvo i siparietti dell’arrampicatore sociale e politico (l’ottimo Gianni D’Addario), mezzo Conte e mezzo Di Maio. Tutto questo occupa mezz’ora. La restante ora, quella africana, sta tra il drammatico non credibile e il comico non riuscito. Nemmeno la telefonata dalla famiglia a Checco in mezzo a un combattimento si sottrae ai limiti sia di sceneggiatura, sia di regia”. Tra Aspesi (sinistra) e Cabona (destra) l’esegesi del film è in buona sostanza molto semplice: né razzista né buonista, il film di Checco Zalone, risulta non etichettabile, non esente dai luoghi comuni, una furbata spacciata per “evento” che evento non è. Vedremo però quanto pubblico accorrerà in sala a vedere Tolo Tolo prima di dare, in ogni caso, una valutazione definitiva.

Maurizio Cabona per il Messaggero il 29 dicembre 2019. Tolo Tolo di e con Checco Zalone non fa né ridere, né piangere. Il prologo pugliese funziona e strappa il sorriso, se non la risata. Il resto del film è monotono, salvo i siparietti dell'arrampicatore sociale e politico (l'ottimo Gianni D'Addario), mezzo Conte e mezzo Di Maio. Tutto questo occupa mezz'ora. La restante ora, quella africana, sta tra il drammatico non credibile e il comico non riuscito. Nemmeno la telefonata dalla famiglia a Checco in mezzo a un combattimento si sottrae ai limiti sia di sceneggiatura, sia di regia. Zalone come sceneggiatore patisce l'altro sceneggiatore, Paolo Virzì; Zalone come attore patisce l'identità con Zalone regista. Non che ultimamente il suo sodalizio con Gennaro Nunziante fosse felice come al tempo di Cado dalle nubi. Ma ci sono debolezze che non vengono punite: peggiorando i loro film, erano migliorati gli incassi... Secondo questo principio di proporzionalità inversa, Tolo Tolo potrebbe incassare quanto Sole a catinelle o Quo vado?. Paolo Mereghetti per il Corriere della Sera il 29 dicembre 2019. Chi cambia questa volta è il regista-sceneggiatore che non si limita più ad offrire al suo protagonista l' occasione per una risata, ma lo spinge verso un'altra direzione, costringendolo a misurarsi con qualcosa su cui in passato avrebbe preferito chiudere gli occhi o sorvolare con una battuta. E lo fa sia a livello di scrittura che di regia. L' esempio perfetto del primo è la tentazione mussoliniana, l' identificazione ducesca che trasfigura Zalone quando sembra non sopportare più la vicinanza con i migranti. Poteva essere una gag da lasciar interpretare al pubblico e invece il film si incarica di spiegarne il significato citando il Primo Levi di Se questo è un uomo , dove si legge che «la convinzione [che ogni straniero è nemico] giace in fondo agli animi come una infezione latente» pronta a venire a galla nei momenti di difficoltà. «Come con la candida», chiosa Zalone che non può evitare la battuta, ma la citazione da Levi è letterale e il messaggio non può arrivare più diretto e più chiaro.

Cinzia Romani per il Giornale il 29 dicembre 2019. Sembra girato da Papa Bergoglio. Del resto, è al Papa per primo che Luca Medici, nome anagrafico dell' ammazzasette del box-office, mostrerebbe il suo film. Dove i problemi dell' Africa nera e delle sue masse migranti vengono risolti con empatia, spirito d' accoglienza e buonumore. Porti aperti a Ong e barconi, dunque e un filo conduttore terzomondista per questa fiaba dal sapore politico che rovescia le aspettative, diciamo sovraniste, legate alla clip Immigrato, diffusa per battere l' acqua al film. Da furbo uomo di spettacolo, il comico pugliese prima ha suscitato polemiche intorno alla sua canzone, presa sul serio dai progressisti zelanti che gli hanno dato del razzista e prime firme scomodate sui giornaloni, per discettarne -, poi ha servito il suo lavoro sulla società multietnica. Per la prima volta in corsa da solo, senza il fido Gennaro Nunziante a dirigerlo, Zalone si prende un sacco di soddisfazioni, compresa quella di un finale disneyano surreale e d' una scena-chiave, in cui migranti in mare se la giocano alla Esther Williams: mancano soltanto le cuffie a fiorellini. Altro che disperati dei barconi: qua ci scappa da ridere e pazienza se i più tradizionalisti, che detestano la società multietnica, verranno delusi. Magari potranno cantare «da qualche parte del planisfero, c' è sempre uno stronzo un po' più nero».

Natalia Aspesi per la Repubblica il 29 dicembre 2019. Mossa pubblicitaria da premio Agorà, rivolta allo sciocchezzaio oceanico in costante attesa del facile nutrimento, il trailer con la canzoncina celentanica Immigrato (basta la parola!) ci ha del tutto ingannato: non un nanosecondo corrisponde al film, e in questo modo lei ha messo in subbuglio un grande Paese che avrebbe altre grane cui dedicare l' eventuale ingegno, ma che poi sceglie di lasciar perdere l' irrisolvibile e di dedicarsi all'inutile. La stessa emozione che provai piccina quando mi portarono a vedere Biancaneve e i sette nani , l' ho riprovata ieri, canuta da decenni, per Tolo Tolo , il primo dei film di Zalone che osavo affrontare. Si sa noi pseudo elegantoni non si andava a vedere quel comico se non allo Zelig, anche perché i critici, che oggi definiscono il nuovo film chi un capolavoro, chi un grande film, chi mi ha fatto ridere e piangere (vedi Facebook), lo trattavano prima con distacco, tanto più che la folla entusiasta traboccava dalle sale superando anche i filmoni americani, il che non è mai un buon segno per i cultori del grande cinema.

Giorgio Carbone per Libero Quotidiano il 29 dicembre 2019. Premessa necessaria. Tolo Tolo di Zalone non c' entra un tubo col promo interpretato dallo stesso Zalone che ha irritato molte anime belle. Il promo è stata una furbata (divertentissimo, splendidamente offensivo per i sacerdoti del politicamente corretto). Se il Checco sviluppava il promo all'ora e quaranta poteva venire fuori la cosa irresistibile. E certo una zalonata come Dio comanda. Il Tolo Tolo è invece una cosa diversa, un commedione che aspira al respiro epico. Ma ci volevano polmoni che il Checco non ha e che mai avrà (la sua dimensione è quella del bozzetto sull' Italia piccola, non toccata ma solo sfiorata dai grossi problemi). Nessuna anima bella sarà turbata. Tutta la storia è all' insegna del buonismo. Nella visione zalonesca, il dramma dell' emigrazione è vissuto (e infatti finisce) come un cartone animato. Gli africani non sono né buoni né cattivi, ma solo sfigati. Dalla nascita. Perché i bambini neri li porta da sempre una cicogna strabica. Si ride? Sì, si ride perché la verve comica è sempre straripante (non riuscirebbe a frenarla nemmeno lui manco a volere). Ma qui è come appesantita, condizionata dal contesto che è troppo drammatico per fornire solo da spunto per allegre cialtronate. Ogni cinque minuti la narrazione stagna in quasi melodramma.

L'inno più dissacrante dell'Italia cialtrona ma sul tetto del mondo. Paolo Giordano, Mercoledì 04/09/2019, su Il Giornale. In fondo che cos'è un tormentone? È la foto più vera e crudele di una parte di noi. C'è qualcosa di più vero di Siamo una squadra fortissimi? Quello di Checco Zalone è un tormentone «prêt-à-porter», nel senso che è stato pubblicato nel 2006 ma sarebbe stato perfetto anche 30 anni prima o 30 anni dopo, tanto noi siamo (anche) quella roba lì, visionari e cialtroni, modaioli ma tradizionalisti e perfetti conoscitori dello sport più praticato del mondo, quello del quale ciascuno stabilisce le regole che vuole. Da quando sono nati, all'inizio degli anni Sessanta, i tormentoni hanno intercettato l'evoluzione degli italiani e dell'italianità, dal sapore di sale di chi iniziava a conoscere le vacanze al mare fino al Vespino dei Lùnapop sul quale sono salite due generazioni di liceali. Un processo graduale, inevitabile ma imprevedibile anno dopo anno, decennio dopo decennio. Invece Siamo una squadra fortissimi è implacabile. È la declinazione musicale dei film di Alberto Sordi mescolati con la commedia all'italiana, della furbizia di Amici miei con Il Processo del Lunedì e dei film di Totò con l'eterno neorealismo di Monicelli. «Siamo una squadra fortissimi, fatta di gente fantastici e nun potimm' perde e fa figur' e mmerd', perché noi siamo bravissimi e super quotatissimi e, se finiamo nel balatro, la colpa è solo dell'albitro». Checco Zalone, che non era ancora il salvatore del cinema italiano ma si capiva che lo sarebbe diventato, si è inventato questo brano che è partito come sigla radiofonica del programma «Deejay Football Club - Speciale Mondiali» che Ivan Zazzaroni conduceva su Radio Deejay. Pubblicato come singolo, è stato al primo posto della classifica dal 14 luglio fino al 17 agosto. D'accordo, l'Italia aveva vinto i Mondiali di calcio a Berlino battendo in finale la Francia ai rigori e, quindi, senza saperlo Siamo una squadra fortissimi è diventato un inno persino più del globale popopopo mutuato da un brano rock dei White Stripes che i Mondiali manco sapevano cosa fossero. Checco Zalone ha messo in note il dizionario di un'Italia fanfarona e irresistibile e ci ha regalato la possibilità di riconoscerla in ogni campo, mica solo quello del pallone. «Stoppi la palla al volo, come ti ha imparato tanto tempo fa quando giocavi invece di andare a scuola, quanti sgridi ti prendevi da papà» è una caporetto grammaticale che parodizza tanti aspetti della vita pubblica italiana. Una volta a parlare così erano soprattutto i calciatori al 90esimo Minuto di Paolo Valenti, magari dopo aver segnato il primo gol in A dopo una carriera nata in qualche paesino sperduto. Adesso, ahimè, questi strafalcioni sono anche ai piani alti, o altissimi, magari anche a Palazzo Chigi. Dopotutto, ci sono ministri o senatori, da Razzi a DiMaio, che parlano uno «zalonese» stretto nonostante debbano confrontarsi con problemi di gravità planetaria. Ed è difficile non trovare tracce dell'enfasi di Checco Zalone in quel «il 2019 sarà un anno bellissimo» che l'ex e quasi neo premier Giuseppe Conte ha pronunciato pochi mesi fa. E chissenefrega se il 2019 è stato finora tutt'altro che bellissimo e l'Italia stia affrontando la crisi di governo più pazza della propria storia repubblicana: conta il messaggio, lo slogan, «l'impatto» dell'annuncio. «Cornuti siamo vittimi dell'albitrarità a noi contraria, ecco che noi cerchiamo di difenderci da queste inequità così palese» canta Zalone ma al suo posto ci potrebbero essere tanti altri. Come conferma anche Cetto Laqualunque, ossia la feroce maschera del politico italiano creata da Antonio Albanese, l'importante è parlare, annunciare, rivendicare. Anche per questo, il pezzo di Checco Zalone è diventato il vero tormentone dell'estate 2006, nonostante tanti altri brani si fossero candidati al ruolo più ambito dal pop estivo. Siamo una squadra fortissimi parla alla parte inconfessabile dell'italianità eppure percepita da tutti, anche da chi non la pratica. D'altronde, il momento era quello giusto. C'era il tormento di un'epoca che non sapeva dove andare. Saddam Hussein ha appena detto di preferire la fucilazione all'impiccagione. Osama bin Laden continua a minacciare l'Occidente. Bush parla spesso con la Merkel, l'unico primo ministro sopravvissuto fino a oggi di quel tempo politico. Berlusconi fa un discorso al Congresso degli Stati Uniti riunito in seduta plenaria e, subito dopo le elezioni di aprile, viene arrestato Bernardo Provenzano dopo 43 anni di latitanza. A maggio inizia «Calciopoli» che costerà due scudetti alla Juventus e la credibilità a tutto il calcio italiano, esattamente come avvenne nel 1982, quando gli azzurri di Bearzot vinsero il Mundial pochi mesi dopo gli arresti (addirittura negli stadi a partite in corso) degli scommettitori più scatenati. Dire «Calciopoli» nell'immaginario collettivo significa dire Moggi. «Grande Luciano Moggi, dacci tanti orologgi agli albitri internazionali, si no co' 'O cazz' che vinciamo i Mondiali» canta Zalone con la libertà che soltanto un comico, in Italia, può permettersi. Si elegge Giorgio Napolitano al posto di Ciampi, e il muro di Berlino cade anche al Quirinale. Benedetto XVI fa arrabbiare molto i musulmani con il discorso di Ratisbona e L'urlo di Munch viene ritrovato dopo due anni dal furto. Insomma, il 2006 è un «anno incubatrice». Contiene i germi del populismo che stava fiorendo sottopelle, per lo più incompreso dalla classe politica. Non a caso, il «Vaffa Day» di Beppe Grillo del 2007 era ancora considerato un evento folcloristico destinato a non lasciare traccia nella vita politica italiana. E invece. Oggi, 12 anni dopo, gli urlatori più stentorei di quei «vaffa day» si stanno giocando il governo italiano per la seconda volta consecutiva a dimostrazione che molto spesso il pop e i commedianti arrivano prima dei migliori analisti politici o economici. In quel 2006 Checco Zalone, ossia il pugliese Luca Medici, era ancora uno dei talenti più cristallini di Zelig, quello più capace di mettere in pratica la lezione della grande comicità italiana: parlare di ciò che siamo e ridere di ciò che vorremmo essere. Siamo una squadra fortissimi è la conferma che si può cristallizzare un tipo italiano e scommettere che si riproporrà identico nel futuro. I versi di questo brano ce l'hanno fatta e, fateci caso, saranno attuali anche tra dieci o cento anni.

Giuliano Cazzola per huffingtonpost.it il 7 dicembre 2019. Mentre mi recavo, in taxi, nella sede di Mediaset della mia città per partecipare a ‘’Stasera Italia’’ (il talk show condotto da Barbara Palombelli su Rete 4) mi ha incuriosito una canzone - che proveniva dalla radio dell’auto – il cui ritornello ripeteva la parola “immigrato” mentre le strofe raccontavano, con un velo d’ironia, la “persecuzione quotidiana” che i cittadini subiscono da parte degli immigrati ai semafori, nei supermercati e a ogni angolo di strada. Addirittura all’italiano protagonista/vittima della canzone l’immigrato insidia, con successo e reciproca soddisfazione, anche la moglie. Ho chiesto subito al tassista se conoscesse quella canzone. Anche lui l’aveva sentita per la prima volta. Essendo la radio emittente al di sopra di ogni sospetto (per un momento avevo temuto che si trattasse di Radio Padania, ammesso che esista ancora), mi ero tranquillizzato, ripromettendomi di approfondire l’argomento. Arrivato in trasmissione ho scoperto l’arcano. Ad un certo punto, Palombelli ha mostrato un promo – divenuto virale sui social - del prossimo film di Checco Zalone. E così ho potuto sapere, anche attraverso le immagini del video, da dove veniva quella canzoncina. La conduttrice si è rivolta agli ospiti per conoscere la loro opinione. Tutti si sono sperticati in apprezzamenti per la canzonetta, trovandola divertente, dissacrante, capace di esorcizzare con la vis comica il senso di un fenomeno sociale. Il sottoscritto, invece, si è infilato – con sorpresa e disapprovazione dei presenti – su un’altra pista, ricordando, che nella Germania di Weimar si cantava nei cabaret di Berlino (pare che la vita notturna fosse molto intensa) una canzone a sfondo umoristico dedicata agli ebrei. Lo ammetto: io vivo nella convinzione (e nell’angoscia) che l’Italia si appresti a conoscere – ovviamente mutatis mutandis perché un secolo non è trascorso del tutto invano - l’esperienza della Repubblica di Weimar. Così, rincasato, sono risalito alla fonte nel saggio di Siegmund Ginzberg, "Sindrome 1993"’ (Feltrinelli 2019). Ecco qualche brano della canzone che avevo ricordato in trasmissione: ’’Se piove e se fa freddo/ se il telefono è occupato/ se la vasca da bagno perde/ se ti sbagliano la dichiarazione dei redditi/ se il principe di Galles è un finocchio/ è proprio tutta, ma tutta colpa degli ebrei. E via di questo tono. Il fatto è che a cantarla non erano le SA di Ernst Rohm a passo di marcia, ma dei normali attori durante uno spettacolo di satira politica andato in scena in un cabaret (il Tingel-Tangel) di Berlino nel 1931. L’aria del ritornello (è proprio tutta, ma tutta colpa degli ebrei) rievocava l’habanera della Carmen. La musica era dell’autore (Felix Hollaender) delle canzoni di Marlene Dietrich nell’Angelo azzurro. Come si vede siamo ben oltre il livello delle note (ispirate ad Adriano Celentano) di Checco Zalone. Certo, il grande comico italiano non è razzista, come non erano antisemiti gli autori e degli attori della satira tedesca del 1931. Si sono limitati, ora ed allora, a cogliere un sentimento diffuso, sperando di demolirlo con l’ironia. Del resto, non possiamo restare prigionieri del "politicamente corretto" – ammesso che l’antirazzismo possa ancora ritenersi tale, visti i dati del Censis – ma sarebbe meglio non dimenticare le parole di Primo Levi: ciò che è stato può ritornare.

TESTO IMMIGRATO

All’uscita del supermercato

Ti ho incontrato

(“il carrello lo porto io”)

Al distributore di benzina

(“metto io, metto io”)

Monetina

Al semaforo sul parabrezza

C’è una mano nera con la pezza

E ritrovo quel tuo sguardo malandrino che mi dici

“C’ha due euro per panino!”

Immigrato

Quanti spiccioli ti avrò già dato

Immigrato

Mi prosciughi tutto il fatturato

Poi la sera la sorpresa a casa

Al mio ritorno

Ti ritrovo senza permesso nel soggiorno

Ma mia moglie non è spaventata

Anzi

Sembra molto rilassata

E ritrovo quel suo sguardo malandrino

Che faceva quando…

Quella roba lì

La faceva…

Immigrato

Sembra proprio che ti sei integrato

Immigrato

Favorisci pure l’altro lato

Immigrato

Ora dimmi perché mi hai puntato

Potevi andar dal mio vicino pakistano

O a quel rumeno in subaffitto al terzo piano

Ma hai scelto me

Il mio deretano

Dimmi perché

Perché, perché perché perché?

Prima l’italiano!

Immigrato

Chi ha lasciato il porto spalancato?

Immigrato

Ma non ti avevano rimpatriato?

Immigrato

Immigrato

GLI ANTENATI DELL’IMMIGRATO DI CHECCO ZALONE. Michele Bovi per Dagospia il 31 dicembre 2019. Immigrato di Checco Zalone può contare su un predecessore nato esattamente mezzo secolo fa. La canzone che movimenta il trailer di Tolo Tolo, il nuovo film dell’artista barese nei cinema da Capodanno, ha sollevato polveroni di polemiche. Il protagonista del brano è un extracomunitario ironicamente dipinto come sfacciato e importuno: un’immagine e un linguaggio che molti hanno bollato come imprudentemente scorretti. Satira o razzismo? È un interrogativo che 50 anni fa gli italiani non si ponevano, meno che mai nelle canzoni. La figura dello straniero avviato a introdursi e a conquistare spazi che si ritenevano riservati ai soli cittadini dello Stivale, ha infatti un precedente nella musica pop italiana che all’epoca non suscitò alcuna protesta: nel 1969, Bruno Lauzi, ovvero uno dei padri della nostra canzone d’autore, scrisse e incise Arrivano i cinesi, con uno scherzoso testo che preannunciava l’invasione di quei “piccoli e veloci” orientali “più gialli dei limoni che metti dentro al tè”. Lauzi ammoniva: “Arrivano i cinesi, succede un quarantotto, si piazzano in salotto e non se ne vanno più. Arrivano i cinesi e mangiano felici le quaglie e le pernici che avevi preso tu”. Erano decisamente altri tempi, in cui il “politicamente corretto”, ossia il comportamento sociale diretto a scongiurare ogni tipo di offesa verso determinate categorie di persone, era un concetto astratto, impensabile. Soprattutto per un motivetto musicale. Distinguere e citare il colore della pelle, ad esempio, non incuteva disagio. La canzone Angeli negri incontrò il favore del pubblico già nel 1949, incisa da Carlo Buti, capostipite dei melodici italiani, ma divenne un disco da hit parade dieci anni dopo nell’interpretazione di Don Marino Barreto Jr, cubano dalla pelle scura beniamino del pubblico nostrano, e nuovamente un successo straordinario nell’esecuzione di Fausto Leali, che i discografici per l’occasione avevano soprannominato “il negro dalla voce bianca”. Già nel 1967 le canzoni giocavano con frequenza e disinvoltura su quel tema: mentre l’italo-francese Nino Ferrer furoreggiava in tutta Europa intonando “Vorrei la pelle nera”, il francese Antoine guadagnava il vertice della classifica con il brano “Cannella”: “La chiamerò Cannella per il colore che ha / la pelle di Cannella impazzire mi fa / se dico così una ragione ce l’ho: io sono bianco e lei no”. Persino la violenza contro le donne veniva cantata sfrontatamente senza provocare la benché minima rimostranza. Piero Ciampi, ancora oggi rimpianto e ricordato come uno tra i più raffinati autori del nostro panorama musicale, poteva nel 1971 esibirsi in televisione con la sua Ma che buffa che sei e cantare “Quel pugno che ti detti è un gesto che non mi perdono. Ma il naso ora è diverso: l’ho fatto io e non Dio”. Tuttavia il primato dell’esilarante temerarietà pop spetta senza dubbio a una canzone del 1965. Il tema era quello della droga, quando l’allarme per l’uso degli stupefacenti era ancora relativamente lontano. Il brano, scritto dal compositore milanese Walter Malgoni (lo stesso di Guarda che luna per Fred Buscaglione e Tua per Jula De Palma) con il testo di Gustavo Palazio, paroliere ma anche autore televisivo e sceneggiatore cinematografico, s’intitolava Cocaina. A interpretarlo era Giovanna Spagnulo, in arte Gianna, voce solista dei Cantori Moderni Alessandroni, il gruppo musicale più impegnato negli anni Sessanta per le colonne sonore cinematografiche sotto la direzione dei principali compositori del settore: da Ennio Morricone a Bruno Nicolai. In Cocaina Gianna raccontava allegramente di aver acquistato una bustina della sostanza in un vecchio tabarin per 30mila lire e di averla nascosta, affinché la mamma non se accorgesse, in un vasetto di zucchero vanigliato. Il caso però volle che quella polvere finisse in una torta servita per merenda a tutta la famiglia riunita in salotto, assieme a ospiti vari, addirittura il parroco. Come finì? “Tutti a godere senza freni. – gorgeggiava Gianna – Ma che strana polverina la cocaina!”. Altroché Rolls Royce di Achille Lauro.

QUANDO LE CANZONI ERANO POLITICAMENTE SCORRETTE

 

COCAINA (1965)

In un vecchio tabarin

io godevo senza fren

quando verso la mattina arrivò

la cocaina

è arrivata in un gilet

l’han venduta pure a me

30.000 la bustina comperai

la cocaina

se la vedeva la mamma

faceva un dramma

e fu così che la misi lì

in un vasetto usato

di zucchero vanigliato

ma qualcuno preparò

una torta ed impastò

latte zucchero e farina con quel po’

di cocaina

alle 5 su da me

vengon tutti per il tè

c’è la nonna col curato

sua nipote col cognato

una guardia di frontiera

con la vecchia cameriera

mia sorella con tre amici

che gli fuman le narici

anche loro più o me’

stan godendo senza fren

ma che strana polverina

la cocaina.

 

ARRIVANO I CINESI (1969)

Tutte le sere

al solito posto

io resto nascosto

dai vieni anche tu

se mi vuoi trovare

son dentro all'armadio

ascolto la radio

e non esco più        

Arrivano i cinesi

arrivano nuotando

dice Ruggero Orlando

che domani sono qui         

Arrivano i cinesi

arrivano a milioni

più gialli dei limoni

che metti dentro il tè          

Perché, perché?

Perché lo chiedo a te         

Arrivano i cinesi

e mangiano felici

le quaglie, le pernici

che avevi preso tu  

Arrivano i cinesi

succede un quarantotto

si piazzano in salotto

e non se ne vanno più       

Perché, perché?

Perché lo chiedo a te         

Io mangio solo

il riso bollito

mi vesto di seta

son tutto ingiallito

e se c'ho un pensiero

lo scrivo, se posso

su un libro speciale

un libretto rosso.     

Arrivano i cinesi

son piccoli e veloci

sorpassano agli incroci

correndo a testa in giù       

Arrivano i cinesi

ti insegnano il saluto

con l'alfabeto muto

così non parli più    

Perché, perché?

Perché lo chiedo a te         

Arrivano i cinesi

arrivano nuotando

dice Ruggero Orlando

che domani sono qui         

Arrivano i cinesi

succede un quarantotto

si piazzano in salotto

e non se ne vanno più       

Perché, perché?

Perché lo chiedo a te         

Perché, perché?

Perché?

 

ANGELI NEGRI (1949-1959-1968)

Pittore, ti voglio parlare

Mentre dipingi un altare.

Io sono un povero negro

E d'una cosa ti prego.

Pur se la Vergine è bianca

Fammi un angelo negro...

Tutti i bimbi vanno in cielo

Anche se son solo negri.

Lo so, dipingi con amor

Perché disprezzi il mio color?

Se vede bimbi negri

Iddio sorride a loro.

Non sono che un povero negro,

Ma nel Signore io credo,

E so che tiene d'accanto

Anche i negri che hanno pianto.

Lo so, dipingi con amor

Perché disprezzi il mio color?

Se vede bimbi negri

Iddio sorride a loro...

 

MA CHE BUFFA CHE SEI (1971)

Sei come un purosangue

Che non ha mai perso una corsa

Sei tu che vieni avanti

Sei rara come una sorpresa

Ma che buffa che sei

Ma che buffa che sei

Il denaro per te è un giornale di ieri

Ma che buffa che sei

Ma che buffa che sei

Ogni cosa che fai

Ha troppi strani motivi

Tranne una, e la sai: l'amore

Ma che amore che sei

Ma che cara che sei

Quando dici "son due le anime mie"

Quel pugno che ti detti

È un gesto che non mi perdono

Ma il naso ora è diverso:

L'ho fatto io e non Dio

Ma che amore che sei

Ma che cara che sei

Quei ragazzi laggiù

Sembrano noi.

 

LA PELLE NERA (1967)

Ehi, ehi, ehi dimmi Wilson Pickett

Ehi, ehi, ehi dimmi tu James Brown:

questa voce dove la trovate?

Signor King, signor Charles, signor Brown

io faccio tutto per poter cantar come voi

ma non c'è niente da fare, non ci riuscirò mai

e penso che sia soltanto per il mio color che non va...

Ecco perché io vorrei, vorrei la pelle nera,

vorrei la pelle nera!!!

Ehi, ehi, ehi dimmi tu signor Faust, ehi, ehi, ehi dimmi come si può

arrostire un negretto ogni tanto con la massima serenità

io dico Nino tu non ci dovresti pensar

ma non c'è niente da fare per dimenticar

'sto maledetto colore di pelle che mi brucia un po'...

Ecco perché io vorrei... vorrei la pelle nera,

vorrei la pelle nera!!!

Ehi, ehi, ehi voi carissimi estinti

Ehi, ehi, ehi, voi che sapete già

voi che…

 

CANNELLA (1967)

La chiamerò Cannella

per il colore che ha.

La chiamerò Cannella

in privato e in società.

La pelle di Cannella impazzire mi fa.

Se dico così una ragione ce l'ho:

io l'ho assaggiata e voi no.

Cara la mia Cannella

che cosa hai fatto di me.

Mi manca una rotella,

io sono pazzo di te.

Ti metterò un guinzaglio

per essere sicuro che

da oggi in poi,

nemmeno per sbaglio,

tu possa fuggire da me.

Vieni via con me Cannella

non mi dire che non puoi.

Portati tua sorella

e anche tua madre se vuoi.

Tanto nel mio castello

c'è posto a volontà

Son pronto a darti

tutto quello che ho

ma non mi dire di no.

La chiamerò Cannella

per il colore che ha.

La chiamerò Cannella

in privato e in società

La pelle di Cannella

Impazzire mi fa

Se dico così

una ragione ce l'ho:

io sono bianco e lei no.

Marco Giusti per Dagospia il 7 dicembre 2019. Ci siamo. Ha già diviso tutti. L’ha fatto apposta. Ci sta. E’ bastato un video, che devo dire fa molto ridere, “L’immigrato”, una scatenata totocutugnata che parte con “il porto spalancato” e chiude con gag finale che spiega perché gli immigrati dopo averti tormentato tutti i giorni arrivano anche a trombarti la moglie, “prima l’italiano”, per portare Checco Zalone in quella zona pericolosa dei social che va dall’Inferno al Paradiso. Visto da destra, visto da sinistra, visto da destra pensando che sia si destra, visto da sinistra pensando che sia di sinistra e visto da da destra pensando che sia di sinistra e visto da sinistra pensando che sia di destra. Che mal di capoccia… e va subito in tendenza assieme alla Nutella e a Salvini. Per il centro Baobab è “spazzatura” (ma perché?), per altri partono gli insulti: “schifoso comunista cesso zeccone”, “anfame sinistroide e perlo più [scritto così…] milionario”. Aiuto! Poi partone le cattiverie nemmeno fosse Polanski. “Se a Zalone piacciono tanti i migranti, spero che gli regali a tutti il biglietto per vedere il suo nuovo film. Spero che sia il suo solo pubblico. Per me ha chiuso. #boicottaZalone”. Ecco c’è pure il movimento contro. Nemmeno fosse Polanski. Poi arriva chi lo difende. “Compagni a sto giro avete toppato di brutto, forse non la conoscete la comicità di Zalonem prende per il culo l’italiota da sempre”. Non a caso chiude il video con l’immagine di lui ducetto al balcone in bianco e nero, pronto a diventare leghista. No? E poi lo ha già detto. “Non è più irriverente prendere per il culo Salvini e Di Maio perché lo fanno già da soli”. E poi: “Se date del razzista a Checco Zalone non avete capito proprio un cazzo”, “buonisti contro Checco Zalone. Ma sono loro a fare piangere..#NONAVETECAPITOUNCAZZO”. Magari voleva davvero questo per lanciare il suo film il 1 gennaio. Dividere il pubblico per provocare interesse. Ovviamente c’è riuscito. Come Salvini con la Nutella. Ma che vai a romperci il cazzo con la Nutella come se fossi un hater di Nanni Moretti? Eddai… Non puoi limitarti a odiare la Juventus, che so, Chiara Ferragni… No. Attacchi la Nutella. Zalone non vuole fare della satira alla Albanese o alla Dandini, vuole prendere per il culo proprio gli italiani che cascano nel suo gioco di odio/amore, vuole andare oltre il politicamente corretto/politicamente scorretto. Mentre Ficarra e Picone, morto il cinepanettone,  fanno il grande film comico di Natale per tutti, mentre Marco D’Amore risorto come Cristo in L’immortale sta facendo il pieno al cinema, 1,2 milione di incasso in due giorni, mentre Garrone e Benigni provano il fantasy dark con la rilettura di Pinocchio, Zalone non può che sparigliare facendo Letto a tre piazze con l’immigrato e la moglie nelle scene finali del suo video. Deve farci ridere provocandoci. Ci trombano le mogli… Che sarà mai? Ma quale razzista… Sardine a parte, mi sembra l’unico che non nominandolo mai possa trattare Salvini per quello che è, perché affronta direttamente la confusione ideologica degli italiani. Il film farà il botto. Lo sapete già…  

"Tolo tolo", la comicità di Zalone s'innesta sui contenuti di Virzì. L'intento è nobile: sensibilizzare il più vasto pubblico possibile sul tema dell'immigrazione, grazie a umorismo e umanità. A pagarne il prezzo è il divertimento, ridimensionato. Serena Nannelli, Martedì 31/12/2019, su Il Giornale. Con "Tolo Tolo", suo quinto film da protagonista, Checco Zalone torna sul grande schermo non solo come attore ma anche, per la prima volta, come regista. Scritto dallo stesso Luca Medici (vero nome del comico) in collaborazione con Paolo Virzì, l'attesa pellicola uscirà tra poche ore in oltre mille copie ma i fan sappiano che stavolta il Checco nazionale, anziché mirare a far ridere in maniera genuina come suo solito, punta più in alto. Forse temendo di non riuscire a divertire come nel precedente "Quo Vado?", dall'incasso record, oppure, più probabilmente, volendo monetizzare quel successo in un modo più nobile, l'artista sceglie di rendere il divertimento secondario rispetto allo scopo di fare la differenza su un tema sensibile dei nostri giorni, l'immigrazione. Si sorride in quantità, ovviamente, ma l'umorismo è frenato e funzionale alla visione edulcorata di situazioni che nella realtà sono drammatiche. "Tolo tolo" racconta di un piccolo imprenditore, Checco (Zalone), che dopo aver visto fallire l'idea di proporre il sushi nel suo paesello natio, in Puglia, fugge dai creditori lasciando ai parenti i propri debiti. Rifugiatosi in Kenya, vede letteralmente andare distrutto il suo African Dream (nome del resort in cui nel frattempo ha trovato impiego) e, per tornare in Italia, si unisce a un gruppo di migranti. Con loro affronterà prima il deserto e poi la traversata via mare. Il trailer sui generis, ossia il video della canzone "Immigrato" in cui si passano in rassegna in modo ironico i luoghi comuni legati alle famose "risorse", dopo aver visto "Tolo tolo", si rivela essere un cavallo di Troia costruito ad arte per tirare la volata pubblicitaria all'uscita nei cinema e per confondere le acque sull'eventuale orientamento politico del film. Fuggire quanto possibile dalle etichette serve a vendere biglietti ai simpatizzanti di tutti gli schieramenti e quindi la narrazione si mantiene il più possibile superpartes, piazzando un paio di dissuasori come un nero traditore e un francese dall'ipocrisia radical-chic. Ciò detto, pare impossibile che chi ha scritto "Tolo tolo" creda davvero di aver praticato chissà quale equilibrismo. Archiviato il sodalizio con Gennaro Nunziante e imbeccato forse dal nuovo collaboratore, Zalone realizza un'opera che sembra aspirare ad avere un qualche valore pedagogico per i più piccoli e a smuovere per quanto possibile le coscienze dei più grandi. Ambizioso ed esemplare, senza dubbio. Il film però funziona maggiormente quando il comico domina la scena con il personaggio di sempre, l'opportunista affetto da qualunquismo e furberia. La commistione tra favola e terzo-mondo, coraggiosa e attenta a dribblare scivoloni nel buonismo più sfacciato, convince meno. Le battute atte a intervallare la ferocia sottintesa del contesto, alla fine, da un lato impediscono la commozione e dall'altro non bastano a far librare alta la spensieratezza. Le contaminazioni sono materia difficile, come insegna l'argomento del film, e quella tra l'impegno, imperativo morale da sempre caratteristico di un uomo come Paolo Virzì, e il candido cinismo, assunto base della comicità di Zalone, va a buon fine fino a un certo punto. Sono scene irresistibili quelle in cui vizi, gusti e limiti del protagonista (e dell'italiano di provincia) risaltano come avulsi e superficiali rispetto alle preoccupazioni reali di chi lo circonda. E', inoltre, indovinato il file rouge sulla carriera dell'arrampicatore politico che "assomiglia a Conte, ha il curriculum di Di Maio e parla come Salvini" (citandone la descrizione stessa fatta da Zalone in conferenza stampa), mentre è poco immediato il sillogismo tra fascismo, egoismo congenito e candida. Si poteva fare a meno della canzoncina "la gnocca salva l'Africa", inopportuna per tanti motivi, storici e anche contingenti al film (resta oscuro un certo comportamento del personaggio femminile). Così come lascia interdetti la digressione finale disneyana. Insomma, l'importante è non andare a vedere "Tolo tolo" pensando di trovarsi di fronte a due ore di puro disimpegno, perché quello nato a quattro-mani da Virzì e Zalone è un film che vuol avvicinare il pubblico al vissuto dei meno fortunati e forse anche tentare di cambiarne l'opinione a riguardo.

Marco Giusti per Dagospia il 30 dicembre 2019. Beh? Da che parte state?! E’ già il delirio, poro Checco, quello che si sta scaldando per il suo nuovo film, Tolo Tolo, ultimo del contratto che lo lega alla Tao2, cioè a Medusa (ma nessuno gli ha chiesto che farà dopo la fine del contratto… una sua società? legata a chi? sapete quanti produttori si sono dichiarati pronti a produrre i suoi film?). Da una parte ci sono i critici pensionati di Corriere e Repubblica miracolosamente schierati pro Zalone. Paolo Mereghetti che scomoda Alberto Sordi e Primo Levi (mi sa che erano più appropriati Franco e Ciccio e Bruno Corbucci…) e Natalia Aspesi, che pur non richiesta, mai aveva visto un film di Zalone, trova che i buoni del film sono gli africani. Ma perché dovevano essere cattivi, scusi? E che magari i cattivi sono i noti giornalisti, razzisticamente segnalati senza nome, che non hanno capito il video-promo. Come se ci fosse qualcosa da capire, era una barzelletta. Esattamente come nei film precedenti. Da un’altra ci sono i critici dei giornali de destra che si sono buttati sul film perché buonista e de sinistra. Ma chi lo ha detto? Checco ha fatto il possibile per non schierarsi da nessuna parte, per togliere ogni grammo di radicalchicchismo, una vera piaga per un comico, altro che la candida. Lo sappiamo. Non vuole etichette, non vuole essere tirato per la giacchetta. E l’abbraccio della sinistra dei giornali, ammesso che qualcuno dei suoi vecchi spettatori li legga, può essere fatale. Sono quelli che al massimo vanno a vedere il film cinese al Quattro Fontane, come The Farewell di Lulu Wang. Io l’ho visto, bellissimo, si piange tanto, è un film civile, non ci sono battute sessiste. Il tema non è solo la morte, ma la perdita di identità delle nuove generazioni che si sono staccate dalla madre patria, dalle tradizioni. Come se da Capurso o da Bari i tuoi figli finissero in America e chi li vede più. Così si soffre e si sognano i panzerotti. Ohibò. Tolo Tolo non può certo rischiare di perdere il suo bottino di 40-50-60 milioni per colpa dei radical chic e della critica di sinistra che lo trova quasi un film di Paolo Virzì. Anche per questo non c’è più Virzi alla regia, no? Un film di Virzì sui migranti con Checco Zalone non è un film di Zalone cafone quanto basta per tutto il suo pubblico. Lo sappiamo. E lo sapranno i suoi produttori, anche se non vogliono perdere né Cazzullo né Mereghetti né l’Aspesi né il salotto buono della sinistra dopo aver raccolto al massimo gli inutili salamelecchi di Aldo Grasso per le serietv. Che non sono certo 'Gomorra' né 'L’amica geniale', mi spiace, e, a parte Grasso, nessuno le cita tra i capolavori del decennio… Ma mentre tra i critici più o meno pensionati e di destra e di sinistra la divisione politica per la prima volta di fronte a un film di Zalone è precisa, sinistra pro destra contro, tra i ragazzi, a quel che sento, le cose cambiano. Qualunquisti e ragazzi di destra lo vogliono vedere, non aspettano altro anzi, sardine e bravi ragazzi di sinistra non muoiono proprio dalla voglia di andarci. Preferiscono sicuramente 'Pinocchio'… Non solo. Mi sembra, a sentirli parlare, che sentano persino puzza di sessismo di sinistra, come nei vecchi film di Scola amati da Virzì. Sono proprio le accuse di sessismo che hanno fatto, anche giustamente, arrabbiare Checco. In un’intervista al 'Fatto' ha pure detto che non ha mai mostrato nudi femminili nei suoi film, dopo anni di docce di ogni tipo nelle infami commedie sexy. Infami l’ho aggiunto io. Come se il sessismo si misurasse coi centimetri di pelle femminile mostrata. Dai, Checco. Il nudo e la commedia sexy non c’entrano nulla con il sessismo. Perché è sempre un problema di visione, di racconto al maschile, sia che venga fatto da Scola, da Virzì o da Zalone. Non c’è mai una visione della storia da parte della donna e già la battuta della canzonicina “La gnocca salva l’Africa” rischia parecchie critiche, anche giustificate, se pensi alle storie terribili di stupri, violenze e morte che le sopravvissute raccontano dei loro viaggi dall’Africa. Sono d’accordo con Checco, che ho sempre adorato fin dai suoi primi film, quando i critici di sinistra, già allora pensionati, ne parlavano malissimo, e che ritenevo davvero un rivoluzionario nel nostro cinema, sul politicamente corretto. Non si può fare il cinema comico col metro del politicamente corretto. Ma oggi, a differenza dei tempi sia della commedia all’italiana alla Ettore Scola sia che della commedia sexy alla Nando Cicero, non si possono fare più film dove non si rispettino non dico i problemi delle donne e dei migranti, quanto il loro sguardo su quel che si racconta. Cioè non te la cavi più con tre attori africani che hanno studiato in Francia e fanno i “buoni”, citando il Neorealismo, Rossellini e Pasolini. Devi, credo, immaginarti di raccontare la storia che racconti anche dalla parte loro, magari con uno sceneggiatore in più. O rischi di fare un film che ti può creare dei problemi o, peggio, di fare un film vecchio, come una vecchia commedia all’italiana fatta oggi, senza cioè la patina del tempo. Ottima per fare incassi grazie alla forza di Checco, che rimane un genio comico, qualsiasi cosa avesse affrontato, ma lontana mille miglia, altro che l’Africa, anche dalla realtà di quello che è il cinema oggi. E penso a film come 'Atlantique' di Mati Diop che potete tutti trovare su Netflix ed è candidato al miglior film straniero, a mille altri che non saranno campioni di incassi, ma non ci costringono a inutili dibattiti. Intanto i manifesti giganti di ''Tolo Tolo' dominano ovunque, come da anni non si faceva, perfino a Piazza del Popolo a Roma, messi proprio lì dove nel 1825 persero la testa i carbonari Targhini e Montanari. E Gigi Magni ci fece pure un film…

L'immigrato di Zalone divide il web, Valsecchi: «È satira». Ben 2 mln di visualizzazioni in 48 ore per il singolo del re degli incassi. La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 Dicembre 2019. La giornata di un italiano alle prese con un «immigrato», tra la «mano nera» che tenta di lavare il parabrezza e quegli spiccioli che rischiano via via di "prosciugare il fatturato», passando per la «sorpresa» finale: "Al mio ritorno/ Ti ritrovo senza permesso nel soggiorno/ Ma mia moglie non è spaventata/ Anzi/ Sembra molto rilassata...». Checco Zalone ha scelto di lanciare in un modo tutto suo, irriverente e politicamente scorretto, il suo nuovo, attesissimo, film, Tolo Tolo, in uscita il primo gennaio: un singolo, intitolato appunto 'Immigrato', che mescolando echi di Celentano e Toto Cutugno tocca un nervo scoperto in una società in cui va montando - come ha appena certificato il Censis - una deriva verso l’odio, il razzismo e l’intolleranza nei confronti delle minoranze. Il videoclip di Immigrato ha fatto immediatamente il giro del web, raccogliendo in 48 ore quasi 2 milioni di visualizzazioni e incassando commenti entusiastici ma anche critiche feroci al re degli incassi del cinema italiano. «Il video 'Immigratò di #CheccoZalone è terribile e non fa ridere. C'è poco altro da commentare, nessun bisogno di addentrarsi in analisi di chissà quali sfumature: banale spazzatura per il mercato delle festività», scrive l’associazione di volontariato Baobab. «Non ho capito se la canzone di Zalone «Immigrato» è fascista e razzista oppure prende in giro chi lo è. O è entrambe le cose, se possibile. Secondo voi? #CheccoZalone», si legge in un altro tweet. «Forse #CheccoZalone voleva far ridere. Non c'è riuscito, si è solo adeguato ai tempi #immigrato #blob», riflette un altro utente. Ma c'è anche chi parla di «capolavoro» e chi, come Antonello Piroso, chiosa sempre su Twitter: «Iscrivere d’ufficio #Zalone a un partito/movimento è un esercizio sterile e pure offesivo(per lui). In un colpo solo, irride sovranisti e cultori del #politicamenteCorretto,#Salvini e #Saviano. Non è di dx nè sin.E' #oltre». «Sono molto stupito di queste poche, per fortuna, reazioni al videoclip di Checco Zalone 'Immigratò, da noi prodotto», commenta Pietro Valsecchi, patron della Taodue. «Per me - e credo di interpretare anche il pensiero di Luca - e quindi per noi, la diversità è sempre stata un valore a tutti i livelli: di pensiero, di origine sociale, di provenienza geografica. La satira vuole prendersi gioco di tutte le certezze, qualunque esse siano, e chi non la capisce, forse non vuole neanche provare a mettersi in discussione. E quando graffia, graffia. Vi aspetto tutti il primo gennaio in sala: evviva Tolo Tolo», conclude. Né il testo né le immagini del video - girato in diverse zone di Roma tra le quali il quartiere Bologna, nel caseggiato popolare che è stato set del film di Ettore Scola “Una giornata particolare” con Marcello Mastroianni e Sofia Loren - sono tratte dal film sul quale vige ancora il massimo riserbo. L'unica sinossi ufficiale recita: «Non compreso da madre patria, Checco trova accoglienza in Africa. Ma una guerra lo costringerà a far ritorno percorrendo la tortuosa rotta dei migranti. Lui, Tolo Tolo, granello di sale in un mondo di cacao».

Lettera di Alessandra Mammì a Dagospia l'8 dicembre 2019. Caro Dago, in effetti Zalone è divisivo, persino in famiglia. E per non rovinarmi la domenica a discutere con il mio Giusti marito preferisco intervenire nel “dibbbattitto”  per dirti che  a mio parere quello spot “Immigrato” non è per niente politicamente scorretto. Correttissimo invece basta spostare il punto di vista e  registrare il plauso e l’applauso che arriva da i salviniani cronisti e opinionisti del “Secolo d’Italia” del “Giornale” e della “Verità” tutti pronti a sbeffeggiare il perbenismo di benpensanti e radical chic di sinistra, tipo me. Gente ancora ancorata a desueti principi di rispetto per l'altro , la quale pensa che è inutile girarci intorno, e citare filosofi in difesa della satira: il canto di Zalone sgorga dai petti della destra italiana e non c’è nessuna ambiguità, né umoristico sarcasmo. Il video è quello che vedi. Un immigrato pulcinella che cerca di vivere a sbafo e un italiano di classe media impoverita costretto alla convivenza forzata che non riesce a difendersi. Ma quel che mi ha più irritato confesso, non il legittimo sospetto di vedere un spot razzista ma la certezza di essere di fronte a un messaggio sessista di cui non parla nessuno. Ma l’avete vista la moglie ( bianca traditrice) che occhieggia alla virile prestanza del nero? E l’equazione attenti a questi che rubano il soldo, il divano e poi la moglie? Fa ridere, dice il marito (mio). Beh a me non fa per niente ridere il fatto che siamo ancora lì a parlar di mogli e di divani che si possono occupare o rubare. Questa non è satira, ma brutale maschilismo  tanto duro a morire che nel “dibbbattitto” tra tante voci ( maschili)  nessuno ha spezzato una lancia nei confronti di quella povera donna. Per cui poco importa se tra il primo gennaio e la Befana, grazie al divisivo spot, il nuovo film di Zalone farà 40, 50, 60 milioni di euro, i miei 7 o 8 di sicuro non le avrà.  Finché almeno non mi chiede scusa, a nome di tutte le donne. Bianche e nere.

Dagospia l'8 dicembre 2019. Riceviamo e pubblichiamo da Camilla Nesbitt, produttrice di Checco Zalone con la sua Taodue e moglie di Pietro Valsecchi: Ho letto con stupore e raccapriccio la lettera che Alessandra Mammì ha scritto a Dagospia a proposito dello spot di Checco Zalone. Stupore perché credevo che Alessandra Mammì sapesse distinguere la satira, la farsa dalla realtà. Applicare all’ironia categorie del “politicamente corretto”, che già tanti danni ha fatto alla nostra cultura, è una pratica di rara scorrettezza intellettuale. E non da lei, che si ritiene una «radica chic di sinistra». Dov’era la Mammì, quando il suo giornale, l’Espresso, per anni ha riempito le copertine di donne scollacciate per attrarre lettori maschilisti? Ma quelle copertine, ovviamente, erano «ambigue, piene di «umoristico sarcasmo» e non «sgorgavano dai petti della destra italiana». L’Espresso sì, Zalone no. La solita doppia morale della sinistra. Raccapriccio perché avremmo voluto leggere tanta indignazione e tanto risentimento alla pubblicazione del libro di suo marito Marco Giusti “Dizionario stracult della commedia sexy”. Certo qui i film «hard softizzati e soft hardizzati», i pornonazi, i pornoesotici, i pornopecorecci ecc, sono guardati con l’occhio del cinefilo maniaco, e dunque giustificati, studiati, ammirati, mentre Checco Zalone è un povero ignorantone, «un italiano di classe media impoverita», legato a una cultura arcaica. Nei grandi proclami, nelle lotte sociali, nelle battaglie contro il maschilismo noi donne ci mostriamo come ci conviene mostrarci; è nelle faccenduole che ci mostriamo come siamo, piccole donne.

I buonisti contro Checco Zalone. Ma sono loro a fare piangere. Massimiliano Parente, Sabato 07/12/2019, su Il Giornale. Caro Checco Zalone, volevo farti i miei complimenti. Perché con la tua canzone che lancia il tuo prossimo film Immigrato hai fatto venire fuori l'imbecillità del politicamente corretto. Voglio dire: fai una splendida parodia di Celentano, ci metti dentro tutti gli stereotipi sugli immigrati, dove alla fine l'immigrato te lo prendi perfino a letto perché tua moglie si innamora di lui, un immigrato rappresentato in modo quanto di più simpatico ci sia (stupendo quando dici «perché proprio a me?», e lui risponde «prima l'italiano!»), e tu un protagonista con un giubbotto salviniano, molto divertente. Insomma una sana operazione comica, ironica, una satira contro la retorica razzista, e cosa succede? Che saltano fuori i soliti indignati per accusarti di razzismo. Gente serissima, noiosissima, che capisce fischi per fiaschi, che non è capace di ridere, e dunque anche di poca cultura. Tipo questi dell'associazione di volontariato Baobab: «Il video Immigrato di Checco Zalone è terribile e non fa ridere. Banale spazzatura per il mercato delle festività». Arriva pure un certo professore universitario Luciano Giustini per twittare: «Poi uno dice da dove arriva il razzismo». Ha capito tutto, un genio. Tra poco, stai tranquillo, si accoderanno tutti gli altri, mi stupisco che Saviano non si sia ancora pronunciato dall'alto della sua tonitruante savianaggine. A parte che, da meridionale quale sei, in numerosi film hai preso in giro i meridionali, che è quello che deve fare la satira, anche quella nazionalpopolare che fai tu, ma mi domando cosa direbbero questi scandalizzati se vedessero i grandi comici anglosassoni, da George Carlin a Ricky Gervais a Louis C. K., i quali hanno ironizzato su tutto, dagli omosessuali alle donne agli obesi agli handicappati ai vecchi, e in realtà proprio usando la satira hanno contribuito a abbattere muri di pregiudizi. Come Woody Allen lo ha fatto nei confronti degli ebrei, e nessuno lo ha mai accusato di nazismo, anzi sono stati gli ebrei i primi a sganasciarsi. Ti dicono che non fai ridere, il problema è che questi qui fanno proprio piangere, per non dire altro. Di certo i Baobab o come cavolo si chiamano (senza offesa per loro, avranno altri meriti, di certo non quelli di capire la comicità), mi hanno messo una tale tristezza da avermi convinto a venire a vedere il tuo film di corsa. Dando prima un euro al mio amico immigrato che trovo sempre lungo la strada del cinema, per carità.

Alessandro Ferrucci e Federico Pontiggia per “il Fatto quotidiano” il 30 dicembre 2019. Alle 16 di ieri pomeriggio, Luca Medici non ha più le sembianze di Checco Zalone: da ore è assediato da telecamere e attenzioni per il lancio del suo ultimo film Tolo Tolo (in sala dal primo gennaio, in oltre 1200 copie), e oramai è solo con se stesso, la sua stanchezza, la tensione ("è agitato" confessa la moglie), quindi fuma con gesti automatici, lo sguardo fisso sul cellulare, cerca ossigeno ma non sa dove trovarlo, e arriva a giustificarsi: "Scusate, vado un attimo in bagno per la pipì". E quando il suo produttore, Pietro Valsecchi, lo prende in giro, quasi non reagisce. Lui ha la responsabilità del successo, è obbligato a portare sulle spalle il botteghino italiano, a zittire gufi, polemiche e critiche ("In Italia il mondo del cinema è portato a godere dei tonfi altrui"), e fuori dallo schermo non è sfrontato e spavaldo come il suo personaggio.

Checco Zalone è il vero alter ego.

«È la maschera dietro cui rifugiarsi, il cugino adulto e forte al quale si chiede di picchiare il bullo che ci assilla, mentre Luca Medici ha lo sguardo profondo e grigio di chi si pone dubbi, troppi dubbi, senza trovare sempre le giuste risposte ("per favore sottolineate che a volte esagero per scherzare, non voglio litigare con tutti"). Comprensibile. Già solo la canzone di lancio ha scatenato l' inferno, con le peggiori accuse di razzismo e sessismo, quando al contrario Tolo Tolo è un film dove si ride, si riflette, ci si può commuovere e del salvinismo non ha proprio nulla. Anzi».

In molti cinema con sole prenotazioni è già tutto esaurito.

«Questo aspetto mi fa un po' paura».

Valsecchi sostiene: "Sono un grande interventista, ma con Zalone non è facile. E ha quasi sempre ragione lui".

«Quando fai incassare molto, sono capaci di dire qualunque cosa; nel primo film Pietro è intervenuto tantissimo, poi meno, e in Tolo Tolo non l' ho quasi mai visto».

Fiducia.

«Forse più i 50 gradi all'ombra del Kenya; con me è stato paziente (due anni di lavoro) visto quanto è costato il film».

Tanto?

«Tantissimo, e siamo stati costretti a rigirare delle scene, a volte ad attendere delle settimane per affrontare gli imprevisti».

Compresa la pioggia nel deserto.

«È incredibile, non accadeva da vent' anni: ci sono delle scene buie proprio a causa del temporale. Un marocchino è arrivato ad alzare le mani in segno di resa: "Tu porti una sfiga incredibile, vattene brutto bianco di merda"».

Questa volta è anche regista: si è sentito solo?

«Spesso, e ho percepito la piena responsabilità del progetto, poi i set sono fortemente irregimentati; chi ha la responsabilità viene rispettato, ma chiuso il ciak si resta con se stessi».

Seguire la regia ha tolto spazio all' improvvisazione dell' attore?

«Boh, ci devo ancora pensare; però le scene inattese sono nate quando ero in preda alla disperazione, e le amo. A un certo punto non avevo più le comparse».

Com'è possibile?

«In una scena ne avevo 400 e in una giornata avevo girato solo un "campo" (la visione di una telecamera); il giorno dopo era previsto il controcampo, ma non c' erano le stesse persone: erano già partite per un' altra zona del Marocco».

Carlo Verdone: "Dovrebbe quotarsi in Borsa. Comprerei le sue azioni".

«Qui mi gratto un po' le palle (e porta realmente le mani al pube). Lui è un grandissimo. Ma grande veramente».

Però…

«In generale nel mondo del cinema e dello spettacolo c' è una rivalità incredibile».

Su di lei il cinema punta.

«Non è vero».

Lei risolve i problemi di botteghino.

«Anche qui: non è vero; al massimo risolvo i miei, quelli del produttore, del distributore e dell' esercente (sorride e ci ripensa). Oh, non mi fate entrare in polemica con Carlo, siamo amici!»

Maurizio Micheli: "Normalmente il comico subisce. Lui no. Non è un perdente e per questo è un grado sopra gli altri".

«Non l' ho capita, però mi è piaciuta, quindi l' appoggio».

Anche Alberto Sordi non subiva sempre.

«Passava indenne e con il suo atteggiamento da stronzo; in questo film il dramma iniziale non sfiora minimamente il mio personaggio».

È il mondo che si rapporta a Zalone.

«Questa è troppo difficile, togliamola».

In Tolo Tolo chi sono i cattivi?

«Non ci sono, così come i buoni, ed è uno dei punti di cui vado più fiero».

Proprio nessuno?

«In teoria il giornalista francese potrebbe inserirsi sotto la categoria "buonista" (il personaggio gira in zone disagiate per riprendere e denunciare), in realtà è un grande ipocrita: va lì, ma usa i poveri per ottenere visualizzazioni».

Sembra lo stereotipo del radical-chic.

«No, è proprio il radical-chic; ma in Tolo Tolo attacchiamo anche il fascistoide e il nero che alla fine ci tradisce».

Mentre scriveva il film ha pensato al nostro passato coloniale?

«All' inizio volevamo girarlo in Eritrea, poi non è stato possibile».

In alcune scene si tramuta in Mussolini.

«Qui voglio citare il mio amico Caparezza, quando dice: "È la nostra parte intollerante a uscire con il caldo, lo stress e i problemi"; il comico quando scrive un pezzo non pensa ai significati sottintesi, ma immagina una scena».

Ma perché ha assimilato il fascismo alla candida?

«Non lo so, ma a Ungaretti uno chiedeva il motivo di certe scelte?»

Sì.

«Volevo arrivare alla battuta che il fascismo si guarisce con il Gentalyn (ci ripensa). Ho pensato alla candida perché è una malattia fastidiosa, ma risolvibile».

Non sempre.

«Lo so io, si guarisce».

Ha il timore di essere diventato un autore di sinistra?

«Per favore non lo scrivete o perdiamo tantissimo pubblico! Comunque in molti sostengono che questo film sia più impegnato di quelli vecchi, e questa riflessione la trovo ingenerosa per il mio passato; qui sicuramente si vedono i soldi spesi e più momenti commoventi e poetici».

Perché in sottofondo si parla di un dramma vero.

«È così, e c'è più forza, c' è della verità, c' è un coglione in mezzo a delle facce reali; in alcuni momenti la difficoltà è stata quella di dover spiegare alle comparse il senso di certi passaggi».

Cioè?

«All' inizio qualcuno si è scocciato della frase "da qualche parte nell' emisfero c' è uno stronzo un po' più nero", poi ci ho parlato, ho puntato l'accento sul senso di speranza e tutto è cambiato. Alla fine mi hanno abbracciato».

Sergio Castellitto: "Zalone è un geniale qualunquista".

«Il mio personaggio lo è, nella vita no».

Giorgio Panariello: "Non è normale non invitarlo ai David di Donatello".

«Va bene così, non ci tengo, non è tra le mie priorità».

Siamo un Paese razzista?

«No, siamo in sofferenza e qualcuno ne approfitta per solleticare l' intolleranza».

Lei è permaloso?

«No, dipende da come mi dicono le cose (al suo fianco si siede la moglie Mariangela. Sorride. Non è proprio d' accordo)».

Stefano Sollima: "È intelligente. Interessante. Arguto. Non so se durerà".

«Chi è? Il regista di Gomorra?»

Sì, anche.

«Io spero che non duri la Camorra, così non gira più nulla. Oh, mi raccomando, precisate sempre il tono scherzoso».

"Non mi godo il successo, sono coglione e soffro" queste sono parole sue.

«E purtroppo confermo, sono perennemente in ansia e ne paga le conseguenze la mia famiglia (la moglie annuisce)».

Signora, suo marito quanto ha dormito negli ultimi giorni?

«Poco e stressa tanto: è un rompipalle, prende la Melatonina, poi sta male e va perennemente tranquillizzato con frasi tipo: "Andrà tutto bene, stai facendo un ottimo lavoro"».

E serve?

«A volte, poi si ributta giù, perché sul lavoro è un perfezionista. Solo sul lavoro».

Lo è sempre stato o lo è diventato?

«Diventato».

( Torna Luca Medici ) Sente l' ostilità del cinema italiano?

«Ostilità mi sembra esagerato, comunque in questo settore si gode più della sconfitta altrui che dei propri successi, e questa ostilità un po' la capisco; in tedesco si dice schadenfreude».

Davvero?

«Se Tolo Tolo non dovesse andare bene, tantissimi amici e colleghi brinderanno e questo atteggiamento lo considero umano, e probabilmente al posto loro farei lo stesso».

Un film italiano che le è piaciuto?

«Anime nere e Dogman. Più Dogman».

Antonio Manzini sostiene: "Ora che sono uno scrittore da classifica, mi chiedono opinioni su tutto. Eppure sono quello di prima che non contava nulla".

«Io qualunque cosa dico scoppiano le polemiche».

Qualunque.

«Televisione, giornali, social, sempre la medesima reazione».

Quando parla riflette più di prima?

«Un po' sì».

È meno libero.

«È così; tempo fa scrivo una canzoncina, e il titolo originario era: Gnocca d' Africa. Uno dei miei collaboratori un giorno mi chiama: "Sai, Luca, devo depositarla alla Siae, però Gnocca d' Africa mi sembra troppo, meglio Se t' immigra in mezzo al cuore"».

Risultato?

«Ho accettato, temevo l' accusa di sessismo, anche se è meno efficace».

Oggi in Italia è più eticamente sensibile il fascismo o il sessismo?

«Di tutta questa polemica quella di razzismo era talmente surreale che mi ha divertito; invece non ho tollerato il sessismo, quando nel film ho creato un bellissimo ruolo per Amanda (una delle protagoniste)».

Proprio ci tiene.

«Per anni al cinema e in televisione abbiamo vissuto le docce più strampalate, le scene più assurde, mentre nelle mie pellicole non sono mai pruriginoso, non ho mai fatto spogliare un'attrice, non ho mai toccato un culo (e guarda la moglie) quindi l'accusa di sessismo non la tollero».

A cena preferirebbe andare con Salvini o Greta Thunberg?

«Con Salvini, ma solo perché Greta non mi farebbe mangiare nulla e romperebbe per i piatti di plastica».

Teo Teocoli: "Zalone è l' Abatantuono degli anni Ottanta".

«Teo è un amico e vorrei tanto essere il Teocoli degli anni Ottanta».

Nel film cita Mussolini e fa recitare Vendola: in mezzo c'è qualche politico in cui credere?

«Non lo so, sono la faccia della stessa medaglia, con leader tutti presi da loro stessi, oppressi da un ego smisurato».

E…

«Alla fine si confondono tra loro, e tra questi c' è Matteo Renzi che un tempo ho votato: anche lui è affetto dalla malattia dell'"io"».

Sul set qualcuno la chiamava "maestro"?

«Ma che scherziamo? Davanti mi chiamavano Luca, poi alle spalle mi prendevano in giro».

Il produttore Valsecchi: «Con Zalone pescai il jolly. Ma che paura il messaggio di Riina». Pubblicato sabato, 27 aprile 2019 da Corriere.it. «Io non sono italiano, sono bergamasco. I bergamaschi si ritengono una razza a parte, superiore». Il produttore Pietro Valsecchi esordisce con tono provocatorio. «Provocatorio? No! È la verità».

E per quale motivo voi bergamaschi vi sentite superiori? A cosa?

«È un fatto culturale di comportamento. A Bergamo, per fare un accordo, basta stringersi la mano e guardarsi negli occhi, cosa che in Italia non esiste più».

Va bene, ma lei è nato a Crema e non a Bergamo.

«Sì ma le mie origini familiari sono bergamasche, i miei nonni facevano i contadini e avevano delle terre da quelle parti. Poi, avendo fatto pessimi affari, sono emigrati in Francia. Forse per questo ho una grande passione per i francesi».

Insomma, lei si sente bergamasco e un po’ francese, però come produttore ha fatto fortuna in Italia.

«È vero e nella vita professionale ho sempre raccontato storie italiane vere e mi sono trovato spesso a conoscere i personaggi che volevo rappresentare oppure coloro che li avevano conosciuti».

Tra quelli più impegnativi?

«Papa Wojtyla, di lui ho un ricordo tra i più vividi. Quando lo incontrai, era già malato e non parlava più. Però era molto ben informato e sapeva che stavo realizzando una serie sulla sua vita. Dopo avergli esposto il progetto, mi strinse forte la mano e mi lanciò uno sguardo che non dimenticherò mai. Mi voleva dire: “Non sbagliare!”». 

Poi toccò a Papa Francesco...

«Fu molto commovente la prima proiezione del film in Aula Nervi. Il Papa aveva deciso che dovessero assistere 7 mila poveri di Roma e non i soliti invitati scelti dal protocollo. L’applauso commosso di queste persone ha lasciato in tutti noi, che avevamo lavorato al tv-movie, un segno indelebile».

Non solo Papi, però...

«Il set più preoccupante fu quello del Capo dei Capi, su Totò Riina. Ebbene: nonostante fosse al 41 bis, il signor Riina sapeva che nella storia avevamo inserito un episodio relativo a sua moglie, Ninetta Bagarella, che lui riteneva non veritiero e ce lo mandò a dire! Confesso che fu un momento davvero difficile: ci allarmammo non poco».

Le storie che non è riuscito a rappresentare?

«Quella di Mohamed Yunus, il banchiere dei poveri: avevo letto il suo libro ed ero conquistato dalla sua visione rivoluzionaria. Avevo proposto il progetto a Oliver Stone, figlio di un banchiere, che declinò l’invito. Ne parlai con Gianni Amelio e il film doveva essere prodotto da Vittorio Cecchi Gori e, per definire i dettagli, fui invitato su un mega yacht attraccato davanti al porto di Cannes durante il festival del cinema. Me ne andai alla chetichella...».

Perché?

«Per parlare di povertà, mi trovavo nel lusso sfrenato di una festa scatenata, non era il posto giusto. Un’altra storia che non ho mai girato è quella della principessa di Monaco, Grace Kelly. Dopo un lungo lavoro diplomatico, riuscii ad avere un appuntamento con il principe Alberto: molto emozionato, entrai nella residenza dei Ranieri e finalmente iniziai a esporre il progetto, ma ben presto mi resi conto che il Principe probabilmente soffriva di narcolessia, durante l’incontro ogni tanto si addormentava, per poi risvegliarsi. Fu cortese, ma capii che non avrebbe mai appoggiato l’operazione. Stessa cosa successe con gli Agnelli».

Anche loro!

«Avevo scritto un bel copione dedicato alla vita dell’Avvocato, scomparso da poco. Chiesi di incontrare i familiari, John, Lapo Elkann ecc... ognuno mi indirizzava a un altro. Era meglio abbandonare l’idea, non avrei mai potuto raccontare questa storia nel modo gradito ai parenti. Un incontro importante, però, l’ho avuto con Francesco Cossiga, durante la stesura della miniserie su Aldo Moro: venne spesso nel mio ufficio per descrivermi i giorni del rapimento, uno dei grandi misteri italiani. L’ex presidente mi forniva solo il suo punto di vista, lasciando in ombra altri aspetti che credo non riusciremo mai a conoscere fino in fondo».

E pensare che voleva fare l’attore in palcoscenico... 

«I primi passi al Teatro Zero della mia città: era uno spazio militante negli anni caldi del movimento studentesco. Portavamo gli spettacoli nelle fabbriche occupate. Brecht era l’autore che rappresentavamo più spesso, per sollecitare domande scomode: in teatro si entra uniti e si esce divisi».

Un attore impegnato, dunque.

«Certo! Sono orgoglioso di essere figlio di un uomo, antifascista, deportato a Mauthausen».

La militanza teatrale si sposta poi a Roma.

«Il mio esordio nella Capitale avvenne una sera davanti a due sole spettatrici: Dacia Maraini e Sofia Scandurra. Apprezzarono la mia recitazione, tanto che mi proposero di interpretare un ruolo nel film Io sono mia: un set femminile e femminista, caotico, un’esperienza straordinaria a fianco di Stefania Sandrelli e Maria Schneider... però il teatro restava il mio unico amore».

E riparte dall’impegno politico con Terroristi di Mario Moretti.

«Il mio primo ruolo da protagonista: un’indimenticabile avventura, grandi elogi dalla critica, mi convincevo che era il mio mestiere, però a 28 anni ho deciso di voltare pagina: non più attore, né in teatro né al cinema».

Perché? 

«Ai miei amici dell’epoca, Michele Placido, Alessandro Haber, Fabrizio Bentivoglio, venivano proposti spettacoli o film importanti, a me solo piccoli ruoli. Avevo bisogno di lavorare e guadagnare e mi resi conto che come attore non avrei mai sfondato. Andai in crisi, ma non mi persi d’animo. Cominciai a leggere testi, copioni, libri... e li suggerivo agli amici primi attori».

Così nasce il produttore Valsecchi.

«Mi definisco un portatore sano di idee. Il primo grosso impegno produttivo fu con La condanna di Marco Bellocchio, con cui arrivammo all’Orso d’argento di Berlino».

Ma è l’incontro Camilla Nesbitt a cambiare le carte in tavola.

«La conoscevo perché anche lei faceva la produttrice, mi piaceva e avevo iniziato a corteggiarla, ma non mi filava. Finalmente in aereo, mentre andavamo al Premio Solinas, lei mi degna di uno sguardo e dice: Valsecchi siediti qui, vicino a me. Da quel posto non mi sono più alzato, siamo uniti da 27 anni».

Uniti nella vita e nel lavoro. 

«Insieme abbiamo capito che la tv era il futuro, non c’era più lo spazio per raccontare la realtà come aveva fatto il grande cinema civile dei Rosi, Petri, Bertolucci, Olmi... Era impensabile rifare quei film, che raccontavano un’Italia diversa. Noi volevamo rappresentare quella attuale e per farlo era necessario cambiare il mezzo: il piccolo schermo. Abbiamo unito le forze, creando la Taodue. In tutti questi anni abbiamo prodotto oltre mille ore televisive, tra tv-movie e fiction».

Un impegno costante, tanti i titoli famosi.

«E pure un allenamento quotidiano alla logica spietata dello share che ti fa crescere l’ansia: quel numerino, alle 10 di mattina, decreta implacabilmente se tutto il lavoro di mesi, a volte anni, è stato apprezzato. Uno stress terribile che mi ha causato fibrillazioni continue, fino a condurmi in ospedale e a dovermi operare: un’ablazione cardiaca. Per fortuna sto molto meglio». 

La fortuna al botteghino arriva con Checcho Zalone.

«Quando ho venduto la Taodue a Mediaset, mi davano per morto, finito. E invece ho tirato fuori dal cilindro un jolly: tutti mi sconsigliavano di fare un film con lui come protagonista e adesso, dopo quattro successi che hanno incassato in totale 200 milioni di euro, stiamo girando il suo nuovo lavoro dove firma anche la regia. È girato in Africa e si intitola Tolo Tolo, dall’espressione usata da un bimbo africano quando, nel film, incontra per la prima volta Zalone. Ma sto già pensando a una fiction su Ilaria Cucchi». 

Lo sbaglio madornale che ha compiuto sia in privato, sia nella professione?

«In privato, l’aver trascurato i miei figli, essendo troppo concentrato sul lavoro, credo di non essere un ottimo padre. Forse dipende dal fatto che i miei genitori sono morti troppo presto e non ho avuto figure con cui relazionarmi sotto questo profilo. Per fortuna ho due ragazzi, Virginia e Filippo, che si stanno costruendo la propria carriera in maniera autonoma: lei muove primi passi nella produzione, lui fa il cantautore. Nella professione? Non aver vinto un Oscar».

Un suo difetto insopportabile?

«Dire in faccia alle persone ciò che penso senza rendermi conto delle conseguenze. Un difetto che non ho è l’invidia, diffusissima in Italia: chi non sa fare semina zizzania».

A proposito di invidia, tra due anni finisce l’esclusiva con Mediaset: cosa farà?

«Tranquillizzo tutti: non so a chi dare i resti. L’unica cosa che mi manca, forse, è tornare alle origini. Mi piacerebbe produrre progetti teatrali, magari prendere in gestione un vecchio cinema nel cuore di Roma e trasformarlo in un luogo d’arte e intrattenimento: spettacoli, ma anche mostre, libri, incontri con personaggi importanti... Insomma, dentro la cultura e fuori i barbari.

Luca Bottura per “la Repubblica” il 9 dicembre 2019. Nell'era dell'indignazione che prescinde dal motivo della stessa, persino Checco Zalone è scivolato giù dal crinale. Colpa di una canzone - Immigrato , tra Cutugno e Celentano - con cui ha inteso lanciare il suo nuovo film, sulla falsariga delle sue precedenti avventure, cioè sfruttando il cosiddetto "Teorema albertosordi" sulla moltiplicazione del pubblico, che quivi vado a spiegare: prendi per il culo l'italiano medio ed egli ti sarà grato, essendosi riconosciuto e credendo di essere esaltato, ma riceverai anche il plauso dei progressisti che ricevono la satira sul popolino e ne godono, facendo tintinnare il Martini. Risultato: botteghini assaltati. Nel video, esilarante, il comico giochicchia con tutti i peggiori luoghi comuni sugli stranieri e ne trae una canzone che sembra scritta da Salvini. A 'sto giro, però, persino i sovranisti si sono accorti della satira su di loro, e non plaudono, mentre i famosi radical chic, forse storditi dall'essere al governo con quelli che stavano con la Lega, hanno alzato lai altissimi contro il presunto razzismo. Questo, almeno sui social. Al cinema, vedremo. Io sono già lì.

Dagospia l'11 dicembre 2019.: Se cercavate una prova sul razzismo becero e sessismo qualunquista della canzone “Immigrato”, siete accontentati – Invece di fare il solito paraculo, il pugliese Zalone poteva permettersi una capatina dalle sue parti dove è devastante il fenomeno del “caporalato” che vede gli immigrati sfruttati nei campi e sottopagati e costretti a vivere in pessime condizioni sanitarie (altro che lavavetri che si scopano le mogli degli italiani).

Heather Parisi critica Checco Zalone: "L'ironia è altro". Ma il web non ci sta. In un tweet lanciato nelle ultime ore, Heather Parisi ha destinato parole dure a Checco Zalone sul nuovo film in arrivo, Tolo Tolo, che uscirà nelle sale cinematografiche il prossimo 1° gennaio. Serena Granato, Sabato 14/12/2019, su Il Giornale. Checco Zalone è tornato al centro dell'attenzione mediatica, per via del suo imminente ritorno al cinema. Attore, comico, cabarettista e conduttore televisivo, Zalone sta facendo discutere sul suo conto, dopo la divulgazione in rete del trailer del suo atteso nuovo film, Tolo Tolo, la cui uscita al cinema è prevista per il 1° gennaio dell'anno alle porte. Nel video che anticipa l'uscita dell'attesa pellicola cinematografica, un extracomunitario viene presentato -con tono satirico- come "onnipresente". Un dettaglio quest'ultimo che, chiaramente, rispecchia la condizione che molti italiani sentono di vivere all'ordine del giorno. Nel trailer di Tolo Tolo, l'immigrato chiede spiccioli, pulisce i vetri e alla fine arriva persino a rubare la moglie a Zalone, intrufolandosi nel letto della coppia. All'uscita del promo del film in arrivo -il cui video è in poco tempo diventato virale nel web- è seguita la reazione di Heather Parisi, che ha destinato a Zalone un tweet al veleno. “L’immigrato di Checco Zalone è un concentrato di luoghi comuni - si legge nel messaggio che la Parisi ha scritto sul nuovo film di Zalone, alludendo in particolare al brano Immigrato presente nella nuova pellicola del comico-, che non ha nulla di ironico". "Perché l’ironia è altro -aggiunge, poi, Heather su quanto emerso nel trailer di Tolo tolo-, l’ironia consiste nel mostrare che è il suo contrario ad essere più credibile del luogo comune. #razzismo #immigrato #racism”.

I fan di Checco Zalone rispondono a Heather Parisi. Le ultime parole critiche, spese dall'ex showgirl di Fantastico, non sono state mandate giù da molti utenti. Sotto il tweet al veleno, lanciato da Heather Parisi circa l'attesa commedia - di cui Zalone è sia regista che attore protagonista- sono giunti, infatti, diversi messaggi di contestazione, da parte di chi proprio non condivide l'opinione espressa dalla ballerina."Non toccate #checcozalone, se non lo capite non lo guardate, punto", ha scritto un utente, alludendo, in generale, a chiunque abbia ad oggi criticato la comicità dell'artista nato a Bari e classe 1977. "Infatti, secondo me non è ironia, ma satira -si legge, poi, in un altro commento di contestazione rivolto alla Parisi-. Sì, Checco Zalone - anche se non sembra - è abbastanza intelligente per fare satira". Un altro utente scrive ad Heather, con tono ironico: "Checco Zalone razzista è la barzelletta di Natale". Infine, si legge ancora, contro la Parisi: "Stavolta, mi sa proprio che non hai capito, può non piacere per carità, ma di razzista non c'è niente... Se si conosce #CheccoZalone".

Da “Libero quotidiano” l'11 dicembre 2019. Giorgia Meloni si schiera con Checco Zalone investito da molte critiche dopo la diffusione del trailer del suo film «Tolo Tolo», in uscita nelle prossime settimane. «Se diventa politicamente corretta anche la satira, sparisce. Quella di voler controllare la satira di Checco Zalone è una cosa che pretende solo la sinistra», ha affermato la presidente di Fratelli d' Italia intervenendo sulla vicenda nel corso della trasmissione di Retequattro «Fuori dal coro». Secondo la Meloni, invece, «la canzone "Immigrato" è divertente» In effetti, a indignare, soprattutto a sinistra, era stata proprio la canzone che accompagna il video di presentazione del film e che, sulle note de «L' italiano» di Toto Cutugno, racconta le disavventure di un connazionale alle prese con un immigrato che, prima gli chiede soldi in ogni circostanza, e poi gli seduce pure la moglie. Il video, insomma, affronta il delicato problema dell' immigrazione, probabilmente secondo quello che è il punto di vista di molti italiani e, magari, anche con l' intento di ironizzare su tanti luoghi comuni che accompagnano gli stranieri in Italia. Sta di fatto che l' associazione Baobab, tra le più attive a Roma nell' assistenza agli immigrati, ha attaccato il comico a testa bassa: Il video Immigrato di Checco Zalone, preso così, è a uso e consumo di populisti, perché servono gli strumenti per interpretarlo e ci vuole molta fatica per convincersi che il messaggio sia opposto e che sia l' uomo bianco quello preso in giro o stereotipato». La polemica poi si era trasferita in televisione con una furibonda lite a «Quarta Repubblica», il programma condotto da Nicola Porro, dove l' economista Giuliano Cazzola e lo scrittore Giulio Cavalli avevano attaccato il comico dicendo che «fare ironia su certi argomenti è pericoloso» e che «la satira si rivolge ai potenti, non ai poveracci»; mentre il giornalista Daniele Capezzone lo aveva difeso ribattendo: «Ma se faccio una battuta sulla Fornero devo essere accusato di femminicidio? Quelli di Baobab hanno rotto». Polemiche che si erano già avute in occasione dei precedenti film e avevano portato assai bene a Zalone. Alla fine, a giudicare saranno gli italiani nelle sale cinematografiche.

Checco Zalone, il trailer del nuovo film indigna la Onlus dei rifugiati: "Istigazione al razzismo". Tolo Tolo uscirà nelle sale il primo gennaio. Nel video che lo anticipa, un extracomunitario viene dipinto con ironia come onnipresente. Per il costituzionalista Roberto Zaccaria, ex numero uno della Rai, oggi presidente del Cir, il Consiglio italiano rifugiati, non si tratta di una provocazione. "Satira? Quella si fa contro i potenti non nei confronti dei deboli". Goffredo De Marchis il 12 dicembre 2019 su la Repubblica. Ben più pesante delle polemiche social (immancabili), dei dubbi di alcuni, della difesa di Enrico Vanzina, arriva il giudizio del Consiglio italiano dei rifugiati. "Il trailer di Checco Zalone per il nuovo film? Quella non è una provocazione. E' una giustificazione del razzismo, direi quasi un'istigazione al razzismo". Sono parole di Roberto Zaccaria, ex numero uno della Rai, costituzionalista, più volte parlamentare del Pd, oggi presidente del Cir Consiglio italiano dei rifugiati), nel cui board, come direttore, siede anche il prefetto Mario Morcone, già capo di gabinetto di Marco Minniti al Viminale, uno dei massimi esperti italiani d'immigrazione. Fare il nome di Checco Zalone è un modo sicuro per avere un po' di pubblicità. Basta parlarne, nel bene o nel male. Il suo ultimo film "Quo Vado?" è uscito tre anni fa, il primo gennaio del 2016. Sono andati fisicamente a vederlo nei cinema 9,5 milioni di persone per un incasso record di 66 milioni. Zalone, con il suo talento e la sua comicità politicamente scorretta, è l'unica gallina d'oro del cinema italiano e di quello che gli ruota intorno: sale, distribuzione, maestranze. Il resto è un disastro, tanto che nel 2018 sono stati staccati più biglietti per il teatro che per il grande schermo. Ma quando un film di Zalone esce traina anche le altre produzioni italiane e tutti sono più felici. "Il grande successo mi sembra un'aggravante, purtroppo", commenta Zaccaria. Il presidente del Cir ha visto sui siti e in tv il trailer del nuovo film di Zalone, "Tolo Tolo", che esce il primo gennaio. Della trama si sa ben poco. Si parla certamente di immigrazione, è stato girato anche in Africa, c'è una particina persino per il politicamente correttissimo Nichi Vendola, bersaglio di una straordinaria imitazione di Zalone. Ma da qualche giorno, sul web e in tv, gira il promo del film: una canzone in stile Celentano che si intitola "Immigrato". E' già supercliccata. Spicca nella homepage di Youtube. L'extracomunitario viene dipinto con ironia come onnipresente nelle nostre vite: chiede spiccioli, pulisce i vetri e non ci lascia mai in pace. Alla fine ruba la moglie a Zalone infilandosi nel loro letto. Zaccaria ne deve aver parlato in giro, indignato, anche con gente dello spettacolo visto che la sua compagna è Monica Guerritore. L'ex presidente della Rai è rimasto colpito in particolare dalla scenetta finale, con lo straniero coricato insieme alla consorte del comico. "Continuano a ripetermi: ma guarda che è satira, è un ribaltamento dei luoghi comuni. Io non credo proprio". Per il capo del Cir "la satira è un'altra cosa, si rivolge contro i potenti e il potere in generale, non contro i soggetti più deboli". E aspettare di guardare il film prima di giudicare, presidente? "Certo, andrò al cinema. Vediamo se la morale è diversa dal trailer. Ma sa una cosa? Sono convinto che rideranno molto di più coloro che pensano che l'immigrazione sia un grave problema, che condannano l'invasione rispetto a chi sostiene una forma regolare di accoglienza". Solo la visione della pellicola o un intervento dello stesso Zalone può smentire l'impressione del presidente del Consiglio rifugiati. Una onlus che lavora da anni con gli Sprar soprattutto a Catania, in Puglia, a Roma, in Veneto e a Badolato, lo storico punto di accoglienza dei curdi. Ha sportelli per l'assistenza legale in tutta Italia. Un ufficio a Tripoli dal 2008 e uno in Tunisia, le basi di partenza dell'immigrazione verso l'Italia. "Ho letto su Huffington post una ricostruzione di Giuliano Cazzola - dice Zaccaria - che ricordava come nei cabaret della Germania di Weimar si suonavano canzoncine ironiche sugli ebrei. Poi sappiamo come è finita. Ecco, il momento storico non mi sembra il più adatto per fare comicità su rifugiati e stranieri".

Quel razzista di Checco Zalone. Nella follia del giorno d'oggi anche "Immigrato" la canzone del nuovo film del comico viene tacciata di razzismo. Redazione di Panorama il 10 dicembre 2019. Checco Zalone è un razzista. "Immigrato", la canzone con cui sta lanciando il suo attesissimo film è razzista, attacca ed offende gli extracomunitari. Andiamo con ordine. La prima cosa da fare è guardarsi il video ed ascoltarsi la canzone. Adesso che l'avete visto e smesso di sorridere bisogna fare un esercizio mentale molto faticoso e cercare di capire come mai ci siano non poche persone, decine, centinaia se non migliaia, tra cui noti e note intellettuali e persone anche vicine alla politica secondo cui questa sia una cosa razzista. E Checco Zalone un sovranista. I migliori addirittura ne hanno letto un inno al Salvinismo. Ma non è mancato chi ha detto che questa canzone sia sessista, contro le donne...Povero noi, povera Italia. Ormai è evidente che la guerra a Salvini ha prodotto risultati forse irreparabili; il nemico è dappertutto: in una frase, in una proposta di legge, in un post sulla Nutella, in un rosario, ora persino in una canzone di un comico.  Se lo ricordi chi parla di clima d'odio. 

Da ilmessaggero.it l'11 dicembre 2019. Grandi polemiche sul film di Checco Zalone, Tolo tolo, ancora prima della sua uscita: nell'occhio del ciclone la canzone che anticipa il film, "Immigrato". Ecco cosa è successo a Quarta Repubblica. Dopo aver mandato in onda il video della nuova canzone, colonna sonora del film in uscita, si è scatenato il dibattito in studio. Giuliano Cazzola, economista: «Su certi argomenti fare dell'ironia può essere pericoloso. In questa clip, la critica vera è l'offesa nei confronti degli stranieri in Italia: 5 milioni, di cui 3,8 extracomunitari. Molti mandano avanti settori importanti del paese. Il film non l'ho visto e forse neanche lo vedrò. Però rappresentare il problema degli immigrati con una caricatura è sbagliato». Dopo l'intervento dell'economista, tocca al giornalista Daniele Capezzone difendere la comicità di Zalone: «Ma se faccio una battuta sulla Fornero devo essere accusato di femminicidio? A quelli di Baobab dico... c'avete rotto i coglioni, lasciateci sorridere». Parla infine a Giulio Cavalli, giornalista e scrittore, dire la sua: «La satira storicamente attacca i potenti. Dal 1500 avviene questo. Attaccare i difesi, i poveracci, gli immigrati ma anche agli omosessuali. Può piacere o non piacere, si può rivendicare il diritto di non apprezzare Checco Zalone. L'operazione di marketing ha funzionato... Non so quanto faccia ridere il mafioso con la coppola e la lupara. La questione è che chi ha il potere di fare la satira dovrebbe usarla per attaccare i prepotenti e i pregiudizi».

Antonello Piroso per “la Verità” il 10 dicembre 2019. Sono solo canzonette. Ma anche no. Da venerdì 6 dicembre Immigrato, cioè il video-colonna sonora dell'ultimo film di Checco Zalone, Tolo Tolo, ha totalizzato oltre due milioni e mezzo di visualizzazioni su Youtube. Merito anche delle polemiche intorno al significato "metapolitico" da appioppare al testo, su cui si è già intrattenuto su queste colonne Francesco Borgonovo sabato scorso. Tutto grasso che cola, in vista dell'arrivo in sala il prossimo primo gennaio, per l'attore-regista pugliese e quell'altra faina incanutita che è il suo produttore Pietro Valsecchi. Come se ciò non bastasse, a fare ulteriore pubblicità all'ultimo manufatto zaloniano è anche il confronto a distanza tra Alessandra Mammì, firma dell'Espresso, e Camilla Nesbitt, moglie di Valsecchi.

Motivo della singolar tenzone? Il ruolo della donna nella canzone di cui sopra. Ussignur, mi verrebbe da dire: siamo ancora qui a disquisire dell'uso dell'immagine femminile, Il corpo della ragassa volendo citare il titolo di un romanzo di Gianni Brera del 1969, da cui 10 anni dopo il regista Pasquale Festa Campanile ricavò l'omonimo film con una ultrasexy Lilli Carati? Quasi all'alba del terzo decennio del terzo millennio, in cui le donne rivendicano pubblicamente la libertà della propria fisicità, financo sessuale, perfino come pornostar?

A dar fuoco alle polveri è stata Mammì, scrivendo a Dagospia per annunciare che non andrà a vedere il film nonostante l'entusiasmo del marito Marco Giusti (critico cinematografico che sempre per il sito aveva sfornato una recensione tutt'altro che negativa: "Zalone è l'unico in grado di affrontare la confusione ideologica degli italiani"): "Quel che mi ha più irritato non è il legittimo sospetto di vedere uno spot razzista (nientemeno, nda) ma la certezza di essere di fronte a un messaggio sessista". Cioè? "Ma l'avete vista la moglie -bianca traditrice- che occhieggia alla virile prestanza del nero? Fa ridere, dice il marito (mio). Questa non è satira, ma brutale maschilismo". Eh, la peppa. Su due piedi, a me sarebbe venuto da replicare: "Signora, ma lei ha mai sentito Zalone quando intona Uomini sessuali sui gay? Oppure La Taranta del Centrodestra, maramaldeggiando con le rime baciate dedicate a Mara Carfagna a Mariastella Gelmini? A voler essere un gendarme del politicamente corretto, anche lì sì ci sarebbero stati gli estremi dell'omofobia e del sessismo, ma non ricordo alcuno a sinistra inalberarsi per quel perculamento molto più che abrasivo".

Nesbitt è invece intervenuta sul serio, con un incipit che non lascia spazio a dubbi: "Ho letto con stupore e raccapriccio la lettera di Mammì...". Raccapriccio perchè -scrive lady Valsecchi- avremmo voluto leggere cotanto risentimento quando il di lei marito Giusti ha pubblicato il Dizionario stracult della commedia sexy, ovvero un viaggio di 528 pagine sui film "a luci rosse" degli anni 70 (nel presentare la sua fatica, Giusti peraltro ha messo in mezzo un altro esponente della sinistra massmediologica: "Ricordo perfettamente il lancio che Carlo Freccero, allora responsabile dei film di Canale 5, fece di quelle pellicole con Edwige Fenech e Gloria Guida"). Stupore perchè "dov'era Mammì quando il suo giornale, l'Espresso, ha riempito per anni la copertine di donne scollacciate? L'Espresso sì, Zalone no. La solita doppia morale della sinistra". Diamo per scontato che la controindignazione di Nesbitt sia sincera e non faccia parte di un'abile strategia di marketing, cui l'intemerata di Mammì ha offerto un'occasione d'oro per battere il ferro promozionale. Sia come sia, sulle cover dell'Espresso a Nesbitt piace vincere facile.

Chi scrive ha iniziato a far (male) questo mestiere scrivendo per Panorama diretto da Claudio Rinaldi, chiamato affettuosamente dalla truppa "la mente criminale". Che sapeva benissimo che se voleva recuperare un po' di copie vendute rispetto a un numero "moscio", doveva schiaffare in copertina una bonazza per recuperare un buon 15% di vendite, e stiamo parlando di 75 mila copie su 500 mila vendute, non esattamente bruscolini. Difficile dire chi avesse cominciato: Panorama per adeguarsi all'Espresso (cui si accodavano volentieri -ma con tirature più basse- Epoca e Europeo)? O viceversa? Di certo, c'è che lasciando il primo per passare al secondo, Rinaldi non mutò approccio. E se l'Espresso di Livio Zanetti (direttore dal 1970 al 1984) nel 1975 aveva provocato con una copertina-scandalo sull'aborto, una vera donna incinta fintamente crocifissa, da lì in poi ogni pretesto fu buono per impaginare, con titoli grondanti sapienti doppisensi, donne giovani e micro (o affatto) vestite.

Non si rimane delusi: si va da "Vita da single" a "Un tuffo nella crisi", da "Anni d'oro" a "In vacanza con lo spread", da "Voglio una vita leggera" (e quindi senza vestiti) a "Vincere le allergie", da "Rinascere nel 1995" (con Claudia Koll desnuda) a "Malati di test" (con un paio di chiappe in primo piano, certo: con gli elettrodi), da "Nudo anch'io" (in cui il protagonista era Vittorio Sgarbi bello "biotto", in risposta alla copertina di Panorama che riproponeva un manifesto pubblicitario di Luciano Benetton nudo);

da "Povera Rai, poveri noi" (con signorina piegata in doggy style) a "Diario del Viagra" (dove uno s'immaginerebbe di trovare un uomo, come dire?, felice di essere vivo, e invece no: c'è una donna nuda a cavallo della pillolina blu), da "A tutta coca" (dove c'è sì una narice imbiancata, ma la prima cosa che si nota sono le labbra turgide e dischiuse) all'autoreferenziale e autopromozionale "Nudi in copertina: si può? Non si può?";

fino a, e qui siamo davvero al capolavoro, "Tutti da Ciampi sabato sera" (sottotitolo: "Da Castelporziano a Capalbio-Indagine sulle spiagge dei potenti", e quindi con quale scatto corredare l'inchiesta? Ma è ovvio: una ragazza che con una mano si copre il seno, e con l'altra ammicca all'abbassamento delle mutandine con il pollice a tirare l'elastico...). Serve aggiungere altro?

Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 10 dicembre 2019. È chiarissimo che la geniale canzone di Checco Zalone non fa satira sugli immigrati. Fa satira su di noi. L' immigrato all' inizio pare una seccatura e alla fine si rivela una fregatura. Esattamente le paure inconsce - ma anche esplicite - degli italiani. Con tanto di presa in giro degli slogan leghisti - «prima l' italiano!» - e finale a petto in fuori sul balcone. (E con il rovesciamento dello schema di Cetto La Qualunque: non è più il marito a portare l' amante straniera a letto con la moglie, ma la moglie a portare l' immigrato a letto con il marito). Da qui la domanda: ma quelli che hanno dato del razzista a Checco sono gli stessi che non riescono a capire quello che leggono, o in questo caso vedono? Forse la vera risposta è un' altra. Sui social tutti parlano, molti insultano, calunniano, minacciano, e quasi nessuno ascolta. Per farsi sentire si avverte la necessità di alzare la voce. A costo di dire palesi sciocchezze. Forse dovremmo tutti prendere i social, e pure noi stessi, meno sul serio. Rinunciare a considerarli specchio della realtà, e ridurli a quello che sono: specchio del narcisismo di massa.

Cazzullo e Zalone. Augusto Bassi il 10 dicembre 2019. su Il Giornale. Per quanto io possa lavorare di cirage nello sforzo di tirare a lucido la mia retorica, nulla è più eloquente degli atti mancati così caratteristici della psicopatologia mainstream. Ieri Aldo Cazzullo ce ne ha offerto un buffissimo esempio. Commentando il trailer dell’ultimo film di Checco Zalone, scrive Cazzullo: «E’ chiarissimo che la geniale canzone di Checco Zalone non fa satira sugli immigrati. Fa satira su di noi. L’immigrato all’inizio pare una seccatura e alla fine si rivela una fregatura. Esattamente le paure inconsce – ma anche esplicite – degli italiani. Con tanto di presa in giro degli slogan leghisti – “«prima l’italiano!» – e finale a petto in fuori sul balcone. (E con il rovesciamento dello schema di Cetto La Qualunque: non è più il marito a portare l’amante straniera a letto con la moglie, ma la moglie a portare l’immigrato a letto con il marito). Da qui la domanda: ma quelli che hanno dato del razzista a Checco sono gli stessi che non riescono a capire quello che leggono, o in questo caso vedono? Forse la vera risposta è un’altra. Sui social tutti parlano, molti insultano, calunniano, minacciano, e quasi nessuno ascolta. Per farsi sentire si avverte la necessità di alzare la voce. A costo di dire palesi sciocchezze. Forse dovremmo tutti prendere i social, e pure noi stessi, meno sul serio. Rinunciare a considerarli specchio della realtà, e ridurli a quello che sono: specchio del narcisismo di massa». Sublime esempio di dum excusare credis, accusas. Mentre Cazzullo pensa di uscirne come quello progredito che non discrimina, in realtà rende evidente il proprio doppio metro da lacchè del padrone: se la satira sfotte l’immigrato è da censurare, se invece sfotte noi italiani va benissimo. Quindi mettiamo le mani avanti, chiariamoci: Zalone sfotte noi patetici coglioni, razzisti e fascisti! Noi patetici coglioni ancora convinti che gli immigrati siano una seccatura e alla fine possano rivelarsi una fregatura. Pensa che coglioni siamo! E chi legge diversamente il messaggio di Zalone… poverino, non capisce. Eccola la pruderie perbenino, rivelatrice del narcisismo servo degli influencer di dominio. Dove si specchiano le paure inconsce di chi non vuol contraddire il pensiero certificato – quello dietro cui soffia il capitale degli editori – perché sa di poter essere invitato a cena solo come suo cameriere. Le paure inconsce di chi arriverebbe a farsi coprire la moglie da un nordafricano pur di non perdere la livrea da valletto dell’ideologia regnante.

Fulvio Abbate per Dagospia il 9 dicembre 2019. Checco Zalone mi deve una cena, o forse basterà un cordiale. Intanto per la solidarietà che gli sto manifestando a proposito delle critiche davvero esagerate appena ricevute fin dal promo musicale del suo nuovo film, “Tolo Tolo”. Secondo alcuni, infatti, il video musicale dove si fa il verso a Celentano nostro sarebbe implicitamente, se non direttamente, “razzista”. A me non sembra così per nulla, e nel dire questo rimando tutti all’interrogativo capitale che, in giorni di semplificazione subculturale, quasi quotidianamente pongo ininterrottamente a me stesso. Eccolo, l’interrogativo: devo forse pensare che Roland Barthes sia giunto, un tempo, su questa terra del tutto inutilmente? Barthes, per chi non lo dovesse conoscere, è stato uno studioso di scienze umane che, fra molto altro, ha provato a spiegare l’ambivalenza del linguaggio: un semiologo. Proviamo con gli esempi: esiste, proprio per esempio, una figura retorica, detta “antifrasi”, che funziona così: ti do, metti, del “cornuto”, o dell’ “arruso”, o del “negro” per intendere altro dal significato apparente, anzi, per indicare il suo opposto, meglio, ribalto l’accezione negativa attraverso sarcasmo e ironia, depotenziando il negativo sia del significante sia del significato sia del referente. E’ troppo difficile da comprendere? Senza bisogno di arrivare allo strutturalismo e alla linguistica di Saussure, assodato che perfino la semplice parola “cane” morde, come spiegano, appunto, i linguisti alla loro prima lezione, in questo video di Zalone c’è ribaltamento attraverso la candeggina dell’ironia, ribaltamento di un sentimento di astio verso gli immigrati, e ciò avviene segnatamente con un’antifrasi. Va’ però un po’ a spiegarlo a chi mostri uno standard mentale oscillante tra Veltroni e Salvini. Zalone ha fatto un’operazione, come dire, perdonate se parlo da laureato in filosofia, da “radical chic”, perdonate anche se penso che questa cosa qui non la capirebbero neppure, temo, ripeto, né Salvini né Veltroni, Zalone ha fatto un’operazione manieristica, sì è messo nei panni del razzista medio, modello-base, ne ha riprodotto le ossessioni, le pulsioni ordinarie, ossia: il “negro” arriva qui da noi per un ennesimo ratto delle Sabine, forse anche delle Sabrine, per citare una Venere nostra del cinema. E adesso spiego perché Checco Zalone mi devi un vermut, chiamandomi in causa direttamente come scrittore: tra i miei libri ce n’è uno sui sentimenti - “LOve. Discorso generale sull’amore” (La nave di Teseo) - nel quale vive un capitolo che, temo, potrebbe non essere sfuggito agli sceneggiatori di Zalone. Dimenticavo: tratto da una storia vera. Lui, il “negro” impostore, si chiama Edison. Anzi, sai che ti dico? Ti incollo qui il racconto così com’è, ok? Leggi e poi capirai perché sto con Zalone. “Il pensiero più gretto che il razzista nostrano medio possa donare a se stesso, ogniqualvolta la televisione mostra le immagini dei migranti africani illuminati in viso e sulle braccia dall’arancione dei giubbotti salvagente, evoca l’immagine del ratto, nel senso del predatore. “Questi qui, i negri, vengono da noi per rubarci il lavoro, ma anche per scopare le nostre donne, le nostre femmine; infami, merde!” Segue un moto di sofferenza interiore al pensiero che tali soggetti possano avere perfino seguito nei sogni femminili del primo continente, se non altro per le risapute ampie dimensioni dei loro peni. D’altronde, come ha fatto visivamente notare una carta sinottica delle grandezze genitali maschili, l’Africa nera e i Caraibi brillano in cima al palmarès fallico. L’immagine successiva dell’invasione e della minaccia assodata mostra un ragazzo sempre di colore, il viso presidiato dai dread, ormai integrato nella vita serale cittadina, ora in veste di bartender ora di buttadentro. E qui il pensiero sostanzialmente non muta, il razzista medio concede soltanto che si tratti ormai di una gara tra maschi: “Vuoi vedere che questo negro stasera si porterà a casa quella che piace a me, scommettiamo, eh?” (…) In un angolo, su di una pedana, con la musica del duo Azucar Moreno, Devorame otra vez, pura salsa sensual, un ragazzone nero balla con una bottiglia in pugno, balla ammirandosi, perfino con talento, balla e sembra dire sempre a se stesso: “Cono, ce l’ho fatta!” Proprio lui, Edison, è l’attrazione del locale, sempre di lui si favoleggia ogni bene, ogni meraviglia.   Ma adesso occorre un passo indietro, fino a inquadrare Gaspare e Marina a spasso per L’Avana, Cuba. E’ lì che i nostri amici hanno incontrato Edison, è lì che lui è entrato per la prima volta nel loro campo visivo: un ragazzo con una maglietta del Benfica. (…) Per l’intera durata del soggiorno Gaspare, Marina e Edison sono rimasti inseparabili: lui li ha accompagnati ovunque, compreso al Museo de la Revolucion, dove vivono tarlate le memorie dell’avventura castrista che Gaspare ha guardato con emozione mentre Edison si informava con Marina circa la posizione dei capocannonieri del campionato italiano principale e perfino cadetto; Edison gli ha poi parlato della santeria, portandoli infine a cercare cio che Gaspare assolutamente desiderava dal tempo in cui militava in Avanguardia Operaia, cioè un ritratto del terzo cardine della trinità rivoluzionaria, Camilo Cienfuegos, dove gli altri due sono Fidel e Ernesto Che Guevara. Dovevate vedere che gioia negli occhi di Gaspare quando Edison, uscendo da un antro, si e presentato con il volto di Camilo impresso a fuoco su una tavoletta di legno! Infine, in serata, tutti a ballare, o magari ad ascoltare Edison e il suo pezzo forte, Piel Canela, un classico melodico d’America Latina: “Que se quede el infinito sin estrellas, / O que pierda el ancho mar su inmensidad / Pero el negro de tus ojos que no muera...” (“Lascia che l’infinito rimanga senza stelle / e il vasto mare perda la sua immensita / Ma il nero dei tuoi occhi non morirà.) Cosi fino a quando Edison, una sera, ha fatto deflagrare una bomba di lacrime, confessando a chiare lettere di non resistere più a vivere a Cuba. Il distacco tra Gaspare, Marina e Edison, alla fine, e stato molto duro, al punto che poco prima di partire per fare ritorno a casa, Gaspare ha promesso a se stesso che avrebbe fatto di tutto per far venire Edison in Italia. Ci sono volute giornate e giornate a sollecitare i funzionari dell’ambasciata di Cuba all’Aventino, ma alla fine ce l’hanno fatta. Così un bel giorno Edison è planato a Roma a spese degli amici italiani, chitarra in spalla, e già lì all’aeroporto ha preso a suonare la canzone della loro amicizia, Que se quede el infinito sin estrellas...Di lì a poco il lavoro a El Tendero. Inutile dire che Edison piace molto agli avventori del locale, lo ammirano perché effettivamente è un bel ragazzo, i tratti regolari, le gambe lunghe, un sorriso da conquistatore invidiabile. Edison, lo si è detto, piace anche a Gaspare e Marina, gli hanno approntato una piccola camera nella loro casa nel quartiere di San Giovanni, inizialmente destinata, almeno nel tempo analogico, a camera oscura per lo sviluppo e la stampa delle foto; così finalmente Edison è contento, e non c’è piacere maggiore per chi gli vuol bene. Certo, il clima di piazza Re di Roma non è lo stesso de la Isla de la Juventud, però, pazienza. A breve tuttavia dovrà pazientare anche Gaspare. Già, pazienterà a casa dei suoi, perché nel frattempo Edison e Marina hanno scoperto anche loro di stare bene insieme, molto bene, ancora meglio senza la presenza di Gaspare. Così un pomeriggio hanno detto all’uomo di troppo, anzi, all’intestatario del contratto di locazione: “Siediti un attimino, io e Edison ti dobbiamo parlare.” Il ritratto di Camilo Cienfuegos di lì a poco è finito contro uno spigolo, spaccato in due, Cienf e Uegos. E tornato a vivere a casa dei genitori, ritrovando la sua camera da studente dell’istituto professionale, i vecchi amici delle palazzine li intorno anche questi sono tornati a farsi vivi con lui, a dargli pacche di incoraggiamento. Anche Aroldo, un suo vecchio amico d’infanzia, tecnico di lavatrici convertitosi ai computer, che abita ancora lì nel quartiere. Gaspare lo ascolta in silenzio, a capo chino, senza neppure ribattere un “eh eh”.” Non credo sia doveroso aggiungere altro. Zalone e i suoi produttori, Camilla Snebitt e Pietro Valsecchi, mi devono davvero un cordiale, spero sia chiaro a tutti.   

Goffredo De Marchis per repubblica.it il 13 dicembre 2019. Ben più pesante delle polemiche social (immancabili), dei dubbi di alcuni, della difesa di Enrico Vanzina, arriva il giudizio del Consiglio italiano dei rifugiati. "Il trailer di Checco Zalone per il nuovo film? Quella non è una provocazione. E' una giustificazione del razzismo, direi quasi un'istigazione al razzismo". Sono parole di Roberto Zaccaria, ex numero uno della Rai, costituzionalista, più volte parlamentare del Pd, oggi presidente del Cir Consiglio italiano dei rifugiati), nel cui board, come direttore, siede anche il prefetto Mario Morcone, già capo di gabinetto di Marco Minniti al Viminale, uno dei massimi esperti italiani d'immigrazione. Fare il nome di Checco Zalone è un modo sicuro per avere un po' di pubblicità. Basta parlarne, nel bene o nel male. Il suo ultimo film "Quo Vado?" è uscito tre anni fa, il primo gennaio del 2016. Sono andati fisicamente a vederlo nei cinema 9,5 milioni di persone per un incasso record di 66 milioni. Zalone, con il suo talento e la sua comicità politicamente scorretta, è l'unica gallina d'oro del cinema italiano e di quello che gli ruota intorno: sale, distribuzione, maestranze. Il resto è un disastro, tanto che nel 2018 sono stati staccati più biglietti per il teatro che per il grande schermo. Ma quando un film di Zalone esce traina anche le altre produzioni italiane e tutti sono più felici. "Il grande successo mi sembra un'aggravante, purtroppo", commenta Zaccaria. Il presidente del Cir ha visto sui siti e in tv il trailer del nuovo film di Zalone, "Tolo Tolo", che esce il primo gennaio. Della trama si sa ben poco. Si parla certamente di immigrazione, è stato girato anche in Africa, c'è una particina persino per il politicamente correttissimo Nichi Vendola, bersaglio di una straordinaria imitazione di Zalone. Ma da qualche giorno, sul web e in tv, gira il promo del film: una canzone in stile Celentano che si intitola "Immigrato". E' già supercliccata. Spicca nella homepage di Youtube. L'extracomunitario viene dipinto con ironia come onnipresente nelle nostre vite: chiede spiccioli, pulisce i vetri e non ci lascia mai in pace. Alla fine ruba la moglie a Zalone infilandosi nel loro letto. Zaccaria ne deve aver parlato in giro, indignato, anche con gente dello spettacolo visto che la sua compagna è Monica Guerritore. L'ex presidente della Rai è rimasto colpito in particolare dalla scenetta finale, con lo straniero coricato insieme alla consorte del comico. "Continuano a ripetermi: ma guarda che è satira, è un ribaltamento dei luoghi comuni. Io non credo proprio". Per il capo del Cir "la satira è un'altra cosa, si rivolge contro i potenti e il potere in generale, non contro i soggetti più deboli". E aspettare di guardare il film prima di giudicare, presidente? "Certo, andrò al cinema. Vediamo se la morale è diversa dal trailer. Ma sa una cosa? Sono convinto che rideranno molto di più coloro che pensano che l'immigrazione sia un grave problema, che condannano l'invasione rispetto a chi sostiene una forma regolare di accoglienza". Solo la visione della pellicola o un intervento dello stesso Zalone può smentire l'impressione del presidente del Consiglio rifugiati. Una onlus che lavora da anni con gli Sprar soprattutto a Catania, in Puglia, a Roma, in Veneto e a Badolato, lo storico punto di accoglienza dei curdi. Ha sportelli per l'assistenza legale in tutta Italia. Un ufficio a Tripoli dal 2008 e uno in Tunisia, le basi di partenza dell'immigrazione verso l'Italia. "Ho letto su Huffington post una ricostruzione di Giuliano Cazzola - dice Zaccaria - che ricordava come nei cabaret della Germania di Weimar si suonavano canzoncine ironiche sugli ebrei. Poi sappiamo come è finita. Ecco, il momento storico non mi sembra il più adatto per fare comicità su rifugiati e stranieri".

Giancarlo Dotto per Dagospia il 14 dicembre 2019. Anche un asino parlo perché volle Dio, disse il saggio. Ma quanti ce ne sono di questi maledetti asini in circolazione? Nel giorno in cui il ridicolo del politicamente abietto sfonda il muro del suono con le accuse di “razzismo” allo spot di Zalone, per me solo banalmente spassoso (vedendolo e sganasciandomi su mi chiedevo, ci sarà mica qualche asino che lo troverà razzista? E mi rispondevo: no, non può esserci tanto asino al mondo), diventa giusto tornare sul famigerato “Black Friday”, il titolo più vituperato del decennio, diventato nel frattempo sufficientemente inattuale per considerarlo finalmente attuale. E prima che i soliti cervelli bovini si mettano al lavoro, ruminando l’inevitabile schizzetto di veleno, anticipo: mi sarà allo stesso modo facile dargli addosso al Zazza, nel caso contrario di dissenso. Nulla di personale, dunque. Il titolo, in questo caso, lo faccio io: “Dove sta lo scandalo ZaZa, madonna mia?”. Triplice Za. Dallo spot di Zalone al titolo di Zazzaroni all’esecrazione di Zaccaria, mi sa che il problema è proprio questo: i ridicoli non hanno il senso del ridicolo. Un problema serio. Le trombe della demagogia sono sempre lì, pronte a stonare. Voglio dire, qualunque nome porti, qualunque carica, storia o decorazione abbia alle spalle, tu devi seriamente diffidare di te stesso nel momento in cui scambi un comico che “gioca” sulle fantasie, peraltro succubi, del latticino medio, inteso come uomo bianco, a proposito dell’immigrato incombente (immaginarlo peraltro nel letto con la moglie sarebbe, secondo un sondaggio impossibile ma vero, la fantasia prevalente dell’italiano medio, imbolsito e devitalizzato da anni di ménage coniugale), per “istigazione al razzismo”. Se poi a dirlo sono anche quelli che si occupano istituzionalmente di rifugiati, vuol dire solo una cosa, che stai portando l’acqua al tuo mulino, in questo caso nero ma verniciato di bianco. Trovando razzismo dove razzismo non c’è, nemmeno l’ombra, non fai altro che lucidare la tua targhetta di ottone. Tornando al “Black Friday”. Passata una settimana, passata la tempesta di fango, paragonabile alle scariche compulsive di guano che di questi tempi bersagliano le teste dei romani, crivellati tra cielo e terra da uccelli e buche, è arrivato il momento di dire. La miseria dei tempi è la non sussistenza delle cose. Ti uccidono per equivoco con una raffica a vanvera e il giorno dopo più nulla. Come nulla fosse accaduto. Carnefici e vittime spazzati via dalla scarica successiva. I social sono, in questo senso, nichilismo puro. Oggi sì, a mente fredda e ombrelli aperti, le teste protette dal guano della rete, possiamo dirlo: le accuse di razzismo a quel titolo sono state una gigantesca cazzata planetaria. Un caso unico di contagiosa idiozia, con l’apice inarrivabile dell’interdizione ai giornalisti del “Corriere”. Ma di questo nemmeno parlo, in certi casi anche le parole si rifiutano di parlare. Partita, come sempre, in epoca virale, con due o tre lasciti dei soliti petomani del politicamente abietto, sempre in assetto di giudizio universale, è diventata in poche ore un boato, una stroncatura per sentito blaterare, una scia grottesca, un abominevole blob, toccando pure la complicità di quei poveracci innocenti di Smalling e Lukaku, oggetti piuttosto, con quel titolo, di un omaggio assoluto. Cosa spaventa di questa stupidità che per un paio di giorni ha infuriato sul “Black Friday” e ora sul “Black Zalone”? Due cose: la totale assenza di un pensiero e l’ottusità gregaria, l’orda di crani vuoti che si allinea nella catena del passaparola. Le due cose insieme hanno combinato la tempesta perfetta. Terza cosa, la smania di superarsi l’un l’altro nella corsa delle anime belle. E qui, Roma e Milan hanno stravinto. L’ultimo appunto lo devo fare al direttore Zazzaroni. Ha sbagliato di grosso a chiedere scusa ai due soggetti in questione. Un piccolo cedimento alla furia alias bolla di massa. Non c’era nulla di cui scusarsi. Togli Chris Smalling e Romelu Lukaku, metti Tommie Smith e John Carlos. Metti caso che il giorno in cui i due hanno alzato il pugno guantato di nero sul podio, Città del Messico 1968, fosse stato un venerdì invece che un mercoledì, sarebbe stato perfetto titolare “Black Friday” e nessuno avrebbe fiatato. Lukaku e Smalling non erano gli eroi di una protesta che avrebbe fatto scandalo, ma i due probabili protagonisti di una partita che avrebbe incendiato San Siro. Due neri, due ex compagni, due suggestioni potenti anche nella chiave fisica oltre che cromatica dello scontro. Evidenziare non vuol dire discriminare, direbbe la maestra al ciuco di turno. Sottolineare la differenza non è razzistico di per sé, lo diventa se è motivo di discriminazione. Il razzismo peggiore è negare la differenza. Quello vero striscia e si nasconde in ognuno di noi, nelle tante forme subliminali di discriminazione, invisibili nelle piccole cose. Parlando di gialli e di neri nel calcio. Il coreano Son del Tottenham è il calciatore più sottovalutato del pianeta. Se Diawara fosse biondo e aitante, la sua partita a San Siro, gigantesca, sarebbe stata giudicata con un nove, non avremmo letto stitiche sufficienze. La “differenza” è ovunque, grazie al cielo, attorno a noi, che ci attrae, ci cattura, ci stordisce. Che ci ammutolisce o ci fa eloquenti. La differenza titola tutte le nostre giornate. Ci libera dalla noia e dall’apatia. Ci mette in movimento. Che tu sia uomo o donna, nero, bianco, giallo o rosso, differenza non è sofferenza. Il colore stesso della pelle è differenza, una delle tante porte dell’immaginario. Solo nel mondo di Narciso, il più grande razzista della mitologia, la differenza non è desiderio.

Dalle Alpi al Salento è Zalone-mania: «Tolo Tolo» incassa 8,6 mln in un solo giorno. Luca Medici batte sé stesso: pienone anche negli spettacoli notturni del primo dell'anno. Carlo Stragapede il 2 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La Zalonemania impazza fin dai primi minuti del 2020. Tutto esaurito o quasi, nelle sale pugliesi già alla proiezione di mezzanotte dell’attesissimo film di Luca Medici-Checco Zalone Tolo tolo. Il lungometraggio ha parzialmente stravolto le abitudini di Capodanno di molti italiani che hanno tradito la tradizionale giocata a carte o la notte in discoteca o la festa in piazza per accomodarsi in poltrona a godersi i lazzi e l’ironia - questa volta anche amara - del comico capursese. Anche nei multisala di Bari città si è registrato un notevole afflusso, nonostante la concorrenza dello spettacolo musicale in piazza Prefettura, presentato da Federica Panicucci. Fioccano le prenotazioni e conseguentemente gongolano i gestori dei cinema, anche quelli delle piccole sale della provincia, i quali sono felicemente «costretti» a mettere su spettacoli dalle quattro del pomeriggio a mezzanotte e oltre, fino a cinque proiezioni al giorno, per accontentare le crescenti richieste. Lui, il 42enne autore e attore «Re Mida» del cinema italiano, non si è visto in giro, almeno a Bari e dintorni. In una intervista a una emittente radiofonica nazionale, offre la interpretazione autentica del suo personaggio, più maturo e meno farsesco, più essere umano e meno marionetta rispetto ai lavori precedenti, così come è forgiato dalla sceneggiatura scritta a quattro mani con Paolo Virzì: «Il protagonista - spiega - è l’italiano di oggi concentrato su se stesso, che veste grandi griffe, che non avverte ciò che sta accadendo intorno a lui e suo malgrado si trova insieme agli immigrati a fare il viaggio nel deserto e poi nel Mediterraneo con loro». A proposito di migranti. Il titolo del film Tolo tolo prende spunto da una frase che il piccolo Doudou, il bambino nero che lo accompagna nella traversata dall’Africa all’Italia, pronuncia entusiasta quando impara a nuotare «solo solo», cioè senza l’aiuto di Checco. Molti spettatori, dopo i titoli di coda, commentano a caldo che «è un film che fa divertire ma anche riflettere». E forse farà arrabbiare qualcuno, aggiungiamo, perché prende di petto il tema dei migranti. Sul punto, Luca Medici commenta: «Anche in occasione degli altri film qualcuno si è arrabbiato, ormai ci convivo. Sarebbe stato peggio se avesse lasciato indifferenti. Il tema è caldo, non è un film di impegno civile ma sono andato a parlare di questo argomento con il mio sguardo e la mia visione che non sto a commentare perché trovo terribile autorecensirsi». Il regista-attore delinea il personaggio di Tolo tolo: «È rozzo, concentrato su stesso, incapace di vedere oltre, però conserva l'umanità e penso venga fuori un italiano mai privato della sua umanità». È presto per dire che il quinto film - il primo da regista di Checco Zalone dopo il lungo sodalizio con Gennaro Nunziante - raggiungerà il record di incassi di Quo vado? (65 milioni) ma le premesse ci sono tutte. Lui si schermisce: «Non penso di ripetermi perché quello fu davvero un incasso assurdo, ma - confessa - spero quantomeno di avvicinarmi, ma lo dico per il mio produttore (Pietro Valsecchi, ndr) che è povero ed è lì a Cortina che non può pagare il conto al ristorante. Sta attendendo, non ha ancora pagato. Vi prego, andate al cinema per lui», scherza. Il film offre gli scenari lussureggianti delle spiagge del Kenya e quelli, inquietanti, del deserto del Sahara e, drammatici, del lager dei migranti in Libia (ricreato dagli scenografi a Malta), ma dà dignità artistica anche alle bellezze naturali della nostra Puglia: come gli scorci di Spinazzola, l’area «Madonna della Stella» di Gravina dove è ambientato il set del fallimentare ristorante «Murgia Sushi», la Selva di Fasano, tra i cui trulli un inedito Nichi Vendola nei panni di se stesso offre un cammeo denso di intelligente autoironia. Nel cast inoltre spiccano alcuni bravissimi artisti pugliesi, tra i quali: Nicola Di Bari (il celebre cantante di Zapponeta interpreta il papà cardiopatico di Checco); Gianni D’Addario (il compaesano che fa una incredibile carriera fino alla presidenza della Commissione europea); Monica Angiuli (la cugina); Nicola Nocella (l’avvocato); Antonello Loiacono (il medico legale); Vittoria Loiacono (una parente); Nunzio Cappiello (zio Sushi).

Zalone record, batte se stesso e incassa oltre 8,6 milioni in un solo giorno. La Repubblica il 2 gennaio 2020. Checco Zalone batte se stesso: il nuovo Tolo Tolo ha incassato, nel primo giorno di programmazione, Capodanno, 8.668.926 euro con oltre un milione di spettatori in un solo giorno. Una media di 7.164 persone in 1.210 schermi. Il suo precedente successo, Quo vado?, aveva fatto registrare 7.360.192 euro. Un trionfo, con Zalone che ha surclassato tutte le altre opzioni del cinema del primo anno. Il secondo film più visto è stato Jumanji con soli 681mila euro di incassi, meno di un decimo.

Marco Giusti per Dagospia il 4 gennaio 2020. Stra-straboom! Al terzo giorno di programmazione Tolo Tolo di Checco Zalone incassa altri 4,5 milioni di euro e arriva al totale di 18,5 milioni. Malgrado gli abbracci letali di Cazzullo e Battista, e le critiche ultranegative non tanto degli spettatori di destra incazzati, ma degli amici zaloniani della prima ora che lo vanno a vedere e lo trovano come distrutto dallo scolavirziveltronismo di fondo e dalle gag che non tornano (quanto manca Gennaro Nunziante), Tolo Tolo è terzo nella classifica stagionale dietro a Il re leone a 37,5 milioni e al Joker a 29,5 dopo aver superato anche Frozen 2 rimasto a 18,3. La buona notizia per il cinema italiano è che oltre a Tolo Tolo abbiamo anche Il primo Natale di Ficarra e Picone che è quinto a 14,1 milioni e Pinocchio di Matteo Garrone che è sesto a 12,5. E magari se le sale italiane non fossero tutte prese dal film di Zalone al punto che è quasi impossibile evitarlo se volete andare al cinema, Pinocchio e Il primo Natale potrebbero ancora andare avanti negli incassi. Penso soprattutto a Pinocchio, grande affresco dell'Italia dell'800, che dopo un primo impatto non fortissimo aveva davvero convinto gli spettatori italiani e ci sembra rimasto un po' soffocato nella sua corsa dal ciclone anche mediatico del caso Zalone. Il tutto mentre Trump porta avanti i suoi giochi di guerra per non parlare delle mosse di Erdogan in Libia. Come si fa a ridere e a contare i soldi in queste condizioni è un paradosso tutto italiano e tutto berlusconiano che nemmeno Cazzullo e Battista riusciranno a spiegarci. 

Marco Giusti per Dagospia  il 5 gennaio 2020. Strastrastraboom! Anche ieri Tolo Tolo di Checco Zalone con le sue sue 1200 copie stravince la giornata, 5,5 milioni di euro di incasso per la gioia di Valsecchi e Berlusconi e con gli osanna dei giornali diciamo di sinistra. Oggi ne parla benissimo anche il puntiglioso Fabio Ferzetti ( "Zalone ha rotto il ghiaccio, accidenti se lo ha rotto") e riceve l'appoggio più militante, quello di Roberto Silvestri. Manco fosse un film di Ken Loach... Il totale dopo 4 giorni di programmazione è di 23,9 milioni di euro, terzo nella classifica stagionale a un passo dal Joker. Si dirà che non sono gli incassi di Quo vado, e difficilmente arriverà ai suoi 65 milioni. E capiremo solo la settimana prossima se arriverà ai 40 milioni, la cifra che segnerà il successo del film con i 25 milioni di budget. Magari qualche drone in meno lo avrebbe reso un film migliore. Jumanji The Next Level è secondo con "soli" 573 mila euro e un totale di 9,2. Terzo Pinocchio di Matteo Garrone con 458 con un totale di 12,9 milioni che lo portano al sesto posto in classifica stagionale, mentre Il primo Natale di Ficarra e Picone è quinto  14,3 milioni. La dea fortuna di Ferzan Ozpetek, ieri quarto con 291 mila euro, è arrivato alla bella cifra di 6,2 milioni. Tra le news new entries 18 regali di Francesco Amato ieri sera settimo con 228 mila euro e un totale di 513 mila euro, mentre Sorry We Missed You, bellissimo film di Ken Loach non prodotto da Valsecchi e Berlusconi è ottavo con 135 mila euro e la seconda miglior media per copia del giorno dopo Tolo Tolo. Trionfo per la sinistra militante.

Continua la corsa di "Tolo Tolo", Checco Zalone a quota 23 milioni di incasso. Dal giorno dell'uscita nelle sale il 1°, che vede Luica Medici nella duplice veste di regista e attore, rischia di diventare il film italiano più visto di sempre. La Repubblica il 05 gennaio 2020. Con quasi 8,7 milioni incassati in una giornata, quella dell'uscita il 1° gennaio, e con oltre un milione si spettatori, Tolo Tolo di Checco Zalone rischia di diventare il film italiano più visto di sempre, con un primo dato che è già entrato nella storia: è infatti il migliore incasso, nelle prime 24 ore, nella storia del cinema italiano. Luca Medici, qui in veste sia di regista (è la sua prima volta) che attore, sbanca tutti, persino se stesso: uscito in 1.200 sale italiane, il film, prodotto da Taodue e distribuito da Medusa, ha superato il precedente record di Quo vado?, fermo a 7,3 milioni, che nel 2016 incassò alla fine circa 65 milioni di euro. Ma la corsa di Tolo Tolo non si arresta: dopo quattro giorni di programmazione guadagna 5.488.382 di euro raggiungendo poco meno di 23 milioni in totale. Secondo, a grande distanza, Jumanji: The Next Level, con un incasso di 9.277.621 euro. Il film, applaudito dai colleghi e criticato da alcuni politici e seguito non solo dal successo ma anche dalle polemiche, è una commedia musicale che racconta l'immigrazione, il fascismo, sempre pronto a uscire da ognuno di noi. Risate, certo, ma anche molto su cui riflettere. Il soggetto è stato scritto da Paolo Virzì, con cui Luca Medici ha firmato la sceneggiatura. Due nomi a questo punto accomunati da una sola parola: impegno. Il botteghino, intanto, s'impenna. 

Marco Giusti per Dagospia il 6 gennaio 2020. Chevelodicoaffà? Tolo Tolo di Checco Zalone con gli incassi di ieri, 5 gennaio, altri 5,9 milioni, arriva a un totale di 29,9 milioni per la gioia di Valsecchi e Berlusconi e, superando il Joker, è il secondo incasso della stagione, pronto a sfidare quindi i 37 milioni de Il Re Leone della Disney. Non sono ancora i 40 milioni desiderati ma poco ci manca, anche perché i commenti, incredibilmente, sono quasi tutti negativi. Però il pubblico seguita a vederlo e a riempire le 1200 sale che rendono impossibile vedere qualsiasi altro film. Dietro si ritrova, al solito, Jumanji The Next Level con altri 619 mila euro per un totale di 9,8 e un decimo posto in classifica, Pinocchio con 524 mila euro e un sesto posto in classifica con 13, 4, mentre Il primo Natale di Ficarra e Picone, ieri quinto dietro anche a La dea fortuna, è quinto in classifica generale con 14,6 milioni. Erano anni che il cinema italiano non andava così bene. Ci pare. Bene così. Anche se Salvini, quello che voleva Checco Zalone senatore, e la sua politica dei porti chiusi ora ha qualche problemuccio e non ci sembra particolarmente aiutato dal film di Zalone. 

Checco Zalone e il patrimonio da quasi 5 milioni gestito dalla moglie. Mario Gerevini l'1 gennaio 2020 su Il Corriere della Sera.  Il «gruzzolo» del dottor Luca Medici. Il dottor Pasquale Luca Medici dovrebbe ringraziare Checco Zalone per i quasi 5 milioni di euro che gli ha messo da parte. I due però, come è noto, sono la stessa persona: Checco è il business di Luca. L’unica società di cui l’artista pugliese è proprietario (95% del capitale) è la Mzl di Bari: qui c’è il patrimonio e qui arrivano una parte dei diritti d’autore. Quanta parte non si sa. E’ assai probabile tuttavia che l’attore percepisca anche direttamente i proventi delle sue attività.

Gli incassi di Checco. E il business targato Checco è decisamente prospero: i film dal 2009 con Cado dalle nubi (14 milioni) passando per Che bella giornata (2011, 43 milioni), Sole a catinelle (2013, 52 milioni) fino a Quo vado (2016, 65 milioni), hanno registrato in totale 174 milioni di incassi.

Il rosso di Taodue. Tutto ciò in attesa dei risultati di Tolo Tolo (in uscita nelle sale dal 1° gennaio), una produzione, come gli altri film di Checco Zalone, firmata da Pietro Valsecchi e dalla Taodue che nel 2018 ha registrato su 12 milioni di fatturato quasi 9 milioni di perdita. Il 2016 con il successo di Quo vado ebbe ben altri numeri: 77 milioni di ricavi (più di un terzo grazie ai diritti sul film) con 16 milioni di utile.

Il patrimonio di famiglia. Anche i bilanci della piccola Mzl dell’attore sono ricchi a ridosso delle uscite dei film, con le canzoni di Zalone che accompagnano la trama, mentre gli introiti si prosciugano alla distanza. L’ultimo, quello del 2018, approvato da poco forse per gli impegni nella preparazione di Tolo Tolo, ha registrato una perdita per la prima volta in otto anni: 126mila euro. Ma c’è da scommettere che con il nuovo film il 2020 segnerà un boom. Nel 2016, per esempio, mister Medici, 42 anni, laurea in giurisprudenza, residenza a Bari vecchia, realizzò con la sua Mzl 1,7 milioni di utile; altro anno ricco è stato il 2014 con 1,1 milioni. Insomma cumulando anni di utili (tranne il 2018) “Checco Medici” ha messo da parte nella sola Mzl un patrimonio di quasi 5 milioni.

La mamma socia e la fidanzata amministra. Mariangela Eboli, la fidanzata e madre dei suoi due figli, è l’unico amministratore della società e per questo riceve uno stipendio pari a 9mila euro lordi al mese. Alla mamma, signora Antonietta, il figlio ha riservato un 5% del capitale che già oggi vale circa 250 mila euro.

Gli stipendi milionari di Taodue. E il 2020 potrebbe essere anche l’anno del ritorno all’utile per la Taodue guidata da Pietro Valsecchi e Camilla Nesbitt. Nella società di produzione cinematografica e televisiva una voce di costo rilevante sono gli emolumenti agli amministratori (5 in tutto ma Valsecchi e Nesbitt dovrebbero percepire gran parte della cifra) pari a oltre 3 milioni per l’esercizio 2018 compreso l’effetto dei compensi variabili maturati sui risultati box office delle produzioni cinematografiche del 2018.

Marco Giusti per Dagospia il 3 gennaio 2020. Straboom!! Al suo secondo giorno in sala Tolo Tolo di Checco Zalone agguanta altri 4,9 milioni di euro per un totaluccio di 13,7 milioni di euro, cioè il quinto posto in classifica generale dietro i 13, 9 de Il primo Natale di Ficarra e Picone, altro film Medusa, quarto in classifica generale, che ha dovuto accontentarsi ieri di 182 mila euro dopo un mese di tenuta in sala. Come numero di spettatori Il primo Natale è a 2 milioni 141 mila e Tolo Tolo 1 milione 912 mila. Pinocchio di Matteo Garrone, ieri terzo dopo Tolo Tolo e Jumanji The Next Level, ha incassato ieri 395 mila euro per un totale di 12 milioni di euro e un settimo posto in classifica generale, mentre La dea fortuna, ieri a 191 mila, ha incassato in totale 5,6 milioni di euro. 18 regali di Francesco Amato, curioso lacrima movie con Benedetta Porcaroli, Vittoria Puccini e Edoardo Leo con i baffi, unico film italiano che abbia osato l’uscita ieri, un giorno dopo il ciclone Tolo Tolo, ha incassato 127 mila euro. Difficile dire se si fermerà la corsa di Tolo Tolo. Il numero delle sale è impressionante e non si trovano tanti altri film da vedere oltre a quello di Zalone. Ma i commenti su twitter del pubblico, diciamo di destra che è andato a vederlo, sono da veri haters, con un livore anche molto brutto che dimostra lo stato mentale di parte del paese, anche perché partono tutti dalla visione del trailer che avevano letto come anti-immigrazione. Al tempo stesso si compatta un nuovo pubblico zaloniano più civile che lo difende a spada tratta, mentre fioccano le battute su Papa Bergoglio alla Mario Brega (“sta mano po’ esse piombo e po’ esse piuma”), cosa che alla fine ce lo rende estremamente più simpatico e popolare. La cosa certa è che Medusa, Mediaset e Berlusconi, malgrado la difesa di Salvini di questi giorni, stanno facendo milioni a palate con due film supercivili e non certo di destra come Il primo Natale e Tolo Tolo che, guarda un po’, parlano entrambi di viaggi della speranza sui barconi e di porti aperti alla faccia dei leghisti. Il primo con una metafora cattolica più alta e grande attenzione a non cadere nel razzismo e nel sessismo, il secondo con un modello zalon-veltroniano e qualche grossolanità. Ma entrambi colpiscono nel segno. Un altro controsenso italiano, diciamo.

Fulvio Abbate per Dagospia il 3 gennaio 2020. Perché mai Checco Zalone ha scelto di andare in Africa al posto di Veltroni? Realizzando laggiù un film modesto, ma soprattutto scritto in modo approssimativo, da dilettante già sbaragliato dal ricatto moralistico? “Tolo Tolo” assomiglia infatti, almeno ai miei occhi, a un patetico calendario missionario, tempestato, mese dopo mese, dagli scatti delle orfanelle dai grandi occhi imploranti, sì, con i “negretti” in lacrime, cose da tenere in cucina, giusto nel tanfo di verza e cavolo, accanto alla rubrica avuta in dono dalla torrefazione sotto casa, non meno fissata al muro accanto all’immaginetta di padre Pio e le cartoline natalizie dipinte accuratamente con i piedi o con la bocca. Un film dove il talento, i tempi comici, altrove innegabili e spietatamente vincenti doverosamente orinando sul politicamente corretto, di Checco Zalone si ritrovano depotenziati, mortificati, obliterati, presumibilmente per ragioni tragicamente, di più, perversamente “etiche”; così almeno c’è da intuire passo dopo passo mentre la noia e il "ma che ci sta dicendo?" si fa strada. Un film nel quale il meraviglioso (sempre altrove) cinismo “dolce” del suo autore e interprete svanisce, evapora, per lasciare posto a un’opera a tesi degna del più banale e piccino anerotico, ripeto, detestabile veltronismo. Un crimine contro ogni possibile vis comica. L’ho già detto, no, che Zalone sembra essere andato in Africa facente le veci dell’inventore della “vocazione maggioritaria”? La presenza di Virzì co-sceneggiatore aggrava l’intero quadro narrativo, spingendo il racconto del viaggio verso il burrone del più banale esito. Un amico che di cinema ne mastica assai più di me, suggerisce che nessun vero comico – “pensa a Totò” - si assumerebbe mai il peso della regia, non per nulla, aggiunge ancora, “Zalone in “Tolo Tolo” non fa ridere, anzi, per l’intera durata del film mostra un’espressione tesa e preoccupata, e ti credo a dover gestire troupe e comparse ragazzine nel cuore dell’Africa nera”. Ovviamente, aggiungiamo noi, affermare che il film “non fa ridere” significa scontrarsi con chi, “d’ufficio”, per ragioni, ribadiamo, di stretta osservanza buonista, replica che tutto ciò è una menzogna, anzi, questi ultimi, coloro che hanno apprezzato, avrebbero riso “dall’inizio alla fine” (sic). L’eventualità che abbiano riso sinceramente, almeno ai nostri occhi, risulta un’aggravante, c'è solo da sperare che abbiano riso in malafede. Alla fine della storia, ha comunque ragione chi afferma che la sinistra ha dato il bacio della morte a Zalone proprio per bocca di Virzì, ossia per interposto Veltroni, e non saranno certamente gli incassi finora stroboscopici a salvare, anzi, a ribaltare il giudizio circa l’oggettiva modestia del lavoro portato infine sullo schermo. Perché Zalone ha voluto farsi così male? Perché, ribadisco, è voluto andare in Africa al posto d'altri? Perché si è fatto abbindolare da chi vorrebbe usare il suo film come un’opera di propaganda che risponda al linguaggio da troglodita razzista di Salvini? Perché alla fine del film, perfino l’antifascista più intransigente che urla in noi, si ritrova addirittura a condividere le parole dell’orrendo Ignazio La Russa che ha invece definito il comico e il suo film: “Il cugino della Boldrini, spicciola propaganda”? E stavo dimenticando l’aggravante del cameo di Nichi Vendola al telefono. E' davvero così difficile rispondere unicamente al proprio talento, eh? 

P.S. Un'ultima cosa: chi scrive non ha ritenuto affatto "razzista" il video promozionale con l'immigrato "parassita", anzi, lo ha pubblicamente difeso, proprio su questo sito, in nome dell'ironia cui ogni comico ha diritto perfino nelle sue forme più crudeli. Anche in barba alla sinistra, anche lì, più ottusa. Ora è davvero tutto.  

Zalone, tanti l'hanno visto, tutti ne parlano. Se fossero un partito varrebbero il 10%. Libero Quotidiano il 5 Gennaio 2020. Due milioni e mezzo di spettatori in tre giorni di programmazione. Se fosse un partito politico il film Tolo Tolo di Checco Zalone avrebbe il 10% del consenso, cioè il rapporto tra spettatori e italiani che mediamente si recano alle urne. Lo scrive il sondaggista Antonio Noto sul Giorno in edicola domenica 5 gennaio. Se da un punto di vista commerciale il film sta avendo grande successo, basti pensare che nei primi tre giorni ha totalizzato 18 milioni di euro, circa 6-7 volte in più degli incassi medi degli altri film di successo. Alla performance artistica suprema, Zalone associa sempre due importanti fattori: approfondisce tematiche di stretta attualità da un punto di vista sociale e utilizza una comunicazione in chiave marketing che crea dibattito, aumentando le attese, già prima che la pellicola sia nei cinema. Come però emerge dall' analisi demoscopica condotta dall' Istituto Noto Sondaggi, anche questa volta si registra una diversa percezione di una stessa problematica tra la classe politica e i cittadini. Se i primi hanno voluto conferire a Tolo Tolo un significato e un contenuto politico, per i secondi si tratta solo di un film comico. Quindi se 2,5 milioni di italiani hanno visto il film in soli tre giorni, nella realtà la quota della popolazione che ne ha sentito parlare o che ritiene di sapere la trama supera già i 10 milioni, cioè 1 adulto su 4. Pertanto la cosa paradossale è che anche chi non ha visto il film esprime giudizi nelle discussioni tra amici. Probabilmente presupponendo che il video messo online prima dell' uscita del film fosse una sorta di trailer dal quale comprendere la trama. Ecco dunque che oggi quasi il 35% della popolazione ha dichiarato nel sondaggio che nelle discussioni di fine e inizio anno ha parlato di Tolo Tolo. Comunque sia il 67% ritiene che il film non esprima nessuna posizione politica, ma debba essere visto solo come una performance comica, mentre solo il 17% ritiene che Zalone abbia voluto dare un messaggio politico.

Zalone, film con gli occhi dei migranti. Non fa molto ridere ma va visto. Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 su Corriere.it da  Aldo Cazzullo. Il film di Checco Zalone non fa molto ridere. Alla fine anzi fa piangere, con la scena dell’agnizione (per non dire parolacce: riconoscimento, tra padre e figlio). Per il film di un comico, è un bel guaio. Questo non significa che Checco non abbia infilato le sue gag, le sue battute, le sue trovate. Ce ne sono: molte e godibili come sempre. Ma inserite in un contesto talmente amaro che la risata a volte si strozza in gola. «Tolo Tolo» commuove e ci fa sentire un po’ in colpa, anche se non muore nessuno. Soprattutto, spiazza. Perché affronta un fenomeno epocale del nostro tempo, capovolgendo il punto di vista. Finora abbiamo sempre guardato i migranti con i nostri occhi. Ci siamo impauriti per il dumping sociale – riduzione di salari e diritti – legato all’afflusso di manodopera a basso costo; e per i problemi di sicurezza, che sarebbe ipocrita negare. Checco guarda e racconta la questione dal punto di vista dei migranti. Restando se stesso: l’italiano becero, ossessionato dalle mode – sushi e acido ialuronico —, diffidente dello Stato e degli altri. L’italiano che ieri, in «Quo vado?», raccontava il nostro Paese visto dalla Scandinavia; e ora dall’Africa. Solo lui poteva farlo. Anche perché nessuno, nel nostro cinema notoriamente intento a rimirarsi l’ombelico, può spendere i milioni di euro necessari a girare in Kenya e nel Sahara, sapendo che saranno ripagati dal botteghino. Ieri gli incassi — pur restando eccezionali — hanno un po’ rallentato. Può darsi che il passaparola non sia sempre positivo. All’uscita del cinema, gli spettatori discutono. Di solito «Tolo Tolo» piace più alle donne che agli uomini. Di sicuro non è il film che ti aspetti da Checco Zalone. È anche un film politico, e non solo perché il meridionale senza arte né parte che diventa ministro degli Esteri si chiama Luigi come Di Maio; e perché a un certo punto compare Vendola nella parte di se stesso, distolto dalla cura dei suoi fiori dalla telefonata del pugliese ostaggio dei trafficanti (l’ex governatore si lancia in una delle sue complicate metafore sinistrorse; Macron, chiamato da un francese, paga e lo fa liberare). È un film palesemente antisalviniano, senza per questo voler appiccicare nessuna etichetta a un artista che vuol restare di tutti. I neri non sono buoni. Omar, l’amicone, si rivela un traditore. Però i neri sono poveri. Deboli. In una parola, umani. I buoni non esistono: tantomeno i giornalisti (il francese è un odioso reporter che si fa bello con i reportage umanitari, oltre che con il suddetto acido ialuronico, ma poi abbandona i compagni di viaggio nelle carceri libiche). Checco non tradisce se stesso. Non rinuncia all’ironia, compresa l’irresistibile satira dell’Africa consolatoria della Disney, con la «cicogna strabica che sbaglia rotta», abbandonando i bambini a un destino di miseria, «ed è pure una mignotta». Insomma Zalone non diventa politicamente corretto o sentimentalista. Però «Tolo Tolo» può davvero cambiare, almeno un po’, il sentimento dell’italiano medio verso i migranti. Il produttore Valsecchi non sarà d’accordo; ma questo non vale meno di un incasso record. Che poi magari arriverà comunque: il film va visto. Perché è bellissimo.

I 5 segreti di "Tolo Tolo", il film di Checco Zalone. Dove è stato girato Tolo Tolo? Come sono state scelte le comparse? Sono tante le curiosità che si nascondono dietro il film campione di incassi di Checco Zalone. Francesca Galici, Domenica 05/01/2020, su Il Giornale.  Tolo Tolo di Checco Zalone è il film italiano che ha incassato di più alla sua prima uscita nelle sale e giorno dopo giorno aumenta i suoi introiti, grazie alle 1200 copie distribuite nei cinema italiani. In solo 3 giorni, il film ha incassato circa 18 milioni di euro, che è mediamente 6 volte tanto rispetto alle altre pellicole di successo. Sono numeri monstre per un film italiano, che rappresenta anche la prima esperienza di Checco Zalone come regista. Come dichiarato in più di un'occasione dal regista e dal produttore, la realizzazione di Tolo Tolo ha richiesto un grande sforzo economico e logistico. Questo è stato motivo di ansia per l'attore e regista, terrorizzato dall'idea che la nuova versione si sé non piacesse al suo pubblico affezionato. Ansie che, visti i risultati, sembrano ormai lontane per Checco Zalone, alias Luca Medici. Dietro Tolo Tolo si nasconde una macchina produttiva gigantesca, che sebbene non possa essere equiparata a quella dei grandi kolossal di Hollywood, è comunque notevole per una produzione italiana considerata “leggera.” Sono tante le curiosità che si nascondono dietro Tolo Tolo, a partire dal titolo scelto per il film. Inizialmente, infatti, si sarebbe dovuto chiamare L'amico di scorta ma, nel corso della produzione, un avvenimento ha sconvolto tutto. Una ripresa prevedeva che gli attori dovessero attraversare a nuoto il fiume Sabaki in Kenya. Ogni attore, stando alle direttive di Checco Zalone in versione regista, doveva nuotare "solo solo." Essendo le comparse del film di origine locale e non comprendendo l'italiano, l'interprete di Malindi ha ripetuto la frase detta poco prima da Checco Zalone ma ne ha cambiato la pronuncia, trasformandola in "tolo tolo." L'accaduto ha destato grande ilarità in Checco Zalone, che intuendo la forza di quell'errore, l'ha trasformato nel titolo della pellicola. Il Kenya, precisamente Watamu, è stata solo una delle location individuate da Zalone per il suo film. Molte scene sono state girate anche in Italia. Il regista ha scelto principalmente località della sua Puglia come Acquaviva delle Fonti, Bari, Gravina e Minervino Murge, ma ha girato anche a Roma, Latina e Trieste. Altri set all'estero sono stati allestiti a Malta e in Marocco. Le comparse, che pare siano state circa 5.000, sono state scelte da Checco Zalone principalmente nei centri di accoglienza per quanto riguarda quelle di origine africana. Non veri attori, quindi, ma persone normali che il regista ha scelto per la forza comunicativa. La squadra di lavoro attorno a Checco Zalone, invece, era composta da ben 120 persone che per due anni hanno lavorato alacremente per soddisfare le richieste del regista e realizzare un film capace di far ridere e riflettere allo stesso tempo.

«Tolo Tolo», dal set al titolo, 5 curiosità che forse non conoscete sul film di Zalone. Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 su Corriere.it da «Laura Zangarini. Il film ha totalizzato un giorno 8,7 milioni di euro e sta facendo molto discutere: ma com’è stato realizzato? E dove? La vicenda dell’aspirante imprenditore in «mocassini scalzi» e camicia logata che decide, dopo vari fallimenti e ancor maggiori debiti, di partire per l’Africa sta mietendo un successo dopo l’altro, come il record di incasso al primo giorno d’uscita. Ma com’è stato realizzato il film? E dove? Eccovene i segreti.

Canzoni e musiche. Come sempre, anche musiche e canzoni sono firmate da Zalone. In rete e sui giornali, prima dell’uscita del film, è scoppiata la polemica per i presunti contenuti razzisti del singolo «L’immigrato». Polemiche in risposta alle quali,in una intervista concessa ad Aldo Cazzullo del «Corriere della Sera», il comico barese ha risposto dicendo: «L’unica cosa atroce qui è la psicosi del politicamente corretto. C’è sempre qualche comunità, o qualche gruppo di interesse, che si offende». E ancora: «Se riproponessi certe imitazioni di dieci anni fa, tipo quella di Giuliano dei Negramaro, mi arresterebbero. Oggi non potrei scherzare come facevo, che so, su Tiziano Ferro, o sugli uominisessuali».

Il titolo. Il titolo del film doveva essere inizialmente «L’amico di scorta». Poi, nel corso della lavorazione, durante una ripresa che prevedeva l’attraversamento del fiume Sabaki, in Kenya, Zalone ha detto a ciascun attore di nuotare «solo solo». Nassor Said Birya, giovane interprete originario di Malindi, ha ripetuto la frase con una pronuncia sbagliata, trasformandola in «tolo tolo». L’espressione ha divertito moltissimo Zalone, che ha scelto di utilizzarla come titolo della sua opera.

Le location. Il film è stato girato in Marocco, in Kenya (Watamu), a Malta e in Italia, precisamente ad Acquaviva delle Fonti, Bari, Gravina, Latina, Minervino Murge, Roma e Trieste.

Migliaia di comparse. Nel film, le migliaia di comparse di origine africana sono state scelte nei centri di accoglienza. La squadra completa del film era composta da 120 persone

Cara sinistra, Checco Zalone è riuscito dove tu hai fallito. Il film antisovranista del comico pugliese. Davide Varì il 3 gennaio 2020 su Il Dubbio. Non toccate Checco Zalone, ve ne prego. E non toccatelo soprattutto voi, amici di sinistra, che da anni predicate diritti e uguaglianza nel deserto. Perchè Zalone, in due ore scarse di film, è riuscito dove tutti voi, tutti noi, abbiamo fallito in trent’anni e passa di multiculturalismo paternalista. Zalone è una sorta di sardina, una sardina scorretta, grottesca e volgare, ma pur sempre una sardina che è riuscita a cambiare i termini del discorso, smascherando la famosa e fumosa narrazione che da anni diffonde e predica la panzana dell’invasione dei migranti, magari indossando un crocefisso al collo e invocando il cuore immacolato di Maria. È arrivato Zalone, per fortuna, il quale è riuscito a far vedere a frotte di ragazzini abitati dalla vocina subdola del “prima gli italiani”, un film tutto schierato dalla parte dei migranti. Un’operazione geniale e maestosa che nessuna scuola, nessuna Ong e nessuna associazione antirazzista è mai riuscita a realizzare. E tra una parolaccia e una battutaccia, Zalone ha fatto vedere loro i campi di tortura libici e la pena di una donna costretta a prostituirsi per rimediare un biglietto di sola andata in una bagnarola diretta a Lampedusa. Zalone ha squarciato il velo e ha mostrato agli italiani, a tutti gli italiani, salviniani compresi, quanto sia fasulla la favola sovranista. Perché siamo nel 2000 dopo Cristo e le frontiere, come ha spiegato alla fine del suo film, semplicemente non dovrebbero esistere. E questo è un pensiero da artista, da grande artista. Non toccate Zalone, ve ne prego…

Checco Zalone e Tolo tolo, La Russa bombarda: "Il cugino della Boldrini, spicciola propaganda". Libero Quotidiano il 3 Gennaio 2020. "Il cugino di Laura Boldrini". Ignazio La Russa all'opposizione di... Checco Zalone. Il fondatore di Fratelli d'Italia è uno dei pochi che in questi giorni di trionfo (di critica e al botteghino) alza la voce contro il comico pugliese dominatore con il suo ultimo film Tolo tolo. In attesta di diventare il fenomeno cinematografico del 2020 (in fondo, sono passati solo 2 giorni ma è in buna posizione), l'autore di Quo vado e Cado dalle nubi incassa il pollice verso del focoso vicepresidente del Senato, che definisce la pellicola "una noia infinita", in cui si salvano "solo un paio di battute carine, al massimo da sorriso, quando Zalone si ricordava di essere un comico e non una specie di cugino della Boldrini senza nemmeno la passione della ex Presidente della Camera ma solo con un etto di opportunismo". Parole come pietre, affidate a una lettera al Giornale. La Russa quasi si indigna per "tutti i luoghi comuni buonisti sull'immigrazione", apprezza perlomeno la colonna sonora anche se, sottolinea, "viene travisato il messaggio di Faccetta nera che semmai segnò in positivo la diversità del colonialismo italiano rispetto a quello degli altri Paesi europei". Il problema, conclude, è che Luca Medici, in arte Checco Zalone, "pur di ricercare un giudizio positivo della critica radical-chic e di sinistra, rinuncia al meglio della sua proverbiale verve comica per rifugiarsi in un noioso filmetto di spicciola propaganda".

Zalone, incassi record ma La Russa lo stronca: “Film noioso e politico. Checco, a questo punto candidati». Monica Pucci giovedì 2 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Checco Zalone e il suo “Tolo Tolo” fanno registrare incassi record nel week end festivo. A sole 24 ore dall’uscita nelle sale, il quinto film dell’attore pugliese sfiora infatti gli 8,7 milioni di euro di incassi (8.680.232 con 1.175.000 presenze in sala). Diventa così la pellicola con il miglior incasso di sempre nella storia del cinema italiano nel primo giorno di programmazione. A confermarlo, una nota della Taodue di Pietro Valsecchi che ha prodotto il film girato dallo stesso attore, stavolta al suo esordio alla regia. Ma non è tutto. Zalone infatti si batte anche da solo, superando lo stesso record stabilito dal suo “Quo Vado” (7.341.414 milioni di euro).

Zalone s’è convertito alla sinistra. L’interesse iniziale, secondo Ignazio La Russa, non è giustificato dalla qualità della pellicola dell’attore siciliano, impegnato sul set a far passare la teoria che i migranti sono tutti buoni e chi non li vuole è razzista. A dare un lapidario parere è il senatore Ignazio La Russa, che su Twitter stronca la pellicola in meno di 200 caratteri: «Ho appena visto la prima di TOLO TOLO: zero applausi alla fine. Oltretutto – rincara la dose – anche scarso e noioso. Servirebbe ‘soddisfatti o rimborsati». Dopo le iniziali critiche della sinistra per lo spot “poco accogliente”, Zalone si era rapidamente “rposizionato” a sinistra. In conferenze stampa e interviste si era premunito di spiegare a tutti che il suo “Tolo tolo” non era un film di destra, anzi.  Per evitare che contro di lui si scatenasse una campagna svuota-cinema sui grandi giornali, si era affrettato a criticare Salcini.  Così,da film inizialmente etichettato come di destra, “Tolo tolo” si è scoperto film di sinistra, bocciato dalla destra. «Uno dei film più noiosi che abbia mai visto. Di scarso gusto. Zalone hai perso, se volevi fa politica dovevi candidarti…», concluce La Russa.

Checco Zalone non è né di destra né di sinistra, inutile etichettarlo. Pubblicato giovedì, 02 gennaio 2020 su Corriere.it da Pierluigi Battista. Il comico sa essere sgradevole con tutti e rifiuta gli schemi. Ora sono capaci tutti, schiacciati dai numeri impressionanti del botteghino, a magnificare Checco Zalone. Era un po’ più difficile riconoscere la genialità spettacolare di Luca Medici in arte Zalone una decina d’anni fa, quando l’Ancien Régime culturale spocchioso non si fidava affatto di questo fenomeno scurrile e volgare, dozzinale, scorretto, addirittura «qualunquista» come qualche zdanoviano tardivo arrivò a definirlo. Ora è partita la corsa un po’ ridicola all’accaparramento politico di un comico che sovverte ogni regola. E fa ridere molto Zalone, ma anche chi, ammalato di schematismo ideologico, incapace di guardare la realtà delle cose se non sotto la specie degli schieramenti politici, cerca di incasellare Zalone nel mobiletto di destra oppure in quello di sinistra. Come se ci fosse un dosatore che scorrendo le scene del film che in una sola giornata straccia ogni record di incassi, si metta in cattedra per indicare qui uno spruzzo di sinistra, lì una spolveratina di sinistra, e poi una manciata né di destra né di sinistra, e infine un cucchiaino che mescoli un po’ di destra e un po’ di sinistra. E se fosse così, Zalone non sarebbe il mattatore che è diventato perché nel cuore della sua diuturna dissacrazione («cozzalone» in pugliese sta per «tamarro», mai dimenticarlo) è beffardo con tutti, non ha rispetto sacrale per nessuno, bersaglia vizi e manie nazionali senza distinzioni, non conosce tabù. Fosse un militante di qualche buona o cattiva causa, non se lo filerebbe nessuno. Perché a differenza degli ideologi e degli adoratori degli schemi, ancorché arrugginiti e desueti, le persone che riempiono con entusiasmo le sale dove i film di Checco Zalone fanno il tutto esaurito dagli incasellamenti politici, dai feticci della destra e della sinistra, dal buonismo e dal cattivismo si tengono prudentemente lontani, con entusiasmo, stavolta, pressoché nullo. Checco Zalone è sempre stato così. Sono i suoi critici, i detrattori custodi del correttismo, che sono cambiati, e anche radicalmente. Qualche film riesce meglio, qualcuno peggio, come accadeva persino con Totò, con un paragone forse azzardato, ma non nell’incomprensione con cui sono stati accolti prima l’uno e adesso l’altro. Qualche volta si ride molto, qualche volta si sorride e basta, come in molte delle situazioni di Tolo Tolo. Ma la vera arma di Zalone sta nella sua poliedricità. Poliedricità espressiva, perché sa far ridere, sa imitare, sa suonare benissimo, sa fare le parodie, sa spiazzare, sa demolire il luogo comune, sa fare un sacco di cose tutte insieme. E poliedricità dei bersagli da colpire con le armi del sarcasmo meno sorvegliato. Ecco, Zalone non è un comico sorvegliato, addomesticato. A differenza dei tanti satirici in circolazione non è ossessionato da un nemico, non vuole parlare solo alla sua tribù, ricevere l’applauso solo di chi è giù d’accordo. Direbbero i malati di analisi politica: è «trasversale», gioca con l’alto e il basso, con il grottesco e il sentimentale, con la destra e con la sinistra anche. Sa essere sgradevole, con tutti. Se deve infilzare qualche pallone gonfiato non si chiede, come i chierichetti del politicamente corretto, «cui prodest», se giova o non giova: infilza, e basta. Questa assoluta libertà senza complessi di Checco Zalone la si percepisce ed è la chiave del suo successo. E chi va a vedere i film di Zalone ride anche se sullo schermo ad essere spietatamente preso in giro è lui: ride di chi ha l’ossessione del posto fisso anche se lui ha l’ossessione del posto fisso, ride di chi ha la paura degli immigrati anche se lui stesso ha paura degli immigrati, ride di chi lascia la macchina in seconda fila anche se lui lascia la macchina in seconda fila. E chissà quanto se la ride Zalone nell’assistere ai pensosi dibattiti sulla direzione politica dei suoi film e di quest’ultimo in particolare. Dibattiti dove non si ride mai, perché lo schematismo ideologico sia di destra sia di sinistra è quanto di più anti-ironico si possa immaginare. Ma senza l’ironia, Zalone non esisterebbe più. Mentre può esistere, e anche alla grande, senza il patentino politico che vorrebbero appiccicargli addosso. Ma invano.

Paolo Di Paolo per “la Repubblica” il 6 gennaio 2020. Il suo prossimo film Checco Zalone potrebbe farlo sull' Italia divisa da un film di Checco Zalone. C' è materia interessante: o meglio, ci siamo tutti. C' è chi l' ha subito accusato di razzismo alla vista del trailer con la canzone intitolata Immigrato . C' è chi si è ricreduto, magari dopo aver proposto il comico per la carica di senatore a vita, trovandolo infine insopportabilmente buonista: «Propaganda globalista, immigrazionista». C'è chi invita Salvini a vedere il film - un articolo su Famiglia Cristiana , per esempio; e con Salvini, anche «i leghisti, i sovranisti, i grillini » (nella storia c' è un personaggio che fa pensare alla rapida carriera politica di Luigi Di Maio). C' è chi si aspettava di ridere molto, come per i film precedenti, e dice di avere riso troppo poco. Ma soprattutto c' è il plotone degli esegeti: quelli che vogliono spiegare Zalone a chi - così suppongono - non l' ha capito, finendo per aprire il fuoco degli insulti. Se non lo capite siete ignoranti. Se non lo capite siete razzisti. Se non lo capite siete ipocriti. E via con la consueta canea social fatta di repliche e controrepliche. Voi che dite di capirlo, siete noiosi, siete "sardine" che avete trovato il nuovo araldo. Solo uno come Zalone saprebbe portare sul grande schermo questo sgangherato, esagitato dibattito su Zalone, e lo farebbe così meravigliosamente e crudelmente da fare arrabbiare tutti. Perché la vera notizia è questa: il più popolare attore comico italiano, baciato da un successo fuori misura (l' incasso di una sola giornata è quello che tre quarti dei film non raggiungono nell' intera programmazione), ha scatenato una discussione cine-politica che, per toni e istanze, pare uscita dal numero impazzito di una rivista di trenta, quarant' anni fa, Rinascita o Linea d' ombra. Tolo Tolo come La classe operaia va in paradiso , il film "eterodosso" che non fa contento nessuno? A colpi di tweet, nel secondo giorno di programmazione si sono sfidati cinefili anonimi e illustri, dai benevoli Fiorello e Muccino ai leader politici. Ignazio La Russa che esibisce il suo colpo di sonno e Enrico Letta che elogia un Checco «migliorato». Simone Di Stefano, in quota Casa Pound, che si arrabbia per la «bugia stupida della cicogna che ci fa nascere per caso» (il riferimento è a una geniale trovata finale del film, ma non posso aggiungere altro). Intellettuali: Michela Murgia che elogia il coraggio di uno Zalone che ha preferito «il senso al consenso». All' istante c' è chi risponde che, se il film è piaciuto alla Murgia e a Letta, qualcosa vorrà dire: «Il coraggio di Checco Zalone?

Ma che Paese è questo?» si chiede qualcuno sotto il post di Murgia. E forse è l' unica domanda sensata. «Si attende l' apocalisse» aveva scritto su queste pagine Natalia Aspesi. Eccola. Sceneggiato insieme a Paolo Virzì, Tolo Tolo è di sicuro un film, se non scomodo, poco conciliante. Intelligente al punto che può sgusciare via da sotto qualunque cappello: anche chi si sentisse portatore dello sguardo giusto, etico, umanitario troverebbe la propria caricatura (il personaggio patetico di un reporter francese che dispensa parole alate sulla «dignità » dei migranti). Non ci si spancia dalle risate, è vero; e anche questo è il segno di una strada più impervia presa da Luca Medici alias Zalone, forse un po' più Medici e un po' meno Zalone. Qualcuno gli rimprovera le 1100 sale monopolizzate dal suo film («troppe rispetto al povero Loach!»), e tuttavia da quelle 1100 sale - è un fatto - non ha distribuito dolciumi. C' entra il modello dell' antica e amara commedia italiana? "Meritarsi" Alberto Sordi è come "meritarsi" Checco Zalone? In ogni caso, è più divertente (e istruttivo) vedere come la platea del 2020 riesca a dividersi nervosamente su un film che rappresenta il peggio di quasi tutti, buoni compresi. E se il nuovo Zalone nei panni dell' incendiario involontario ha dato fuoco a qualcosa, è un' immensa e trasversale - italianissima - coda di paglia.

Tolo Tolo, nè buonista nè razzista: cari spettatori non vi meritate nemmeno Checco Zalone. Daniele Priori su Il Riformista il 4 Gennaio 2020. Né buonista né razzista. Luca Medici, in arte Checco Zalone, nel suo esordio da regista, con il discussissimo film Tolo Tolo, è camp allo stato puro. Parodia esasperata, dolceamara, che armata di un’ironia al solito tagliente, si prende gioco del reale e di chi vorrebbe passare una serata a ridere e basta, come per un cinepanettone qualsiasi. Un genere, il camp, fino ad oggi collegato per lo più alle macchiette del cinema e dell’avanspettacolo omosessuale, che tuttavia rivive perfettamente nelle contraddizioni marchiane dell’epopea trash in cui si imbatte Checco, sedicente imprenditore fallito, fuggito in Africa perché vessato dai debiti col fisco. A mettere di fronte alla realtà l’uomo da niente, ma comunque in cerca del sogno che possa condurlo oltre la quotidianità, saranno gli incroci disturbanti: dal resort vacanziero isolato al centro del villaggio del terzo mondo, fino al paradosso dell’esplosivo arrivo dei miliziani dell’Isis nel bel mezzo della stralunata ricerca di una crema antirughe. La sceneggiatura (scritta a quattro mani con Paolo Virzì) del film già campione d’incassi e destinato –  chissà –  a superare anche i record già abnormi del precedente lungometraggio Quo Vado, con queste geniali trovate narrative, sposta l’obiettivo dal Belpaese sempliciotto ma tutto sommato bonario dei capitoli precedenti,  all’anima nera, assolutamente trasversale, di una nazione incattivita e depressa dalla continua ricerca di espedienti e all’inseguimento di improbabili identità marcate al punto da divenire esse stesse parodie di un’epoca. Il neofascismo, il nazionalismo delle felpe, i porti chiusi, un razzismo mai dichiarato ma sul quale sogghignare, come pareva dal trailer ingannevole, sono il contorno deprimente nel quale scorre la storia di un bianco spaesato in mezzo ai neri, accomunato a loro nel grande viaggio attraverso la Libia, il deserto, il mare mostruoso dei naufragi dove si deve essere disposti a tutto pur di scamparla. Le lezioni arrivano una dopo l’altra. Sullo sfondo un’Italia nella quale Checco non vuole proprio tornare: meglio l’Isis dell’Inps. Checco Zalone, fino ad oggi icona comica dell’uomo della strada, diventa così una maschera di cinismo e ironia che nei punti più malinconici ha bisogno di ripiegare su divertissement fumettistici per non uscire dal genere comico che resta pur sempre il metro del suo cinema. Con Tolo Tolo, insomma, si ride e si pensa ma è la sorpresa di una realtà solo triste a lasciare il segno più della comicità. E il bersaglio del genio sì politicamente scorretto di Zalone (ma non come aveva immaginato l’ex ministro La Russa infuriato sui social) diventano così, sorprendentemente, proprio quelli che volevano sghignazzare senza pensieri, confusi dal trailer e offesi, a fine proiezione, dalla presa di coscienza inequivocabile del non averci capito nulla. Tanto da far tornare alla mente un altro regista, lui sì, impegnato e eternamente corrucciato, che potrebbe additare questi ingenui spettatori con un definitivo: non vi meritate nemmeno Checco Zalone.

«Tolo Tolo», parla la giornalista di «TeleMurgia»: «Luca Medici, il mio portafortuna». Azzurra Martino si confessa: per lei è il miglior film di Zalone. Valentino Sgaramella il 09 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Devo sicuramente moltissimo a Luca Medici e credo in ogni caso che Tolo Tolo sia il suo miglior film, nonostante io sia legata a Quo vado? dove, grazie a lui, ho avuto un ruolo importante». Azzurra Martino, 40 anni, una vita trascorsa finora a studiare recitazione e a lavorare sul set, parla di Luca Medici e del suo ultimo capolavoro che sta sbancando nelle sale cinematografiche, Tolo Tolo. L’attrice, pugliese di origine ma residente ormai a Roma, ha reclutato parte del cast di comparse nel film, inserendo numerosi attori minorenni tra gli extracomunitari, scelti a Bari e provincia e a Taranto. Decine di persone. Per lei, reduce da un ruolo molto importante nel film Quo vado? (2016), nel quale era la fidanzata pugliese che lasciava il protagonista perché lui non aveva più il posto fisso, ha adesso un cammeo in Tolo Tolo. «Recito la parte di una giornalista di Tele Murgia, una tv locale - ricorda -. Il mio percorso ha comunque a che fare con la vita artistica di Luca Medici-Checco Zalone e devo sicuramente moltissimo a lui», ribadisce Azzurra Martino. Com’è Luca sul set? «È così come lo si vede sullo schermo. Partiamo dal presupposto che lo stimo molto e che è difficilissimo trovare un regista, un attore, un comico, che sia anche un amico. È una persona molto corretta e precisa, alla mano ed è difficile trovare in questo mondo uno che ti stia così accanto». La Martino ha un ruolo importante anche nella prossima pellicola di Carlo Verdone Si vive una volta sola, girata in Puglia la scorsa primavera: interpreta l’amante di Rocco Papaleo. «Sicuramente, tutto ciò che ho fatto dopo Quo vado? è grazie a Quo vado?. La gavetta prima di quel film è stata un po’ più difficile. È chiaro che poi si sono aperte delle porte. Quando Luca mi ha chiesto di fare un cammeo, nei panni di questa giornalista murgiana, ho accolto l’invito con estremo entusiasmo». Del set ricorda: «Luca ha reso l’ambiente gioviale». Il film «era un successo annunciato». Circa il messaggio insito in Tolo Tolo: «Mi piace molto l’idea del sognatore che riesce a cambiare le cose». Leggendo i commenti degli spettatori sui social la cosa che balza agli occhi è che Luca-Checco punta a sottrarre il tema dei migranti da strumentalizzazioni politiche. La Martino aggiunge: «Il migrante alla fine è un sognatore. Il problema della migrazione va oltre gli schemi politici, appartiene all’umanità. Ci sono persone che soffrono e bisogna mettersi dalla parte del più debole ma farlo in modo ironico non guasta». Circa infine l’evoluzione che l’attore e regista capursese sta vivendo sul piano interpretativo e autoriale, l’attrice afferma: «Con i suoi film ha fatto sempre delle denunce. Solo che ora magari le fa in maniera un po’ più sottile. Credo che Tolo Tolo sia il più bel film di Luca. Glielo dissi subito con un messaggio. Credo che qui abbia fatto altre scelte rispetto al passato e che il film abbia una maturità notevole». Il film ha richiesto una lavorazione molto lunga, durata circa 10 mesi. Un’opera importante, realizzata sia come regista sia come attore protagonista. «Il che rende tutto più difficile - conclude - per una serie di responsabilità. Teniamo conto che la maggior parte del film è stata girata in Africa. Anche sul piano logistico non deve essere stato semplicissimo».

Quel retroscena sul film di Zalone: "Così ho svelato l'illusione dell'Ue". L'attore senegalese e naturalizzato italiano ha raccontato un retroscena sul suo ingaggio nel cast del film Tolo tolo, di Checco Zalone. Serena Granato, Venerdì 10/01/2020, su Il Giornale. Il Capodanno 2020 ha rappresentato per Checco Zalone una data importante, ovvero quella del suo ritorno al cinema. Gli amanti del grande schermo lo attendevano da tempo nelle sale cinematografiche e il suo debutto con Tolo tolo negli ultimi giorni ha fatto discutere. Secondo la top10, che accoglie i dati dei migliori incassi al botteghino registrati al debutto al cinema, l'attore comico originario di Capurso e classe 1977 è riuscito ad affermarsi in pole-position con Tolo tolo. Il nuovo film - di cui Zalone è sia interprete che regista - ha incassato nella sola giornata del suo esordio la cifra record di 8.680.232 di euro. Nella medesima classifica, al secondo posto figura sempre Zalone con Quo Vado. Checco è, quindi, riuscito a battere se stesso in termini di vendite e, in quanto regista, aveva proposto all'attore Mohamed Ba (nato in Senegal, in Africa occidentale, ndr) di prendere parte al cast del suo ormai best-seller, Tolo tolo. Una proposta a cui, inizialmente, era seguito il rifiuto da parte dell'attore senegalese e naturalizzato italiano, che lavora da oltre un decennio nel Bel Paese. "Se mi chiami perché vuoi una faccia da immigrato davanti al supermercato che chiede elemosina, vai a cercare qualcun altro”. Quest'ultime sono le parole che Ba aveva rivolto a Zalone, in risposta a quanto offertogli dal comico. Lo stesso, nonostante il rifiuto iniziale, alla fine ha però accettato di collaborare con il comico pugliese. Il ruolo che interpreta in Tolo tolo è quello di un medico che riserva al protagonista una sorta di antidoto universale, per curarsi da un virus che - nella pellicola - rende disumani.

In un suo intervento rilasciato al Corriere della Sera, Ba ha riportato alcune dichiarazioni, che ora fanno discutere. In Marocco, le comparse del film erano ragazzi che attendevano la loro occasione per andare in Europa. "Abbiamo vissuto il loro dramma umano - ha fatto sapere l'intervistato -, ho parlato a lungo con loro, ho svelato che illusione sia l’Europa, la maggior parte mi ha giurato che non sarebbe più partita".

Mohamed Ba e l'arrivo in Italia, prima di Tolo tolo. L'immigrazione, che è uno dei temi affrontati nel film di Checco Zalone, Ba l'ha vissuta da protagonista nella vita. Partito dall'Africa, ha raggiunto la Francia dove ha acquistato un dizionario per apprendere la lingua locale ed è poi ripartito per raggiungere Milano, dove - così come lo stesso ha riferito - è stato vittima di un'aggressione. Secondo la sua testimonianza, un ragazzo gli si avvicinò nel milanese, lo accoltellò all'addome e poi fuggì via, senza mai essere rintracciato. Ba avrebbe rischiato di perdere la vita, per poi destinare una lettera al suo presunto aggressore, in cui chiama quest'ultimo "fratello" e gli scrive che "la ricerca dell’umanità è molto più bella dell’etnicità. Cerco di costruire un ponte perché il rischio del razzismo, quello di guardare tutte le cose dall’alto in basso, è più vivo che mai. Anche in Italia".

Checco Zalone, "Tolo Tolo, la mia commedia piena di neri nell'Italia di oggi". Nelle sale la nuova prova di Luca Medici, qui anche regista. A quattro anni dai 65 milioni di 'Quo vado?' il comico pugliese alza l'asticella con un musical sul razzismo: "Non ho fatto il furbo, per un film così ci vuole coraggio". Arianna Finos l'1 gennaio 2020 su la Repubblica. Il 2020 del cinema si sveglia con l'allegria di Checco Zalone. In realtà c’è anche chi ci è andato già a dormire, gli spettatori delle duecento sale che hanno proposto Tolo Tolo ieri sera, subito dopo la mezzanotte. Milleduecento copie per il ritorno del comico da 65 milioni di euro che alza le ambizioni e racconta la sua Africa per parlare della nostra Italia. Quattro anni di silenzio, una lavorazione difficile, le polemiche preventive e una storia che affronta un tema forte. Il film (prodotto dalla Taodue di Pietro Valsecchi e distribuito dalla Medusa di Giampaolo Letta), racconta il viaggio di un imprenditore pugliese in fuga dai debiti e costretto dalla guerra a tornare in patria – malgrado i parenti lo preferirebbero disperso – sulla rotta dei migranti. Nel giardino d’inverno dell’albergo romano Gaia, sette anni e un codino di riccioli, finge di salire sul palco e brandisce un immaginario microfono per presentare il papà: "Signore e signori state per vedere... Checco Zalone". Ma il faccia a faccia, stavolta, è con Luca Medici, in comprensibile in ansia da prestazione: è iniziato il conto alla rovescia.

"Tolo Tolo" è pieno di battute e situazioni che fanno ridere, ma sullo sfondo c’è l’Africa con le sue contraddizioni. Che viaggio è stato? 

"Incredibile. A partire dalla durata, un anno e mezzo tra scrittura e riprese. Non ho visto l’inverno per due anni, ero in Kenya, con 50 gradi. Mi sono rimaste dentro le emozioni del viaggio. L’incontro con un bambino in un villaggio, Nassor Said Birya. Era tra quelli che si avvicinavano per chiederti le caramelle, ma era il più vispo, il più brillante. Aveva gli occhioni e il fare dell’attore. Ho tirato fuori il telefonino, ho trovato per caso un interprete e con quel bambino ho provato la scena in cui vende Dolce e Gabbana. All’inizio non sapeva neanche quel che diceva. Alla fine del film ho capito una delle cose più importanti dell’essere regista: saper scegliere una faccia. In quel caso ci sono riuscito". 

Ha compreso la sofferenza dell’Africa.

"La deluderò. Il film è ambientato nel villaggio Saint-Jacques, immaginato vicino al Senegal, dove inizia il viaggio dei migranti, il deserto sub-sahariano. Ma quel villaggio, nella verità, è in Kenya, un’altra Africa. Io non ho visto sofferenza, ho visto bambini ridere, persone vivere con gioia la lentezza delle proprie ore, senza energia elettrica, spesso senza un mezzo per muoversi. Ho visto gente che va a cavallo ed è felice. Mi rendo conto che può apparire retorica".

Mal d’Africa.

"Forse sì, ho un po’ di mal d’Africa".

Ricorda "Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?"

"Ma quel film è molto più bello". 

C’è la scena in cui Sordi e Blier fanno a botte con i portoghesi.

"E se eravamo in tre, te menavamo in tre". 

Quella scena mostra due italiani del '68 che non riescono a trattenere la rabbia di fronte a un gesto eclatante di razzismo. Lei ha rovesciato la posizione e per il 2019 inventato la gag del fascismo che esce fuori da noi con lo stress e il caldo, come la Candida, ma si cura. Ha fiducia nell’italiano?

"Sì. Secondo me il fascismo non tornerà mai, e non solo perché è vietato. Come ho voluto dire nel film, quando ci sentiamo minacciati, anche dalle cose più stupide, viene fuori questo nostro lato intollerante, ma siamo anche quelli capaci di abbracciarci. Non voglio ripetermi, ma non posso non citare De Gregori, le persone "sanno benissimo cosa fare. Quelli che hanno letto milioni di libri. E quelli che non sanno nemmeno parlare". C’è una sequenza del film in cui le mie due mogli, appartenenti a due fazioni politiche diverse, di fronte al fatto che io sono vivo si abbracciano. Un gesto che si presta a diverse interpretazioni. Una è sul trasformismo, sulle note di De Gregori, l’altra è che siamo capaci di superare le difficoltà, sappiamo rinsavire".

Si ride e molto, ma con meno spensieratezza e più sentimento, rispetto agli altri suoi film. 

"Qui ci sono le carceri libiche, c’è quello che accade. C'è la verità, cazzo". 

C’è una scelta di campo, più che politica, di umanità.

"A volte l’intervistatore ti tira fuori cose che avevi dentro e non sapevi dire. E in questo caso è così". 

C’è un balletto onirico in mare con i naufraghi che ha fatto discutere. E altri situazioni e battute a rischio polemica.

"Per trovare l’equilibrio c’è stato un grande lavoro di cesellatura, ma sto facendo pur sempre un film comico. È importante sottolineare che quello del balletto dei naufraghi è un momento onirico. Il testo della canzone, se fosse letto a voce senza la scena intorno, senza contestualizzarlo, darebbe luogo a nuove accuse di scorrettezza, cinismo o peggio ancora. Era difficilissimo raccontare in un film come il mio il momento del naufragio: quelle immagini le vediamo tutti i giorni nei telegiornali, che senso avrebbe avuto riproporlo in chiave realistica? Non ci azzecca proprio. Sono le scene a cui tengo di più. Sto dicendo a un naufrago che c’è sempre “uno stronzo più nero”. È l’idea della speranza, c’è sempre qualcuno che sta peggio di noi e dobbiamo essere fratelli. Questo è il senso". 

Lei ha saputo, finora, interpretare i sentimenti e le pulsioni degli italiani per lungo tempo non visti, non intercettati. Oggi sono quelli che vogliono chiudere i porti. Si guarderanno allo specchio e sapranno ridere di se stessi?

"Non lo so. So come reagirete voi giornalisti. Tentando di incasellarmi, di tirarmi da una parte. Beh, penso che sia impossibile. È un film che non può essere definito né di destra né di sinistra. Come ha detto lei, è un film sull’umanità".

Di sicuro non è un film razzista.

"Certo che no, non ci sono le razze… Esistono gli stupidi in tutte le razze. Un’altra cosa di cui vado fiero è che il personaggio che sembra più bello, il ragazzo africano appassionato di cinema italiano, interpretato da Souleymane Sylla: colto, pieno di buoni sentimenti, ha il suo lato negativo… Come sono molto contento del personaggio di Idjaba, interpretata da Manda Touré, che riscatta tutte le donne e pure me dalle accuse di sessismo. È un bel personaggio femminile profondo e forte".

Durante questi anni c’erano altre storie, magari più facili, che ha rimpianto di non aver fatto?

"No. Ero convinto di questo film".

Com’è stato il lavoro con Paolo Virzì?

"Risolutivo. L’ho incontrato dopo un periodo di crisi di due anni. Non sapevo cosa fare. Lui mi ha chiamato, mi ha raccontato la storia di un italiano che è costretto a fare il viaggio dei migranti. Virzì aveva questa idea. Poi ci siamo conosciuti e, ancora più avanti, ho sentito che non si capiva se stavamo facendo il film suo o il film mio. Sono sincero. Io, che ho grande rispetto nei suoi riguardi, ho trovato il coraggio di dirgli: “Paolo, forse è meglio che lo faccia io”. Ha compreso la cosa. L’unico rimpianto è che durante le riprese non ci siamo mai visti. Io sono timido, non sembra ma lo sono. Mi imbarazzava moltissimo l’idea che ci fosse lui sul set mentre io dirigevo la gente. Ho fatto questa scelta. E non l'ho più chiamato".

Qual è stato il momento più difficile, di sconforto?

"Ci sono stati tanti momenti. Ci sono stati pianti, le telefonate alla compagna. Sa quando si sta insieme da quindici anni, non è che ci si chiama più così spesso. E, invece, sono stato intere notti al telefono con Mariangela, volevo tornare indietro: “Non ce la faccio”. Ricordare un problema è difficile perché ce ne sono stati così tanti. Nassor, il bambino, per dire. Non era possibile farlo venire in Italia perché in Kenya non c'erano i documenti, lo stavano aspettando cento persone. Poi la nave bloccata per un problema tecnico, la pioggia nel deserto, gli scioperi del cinema: è sacrosanto il diritto di sciopero, ma, cazzo, perché proprio a me quando devo girare la scena più importante del film? A un certo punto, non succedeva da vent’anni, mi sono ritrovato a Malta con lo sciopero, avevo la piscina per le scene acquatiche solo per due giorni e non sapevo come fare. Ci sono stati grandi momenti di sconforto e non so neanche io dove ho trovato la forza di finire".

La famiglia l’ha raggiunta sul set?

"In Africa no, in Puglia sì. C’è la figlia più grande, che si chiama Gaia…"

La bambina ha fatto una sorta di show mentre l’aspettavamo. 

"Sì, fa gli show, però appena si accende la macchina da presa se la fa sotto. Me ne sono accorto quando l’ho inserita nel video finale della canzone con i bambini, La cicogna strabica".

Quello in cui lei è vestito da esploratore esattamente come il Sordi di Riusciranno i nostri eroi…

"Sì. Invece la piccola, Greta, è sconsiderata. A tre anni: “Vai papà vai, azione, azione”. E anche Mariangela fa un piccolo ruolo, il medico. Negli altri film le avevo fatto fare la tamarra, ora si è incazzata e ha detto “basta, voglio una parte seria”".

Il film è una commedia musicale. Da De Gregori a Endrigo, da Pausini a Di Bari. E le sue canzoni. 

"Vagabondo, sarà didascalico ma “ho venduto le mie scarpe” mentre si vede il mio mocassino Prada... non ho resistito. È stato un onore avere Viva l’Italia di De Gregori. Poi ci sono le mie canzoni. La Cicogna Strabica e quella che ho intitolato Se ti migra dentro il cuore perché non siete pronti al titolo originale, che era Gnocca d’Africa. Ho lavorato con Giuseppe Saponari e Antonio Iammarino, che ha scritto l’ultimo brano di Tiziano Ferro: sta vivendo un bel periodo, il ragazzo. Sono i momenti più rilassati, quelli in cui ci mettiamo a suonare, io mi sento più pianista che altro". 

La prima persona a cui ha fatto vedere il film?

"Durante un piovoso pomeriggio ho fatto vedere metà film al mio produttore, Pietro Valsecchi".

Che ha detto?

"Grande film (imita voce roca e accento del produttore)".

Adriano Celentano l’ha sentito?

"No".

Lui le vuole bene.

"Non so se mi vuole ancora bene dopo che non sono andato alla sua trasmissione. Io gliene voglio tanto".

La perdonerà.

"Non so se mi perdonerà, però io gli avevo detto che andavo e non sono andato. E avranno sicuramente pensato che non sono andato perché la trasmissione non ha fatto grandi numeri. In realtà io stavo ancora montando, colorando il film ed ero distrutto fisicamente. Posso chiedere scusa attraverso la sua penna al grande maestro Celentano? "

Lei ha detto che non vuole che il film sia incasellato politicamente. Le darebbe fastidio?

"Fastidio no, ci sono ben altre cose che mi danno fastidio. Non so cosa succederà, prima mi hanno tirato sul carroccio dei vincitori, adesso che potranno vedere il film non so. Penso che si divertiranno, ma non le so rispondere". 

Farà vedere il film al suo regista storico, Gennaro Nunziante?

"Gli mando sette euro per farglielo vedere. Non ci sentiamo da tempo, ma c’è stima". 

Continuerà a dirigere?

"Non so ancora che farò, ma mi piacerebbe. Ho imparato che una delle doti che ho è quella di individuare il talento nell’altro. Maurizio Bousso, il ragazzo che fa l’immigrato nel video tanto contestato. È un bravissimo attore che lavora allo Stabile di Genova. Mi piacerebbe fare un’esperienza di scopritore di talenti. E dire, tra tanti, ecco, “tu sì”. Lo so, è un po’ da stronzi".

Ha mai vissuto la condizione di subire il razzismo? 

"No. In fondo sono un po' provinciale, non ho viaggiato tanto. Mi sono trasferito a Milano ma era piena di terroni. L’essere del Sud non è mai stato un peso. Anzi, nell’epoca di Vendola presidente faceva fighissimo essere pugliesi, con Gino e Michele avevamo una sorta corsia preferenziale a Zelig. Tanto che quasi mi dava fastidio, sono dell’era post-terrona".

Virzi dice che lei è un po’ Borat, lo scorrettissimo personaggio comico inglese. È uno dei suoi riferimenti?

"Sì, Sacha Baron Cohen. Adesso è un po’ difficile quel tipo di comicità, ma lui mi piace perché è un non attore, così selvaggio nell’interpretazione, libero da ogni schema".

E lei, dopo un incasso da 65 milioni, riesce ancora ad essere selvaggio e libero?

"Eh, no. Tento, ma forse dei paletti ce li ho. Anche inconsci".

Tra recensioni splendide e 70 milioni di…

"… Non la faccio neanche finire: 70 milioni di euro d’incassi". 

Le legge le recensioni?

"Sì".

Cosa le piacerebbe che dicessero o scrivessero su questo film?

"Che c’è e si vede il cuore. Che sono autentico, che non sono mai ruffiano".

Le dicono spesso che è furbo.

"Ecco, che mi dicano che non sono furbo: perché per fare un film così costoso, pieno di neri in un’Italia di "candida"… Ci vuole coraggio, non furbizia".

Checco Zalone: «Basta con la psicosi del politicamente corretto». Pubblicato domenica, 22 dicembre 2019 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. L’attore e le polemiche : «Io razzista? Pensarlo è una vera stupidaggine.». Poi scherza: «Credo nel futuro, ho persino affidato qualche soldino alla Banca popolare di Bari».

Luca Medici, anzi Checco Zalone, il suo Immigrato ha scatenato molte polemiche.

«Si sono mossi in milioni per difendermi da Heather Parisi, d’ora in poi Hater Parisi, e dal professor Giuliano Cazzola. Grazie a tutti; ma non era il caso».

Insomma, qualche critica è arrivata.

«Purtroppo non si può dire più nulla. Se riproponessi certe imitazioni di dieci anni fa, tipo quella di Giuliano dei Negramaro, mi arresterebbero. Oggi non potrei scherzare come facevo, che so, su Tiziano Ferro, o sugli uominisessuali».

Che non avranno gli assorbenti ma però hanno le ali.

«Per volare via, con la fantasia, da questa loro atroce malattia».

Lei non scherniva gli omosessuali, ma coloro che li scherniscono.

«È evidente; anche se forse non a tutti. L’unica cosa atroce qui è la psicosi del politicamente corretto. C’è sempre qualche comunità, o qualche gruppo di interesse, che si offende».

Hanno detto di lei che è diventato razzista.

«Escludo che qualcuno possa essere così stupido da pensarlo davvero. Non sono razzista neanche verso i salentini, che per noi baresi sono i veri terroni. E neppure con i foggiani, anche se molti di loro si sono risentiti per una canzone che ho cantato da Fiorello, La nostalgie de bidet: “Così proprio ogg’ so’ turnuto nella mia Fogg’, la delinquenza la spazzatura la poverté, ma finalment voilà le bidet...”. Ne approfitto per chiedere scusa ai foggiani: lo giuro, non penso che appartengano a una razza inferiore... E chiedo scusa pure ai calabresi: nel nuovo film c’è una battuta terribile su Vibo Valentia».

Altri hanno detto che lei è diventato di sinistra.

«Eh no! Questo è troppo! Qui mi arrabbio davvero».

Sul serio: lei come la pensa?

«Sono del 1977. Ho votato per la prima volta nel 1996: Berlusconi secco. Perse. Per un po’ mi sono astenuto. L’ultima volta ho votato Renzi. E ha perso pure lui».

Come nasce la leggenda del Checco Zalone di destra?

«Eravamo a una festa di paese. Tentavo di provare sul palco, ma da quattro ore un gruppo di comunisti, vestiti da comunisti, andava avanti con la pizzica. A un tratto mi venne spontaneo urlare: “Viva Berlusconi!”. Quel giorno nacque la Taranta de lu Centrudestra».

Che è una satira su Berlusconi e i suoi. L’ha mai conosciuto?

«Sono stato una volta ad Arcore, a cena con lui, il figlio Piersilvio, il mio produttore Pietro Valsecchi, Giampaolo Letta e la mia compagna Mariangela. Era nata nostra figlia Gaia, e per festeggiare bevemmo solo vino di Gaja, il migliore del mondo. Alle dieci di sera Berlusconi si alza sospirando: “Scusate, ma devo andare a scrivere le memorie difensive del processo. Cosa mi tocca, a quasi ottant’anni...”. Un’ora dopo, completamente ubriaco, mi faccio accompagnare al bagno. Ma al ritorno mi perdo nei meandri della villa. Mi oriento ascoltando una voce familiare… entro in una stanza, e trovo Berlusconi con sette donne: la Pascale e le sue amiche. Tutte vestite».

E lui?

«Recitava la parte del prete, che ascolta in confessione i peccati. Mi indignai».

Perché?

«Berlusconi con sette donne, tutte vestite!? E le tradizioni? I valori di una volta?».Lei nel 2013 disse che non le piaceva Renzi, perché piaceva a tutti. Il problema pare superato.«Infatti ora a me piace. Anche perché lui mi ha cercato, mi ha intortato... Amo i perdenti. Lei tifa il tennis?».

Sì.

«A me invece del tennis non me ne frega niente. Ma l’altra sera ho visto una partita in cui un tennista veniva massacrato; e ho cominciato a tifare per lui. Allo stesso modo, tifo Renzi. Mi ricorda don Chisciotte».

Le Sardine?

«Non le ho ancora capite. Non mi esprimo. Certo, questo leader con il cerchietto tra i capelli...».

E Salvini?

«Non ho capito neppure lui. So solo che è un grande comunicatore. E un grande paraculo. Ora vedo che sta tentando di diventare un po’ democristiano...».

Il suo nuovo film si chiama Tolo Tolo. Cosa vuol dire?

«Solo solo. È la storia di un italiano scappato in Africa, inseguito dai debiti. Nel Paese scoppia una guerra civile. E lui tenta di rientrare in patria, unico bianco tra i profughi. Incontra una donna. E un bambino: Dudù. “Ti chiami come il cane di Berlusconi!” gli urla».

La criticheranno per questo. Ma è un film che può cambiare il sentimento degli italiani verso i migranti.

«Non cambierà nulla, né ho questa ambizione. Però è stato un’esperienza straordinaria. Abbiamo girato in Kenya, in Marocco, a Malta, dove abbiamo ricreato i campi di detenzione libici. Venti settimane di lavoro durissimo. Ieri era il Data-Day».

È un termine tecnico? Cosa vuol dire?

«Non lo so: me lo sono inventato io. È il giorno in cui devi consegnare il film alla censura; perché esiste ancora la censura. Da quel momento non puoi più cambiare nulla».

Si è parlato di una lavorazione faticosa. Intanto non c’è più Gennaro Nunziante, il regista dei suoi altri film.

«Ma resta un amico: ci ritroveremo. Stavolta il regista doveva essere Paolo Virzì».

Poi cos’è successo?

«Mi sono reso conto di essere ingombrante. Forse ero troppo preoccupato di ripetere il successo di Quo vado. Fatto sta che gli ho detto: “Voglio farlo io”».

Virzì come l’ha presa?

«Spero male... Comunque ha già visto Tolo tolo. E mi assicura che gli è piaciuto. Ma è toscano, quindi paraculo».

Com’è stato lavorare in Africa?

«I primi provini per scegliere il piccolo protagonista li ho fatti a Roma. Ma erano tutti bambini adottati, pariolini, borghesi: bravissimi, ma troppo romani per essere credibili. Così siamo andati a fare i provini in Kenya. Ho conosciuto ragazzini straordinari, ma non trovavo quello giusto. Fino a quando non ho visto questo bambino con gli occhi enormi, Nassor, che quando ride, ride tutto, e mi sono detto: è lui».

Qual è il suo primo ricordo da bambino?

«Un balcone. Un triciclo. Io che vado su e giù».

Era molto solo?

«Per fortuna dopo tre anni è arrivato mio fratello Fabio. È uguale a me; solo che è povero. E ancora più cinico. Ogni volta che esce un nuovo film e cado in preda all’ansia, alla paura, alla depressione, mi canta balbettando la sigla di “Meteore”, il programma su quelli che hanno avuto successo una volta sola».

Perché balbettando?

«Quando parla con me, balbetta. Con le ragazze invece è spigliatissimo».

Che lavoro fa?

«Lo steward. Prima Ryan Air. Ora è stato promosso alla Norwegian. Capocabina. Una pacchia: dopo ogni volo transoceanico, per legge deve stare tre giorni a Manhattan».

L’ha raccomandato lei dopo Quo vado?

«In Norvegia non accettano raccomandazioni. Però da noi gli hanno offerto 40 mila euro per andare all’Isola dei Famosi come fratello di Checco Zalone. Mi ha telefonato: “Se me ne dai tu 45 mila, non vado”. Non è andato».

E l’altro fratello?

«Francesco è il piccolo di famiglia, anche se è enorme. Ha dieci anni meno di me e lavora nel cinema: attrezzista. Ruolo fondamentale. Se devi girare trenta volte la scena di una porta che sbatte con la maniglia che si stacca, devi riattaccare trenta volta la maniglia. Se servono due ore per girare una scena con il caminetto acceso, il fuoco va tenuto acceso con la stessa intensità. Una grande seccatura».

Qual è il suo primo ricordo pubblico?

«Paolo Rossi e il Mondiale 1982. Prima ancora, l’elezione di Reagan. Trovammo una cagnolina e mia madre disse: la chiameremo Nancy, come la first-lady».

Chi è sua mamma?

«Antonietta Capobianco. Si candidò nelle liste del Pci. Prese 18 voti; ma i Capobianco a Capurso erano 36. Metà non la votò. Un fatto gravissimo».

Comunista la madre di Checco Zalone?

«Quello di destra era mio nonno paterno: don Pasquale, capostazione».

Liberale?

«Fascistone. Lo sentivo mormorare: “Quando c’era Lui, i treni arrivavano in orario...”. Chiamò la figlia Rachele, come la moglie del Duce. Pudicamente la chiamavamo Lina. Ha fatto la poliziotta. L’ho stimata tantissimo. Mi ha insegnato cos’è il senso dello Stato, del bene comune. Dopo il terremoto la mandarono in Friuli. Ha chiuso la carriera come vicequestore. E’ stata lei a farmi studiare».

Dove?

«Mi iscrisse a una scuola privata di Bari. La quarta volta che non mi svegliai al mattino per prendere il pullman, mi mandarono alla scuola pubblica di Capurso. Io ero al penultimo banco. Dietro di me c’era Giuseppe De Bellis, che oggi dirige Sky Tg24».Lei si è pure laureato in Legge.

«Sì, ma non mi ricordo niente. Ho anche dato un concorso da ispettore di polizia. Per fortuna non mi hanno preso. Zia Lina tentò di farmi assumere da un avvocato: sarei dovuto andare a fare le fotocopie nello studio di Francesco Paolo Sisto, l’onorevole di Forza Italia. L’altro giorno l’ho incontrato in aereo e gli ho chiesto: “Fammi ‘na fotocopia, dai”».

È stato anche rappresentante di medicinali?

«Un periodo orribile. Piazzavo molta amuchina, che a Bari andava forte per paura del colera. E i cerotti per non russare, che però restarono invenduti».

E suonava ai matrimoni.

«Quello era un mestiere redditizio, perché in Puglia il matrimonio va molto. Settanta euro a serata. La cantante, serissima, annunciava: “Dopo questa canzone saranno serviti gli antipasti”».

Com’era il pubblico?

«C’era di tutto. Anche pregiudicati con amici e parenti in galera. Presi l’abitudine di esordire così: “Il concerto è dedicato ai reclusi della casa circondariale di Taranto, con augurio di presta libertà”. Al Nord scoppiavano a ridere. Al Sud scoppiava un applauso sincero: mi prendevano sul serio».

Ha giocato a calcio?

«Nella Polisportiva Capurso. Che poi non si capiva come mai si chiamasse Polisportiva, visto che – giustamente - si faceva uno sport soltanto: il pallone. Giocavo centravanti, benino. Un giorno incontriamo il Bari. Noto questo bambino di sette anni, piccolo, brutto. Non ci fece toccare palla. Era Antonio Cassano».

Siete diventati amici?

«Ogni tanto ci sentiamo. Ha un senso dell’umorismo totale. Un pomeriggio mi chiama sul telefonino al mare. Sto facendo il bagno, e al mio posto risponde Gennaro Nunziante. “Ricchione!” comincia Cassano. E l’altro, paziente: “Non sono Checco, sono Gennaro Nunziante, il suo regista...”. “E si’ ricchione pure tu!”».

Cassano sostiene di aver avuto 800 donne. E lei?

«Io otto. Anzi, ora che le riconto, sette. Ma perché non si fa i fatti suoi?».

Checco Zalone è un personaggio pubblico.

«La verità è che ho avuto solo due storie. La prima è durata dieci anni. La seconda dura ancora adesso. E sa qual è il segreto?».

Quale?

«Mariangela me l’ha fatta sudare per una vita».

Dicono che gli uomini tendano a innamorarsi prima di andare a letto con una donna, e le donne dopo...«...A volte per giustificare di esserci andate a letto. È assolutamente così».

Come vi siete conosciuti?

«Mariangela cantava in un piano bar della provincia barese, un posto un po’ triste. Io ero con un’amica che non mi considerava, e per ingelosirla vado da questa cantante, bella, prosperosa, a dirle: “Io suono ai matrimoni, se ti interessa...”. Le interessava. Sono innamoratissimo. Dopo Gaia è arrivata un’altra bimba, Greta».

Chi è il suo mito? Sordi? Totò? Benigni?

«Celentano».

Perché?

«Intendiamoci: Sordi ha messo in scena l’italiano come anch’io tento di fare. Ho visto e rivisto Tuttobenigni: straordinario, anche se dopo l’Oscar è un po’ rientrato nei ranghi, ha moderato il linguaggio... Un rischio, l’Oscar, che per fortuna io non corro. Totò è il più grande. Ogni volta che danno in tv Miseria e nobiltà, me lo guardo daccapo; e davanti alla scena in cui lui, finto aristocratico, entra nella casa del borghese impartendo benedizioni come il Papa, rido fino alle lacrime».

Ma perché Celentano?

«Innamorato pazzo, Il bisbetico domato, Asso: li ho visti tutti. Mi ha anche invitato alla sua trasmissione, ma non ci sono andato».

Perché?

«Dovevo ancora finire il film, ero distrutto, non potevo fare tre giorni di prove. Ma sono andato a pranzo con lui, l’ho visto lavorare. Sono pazzo di Celentano. All’orchestra ha detto: questa canzone la interrompiamo qui. “Va bene Adriano, ma perché?”. “Perché la so soltanto fino a qui”. Chiedo scusa pure a Celentano».

E Beppe Grillo?

«Come comico, siamo ai livelli di Totò. Ricordo una sua imitazione di Bossi dopo l’ictus: spietata».

Paolo Villaggio diceva che il comico deve essere cattivo...«...E non deve essere “scopante”. Purtroppo aveva ragione su tutti i fronti. Villaggio poi era cattivissimo: lo ricordo da Santoro criticare con sarcasmo la Lega perché non era abbastanza razzista. I primi due Fantozzi sono tra i film della mia vita».

Quali sono gli altri?

«Bud Spencer e Terence Hill. Rocky 4: la mia prima imitazione era Sylvester Stallone che gridava “Adrianaaaa!” e acchiappava la gallina. Di recente ho visto Una giornata particolare e C’eravamo tanto amati: stupendi. C’è una scena piena di poesia, quando Stefania Sandrelli, dopo essere stata con tutti, dice a Nino Manfredi che ha chiamato il figlio Luigi, e lui esulta: “L’hai chiamato come mi’ zio!”. Commovente».

È vero che una volta la cacciarono da una radio pugliese?

«Sì, ma non posso fare il nome. Comunque è Radio Norba. Facevo la parodia del cantante neomelodico. Interruppero le trasmissioni: volevano solo voci baritonali, impostate. È il Sud che si vergogna di se stesso. Pochi mesi dopo mi videro a Zelig e tornarono a invitarmi. Dissi no».

E quando non la vollero a Sanremo?

«Volevo prendere in giro Povia, che aveva fatto una canzone agghiacciante, “Luca era gay e adesso sta con lei”; come se l’omosessualità fosse una malattia da curare. L’idea era salire sul palco dell’Ariston con una medicina in mano, il Frociadil 600, ovviamente una supposta. Gli autori mi fecero capire che non era il caso».

A Sanremo quest’anno ci sarà Al Bano.

«Al Bano è il nostro Michael Jackson. La sua casa di Cellino San Marco è più grande dell’intero paese».

Siete amici?

«Lo ammiro, ma l’unico amico vero che ho nel mondo dello spettacolo è il mio quasi omonimo, Kekko dei Modà. Siamo anche stati in vacanza in Sardegna insieme, le nostre figlie sono coetanee; a raccontare le barzellette è molto più bravo di me. Sono affezionato anche a Gigi D’Alessio».

Quando l’ha conosciuto?

«Non l’ho mai visto in vita mia. Ma quando i critici stroncarono il mio secondo film, Che bella giornata, mi chiamò per consolarmi e mi tenne ore al telefono. Ho visto invece la Tatangelo, e questo mi ha reso ancora più solidale con Gigi D’Alessio».

Come vede l’Italia tra dieci anni?

«Sono ottimista. Credo nel futuro, ho persino affidato qualche soldino alla Banca popolare di Bari».

Sul serio?

«Giuro. Non sono ancora andato a riscuotere, perché temo di non trovare più un euro. Ma resto convinto che noi italiani siamo un popolo straordinario. Oggi va così. Però rinsaviremo».

Malcom Pagani per Vanity Fair il 24 dicembre 2019. «Signor Malcom, mi dica subito, lei ha parentele con quel tale X che negli anni Sessanta difendeva i diritti degli afroamericani?». «Assolutamente no». «Bene, si accomodi e cominci pure con le domande». Chitarra. Voce. Checco Zalone. All’uscita del supermercato ti ho incontrato (“il carrello lo porto io”) / Al distributore di benzina (“metto io, metto io”) monetina / Al semaforo sul parabrezza / C’è una mano nera con la pezza / E ritrovo quel tuo sguardo malandrino che mi dici: “C’ha due euro per panino!” Genesi: «Esco di prima mattina e lo incontro sulla porta. Mi chiede una moneta, gliela do. Due ore dopo lo rivedo in un’altra zona. Mi domanda un euro, glielo allungo. Ormai si è fatta sera. A un semaforo, qualcuno si offre di lavarmi il vetro della macchina. Abbasso il finestrino, è ancora lui. Lo guardo. Mi guarda. Si rende conto, mi rendo conto. Scoppia a ridere, rido anch’io. Diventiamo amici. A fine giornata penso di scriverci una canzone, poi accantono l’idea fino a quando, in una giornata africana particolarmente deprimente, mentre con i miei amici Antonio, Giuseppe e Maurizio cerco di ingannare il tempo tra una pausa e l’altra del set, mi torna in mente quella storia e scrivo Immigrato». Ancora un ciuffo di giorni e Checco Zalone, dopo essere stato un’assenza, un’attesa e un pretesto, sarà una statistica. Su Tolo Tolo, sull’esegesi delle intenzioni e sulla pioggia di interpreti del pensiero di Luca Medici, si aprirà l’ombrello dei numeri. Al protagonista, il dibattito preventivo sul suo film sembra vuoto come la dispensa del suo residence: «Un caffè glielo faccio, ma non ho lo zucchero». Ha girato il suo primo film: «Due mesi di sopralluoghi, quasi 20 settimane di riprese tra Malta, Kenia, Marocco e Belgio, Tolo Tolo è stato faticoso. Tanto. Troppo». Ha affrontato «un tema che era nell’aria e a cui tra un proclama di Salvini e uno sbarco a Lampedusa pensavo da anni. Cercavo una storia da ambientare in Italia fino a quando Paolo Virzì non mi ha dato l’idea di spostare il fuoco e di ambientarlo al di là del Mediterraneo». Si aspetterebbe di più della conta un po’ meccanica dei milioni di euro e di una serie di reazioni a Immigrato «che mi hanno annoiato se non imbarazzato. Siamo messi male. Rivendico il diritto di non piacere e di non risultare divertente. Anche se devo dire che essere difeso da chi avresti voluto attaccare è divertententissimo».

Chi l’ha attaccata però lo ha fatto con durezza.

«Ma lei pensa che non sapessi cosa andavo a scatenare?».

Lo sapeva?

«Ma no, lo dico per dare soddisfazione a tutti quelli che hanno parlato di geniale operazione di marketing. Di strategia. Di calcolo. Ma dove? Ma quando?».

L’associazione Baobab ha parlato di banale spazzatura per il mercato delle festività.

«Direi che non dobbiamo preoccuparci. Magari chi ha scritto queste cose non ha visto integralmente il video o nutre semplice antipatia nei miei confronti. Il problema è la povertà del dibattito. Il ditino moralizzante sempre alzato a dire “questo si può o questo non si può dire”. Il nascere pretestuoso di polemiche inutili e modestissime».

Che impressione le fanno?

«La soglia della correttezza pretesa e della scorrettezza denunciata dal tribunale degli opinionisti si è vertiginosamente abbassata e in pochissimo tempo. Se si guarda al cinema degli anni ’70 lo si capisce immediatamente. Viviamo nell’assurdo. Siamo a un passo dal corso di laurea in politicamente corretto».

Lei la laurea la prese.

«In Giurisprudenza, ma non feci un solo giorno di pratica. Mentre mia zia Lina, vicequestore di Polizia in appoggio alla Buoncostume, la stessa che anni prima mi aveva spedito al Cirillo di Bari, un mestissimo semiconvitto per soli maschi, si occupava di trovarmi uno studio in cui esercitarmi gratis come legale, arrivò la chiamata di Zelig. Dopo il jazz, il piano bar e gli spettacolini, feci un provino a Milano. Una gag che a Bari, quando la mettevo in scena, lasciava per lo più indifferenti: “Un bacione alla casa circondariale di Trani con gli auguri di una presta libertà”. Fu un trionfo, il punto di svolta dopo una lunga notte».

Com’era la lunga notte che precedette Zelig?

«Come dice Daniele Silvestri, più in basso di così non si poteva andare. Il picco dell’umiliazione fu quando mi chiesero di suonare un pianoforte vestito da Babbo Natale. Comunque lo picchiassi o per quanto lo scuotessi con delicatezza, quel piano scassato non restituiva mai una nota tenue. Io sul palco, senza renne, vestito di rosso e di bianco per 50 euro di ingaggio e sotto di me il pubblico inferocito che mi chiedeva di fare meno rumore, di non disturbare la festa».

Fa impressione sentirlo dire dal campione d’incassi del cinema italiano.

«Le ho provate tutte. E non mi sono arreso. Sono stato fortunato, anzi fortunatissimo perché senza una buonissima dose di culo non vai da nessuna parte, ma quando ho avuto un’occasione ho dimostrato di sapermela meritare. Mi mandavano in onda, funzionavo, facevo ridere».

Milano le diede un’occasione.

«Il primo migrante ero io. Un migrante disperato come tutti i migranti. Per andare in trasmissione viaggiavo sulla tratta ferroviaria Bari-Milano con la stessa frequenza di mio nonno Pasquale, capostazione, e in tasca non avevo una lira. Parlavo per ore al telefono con Mariangela, con la quale sto da 15 anni perché lo saprà, all’inizio tra fidanzati non si fa altro che parlare e dormivo a casa di Nicola, un mio amico dell’università che vinse il concorso per entrare in Polizia Penitenziaria e da buon ragazzo del Sud comprò subito una casa a Milano. Periferia nord. Fermata Dergano. In pieno luglio, con un caldo sconvolgente, andavo a fare queste prove in viale Monza, combattevo con le zanzare e poi tornavo a Capurso. Una volta in treno incontro uno di Noicattaro».

Un suo conterraneo.

«Lombrosianamente, una faccia da tagliagole. Attacca discorso e mi comincia a raccontare una storia pazzesca: era stato in galera e si era trasferito in Germania perché in Italia non poteva più lavorare per aver rubato un motorino. Si immagini la scena: noi due in piena notte in un vagone deserto. Lui, enorme e poco raccomandabile, mi racconta nei minimi particolari il suo arresto. Io, piccolo e magro, visibilmente terrorizzato penso: “adesso questo, i pochi soldi che ho in tasca, me li rapina fino all’ultimo centesimo”».

E accadde?

«Macché. A un certo punto si commuove, gli si riga il volto di lacrime e mi dice: “L’altro giorno mio figlio mi dice che vuole un motorino. E io sai che ho fatto? Gliel’ho rubato. Così almeno non si sporca la fedina penale pure lui”.  Rimango zitto e intanto penso: “Qui c’è un film, qui c’è l’Italia”».

Lei quando ha capito di aver un potenziale?

«Quando ho inseguito i miei sogni. C’è stata un’epoca abbastanza buia in cui mi sembrava che non esistesse niente di più importante che avere un’indipendenza economica. Volevo qualche euro in tasca, una macchina tutta mia, un orizzonte sereno. Volevo il posto fisso. Mi misi in testa che dovevo fare il rappresentante e mio padre, venditore di medicine, mi trovò un posto di lavoro per sostituire quello dell’Amuchina che andava in pensione per raggiunti limiti d’età. Fui assunto. Avevo 23 anni. Con il colera, in Puglia, il prodotto si diffuse in maniera capillare. Lo usavano per lavare la verdura, pulirsi i piedi, farsi il bidet, la barba e forse anche al posto dell’acqua minerale».

Quindi tutto bene?

«Qual era il problema? Che in questo listino di prodotti da vendere che dovevamo proporre ai farmacisti, oltre al nostro Leo Messi, al nostro gioiello, al nostro vanto, l’Amuchina, c’erano una serie di cadaveri, noi rappresentanti li chiamavamo così, che rasentavano l’invendibilità. Il punto di rottura ci fu sui cerotti».

Racconti.

«I calciatori indossano cerotti per respirare meglio e per un paio di mesi, vedendoli in tv, più di un calciofilo volle imitarli. Tre settimane di follia, ordini alle stelle, pallottolieri che giravano. Poi, all’improvviso, al ventunesimo giorno, dei cerotti non volle saperne più nessuno e dei cerotti a quel punto avrei avuto bisogno io. I farmacisti erano inferociti e arrogantissimi: “Riprenditi questa monnezza e prova a venderla, altrimenti non ti fare più vedere”. Non solo non te li pagavano, ma avevo l’auto che traboccava di casse. A un certo punto i cassonetti li aprii davvero, mi liberai della merce e per un periodo andai proprio in crisi. Ero depresso. Mi sarebbe piaciuto suonare e invece mi rendevo conto che stavo buttando la mia vita. Tre o quattro mesi tremendi con lo spettro del servizio militare a incombere».

E cosa fece?

«Prima tentai di entrare in Polizia. L’esame prevedeva diritto penale, civile e amministrativo. Sui banchi, tutti quelli che facevano il concorso in Magistratura e affrontavano quel concorso in maniera sussidiaria. Avevo perso in partenza. Se l’avessi passato sarei diventato ispettore, mamma mia, poi dici che Gesù non esiste». (ride)

E poi?

«Dopo il liceo, a Capurso, bisognava trovarsi un lavoro. E io un lavoro non ce l’avevo più. Così mi ributtai a studiare, chiusi la partita Iva e pensai a come rimediare alle mie voragini fiscali con lo Stato. Erano cazzi. Ma cazzi veri. Dovevo quasi 20.000 euro all’Inps, una cifra per me impensabile. Zelig, da quel punto di vista, era vitale, ma non avevo più un soldo in tasca, neanche per il treno. Un giorno di luglio, più caldo e cattivo di altri, andai dal produttore e dissi che non potevo più fare avanti e indietro tra Bari e Milano per mancanza di fondi e quello senza eccepire mi firmò un assegno. La cifra, 5.000 euro, mi diede le vertigini. Chi cazzo li aveva mai visti quei soldi tutti insieme?».

Le cose si misero a posto pian piano?

«Grazie alla tv arrivarono le convention. Un miracolo in tempi ancora non straziati dalla crisi. Grandi aziende, gente disinteressata in platea, denaro facile. Ne facevo anche due o tre a settimana. Adesso me la tiro e non le faccio più, ma non so quanto sia una buona idea». (sorride)

Adesso fa il regista.

«Io la parola regista non riesco neanche a ripeterla, mi intimidisce, però a stare fuori scena, quando capitava durante la lavorazione di Tolo Tolo, mi sono divertito molto. Meno divertente è il lato oscuro del mestiere. Quando mi chiedono cosa ne pensi della color correction o chi devo ringraziare sui titoli di coda».

Lo rifarà?

«Temo di sì. È come una droga. Più ci ripenso e più ci voglio riprovare. Tra un po’ però, non domani mattina. Tanto, che sia tra un anno, tre o cinque, la mia condizione di base non cambia».

Quale condizione?

«Quella di chi ha fatto fare soldi e deve farne fare sempre di più».

Al primo gennaio, giorno dell’uscita di Tolo Tolo mancano pochi giorni. Prova ansia?

«Provo ansia prima, dopo e durante un film. Sono nato ansioso, non dormo da sei mesi, devo essere all’altezza delle aspettative. Immagino che se non fossi ansioso però sarei depresso».

L’ansia restituisce solo ansia?

«Da un certo punto di vista è la mia forza. Mi rendo conto che i momenti in cui avrei voluto morire e mi chiedevo “come cazzo faccio adesso?” sono quelli che hanno fatto scaturire le scene più belle del film. Il motore del guizzo è sempre la disperazione».

Sinossi di Tolo Tolo.

«È la storia di un italiano deluso dalla madre patria. Di un individuo che ha fatto una serie di investimenti sbagliati e sostiene di essere un sognatore. Posso usare una parolaccia?».

Prego.

«Se mi passa questo termine osceno, messaggio, il messaggio è proprio questo: Tutti abbiamo diritto di sognare. Il mio sognatore fugge dall’Italia, si trasferisce in Africa e una volta lì assiste allo scoppio di una guerra civile. Arrivano le milizie, una sorta di Isis o di Boko Haram, ed è costretto a tornare indietro, solo che non può farlo perché in Italia è inseguito dai creditori. Si ritrova quindi  nella stessa situazione dei migranti: non c’è nessuno che lo voglia. Se non fosse stato un titolo troppo colto, il film si sarebbe potuto chiamare Il migrante bianco».

Ma il suo protagonista è un figlio di puttana?

«Tutt’altro. Al limite un egoista, una testa di cazzo, un uomo incapace di vedere al di là del proprio ombelico. È uno che alla guerra antepone sempre i suoi problemi. C’è una scena di cui vado molto fiero: il suo numero di telefono è arrivato in diretta tv a Spinazzola, il suo paese, e mentre è in corso un bombardamento gli telefonano tutti. A lui delle bombe che piovono dal cielo non importa nulla, è molto più preso dalle ex mogli, dal commercialista e dai parenti che dal pericolo. Quando si rivolge agli altri, agli africani, con l’aria di saperla lunga fa loro un discorso a cuore aperto: “Sono questi i veri cazzi della vita, questa è la vera guerra”. È la metafora del nostro egoismo congenito visto comicamente, senza però il ditino alzato della morale moralizzante. O almeno spero».

A cosa aspira il suo protagonista?

«È un fuggiasco, uno che non ha più un luogo, uno che nonostante si trovi nei camion dei migranti o nelle navi con altri senza terra e senza patria, non sogna di tornare a Itaca. È cresciuto in mezzo all’amoralità. La madre gli dice: “Sei stato dato per disperso, hai la grande possibilità di estinguerti, se sparisci estingui tutti i tuoi debiti” e lui, in mezzo a un casino gigantesco con il suo amico Oumar, un appassionato di cinema italiano che sogna di andare a Cinecittà nonostante venga quotidianamente dissuaso da me “guarda che non c’è lavoro, non c’è una lira, non c’è una prospettiva”, non pensa al contesto drammatico che lo circonda, ma aspira all’unica salvezza del regime fiscale che troverebbe in Liechtenstein, dove c’è un suo cugino che gli darebbe riparo. Da un certo punto di vista, il mio personaggio è un candido».

Come il Candide di Voltaire?

«Ah, l’ha già scritto lui Tolo Tolo?». (ride)

In cos’altro spera?

«Che si capisca il paradosso. La poesia. Il ribaltamento dello schema. Non solo il valore del film o il fatto che ci abbia buttato dentro tanto sudore».

La più grande soddisfazione a film concluso?

«Aver avuto una canzone dal mio mito, Francesco De Gregori. Viva l’Italia è in una delle ultime scene del film e rispetto a quel che si vede sullo schermo è quasi antifrastica.  Temevo la sua reazione. Quando mi ha telefonato ero quasi certo che mi avrebbe detto “non puoi usarla”. Risponde con la stessa fiducia dei condannati e, incredulo, lo ascolto: “Finalmente, bravo Checco, è bellissima”. Sono momenti di impercettibile felicità». 

Per la prima volta dopo quattro film insieme non è diretto da Gennaro Nunziante.

«Ci siamo allontanati come forse capita alle persone che stanno troppo tempo insieme e magari c’è anche un po’ di imbarazzo, ma io so che ci vogliamo bene. Non c’è nessun rancore da parte mia come credo non ci sia da parte sua».

È stato un set faticoso diceva.

«Mi sono sentito un po’ come Terry Gilliam alle prese con il suo Don Chisciotte, con un film che sulla carta non finiva mai. Il fato si è accanito contro la produzione, abbiamo avuto sfighe inenarrabili, rallentamenti, ritardi. La nave presa per girare alcune scene ha subìto un controllo ed è stata bloccata. C’erano cento persone ferme ad attenderla. Era surreale, una storia nella storia, i migranti nei migranti. I mètamigranti. Poi il bambino».

Il bambino?

«C’è un bambino che mi segue nel film, che mi si affeziona, che mi prende un po’ per un secondo padre. Per una questione burocratica non aveva il visto per venire in Italia. Praticamente un’iperbole. Il Kenia non ce lo mandava con Salvini ministro dell’Interno in carica».

Lei ha detto: «Le cose semplici non mi riescono». Soffre a inventare?

«Non è sofferenza, è lavoro. L’improvvisazione esiste, ma deve muoversi su basi ben solide. Scrivere film come i miei, comici e apparentemente semplici, non è affatto facile. A una cosa penso e ripenso migliaia di volte. Mi chiedo se stia in piedi, se funzioni, se faccia ridere davvero. Poi, se serve, improvviso. La battuta, quando è scritta, perde già il 50 per cento della propria efficacia».

Dove ha imparato a ridere e a far ridere?

«A casa. Simpatici i miei, simpatici i parenti, simpatico il comico della famiglia, zio Nino. È morto due anni fa e a quest’uomo che andava fiero di aver lavorato pochissimo nella vita, ero molto affezionato».

Come faceva a farsi volere bene?

«Aveva – sia detto bonariamente – una clamorosa faccia da culo. Si era specializzato in epitaffi e quando in famiglia moriva qualcuno e tutti, più di qualcuno anche in maniera ipocrita, si stracciavano le vesti davanti al feretro, Nino entrava in scena a modo suo. Ti gelava. Diceva delle cose tremende e irripetibili. Indifferente alla bara e al lutto, Nino ribaltava il quadro. Spesso ingiuriava il defunto e io che avevo 10 anni ridevo come un pazzo. Forse il gusto, il senso, direi il dovere di disturbare con una nota dissonante mi è venuto da lì».

Una certa passione per i suoni l’ha sempre avuta.

«Mio padre suonava il basso con Gli amici del Sud. Dodici dopolavoristi scatenati tra le balere e le sagre di paese. Suonava mio nonno che mi ha lasciato in eredità il Beckstein, un pianoforte dell’800 che – mortacci sua – ha i tasti in avorio il cui acquisto oggi è vietato. I tasti sono rovinati, non posso cambiarli e quindi è inutilizzabile. Suonava anche il fratello di mio nonno, vincitore di un concorso, poi riparato in America ai tempi di Mussolini. E naturalmente suonavo io imitando Celentano, mio idolo assoluto, davanti allo specchio».

Con 24 mila baci / felici corrono le ore.

«Con i miei amici di allora e direi anche di adesso facevamo casino tutto il giorno. Le faccio vedere una cosa». (Checco armeggia con il telefono, escono video antichi in cui lui ha tutti i capelli e anima scherzi telefonici, recite collettive, imitazioni in gita scolastica)

Sembrate una banda.

«Con Beppe De Bellis che adesso, poveraccio, fa il direttore di Sky Tg 24 e non vive più e Rocco Chiodo, un mio amico negato per la fica ma con un cognome da film porno, facevamo scherzi telefonici a metà tra il lazzo ingenuo e l’insostenibile pesantezza. Rocco era un genio dell’elettronica. Con mezzi poverissimi era in grado di inventare sistemi audiovisivi che per noi, una generazione cresciuta con Holly e Benji e Bim Bum Bam, sembravano provenire direttamente dal futuro e ci facevano lo stesso effetto dell’Hal 9000 di Kubrick in 2001: Odissea nello spazio».

Dal suo luogo d’origine lei ha tratto molti spunti.

«Osservavo il contesto, studiavo e poi rielaboravo. Che si trattasse del prete di Capurso, Don Franco che teneva omelie più teatrali di un testo di Goldoni, o del mio professore, fascistissimo, di filosofia, cercavo i caratteri. Le peculiarità. Le stranezze. Da meridionale mettevo in burla i tipici vizi dei miei conterranei esagerando volutamente. Ce n’era per chi elevava il furto a seconda religione di Stato e per chi giudicava sacrilego, offensivo delle tradizioni familiari, superare la terza media». 

Con Pietro Valsecchi, il suo produttore, come si è conosciuto?

«Premessa: se non avessi detto no a Leonardo Pieraccioni forse non avrei mai lavorato con Valsecchi. Leonardo e Giovanni Veronesi, lo sceneggiatore, mi avevano scelto per Io e Marilyn. Ero arrivato da Roma con mio fratello, che è identico a me, e loro pensavano che Checco Zalone fosse lui. Uno fa l’attrezzista per il cinema e l’altro lo steward per Air Norwegian, le interessa?».

Vorrei tornare a Pieraccioni e a Veronesi.

«Arriviamo da loro in macchina da Bari con una fame pazzesca,  mi genufletto, dico subito di sì preventivamente al ruolo che mi offrono e poi, siccome con la pasta in bianco che avevano preparato soffro i morsi della fame, quando mi chiedono cosa faccia dopo il nostro incontro rispondo: “vado a pranzo”. Risate, accordo fatto, felicità reciproca».

Poi?

«Poi con la sua voce cavernosa a 5 Megahertz, nella mia vita, una settimana dopo, arriva proprio lui, Pietro Valsecchi. Io non sapevo chi fosse. Al telefono capisco soltanto due parole: Cortina e Aereo. Chiamo Gennaro Nunziante e gli dico: “Mi ha cercato un certo Valsecchi”. Sento un silenzio dall’altra parte, poi un gorgoglìo che somiglia a un’esultanza. “Ma sai chi è Valsecchi? Dobbiamo portargli subito una storia”. Così in pochi giorni tiriamo giù il canovaccio di Cado dalle Nubi e lo raggiungiamo in montagna».

Lei si deve liberare dall’impegno con Pieraccioni.

«Fu fantastico. Mi disse: “Ti è accaduta una cosa che è capitata anche a me e che non ti succederà mai più. Vai, cogli l’attimo e non preoccuparti”. A Cortina andai. Pietro versava vino e grattuggiava tartufo, che detesto, come fossero coriandoli o soldi del Monòpoli. Feci finta di niente, stetti male, vomitai fino all’alba e tenni duro. Il resto è una lunga storia. Sono tutti i miei film, fino a Tolo Tolo».

Avete mai litigato?

«In continuazione. Ci urliamo di tutto e poi facciamo pace. Magari non ci parliamo per ventiquattro ore, ma non è mai niente di serio. D’altra parte mi presenti qualcuno che non ha mai litigato con Valsecchi. È un grandissimo produttore. Ha fiuto. Entusiasmo. E poi ha un carattere».

Quanta gente ha conosciuto con un carattere?

«Non tanta. Uno era Ettore Scola. Lo conobbi al Festival di Bari dove era presidente e all’inizio feci l’orgoglioso. Mi chiamò un amico: “Domani c’è una lezione di cinema davanti al pubblico del Petruzzelli, ti andrebbe di venire?”. Dico di sì, ma vengo a sapere che al mio posto era prevista Liliana Cavani che all’ultimo istante non aveva potuto presenziare. Ci rimango male: “Ma allora non vogliono me, sto andando a tappare i buchi di Liliana che rinuncia, non mi va”. Chiamo il mio amico e gli comunico bruscamente di cercarsi un altro al mio posto. Passa poco tempo e mi telefona Ettore: “Vieni subito qui, non fare  l’orgoglioso, non fare la testa di cazzo”. Abbasso la testa e ubbidisco. Scola mi abbraccia: “Porto una croce, lo sai? Ho una nipote che è fan di quei film di merda che fai tu”. (ride) Ricordando il loro Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? in Tolo Tolo omaggio proprio Scola e Sordi».

Cosa la lega ad Alberto Sordi?

«Con le dovute proporzioni, interpretiamo personaggi che riescono a farti immedesimare anche quando sono mostruosi, cinici o servili. Non li giudichiamo e non ci estraniamo, ma restituiamo loro un’umanità in cui tutti possano rispecchiarsi. Sono grevi, spesso orrendi, eticamente discutibili, ma sono esattamente come siamo anche noi, almeno una volta al giorno».

Negli ultimi dieci anni lei ha concesso sì e no dieci interviste.

«In un mondo in cui tutti sentono il bisogno e l’urgenza di dare la propria opinione, io mi rendo conto che la mia non è interessante. Non so cosa dire. Che devo dire? Ho provato ad approcciarmi anche a Twitter, ma poi sono tornato indietro. “Madonna, ma perché devo scrivere ’sta cazzata? Ma è utile? È edificante? Interessa?”».

Cosa si è risposto.

«Di no. E ho deciso di tacere».

·        Chiara Ferragni e Fedez.

Giulio Pasqui per gossipblog.it il 25 dicembre 2020. Articolo del 9 maggio 2017. Tutti siamo stati adolescenti, spesso tamarri e bimbiminkia. Tutti, compresa un'icona di stile come Chiara Ferragni. La fashion blogger italiana più famosa del pianeta, ancor prima di diventare The Blonde Salad, è stata un punto di riferimento per i suoi coetanei milanesi. Quando ancora non esistevano né Instagram né Facebook, le sue foto venivano caricate sul social network milanocentrico (e assai tamarro, come i giovani del periodo) DuePuntoZero e su Netlog. "Kiara", ragazzina che arrivava da Cremona, si faceva chiamare Diavoletta87 ed era sempre in testa alle classifiche delle "più belle". Il successo, già allora, era così forte che decise di aprirsi un sito personale su Altervista chiamato Il Sito Ufficiale di Diavoletta87 (con il supporto di un Diary sulla piattaforma Bloggers, ancora reperibile qui). Chiara era già famosa, invidiata, e doveva fare i conti con i primi hater - e pure con le k: "Inutile dire ke se volete registrarvi solo x insultare me o qualsiasi altra persona sarete blokkati e nn potrete piu' skrivermi...accetto qualsiasi critica,basta ke sia fatta con decenza [...] inutile dire: teste di kazzo astenersi dallo scrivere vero??? va beh..vediamo anke qui cos'avranno da dire", scriveva Kiaretta. Le sue foto riscuotevano un successo clamoroso. Sia quelle in solitaria, con i primi marchi in bella vista, che quelle con i fidanzatini: il primo, quello con il ciuffo biondo piastrato, si faceva chiamare Albertinodj; il secondo, all'epoca della Bocconi, era Riccardo Pozzoli (suo attuale braccio destro e vero fautore del successo della Blond Salad). Poi è arrivato Fedez ed il resto è storia.

ARCHEO-POST DI CHIARA FERRAGNI. VAKANZE DI NATALE...Diavoletta87 del 4 gennaio 2006. il natale è' una delle feste ke odio di più....io nn ho un minimo di spirito natalizio, ogni anno sempre la stessa storia...festeggiare la nascita di gesù...ke poi ormai tutti sanno ke gesù nn è nato quel 25 dicembre, ma ke è una data di konvenzione...tralasciando tutte le skifezze ke girano attorno al natale ciò ke ogni anno m rattristisce è la famiglia ke si riunisce x cene,pranzi,regali...tutte le persone ke si ripromettono ke saranno persone migliori...la mia famiglia??? proprio no...ogni anno ci tokka stare kn mia mamma ed andare da mia nonna a salutare tutti gli zii,ziee ke nn m vedono dal natale precedente ( e viviamo a 40 km di distanza...) e ke m ripromettono ke cerkeranno di stare più vicino a me...nn sopporto la loro ipokrisia, i loro regalini di merda x dimostrarmi un qualke affetto inesistente....natale, la festa della skifezza....ma almeno anke qst anno è passata, e app dopo qll orribile pranzo sn korsa dal mio rifugio dalla maggior parte dei dolori...il mio tesoro..quei 4 giorni a milano sempre kn te sono stati magici, quanto adoro uscire di primo pomeriggio e tornare a kasa stanki ed infreddoliti alle 2 di notte....e poi passare quella giornatina a kasa mia...io kn tutti i miei skleri dopo ke ho fatto i kolpi di sole ke solo ora m konvinkono pienamente...tutte quelle decisioni improvvise...e poi svegliarci dopo 3 ore di sonno, prendere quei mille treni insieme, konoscere andy, fare mille risate kn lui e phil...arrivare a kasa di quella troia di suanne, andare a ballare ogni sera al bonaparte e poi il favoloso king's....qnt m è piaciuta st.moritz.... sklerare come dei matti x delle regole inesistenti, stare akkanto al mio tesoro andy qnd ne aveva bisogno,distraendolo kn diskorsi tr scemi mentre lo medikavano....tornare a kasa della stronza il primo gennaio alle 8 del mattino e skoprire ke tutte le nostre valigie sn sul pianerottolo, i nostri vestiti sparpagliati dappertutto.... inkazzati neri prendere la testa del cervo imbalsamato ke aveva appeso nel korridoio e buttargliela nella neve... kavoli poi surlej era anke lontano da st.moritz...mio dio qnt parlavamo di lei a tutti gli altri,e' diventata l argomento del giorno...ke bello poi konoscere qlla ragazza favolosa ke è xenya...e trasferirici da altri amici konosciuti poke ore prima...abitare in una kamera di poki metri quadrati ke puzzava sempre di fumo in maniera spaventosa...ke bello ogni rikordo di quei giorni favolosi...ke dolce pensare a qnd d notte io ed alby dormivamo su in divano x una persona sola e lui m kopriva kn il suo giubbotto xke' nn esistevano altre koperte in quell appartamento...stupendo poi aver konosciuto persone bellissime...grazie a tutti...m sento pronta ad iniziare al meglio questo nuovo anno....

DAGONOTA il 14 ottobre 2020 - Tra gli addetti ai livori si racconta che il documentario sulla Ferragni ha subito un lungo processo di ''beautyfication'', ovvero un ringiovanimento e smaltamento fotogramma per fotogramma, un lavoro durato mesi. Il problema è semplice: su Instagram tutto passa attraverso filtri leviganti e colori saturati, mentre le crudeli telecamere in alta definizione mostrano ogni brufolo e rughetta. L'effetto era difficile da notare quando il film è stato proiettato al cinema, anche perché siamo tutti abituati a vedere Chiara attraverso micro-schermi, in foto ultra-lavorate o  in video in bassa qualità. E' però apparso in modo clamoroso l'altra sera quando alla fine del patinatissimo Unposted si è passati in studio con Simona Ventura. Nonostante le luci e il trucco pensati apposta per abbellire ed eliminare difetti, era difficile credere che la bambola di porcellana del documentario e la (bellissima) trentatreenne fossero la stessa persona...

Aldo Grasso per il ''Corriere della Sera'' il 14 ottobre 2020. La vecchia tv generalista ha incontrato i social e ancora una volta ha vinto. Fossi Chiara Ferragni mai e poi mai avrei accettato di farmi intervistare da Simona Ventura, nelle vesti della zia premurosa e vogliosa di capire le «giovani d' oggi» (Rai2, lunedì). Il «Fenomeno Ferragni» è straordinariamente interessante perché è un mezzo mistero. Le storie di Instagram sono coinvolgenti e lei ha una capacità narrativa unica, sui social è puro spirito, pura narrazione, «esperanto della contemporaneità». L' università di Harvard ha giustamente studiato Chiara come un caso aziendale (lei si definisce «imprenditrice digitale»); la storia di una ragazzina che in meno di dieci anni ha inciso fortemente sul mondo della comunicazione e della moda merita tutta l' attenzione possibile; la vita quotidiana di una coppia di giovani sposi che diventa non solo esposizione continua ma storytelling, condivisione, empatia (o odio) dovrebbe essere materia di studio più dei comizi di Giorgia Meloni. Ma la grandezza di Chiara Ferragni sta proprio in quello che non si riesce a capire di lei: la normalità che si trasforma in spettacolo, il carisma della «biondina di Cremona» (rileggere «La bella di Lodi») che con costanza e professionalità diventa «influenza», la narcisata adolescenziale che sposa l' immediatezza di internet e si fa linguaggio. Il film «Unposted» di Elisa Amoruso è poco più che un documentario aziendale, via via sempre più noiosetto, con certe signore intervistate cui volentieri gireresti alla larga. Ma il vero dramma è l' intervista con Simona Ventura. Qui Chiara si spoglia di ogni fascino, la sua storia d' amore sembra quella fra Albano e Romina, la prima macchina fotografica digitale, vinta con i punti-fragola dell' Esselunga, stinge in neorealismo. La tv generalista s' impossessa della Ferragni, la sintassi diventa fantasia, la grammatica un' illusione e Chiara una specie di Miss Italia.

Giuliano Zulin per “Libero Quotidiano” il 19 giugno 2020. Non è possibile sostituire il ministro Dario Franceschini con Chiara Ferragni e Fedez? Il primo è un incubo per il turismo, che in teoria dovrebbe rilanciare visto che è sua competenza. I secondi, fregandosene degli Stati generali a Villa Pamphilj, hanno invece già cominciato a promuovere sui social le bellezze dell'Italia, così da «aiutare il settore» e da attirare gli stranieri che piano piano torneranno a visitare la penisola fra le più belle al mondo. In più i Ferragnez sono nel podio italiano degli influencer sui social, ovvero delle persone che fanno tendenza. A maggio le interazioni di Chiara sono state quasi 87 milioni, quelle del marito Federico "appena" 12,8 milioni. Insieme hanno generato 100 milioni di commenti, visualizzazioni o "mi piace". Franceschini? Al massimo può mobilitare qualche parlamentare in vista di un ribaltone, di un rimpasto di governo, di una nuova caccia alla poltrona. Nemmeno nella sua Ferrara tira più. In tre mesi non è riuscito a partorire un'idea per salvare la stagione turistica, incerta al massimo causa distanziamento e timore di contagi. A maggio aveva annunciato 2 miliardi per gli operatori del tempo libero. Chissà chi li ha visti...Pochi giorni fa ha rilanciato: bisogna investire sulle infrastrutture. Giusto, ma il suo partito è più o meno al governo da 8 anni. Non poteva pensarci prima? Ora che l'esecutivo possa partorire un progetto per una linea ferroviaria, un'autostrada o un aeroporto, probabilmente il Covid sarà un lontano ricordo. Fedez e Ferragni invece già da un paio di settimane hanno iniziato a promuovere le eccellenze italiane. Certo, loro possono frequentare posti meravigliosi, lussuosi. Ma d'altronde all'Italia dovrebbero interessare i turisti ricchi, non coloro i quali girano una giornata con una bottiglietta e fanno pranzo e cena al McDonald's. E poi se non sogni ad occhi aperti, difficilmente hai voglia di uscire di casa. La regina italiana di Instagram, Chiara, 20 milioni di "seguaci", con la famiglia - onnipresente il piccolo Leone - ha dapprima visitato i luoghi tipici di Milano. Sui social comunica sempre in inglese, lingua che al governo faticano a masticare (vedi il ministro degli Esteri, Di Maio, mister vairus). Poi una scampagnata a Lenna, Valle Brembana, Bergamo, all'agriturismo Ferdy. Posto incantevole immerso nel verde. E «dopo avervi portato al lago di Como, al lago Maggiore, alle Cinque Terre e a Roma, quest' estate vi porterò a Portofino, in Toscana, a Capri, in Sardegna e speriamo anche in qualche altro luogo nascosto...», ha annunciato la Ferragni in una storia su Instagram. «L'Italia davvero è il mio Paese preferito, sono italianissima e lo sarò per sempre». Ed ecco le vacanze cento per cento tricolori della coppia più famosa, che invece di girare il Paese e sfidare paparazzi o fan accaniti potrebbe serenamente "nascondersi" nella propria dimora a Los Angeles. Però «abbiamo la fortuna di vivere nel Paese che è stato la culla della civiltà, questo è un lusso che appartiene a tutti. Che fai te ne privi?» ha commentato Fedez le sue vacanze romane, auto-immortalandosi all'interno della Cappella Sistina. Ovviamente non sono mancate le polemiche. Le invidie. Gli insulti. Ma il bene che fanno questi due al nostro turismo non ha valore. Il governo ha varato il bonus vacanze. Il sussidio spetta alle famiglie con un Isee fino a 40.000 euro e potrà essere speso, fino al 31 dicembre, presso alberghi, agriturismo, e b&b in Italia. Sarà disponibile dall'1° luglio tramite la nuova app dei servizi pubblici "io.italia.it". Per ottenerlo è necessaria la Spid, l'identità digitale per l'accesso ai servizi della Pubblica amministrazione, o la carta d'identità elettronica. Insomma, un meccanismo che ti fa passare la voglia di trascorrere qualche giornata al mare, in una città d'arte o in una pensioncina di montagna...I Ferragnez avevano dato il via, tre mesi fa, alle raccolte fondi per aiutare le strutture ospedaliere bisognose di finanziamenti. La loro sottoscrizione per una nuova terapia intensiva al San Raffaele di Milano fruttò 4,5 milioni. Un successo che ha aiutato, a cascata, anche altre gare di solidarietà per altri ospedali. Anche all'epoca fioccarono le deliranti diatribe, sfociate addirittura in denunce penali. Che follia, abbiamo dei fuoriclasse da "sfruttare" per ripartire, ma dobbiamo sottostare a Franceschini e Speranza che promettono tutto, ma non fanno niente. riproduzione riservata.

Giulio Pasqui per gossipblog.it il 25 dicembre 2019. Articolo del 9 maggio 2017. Tutti siamo stati adolescenti, spesso tamarri e bimbiminkia. Tutti, compresa un'icona di stile come Chiara Ferragni. La fashion blogger italiana più famosa del pianeta, ancor prima di diventare The Blonde Salad, è stata un punto di riferimento per i suoi coetanei milanesi. Quando ancora non esistevano né Instagram né Facebook, le sue foto venivano caricate sul social network milanocentrico (e assai tamarro, come i giovani del periodo) DuePuntoZero e su Netlog. "Kiara", ragazzina che arrivava da Cremona, si faceva chiamare Diavoletta87 ed era sempre in testa alle classifiche delle "più belle". Il successo, già allora, era così forte che decise di aprirsi un sito personale su Altervista chiamato Il Sito Ufficiale di Diavoletta87 (con il supporto di un Diary sulla piattaforma Bloggers, ancora reperibile qui). Chiara era già famosa, invidiata, e doveva fare i conti con i primi hater - e pure con le k: "Inutile dire ke se volete registrarvi solo x insultare me o qualsiasi altra persona sarete blokkati e nn potrete piu' skrivermi...accetto qualsiasi critica,basta ke sia fatta con decenza [...] inutile dire: teste di kazzo astenersi dallo scrivere vero??? va beh..vediamo anke qui cos'avranno da dire", scriveva Kiaretta. Le sue foto riscuotevano un successo clamoroso. Sia quelle in solitaria, con i primi marchi in bella vista, che quelle con i fidanzatini: il primo, quello con il ciuffo biondo piastrato, si faceva chiamare Albertinodj; il secondo, all'epoca della Bocconi, era Riccardo Pozzoli (suo attuale braccio destro e vero fautore del successo della Blond Salad). Poi è arrivato Fedez ed il resto è storia.

Diavoletta87 del 4 gennaio 2006 il natale è una delle feste ke odio di più....io nn ho un minimo di spirito natalizio,ogni anno sempre la stessa storia...festeggiare la nascita di gesù...ke poi ormai tutti sanno ke gesu' nn è nato quel 25 dicembre,ma ke è una data di konvenzione...tralasciando tutte le skifezze ke girano attorno al natale ciò ke ogni anno m rattristisce è la famiglia ke si riunisce x cene, pranzi, regali...tutte le persone ke si ripromettono ke saranno persone migliori...la mia famiglia??? proprio no...ogni anno ci tokka stare kn mia mamma ed andare da mia nonna a salutare tutti gli zii,ziee ke nn m vedono dal natale precedente ( e viviamo a 40 km di distanza...) e ke m ripromettono ke cerkeranno di stare più vicino a me...nn sopporto la loro ipokrisia, i loro regalini di merda x dimostrarmi un qualke affetto inesistente....natale,la festa della skifezza....ma almeno anke qst anno e' passata,e app dopo qll orribile pranzo sn korsa dal mio rifugio dalla maggior parte dei dolori...il mio tesoro..quei 4 giorni a milano sempre kn te sono stati magici,quanto adoro uscire di primo pomeriggio e tornare a kasa stanki ed infreddoliti alle 2 di notte....e poi passare quella giornatina a kasa mia...io kn tutti i miei skleri dopo ke ho fatto i kolpi di sole ke solo ora m konvinkono pienamente...tutte quelle decisioni improvvise...e poi svegliarci dopo 3 ore di sonno,prendere quei mille treni insieme,konoscere andy,fare mille risate kn lui e phil...arrivare a kasa di quella troia di suanne, andare a ballare ogni sera al bonaparte e poi il favoloso king's....qnt m è piaciuta st.moritz.... sklerare come dei matti x delle regole inesistenti, stare akkanto al mio tesoro andy qnd ne aveva bisogno,distraendolo kn diskorsi tr scemi mentre lo medikavano....tornare a kasa della stronza il primo gennaio alle 8 del mattino e skoprire ke tutte le nostre valigie sn sul pianerottolo,i nostri vestiti sparpagliati dappertutto.... inkazzati neri prendere la testa del cervo imbalsamato ke aveva appeso nel korridoio e buttargliela nella neve... kavoli poi surlej era anke lontano da st.moritz...mio dio qnt parlavamo di lei a tutti gli altri, è diventata l argomento del giorno...ke bello poi konoscere qlla ragazza favolosa ke è xenya...e trasferirici da altri amici konosciuti poke ore prima...abitare in una kamera di poki metri quadrati ke puzzava sempre di fumo in maniera spaventosa...ke bello ogni rikordo di quei giorni favolosi...ke dolce pensare a qnd d notte io ed alby dormivamo su in divano x una persona sola e lui m kopriva kn il suo giubbotto xke' nn esistevano altre koperte in quell appartamento...stupendo poi aver konosciuto persone bellissime...grazie a tutti...m sento pronta ad iniziare al meglio questo nuovo anno....

Novella Toloni per il Giornale il 13 febbraio 2020. Sono destinate a far discutere le dichiarazioni fatte da Fedez nell'ultima puntata di "Muschio Selvaggio", il podcast che conduce insieme all'amico Luis Sal. La quinta puntata del programma in streaming ideato dal rapper è stata dedicata alla Bibbia e al suo contenuto, ma alcune affermazioni fatte da Fedez hanno attirato l'attenzione. Ospite del dibattito Mauro Biglino, saggista studioso di ebraico biblico e testi antichi, secondo il quale le traduzioni che abbiamo sulle nostre bibbie non sarebbero fedeli. "Il problema è far capire che non si possono costruire verità assolute partendo da un libro così - ha spiegato Biglino - Dopodiché, la Fede è un'altra cosa. Ognuno può credere a quello che vuole". Affermazioni che hanno stuzzicato Fedez che ha replicato: "Ora dico una blasfemia, è il parere di un ateo. Questa cosa qui è uguale a Harry Potter, il Signore degli Anelli... Però dal momento in cui questo Harry Potter ha messo le fondamenta della società civile, dobbiamo chiederci di cosa parla veramente". Il rapper da alcuni giorni si trova a Los Angeles con la moglie Chiara Ferragni. Fedez è stato ospite insieme alla Ferragni del party di Vanity Fair organizzato dopo la notte degli Oscar. Questo non gli ha impedito di continuare a realizzare le puntate del suo podcast, l'ultima delle quali è stata lanciata oggi su Youtube. Parlando della Bibbia, Fedez ha ricordato un esercizio che Mauro Biglino invita a fare nelle sue conferenze, ovvero sostituire le parole la cui tradizione non è precisa. Quello che ne nasce è un risultato stupefacente, secondo Fedez perché in questo modo la Bibbia assume un altro senso: "La Bibbia diventa quindi un libro di guerra". Nel corso della puntata non sono mancati momenti ironici e battute, ma in alcuni momenti si è rasentata la blasfemia, come ha sottolineato qualcuno nei commenti dell'ultimo post Instagram. Parlando della croce, Luis Sal dice la sua: "Mi sembra un po’ barbaro dover andare in giro con il tuo mito crocifisso, con tutti i modi con cui poteva rappresentare. È come se un fascista girasse con Mussolini a testa in giù".

Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 10 marzo 2020. Per 14 giorni, Fedez è stato protagonista di una spettacolare caccia all' uomo. «Sono stato un latitante, senza il peso dei crimini addosso». Spiega così Celebrity Hunted , nuovo reality disponibile dal 13 marzo su Amazon Prime Video. «Mi affascinava lavorare con una delle aziende più visionarie: è un format pionieristico. Un ibrido: un thriller montato come una serie ma è un reality. Io e gli altri sette concorrenti dovevamo fuggire da ex militari e agenti dei servizi segreti».

E come è stato?

«Ho partecipato con il mio amico Luis Sal. Ci siamo rifugiati nella villa di un noto personaggio ma ci hanno trovati: hanno accerchiato la casa con auto, droni e unità cinofila. Con un diversivo siamo scappati e ci siamo nascosti in un furgone che portava sterco».

Vi siete confrontati con gli altri concorrenti? Totti?

«Con lui non molto, so che è un' icona ma non seguo il calcio. Sono in contatto con Diana Del Bufalo e Caccamo».

L' idea di partecipare in coppia con sua moglie (Chiara Ferragni, ndr.)?

«Sarebbe stato bello, mi sarei divertito, ma non si poteva per impegni già presi...».

La televisione torna spesso nei suoi progetti: un caso?

«Guardo il progetto più che il mezzo. Ho fatto X Factor finché ha avuto un senso. Poi ho sentito che le mie energie e quelle del programma si stavano esaurendo e ho preferito non andare avanti. Mi spiace che quest' anno sia stato un disastro, gli auguro di riprendersi. E' un programma che mi ha insegnato tanto, rimarrò sempre legato: vederlo andar male non mi fa piacere».

Cosa pensa in generale della televisione?

«Quella italiana ha bisogno di innovarsi: siamo un paese dove il Grande fratello è, non so, alla trentesima edizione; in cui c' è la Corrida : non esiste il rinnovamento, si tolgono ragnatele a format vecchi...servono nuove idee».

Lei non le ha?

«Magari si. Ma c' è un tempo giusto per dire tutto».

Anche Sanremo rientra per lei nei «format vecchi»?

«Bisogna distinguere tra idee impolverate e tradizioni. Anzi, mi pare che negli ultimi anni si sia svecchiato parecchio e abbia anche aiutato molto la discografia italiana».

Tra i protagonisti dell' ultimo Festival c'era Tiziano Ferro, con cui c' è stata una polemica a distanza su bullismo e omofobia. Come è finita?

«Non c' è stato un finale. Avevo proposto di rendere costruttiva una polemica che, a mio parere, non aveva senso. Mi sarebbe piaciuto fare qualcosa di concreto su una tematica importante, evidentemente non c' era la volontà. Io sono a disposizione, non necessariamente per collaborare artisticamente, anche solo per esporsi, sensibilizzare insieme. Quello che è successo non ha fatto bene a nessuno, non ha aiutato me e nemmeno Tiziano che usciva con il suo disco ma per una settimana ha parlato solo di quello».

Lei però scatena spesso opinioni contrastanti...

«Fa parte del gioco. Ma sconsiglio agli artisti di dire cose su di me quando devono promuovere il loro disco, non aiuta. Anche Ghali: di recente mi ha attaccato (riferendo delle frasi poco gentili che Fedez gli avrebbe detto all' inizio della sua carriera, ndr .), poi ha ritrattato, poi è uscito l' audio delle sue parole che lo ha sbugiardato. Ha fatto tutto lui, non penso gli sia stato utile».

Mesi fa ha raccontato in tv, a Peter Gomez, di essere a rischio sclerosi. Perché?

«Avevo l' esigenza di tirare fuori cose che non sarei riuscito a sviscerare in altro modo, mi ha fatto bene. Qualcuno ha ironizzato, fa niente. Se ti esponi prendi il bello e il brutto: non era per pietismo ma per mettere un punto».

Speranze per il futuro?

«Con Chiara abbiamo lanciato una raccolta fondi per il San Raffaele in questa emergenza. Mi piacerebbe che gli artisti con cui ho avuto dei diverbi supportassero la cosa».

La nonna di Fedez cita Mussolini, lui: "Non puoi dire una cosa così". La nonna di Fedez si è dichiarata a favore della politica adottata da Matteo Salvini e ha anche rivelato di essere una simpatizzante di Benito Mussolini. Serena Granato, Mercoledì 15/01/2020, su Il Giornale. Com'è ormai risaputo, Fedez è temporaneamente lontano dalle scene musicali, per aver scelto di intraprendere una nuova avventura artistica. Il cantautore rap di Cigno nero e consorte di Chiara Ferragni ha deciso di attivarsi nel mondo dei podcast, in collaborazione con lo youtuber a lui molto amico, Luis Sal. Con quest'ultimo, tra l'altro, il cantautore ha di recente avuto già modo di collaborare, partecipando a Celebrity hunted Italia- Caccia all'uomo. Quest'ultimo altro non è che la prima versione vip nostrana dell'ormai già noto reality show inglese, proposto da Channel 4 per la prima volta nel 2015. L'atteso reality andrà in onda su Amazon Prime e, presumibilmente, a partire dal prossimo marzo 2020. E, nelle ultime ore, a far parlare di Fedez è soprattutto il contenuto del suo primo podcast, "Muschio selvaggio". All'appuntamento in questione, hanno partecipato due ospiti dalle ideologie tra loro divergenti, parliamo di Bello figo e nonna Luciana, parente di Fedez. Se da una parte non manca chi, tra i suoi fan veterani, non ama l'idea che il proprio beniamino sia ormai lontano dal mondo della musica, dall'altra parte c'è chi invece sembra apprezzare l'operato di Fedez alle prese con i podcast. Così come emerge da un commento riportato da un seguace, sotto il primo episodio dell'artista: “Fedez, non mi piace la tua musica ma è stra interessante ascoltarti. Ci sai proprio fare, cazzo”. Ma a rubare la scena a Fedez, al primo podcast pensato per gli amanti di YouTube, ci ha pensato la nonna. La signora Luciana Violini, alla veneranda età di ottant'anni, vanta una cifra di 230mila follower su Instagram e in occasione del primo podcast del nipote ha voluto condividere pubblicamente i suoi ideali, che chiaramente rispecchiano il suo orientamento politico. “Pro o contro Mussolini?”, è stata subito incalzata Luciana, la quale di tutta risposta si è detta simpatizzante dell'ex ministro dell'interno, Matteo Salvini. “Io pro, pro, pro. Ci vuole qua oggi- ha fatto sapere -. Ci vuole qua oggi, quello che era prima e non quello che è stato dopo. Io l’ho conosciuto, io ho preso un premio da Mussolini". E la sua confessione non finisce qui. Perché poi, in modo del tutto inaspettato, ha voluto ricordare il Duce, di cui custodisce un ricordo positivo: "Avevo 6 anni. Voi credete nel Mussolini che c’è stato dopo, ma all’inizio ha fatto la Marcia su Roma e oggi ci vorrebbe la Marcia su Roma. Oggi ci vorrebbe". E alle dichiarazioni rilasciate dalla donna, non si è fatto attendere molto l'intervento di Fedez, che ha inizialmente zittito la parente: "Nonna, non puoi dire una cosa del genere. Non sono d’accordo con te, ma ognuno dice quello che pensa“. Nonna Luciana non la pensa affatto come l'amato e stimato nipote-influencer e, all'episodio Muschio Selvaggio, si è anche detta a favore dell'idea di chiudere i porti per combattere l'immigrazione sregolata e clandestina: “Prendono gli aerei e li riportano a casa”.

Da ilmessaggero.it il 14 ottobre 2020. Fedez verrà sentito il prossimo 25 febbraio nel processo in cui è imputato per lesioni davanti al giudice di pace di Milano per una lite con un vicino di casa, che ha riportato 10 giorni di prognosi. Quel giorno, oltre all'esame dell'imputato, deporrà anche un testimone della difesa e si terranno le conclusioni delle parti. L'udienza si svolgerà a porte chiuse. Al centro del processo un litigio avvenuto in zona Tortona intorno alle 6 del mattino del 12 marzo 2016. Nell'udienza dello scorso 21 novembre, davanti al giudice Tommaso Cataldi, ha testimoniato il cantante Fabio Rovazzi, che era presente al momento della rissa e ha riferito che sarebbe stato il vicino a colpire Fedez con un pugno. Il marito della blogger Chiara Ferragni e il vicino di casa avevano entrambi sporto denuncia dopo l'episodio, di cui si era parlato all'epoca sui media. Nell'imputazione a carico del 30enne, si legge che lui avrebbe aggredito il vicino di casa che si era affacciato alla sua porta per via della musica alta che proveniva dell'appartamento, causandogli anche un trauma cranico lieve. "Io so di non sapere". Il problema è che, questo modo di essere, adesso è diventato: "Io so di non sapere e me ne vanto". Oggi essere ignoranti è qualcosa di cui vantarsi. Prima c’erano i sapienti, da cui si pendeva dalle loro labbra. Poi sono arrivati gli uomini e le donne iperspecializzate, a cui si affidava la propria incondizionata fiducia. Alla fine è arrivata la cultura “fai da te”, tratta a secondo delle proprie fonti: social o web che sia. A leggere i saggi? Sia mai!

·        Chrissie Hynde.

Barbara Visentin per il Corriere della Sera il 20 luglio 2020. Icone del rock con successi come «Don' t Get Me Wrong» o «I' ll Stand by You», i Pretenders ruotano attorno alla bella voce della leader Chrissie Hynde. Ed è lei, unica componente fissa della band formatasi nel 1978 in Inghilterra, a raccontare il nuovo disco «Hate for Sale», confermando di essere tanto carismatica quanto controversa, definendosi «hippie fino al midollo» e «anti-establishment». Il titolo dell' album, «vendesi odio», «si riferisce alle stupidaggini della società consumistica. È un disco rock pieno di energia e per la prima volta siamo riusciti a lavorarci come una vera band». In passato, spiega, i viaggi e gli impegni dei quattro membri del gruppo rendevano difficile la logistica. La vita frenetica dei musicisti, insomma, che per lei non ha nulla di glamour: «Non vivo da celebrità, anche se ne conosco molte. Prendo l' autobus, esco da sola e voglio essere trattata come tutti - dichiara -. Non ho mai imparato a essere gentile con le persone e se dico di no a una foto si offendono. Non capiscono». Americana dell' Ohio, approdata a Londra ventenne, Hynde ha vissuto gli anni d' oro del punk: «Era una città in bianco e nero, la adoravo, poi i soldi hanno distrutto tutto». Pur di restare in Inghilterra tentò di sposarsi con due membri dei Sex Pistols, suoi amici, poi nell' 85 con i Pretenders partecipò anche al Live Aid. Ma di quegli anni gloriosi «non ricorda», taglia corto, «perché non mi guardo mai indietro». A preoccuparla, piuttosto, è il futuro: «Il virus è stato un miracolo a livello ambientale. Certo, c' è stata tanta sofferenza, ma con il lockdown l' aria era pulita, gli animali ritrovavano i loro spazi, un contrasto pazzesco». La sua speranza è che la tragedia ci obblighi a riconsiderare le priorità: «Abbiamo distrutto le nostre città con l'inquinamento. Dovremmo liberarci delle auto, usare le bici, smetterla con gli allevamenti intensivi e privilegiare l'agricoltura non aggressiva. Non ho fiducia nei leader politici, ma forse c' è speranza negli individui». Vegetariana e attivista, Hynde applica la stessa visione anche alla musica: «Vorrei che la pandemia portasse a concerti più piccoli e a tour di prossimità, senza tanti viaggi in aereo. Non c' è bisogno di tutti questi spostamenti e io non sono mai stata fan delle band da stadio con effetti pirotecnici. Dovremmo darci una calmata tutti quanti, inclusi i gruppi rock». Chitarrista oltre che autrice e cantante, Chrissie Hynde è una delle più apprezzate donne nel rock. E anche su questo ha idee che fanno discutere: «Come mai siamo in poche è il mistero della mia vita. Forse le ragazze preferiscono fare le modelle che le chitarriste?». Lei, discriminazioni, non ne ha mai avvertite: «Forse è perché non mi sono mai vestita da prostituta. La gente ti tratta in base a come ti vesti e so che le femministe non mi amano quando lo dico. Per me la musica non ha mai avuto nulla a che vedere con il gender. Se senti una chitarra non sai se sia un uomo o una donna a suonarla». Il pop, invece, «è come il Big Mac, non è buono, ma tutti lo comprano, e da Mtv in poi si è venduta la musica a suon di cantanti che ammiccano sessualmente e video soft porno. Ma quella è solo pubblicità, non qualità».

·        Christian De Sica.

Christian De Sica: «Scoprii al telefono che papà aveva una figlia con un’altra». Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Emilia Costantini. «Il primo consiglio da parte di papà quando stavo per esordire in palcoscenico a 18 anni? Con tono rigoroso mi raccomandò: Christian, prima di entrare in scena, un’ombra di grigio sulle palpebre e basta!». Christian De Sica è un figlio e fratello d’arte (del musicista Manuel) come ce ne sono pochi. Eppure ha iniziato facendo il cameriere in Venezuela. «Mi vergognavo a fare l’attore, con padre attore e grande regista, e madre attrice (Maria Mercader ndr). Mi sentivo un cane, non volevo fare brutte figure e, siccome avevo una fidanzatina venezuelana, me ne andai dall’altra parte del mondo: conoscevo lo spagnolo grazie a mamma e volevo provare a cimentarmi nelle prime esperienze artistiche lontano da casa per non dover subire ingombranti paragoni. All’inizio, non trovando lavoro, mi adattai a fare il cameriere in un albergo lussuoso, il Tamanaco Hotel di Caracas».

I clienti davano buone mance?

«Mica tanto. I sudamericani ricchi sono smargiassi e piuttosto cafoni. Da quelle parti c’è una disparità sociale abissale: i poveri sono poverissimi, i ricchi ricchissimi. Fu la conoscenza di un ricchissimo che mi cambiò le prospettive».

Chi era?

«Renny Ottolina, un produttore radio-televisivo, soprattutto un personaggio molto conosciuto e amato dal pubblico, una specie di Mike Bongiorno. Mi prese in simpatia e mi offrì un contratto da cantante-attore, intrattenitore. Poi mi invitava spesso a viaggiare con lui sul suo aereo: in una di queste vacanze, mi sono beccato l’epatite».

Sull’aereo?

«No! Era un viaggio in Amazzonia. Atterrammo di notte in un piccolo aeroporto: sulla pista, una lunga fila di fiaccole e di indios che ci attendevano con omaggi floreali e cesti di frutta. Erano seminudi e sul pene esponevano una specie di buccia di banana. Uno di loro mi offrì un frutto: evidentemente l’ho mangiato senza lavarlo o sbucciarlo. Dopo qualche tempo diventai tutto giallo in faccia. Mamma al telefono mi disse: che stai a fare là, torna a casa».

E dovette riprendere gli studi...

«Mi ero iscritto alla facoltà di Lettere, papà voleva che mi laureassi. Quando gli avevo espresso il desiderio di fare l’attore, mi aveva risposto a brutto muso: sei matto? Per accontentarlo, frequentavo le lezioni di giorno, però di sera di nascosto cominciavo a esibirmi in qualche locale. Ho dato solo 7 esami: due 30 e lode e cinque 30. Per fortuna non ho continuato, sarei stato un laureato fallito».

Perché?

«Ho perso mio padre che avevo 23 anni e mi sarei ritrovato senza lavoro. Invece, avendo già intrapreso questo mestiere per conto mio, piano piano mi sono fatto strada, ma è stata dura. Ricordo i primi tempi in cui ero fidanzato con Silvia (Verdone): facevamo la fame ed era lei a portare i soldi a casa, pagava l’affitto della casetta in cui vivevamo, perché io, nelle prime apparizioni cinematografiche guadagnavo pochissimo. Solo quando firmai il primo contratto con Carlo Vanzina detti una gomitata a Silvia dicendole: d’ora in poi mangeremo bene».

Se papà Vittorio avesse avuto il tempo di vedere i vituperati cinepanettoni, li avrebbe criticati?

«Assolutamente no. Lui pure ha iniziato la carriera con film comici come Un garibaldino al convento, pellicole di cassetta, tipo Pane amore e Andalusia, oppure film con Maurizio Arena... Secondo me gli sarebbe piaciuto un mio successo come Natale sul Nilo. I cinepanettoni hanno descritto l’Italia di oggi molto meglio di altri film autoriali che nessuno ha visto. Il fatto è che nel nostro Paese il successo non ti viene perdonato: se non sei brutto, se hai una bella famiglia, e fai pure soldi al botteghino è troppo! E pensare che io non sono mai stato uno che se la tira. L’umiltà è l’insegnamento più importante avuto da mio padre, che ha vinto 4 Oscar, ma io ho vinto 32 Biglietti d’oro».

Quanto ha pesato un padre del genere nella sua carriera?

«Pochissimo! Quando stava a casa era un borghese tranquillo come tanti. Se gli chiedevamo qualche curiosità sugli attori che dirigeva in quel momento sul set, rispondeva “per carità! non mi far parlare della Loren, della Lollobrigida, di Mastroianni...”. Un padre severo, questo sì, un uomo nato nel 1901, teneva molto alla nostra educazione: a tavola non si dicevano parolacce, ma non faceva sentire il suo peso di artista internazionale. Mi sono reso conto della sua importanza al funerale: una marea di gente al Verano che gli rese omaggio e alla fine un lungo applauso. Anche da morto faceva spettacolo. Peccato averlo potuto frequentare poco: l’ho conosciuto che aveva già i capelli bianchi. Quando mio fratello e io eravamo piccoli non giocava con noi, non ci portava sulle giostre o al lunapark, semmai ci faceva recitare, a casa, in scenette davanti agli amici».

Però, accanto a lui, avete avuto la possibilità di conoscere personaggi incredibili...

«Certo! Per esempio quella volta che venne a casa Charlie Chaplin e, assieme a mamma, aspettavamo papà. Avrò avuto 5-6 anni e il grande Charlot, già anziano, per intrattenermi nell’attesa, giocava con la sua bombetta. Io non sapevo chi fosse e, quando arrivò mio padre, gli dissi “c’è un vecchio scemo che gioca col cappello!”. Oppure quando, avrò avuto 2 anni, sul set del film Stazione Termini, mi scappava la popò e mi metto sul vasetto a espletare la funzione. Montgomery Clift, protagonista del film, durante una pausa prende un altro vasetto e si accuccia anche lui vicino a me, per farmi compagnia».

Poi Roberto Rossellini...

«De Sica e Rossellini, due amici, due geni, maestri del Neorealismo, due rivoluzionari, i primi a mettere la macchina da presa per strada, in un periodo in cui i film si giravano solo nei teatri di posa e si raccontata tutta un’altra Italia».

Il Neorealismo dava fastidio.

«Non dimentichiamoci la celebre frase di Andreotti: i panni sporchi si lavano in famiglia».

E lei si fidanzò con Isabella Rossellini...

«Frequentavo casa loro con papà e rammento una scenetta divertente. I due registi erano seduti in salotto davanti alla tv, a guardare Lello Bersani che raccontava la notte degli Oscar. Il giornalista, a un certo punto, annuncia con enfasi che era candidato Nanni Loy. Mio padre, con sussiego, chiede al collega: “Chi è questo Loy? Cosa ha fatto?”. L’altro risponde, con altrettanto sussiego: “È un giovane, ha fatto quel film... Le quattro giornate di Napoli”. Poco dopo Bersani annuncia che l’Oscar era stato assegnato a un altro film».

La notizia fu commentata con rammarico?

«Macché! Con evidente soddisfazione, si scatenano entrambi con pernacchie e facendo il gesto dell’ombrello».

Un padre non pesante, anche divertente, ma ingombrante: con due famiglie.

«Eccome! Si divideva tra noi e la prima moglie Giuditta Rissone e la figlia Emy con la quale ci siamo conosciuti la prima volta al telefono. Ci chiama, dicendo: “Pronto sono tua sorella”. Quando papà seppe della telefonata, ci chiese preoccupato: “Che v’ha detto?”. Io gli rispondo: “Che è nostra sorella! E tu papà ce lo potevi dire prima, no?”. Poi riuscì a divorziare e finalmente i miei genitori si sposarono in un paese vicino a Parigi: erano già in là con l’età, eppure mia madre non rinunciò all’abito bianco, molto bello».

Bello come gli abiti di Wanda Osiris?

«No, Wanda ne aveva di pazzeschi, costavano un mucchio di soldi. Ai miei esordi ho lavorato con lei, che era già anziana e pure sorda: quando le parlavi, dovevi scandire bene le parole. E, diciamo la verità, elegantissima nel suo scendere le scale, di innegabile fascino, ma bruttina».

Il difetto maggiore di Vittorio De Sica?

«La passione per il gioco d’azzardo: nei casinò perdeva tutto ciò che guadagnava. Una volta a Montecarlo lasciò sul tavolo talmente tanti soldi che Onassis, comproprietario del Casinò, gli disse: “Con quello che lei ha perso ieri sera, noi rifaremo tutte le aiuole intorno al palazzo”. Meno male che mamma al casinò vinceva parecchio e sosteneva le spese del ménage familiare».

E lei ha messo su famiglia con la sorella di Carlo Verdone. Come vi eravate conosciuti?

«A scuola. Io ero stato precedentemente bocciato e quando entrai nella sua classe, tutti mi guardavano male: essendo figlio “di”, mi consideravano antipatico. Ma vidi Carletto che era seduto da solo al banco e così gli proposi: “se mi fai sedere accanto a te, ti passo tutte le versioni di greco già tradotte”. Affare fatto, e diventammo amici inseparabili».

·        Claudia Gerini.

Dagospia il 28 aprile 2020. Da I Lunatici Radio2. Claudia Gerini è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì, dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. L'attrice romana ha raccontato alcuni aspetti della sua quarantena: "Io sto bene, la quarantena sta andando bene perché per fortuna stiamo tutti in salute. E' un momento difficile ma da un altro lato abbiamo scoperto che chi doveva rimanere a casa per contenere questo contagio è stato costretto a scoprire un po' più di se stesso. Ovviamente dipende dalla situazione in cui sei, ci sono tante variabili. Si sono create delle occasioni per approfondire la relazione con noi stessi, quello che ci piace fare. E poi anche dalla noia possono nascere alcuni spunti creativi. Lo so che sono banalità, diciamo che adesso siamo ad un livello di sopportazione che si è un po' assottigliato, perché l'aria aperta è importane, vedere un po' di natura, passeggiare. Questa costrizione è tosta. Ma se stare a casa è l'unico rimedio, alla fine ci siamo stati".

Sulle preoccupazioni da mamma: "Le mie figlie? I ragazzi sono molto responsabili e consapevoli. Loro sono già grandi, ho una ragazza di quasi sedici anni e una di dieci. Sono grandi, coscienti, hanno capito tutto quello che le ho spiegato. Non credevo che gli sarebbe mancata così tanto la scuola, non vedono l'ora di tornarci. Per loro è dura. Per i ragazzi il tempo da vivere è questo. Gli adolescenti vedranno sfumare le loro occasioni le loro occasioni di socialità che sono la vita per un ragazzo. Lo stare in gruppo, il confrontarsi, sono cose che mancano. Che vorrebbero adesso, non il prossimo mese o la prossima estate. Per i ragazzi la vita è adesso, hanno meno pazienza di noi, che invece abbiamo una consapevolezza più chiara del tempo che spassa".

Sulle sue giornate tipo: "La giornata vola, non c'è tempo di fare nulla. Io ho una famiglia molto presente, ho ancora una nonna, la mattina faccio varie telefonate, ho fatto molto smart working, letture per i bambini, e poi la mattina le ragazze studiano, hanno la loro giornata online. Poi si pranza, il pomeriggio ognuno ha le sue letture, i suoi video. La sera si cena tutti insieme, abbiamo visto molte serie televisive, per fortuna abbiamo una bella terrazza, abbiamo fatto molti disegni sui muri, abbiamo tirato fuori un po' di creatività, la manualità è stata importante. Ci siamo riscoperti pasticceri, cuochi, la manualità aiuta tantissimo, ti aiuta a distrarti, a concentrarti su altro. Io sono fortunata, lo ripeto, la sto vivendo bene. Avevo in programma tre film e invece mi sto riposando".

Sul cinema: "Si dice che ci torneremo a dicembre o a gennaio, il problema saranno le modalità. Magari il piacere di andare al cinema con gli amici un po' verrà meno se bisognerà stare separati gli uni dagli altri. Quello è un po' triste. Teatri e cinema avranno molti problemi. Ma dobbiamo pensare positivo. Il pensiero negativo ci debilita, ci porta giù, non dobbiamo mai permettere ai pensieri negativi di prendere il sopravvento, perché a volte la mente ci inganna. Quando partono i pensieri troppo negativi, consiglio di scacciarli via dicendo che è solo un inganno della mente. Certamente dei disastri sono avvenuti, però non aiuta pensare negativo".

Su una cosa da cui è stata particolarmente colpita: "Mi sono commossa molte volte in quest giorni. Perché alla fine siamo un Paese meraviglioso. Abbiamo visto cose strazianti, cose che mi hanno fatto male. Molte persone hanno dovuto rinunciare a vedere i propri familiari. E' una cosa molto tosta. Mi hanno fatto arrabbiare i furboni che non rispettano le regole. Anche se la maggior parte della gente le ha rispettate. Mi hanno fatto arrabbiare i pochi che se ne sono fregati".

Telefonate inaspettate ricevute: "Molte. Un mio compagno del liceo. Un po' di compagni di classe, soprattutto in zona liceo. Le loro chiamate mi hanno fatto molto piacere. E' stata l'occasione di fare un punto della situazione. Di riscoprirsi. Di riallacciare rapporti che si credevano perduti. Ci si può dare una mano anche con un pensiero o una telefonata".

·        Claudia Galanti.

Il dramma di Claudia Galanti: "La mia vita distrutta in sei mesi". Dopo tragedie e cadute, Claudia Galanti ha ritrovato la luce buttandosi anima e corpo in un nuovo progetto che asseconda la sua passione per la cucina. Francesca Galici, Martedì 21/07/2020 su Il Giornale. Claudia Galanti è una delle poche eccezioni del mondo dello spettacolo. La bellissima sudamericana, che nei primi anni Duemila spopolava in tv e in calendari sexy a ruba tra gli italiani, da qualche tempo si è ritirata a vita privata e centellina le sue apparizioni e interviste. La vita ha picchiato duro contro di lei, il destino non le ha certamente sorriso ed è la dimostrazione che, spesso, dietro i sorrisi e una presunta vita di agi e di felicità si nasconde il mostro della tristezza. Ora, Claudia Galanti ha trovato una strada per ricominciare a vivere, si è reinventata e ha raccontato al Corriere la sua rinascita, che non passa più dalla ricerca di un contratto per la televisione ma per la cucina, dove ha trovato la sua dimensione. "Quando non c'era più nulla che mi faceva felice ho pensato che non erano le medicine a potermi aiutare, ma che dovevo ripescare dal mio passato qualcosa che mi aveva fatto sentire bene", ha detto l'ex showgirl ed è in quel momento che ha riscoperto la passione per la cucina, tramandata dalla sua nonna italiana: "Ho capito che la cucina mi avrebbe salvata e mi sono buttata a capofitto tra i libri di ricette". Ha perso una figlia neonata, il padre e la madre nel giro di pochi anni. Di recente il suo ex compagno, con il quale la separazione non è stata semplice, è stato arrestato: "In sei mesi ho visto andare in fumo la mia vita. In agosto mi sono separata, a dicembre è morta nostra figlia e a gennaio hanno arrestato Arnaud". La morte nel sonno di una figlia di appena 9 mesi è uno choc difficile da elaborare ma Claudia Galanti doveva essere forte, se non per lei almeno per gli altri suoi figli, Liam e Tal: "Cucinare per loro mi faceva sentire meno male, passavamo ore in cucina e a un certo punto ho pensato che potevo farlo a tempo pieno". Claudia Galanti si è aggrappata a questa passione per uscire dalla tempesta, si è rimboccata le maniche e ha ricominciato da zero. Ha trovato lavoro in una pasticceria di Milano e qui si è buttata anima e corpo in questo nuovo lavoro, dove ha imparato i segreti del mestiere guidata dai maestri. Ha spento le luci dei riflettori, ha messo da parte l'immagine da femme fatale e sex symbol e ha dedicato mesi della sua vita allo studio per iniziare una nuova vita. Non è certo la prima volta per Claudia Galanti, che prima di diventare una delle modelle più ricercate del pianeta, a 18 anni lavorava come operaia in una fabbrica di Miami. Oggi, con alle spalle una maggiore esperienza e con più consapevolezza, ha avviato un nuovo progetto imprenditoriale in ambito culinario insieme al socio Matteo Rombolotti. In una società che sta cambiando e dove i ristoranti fanno sempre più fatica, Claudia Galanti ha preferito puntare sul delivery. Piatti pronti che aspettano il tocco del cliente finale per essere completate. Nessuna ricetta straordinaria ma tutte derivanti dall'archivio di Claudia, che negli anni ha fatto sue, personalizzandole, decine e centinaia di idee. Per questo progetto, la Galanti ha rinunciato alle ferie estive in attesa del lancio definitivo di settembre. Punta molto sui social e sulla condivisione, nonostante non abbia sempre avuto un ottimo rapporto con l'ambiente virtuale: "Non ho mai cancellato un insulto in tutti questi anni: come ogni cosa della mia vita, mi assumo le responsabilità fino in fondo". Critica chi passa il suo tempo a cancellare gli insulti sotto i post ma non giudica, lei ha deciso diversamente: "Volevo mostrarmi a tutti per quello che ero, consapevole che dietro a ogni hater c'è una persona che soffre".

·        Claudio Amendola.

Dagospia il 9 giugno 2020. Da I Lunatici Radio2. Claudio Amendola è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Amendola ha raccontato alcune cose di se: "Il mio rapporto con la notte? Diverso rispetto a quello che avevo tanti anni fa. Ora la notte dormo, ho cambiato molto i miei orari andando avanti con gli anni, sono stato un nottambulo, tendevo a svegliarmi molto tardi, e in più la notte per noi attori è sempre stato un momento magico, di notte c'è sempre un'atmosfera molto bella quando giri. Ma questo è cambiato col passare degli anni, ora girare di notte mi pesa moltissimo, adesso sono molto attivo la mattina e molto rilassato di notte. Una notte indimenticabile? Ce ne sono tantissime. Quella che mi viene in mente è la prima che passai fuori di casa. Ero con un amico, avevo 14 anni, passammo la notte in giro per Roma con il motorino, fu indimenticabile, una trasgressione terribile, anche se non facemmo nulla di male. Erano gli anni '70, la città era deserta, vuota, spenta, c'era un'atmosfera un po' paura, un po' magica".

Sul rapporto col papà, Ferruccio: "Cosa provo quando risento la sua voce in tv? Mi capita spesso, ma da tutta la vita, ci sono molto abituato. Mi diverte beccarlo nei film anni 50, quando ancora lo chiamavano per dire buongiorno e buonasera. Lui dirigeva il doppiaggio di molti western, una cosa molto complicata da fare erano le scazzottate, mio papà le faceva tutte, io lo riconosco nei grugniti, riconosco la sua mano, l'ho visto all'opera, riconosco tutti i trucchi del mestiere. Mi fa sempre sorridere quando risento la sua voce. Come hanno reagito in famiglia quando hanno saputo che avrei fatto l'attore? Furono loro a spingermi, iniziai in uno sceneggiato in cui mio papà era stato già preso. Il provino me lo fece fare mia mamma. Non sono stati sorpresi che io abbia iniziato questa carriera".

Sull'arrivo della popolarità: "Il film che ha scavallato è stato 'Vacanze di Natale' per quanto riguarda la popolarità. Che però avevo già conosciuto con 'Storie d'amore e d'amicizia', uno sceneggiato che ebbe degli ascolti clamorosi e che mi fece diventare molto popolare. Poi è arrivato il trittico dei film con Vanzina, Vacanze di Natale, Amarsi un po' e Vacanze in America, che mi hanno dato veramente una grande popolarità".

Su Vacanze di Natale: "Il vero capostipite di tutta quella roba lì è stato Sapore di Mare, poi Vacanze di Natale e Vacanze in America. Da quel momento lì ho avuto la fortuna di incontrare un cinema anche diverso, ho fatto tanti film d'autore, di cinema impegnato, ho fatto 'Soldati' che nel 1986 è stato il primo di quel filone. Poi 'La Scorta', 'Mary per sempre', e i cinepanettoni hanno preso una deriva forse imparagonabile rispetto a quello del 1983. Sul set ci divertivamo tantissimo. Sia a Cortina, in Vacanze di Natale, che in America. Era come se fossimo in gita, però pagati. Vanzina teneva un clima di grande serietà, ma ci si divertiva. Non ci rendevamo conto che quei film sarebbero diventati dei cult, però capivamo che divertendoci noi si sarebbero diverti anche gli spettatori".

Sul rapporto con il successo: "La testa l'ho persa. Mi sono sentito arrivato. Ho fatto tutti gli errori che il successo ti propone. Quando da giovane hai soldi, successo e un certo tipo di appeal, capita. Ma sono anche esperienze. Dà un po' alla testa, ci sono periodi in cui ci si esalta un po', però poi questo è un mestiere che ti riporta con i piedi per terra. Anche le carriere più luminose hanno momenti di stasi che ti portano a riflettere. E ben vengano quei momenti. Problemi di lavoro non ne ho mai avuto, sono stato abbastanza onnivoro, ho fatto cinema, tv, ho condotto, negli ultimi anni ho iniziato a scrivere e questo aiuta tantissimo".

Sui ruoli interpretati: "Un ruolo a cui sono particolarmente legato? In un film che si chiamava 'Domenica' facevo un poliziotto al suo ultimo giorno di lavoro. Un ruolo che mi ha dato molta emozione. Ho fatto sia  buoni che i cattivi. Per me è più interessante fare i cattivi".

Sul lockdown: "Mi pare evidente che ne usciremo molto peggiori, su questo non ci siamo dubbi. Non ci smentiamo mai. Io l'ho vissuto bene, in uno spazio grande, senza dovermi affannare, senza tutte le difficoltà del caso. Non posso essere un metro di giudizio".

Sul rapporto con Roma: "Se mi hanno mai chiesto di candidarmi a sindaco? No, ma spesso mi hanno chiesto di entrare in politica, ma è molto lontano dalle mie intenzioni. Rapporto con la città? Basato su un grande amore e un grande senso di appartenenza, ma anche su un grande senso critico, per chi la vive, per chi la governa, ora e prima, per chi la sporca, per chi non la rispetta e anche per la nostra indole, parlo dei romani, anche se ormai i romani a Roma sono pochi. Penso che questo abbandono negli ultimi anni abbia dato voce alla parte che meno piace di Roma e della romanità".

·        Claudio Baglioni.

Un racconto italiano: essere Claudio Baglioni, timido di successo. Pubblicato giovedì, il gennaio 2020 su Corriere.it da Maria Teresa Veneziani. Sul primo 7 del 2020, in edicola il 3 gennaio, Walter Veltroni ripercorre con il cantautore romano la sua straordinaria carriera. Le anticipazioni di Pitti Uomo, dal 7 a Firenze. Ha venduto 55 milioni di dischi, ma tra tutte le sue canzoni sceglie Voglio andar via. «È la ricerca dell’altrove che fornisce senso e coraggio, dà da vivere. È l’idea che c’è un altro posto, ci sono altre, nuove cose da sapere». E se fosse nascosto in questa tensione verso «altri panorami da guardare» il successo di Claudio Baglioni? L’artista, nato 68 anni fa a Roma, architetto laureato (recentemente), racconta a Walter Veltroni la sua straordinaria carriera (e vita) nella storia di copertina del primo 7 del 2020, in edicola venerdì 3 gennaio con il Corriere. Dal primo contratto nel ’67 firmato dal padre («Perché non ero maggiorenne, ma mi lasciarono in una specie di incubatrice per 9 mesi, mi sentivo incompreso...») al nuovo brano in uscita proprio il 3 gennaio, Gli anni più belli, il singolo che accompagnerà i titoli di coda del nuovo film, omonimo, di Gabriele Muccino. «Gli anni più belli li conservo come attesa — racconta Baglioni che ha trascorso l’infanzia nel quartiere di Monte Sacro e l’adolescenza in quello di Centocelle —. Dovendoli configurare in un momento preciso, sono intorno ai 17-20 anni, quelli di passaggio a un’altra categoria umana, quando si cresce, si diventa adulti e autonomi. E poi c’è il giorno più bello che è quasi sempre quando si mette alle spalle qualcosa che è stato una tribolazione, per esempio un lavoro o un processo sentimentale piuttosto complicato. Il giorno dopo una fatica o un successo è il più bello». Con coerenza e coraggio ha affrontato un pregiudizio che lo relegava nel girone dei cantanti leggeri, ed è riuscito a dissolverlo. «Io sono cresciuto in periferia, condizione che ho sempre vissuto non solo come geografia ma anche culturalmente. Per me l’obiettivo è sempre stato cercare un centro possibile, un posto dove venire accettati. In definitiva, potersi considerare non più laterali o marginali ma centrali...». Si consola con la poesia, il giovane Baglioni: affascinato dal senso gotico della vita di Edgar Allan Poe musica Annabel Lee. «Insomma, cantavo queste cose devastanti, ero abituato alle stroncature», osserva. Ma arrivano gli Anni 60 e la liberazione dei costumi. «Mi resi conto che dovevo scrivere con un mio linguaggio, scelto con Questo piccolo grande amore». E fu imperdonabile per molti. «Una sottovalutazione che nel tempo si è rivelata quasi una fortuna», ammette oggi l’artista. «Ho raggiunto, anche grazie al successo e poi agli apprezzamenti critici, quella pace dei consensi che ho accettato». «Alla fine posso dire di aver cercato sempre di fare il meglio che potevo con onestà». Arrivano E tu, Anima mia, fino alla consacrazione a Sanremo come direttore artistico, sapendo, tra l’altro, di non esserci mai andato da cantante. Perché ha accettato? «Volevo prendermi la responsabilità di parlare di canzoni. E poi, capire se il successo che vivo è una botta di culo oppure un qualcosa che ha fondamenta e radici». Ancora versi. Ode alla felicità è il titolo della poesia di Keanu Reeves, l’attore nato a Beirut ma canadese di adozione (55 anni di cui 35 sul set), che nella sua vita è caduto e si è rialzato tante volte, determinato e instancabile, come Neo di Matrix, come John Wick, forse i due personaggi più famosi. Nel 2021 lo ritroveremo al cinema, come ricorda Francesca Scorcucchi nella sezione blu di 7. «La decade dei 50 si fa sentire, è iniziata con campanelli fisici — dice l’interprete, oggi fidanzato con l’amica di sempre, l’artista Alexandra Grant —, ma non ho rimpianti, quelli vengono solo quando non vivi appieno la tua vita». Una vita esageratamente dorata è quella che ha portato al declino (esilio) Imelda Marcos, al centro di un documentario. La «farfalla d’acciaio», raccontata da Michele Farina nella sezione rossa di 7, a 90 anni è tornata nella sua Manila ed è omaggiata da folle di ammiratori. Infine, nella sezione senape, troverete le anticipazioni della moda uomo dell’inverno 2020 presentate al Pitti Uomo di Firenze dal 7 gennaio. La novità? Il ritorno del cappotto: caldo, accogliente ed elegante. Tradizione e futuro.

Claudio Baglioni: «Un tempo andare sul palco era come salire al patibolo». Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 ‐ Corriere.it Walter Veltroni.

Claudio Baglioni, sta per uscire un tuo nuovo brano, assai bello. Si chiama Gli anni più belli e sarà la musica dei titoli del nuovo, omonimo, film di Gabriele Muccino. Quali sono stati gli anni più belli?

«In questo caso anni è un sinonimo di istante. Sono momenti, quelli integralmente belli. Dall’ orologio placcato oro regalato per la prima comunione alla prima macchina, la due cavalli sognata per tanto tempo, che doveva essere una specie di cavallo da cavalcare verso un’ipotetica libertà... Gli “anni più belli” li conservo come attesa, come conseguimento e poi come rimpianto. Dovendoli configurare in un tempo preciso della mia vita gli anni belli sono intorno ai diciassette, vent’anni, quelli del passaggio a un’altra categoria umana, quando si cresce, si diventa adulti e autonomi. E poi c’è il giorno più bello che è quasi sempre quando ci si mette alle spalle qualcosa che è stato una tribolazione, per esempio un lavoro, oppure un processo sentimentale piuttosto complicato. Il giorno dopo una fatica o un successo è il più bello».

In questa canzone c’è nostalgia per un tempo che ti sembra si sia perduto?

«Se si vive un buon presente si guarda volentieri anche al proprio passato, è una nostalgia non dolorosa, una nostalgia anche ammiccante, piacevole compagna, amica. È una mistura strana tra il ricordo di quello che è stato e la coscienza che qualcosa, sempre, può ancora accadere. Gli anni più belli in fondo potrebbero essere quelli che sono ad est, quelli che stanno sorgendo».

Come è stato l’incontro con Muccino, che ha anche girato il video che accompagna il suo brano?

«Molto bello. Il suo film ha come protagonista lo scorrere del tempo. È una storia che lega, attraverso quattro vicende di ragazzi amici, la grande storia e quella dei singoli individui. Il brano gli è molto piaciuto e credo che, per il testo e l’atmosfera, si leghi bene al sentimento del film. Che si ritrova anche nel video della canzone».

C’è qualcosa che ti spaventa o ti preoccupa di questo tempo storico?

«Mi spaventa la misurazione bulimica del tempo. Il tempo non ha più tempo. Ha sempre meno tempo il tempo, corre via con una velocità esagerata. O almeno noi lo facciamo correre, siamo in affanno rispetto al suo passo, alla sua marcia e la cosa che mi fa paura è non entrare più dentro le cose, cioè non riuscire più ad approfondire nulla. Mi sembra che viviamo il rischio di separarci dall’analisi, dalla riflessione, che tutto venga vissuto in un turbine incomprensibile, venga portato via in un lampo. Lasciandoci, come unico spazio, la superficie. È come quando guardiamo il mare, che non finisce dove il nostro sguardo finisce. Il mare è profondità, è mistero, è scoperta. E poi mi spaventa anche il troppo, tutto è troppo pieno e si finisce col togliere il fascino e il desiderio del viaggio. Ovunque c’è qualcosa che ti sovrasta e ti sazia, apparentemente ti sazia. La massa di informazioni, la possibilità di arrivare subito a tutto è inebriante, ma confonde e fa smarrire. Il nostro bene più prezioso è il tempo. Non esiste un negozio del tempo, dobbiamo amministrarlo bene da soli».

Pensando a questo momento della storia ti viene più da dire Io sono qui o Voglio andar via ?

«Mah, forse sono ancora affascinato dal “Voglio andar via”. Lo ero da ragazzo e torno ad esserlo. Ad un certo punto “Io sono qui” mi sembrava un atteggiamento importante, responsabile, maturo, coraggioso. Però il “Voglio andar via” è la ricerca dell’altrove che fornisce senso e coraggio, dà da vivere. È l’idea che c’è un altro posto, ci sono altre, nuove, cose da sapere, ci sono altri panorami da guardare. In questo momento sarei di nuovo sul “Voglio andar via”».

Accompagnerai questo disco nuovo con una serie di concerti a Caracalla, una forma abbastanza particolare...

«Nel mondo di oggi si cerca, tutti, di essere un po’ consolati. È il rifugio per le insicurezze del nostro tempo. Il mio bene rifugio è la canzone, la musica in genere, lo scrivere parole, suonare, fare spettacolo. Non so come sia successo che io abbia avuto successo. Ma è successo. Da decine di anni. Forse perché non ho mai smesso di voler imparare, di cercare e di scoprire. Questo concerto di musica e parole cerca di fermare le lancette del tempo, un modo per ringraziare chi mi è stato vicino e un modo per scoprire che cosa è ancora la musica, quali sono i territori, le emozioni, le suggestioni che suonare e cantare possono produrre nelle persone. Suonerò più volte nello scenario di Caracalla, non in uno stadio e questo mi consentirà un rapporto più ravvicinato, quasi fisico, con il pubblico. Ci saranno brani nuovi e quelli della mia storia. Un viaggio nel tempo, avanti e indietro».

Prova ad immaginare due concerti, uno di quando hai cominciato e uno di ora: com’è cambiato il pubblico e come sono cambiati i tuoi occhi su quel pubblico?

«Il pubblico è cambiato. Ho la sensazione che il pubblico via via stia sparendo per essere sostituito da un insieme di persone che sono un po’ più protagoniste della serata. C’è meno divisione di gerarchia tra palco e platea, lo si vede da alcuni atteggiamenti palesi come, per esempio, una minore attenzione a quello che succede sul palco, e una voglia di catturarlo come se fosse un safari. Nel senso che l’acquisizione della serata, dell’avvenimento, dell’evento, viene sempre meno vissuta con una emozione piena e libera ma viene fatta con un telefono, con un tablet, o addirittura con la condivisione, in quello stesso momento, di quello che sta accadendo con qualcun altro che sta lontano. Il concerto è un’occasione, più che una esperienza emotiva. Siccome il tempo scappa via dobbiamo guardare qualcosa solo per commentarla, sottolinearla, criticarla, sbeffeggiarla».

E in te?

«Innanzitutto io sono un po’ meno terrorizzato che all’inizio: per me salire il gradino del palco era come andare al patibolo, non solo in termini di paura, ma di responsabilità. Adesso sento la responsabilità di far bene, di rispondere a quella reputazione che mi sono fatto nel tempo ed essere comunque in sintonia con chi mi sceglie, mi dedica tempo, sottraendosi alla fruizione solitaria. Uscendo di casa, comprando un biglietto. È un atto di fiducia all’altezza del quale bisogna essere. È questa la responsabilità che sento oggi. Sono meno intimorito, ho dovuto imparare a non essere timido. Io non ero fatto per un mestiere pubblico, per essere un personaggio pubblico, tant’è che quando non sono nel ruolo, quando non sono in divisa, io scapperei. Esco poco di casa, passo rasente i muri, metto degli occhiali scuri perché non ho il fisico del ruolo e neanche la psicologia del personaggio pubblico che è sempre eucaristico, si deve sempre dare, si deve offrire. Sono un cantante timido. Forse una stranezza, in questo tempo spavaldo».

Tu sei figlio di un carabiniere e di una sarta, nasci a Montesacro, poi ti sposti a Centocelle. Ricordi il tuo primo impatto con la musica?

«La prima cosa di cui ho memoria abbastanza netta è quando mio padre venne trasferito per comandare una stazione dei Carabinieri a Posta, un paesino in provincia di Rieti, nel profondo centro. Accanto alla caserma c’era una trattoria. Mi hanno raccontato dopo che un giorno, avevo cinque o sei anni, ero scomparso dalla vista dei miei che mi ritrovarono poi nell’osteria. Io, seduto in piedi su una sedia, cantavo La casetta in Canada. Fui retribuito con un’aranciata, butta via.... Io non volevo fare il cantante, devo il mio successo alla determinazione di mio padre e mia madre che erano molto più convinti di me. Io me la tiravo un po’, dicevo che era solo un hobby. Quando dicevo queste cose mio padre mi rinfacciava sempre il fatto che io, da piccolino, quando c’era una riunione con tante persone gli andavo a tirare i pantaloni dicendo “Papà annunciami, che io ora devo cantare”».

Alla faccia della timidezza!

«Infatti non capisco, è come se ci fosse un mostro dentro di me. Come Jekyll e Hyde. Poi tutto questo si perde nella notte dei tempi. Ricordo però che cantavo quando andavamo dai parenti umbri dei miei. Infatti quando andavamo lì ci regalavano frutta, ortaggi. A volte però anche degli animali vivi, da consumare tornando in città. Ma non si potevano portare sui treni e allora mio padre e mia madre, per non far sentire la gallina, cantavano sempre, durante il viaggio, e io con loro. Insomma ho imparato a cantare sui treni per evitare che il controllore scoprisse la gallina nascosta. Verso i miei tredici anni, nel condominio dove vivevo, tutti avevano un complessino beat. Un mio amico si iscrive al festival di Centocelle dove per la prima volta facevano un festival di voci nuove dedicato al santo patrono, San Felice da Cantalice. Decido di partecipare anch’io. Mia madre mi prepara per quella occasione, mi veste come un confetto, pantaloni celesti e camicia rosa. Io mi presento così sul palcoscenico della piazza, a Centocelle, proprio il modo giusto per presentarsi. Era l’ideale, il dress code più adatto. Cantai Ogni volta. L’avevo provata mille volte allo specchio, imparando la mossa con la gamba piegata come avevo visto fare da Paul Anka. Un giorno arrivò un mio zio e disse “Ma che fa Claudio?”. Mia madre rispose “Sta provando una canzone di un cantante americano, Paul Anka”. E mio zio fa: “Infatti si vede che muove un po’ l’anca”».

E poi?

«Un maestro di musica, forse anche interessato che io andassi a lezione da lui, disse a mamma: “Questo ragazzino non è malissimo”. Allora cominciai a prendere lezioni di solfeggio e di pianoforte. Poi con mio padre andammo a Sora, il paese di De Sica, a comprare un pianoforte che papà comprò facendo un sacco di cambiali e poi portò a casa, a Centocelle».

E il primo disco che hai comprato te lo ricordi?

«Forse uno di Celentano, e poi Morandi, con il quale avrei poi fatto una tournée, e Rita Pavone. I dischi che, in quel momento, erano nelle case di tutti gli italiani».

Dove li sentivi? Avevi un mangiadischi o un giradischi?

«Una fonovaligia Lesa di plastica bicolore. Lesa è una marca, non un aggettivo. Un mangiadischi non l’ho mai avuto. Poi, già da cantante, avevo gli stereo otto che erano quei grandi mattoncini di musica, il primo stereo compatibile».

Il primo contratto?

«Il primo nel ‘67, lo firmò mio padre perché non ero maggiorenne. Mi lasciarono in una specie di incubatrice per 8-9 mesi, poi alla RCA mi fecero fare i primi dischi, però non si vendevano, tant’è che io avevo ripreso gli studi. Nel frattempo avevo finito, con una fatica indicibile, i testi di Questo piccolo grande amore. Mi sono detto “Faccio questo disco, questo concept album, e lo consegno alla casa discografica, tanto non succederà nulla”. Mi sentivo incompreso. E invece questa specie di testamento musicale, nel giro di due settimane, arrivò in classifica».

Quando ti accorgesti che era cambiato tutto?

«Quando, tornando a Porta Portese, sentii Porta Portese nel mercato, in diffusione. E poi, quando mi dissero che ero secondo in classifica, giravo per le strade e guardavo le finestre con le persiane chiuse e pensavo: “Lì dentro forse c’è qualcuno che mi conosce”. È strano passare dalla condizione di persona comune a quella di persona che ha una certa notorietà. Tutto successe all’improvviso. Non avevo fatto nemmeno troppa gavetta, anche se dopo quel concorso di voci nuove ne ho fatti altri tre o quattro dove arrivavo quasi sempre ultimo. Ricordo che fu così al Disco per l’estate del 1970 con La valigia blu, e poi alla Gondola d’argento di Venezia. Dovevo vincerla e invece arrivai ultimo. La giuria era costituita dalla ciurma di una nave che stava in laguna. La sera dei risultati accarezzai propositi inquietanti, vedevo le acque limacciose di Venezia, e pensavo: “Adesso mi butto dentro l’acqua perché, prima o poi, dovranno pure capire”».

Che canzone era? Signora Lia ?

«Notte di Natale, una canzone tristissima».

Notte di Natale è una canzone triste. Tu d’altra parte cominci mettendo in musica Edgar Allan Poe. Come ti venne in mente?

«Io sono cresciuto in periferia, condizione che ho sempre vissuto non solo come geografica ma anche culturale. In sostanza per me l’obiettivo è sempre stato cercare un centro possibile, un posto nel quale venire accettati. In definitiva potersi considerare non più laterali o marginali ma centrali, poter guardare il resto del mondo girandosi attorno, invece che il contrario. E per questo assumevamo certi atteggiamenti. Però noi di periferia sbagliavamo sempre: quando abbiamo cominciato a vestirci benino, quelli del centro già si mettevano il maglione col buco sul gomito. Non riuscivi mai ad avere il calendario giusto, eri sempre in differita e quindi automaticamente targato. Un certo tipo di poesia o di cultura, tipo l’esistenzialismo, serviva, nel nostro desiderio di accettazione, a mostrarsi enigmatici e strani. Per questo, in fondo, cominciai ad affascinarmi al senso gotico della vita di Edgar Allan Poe e musicai questo Annabel Lee che era appunto una poesia , come diceva un mio amico, di “Edgar Allampone”. Ho ancora le fotografie di quella fase: maglioni neri e occhiali tanto larghi che ci potevi prendere digitale e analogico insieme. Insomma cantavo queste cose devastanti. Credo che in una recensione Fabrizio Zampa o qualcuno de Il Messaggero scrisse “Ad un certo punto è salito sul palco un tale Claudio Baglioni, cantore di cose tristissime e assurde”. D’altronde io c’ero abituato, alle stroncature. Mio padre cercò di nascondermi una delle mie lacche, uno dei miei primi provini alla RCA. Sul disco Ettore Zeppegno, allora direttore artistico, aveva scritto a caratteri cubitali: “Tanto questo non farà mai niente”».

Cosa diavolo successe a Roma per produrre una generazione di persone che hanno fatto la storia della musica italiana? È esistita una “scuola romana”?

«La leggenda, anzi la cronaca dice che sia esistita una scuola “romana”, ma a me non risulta. C’era il Folkstudio, ma lì più che altro ci si esibiva. A Genova i cantautori si frequentavano. Noi meno. Anche se ricordo che una notte, a casa di Venditti, fondammo una etichetta discografica che doveva un essere cavallo di Troia all’interno della RCA, dalla quale ci sentivamo tutti sfruttati. Pensavamo che la grande industria ci stesse ingabbiando. E con Dalla, De Gregori, Antonello fondammo una etichetta discografica, una specie di Artisti Associati, che si sarebbe chiamata, nelle nostre intenzioni, “L’uovo rotto”. Nome scelto perché simboleggiava la nascita del pulcino e avrebbe dovuto rappresentare un movimento contro, anti industriale. Melis, che allora era il patron unico della RCA, lo venne a sapere. Delazione per la quale ognuno ha poi accusato gli altri. Ci chiamò tutti, facendoci un interrogatorio uno per volta e mettendoci uno contro l’altro. A me e a De Gregori disse “Tanto voi ragazzini passate e noi invece restiamo”. Un cazziatone micidiale. E L’uovo rotto è rimasto intero, non si è mai rotto. Oppure si è rotto L’uovo rotto. Frequentazioni tante, anche momenti di amicizia, però non ricordo nessuna scuola di esperienze comuni».

Forse nel fatto che tanti ragazzi, in tante stanze di adolescenti, si sentissero pronti per scrivere canzoni, pesa anche la grande spinta di liberazione dei costumi degli Anni Sessanta.

«Quello sicuramente. Si moltiplicano in quegli anni coloro che si interessano alla musica come primi attori e non solo come ascoltatori, come pubblico, perché l’arrivo dei gruppi mette tanti ragazzi nella possibilità di imbracciare uno strumento e cominciare a raccontare il proprio mondo. Prima la musica o la studiavi dal punto di vista classico o facevi il cantante di canzoni altrui. Improvvisamente il fare musica diventa molto più diffuso e da un certo punto in poi non c’è solo la ragazza di 13 anni che fa le scale al pianoforte perché vive in una casa borghese, ma un po’ tutti cominciano a strimpellare e scrivere testi. È anche per l’avvento della chitarra, strumento così portabile e poco costoso».

Quanto ti è dispiaciuto nel tempo l’esistenza di un pregiudizio che ti relegava in un girone differente, quello dei “leggeri”, distinguendoti da altri colleghi più “impegnati”? Un pregiudizio che progressivamente si è dissolto. Io, come sai e come scrissi in quegli anni, l’ho sempre trovato il segno di un atteggiamento di distanza da gusti e linguaggi diffusi e popolari.

«Mi dispiaceva, perché mi sentivo come un po’ menomato dall’etichetta affibbiatami. Io sapevo di non avere un certo tipo di linguaggio, quello in quel momento più diffuso e apprezzato. Ma avevo un “mio” linguaggio. Lo avevo scelto proprio con l’album concept Questo piccolo grande amore. Mi resi conto che i testi scritti fin lì erano dei tentativi di assomigliare agli Edgar Allan Poe del mondo senza averne la cultura, la formazione, senza avere quel ritmo dentro. E dissi “Io che cosa so? Se devo raccontare qualcosa a qualcuno devo farlo usando quello che so, quello che so fare” e cominciai a scrivere con il linguaggio parlato, quello più da strada, quello più diretto e fu imperdonabile per molti. E allora questo senso di sottovalutazione c’è stato, un po’ mi sentivo il parente povero. Poi nel tempo quella scelta è diventata quasi una mia fortuna. Ho raggiunto, anche grazie al successo e poi agli apprezzamenti critici, quella pace dei consensi che ho accettato. Alla fine posso dire di aver cercato sempre di fare il meglio che potevo e con una certa onestà. Però sì, ne ho sofferto, tant’è che poi, quando cominciammo a frequentarci con gli altri, io ero contento. Mi faceva piacere rientrare in un ambito riconosciuto».

Delle canzoni che hai scritto quale è quella a cui sei più legato?

«Tra le canzoni più note penso Strada facendo».

Tu hai venduto cinquantacinque milioni di dischi, c’è una canzone italiana scritta da altri che avresti voluto fosse tua?

«Di quegli anni la canzone che amo di più è Il nostro concerto di Umberto Bindi, un musicista formidabile, con una sensibilità straordinaria. Le canzoni italiane degli Anni 60 hanno una fisionomia definita e artisticamente elevata, piccoli gioielli che durano niente perché sono brani corti, molto semplici. Le canzoni italiane di quegli anni hanno una freschezza e una autenticità che ancora oggi senti che è palpabile, vitale. Credo di sapere che dipendesse anche da che tipo di mondo raccontavano: semplice, solare, pieno di passioni e curioso. Oggi invece viviamo un autunno artistico, specie per le arti popolari, quelle che si misurano di più con la contemporaneità. Ma la colpa non credo sia degli artisti, che sono antenne immerse nel suono e nelle immagini del proprio tempo».

Gli appuntamenti a Pantelleria di O’Scia’ sul tema dell’immigrazione, il concerto per Falcone e Borsellino, “Oltre” che già qualcosa aveva a che fare con la contaminazione dei generi. Cosa sono state queste esperienze per te, nella tua formazione umana e artistica?

«Allora, quando mi giudico male penso che siano state delle voglie di rivincita. Forse un po’ ci sarà stato anche questo sentimento di riscatto, forse perché quando patisci una certa cosa dici “Ah sì? Ora te lo faccio vedere io”. C’è una frase che porto con me. È di Melis che, appena uscito Questo piccolo grande amore e il disco successivo, mi chiamò e mi disse “Ma tu per tutta la vita pensi di fare il canzonettaro che si mette lì e cerca di scrivere un’altra canzone, di arrivare primo in classifica e poi se magari non ci riesce vive la frustrazione dell’insuccesso?” Io allora pensai “Ma che vuole questo? Ma come: io da sei anni non vedo l’ora di avere successo e adesso lui vuole che faccia altro?” La prima reazione fu dunque di rifiuto ma poi, come bisogna fare, mi chiesi se avesse davvero tutti i torti. Tant’è che rimandai il primo tour dove avrei guadagnato dei soldi e la realizzazione di un disco che poi sarebbe diventato E tu perché, avendo progettato un musical tipo Corto Maltese, andavo nei boschi per imparare a lanciare il coltello negli alberi, perché era funzionale allo spettacolo. Da una parte la voglia di continuare a vincere nel mio mestiere e dall’altra l’ambizione di dire che in un percorso lungo tanti anni ero capace di imboccare altre strade. Quindi nacque Anima mia con Fabio Fazio e la manifestazione di O’Scià che fu quasi una necessità, per cercare di far sapere che accadevano cose, come l’immigrazione, sulle quali si dormiva un po’, sulle quali non si prendevano in esame anche decisioni e prospettive che sarebbero state dure e difficili e lo sono tuttora. Le mie scelte oltre la musica sono state motivate da questi due sentimenti: rivincita e curiosità».

Sanremo? Tu non ci sei mai stato da cantante e ne sei diventato il patron. Paradosso della storia...

«Perché andare a fare Sanremo? Questo festival in definitiva cos’è? È il Festival della canzone italiana. Ma allora vogliamo provare a parlare di canzoni? Quindi è stata un po’ il prendersi la responsabilità di provare a fare un festival, non dico a livello degli altri festival letterari o cinematografici, ma un vero festival di settore. L’altra motivazione è stata capire se il successo che vivo è una botta di culo oppure è qualcosa che ha fondamenta e radici. È andata bene. Ho cercato di essere coerente e di realizzare il progetto di rimettere la musica al centro del festival».

Perché recentemente hai deciso di laurearti? Fa parte della diversificazione delle esperienze?

«Abito vicino alla facoltà dove andavo da ragazzo. E mi è capitato di incontrare il preside di architettura che mi chiese di andare lì a fare una lezione. Gli risposi: “Guardi, mi sembra come quando Marilyn Monroe andava a visitare le truppe americane, non sapeva niente di guerra e così tirava due baci e andava via. Spesso noi, solo per il fatto di essere persone note, veniamo chiamati a fare lezioni, incontri o a dare giudizi sull’universo intero, magari senza sapere nulla”.. Però poi mi convinse, non so perché quel giorno c’era pure mia madre, il preside l’ha messa in mezzo dicendo “Signora non sarebbe contenta se Claudio ricomincia a frequentare?” Mia madre figurati. E ho ricominciato a frequentare, forse anche quello fa parte un po’ del romanzo del riscatto. Mi ricordo che ad un esame di Scienze delle Comunicazioni, materia che c’è ormai in qualsiasi facoltà, la professoressa mi disse sorridendo: “Ho seguito la manifestazione dell’Olimpico, lei è stato uno dei promotori. Mi spiega come l’avete organizzata?”. Io ho pensato” Mamma mia che fortuna” e gliel’ho spiegata per filo e per segno. Non mi ha fatto delle domande specifiche, mi ha chiesto come era stata messa su dal punto di vista del marketing, della comunicazione. Gliel’ho spiegata e mi ha dato ventisette. Ma come? L’ho inventata io!»

C’è un giorno della tua vita che vorresti e uno che non vorresti rivivere?

«Quando, da bambino, arrivavamo sulla Cristoforo Colombo con la macchina, io ero seduto dietro mio padre e mia madre. Dopo un dosso, si cominciava a vedere il mare. Era il respiro più largo che si potesse immaginare, proprio la felicità. Cosa non vorrei rivivere? Quei giorni in cui se ne va qualcuno, per esempio la morte di mio padre e mia madre, o anche tutte le assenze che svuotano la vita. Io penso che l’esistenza sia in fondo tutta digeribile però c’è un’ingiustizia di fondo che è quella di questi piani temporali che non combaciano. Sarebbe bello poter pensare che tutte le persone che hai conosciuto, che conosci, che sono parte della famiglia, dei tuoi affetti più cari, tutte ci muoviamo nello stesso modo: veniamo tutti lo stesso giorno e ce ne andiamo via tutti lo stesso giorno. Il primo giorno di assenza di ciascuno è un giorno che non vorrei mai vivere».*Walter Veltroni, ex direttore dell’Unità, già vicepresidente del Consiglio, ministro e primo segretario del Partito democratico.

La vita — Claudio Baglioni è nato il 16 maggio del 1951 a Roma. Ha venduto 55 milioni di dischi, l’album che ha avuto più successo è La vita è adesso. Suo padre era un maresciallo dei carabinieri, sua madre una sarta. Ha debuttato nel 1964, cantando una canzone di Paul Anka.

Le dodici note — «Dodici note» è il nome dei 12 concerti che Claudio Baglioni terrà a giugno 2020 alle Terme di Caracalla di Roma. Per la prima volta tutti i suoi classici in un’inedita dimensione classica, con una grande orchestra e coro. Sarà anche una “prima nella prima”: le 12 serate consecutive sono infatti incluse nella stagione estiva dell’Opera di Roma a Caracalla.

Gli anni più belli — Il nuovo singolo «Gli anni più belli» sarà in radio e in digitale dal 3 gennaio. L’omonimo film di Muccino, che ha girato anche il video di lancio e avrà questa canzone nei titoli di coda, sarà invece nelle sale dal 13 febbraio. «Gli anni più belli» è una delle 12 canzoni che comporranno il nuovo album di inediti di Claudio Baglioni, in uscita nella primavera 2020.

Dagospia il 3 gennaio 2020. Riceviamo e pubblichiamo da Striscia La Notizia. Caro Dago, scrivo in nome e per conto del Gabibbo, costretto in un letto d’ospedale dopo che, nonostante il parere dei medici e con la glicemia post natalizia già alle stelle, il nostro ha provato a leggere su Sette l’intervista che l’ex re delle figurine, il buonista in servizio permanente WuolterVeltroni, ha estorto ad Ali BaBaglioni. Un micidiale concentrato di fuffa talmente zuccherina che poteva risultare fatale al pupazzone rosso. Nello scontro titanico tra il distributore di melassa e l’utilizzatore seriale di belle frasi altrui, accoccolati affettuosamente sulle pagine dell’inserto rizzoliano, non c’è naturalmente nemmeno un accenno alle decine di scrittori, poeti e autori che Baglioni, come figurine, ha collezionato nella sua lunga carriera. Da Pasolini a Garcia Lorca, passando per Evtushenko, Borges, Prevert, Kerouac e Wilde, tutti hanno versato il loro tributo alla “capacità creativa” del cantante romano, come ampiamente documentato dalla serie ZiBaglione mandata in onda da Striscia la notizia in questi mesi. Le quattromiladuecentotrenta parole dell’intervista di Sette(contate!) riescono quasi a farci rimpiangere i tempi di Anima Mia. Cambiano gli interpreti oggi Veltroni, ieri Fabio Fazio, ma non la zuccherosa sostanza Ecco cosa scrisse nel 1998 Antonio Ricci a proposito di Fazio e Baglioni nel libro Striscia la tivù: “Un vera e propria operazione di revisionismo e di mistificazione è avvenuta con Anima mia: gli anni 70, gli Anni di Piombo, sono stati stravolti e cancellati sotto tonnellate di melassa e buonismo veltroniano. Cardine della rilettura, la mitizzazione del cantante Claudio Baglioni: dopo lifting facciale anche quello dell’anima. Trasformare Baglioni, uno che dai suoi pori ha sempre sudato Baci Perugina, in una specie di sofferto intellettuale di sinistra deve aver dato a Freccero lo stesso abisso di goduria che provo io quando penso che il Gabibbo è diventato il giornalista più credibile d’Italia. Impensabile, quasi sacrilego, vedere Baglioni che canta il Pueblo unido insieme agli Inti Illimani, mentre all’epoca del golpe in Cile sospirava “accoccolati ad ascoltare il mare”. Verso osceno che ha fatto illanguidire giovanissimi non in grado ancora di intendere e volere, ma soprattutto ha fatto “accoccolare” i fasci più ribaldi, come La Russa, Gasparri e Storace, che giustamente si sono ribellati quando con l’operazione Anima miala Sinistra gli ha scippato l’aedo. Squittiva Fabio Fazio: “Mitico, mitico, mitico! Incredibile, il grande Claudio ci ha cantato Heidi”. Io mi sarei stupito e anche divertito se a cantare Heidi fosse stato Fabrizio De André. Baglioni e Heidi sono per me assolutamente omologhi: una ha le caprette che fanno ciao, l’altro il passerotto non andare via. Buon anno, besughi. La glicemia del Gabibbo.

·        Claudio Bergamin.

Barbara Costa per Dagospia il 31 agosto 2020. “Io sono un uomo libero, sono un individualista, e voglio vivere la mia vita come mi pare, e lavorare secondo i miei orari. Io voglio rischiare in proprio e realizzare ciò in cui credo senza compilare scartoffie, dover bussare a mille porte, fare mille anticamere, né leccare il culo a nessuno, tantomeno alla politica. E in Italia non  è possibile”. Così Claudio Bergamin, ingegnere e pilota di volo, se n’è andato negli Stati Uniti, dove ha messo su una impresa di trasporto aereo turistico. Dopo 2 anni non volava già più, e non perché il suo progetto si fosse rivelato un fiasco, tutt’altro. Lui non resisteva. Smaniava. La sua idea di libertà batteva su una fissazione, riguardava un altro settore, pieno di bei corpi nudi che ansimano infiammati davanti a una telecamera. Settore per cui Claudio è sceso dall’aereo per entrarci, provarci, scoparci. Tutto questo succedeva esattamente 25 anni fa, e oggi Claudio Bergamin è una delle "firme" del porno americano. Di porno il più estremo, dove ci trovi le ragazze che fanno “cose cattive”, azioni che ti eccitano ma anche ti turbano, ti disorientano, pure ti schifano. E però azioni porno che guardi e paghi. Se fosse per Claudio, lui girerebbe solo sesso missionario, etero e lesbo, due corpi su un letto, ma come diavolo arrivi a guadagnare più di 350 mila dollari l’anno se gli attori non li inondi e li disseti di pissing, e le ragazze non le fai sfoggiare in pompini che le soffocano, e in anali multipli e sfiancanti, e le loro lingue non le fai sgretolare a forza di leccate e di sgobbate da fellatio scassa-mandibole? Lerci giochi video che possono pur scandalizzare, e che però vendono e fanno incassare, video per cui ti danno premi, e ti fanno fare una vita comoda e lussuosa: ti alzi la mattina all’ora che vuoi, vai sul set in t-shirt e bermuda, stai in ciabatte se non scalzo, e l’unica rottura che hai è approvare l’esito di rogne che altri hanno già risolto per te. Poi arriva lei, la figa del giorno, colei che hai prenotato e pagato, che ti saluta, ti fa le fusa, ti chiama devota “Maestro”, e a un tuo cenno si spoglia, ed è pronta a fare tutto quello che porno-vuoi (o meglio, tutto quello che lei ha già prima contrattato e approvato!).

Fidati: tale è la "dura" vita quotidiana del grande Claudio Bergamin, creatore di "PervCity.com", dove si fa porno hard-hardcore, artisticamente "strafatto". Io direi porno d’autore, porno bergaminiano, se solo Claudio fosse d’accordo: ma attenzione a chiamarlo regista, ti corregge subito, lui non si considera tale perché gira porno di sola azione, senza trama. Si ritiene un porno-direttore d’orchestra, un Maestro: ed è proprio con l’epiteto "Maestro Claudio" che Bergamin firma i suoi lavori. Un onore che si è guadagnato sul campo: lui non ricorda chi e quando han cominciato a chiamarlo così, fatto sta che così oggi tutti lo appellano e, per una pornostar, arrivare a mettere nome, corpo e sesso in un video di Maestro Claudio è un traguardo.

Claudio se n’è andato dall’Italia nel 1993, in piena Tangentopoli: ha forse fatto la scelta sbagliata? Chi ha la faccia tosta di dirgli che siamo diventati un Paese non dico migliore ma almeno un pochino più decente? Lui è come avesse vissuto 2 vite, la prima da ingegnere, l’attuale seconda nel porno. Indovina un po’ quale delle due lo appaga di più? Claudio ha lasciato l’Italia che non era certo un ragazzino, aveva 40 anni, e non l’ha lasciata da solo né nel porno vi si è buttato da solo: ha accanto una donna che l’ha sempre supportato, donna che a 29 anni è entrata nel porno iniziando una carriera di rilievo, donna che i fan più su d’età di sicuro avranno amato: quali e quanti brividi vi provoca il nome di Gina Rome? Una mora voluttuosa, una che ha fatto più di 200 film e ha lavorato con nomi del porno celebri quali John Leslie e un James Deen alle prime armi. Ma anche Claudio, da "giovane" attore porno si è tolto le sue belle soddisfazioni: lui dice di aver avuto sulle 500 partner (il numero esatto non può saperlo, ha smesso di contarle verso la 340esima!). Tra i suoi exploit porno c’è la partecipazione a una gangbang-maratona di 620 peni (?!?). Se non ci credi che Claudio sia il simpaticone che ti descrivo, e che un porno pur estremo può essere uno spasso girarlo, vai a sbirciare in uno dei bergaminiani "Behind The Scenes", clip che il Maestro posta su twitter e sui suoi siti (oltre PervCity, lavora per "BAM Visions", di cui è co-proprietario). Vedi che atmosfera goliardica? Ma non è il party che sembra, ogni scena ha i suoi codici, dopo averti spiegato cosa vuole, il Maestro gira con meno tagli possibili, e sono sudate e faticacce (anche per il Maestro, a giudicare dal suo aspetto alla fine!). Con Claudio, ogni shooting non deve oltrepassare i 30 minuti, un video i 60. E ci sono porno in cui il Maestro entra in scena, e gira e scopa: Claudio è tra i pochissimi ad ammettere senza problemi di far uso di pilloline (“ma solo sul set, mai in privato!”). Lui oggi ha 65 anni, dopo 25 anni di porno fatto e girato sbrodola ancora solo a guardare una femmina sexy, e con Gina Rome (che si chiama Tiziana, e oggi è porn producer di BAM Visions e PervCity) sono da sempre una coppia aperta. Claudio è il Maestro del porno, e una persona schietta. Fin troppo. Qualche esempio? “Maestro, che ne pensi del caso Weinstein?” – “È spregevole quel che ha fatto, ma davvero vi svegliate adesso?!?”; “Maestro, è vero che vedere porno fa male?” – “No: il porno non influenza nessuno in modo negativo. Se qualcuno è uno stronzo, è uno stronzo da sé, non perché vede qualsiasi tipo di porno”; “Claudio, che devo fare per diventare una pornostar?” – “Non scocciare me, ma contatta un agente serio!”; “Maestro, come riconosci una tetta finta da una vera?” – “Dalla cicatrice!”. Ma come si fa a non innamorarsi di un tipo così?

·        Claudio Bisio.

Bisio ricorda la morte della madre: "Non potevo nemmeno abbracciarla". In un ricordo commosso, Claudio Bisio rivela quanto è stato difficile separarsi da sua madre durante il lockdown con la paura del contagio. Carlo Lanna, Lunedì 31/08/2020 il 30 agosto 2020 su Inside Over. La pandemia da coronavirus inevitabilmente ha lasciato un senso di vuoto nelle nostre vite. Dal mese di marzo ad oggi, sono stante le storie che hanno caratterizzato il periodo storico che stiamo ancora vivendo. Come quello che è accaduto a Claudio Bisio. Il celebre attore e comico di Zelig, durante le prime settimane del lockdown, ha dovuto affrontare un difficile momento che, a distanza di mesi, non riesce ancora a dimenticare. Come ha rivelato in un’intervista che ha rilasciato a Il Corriere della Sera, Bisio ad Aprile ha visto morire sua madre, ma quattro mesi dopo ancora non comprende le cause della scomparsa, e non è dato sapere se la donna sia morta o meno a causa del Covid. Nel lungo flusso di coscienza, Claudio Bisio si rivela a 360 gradi affermando che i mesi appena trascorsi sono stati molto difficili da affrontare, sobillati da ansie, paure e rabbia. "Per me la pandemia è stato un momento molto difficile. Non so come spiegarlo, ma è così – esordisce l’attore durante l’intervista -. Il 4 aprile è venuta a mancare mia madre. Aveva più di 90 anni e non saprò mai le cause della sua morte. Se era malata di Covid? Questo ancora non lo so". Attimi di grande apprensione, eppure Claudio Bisio ha cercato di stare vicino alla madre fino all’ultimo secondo, usando ovviamente tutte le precauzioni del caso. "Non mi potevo avvicinare a lei – continua -. Volevo comunque restare al suo fianco. Ho indossato guanti e mascherina per proteggere lei e me stesso. Un’esperienza drammatica". E aggiunge: "Una sensazione che non si riesce a spiegare. Se non hai vissuto in prima persona la paura del Coronavirus, non si può comprendere fino in fondo il disagio di quella malattia". Il dolore resta, questo vero, ma Claudio Bisio trova comunque la forza di andare avanti e (a fatica) di voltare pagina. L’intervista, poi, si sofferma anche su altri temi. "Ho un bilancio neutro della quarantena – continua -. Un periodo di luce e ombre che ha messo in evidenza le mie fragilità e tutte le mie mancanze. Mi ha spinto però a guardare la situazione in modo diverso". Bisio afferma che quei due mesi e mezzo di confinamento per lui sono stati un modo per dialogare con il lato destro del suo cuore e capire come affrontare il domani. Il pensiero è rivolto, infine, anche al mondo del lavoro. Al suo in particolare. "Il teatro è un habitat, per me. Fa strano vederli chiusi e vuoti. Il futuro, però, resta e deve essere il digitale", conclude.

Stop al lavoro, lockdown, la mamma morta. La pandemia vissuta da Bisio: «Durissima, ho visto il disastro lombardo». Maria Volpe il 26/5/2020 su Il Corriere della Sera. Per Claudio Bisio, questa emergenza Coronavirus, ha voluto dire molte cose: stop del suo lavoro, quarantena, incertezza del futuro, perdita e lutto. L’attore , uomo poliedrico, che come tutti i comici poi nella vita reale ha malinconie e ansie, ha però la forza d’animo sempre di ripartire, vivere vite diverse, accettare nuove sfide. E così a 63 anni, un po’ restio al mondo web e agli spettacoli in streaming, ha detto subito sì alla chiamata di Zelig. Sabato 30 maggio ci sarà la prima «Zelig Covid Edition» visibile sulla piattaforma natlive.it. Si comincia alle 18 anche se la vera diretta parte alle 21, fino a mezzanotte, con la conduzione a distanza di Claudio Bisio-Vanessa Incontrada, coppia storica dello show televisivo, e l’intervento di numerosissimi comici (oltre 300) che realizzeranno un numero ciascuno dalla propria casa. Scopo della serata: raccogliere fondi per i lavoratori dello spettacolo e artisti in grave difficoltà per via della pandemia. Gli spettacoli dal vivo, le riprese dei film e delle fiction, i teatri sono stati i primi a chiudere e saranno gli ultimi a riaprire.

Claudio, sabato sarà lì solo sul palco dello storico locale Zelig dove grande parte della sua vita lavorativa è cominciata. Ha detto sì a questa chiamata soprattutto perchè?

«In primo luogo per aiutare gli amici in difficoltà. Poi perchè c’è un significato forte: Giancarlo Bozzo mi chiamò nell’‘86: quella sua prima telefonata fu per inaugurare il locale Zelig. Poi nel ‘96, la seconda telefonata per chiedermi di organizzare una serata evento per festeggiare i 10 anni del locale, con le telecamere: da lì nacque il programma televisivo “Zelig”. Infine un mese fa — e aveva lo stesso tono di allora — per dirmi: “Dobbiamo fare qualcosa, qui è tutto fermo”.Ed ed eccoci pronti con questa nuova scommessa del 30 maggio».

Una sorta di destino che deve compiersi. Prima il cabaret, poi la tv e ora la nuova frontiera del web?

«Io sono un po’ spaventato dal web, lo confesso. Ma sono moderatamente ottimista. E soprattutto ho sentito forte il richiamo di rivedere tutti gli amici di Zelig e di aiutare colleghi, fonici, montatori: sono partite Iva, pagati a progetto, e non hanno cassa integrazione. C’è gente anche tra noi che ha difficoltà vere ad arrivare a fine mese. La raccolta fondi è già iniziata e dovrebbe finire il 6 giugno. Poi speriamo di poter distribuire qualcosa. Non facciamo concorrenza al reddito di cittadinanza, ma oggettivamente il nostro mondo è fuori da quasi tutti i settori del welfare».

Quindi Bozzo non ci ha messo molto a convincerla, nonostante le sue perplessità sugli spettacoli in streaming. Una chiamata e via è partito tutto?

«Sì. Lui ha mandato un whatsapp a tutto il gruppo di “Zelig” e in 24 ore ha avuto tutte risposte positive: 300 adesioni . Magari non tutti li conosco, e tutti i “vecchi big” ci sono. A quel punto ho chiamato io Vanessa Incontrada: dai tempi di Zelig praticamente non abbiamo mai più lavorato insieme, ma siamo rimasti amici. E quelle edizioni sono rimaste nel cuore di entrambi. Televisivamente è senz’altro la cosa più forte che ho fatto, e forse non solo televisivamente. Lo stesso credo per Vanessa: uno dei suoi due cagnolini, del resto, l’ha chiamato “Zelig”. Dunque le ho scritto il messaggino e lei mi ha risposto con tre cuoricini».

Quindi ora si riparte, a distanza, con nuova tecnologia, ma con la voglia di allora.

«Sì, per la verità ho già l’ansia. Io sarò allo Zelig di Milano da solo, senza pubblico e questo non aiuta. Sarà brutto vedere i tavolini vuoti, ma del resto è il virus che è brutto. Vanessa è a casa sua a Follonica, non può venire a Milano: condurremo insieme a distanza di 400 km, così almeno non c’è neppure la tentazione di sbaciucchiarci. Speriamo solo che la tecnologia ci aiuti».

Bisio, lei dice che già rivedendo il promo, già presente sulla piattaforma, si intuisce che lei non è molto a suo agio. Insomma sta battagliando contro se stesso..

«Per realizzare il promo e avere il collegamento buono sono sceso in cantina, perchè mi hanno detto che è meglio stare vicino al router ...».

Un passo alla volta, magari con nuove prospettive.

«Esatto, non si sa mai... Se fosse l’inizio di qualcosa di nuovo? Katia (Follesa) e Valeria (Graci) hanno detto sì separatamente e io ho detto: riuniamo la loro coppia che si è sciolta 10 anni fa.. e io farò Claudiano con loro, la parodia di “Uomini e donne”. Poi ci sarà Marco Dalla Noce con la sua Ferrari; Dario Vergassola che faceva e rifarà le interviste alle ragazze; Giole Dix , Ale e Franz. Faremo un collegamento con il “Milanese imbruttito”, e un numero magico col Mago Forrest; Raul Cremona; I tre giornalisti che facevano le domande; Christian De Sica, Enrico Bertolino che recupera il muratore bergamasco; Geppi Cucciari; Lella Costa, Paolo Jannacci, Natalino Balasso; Debora Villa; Cevoli che fa l’assessore; Riccardo Manera ch fa un virologo».

Rischio effetto nostalgia basso, medio o alto?

«Spero non troppo.Certo sarà anche un po’ una reunion e sarà bello rivedersi. Ma non solo questo. Alla fine penso: se va tutto male, ci siamo ritrovati e abbiamo fatto una cosa bella per i raccogliere i fondi. Se va bene, magari abbiamo trovato un’altra via.Ribadisco che il mondo web mi fa paura e io sono per gli spettacoli dal vivo, i live col pubblico, tutta la vita. Detto ciò se capiamo che quella sera ri-scoppia la scintilla con Vanessa e gli altri comici ....».

Nulla vieta che vi rivediate dal vivo. Potrebbe esserci anche una ipotesi di «Zelig» in tv.

«Certo che mi piacerebbe rivederli dal vivo...Io ho fatto “Zelig” 15 anni dal ‘98 al 2012: quando salgo su un taxi in tutte le città di Italia mi chiedono ancora di “Zelig”».

Le fa piacere che la identifichino ancora con quel programma?

«Sì, non mi secca affatto. Quando ho smesso, pensavo che bisognasse prendersi una pausa, un respiro, perchè la routine di tanti anni poteva rovinare tutto; ma direi che 8 anni di respiro sono tanti.... Non le nascondo che in questa serata del 30 maggio c’è anche la speranza che rinasca qualcosa, il bisogno di capire se siamo ancora capaci, se c’è ancora quell’entusiasmo di stare insieme. Se sarà solo nostalgia va bene così, è stata solamente una serata, ma se dovesse riscattare la scintilla, beh riparliamone. Sarebbe bello riprendere a 63 anni....Il comico senza pubblico non ha senso. Il teatro è un rapporto d’amore, se sei da solo non va bene».

Com’è stato l’inizio del suo lockdown, cosa stava facendo?

«Stavo girando a Milano una fiction per Mediaset/Amazon, tratta dal film Tutta colpa di Freud. Avevamo già girato 10 settimane su 12... Sembrava solo una precauzione. Ci dissero che avremmo ripreso a maggio. Poi forse a settembre. Ora chissà. E’ bloccata anche la tournée teatrale prevista a gennaio, da Genova, tratta dai testi di Francesco Piccolo».

Come ha vissuto quelle lunghe settimane chiuso in casa? Quanto è stata dura?

«Venivo da 2 anni molto intensi, mi sono detto: ma si dai , sto in casa, c’è qui con me anche mio figlio di 22 anni, facciamo la pasta fatta in casa. Dopo un paio di settimane , cominciava a pesarmi. Allora col mio vecchio amico Gigio Alberti ci siamo buttati in una nuova avventura durata un mese sul web, “#MaTuSeiFelice?” ognuno da casa propria, dialoghi come al bar. Grazie anche all’aiuto di mio figlio è andata benissimo».

«La mia famiglia mi ha regalato un rullo, un “accrocchio” dove metti sopra la tua bicicletta e pedali. Loro sanno che io adoro andare in bicicletta. E questo mi ha salvato. Poi ho visto un sacco di film e serie tv. Io sono un giurato del David di Donatello, e in qualità di giurato ho una piattaforma dove con una password posso vedere tutti i film italiani, per poterli vedere e giudicare. Ne ho visto una marea. Mi mettevo sul rullo e vedevo tanti film. Poi stavo lavorando a una sceneggiatura, ma non avevo la testa sgombra per scrivere, ho dovuto mollare. Alcune giornate ero depresso, altre meno. Certi giorni arrivavo a sera e non sapevo neanche come c’ero arrivato».

Un po’ di angoscia, preoccupazione?

«Per me la pandemia è stato un momento duro, perchè il 4 aprile è mancata mia mamma. Aveva più di 90 anni e non sapremo mai le cause della morte. Non sappiamo se c’entrasse il Covid oppure no. Ma con mia sorella abbiamo deciso di tenerla a casa e non farla morire in ospedale. E’ stata durissima, non abbiamo ancora fatto il funerale. Dunque io come tanti altri conoscenti, amici, medici, ho davvero toccato con mano quanto sia stato tremendo questo periodo di Coronavirus. E quanto sia stata disastrosa la gestione, specie qui in Lombardia».

Ha toccato con mano oltre al dolore anche l‘incapacità di gestire questa tremenda epidemia?

«E’ così. Tanti amici medici erano disperati: perché non hanno fatto i tamponi? Uno può sbagliare all’inizio, quando ancora non si capiva l’entità della tragedia. Il sindaco Beppe Sala lo ha fatto, ha sbagliato, ma ha chiesto scusa. Perservare nell’errore no. Qui il governatore Fontana e l’assessore Gallera hanno perseverato e non riconosciuto i troppi errori fatti».

Pensa si debbano dimettere?

«Certo, io sono tra i firmatari per il commissariamento della Regione. Fontana e Gallera devono andare a casa. Anche se non c’è stato dolo, c’è stata una grande dose di insipienza. E aspetteremo il corso della giustizia sul Pio Albergo Trivulzio».

«Beh non possiamo copiare Trump. In Germania, ma anche in Veneto l’hanno gestita meglio. Questo è il risultato della gestione della sanità in Lombardia che ha abbandonato la medicina territoriale. La presunta eccellenza lombarda c’è in certi interventi, in cardiologia , ma non eravamo certo pronti per l’emergenza. Per non parlare della cosa ridicola di quell’ospedale in Fiera».

Cosa si aspetta dalla Fase 2?

«Fare ospedali Covid , senza mescolare i malati. Dare presidi medici a tutti, specie a chi sta in prima linea. E sopratutto fare i tamponi. Per ripartire bisogna capire chi è positivo e chi non lo è».

C’è chi dice che da queste tragedie possono nascere anche opportunità, segnali positivi.

«Certo, la pandemia ha aiutato l’ambiente, ha portato aria più pulita. E a Milano so che vogliono costruire una pista ciclabile lunga 22 km da piazza san Babila a Sesto San Giovanni. Un bel segnale per l’ambiente. Certo che ci voleva il virus per il bonus sulle bici? Mi fa orrore pensare che ci voleva il coronavirus virus per costruire più piste ciclabili, ma meglio tardi che mai».

Avrà visto tanta televisione stando in casa. Com’era la tv al tempo del Covid?

«Certi talk senza pubblico ci hanno guadagnato. Si capiva meglio. Si riusciva ad ascoltare, era tutto più chiaro. Mi verrebbe da dire: non tornate indietro. Tanto dietro gli applausi c’è sempre un capo claque».

Finiamo col sorriso. Lei amante di sport e calcio. Vuole la ripresa del campionato?

«Nooo , proprio adesso che ero così contento che il Milan non perdeva da tanto tempo!!».

·        Claudio Cecchetto.

Maria Elena Barnabi per “il Messaggero” il 7 dicembre 2020. Quarant' anni fa ha cambiato faccia alle radio private italiane inventando Radio Deejay e portando la musica da discoteca in Fm Ha creato fenomeni musicali come Sandy Marton, Jovanotti e 883. Ora Claudio Cecchetto, 68 anni, sembra che voglia provare di nuovo a influenzare il mercato della musica giovane italiana. Come? Si è inventato il Cecchetto Festival, una kermesse digitale di tre giorni riservata agli under 33 in contemporanea al Festival di Sanremo (dal 2 al 6 marzo). Sarà una manifestazione trasmessa solo via web attraverso la piattaforma A-Live, in cui si esibiranno una ventina di musicisti con un certo seguito sui social, scelti da Cecchetto, e come ospiti ci saranno tiktoker e youtuber. A presentarla, probabilmente, ci sarà un'altra webstar, cioè suo figlio Jody (26 anni, ha un seguito di 600 mila follower). Per mettere insieme tutto ciò, il talent scout ha coinvolto due agenzie che gestiscono quasi la metà delle giovani webstar italiane: la One Shot Agency di Matteo Maffucci (Elisa Maino, Marta Losito, Gordon), e la NewCo Management di Francesco Facchinetti (Rocco Hunt, Frank Matano, Giulia De Lellis, Ricky). Sia Facchinetti che Maffucci (Zero Assoluto), per inciso, sono stati tenuti per mano da Cecchetto quando erano agli esordi e ora curiosamente si sono trasformati in imprenditori digitali.

Ha 68 anni, chi glielo fa fare di buttarsi in questa avventura?

«Perché dovrei andare in pensione? Mica faccio sollevamento pesi. Nella mia vita la musica è stata la mia guida, come talent scout ho avuto qualche successo. Voglio continuare a farlo finché qualcuno di più grande mi dirà: Claudio, stop».

L'anno scorso si era parlato di lei come consulente di Amadeus, una sua creatura, per Sanremo. Invece niente. E quest' anno organizza un Festival nelle stesse date. Una vendetta?

«Guardi, è uscito sui giornali, ma a me la richiesta non è mai arrivata. Comunque è normale: Amadeus ha Lucio Presta e quindi, di conseguenza, ha già una direzione artistica e i suoi consulenti».

Negli ultimi anni però Sanremo ha puntato molto sui giovani talenti del web. Come quelli che sceglierà lei.

«Nessuna concorrenza: Sanremo ormai è uno show, non è una manifestazione musicale. Quando lo presentavo io gli ospiti erano gli Status Quo e i Dire Straits. Ora ci sono attori e personaggi del gossip. Ma lo capisco: devono fare 13,14 milioni di ascoltatori. Il mio Festival sarà invece un evento musicale online dedicato ai Millennial e alla generazione Z: verranno quelli che a Sanremo non troveranno spazio. E che hanno rigorosamente meno di 33 anni».

Chi sono gli artisti selezionati finora? Saranno tutti trapper, la musica che va più forte tra i giovani? 

«No, per carità. La trap è ripetitiva: le canzoni sembrano tanti vestiti uguali, cambia solo il colore. Io spingo i ragazzi a sperimentare con il suono. C'è un gruppo che fa rock che mi piace molto, vedremo. Comunque per farsi un'idea, sulla mia pagina Instagram sto pubblicando quelli che mi hanno segnalato. Poi ne selezionerò 60. Il 1° febbraio del 2021, 38 anni dal giorno in cui ho acceso Radio Deejay, dirò chi sono i 20 o i 24 in gara. Nei tre giorni finali ci saranno poi i voti della giuria fino ad arrivare al vincitore. Forse il primo premio sarà la possibilità di fare un concerto digitale».

Lei negli Anni Ottanta e Novanta ha scoperto alcuni degli artisti di maggior successo in Italia, diversissimi tra di loro: Jovanotti, Sandy Marton, gli 883, Sabrina Salerno Cosa li accomuna?

«Per me la musica deve servire a rallegrare gli animi. Quando l'atmosfera è pesante, c'è sempre qualcuno che dice: Dai mettiamo un po' di musica. Ti deve emozionare. Tutte queste persone avevano una forte personalità: quando ho visto Lorenzo a una rassegna di provincia, io ero lì con un gruppo che vinse la manifestazione. Mollai la band su due piedi, andai da lui e gli proposi di lavorare assieme. Stessa cosa Sabrina Salerno: aveva 18 anni, ma nel mio studio dove venne con il suo manager, si alzò e cominciò a cantare, senza vergogna».

A proposito di Jovanotti, lei lavorò con lui fino a Lorenzo 1992, l'album che ne segnò la svolta. Come produttore ha ancora introiti?

«Ho le edizioni. Non sto male, ecco».

Si favoleggia di ricavi eccezionali.

«Quello che guadagnavo l'ho sempre reinvestito in Deejay. A quei tempi stavo nella foresteria della radio, un appartamento nel quale passavano un po' tutti: Fiorello, Baldini».

Fiorello e Baldini negli Anni 90 sono sinonimo di feste pazze e droga. Lei ne faceva uso?

«Allora era normale, ma io ne facevo poco uso: ero preoccupato che venisse compromesso il buon nome della radio. So che avevo la nomea di un grande consumatore, ma non era così».

Torniamo al Festival: inviterà come ospiti anche tutti gli artisti scoperti da lei?

«Certo, i miei li invito tutti, anche Amadeus. Tanto basta anche un saluto virtuale: Sanremo è impegnativo, bisogna andare fisicamente, farsi massacrare in sala stampa, esibirsi. Da me invece basta collegarsi con il telefonino. Tutto gratuito ovviamente. Mi piacerebbe che la visione fosse interattiva: mentre guardo uno che canta, magari riesco a sapere di che marchio è il cappello che porta».

Che fa, sta già pensando di monetizzare con il click and buy di Amazon?

«No, sto pensando di dare più servizi all'utente. Ma è tutto un work in progress. Questa non sarà l'unica edizione: vorrei farne tre all'anno. Una in concomitanza con il Festival, una in estate e una dedicato alle cover band, un fenomeno che in Italia ha raggiunto una qualità altissima. A volte il repertorio vale più dell'artista. Speriamo che nessuno mi rubi l'idea. E se me la rubano, meglio per loro perché avranno successo».

Due sue progetti di successo, Deejay e Capital, sono passati in altre mani.

«A dir la verità quando c'ero io Deejay era la radio numero uno in Italia. Ora è terza, a due milioni di ascoltatori dalla prima e un po' ci rimango male».

Era il 1994: è ancora una ferita aperta?

«Me ne andai perché capii che mi stavano facendo fuori. Mi avrebbero lasciato divertire per quattro o cinque anni e poi sarei andato via con niente. Peccato perché Radio Deejay doveva diventare una multinazionale, era un brand fortissimo, non doveva diventare una piccola appendice di un grande gruppo: doveva esser lei a comprare il Gruppo L'Espresso di De Benedetti. Ognuno invece l'ha utilizzata per se stesso, non c'è stata la voglia di evolvere».

Con quei soldi lei fondò Radio Capital, che poi nel 1996 vendette nuovamente a De Benedetti. Perché?

«Mi sono detto: almeno rimangono assieme. E poi la mia richiesta era davvero assurda. Ma l'accettarono».

Quanti soldi fece?

«Una settimana prima di firmare l'accordo si fece avanti il Corriere. Ma non avevano abbastanza soldi. Non dico quanto, ma monetizzai molto di più con Capital che con Deejay».

Nicola Savino, Fiorello, Jovanotti e Amadeus la seguirono. Linus e suo fratello rimasero e presero in mano la radio.

«Non mi aspettavo niente di diverso da Linus. Come ha detto lui, gli chiesero di diventare il condottiero della radio e rispose di sì».

I giovani spettatori che seguiranno il suo festival ascoltano la radio?

«No, i giovani sono abituati a guardare le immagini. Come dice il mio amico Lorenzo Suraci di Rtl 102.5, il futuro è la radiovisione. Certo finché ci sposteremo in auto, la radio potrà sopravvivere così come è oggi, solo ascoltata. Ma ormai non è più rivoluzionaria. È diventata una cosa seria, una cosa con cui fare soldi. E poi è rimasta in mano alle persone che l'hanno inventata tanti anni fa. Tutti sessantenni. Io a un certo punto il microfono l'ho mollato, questi no».

Dovrebbero mollare?

«È il pubblico che decide. E finché hanno un pubblico, fanno bene a restare. E poi la radio si fa per passione. Chi sono io per dire che gli altri devono rinunciare alle proprie passioni? Io non lo faccio».

·        Claudio Lippi.

Il racconto di Claudio Lippi: “Mi dissero che stavo morendo”. Annalibera Di Martino il 12/06/2020 su Notizie.it. Claudio Lippi racconta il terrore di quando il medico gli disse "Stai morendo". Poi la rinascita: "Sono fortunato a poter raccontare questo episodio". Claudio Lippi ha raccontato durante il programma “Io & Te” i difficili momenti della sua carriera e vita personale. La turbolenta storia d’amore con Kerima Simula, il rapporto con sua figlia e quel giorno in cui un medico gli disse: “Stai per morire”. A “Io & Te” su Rai 1 condotto da Pierluigi Diaco, Claudio Lippi ha raccontato il rapporto con la sua famiglia, in particolare la moglie ed il turbolento periodo della malattia. Attualmente impegnato ne “La Prova del Cuoco” con Elisa Isoardi, il presentatore ha ripercorso i momenti della sua vita, da quelli bui dei problemi al cuore fino alla rinascita. Nel 1989 Lippi ha sposato Kerima Simula e con lei ha avuto una figlia, Federica. La loro è stata una storia d’amore difficile: separazione dopo 5 anni e poi ritorno di fiamma. Dal 2000 sono tornati insieme e da quel momento non si sono mai più lasciati. Su quei periodi difficili Lippi ha detto “Non mi riguardo mai perché sono convinto che tutto si possa fare meglio. Lo so che sono un sex symbol e mi pesa da morire, ma a quell’età tutti siamo belli. Io chiedo al mondo di non considerare la bellezza solo per la parte estetica perché il corpo di un uomo e di una donna sono solo il contenitore. È come un tortellino senza ripieno”. Un altro frame difficile dell’esistenza di Claudio Lippi è sicuramente legato ai problemi al cuore. “Stavo registrando delle puntate per un programma della concorrenza e la notte prima avevo avuto un malessere per il quale il medico mi aveva detto che dovevo andare a fare un elettrocardiogramma. Io però ci andai dopo la fine delle registrazioni delle tre puntate. Il medico che mi visitò si fece portare un bicchiere d’acqua, era per lui. Poi mi ha detto Stai morendo“. Attimi di terrore per lo showman che, però, nonostante tutto, anche grazie all’amore per il lavoro è riuscito ad andare avanti e guarire. “Sono fortunato a poter raccontare questo episodio – ha confessato Lippi – . Ero riuscito a registrare tre puntate stando male. Il nostro lavoro a volte riesce a essere una medicina. Non condivido sempre lo slogan ‘The show must go on’, ma spesso è quello che accade.”

·        Clementino.

Clementino inneggia alla marijuana durante il concerto a Nocera Inferiore, fascicolo in Procura. Il sindaco Manlio Torquato: "Sospendiamo il cachet fino a quando non ci sarà chiarezza". Andrea Pellegrino il 02 gennaio 2020 su la Repubblica. Il concerto di Clementino a Nocera Inferiore finisce in Procura. Frasi inneggianti all’uso della marijuana sono finite al vaglio degli agenti del commissariato di polizia di Nocera Inferiore che hanno inoltrato l’informativa alla Procura della Repubblica, dopo aver visionato le immagini dell’intero concerto. Una piazza piena, con oltre 10mila persone, per il concerto del rapper di inizio d’anno, organizzato dal Comune di Nocera Inferiore mercoledì sera. Musica, rap ma anche parole ed una particolare benedizione ai fan all’inizio e alla fine del concerto: «Guagliù vi benedico in nome della canna», la frase pronunciata più volte durante l’esibizione sul palco di piazza Diaz accompagnata, poi, dal lancio di un kit, suo gadget, con filtri e cartine mostrando, poi, infine, un enorme spinello vuoto. Gesti, comportamenti e frasi che sono state estrapolate dalla registrazione video del concerto nocerino e sottoposte all’attenzione dell’autorità giudiziaria. L’ipotesi di reato è di istigazione all’uso di stupefacenti ma al momento non c’è nessun iscritto sul registro degli indagati. La piazza, la scorsa sera, era affollata anche da giovani e da minorenni. Un concerto, tra l’altro, organizzato dall’amministrazione comunale di Nocera Inferiore. Il sindaco Manlio Torquato ha annunciato che sospenderà il cachet previsto per il rapper fino alla verifica dei fatti. «La polizia – dice il primo cittadino di Nocera Inferiore -  deve opportunamente svolgere ogni attività di verifica ma eviterei, almeno in questo momento, di confondere il successo del concerto, svoltosi senza problemi di ordine pubblico nonostante la massiccia affluenza, proprio grazie ai controlli e alla funzione di prevenzione e controllo da parte della polizia di Stato della polizia locale e della Protezione civile, con gli accertamenti della polizia sui filmati e per verificare doverosamente il reale svolgimento dei fatti».

"In nome della canna". E il rapper Clementino finisce indagato. Le forze dell’ordine hanno fatto sapere che si tratta di un’indagine per salvaguardare i numerosi minorenni presenti all’evento. Ignazio Riccio, Giovedì 02/01/2020, su Il Giornale. All’inizio e alla fine del suo concerto a Nocera Inferiore, nel Salernitano, il noto rapper campano Clementino, come fa solitamente, ha salutato i suoi fan con una frase che utilizza spesso. “Guagliù, vi benedico in nome della canna”. Lo slogan gridato dal palco, in occasione dei festeggiamenti del Capodanno nocerino, non è passato inosservato. Le immagini dello spettacolo sono al vaglio della polizia, che sta indagando sull’artista, il quale non ha mai nascosto le sue idee in merito alla liberalizzazione delle droghe leggere. Clementino ha inneggiato all’utilizzo della marijuana, mostrando ai suoi seguaci uno spinello, anche se ha dichiarato che dentro c’era tabacco e ha lanciato loro delle bustine con all’interno cartine e filtri. Le forze dell’ordine hanno fatto sapere che si tratta di un’indagine per salvaguardare i numerosi minorenni presenti al concerto e anche le istituzioni pubbliche che hanno organizzato l’evento. Clementino, il cui vero nome è Clemente Maccaro, è un rapper avellinese famoso su tutto il territorio nazionale. Dopo aver vinto varie competizioni di freestyle tra il 2004 e il 2006, firmò un contratto con l'etichetta discografica indipendente Lynx Records, pubblicando l'album di debutto “Napolimanicomio”, sempre nel 2006. Tre anni più tardi entrò nei Videomind, pubblicando nel 2011 “I.E.N.A.” e nel 2012 formò i Rapstar con Fabri Fibra, realizzando nel medesimo anno “Non è gratis”. Nel 2013 il rapper siglò un contratto con la major discografica Universal, pubblicando poco tempo dopo “Mea culpa”, che riscosse un discreto successo in madrepatria, arrivando in quarta posizione nella Classifica FIMI Album e venendo certificato disco d'oro. Cresciuto nell'entroterra napoletano tra Cimitile e Nola, Clementino all'età di 14 anni mosse i primi passi nell'hip hop proprio a Napoli dove entrò nella Trema Crew e successivamente nei TCK, gruppo partenopeo. Grazie a queste prime esperienze, Clementino ebbe modo di affinare le sue tecniche nel freestyle (la disciplina tipica della cultura hip hop che consiste nell'improvvisare in rima), divenendo così uno degli artisti più abili del panorama nazionale aggiudicandosi il primo posto al Tecniche Perfette 2004, al Da Bomb 2005, al Valvarap 2006 e al 2theBeat 2006, battendo in finale Ensi, allora campione in carica, che già nel 2005 sconfisse in finale lo stesso Clementino. Il 29 aprile 2006 uscì il suo primo album in studio, intitolato Napolimanicomio, cantato sia in italiano sia in napoletano, in collaborazione con artisti di fama quali OneMic, Kiave, Francesco Paura, Spregiudicati, oltre a vari importanti esponenti locali come Kapwan, Emcee O'Zi e Patto MC, ottenendo un discreto successo e aumentando la sua fama a livello nazionale.

Clementino: “Io, sotto inchiesta per una canzone, ma non inneggio alla droga”. Il cantante parla dopo il concerto di Nocera Inferiore. Il caso è finito in Procura. Ilaria Urbani il 04 gennaio 2020 su La Repubblica. La Procura della Repubblica di Nocera Inferiore indaga sul concerto di Clementino in piazza Diaz. Nel mirino le frasi con le quali il rapper di Nola, 37 anni, mercoledì sera, davanti a più di 10mila persone, ha inneggiato alla marijuana: "Guagliù vi benedico in nome della canna". Secondo gli agenti del commissariato di polizia di Nocera Inferiore la frase pronunciata dal popolarissimo cantante, al secolo Clemente Maccaro che l'anno scorso ha annunciato di essersi liberato dalla schiavitù della cocaina, è stata accompagnata dal lancio di gadget con filtri e cartine e un grande spinello. Per tutto questo il sindaco di Nocera, Manlio Torquato, ha deciso di sospendere il cachet all'artista. Almeno fino alla verifica della magistratura.

Clementino perché ha inneggiato alla marijuana dal palco?

"Non ho inneggiato proprio a nulla: c'è una mia canzone che inizia così. E lo spinello di due metri che avrei fumato sul palco era di polistirolo. Era un gioco...".

E i gadget con i filtri e le cartine lanciati al pubblico?

"I gadget? Siamo al paradosso. Si tratta di portachiavi con le mie canzoni, ci sono io vestito da Pulcinella o da San Gennaro in versione cartone animato, ne ho tanti a casa, ho montagne di scatole: la Digos può venire a controllare in qualsiasi momento. Alcuni di questi gadget sono verdi, quindi chissà cosa hanno pensato... Non ho distribuito assolutamente mai filtri, canne e marijuana dal palco. Ma come tutti i rapper, io sono da sempre a favore alla legalizzazione delle droghe leggere. Sono anni infatti che mi batto contro le mafie che fanno profitti sulle droghe e sulla Terra dei Fuochi. Quando hanno bruciato Città della Scienza ci ho girato il video di "'O Vient", ho scritto "Pianoforte a vela" e altre canzoni contro la criminalità.

Perché se la prendono con gli artisti invece di combattere i veri criminali che inguaino la nostra società?".

Ma secondo lei per combattere la gestione del traffico delle droghe della camorra è utile lanciare messaggi dai concerti ad un pubblico composto anche da tanti minorenni?

"E allora dovrebbero processare le canzoni di tutti noi rapper italiani. Sono vent'anni che faccio canzoni come "Joint", se ne sono accorti ora... io continuerò a registrare la mia musica. Tutti noi rapper nelle nostre canzoni parliamo di legalizzazione delle marijuana. "Maria Salvador" di J-Ax è sei volte disco di platino. E allora Fabri Fibra, Salmo, Marrakesh, Rocco Hunt? Dovrebbero indagare tutte le canzoni di Bob Marley, Snoop Dogg e Manu Chao. Non so cosa sia successo e perché si sono voluti scatenare contro di me. Invece di trovare i criminali, se la prendono con me che sono uno che fa anche attività sociali, mi sono vestito da Babbo Natale per andare a fare gli auguri ai piccoli pazienti del Santobono".

Parla come se si sentisse vittima di un attacco personale...

"Io nella vita sono sempre stato uno "peace & love", anzi ho sempre lottato contro la cocaina che mi ha perseguitato per anni, sono stato in comunità, perché adesso mi puntano il dito contro? Sto iniziando a pensare che evidentemente potrebbe trattarsi anche di un attacco politico degli avversari del sindaco per creare problemi al Comune. Forse a qualcuno ha dato fastidio che al mio concerto di mercoledì sera ci fossero, pare, quasi ventimila persone, un evento quasi senza precedenti per Nocera. E magari gli avversari hanno tirato fuori questa fake news".

Ma il sindaco Manlio Torquato ha annunciato che sospenderà il cachet previsto per lei fino alla verifica dei fatti. Lei intanto, al centro di tutto questo caso, cosa pensa di fare ora?

"Sto consultando i miei avvocati. Anche per capire se ci siano gli estremi per una querela, io non ho fatto niente, lo ripeto. E allora perché la mia immagine finita così su tutti i giornali e i siti internet deve essere rovinata?".

·        Clint Eastwood.

Dagospia il 24 dicembre 2020. Max borg su movieplayer.it. Clint Eastwood è il volto di una campagna di sostegno organizzata dal quotidiano Il Manifesto per impedirne la chiusura. L'attore e regista, tramite fotomontaggio usando un vero scatto di qualche anno fa, è raffigurato con in mano una copia del giornale, dove si parla dei tagli dei contributi pubblici. Contributi che ora sono destinati unicamente (o quasi) ai giornali quotati in borsa, categoria di cui Il Manifesto non fa parte. La scorsa settimana, dunque, la redazione ha ricevuto un fax dove si annunciava la cessazione dell'attività editoriale, un messaggio di undici righe scritto dai tre liquidatori che gestiscono il quotidiano da febbraio. Eastwood, esponente della vecchia guardia hollywoodiana, rappresenta quindi la resistenza del giornale, che annuncia di voler arrivare a festeggiare il suo cinquantesimo anniversario nei prossimi mesi, con l'aiuto dei lettori (è possibile abbonarsi per tre settimane pagando dieci euro). Clint Eastwood si è recentemente occupato della stampa americana nel film Richard Jewell, basato sulla storia vera di un uomo che fu ingiustamente accusato, tramite articoli diffamatori, di un attentato che in realtà aveva contribuito a sventare. Negli ultimi mesi ha girato Cry Macho, film d'epoca - siamo nel 1978 - dalle tinte western che uscirà in un non precisato momento del 2021. Fa parte dei titoli inclusi nel recente annuncio di WarnerMedia, che farà uscire tutti i film della Warner Bros. previsti per il prossimo anno in modalità ibrida, facendoli debuttare contemporaneamente in sala e sulla piattaforma HBO Max, per lo meno negli Stati Uniti (in altri mercati, dove il servizio streaming non esiste, ancora non è certa la strategia). Eastwood non si è pronunciato sulla cosa, a differenza di altri cineasti legati alla Warner come Christopher Nolan, Patty Jenkins e Denis Villeneuve, il cui Dune è tra i film impattati dalla decisione, e attualmente in trattative per avere un'uscita solo al cinema. Anticipiamo un'intervista di Richard Thompson e Tim Hunter  a Clint Eastwood (del 1976) dalla raccolta "Fedele a me stesso", in libreria con Minimum Fax.

Com' è approdato alla regia?

«Ho cominciato a interessarmi alla macchina da presa mentre recitavo negli Uomini della prateria. Stavamo girando la scena di una mandria di bovini lanciati in una corsa impazzita: io cavalcavo in mezzo a tremila mucche, la polvere volava ovunque e l' effetto era davvero straordinario. Sono andato dal regista e gli ho detto: "Dammi una macchina da presa. Là in mezzo c' è roba stupenda che tu non riesci a vedere". Se ne sono usciti con tutta una serie di problemi sindacali Alla fine mi hanno dato un contentino: ho diretto alcuni trailer».

Perché la regia era così importante per lei?

«È un percorso naturale se si è interessati ai film. Il concetto di film in generale per me era più importante della semplice recitazione. Lei ha un' incredibile percezione del materiale, molto più oggettiva dei colleghi».

Intende nel saper scegliere i film da interpretare? E quelli da dirigere.

«Semplice istinto. Se ci stessi troppo a pensare, cambierei idea e farei qualcosa di sbagliato Se ho un pregio, è la risolutezza: prendo in fretta tutte le decisioni, giuste o sbagliate che siano».

Ha un difetto principale come regista?

«Ne ho a bizzeffe, probabilmente. A volte, quando recito in una scena, mi distacco troppo. È difficile passare dalla regia all' interpretazione».

Lei ha avuto un ruolo chiave nella messa in discussione del concetto di eroe: cosa pensa degli eroi?

«Sono fra coloro che hanno portato gli eroi ancora più lontano dal classico personaggio sul cavallo bianco. In Per un pugno di dollari non si scopre chi è l' eroe fino a un quarto del film, e neanche allora se ne ha la certezza; si presume che sia il protagonista, ma solo perché tutti gli altri sono peggio di lui. Mi piacciono i nuovi eroi. Mi piace che abbiano punti di forza, lati deboli, mancanza di virtù».

E il senso dell' umorismo?

Esatto. E anche una punta di cinismo ogni tanto. Ai vecchi tempi, con le regole di ingaggio del Codice Hays, non potevi tirare fuori l'arma se non te ne puntavano una contro. Ma se un tizio cerca di uccidere il personaggio che interpreto, io gli sparo alle spalle».

Pauline Kael (critica cinematografica, ndr ) le ha lanciato diverse frecciate antimachismo.

«Be', erano fuori luogo Continua a parlare della necessità di mostrare il lato debole degli uomini, e quello va bene, c' è spazio per farlo».

Ma perché allora non dovrebbe esserci spazio per personaggi immaginari di cui vorremmo avere l' astuzia?

«La Kael è ossessionata da qualcos' altro; lo si vede nei film che le piacciono. Si è costruita un' immagine di schiettezza, perciò deve trovarsi qualcosa su cui esercitarla. Ha scelto il machismo perché è la questione del momento. Negli anni Sessanta era il razzismo; chissà di cosa si tratterà in futuro. Non mi crea problemi, perché quello che dice lei non ha effetto sul successo dei miei film. Il texano dagli occhi di ghiaccio incasserà più di Nashville».

John Milius sosteneva che Pauline Kael fosse innamorata di lui perché non faceva altro che parlarne.

«Oh, l' ho detto anch' io. Giusto per farmi due risate, ho chiamato uno psichiatra e gli ho letto l' articolo. Mi ha detto: "È ciò che si definisce "formazione reattiva". La signora vuole farsi una scopata con lei". E io ho risposto: "Non penso proprio". E lui allora: "Be', forse non è così, ma è comunque divertente pensarlo"».

Il machismo è sotto tiro in questo periodo.

«Oh, sì. Il modo in cui Jack Nicholson interpreta il tizio del Nido del cuculo è estremamente macho Fra un anno o due tutti ripenseranno a questa pellicola e diranno: "Dio, magari si facessero ancora film del genere". Ovviamente io non sono come quei personaggi. Non sparo alla gente per strada».

Cosa rimane oggi all' eroe?

«Non lo so. Prenda Josey (protagonista del Texano dagli occhi di ghiaccio, ndr): al contrario degli altri personaggi che vanno e vengono, trovando qualcosa di cui vendicarsi, nel suo caso si vede cosa lo rende così com' è, cosa lo fa crescere gradualmente. Ma non lo considero un eroe, bensì una persona. Diventa eroico, tanto eroico quanto l' ho voluto io».

Quando uscì Breezy , in una sede della Universal erano furiosi perché la casa madre non l' aveva promosso.

«Lo sapevo, si capiva. È uno dei motivi per cui non faccio tutti i film con la Universal. Non hanno promosso neanche Brivido nella notte I manager mi chiamavano e mi dicevano: "Maledizione, il film sta andando bene". E io: "Perché non dovrebbe?". Al che loro rispondevano: "Be', non so, non è un western e tu non fai il poliziotto"».

Sondra Locke, che ha recitato nel Texano , ha raccontato: "Non avevo battute nel film e il direttore della fotografia ha risposto: 'È molto meglio così. Se non parli, staranno tutti in trepidazione aspettando che parli!'".

«L' ho fatto anch' io per 14 film, poi alla fine ho aperto la bocca e ho rovinato tutto».

A novant'anni Eastwood insegna ancora come diventare uomini. Produce, dirige e interpreta "Cry Macho": Una storia di formazione. Alla sua maniera. Cinzia Romani, Giovedì 08/10/2020 su Il Giornale. A novant'anni, uno pensa all'anima. Tanto più in tempi di pandemia. Non Clint Eastwood, però, il novantenne più indaffarato del mondo, che infischiandosene del Covid-19 e della crisi del cinema, in questi giorni mette in piedi un altro film. Sarà l'ultimo? Non gliene importa. Né poteva scegliere un titolo più rappresentativo della sua filmografia lunga sessant'anni: Cry Macho. Non Ciao maschio, alla Ferreri, il quale nei Settanta del secolo scorso aveva capito che aria tirava, per gli uomini tallonati dalle femministe, ma due parole secche e riassuntive del Clint-pensiero. Tutt'altro che rassegnato: «Grida forte come un macho». Fatti sentire, maschio. Di' la tua, tra i cactus del Messico, dove si ambienta l'erigendo film. Fosse l'ultima cosa che fa, dopo aver infilato un lavoro dietro l'altro, «Dirty Harry» si conferma leggenda vivente e icona pop con una storia foraggiata dalla Warner Bros. E prodotta dalla sua Malpaso Production, insieme al quasi coetaneo Al Ruddy e a Jessica Meier. La sceneggiatura è firmata da Nick Schenk, già autore di Gran Torino (2008), uno dei film più belli di Eastwood, e del recente The Mule. Il corriere (2018): in entrambi, Clint figurava come regista e protagonista. Schema che si ripete in Cry Macho, ispirato dall'omonimo romanzo di N. Richard Nash, autore morto nel 2000, non senza aver messo mano alla sceneggiatura insieme a Schenk. Tale progetto, infatti, rimbalza da tempo a Hollywood: in pole position, all'inizio, c'era Arnold Schwarzenegger, che poi entrò in politica, diventando governatore della California. Doveva interpretare lui il ruolo centrale di Mike Milo, addestratore di cavalli ormai al tramonto ed ex-star dei rodei, che accetta i 50mila dollari d'ingaggio, da parte del suo ex-boss malavitoso, per riportargli il figlio Rafo. Un ragazzo fragile, che vive con la madre alcolizzata a Città del Messico e che va ricondotto in Texas, dal padre: deve diventare un uomo, non un femminuccia in balia di un'ubriacona. Una storia di formazione, dunque, con i consueti buoni sentimenti eastwoodiani e, sostanzialmente, americani, però non ipocriti o melensi, che fanno da sfondo ai racconti cinematografici di Clint. Il quale pensava a Cry Macho dal 1988, però aveva dovuto girare il quinto e ultimo episodio dell'Ispettore Harry Callaghan, Scommessa con la morte, e tutto era scivolato a data da destinarsi. Nel frattempo il regista, attore e produttore noto per la rapidità con cui gira, ha consegnato vari film importanti, tra i quali i recenti The Mule, thriller dov'era un corriere della droga, e Richard Jewell, dramma sull'eroe delle Olimpiadi di Atalanta. Storie vere, realmente accadute, com'è nello stile di questo cantore dell'universo americano, basato su valori fondanti come la lealtà, l'amicizia, l'amore per il proprio paese, la voglia di riscatto. E infatti il giovane Rafo di Cry Macho, traversando i deserti a cavallo col suo anziano mentore, diventerà un uomo migliore, legandosi all'esperto Milo di un sentimento profondo, fra gratitudine e rispetto. Né mancano sfide e rodei, man mano che i due si avvicinano al Texas, forzando posti di blocco messicani. Se il libro di Nash è uscito nel 1975, Eastwood ambienta nel 1978 l'intera vicenda, quando i cartelli della droga, in Messico, non spadroneggiavano in modo tanto sfrontato come avviene oggi. Naturalmente, le anime belle del politicamente corretto iniziano ad attaccare questo film, che dovrebbe vedere la luce il prossimo inverno. E in Rete si leggono commenti sul fatto che la produzione è rappresentata da uomini bianchi, senza neanche un latinoamericano a bordo. Non si gira forse in Messico? Fuori la quota relativa. L'industria del cinema mondiale è in crisi nera, ma se si muove un tesoro nazionale come Eastwood l'ala più estrema della «sensitivity culture» è pronta a dargli addosso. A partire da quel titolo, con «macho» dentro: quanto ego maschilista, quanta arroganza da uomo arcaico, che dovrebbe raccomandare l'anima a Dio e invece eccolo qua. A «trattare gli attori come cavalli», stando a Tom Hanks, il quale ancora ricorda, un po' con terrore, un po' con ammirazione, i modi spicci di Clint sul set di Sully (2009), dove Hanks impersonava il pilota Sullenberger, che precipitando col suo aereo nel fiume Hudson riuscì a trarre tutti in salvo, divenendo eroe nazionale: un'altra storia vera. Però il buon Tom, di recente infettato dal Covid-19, è rimasto impressionato da quell'esperienza. «A voce bassa bassa, Eastwood dice Azione!; invece di taglia!, dice ce n'è abbastanza. E tu ti senti un cavallo, che deve rientrare subito alla stalla». Eppure, i tempi veloci di regia sono un marchio di fabbrica, per Clint, cinque volte Premio Oscar, sette nominations - da Mystic River a Lettere da Iwo Jima e American Sniper - e notevoli incassi al botteghino. «L'America ha bisogno del business del cinema e il business del cinema ha bisogno degli Stati Uniti», ripete il produttore Al Ruddy, al quale piacque la sedia vuota lasciata dall'amico Clint alla Convention dei Repubblicani. Inoltre, Eastwood non gira reboot, remake o franchise: fa i suoi film e basta. Prendere o lasciare. È un «macho geriatrico», come scrivono le femministe negli Usa? Sarà, ma per l'autore di San Francisco, bello che incartapecorito, non è ancora suonato il gong.

Clint Eastwood "con e senza cappello", i 90 anni dell'impassibile protagonista del cinema. Pubblicato sabato, 30 maggio 2020 da Roberto Nepoti su La Repubblica.it L'attore, che ha trasformato il suo sguardo di ghiaccio in un simbolo, diventando icona come e più dei miti del cinema, non molla: dietro la macchina da presa è ancora un indomabile eroe del grande schermo. In una scena di Assassinio sull’Eiger, da lui diretto e interpretato quando aveva la metà esatta degli anni che festeggia oggi, Clint Eastwood riempie di botte senza preavviso un tipo grande e grosso. Motiva così la dura lezione: “Non mi piace averti accanto, perché mi fai paura. E non mi piace avere paura…”. Della paura, come di qualsivoglia altro sentimento, non aveva dato però il minimo segno, mantenendosi impassibile come lo sarà per il resto del film, anche in situazioni di estremo pericolo. Ecco, è questo il segreto di Eastwood quando sta dalla parte visibile dello schermo: caratteristica che non farà di lui un grande attore ma ne fa - forse - qualcosa di più, ossia un’icona, un’immagine di marca scolpita nella memoria dello spettatore (avete notato che tutti lo chiamiamo, confidenzialmente, solo “Clint”?). Consapevole dell’effetto che produce la sua impassibilità, Eastwood sceglie di essere una faccia di pietra, un Buster Keaton del cinema d’azione più efficace ancora dei vari attori del 'metodo' (i DeNiro, i Pacino), così fieri della propria capacità di dar volto a mille emozioni. A volerla fare sofisticata, le premesse ci sono già nei primi anni della carriera di Clint, quando il giovane e avvenente attore passa in genere inosservato. Sfogliandone la filmografia, spesso accanto ai titoli dei film troviamo un non accreditato (Lady Godiva, Tarantola, Esecuzione al tramonto, Scialuppe a mare, Duello nell’Atlantico…). Escluso dai titoli di testa, i fan lo riconosceranno in quelle pellicole una volta che Clint sarà diventato Clint. Arrivato in Italia dopo la serie tv western Rawhide, Eastwood metterà la sua faccia imperturbabile al servizio del Pistolero senza nome e del Biondo nella Trilogia del dollaro, sottolineata dal doppiaggio flemmatico del grande Enrico Maria Salerno. Leone ci ironizzava su (notissima la sua frase “Clint ha due sole espressioni: col cappello e senza”), però sapeva bene quanto carisma conferisse al suo protagonista quell’espressione da maschera giapponese, che contribuì in maniera decisiva al successo dei suoi (per l’epoca) insoliti western. Visti i risultati, Eastwood non cambia espressione nei film che in cui mette il nome - bello grande, adesso - una volta tornato in America, diretti dal suo altro mentore, Don Siegel, poi da lui stesso: dalle metropoli infestate dal crimine della saga di 'Dirty Harry' Callaghan (“go ahead, make my day” sibila minaccioso ai criminali, senza muovere un muscolo facciale in Coraggio…fatti ammazzare), alle praterie del Far West (Gli avvoltoi hanno fame, Lo straniero senza nome, Il texano dagli occhi di ghiaccio), alle carceri di massima sicurezza (Fuga da Alcatraz). Mai come in quest’ultimo film, il monolitismo del suo personaggio si chiarifica come una forma di stoicismo senza compromessi, virile e un tantino giustizialista, cui Clint non verrà meno neppure quando si farà coinvolgere in una love-story con la casalinga Meryl Streep (I ponti di Madison County). Col tempo, soprattutto quando sarà regista di sé stesso, il suo uomo a una dimensione si affinerà (Million Dollar Baby, Gran Torino): senza mai rinunciare, però, al pudore e al riserbo di un character che, alle parole, preferisce decisamente l’azione. A volte, sullo schermo, lo abbiamo visto ironico o sarcastico: ma chi potrebbe immaginarlo a gigioneggiare o a fare il buffone come l’amico Burt Reynolds, col quale condivise la stardom del buddy movie Per piacere… non salvarmi più la vita?. Debuttante nella regia mezzo secolo fa, col thriller Brivido nella notte, nei decenni Eastwood si è guadagnato i galloni di autore a tutto tondo dirigendo una quarantina di film, due dei quali premiati con l’Oscar alla regia. Anche se cinema di un maestro universalmente riconosciuto, tuttavia, il suo è un cinema 'stoico' come il personaggio portato sullo schermo; e forse come l’uomo, che a novant’anni è ancora in piena attività. La sua filmografia da director presenta una caratteristica rara per onestà e - vorremmo dire - umiltà. Al contrario della grande maggioranza degli autori conclamati, Clint non cerca mai di piegare il film al proprio servizio, ma si mette al servizio dei film. A provarlo basta contare quanti sono i suoi titoli ascrivibili a un genere cinematografico: di cui Eastwood non si vergogna affatto di rispettare codici e regole, pur dando ad essi la propria impronta personale. Nutrito alla vecchia scuola hollywoodiana, ama aggirarsi nei confini del western (genere in disuso, che lui riportò al successo con Il cavaliere pallido e che, con Gli spietati, gli fece vincere un Oscar), del biopic (Bird, J.Edgar), del melodramma (Un mondo perfetto, i già citati Ponti di Madison County e Million Dollar Baby), del film di guerra (Gunny, la splendida duologia Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima: film personalissimo, questo, ma per il quale Clint non sarebbe mai ricorso e espedienti autoriali come quelli del collega Terrence Malick). Anche da regista, come da pistolero solitario o da ispettore della polizia di San Francisco, Eastwood è interessato soprattutto a fare nel migliore dei modi il suo lavoro. Un lavoro a volte sporco, a volte entusiasmante; ma che, con spirito saldamente calvinista, lui fa sempre apparire una questione di moralità.

Clint Eastwood compie 90 anni, la leggenda del cinema fu scoperta da Sergio Leone. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 31 Maggio 2020. «Alla fine della mia vita diranno: era l’uomo arrivato dal nulla… Se n’è andato come è venuto». Clint Eastwood – il volto dello straniero senza nome, l’eroe-fantasma venuto dal nulla e tornato nel nulla – compie novant’anni, ma non sembra intenzionato a scomparire. Il 31 maggio del 1930 nasceva una leggenda della storia del cinema, l’ultimo dei classici viventi, capace di risimbolizzare all’infinito i generi tradizionali e fondativi del paradigma occidentale, dall’epopea western alla tragedia greca. La carriera dal grande attore-regista è iniziata ufficialmente nel 1964 con il mitico primo piano degli occhi di ghiaccio del pistolero con poncho e toscanello di Per un pugno di dollari di Sergio Leone. «Ha soltanto due espressioni, una con il cappello, una senza cappello»: è rimasta famosa la battuta del regista del western all’italiana. Leone ha confessato che avrebbe preferito Henry Fonda per il suo Joe, non quel «blocco di marmo» inespressivo. Ma, come ricorda Eastwood: «Leone credeva, come Fellini, e come molti registi italiani, che la faccia significasse tutto. In molti casi è meglio avere una gran bella faccia piuttosto che un gran bravo attore». Infatti, il pubblico si innamorerà di quel volto, della sua espressione enigmatica e della sua fisionomia tormentata. La recitazione verbale ridotta al minimo – fatta di pochi termini bofonchiati e di battute lapidarie, sibilate con voce roca – rimarrà la cifra anche delle sue interpretazioni future. Così come l’eroe solitario e individualista, disilluso e scontroso, che si fa beffe perfino della morte, continuerà a comparire nella produzione successiva. Lo spettro del cowboy che detesta le autorità ufficiali, ma rimane fedele alla sua etica personale e il fantasma del pistolero senza padrone che si scontra con il sistema per seguire la sua idea di Bene popolano la sua cinematografia matura. L’ultima fatica è del 2019 e lo vede dietro la macchina da presa, nella trasposizione della tragica vicenda giudiziaria di Richard Jewell, ingiustamente sospettato di aver provocato una strage per il puro piacere di diventarne l’eroe. Un caso di gogna mediatica e di giustizialismo crudele, dove la vita di un innocente viene sbattuta in prima pagina, sezionata dai giornalisti e utilizzata dagli agenti dell’F.B.I. in cerca di un colpevole prêt-à-porter. L’eroe eastwoodiano, ancora una volta, è un uomo solo, fragile e impotente – asfissiato dalle spire del tentacolare potere statale e mediatico – che non smette però di lottare per la verità, in difesa della sua dignità contro tutto e tutti. Dalla Trilogia del dollaro ad oggi, Clint Eastwood è stato interprete di più di settanta pellicole, regista di più di quaranta film, tutti autoprodotti dalla sua Malpaso Production. Uno, nessuno, centomila: Clint Eastwood ha incarnato innumerevoli personaggi iconici, amatissimi dal pubblico internazionale e spesso snobbati dalla critica ufficiale. Dall’Ispettore Callaghan, il fuorilegge che rappresenta la legge con la sua fedele 44 Magnum, al pistolero in pensione William Munny de Gli Spietati, consacrato da quattro Oscar; dalla struggente storia d’amore del fotografo freelance dei Ponti di Madison County, al ruvido allenatore che sussurra «Mo Cuishle, mio tesoro, mio sangue» alla sua Million Dollar Baby immobilizzata in un letto di ospedale. Fino al misantropo ottantenne, reduce della guerra di Corea, che riscatta la sua vita tramite il sacrificio nel finale di Gran Torino. Eastwood è il cantore dell’America: ha raccontato le tante sfumature dell’identità statunitense, dalle radici archetipiche dell’immaginario West alle imprese belliche della sua storia recente, passando per le microstorie di eroi americani sconosciuti. In questo ventaglio di narrazioni diverse, c’è una cifra comune: le «belle storie», come ama definire i suoi film, non si limitano a fotografare una realtà socialmente e geograficamente condizionata, ma riescono a comporre una melodia della condition humaine che suona come universale. Le sue narrazioni disegnano una «riflessione sul senso della vita e della morte» senza tempo e senza spazio. Eastwood utilizza i grandi temi della tragedia antica – la colpa, la vendetta, il destino, il sacrificio, l’espiazione – per trasformare la singolarità contingente in paradigma universale. Per questo Clint Eastwood non è solo un grande regista americano, ma un vero e proprio pensatore contemporaneo. Come ha scritto Giorgio Agamben nel suo saggio Che cos’è il contemporaneo?, un autore appartiene veramente al suo tempo «se non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese». Eastwood è perfettamente “contemporaneo” perché sa mettere in discussione ciò che presumiamo di sapere sul nostro tempo e su noi stessi. Un vero filosofo “inattuale”. Le questioni etiche affrontate dal suo cinema non scadono mai nel facile e scontato moralismo. Il suo discorso morale è sempre un discorso complesso e contraddittorio. «Nel giardino del bene e del male», parafrasando il titolo di un suo film poco conosciuto, i confini tra eroi e criminali sono sfuggenti, la dicotomia tra giusto e sbagliato è costantemente messa in discussione. La semplicità senza orpelli del suo linguaggio e la crudezza limpida della sua poetica riescono a sfuggire al politicamente corretto e a dar conto della complessità del reale. Non c’è mai una soluzione univoca al riparo dal dubbio. Anarchico, libertario, individualista: Eastwood è fedele solo a se stesso. La sua passione, molto americana, per la libertà come possibilità di fare e di essere ciò che si vuole, è una costante messa alla prova, una sfida personale, un confronto senza requie con la responsabilità di scegliere e di agire. Nel ginepraio delle infinite possibilità, ci si può riscattare e ci si può perdere. Siamo liberi di ritrovarci, ma anche colpevoli di smarrirci. Gli eroi di Eastwood seguono la propria vocazione e il proprio desiderio. Non si rassegnano e scendono in campo, anche se il mondo finirà per travolgerli, anche se subiranno lo scacco del destino, anche se saranno sconfitti, anche se non c’è salvezza. I suoi film tratteggiano con maestria la meravigliosa tragicità della condizione umana. Il nichilismo leopardiano dei suoi eroi è racchiuso nella virtù della “tenacia”: letteralmente, “tengono fermo” il timone nella tempesta pur nella consapevolezza che, alla fine, saranno travolti dalle onde. E Invictus, la poesia che Mandela legge e rilegge durante gli interminabili anni di prigionia (ma anche il titolo della biopic che Eastwood, nel 2009, dedica allo statista sudafricano, interpretato da Morgan Freeman), racchiude il senso dell’eroe eastwoodiano che sfida lo spettatore: «Sono padrone del mio destino, capitano della mia anima».

Benedetta Perilli per d.repubblica.it il 3 giugno 2020. Quando nel dicembre del 1953 Clint Eastwood sposa la segretaria Margaret Neville Johnson, conosciuta in un appuntamento al buio, a Seattle una donna aspetta la prima figlia dell'attore e regista che il 31 maggio 2020 compie 90 anni. Un inizio folgorante per una carriera sentimentale movimentata ma tenuta lontana dai riflettori grazie a un misurato gioco di rapporti con ex mogli e figli segreti poi riconosciuti al momento giusto. Clint Eastwood non è solo l'uomo dallo sguardo di ghiaccio e dal sorriso tirato da cowboy, è anche e soprattutto un uomo incapace di vivere senza una donna. Tanto che viene quasi da contrapporlo a Marlon Brando, un altro ragazzaccio di Hollywood che di donne, figli - e nel suo caso anche uomini - ne ha avuti altrettanti ma li ha vissuti con un impeto ben diverso. Per Eastwood la regola è la sobrietà al punto che forse non tutti i suoi numerosi fan conoscono la sua vita sentimentale che a 90 anni può riassumersi più o meno così: due mogli, otto figli, tantissimi amori quasi sempre sovrapposti. Tutto inizia nel 1953 con il matrimonio con Margaret e la nascita della prima figlia, Laurie, avuta da una fidanzata di Seattle e presentata ufficialmente, anche ai sette fratelli, solo nel 2018 in occasione dell'anteprima mondiale del film "Il corriere" (nella foto qui sotto). Nel 1955 è già tempo per la prima relazione extraconiugale con l'attrice Mamie Van Doren mentre il matrimonio continua tra alti e bassi e una indiscussa volontà di Margaret di sopportare i tradimenti. Nel 1959 uno di questi si trasforma in una storia lunga 14 anni con la ballerina e stuntwoman Roxanne Tunis che nel 1964 diventerà madre di Kimber, la prima figlia riconosciuta da Eastwood. Gli amici della coppia definiscono quello con Margaret un matrimonio aperto per volere di entambi, fatto sta che nella metà degli anni Sessanta la moglie avvia le pratiche per la richiesta di divorzio. La crisi poi rientra e nel frattempo nascono i due figli, Kyle nel 1968, e Alison, nel 1972 e continuano i tanti tradimenti. Con la nuotatrice Anita Lhoest, con la critica gastronomica Gael Greene, con la modella francese Cathy Reghin, con le attrici Inge Stevens, Jean Seberg e persino con Catherine Deneuve. Nel 1978 Margaret chiede la separazione e nel 1984 ottiene il divorzio. Tra tante donne ce ne è una che nel 1975 riesce a far innamorare Clint. È l'attrice Sondra Locke, sposata con uno scultore gay. I due vanno a convivere nella casa che era stata di Margaret e recitano insieme in tanti film tra i quali L'uomo nel mirino, Filo da torcere, Bronco Billy. "Eastwood mi confessò che prima di incontrarmi non era mai stato fedele a una donna perché non si era mai innamorato", ha raccontato nella sua biografia Locke. C'è chi giura che le sia rimasto fedele veramente, almeno dal 1976 al 1980, e chi invece ricorda proprio in quegli anni alcuni flirt, in ogni caso anche questa storia finisce e stavolta davvero male. Tra le cause della separazione il mancato divorzio dell'attrice con il marito - che intanto viveva con il compagno in una casa acquistata da Eastwood - e il no di Clint a seguire una terapia di coppia. Sondra nel 1989 avvia una causa legale molto movimentata per farsi riconoscere gli alimenti nonostante le mancate nozze ma nel frattempo l'attore non rinuncia a varie scappatelle tra le quali quella con Jacelyn Reeves, hostess hawaiana con la quale fa due figli Scott, nel 1986, e Kathryn, nel 1988. Altri brevi, e notevoli, flirt di quegli anni sono quello con Barbra Streisand, con Marisa Berenson e con Barbara Minty, la vedova di Steve McQueen. Nel 1990 è tempo di una nuova storia seria stavolta con l'attrice Frances Fisher. Durerà circa cinque anni e sarà una relazione non esclusiva. "Sentii che era lui il grande amore. Non sapevo che probabilmente tutte le altre avevano sentito la stessa cosa", ha commentato Fisher. Nel 1993 nasce Francesca ed è la prima figlia che Clint Eastwood vede nascere. Nel 1995 la relazione finisce e prima che Frances riesca a uscire dalla casa in cui viveva con l'attore, lui sta già frequentando quella che diventerà la sua futura e seconda moglie. È Dina Ruiz, giornalista televisiva di 35 anni più giovane di lui, conosciuta durante un'intervista nel 1993 e sposata nel 1996. "Era quella che stavo aspettando", commenta lui; "Il fatto di essere la sua seconda sposa mi commuove", risponde lei. Nel 1996 nasce la figlia Morgan, nel 2013 l'annuncio della separazione e nel 2014 arriva il divorzio. Prima dell'ultima relazione ufficiale Clint frequenta la fotografa Erica Tomlinson Fisher, di 41 anni più giovane, per poi conoscere nel 2014 la donna che ancora oggi è felicemente al suo fianco. Si tratta di Christina Sandera, impiegata nel ristorante di proprietà del regista a Carmel. Ha 33 anni in meno di Eastwood e vive con lui nella stessa casa dove viveva con l'ex moglie Dina. Un lupo che a 90 anni non ha nessuna voglia di perdere il vizio.

Roberto Croci per il Venerdì- la Repubblica il 15 gennaio 2020. Il 27 luglio 1996, nel corso di un turno di perlustrazione durante le Olimpiadi di Atlanta, la guardia giurata Richard Jewell scopre uno zaino sospetto contenente un congegno esplosivo. La sua prontezza di riflessi riesce a evitare un massacro e viene immediatamente mostrato in tv come un eroe nazionale. Tre giorni dopo però, nonostante la mancanza di prove, diventa il sospettato numero uno del mancato attentato, accusato di terrorismo da Fbi e media americani. Dopo 88 giorni di inferno mediatico e interrogazioni martellanti, Jewell viene assolto da ogni accusa, ma reputazione e salute rimarranno per sempre segnate fino alla sua morte, avvenuta nel 2007. Il film Richard Jewell, nelle sale italiane dal 16 gennaio, è diretto da Clint Eastwood (alla 40ª pellicola dietro la macchina da presa), ed è basato su un articolo di Marie Brenner pubblicato su Vanity Fair nel 1997. Nel cast un bravissimo Paul Walter Hauser, Kathy Bates, Sam Rockwell, Jon Hamm e Olivia Wilde. Ecco un altro eroe, un uomo accusato ingiustamente, additato come colpevole ancora prima di aver potuto provare la propria innocenza. Mr. Eastwood perché a 89 anni ha voluto girare questo film? «Per me era una storia importante da raccontare perché Richard è una persona con cui tutti possiamo identificarci. È un uomo comune che si guadagnava la vita onestamente, studiando per diventare poliziotto e per essere membro produttivo della società. Aveva pregi e certamenti difetti, ma non certo peggiori di quelli della maggior parte di noi. Erano anni che volevo fare questo film, ma per vari motivi non c' ero finora mai riuscito. Alla fine è stato meglio così: fino a quattro anni fa questo film non avrebbe avuto la stessa rilevanza di oggi. Ciò che sta succedendo nella nostra società lo rende un soggetto molto attuale».

Perché era importante rendere giustizia a Jewell?

«Ho sentito come un mio dovere morale raccontare la verità, perché sua mamma Bobi e i suoi amici meritavano giustizia. Richard viveva una vita tranquilla, finché in un secondo diventa una star, amata da tutti. Poi, con la stessa forza, improvvisamente, la sua vita diventa un inferno, gli viene portato via tutto, non solo il lavoro e il diritto a una vita normale, ma anche la dignità. Viene abusato, deriso perché vive con la madre, con cui aveva un rapporto di amicizia stupendo. Chiunque farebbe il tifo per lui, non solo per l' aspetto tragico della situazione, ma anche per quello umano».

Oggi siamo subissati di fake news. Quello che è successo a Richard potrebbe essere considerata la "prova generale" in un' epoca in cui internet non era così pervasivo?

«Certo, è una storia pertinente come lo era 23 anni fa, soprattutto per le ingiustizie che ha dovuto subire. Curioso come un giorno sei in cima al mondo e qualche ora dopo tocchi il fondo. Oggi sarebbe molto più facile costruirla: racconti una piccola storia che nel giro di qualche ora, grazie ai social media, diventa virale, fino a esplodere. Richard fu ritenuto colpevole ancora prima di aver esaminato i fatti. Il venir accusato ingiustamente è sempre l' inizio di una storia drammatica».

Perché per il ruolo principale ha scelto Paul Walter Hauser?

«Avevo visto I, Tonya, con Margot Robbie e mi era piaciuto molto. Mi ricordavo di Paul, anche se non avevo fatto caso alla sua incredibile somiglianza con Jewell. La prima volta che l' ho visto di persona rimasi sconvolto, avrebbe potuto essere suo fratello. Paul è nato per interpretare questo ruolo, anche la mamma di Richard quando lo ha incontrato è rimasta scioccata. Dopo aver trovato Paul abbiamo cercato il resto del cast, è stato un processo molto veloce, nel giro di qualche settimana abbiamo iniziato a girare».

Il suo ultimo ruolo come attore in The Mule è del 2018. Recitare le interessa ancora?

«A 89 anni sono arrivato al punto che posso scegliere solo i ruoli che mi piacciono davvero! Come regista posso raccontare le storie che voglio, come attore devo aspettare il ruolo giusto, alla mia età purtroppo non ci sono molte parti interessanti e non ci sono molti sceneggiatori disposti a scrivere copioni per un anziano come me. A spingermi a recitare, forse, è anche la speranza di interpretare il ruolo che mi porterà a prendere l' Oscar come migliore attore! (Eastwood ne ha vinti già quattro nella categoria regia e miglior film, ndr.). Ogni ruolo è l' occasione per puntare il dito su un soggetto importante. Quando ero giovane c' erano molti registi disposti a rischiare, oggi mi reputo fortunato quando posso raccontare come è avvenuto in Gran Torino, una storia vera con dei valori solidi».

Dirigere non le pesa?

«Mi hanno fatto spesso questa domanda negli ultimi 20 anni. Forse perché alla mia età la maggior parte della gente si accontenta di giocare a golf. Non fraintendermi, sono un appassionato di golf e gioco ancora bene. Però spesso mi chiedono perché non vado in pensione. Sono una persona curiosa, lo sono sempre stata, mi piace scoprire cose nuove, espandere gli orizzonti. Credo che il segreto della mia longevità sia proprio questo, e lo raccomando a tutti: non fermatevi, non accontentatevi, cercate sempre nuovi stimoli, perché sono quelli che danno la possibilità di rimanere creativi e di continuare a esprimere se stessi. Mi piace dirigere perché così evito di guardare la mia faccia sullo schermo! Se fossi rimasto in Italia e avessi fatto solo film western non credo avrei avuto la stessa carriera, probabilmente mi avrebbero dimenticato dopo qualche anno. Essere attore è un lavoro in cui devi concentrati sui particolari. Come regista devi invece essere capace di coordinare tutti questi dettagli e creare la tua visione di insieme».

A proposito della sua esperienza italiana. Come la ricorda?

«Incredibile, quando ci ripenso mi commuovo. Dopo il mio primo ruolo importante nella serie tv Gli uomini della prateria del 1959, sono partito per l' Italia a lavorare con Sergio Leone, di cui ho dei bellissimi ricordi e che ringrazierò sempre per aver cambiato il corso della mia carriera con film importanti. Ho lavorato anche con Vittorio De Sica, un regista che mi ha permesso di imparare a guardare le cose da diversi punti di vista, tutte esperienze che mi sono servite quando ho iniziato a dirigere».

Quando pensa alla sua eredità di filmmaker come la vede?

«Non ho idea! (lo dice in perfetto italiano, ndr.). Non sta a me decidere se qualcuno continuerà ad apprezzare il mio lavoro o se tra 30 anni i miei film saranno ancora rilevanti. Vivo un giorno alla volta, cercando di fare il mio meglio. È sempre più difficile trovare materiale interessante da adattare allo schermo, ma quando trovo qualcosa allora mi impegno al massimo per raccontare una storia che possa lasciare un segno, che abbia un messaggio, anche minimo, anche solo per provocare una discussione. In questo mestiere bisogna avere molta pazienza».

Il miglior consiglio che abbia mai ricevuto?

«È stato di Don Siegel, che mi ha diretto in tanti film tra cui l' Ispettore Callaghan, La notte brava del soldato Jonathan e Fuga da Alcatraz. Era sul set mentre giravo Brivido nella notte, il mio primo film da regista. Mi ha detto di non pensare solo al bene degli attori ma anche al mio. "Divertiti, se tu stai bene, tutti saranno felici". Aveva ragione, ed è un consiglio che uso ancora ogni giorno».

Richard Jewell: 88 giorni in inferno. La vera storia dietro al film di Clint Eastwood. Quanto i personaggi rispecchiano i veri protagonisti? Cerchiamo di rispondere. Mentre i colleghi di Kathy Scruggs protestano. Simona Santoni il 16 gennaio 2020 su Panorama. Piove sul bagnato. La vita ce lo dimostra spesso. Richard Jewell, il nuovo film di Clint Eastwood dal 16 gennaio al cinema, è l'amara commovente conferma. Per noi italiani la vicenda di cronaca e umana raccontata è probabilmente poco viva nelle memorie. Era il 27 luglio 1996, prima della soglia di allerta massima scaturita dagli attentati alle Torre gemelle. Le Olimpiadi di Atlanta erano in corso, quando al Centennial Olympic Park cittadino, durante un concerto, scoppiò una bomba che uccise due persone e ne ferì 111. Il bilancio dell'attentato terroristico sarebbe stato ben più grave se la guardia di sicurezza Richard Jewell non avesse scoperto lo zaino che conteneva la bomba e avesse contribuito ad evacuare la zona più prossima. Aspirante poliziotto allontanato da più posti di lavoro per la sua fissazione ostinata per la giustizia, Richard Jewell era un ragazzone oversize, ingenuo e laborioso, che viveva con la mamma Barbara, detta Bobi. Celebrato come un eroe nazionale da stampa, tv e gente comune, purtroppo quella ricompensa della vita durò pochissimo. Poco dopo, divenne l'indiziato principale dell'Fbi, con titoloni di giornali che si chiedevano se fosse angelo o demone. "Hai potuto essere fiera di tuo figlio solo per tre giorni", dice a sua madre (interpretata da Kathy Bates, candidata all'Oscar come migliore attrice non protagonista) il Richard Jewell (Paul Walter Hauser) di Eastwood.

Com'è il film di Clint Eastwood. Clint il suo lo fa sempre. Con asciuttezza e tanta sostanza ricostruisce ed emoziona. Il suo obiettivo e punto di vista è chiaro sin da subito: Richard Jewell è il buono da riabilitare. È la vittima di un mondo che infanga con superficialità sprovveduta, senza calcolare le conseguenze intime delle proprie parole. Richard Jewell è bizzarro, picchiatello, ma è dalla parte del bene. E noi, insieme a Clint, lo adoriamo dall'inizio alla fine. Soffriamo con lui. È altrettanto evidente, chi sia invece il male secondo Clint: è il giornalismo rapace, rappresentato dalla cronista interpretata con estrema troppa esuberanza da Olivia Wilde. Clint, se sa essere sfumato nei riguardi di Richard o verso il suo eccentrico avvocato Watson Bryant (Sam Rockwell, di intensità catalizzatrice), si dimentica spesso di esserlo nei confronti di quella giornalista che probabilmente avrà sbagliato ma, come tutti gli umani, oltre alle ombre avrà avuto luci. 

Il vero Richard Jewell. Richard Jewell, classe 1962, aveva 33 anni quando è diventato celebre in tutti gli States. Clint lo coglie nella sua essenza di uomo comune. Era un aspirante poliziotto che ha lavorato per la sicurezza e per uno sceriffo, ma non è mai stato rispettato come avrebbe voluto. Proprio la sua stima profonda per le forze dell'ordine, lo aveva portato a riporre fiducia nei suoi accusatori. È diventato presto preda facile delle fauci da lupo dell'Fbi, ansiosa di trovare subito un colpevole, e della voracità mediatica. Lo sceneggiatore Billy Ray ha basato il suo lavoro su un articolo di Vanity Fair del 1997 di Marie Brenner. La giornalista, che all’epoca è intervenuta sul posto dell’accaduto e ha trascorso del tempo con Richard, sua madre e l'avvocato Watson Bryant, ricorda: "Nel 1996, le forze dell'ordine erano affascinate dalla teoria dell’analisi comportamentale, così nella frenesia post attentato che aleggiava nel bureau, hanno pensato che questo ragazzo molto dolce e un po' strano che ha trovato il dispositivo, rispecchiasse il profilo dell’attentatore solitario. Poi è diventata una caccia alle streghe". Dopo 88 lunghi giorni di tentativi di incastrarlo, Richard Jewell è stato completamente assolto. Fu interrogato davvero da agenti che fingevano di farlo partecipare a un video di formazione sulle bombe. 

Eccolo, il vero Richard Jewell: La morte prematura. Il vero attentatore. Anche se Jewell ha riabilitato il suo nome, molte persone hanno continuato a pensare che avesse avuto a che fare con l'attentato. Jewell è morto nel 2007 all'età di 44 anni dopo complicazioni dovute al diabete. Ma anche quella che per certi versi sembrò la sua principale nemica, la giornalista Kathy Scruggs dell'Atlanta Journal-Constitution, è morta prematuramente, nel 2001 a 42 anni per overdose di morfina. I suoi amici hanno detto che non si riprese mai dalla bufera che contribuì a sollevare. Il vero attentatore fu Eric Rudolph, estremista americano cattolico anti-aborto e anti-gay, che poi si macchiò di altri attentati, arrestato nel 2003. Attualmente è in carcere, con quattro ergastoli, all'ADX Florence Supermax di Florence, Colorado. Paul Walter Hauser, attore che abbiamo già visto in Tonya, per prepararsi alla parte ha trascorso del tempo con la madre di Jewell, durante le riprese. Ha dovuto anche prendere un po' di peso per assomigliare di più a Jewell (era già ingrassato per Tonya, per poi dover dimagrire per Da 5 Bloods di Spike Lee).

L'avvocato volitivo Watson Bryant. Nella vita reale Richard si è avvalso di più legali, ma ha iniziato il suo calvario con Watson Bryant, avvocato suscettibile e testardo con cui nacque un forte legame. Di fatto era l’unico di cui Richard e Bobi si fidassero totalmente. Bryant, che ora ha circa 60 anni, è ancora vivo, è rimasto vicino a Bobi Jewell e ha lavorato come consulente del film. Rockwell, che lo interpreta, ha avuto la possibilità di conoscerlo. Prima di rappresentarlo in tribunale, Bryant aveva conosciuto Jewell quando lavorava negli uffici della Small Business Administration di Atlanta. Contattato da Style Weekly ha detto: "Quello che voglio è che tutti in America sappiano che Richard Jewell è un eroe. Come sarò interpretato, non me ne frega niente". E ancora: "Sono diventato avvocato personale di Richard. Sono il primo che ha chiamato. Hanno esagerato con questo ragazzo... c'erano molte notizie false, ancor prima che le fake news fossero definite così. È stata una corsa al giudizio".

Bobi Jewell, la madre. Come Rockwell e Bryant, anche la Bates ha avuto la fortuna di conoscere la vera Bobi Jewell. "Quando ho parlato con Bobi, mi ha detto che ciò che ha passato Richard ha contribuito alla sua morte prematura. E potrebbe succedere a chiunque", ha raccontato l'attrice. "Era un ragazzo che per tutta la vita ha aspirato a diventare poliziotto, voleva prendersi cura delle persone, aiutarle. Era talmente premuroso che la gente pensava che fosse strano; hanno ribaltato la situazione attribuendogli tutti i connotati del profilo di un assassino”. All'epoca dei fatti, Bobi Jewell aveva circa 60 anni, oggi ne ha 83. Al Los Angeles Times, Bates ha riferito: "Anche dopo tutti questi anni, è ancora davvero dura per Bobi, ha pianto parecchie volte mentre mi raccontava alcuni aneddoti". Bates ha rivelato che Bobi Jewell ha corretto alcune parti della sceneggiatura (ad esempio, ha notato che non ha mai chiamato "tesoro" suo figlio). 

La reporter Kathy Scruggs e le proteste del suo giornale. Olivia Wilde interpreta la reporter dell'Atlanta Journal-Constitution Kathy Scruggs. Scruggs fu la prima a riferire che Jewell era sospettato dell'attentato al Centennial Olympic Park. La giornalista è ritratta come rumorosa, cinica, sfacciata e in cerca di qualche grande notizia da cavalcare. Fa male alle orecchie la battuta messagli in bocca dallo script, subito dopo l'attentato: "Gesù, chiunque sia l'attentatore fa' che sia un tipo interessante".  Non sappiamo come davvero fosse Kathy, ma chi la difende accusa il film di Eastwood di sessismo per lasciar pensare che ottenne informazioni dall'agente dell'Fbi in cambio di sesso.  Kevin Riley, l'editor dell'Atlanta Journal-Constitution, ha descritto Scruggs come una "giornalista aggressiva e impegnata che cercava sempre di battere la concorrenza". Ma è furioso per la rappresentazione che il film ne fa e per le allusioni sessuali: "Sono rimasto sbalordito. Nessuno ha mai detto che Kathy abbia fatto qualcosa del genere". Ha definito il modo in cui Scruggs è stata ritratta nel film "straordinariamente sconsiderato". Il fratello della giornalista, Lewis Scruggs, che ha più volte descritto la sorella come una ribelle, ha detto di non esser mai stato contattato dalla produzione del film per avere una testimonianza diretta su Kathy. "Sono il fratello di Kathy Scruggs e l'unico membro rimasto della nostra famiglia", ha detto. "Trovo interessante che la signora Wilde, durante la sua vasta ricerca su Kathy, non si sia preoccupata di contattare me o nessuno degli amici più intimi di Kathy".

·        Cochi e Renato.

 

Cochi Ponzoni: «Io e Renato senza eredi. La nostra è anzitutto amicizia». Elvira Serra il 29 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. L’attore: «Portavo a casa in 500 Lucio Fontana, mi offrì un quadro e non lo presi». Il campeggio a Londra con Jannacci. «Per lo sketch sulla scuola il ministero ci fece censurare». Le canzoni surreali e le fake news.

Qualcuno l’ha mai chiamata Aurelio?

«Sì, mia mamma quando mi voleva menare».

Peraltro, fu lei a ribattezzarla Cochi.

«Ha cominciato a chiamarmi così da quando sono nato, perché diceva che assomigliavo a un personaggio del Corriere dei Piccoli, una specie di fantolino. Da allora è rimasto e io non ho fatto niente per cambiarlo».

E perché, nella coppia d’arte, viene prima di Renato?

«Solo perché suonava meglio, mai avuto manie di protagonismo».

Di Cochi Ponzoni, 79 anni compiuti in lockdown, colpisce la dolcezza, dello sguardo e dei modi, di come racconta le storie e lo fa per sottrazione, dando valore alle persone con cui le ha condivise. E poi colpisce l’eleganza della moglie, Nora, che come una visione compare nel salotto di casa in un pomeriggio afoso, per assicurarsi che l’ospite e il marito stiano bene, ci sia l’acqua o un’altra cosa fresca, mentre Milla, una dei due ragdoll (l’altro è Bruno) si mette in mostra per farsi salutare.

Quando ha visto Renato Pozzetto l’ultima volta?

«Sono andato a trovarlo ai primi di agosto con mia moglie, perché poi doveva cominciare un film nuovo con Pupi Avati. Ci eravamo visti anche al funerale di Tinin Mantegazza...».

Che effetto le ha fatto?

«Brutto... Ma era una persona talmente ricca di talento e vitalità che ha lasciato una scia forte di umanità. Io e Renato lo frequentavamo da giovanissimi, quando lui e la moglie Velia ci invitavano ai vernissage nella loro galleria d’arte, la Muffola, per intrattenere il pubblico con le nostre canzoncine».

Se si guarda indietro, cosa rivede con più tenerezza?

«Il debutto al Cab 64. Quando i nostri amici seppero che stavamo debuttando lì vennero in massa, poi uscimmo noi sul palco e si misero tutti a russare!». E ride.

L’avventura più bella?

«Il viaggio in Inghilterra con Jannacci e Renato. Enzo continuava a menarla con la Swinging London, le minigonne, Mary Quant. Io, che la città la conoscevo bene perché ci avevo vissuto per un anno, mi offrii di fare da guida. Era il 1965. Enzo arrivava da Pompei, lo abbiamo accompagnato a casa, non gli abbiamo dato nemmeno il tempo di cambiarsi e siamo partiti tutti e tre con la Mini Cooper di Renato. A Calais abbiamo preso il traghetto, un viaggio... Con il mare forza 4 stavano tutti male. Poi da Dover siamo andati dritti a Londra. Al Crystal Palace, davanti all’antenna della Bbc, c’era un camping dove si potevano fermare le roulotte e abbiamo dormito in tenda. Poi quando li ho portati a Carnaby Street, Enzo ha commentato: tutto qui? Dopo siamo andati a Blackpool, sul mare d’Irlanda, a trovare i miei amici inglesi».

La sua canzone preferita di Cochi e Renato?

«A me mi piace il mare, Silvano, La gallina, Canzone intelligente, Lo sputtanamento... Tutte quelle più surreali».

E lo sketch?

«La solita predica e La scuola».

Come vi venivano?

«Era un processo creativo anomalo... Quello della scuola è nato ad Alassio, eravamo con Jannacci. I Giganti avevano inciso Tema e noi volevamo replicare con Problema e così è venuta fuori questa situazione scolastica: era l’epoca delle baronie. In Rai solo dopo tredici sketch si accorsero che il prof cercava di beccare i soldi dal padre dell’alunno e ci hanno censurati: era arrivata una lettera del ministero della Pubblica istruzione».

Gelosie tra voi due?

«Mai, eravamo talmente in simbiosi, ci siamo sempre capiti al volo».

Negli anni 80 scrissero che non eravate più nemmeno amici.

«Cose inventate. La verità è che non volevamo fare cinema come coppia, alla Franco e Ciccio. Contemporaneamente a lui proposero Per amare Ofelia e a me Cuore di cane e seguimmo le nostre strade».

Eppure in due interviste, una a «Oggi» nell’81, l’altra alla «Domenica del Corriere» nell’84, lei fece dichiarazioni molto amare...

«Mi dispiace sinceramente, perché non è vero. Io a un certo punto da Trieste mi trasferii a Roma, mi ero separato da mia moglie, e feci altro. La mia era una separazione consensuale, ma gli avvocati ne sapevano poco o niente, così fondai l’Asdi, l’associazione separati e divorziati: riuscivamo a far divorziare le persone con centomila lire».

Perché, allora, questo accanimento nel cercare una lite?

«Mi consideravano il povero cristo rispetto a Renato, ma io ero felice di fare il teatro di prosa. Comunque ne hanno scritte di cotte e di crude... Negli anni 70 Novella 2000 ci mise in copertina con un trans: ce l’eravamo trovato nella hall del Principe di Savoia, ci aveva presi sottobraccio per pochi secondi con il paparazzo pronto a scattare...».

Ha conosciuto Dino Buzzati, Lucio Fontana, Piero Manzoni, personaggi straordinari di un’altra stagione culturale.

«Fontana lo riaccompagnavo a casa in 500 tutte le sere. Più di una volta mi disse: vien su che te do un quader. L’anno scorso da Sotheby’s hanno battuto una sua opera a 28 milioni di dollari... Ma non rimpiango di non averne approfittato». Chi sono i vostri eredi? «Eredi non ne abbiamo. Ci sono bravissimi comici, ma le nostre cose sono nate in una bolla di assoluta amicizia».

I favolosi Ottanta (anni) di Renato Pozzetto. Snobbato dai critici e adorato dagli italiani. L'attore simbolo di una stagione lontana gode ancora di grande popolarità, anche fra i giovani. E da giorni è celebrato da televisioni, social e web. Pedro Armocida, Mercoledì 15/07/2020 su Il Giornale. Nato nell'anniversario della presa della Bastiglia, alla fine ha conquistato il cinema italiano nei meravigliosi attenzione, iperbole contro i negazionisti anni '80, gli stessi che ha compiuto proprio ieri. Scrivere di Renato Pozzetto il giorno dopo il suo compleanno fa capire che cosa vuol dire essere veramente «popolari» in Italia. Dove non è facile essere amati da tanti né tantomeno mettere d'accordo tutti: destra, sinistra, Nord, Sud e Centro. La prova? I social si sono trasformati in un lungo tappeto ricamato da continue citazioni, meme (il più gettonato quello con la foto di Sylvester Stallone «separato alla nascita») e, soprattutto, link di YouTube con spezzoni dei film di Pozzetto su Twitter è arrivato a essere secondo nelle tendenze e delle sue battute più famose («eh la madonna!», «tovaglia a metro, taaac!», «signora non ho mica paura che m'inculi ho paura che mi morda» detto alla padrona dell'alano «buono perché castrato»). Anche solo così, con questi tasselli slabbrati di qualità filologica Vhs, si può ricostruire il puzzle di un pezzo importante della commedia all'italiana. In Italia mancano tradizionalmente studi sugli attori e non esiste una storia della produzione del cinema. Ecco, Renato Pozzetto è il paradigma dell'unione felice tra il lavoro attoriale, minimale mai gigionesco, e il successo al botteghino. Forse anche per questo la critica l'ha un po' snobbato. A parte le incursioni nel cinema d'autore come quello di Alberto Lattuada, un altro grande lombardo che lo diresse nel 1976 in Oh, Serafina!. Curioso perché proprio con Lattuada, in Cuore di cane, esordì qualche mese prima Cochi Ponzoni che, con Pozzetto, ha formato una delle coppie comiche più all'avanguardia del nostro cabaret. La loro comicità impalpabile ma sulfurea, nonsense, è stata anche definita surreale che però «non significa irreale sottolinea Pozzetto credo sia invece un modo fantasioso di tradurre modi e sentimenti della vita vera». E da dove veniva questa vita vera? Qui il racconto di un artista, che è sempre rimasto un ragazzo di campagna come il film di Castellano e Pipolo (a proposito c'è chi si è divertito a fare un finto ma realistico trailer in versione Black Mirror), si intreccia con quello di un territorio. È Milano e la sua periferia tra gli anni Cinquanta e Sessanta: «Sono cresciuto - ha raccontato Pozzetto - a Porta Ticinese. La mia zona malfamata aveva il nome esotico e un po' sinistro di Baia del Re. Lì giravano moto e macchine truccate». È una generazione che calca i palchi e frequenta punti di ritrovo come La Muffola, il Cab 64 o il Derby Club, accompagnati da «il Beckett dell'Idroscalo, il dottore prestato al mondo del cabaret, il grande Enzo Jannacci» come scrivono giustamente Andrea Ciaffaroni e Sandro Paté in Cochi e Renato. La biografia intelligente di Sagoma editore con la comica prefazione di Maurizio Milani. Milano città non-stop da vivere di notte, con le osterie - Cochi dixit - come «una grande enciclopedia umana» e il Bar Gattullo «un grande laboratorio gastronomico-teatrale» come ha scritto Beppe Viola nel fondamentale e introvabile Cochi e Renato, preistoria di una coppia chiusa in un Pozzetto. Una città in cui il duo vedeva Jannacci in uno spettacolo di Dario Fo e poi di corsa all'osteria dell'Oca d'Oro a conoscere Piero Manzoni, Lucio Fontana e Dino Buzzati. Per finire su un palco insieme a Felice Andreasi e Lino Toffolo prima di approdare in tv grazie a Marcello Marchesi, Enrico Vaime e Tiziano Terzoli con il grandissimo successo di Canzonissima del '74. Infine il cinema, insieme solo nel 1976 in Sturmtruppen di Salvatore Samperi, poi due carriere parallele con Pozzetto che conosce il grande successo grazie anche a Adriano Celentano, Carlo Verdone, Enrico Montesano, Paolo Villaggio, Eleonora Giorgi, Ornella Muti e Edwige Fenech. Per celebrarlo, Cine 34, il canale in chiaro di Mediaset, gli dedica fino al 19 luglio la «domination Pozzetto 80» con dieci suoi film in prima e seconda serata. Ecco stasera il tandem La casa stregata e Oh, Serafina!, domani Piedipiatti e Noi uomini duri, il 17 Mia moglie è una strega e Grandi Magazzini, il 18 7 chili in 7 giorni e Le comiche, per finire il 19 con Le comiche 2 e Le nuove comiche. Mentre domenica, alle 17,35 su Rai Radio 2, Pozzetto duetterà con un altro grande «cabarettista» come Nino Frassica nel suo Programmone Story - Versione estiva. Il suo prossimo ruolo sarà nel film che Pupi Avati sta girando sulla famiglia Sgarbi, come padre di Vittorio. In attesa di veder coronato il suo progetto di ragazzo di campagna 3.0 ambientato sul Bosco verticale di Milano dal titolo Una mucca in paradiso.

Gli 80 anni di Renato Pozzetto, eterno ragazzo di campagna. In coppia con Cochi ha segnato una delle stagioni più felici della comicità italiana. Poi la carriera al cinema con una settantina di film. Ma si parla sempre di un ritorno sulla scena con l'amico di sempre per ripercorrere quello splendido mezzo secolo insieme. Anna Bandettini il 13 luglio 2020 su La Repubblica. In effetti, a sentirlo oggi, anche se un po' immusonito dall'età, sembra lo stesso bizzarro attore di quando era all'apice del successo, negli anni Settanta e Ottanta: ostinato nei silenzi e fulminante nelle battute. Renato Pozzetto, insieme a Cochi Ponzoni, era avanti allora e ancora fresco fresco oggi che compie ottant'anni (il 14 luglio) e viene festeggiato come un "grande padre" del cabaret che ha attraversato da quando aveva 24 anni, sempre come una meravigliosa stonatura: mai battutaro, semmai poeta surreale. Dici Renato Pozzetto e sono oltre mezzo secolo di spettacoli, una settantina di film, non tutti imperdibili (anche se un po' come quelli di Totò, con gli anni si rivalutano), sei regie, pubblicità, un artista che ha segnato una delle stagioni più felici della comicità italiana con quel temperamento laconico e perfino malinconico, dovuto forse alle origini lacustri, Lago Maggiore, Laveno, dove è nato pochi giorni dopo i primi bombardamenti del 1940 su Milano. Sul lago e dintorni, Renato tornerà spesso, fin da ragazzino. A Gemonio, in provincia di Varese, il paese di Bossi ("era mio vicino di casa", e da lì forse la simpatia anche politica), tra le famiglie di sfollati, tra il 40 e il 50, conosce Cochi. "Facevamo gruppo con altri ragazzini - ha ricordato Renato in un'intervista - ci annoiavamo così tanto, che cercavamo di essere simpatici per renderci meno drammatica l'esistenza. Il nostro umorismo e "Cochi e Renato" sono nati così". Forse c'è un po' di leggenda. E però quando squattrinato e col diploma di geometra, arriva a Milano a metà anni Sessanta ritrova proprio Cochi e con lui una strana famiglia di spostati geniali che stava spesso al bar Gattullo, in Porta Ludovica, dove poi cresceranno generazioni di comici almeno fino ai primi anni di Zelig, e all'Osteria Oca d'oro, in Porta Romana dove con i futuri artisti Piero Manzoni e Lucio Fontana, con Enzo Jannacci e l'inseparabile Cochi, Renato coltiva il piacere di trovarsi insieme e stare allegri. Poi siccome lì vicino nel '64 apre il Cab '64, Cochi e Renato si propongono. C'era anche Giorgio Gaber che insegnava a Cochi a suonare la chitarra, ogni tanto passava Dario Fo che d'estate imbarcava la squattrinata combriccola a Cesenatico, e poi c'erano Enzo Jannacci, Felice Andreasi, Bruno Lauzi e Lino Toffolo con cui formano lo strepitoso Gruppo Motore, che approderà al leggendario Derby, vicino alla Fiera, dove tra tavolini rossi e un pubblico che, in prevalenza, era di ricchi cumenda, questi giovani un po' folli si inventavano strane cose. "Eravamo un gruppo di persone con  un umorismo tutto nuovo. Per esempio: mi ero inventato 'l'ufficio facce'. Era un nostro ufficio immaginario dove facevamo commenti sui clienti che entravano nel bar. Avevamo anche dei modi nostri di parlare: come 'cioè', oppure 'praticamente' che sono rimaste nei nostri spettacoli", ha raccontato Renato, che di quella Milano irripetibile, di artisti colti, curiosi, svitati, provinciali e una voglia ardente di cambiare, è stato un protagonista e un fervido inventore, basta dire che al Derby o giù di lì sono nate canzoni come La gallina, Canzone intelligente, l'insuperata E la vita, la vita che lui scrive con Jannacci. In Rai, Terzoli & Vaime capiscono subito la novità e Cochi e Renato vengono chiamati a Quelli della domenica (1968), Il buono e il cattivo (1972), Il poeta e il contadino (1973) e Canzonissima (1974) e il loro è un successo che mette insieme anime snob e popolari, una novità anche questa. Diventano così famosi che, ricorda Renato, "quando nacque mia figlia Francesca, l'infermiera uscì dalla sala parto gridando: è nata la figlia di Cochi e Renato". Invece nel '74  è Renato da solo a farsi tentare dal cinema con Per amare Ofelia: "Jannacci diceva che era una boiata, a me sembrava carino, ma dovevo farlo da solo, chiesi il permesso a Cochi. Andò benissimo, vinsi il Nastro d'Argento come esordiente". Fra il '74 e il '79, Renato gira 23 film, da Il ragazzo di campagna a Roba da ricchi, Oh Serafina di Alberto Lattuada e Sono fotogenico di Dino Risi, Nessuno è perfetto di Pasquale Festa Campanile. Ora, il compleanno lo farà a Laveno dove ha la sua "cuccia" con i due figli e svariati nipoti. "Ho qualche acciacco, ma sto qua, seguo la Locanda Pozzetto che ho aperto tanti fa con mio fratello". Si parla sempre di un ritorno con Cochi sulla scena per ripercorrere quello splendido mezzo secolo insieme. Ha anche in testa di girare un film, Una mucca in paradiso, dove un contadino va ad abitare con la sua mucca in un superattico del Bosco Verticale, una storia che poteva essere nata al bar Gattullo, in cui continua a risuonare quel laconico "ragazzo di campagna".

Renato Pozzetto compie 80 anni: 10 curiosità, dalle origini del «Taac» a quando partecipò alla Parigi-Dakar. Arianna Ascione il 14/7/2020 su Il Corriere della Sera. I tormentoni, i film diventati cult, la passione per i motori e altri aneddoti poco noti sull’attore lombardo, che il 14 luglio festeggia il suo ottantesimo compleanno.

1.Taac. Il 14 luglio Renato Pozzetto spegnerà 80 candeline: nato a Laveno sulle rive del Lago Maggiore e cresciuto a Gemonio (dove i genitori trovarono rifugio durante i bombardamenti alleati) ha mosso i suoi primi passi nel mondo dello spettacolo insieme all’amico di sempre Aurelio «Cochi» Ponzoni. Dal cabaret al Derby di Milano a Canzonissima, dal primo film («Per amare Ofelia» del 1974) alle esperienze dietro la macchina da presa: la sua è una vita ricca di soddisfazioni professionali. Ma anche di film cult e tormentoni, adorati (e ripetuti a memoria) dai suoi fan. Il più conosciuto? Sicuramente il «taac» del protagonista de «Il ragazzo di campagna», film di Castellano e Pipolo del 1984. L’ispirazione arrivò da un frequentatore del Bar Gattullo, storico ritrovo di lui e Cochi, come ha spiegato al Corriere: «Da Gattullo, un cliente parlava e ci puntava il dito in gola, in faccia. Ne ho fatto un taac e l’ho usato diversamente, per dire: fatto!».

2. Mancato geometra. Pozzetto si è diplomato all’istituto tecnico Carlo Cattaneo in Piazza Vetra a Milano (che ha frequentato insieme a Cochi). Per un anno ha provato a lavorare come geometra, poi ha capito che non era la sua strada.

3. Artemio Montesano. Il ruolo di Artemio de «Il ragazzo di campagna» inizialmente era stato proposto ad un altro attore, Enrico Montesano, che rifiutò la parte perché già impegnato sul set de «I due carabinieri» di (e con) Carlo Verdone.

4. Locanda Pozzetto. Anni fa insieme al fratello Achille ha dato vita alla Locanda Pozzetto, che si trova a Laveno Mombello: «Era una cascina andata all’asta - raccontava lo scorso anno al Corriere - con mio fratello ce ne siamo innamorati, adesso ho preso uno chef bravo, mi piacerebbe portarci i turisti e non solo i milanesi con la casa del weekend».

5. Lo striscione allo stadio. «Io sono del Monza e non andremo mai in serie A»: nel film «Agenzia Riccardo Finzi praticamente detective» (1979) il personaggio interpretato da Renato Pozzetto si proclama supporter della squadra brianzola (che nella realtà è stata promossa in serie B). Qualche anno fa i tifosi hanno deciso di omaggiarlo, immortalando il suo volto su uno striscione con i colori del team.

6. In barca con Marcello Mastroianni. Tra i tanti attori con cui Renato Pozzetto ha condiviso il set c’è anche Marcello Mastroianni (il film, del 1979, era «Giallo napoletano»). Il protagonista de «La dolce vita» una volta è anche andato a trovare il collega nella sua casa sul lago Maggiore. La visita è legata ad un aneddoto curioso: «Lo portavo sul lago col mio Super Tritone Riva tutto di legno. Laggiù c’era una fabbrica di cappelli che s’affacciava sull’acqua: era piena di operaie, quando ci passavamo davanti e lo vedevano, urlavano come matte, un casino che non ti dico».

7. Il treno è sempre il treno. All’ingresso di Cascina Casoni, località di Carbonara al Ticino, hanno addirittura messo un cartello che recita: «Cascina Casoni - Il ragazzo di campagna». Il paesino del pavese che ha fatto da set per il film del 1984 è diventato meta di veri e propri pellegrinaggi. Inoltre alcuni fan della pellicola da 15 anni si ritrovano una volta all’anno per ripetere la celebre scena del treno. «L’ultima volta c’erano 500 persone - ha raccontato Pozzetto nel 2019 - Ci sono andato, ho scaricato la sedia dalla macchina e pure io mi sono seduto ad aspettare. Mi chiedevano di ripetere le battute. E io taaac, le ripetevo». Tra queste la mitica «Il treno è sempre il treno» (ripresa dall’attore anche in uno spot per Trenord).

8. In gara alla Parigi-Dakar. Renato Pozzetto è un grande appassionato di motori. In particolare ama le moto (in «Io tigro, tu tigri, egli tigra» del 1978 lo si vede persino in sella ad un motocarro elaborato a mo’ di auto da corsa). Alla guida di un camion invece nel 1987 ha partecipato - insieme al pilota Giacomo Vismara - alla Parigi-Dakar, arrivando quinto.

9. Il film più bello. A suo avviso i suoi film più belli sono «Oh Serafina» di Alberto Lattuada (1976) e «Sono fotogenico» di Dino Risi (1980).

10. Quando lui e Cochi aiutarono Piero Manzoni. «Nessuno pensava di diventare un artista, tutto nasceva ridendo in osteria». Nello specifico l’Osteria dell’Oca d’oro di Porta Romana, in cui bazzicavano anche artisti come Lucio Fontana e Piero Manzoni. Quest’ultimo era amico di Pozzetto, e lui e Cochi in un’occasione gli diedero una mano per realizzare una sua (famosissima) opera: «Quando in via Fiori Chiari faceva la “Linea infinita”, una riga disegnata su una carta per le rotative del Corriere della Sera, io e Cochi lo aiutavamo a srotolare la bobina». 

Renato Pozzetto: «E l’ostetrica gridò: evviva, è nata la figlia di Cochi e Renato». Candida Morvillo il 28 giugno 2020 su Il Corriere della Sera.  I nipoti: «Educati, ma mi filano poco». Gli amici: «Nessuno di noi pensava di diventare artista, tutto nasceva ridendo in osteria».

Renato Pozzetto, a 80 anni, la vital’è ancora bèla?

«Ho qualche acciacco, ma sì. Ho passato il lockdown a Milano: coi due figli e i cinque nipoti abitiamo nello stesso palazzo. Ora, sono “sfollato” a Laveno, nella mia casa sul lago Maggiore. Sto qua, seguo la Locanda Pozzetto e il 14 luglio festeggeremo tutti assieme il compleanno. Qui ho i primi ricordi, papà ci aveva portato a Gemonio durante la guerra, con la valigia di cartone».

E quali sono i primi ricordi?

«C’era così poco da fare e io e Cochi, sfollato da Milano pure lui, ci annoiavamo così tanto, che cercavamo di essere simpatici per renderci meno drammatica l’esistenza. Il nostro umorismo e il duo Cochi e Renato sono nati così».

Enrico Beruschi, che era alle medie con lei e alle superiori con Cochi, racconta che, a scuola, facevate scherzi pestiferi.

«Ma no. Una volta, tolsi una sedia a una suora. Mio padre me ne ha dette e me ne ha date».

Beruschi sostiene che lei riempì d’acqua e pesci rossi le bocce dei lampadari.

«Be’… Lo spirito era quello».

Il cabaret come arriva?

«A Milano, per mancanza di fondi, andavamo all’Osteria dell’Oca d’oro di Porta Romana: c’erano molti artisti, anche Piero Manzoni, Lucio Fontana, noi cantavamo canzoni popolari e approfittavamo della bottiglia di vino che girava. Poi lì vicino, aprì il Cab 64, dove abbiamo incontrato: Giorgio Gaber che ci ha insegnato a suonare la chitarra, più a Cochi, che era bravino; Enzo Jannacci, con cui abbiamo scritto le prime canzoni, tipo “la gallina l’è intelligente, si capisce da come guarda la gente”, lui componeva la musica e noi si andava avanti con le parole; Dario Fo che veniva a darci il suo parere; Bruno Lauzi che pure si esibiva e tutti quelli che diventeranno i nostri amici».

L’ingresso al celebre Derby?

«Ci offrirono di aprire le serate. Eravamo Jannacci, Felice Andreasi, Lino Toffolo, Bruno Lauzi e io e Cochi e ci battezzammo Gruppo Motore, per l’energia che dovevamo sprigionare».

La sua prima serata vera?

«Non me la ricordo, perché nei cabaret si viveva e io ero in giro per osterie a fare cose dai 16 anni. Potevo fare l’alba perché, nel dopoguerra, la scuola faceva i turni e io andavo a geometra di pomeriggio».

I suoi che dicevano che stava in giro di notte?

«Sapevano che passavo la vita con Cochi, poi si sono trovati in casa Andreasi e Jannacci, vedevano che non erano permale. Eppure, mio padre non era mai uscito la sera, mai andato al bar, andava solo a messa la domenica. Una mattina, quando da Gemonio faceva il pendolare con Milano, ho sentito che mi dava un bacio nel sonno. Mi sono stupito, non mi aveva mai baciato. Mi è piaciuto moltissimo e ho voluto convincermi che lo facesse tutte le mattine».

E lei i suoi figli li baciava?

«Sì, mamma mia».

E i nipoti?

«Mi filano poco. Sono educati, ma indipendenti. Li vedo sempre, ma hanno i loro giochi, l’Ipad».

Ma sanno chi è e cosa ha fatto?

«Non ne parlano mai, non mi chiedono niente. Sono talmente lontano dalla moda oggi, che non sono un esempio invidiabile ai loro occhi».

Eppure, lei fu modernissimo. Con Cochi, avete inventato il nonsense e c’è chi riconosce il filo di un nuovo linguaggio che va da Piero a Manzoni a voi.

«Nessuno pensava di diventare un artista, tutto nasceva ridendo in osteria. Quando Piero fece la Merda d’artista, la madre era disperata. Io c’ero quando faceva la Linea Infinita: si era fatto dare un chilometro di bobina di carta dal Corriere della sera e aveva tracciato questo segno lungo lungo».

Eravate così moderni che, all’indomani del successo di Canzonissima, l’Italia si divise fra chi vi capiva e chi no.

«Una volta, dopo uno spettacolo, viene uno e dice: ho una fabbrica con mille operai e non mi sono divertito, mi sento in difficoltà perché si sono divertiti tutti, eppure non sono scemo. Eravamo nuovi, imprevedibili, come appena usciti da scuola. Parlavamo ai giovani che dicevano cose stonate al Bar Gattullo».

Uno psicologo dell’epoca scrisse che vi guardavano 22 milioni di spettatori perché eravate l’antidoto ai tempi bui del terrorismo.

«Be’, c’era stato il ’68, ma non è che ci spaccassimo la testa per raccontare chissà che».

Jacopo Fo racconta che il vostro «bene, bravo, 7+» parlava ai giovani non ai prof, e che era un modo per dire «chi mi capisce è con me». Quasi un grammelot in scala.

«Era come una stonatura. Con Dario Fo passavo tutte le ferie a Cesenatico, un promotore del posto invitava, noi, Lauzi, Andreasi... Tutti ospiti: soldi non ce n’erano e ci si trovava lì».

C’è anche chi ha visto in lei tutta una poetica della campagna contro la città.

«Mah… forse quando ho fatto in tv Il poeta e il contadino o al cinema Il ragazzo di campagna. Di recente, volevo fare un film su un contadino che va a vivere sul tetto con prato del Bosco Verticale a Milano, riesce a portare su un vitello, ed essendo un palazzo solo di miliardari, calciatori e russi, vende bottiglie di latte che costano come champagne. L’architetto Stefano Boeri ha pure cercato di convincere qualche produttore. Per ora, nulla».

Il suo «taac» come nasce?

«Da Gattullo, un cliente parlava e ci puntava il dito in gola, in faccia. Ne ho fatto un taac e l’ho usato diversamente, per dire: fatto!».

Qual è la battuta che più ricordano i suoi fan?

«Tutti vogliono che ripeta: Eh la madonna!!».

Ha fatto 140 film, com’è cominciata?

«A me e Cochi avevano proposto le solite cose: il prete e il sindaco, i due carabinieri... Poi, mi portano Amare Ofelia, Jannacci disse che era una boiata, a me sembrò carino, ma dovevo farlo da solo, chiesi il permesso a Cochi. Andò benissimo, vinsi il Nastro d’Argento come esordiente».

Si narra che mentre lo girava sembrasse una boiata anche a lei.

«Mi preoccupava il doppiaggio, volli far vedere il montato a Cochi. In effetti, ho vissuto sott’acqua finché non ho saputo gli incassi. Alla fine, fu un film onesto e non volgare».

Era vietato ai minori di 14 anni e la si vedeva per un attimo nudo.

«Era roba che ora vedi la domenica mattina dopo la messa del papa. Io e Cochi non siamo mai stati volgari».

Eravate di scuola milanese, quella romana era più barzellette e sesso.

«A me spiace solo che al cinema hanno vinto loro e di non essere riuscito a portare il nostro cabaret sul grande schermo».

Davvero dopo quel film mandò mille lire all’Angela del Derby poi incorniciata «in pagamento di tutte le sue bevute»?

«Ma noo. Avevo già pagato tutto. Nel libro sul Derby, ognuno raccontava la propria bugia. A me chiesero tre righe e io mandai tre righe su un pezzo di carta».

Nel senso di tre linee alla Piero Manzoni?

«Esatto».

Le risse al Derby di cui si narra erano vere?

«Mai viste».

Tipo: il suo amico «Pinto delle due pistole» spara due colpi per errore e arrivano venti volanti della polizia.

«Non mi ricordo proprio. Pinto?».

Fra il ’74 e il ’79, lei girò 23 film.

«Tanti avrei potuto non farli, ma andavano bene, non avevo mai visto una lira, perché rinunciare?».

Il film più bello?

«Oh Serafina, di Alberto Lattuada e Sono fotogenico, di Dino Risi».

Il più brutto?

«Brutto no, ma quelli alla fine con Paolo Villaggio mi sono divertito a girarli, però erano troppo lontani da me. Neri Parenti mi ha pure travestito da bimbo, col pannolone, mi sono un po’ vergognato».

Il cinema l’ha separata da Cochi.

«Le storie di ragazzi di quell’età sono così, ma non abbiamo mai litigato. Eravamo insieme a Cesenatico un mese fa. Di recente, abbiamo fatto di nuovo teatro assieme. Se, come pare, darò una mano al Lirico di Milano, magari ci riuniamo ancora. Per anni, non ci distinguevano uno dall’altro. Quando nacque mia figlia Francesca, l’infermiera uscì dalla sala parto gridando: è nata la figlia di Cochi e Renato».

Come ha conosciuto sua moglie?

«Sul lago, stessa compagnia. Era molto spiritosa. Avevamo 16 anni. È stato un grande amore, durato fino a 10 anni fa, quando è mancata. Lei non era affascinata dal cinema e questo mi ha aiutato. Non è mai voluta venire a Roma, mi ero organizzato con una casa sui Fori Imperiali, ma ha chiesto di restare a Milano vicino alla madre».

Non era gelosa delle attrici bellissime con cui lavorava: Edwige Fenech, Eleonora Giorgi, Ornella Muti?

«Se avesse avuto fondati sospetti sarebbe venuta a Roma. E non ero Mastroianni. Quando Marcello veniva a Laveno a trovarmi, uscivamo col motoscafo Riva e le donne lo acclamavano dalla strada».

Momenti di crisi ne ha avuti?

«Quando è mancata mia moglie. Nel lavoro no: capita che stai fermo, ma non è come una malattia che ti arriva fra capo e collo».

Cochi sostiene di non aver mai avuto un incubo e che fa sogni che lo fanno ridere anche nel sonno. Lei che sogna?

«Anch’io mi diverto di giorno e di notte. Però vorrei sognare mia moglie, non è mai successo».

Le piace essere intervistato?

«A volte, vado nei teatri, mi fanno parlare e, quando mandano qualche spezzone di film, la gente ride in modo sfrenato e io ci resto male come se avessi un collega concorrente più bravo di me».

Alessandro Ferrucci per “il Fatto Quotidiano” l'11 gennaio 2020. Alla classica agitazione, magari ansia da prestazione (attoriale), all' immancabile reflusso gastrico, alle scaramanzie, alle cene dove è opportuno presenziare, ai dati di ascolto o di botteghino, Cochi Ponzoni risponde stupito: "Non ho mai un incubo. Mia moglie sostiene che ogni tanto la notte scoppio a ridere; spesso anche i miei sogni sono umoristici".

Quindi riflette, prima con gli occhi, poi con la testa, e continua: "Mi sono veramente divertito".

«E così la vita (l' è bela) del 78enne Cochi è come una perenne parte ragionata di un copione cesellato oltre le sue aspettative, quasi da diventare una commedia in stile hollywoodiano: l' amico d' infanzia è ancora tale (Renato Pozzetto), poi il gruppetto del bar composto dal gotha dell' intellighenzia milanese (Lucio Fontana, Dino Buzzati, Luciano Bianciardi e Piero Manzoni); alcuni "maestri" niente male (Enzo Jannacci, Giorgio Gaber e Dario Fo) e alla fine "ho realizzato esattamente la carriera che desideravo". Aggiungiamo: dopo cinquanta e passa anni di palco, televisione e cinema, il duo Cochi e Renato resta sinonimo di avanguardia della risata, di sperimentazione, di surrealismo non ancora superato, tanto da dedicargli studi, puntate sulla Rai (benedetto Techetechetè), libri, l' ultimo dei quali è La biografia intelligente (di Andrea Ciaffaroni e Sandro Paté per Sagoma editore), nel quale oltre a parlare con i due protagonisti, si dà voce agli amici e ai colleghi del periodo».

Senza ansia, è una rarità.

«Sempre stato un incosciente, non ho mai subito particolarmente le difficoltà; eppure l' esordio è arrivato prestissimo: già a 14 anni mi esibivo all' oratorio con canzoni popolari, alcune anarcoidi».

E andava per locali.

«Quello poco dopo: a 16 anni uscivo la sera con Renato; noi due avevamo molta libertà di movimento, forse troppa, tornavamo a casa tardissimo, e solo ogni tanto ho preso qualche cazzotto da mia madre. Ma veramente ogni tanto, perché non si preoccupava, infatti è morta a 101 anni (riflette). E così ho conosciuto sia Gaber che Jannacci.

Gaber era il suo insegnante di chitarra.

«Esatto, ed è stato proprio Giorgio a presentarmi Enzo: una sera entro in un locale e lo trovo avvolto dal suo pianoforte. Appena l' ho sentito cantare, me ne sono innamorato, le sue parole arrivavano da un' altra dimensione personale, culturale e morale».

Addirittura.

«Enzo è stato un punto di riferimento, ci ha regalato la sua amicizia e ci ha insegnato la disciplina; e poi ci passava dei testi importanti da leggere come Mrozek, Ionesco o gli autori russi».

Scuola di vita.

«All'inizio teneva anche i contatti per noi, ci aiutava nella produzione e senza mai interessarsi a un ritorno economico. Era solo per amicizia. Ed è grazie a lui se siamo riusciti a firmare per la Rca, a Roma».

Allora, una potenza.

«Ricordo un appuntamento proprio a Roma, e dai discografici: Enzo porta Vengo anch' io, no tu no, e noi La gallina. Entrambi i brani li ascolta un celebre conduttore radiofonico e resta totalmente inorridito».

E …

«Organizzano una riunione con tutti i dirigenti, e lì Enzo parte con un monologo di dieci minuti, un monologo completamente incomprensibile, una sorta di supercazzola in stile Amici miei, dove ogni tanto si comprendeva un vocabolo, solo uno, fino a concludere il tutto con un moto d' imperio: "Per noi va bene così". Discorso chiuso».

Aveva ragione Jannacci.

«Eccome, poi si sono tramutati in due grandi successi anche se ancora oggi né io né Renato abbiamo capito del perché La gallina è così amata (cambia tono). Davvero, Enzo ci seguiva solo per amore, una volta ho sentito una telefonata paradossale, nella quale rifiutava un paio di ingaggi importanti e solo "perché devo stare con Cochi e Renato"».

Anche Jannacci partecipava alle vostre prime esibizioni al bar?

«Era un ambiente multicolore: c' era quello di passaggio, quello stabile, il gruppo di amici, amici improvvisati, e lì si creava inconsapevolmente e altrettanto inconsapevolmente acquisivamo i primi rudimenti di un mestiere, fino a quando ci hanno consigliato di riproporre su un palco vero le scenette che improvvisavamo tra quei tavolini».

Vi interessava la politica?

«In quegli anni tutto era politica (ride). Comunque allora potevi cadere in qualunque situazione: ci ingaggiano per una serata ad Arezzo, era di lunedì, quindi giorno di pausa, e con un buon cachet. Ci ritroviamo sul palco di un circolo culturale, io e Renato iniziamo, ma neanche una risata. Gelo in sala. Tocca a Jannacci che intona Il primo furto non si scorda mai, in cui c' è una strofa che recita "quel tacchino micidiale era un' aquila imperiale", con chiaro riferimento ironico al fascio».

E qui applausi, ad Arezzo.

«Al contrario iniziano a piovere monetine e insulti sempre più pesanti, un crescendo, fino a quando Teocoli, presente in platea, si lancia in una scazzottata incredibile. Da solo. E conclusa con un bel viaggio insieme alla celere».

Addirittura.

«Non avevamo capito che quello era un circolo di fascisti che si chiamava "Giovani d' Italia": eravamo finiti in una trappola».

Che trappola?

«Scritturati per umiliarci.

Qualcosa di simile la racconta Jacopo Fo nel libro dedicato ai genitori.

«Allora poteva accadere (cambia tono). Dario ci ha regalato momenti irripetibili e, dietro alla reale bellezza o apparente leggerezza, nascevano vere lezioni di teatro che si tramutavano in strumenti di vita».

Un esempio.

«All'inizio dell' estate, io e Renato scappavamo da Milano per raggiungere Dario e Franca Rome a Cesenatico; un giorno, in spiaggia, proprio Dario si alza in piedi, si piazza sul bagnasciuga e poco dopo inizia a gridare di un naufragio all' orizzonte. Ed era convincente. Quindi I turisti iniziano a fermarsi e in pochissimo tempo si raduna un gruppetto di persone; noi due capiamo la situazione, ci alziamo e offriamo il nostro contributo: qualcuno dei presenti ipotizzava la presenza reale di quel naufragio, una sorta si suggestione collettiva e indotta. Così all' improvviso siamo stati protagonisti di una grande lezione di recitazione: l' attore deve far credere, credendoci. Ah, ovviamente c' era Jannacci».

Sempre insieme.

«Come dicevo, eravamo un gruppo indissolubile di amici, sodali, parenti non di sangue. Quando è morto Enzo è come se avessi perso una gamba (Sorride). Un anno siamo partiti per l' India e il viaggio è durato un mese, ci sentivamo come i Beatles».

Torniamo al bar: in quel gruppo c' erano Manzoni, Fontana e Buzzati Ed era normale proseguire insieme fino a mattina, invertire la notte con il giorno e magari crollare per il sonno sui banchi di scuola. Manzoni folle.

«Aveva una concezione propria del pericolo, da artista sentiva l' esigenza di affrontare in faccia i rischi; personalità come la sua hanno gonfiato il nostro coraggio con la loro filosofia di vita e relativizzato una concezione del mondo che già a Milano si stava avviando verso una mera valutazione economica».

Il "Derby".

«Un successo esagerato, ma i nomi in scena allora erano importanti: su uno stesso palco salivamo io e Renato, poi Felice Andreasi, Lino Toffolo, Enzo Jannacci e Bruno Lauzi. In certe fasi avevamo tre spettacoli nella stessa serata e la fila fuori di due o trecento persone».

Come avete impiegato i primi soldi guadagnati?

«Ci siamo sposati tutti e due e a distanza di una settimana: non potevamo insieme per non interrompere il lavoro».

Nel libro dichiara: "Perfino la malavita era romantica".

«Di alcuni sapevamo che erano ladri o truffatori, ma possedevano uno spirito dissacrante e una forza rara; era gente del popolo, era antropologia, personalità di ringhiera, e da loro abbiamo "rubato" parte del nostro linguaggio».

Un suo difetto?

«Sono pigro, se potessi non combinerei nulla: per me il massimo è restare in casa per suonare la chitarra».

Con voi la chitarra è stata spesso protagonista in tv In quel contesto non sempre ci hanno capito.

«All' inizio non sempre era semplice. A volte potevamo suscitare sentimenti di fastidio, apparire come dei pazzi, ma siamo riusciti a far passare dei messaggi per allora rivoluzionari».

Tipo?

«Negli sketch dedicati alla scuola, i dirigenti della Rai non avevano capito che una delle scenette era incentrata su un professore povero che cercava di farsi corrompere da un genitore facoltoso, quella del "bravo 7+". Ancora sorrido se penso agli occhi sbarrati del pubblico seduto in platea».

Quando è tornato in tv nel 1992, Paolo Rossi ha detto: "Nella vita dell' uomo ci sono tre misteri: cosa ha fatto Gesù da 12 ai 30 anni; cosa ha fatto Silvio Berlusconi dal 1960 al 1975; cosa ha fatto Cochi Ponzoni dal 1979 a oggi".

«Poco prima della trasmissione gli avevo confidato un episodio del giorno precedente: ero entrato in un grande magazzino, e mi sentivo osservato. Nulla di strano, ero abituato. Però la commessa insisteva e con uno sguardo strabuzzato: "Perché mi guarda così?", le domando. E la ragazza: "Credevo fosse morto"».

Conta la tv.

«Sì, la televisione è il parametro, e su di me in parte lo capisco: dal 1968 al 1974 come Cochi e Renato, siamo stati molto presenti, con programmi da 30 milioni di telespettatori, numeri che oggi non esistono più».

E poi?

«Io e Renato abbiamo preso strade differenti, ma in amicizia, ognuno con le sue scelte, e in quel periodo avevo scoperto il teatro di prosa, avevo conosciuto Ennio Flaiano».

Mentre Pozzetto ha puntato sul cinema.

«I film li hanno proposti anche a me, qualcuno l' ho accettato, ma erano gli scollacciati dell' epoca, quelli con la Fenech perennemente sotto la doccia, e mi sono subito fermato».

Prima però ha partecipato a Il Marchese del Grillo con Alberto Sordi.

«Con Sordi anni prima avevo girato Il comune senso del pudore, e già allora avevo scoperto un uomo con un lato umano spiccatissimo, lontano da quella leggenda di tirchio».

Solo leggenda.

«Un giorno gli ho domandato di questa storia, e lui: "Mo' te lo spiego: la mia è stata una gavetta pazzesca, ero un morto di fame. Quando sono diventato famoso hanno iniziato a rompermi le palle, tutti avevano una nonna malata da curare, e così sono stato costretto a difendermi"».

Lei si è difeso?

«Per me è differente, negli anni Settanta la svolta professionale mi ha portato altrove, e come ho raccontato prima, per alcuni non sono esistito più».

Non le è dispiaciuto.

«E perché? È stata una scelta consapevole, e come entrambi abbiamo ripetuto all' infinito, tra me e Renato non c' è stata alcuna lite, siamo sempre amici come a pochi capita».

Lei si sente un 78enne?

«(Ride a lungo) No, assolutamente, e questo è il mio problema».

·        Costantino della Gherardesca.

Francesco Canino per ilfattoquotidiano.it il 14 aprile 2020. A un passo dal traguardo finale, quello di Seul, è scattato il toto vincitore di Pechino Express 8: ce la farà Enzo Miccio a strappare la vittoria o il presunto spoiler della vigilia è solo un bluff? L’unica certezza per ora è che Costantino della Gherardesca può gongolare per il successo del programma: dopo qualche edizione un po’ debole, il format ha ritrovarlo lo slancio di un tempo, grazie al cast e al ritorno in Cina. “E grazie al fatto che sono tornato a essere più cattivo”, ironizza il conduttore, che a poche ere dal gran finale racconta a Il Fatto Quotidiano i segreti del programma, la sua prossima avventura da concorrente di Ballando con le stelle e la sua stramba quarantena romana.

Costantino, come se l’è spiegato il successo dell’ottava stagione?

«Sono sincero: mi aspettavo che i piccoli cambiamenti al format avrebbero inciso positivamente sugli ascolti. In più c’era attesa dovuta allo slittamento della messa in onda e il ritorno in Cina ha suscitato grande curiosità».

Come le avete pensate le modifiche?

«Sono state condotte delle ricerche di mercato da cui è emerso che il pubblico voleva meno viaggio e una gara più difficile. Quanto a me, mi volevano più cattivo. Evidentemente mi sono rammollito con l’età (ride). Inconsapevolmente mi hanno invitato a nozze e così abbiamo superato la fase più politically correct».

È tornato ad essere più cattivo?

«Sono tornato ad essere me stesso. Quando un uomo è goffo come me, si può permettere di essere stronzo in tv. Ai belli non è concesso».

La voglia di evasione e intrattenimento in pieno lockdown vi ha aiutato?

«All’inizio il pubblico guardava solo programmi d’informazione perché c’era voglia di capire e sapere. Poi dopo qualche settimana è scoppiato un effetto rebound e una voglia irrefrenabile d’intrattenimento: gli ascolti e le permanenze parlano chiaro. In generale, non trovo elegante parlare di ascolti, ancora meno in questo periodo».

Cosa dobbiamo aspettarci dalla finale di questa sera?

«Molto K Pop (la musica pop della Corea del Sud, ndr) e grandi sorprese. Seul è la città del futuro. Quando siamo arrivati, siamo rimasti impressionati dai robot assistenti che in aeroporto ti accompagnano verso i nastri dei bagagli. C’è un distacco culturale ed economico enorme e i concorrenti non hanno potuto fare i “missionari” in Corea: ci siamo risparmiati quelle orrende pantomime che detesto, del genere «che carini, non hanno nulla ma ci hanno aperto e dato da mangiare». I disgraziati eravamo noi».

C’è uno spoiler sulla presunta vittoria dei Wedding Planner che agita i social.

«Non posso anticipare nulla. Ma voglio rivelare che ci sarà un momento cult, assolutamente divino, in cui nascerà una star della tv italiana: è la cosa più camp mai trasmessa prima».

La sua coppia preferita?

«Non lo dirò mai. Deve sapere che lo sport preferito dei concorrenti di tutte le edizioni è offendersi e prendersela con me».

Di Enzo Miccio che pensa?

«Per lui l’importante è partecipare non esiste: è venuto unicamente per vincere. La prova più difficile è stata scrivere la lettera a Carolina, la sua assistente: esternare i sentimenti per lui è molto difficile e in quella scena mi ha fatto tenerezza. Per il resto della gara no: è una iena».

La scena cult di questa edizione?

«Quando la Polizia coreana ha chiamato i servizi sociali per i Gladiatori: quando hanno visto due italiani con lo zaino e vestiti male – parlo di Max Giusti e Marco Mazzocchi – pensavano fossero due indigenti. Ho riso fino alle lacrime».

L’alleanza tra i Wedding Planner e i Gladiatori esisteva?

«Certo. Solo le Collegiali ci hanno messo un po’ a capirlo. Poi Miccio li ha fatti fuori dal gioco, ha sparigliato ogni accordo».

Soleil Sorge e sua mamma Wendy l’hanno accusata duramente: hanno detto che lei ha aizzato il cyber bullismo nei loro confronti.

«L’accusa è folle, ovviamente. Hanno fatto come Corinne Clery, che davanti a me faceva sorrisoni e dietro l’angolo insultava il povero Angelo, poi dava la colpa a me. Abbiamo solo riportato in tv quello che è successo, non abbiamo inventato nulla. A Soleil l’ho detto: “Ti conviene essere più genuina in tv”. Credo che l’abbiano capito perché si sono ricredute e ora mi riempiono di cuori su Instagram».

È già tempo di un’edizione all stars?

«Non ancora. In tanti mi chiedono l’edizione nip, altri ancora un’edizione europea: quella non si può fare perché l’autostop in Europa è illegale.

Ma Pechino Express 9 quando si farà visto che il Coronavirus congela viaggi e spostamenti?

«Sì farà, ma non so quando perché la situazione è in grande evoluzione. Potrebbero esserci degli intoppi burocratici soprattutto per i sopralluoghi, che sono una parte fondamentale».

Tornerete in Asia?

«Non c’è nulla di deciso: oltre a Rai e Magnolia decide anche la produzione belga che è coinvolta e io non metto mai bocca. Anche se in passato ho detto un no tassativo ad alcune proposte».

Ha altri progetti in ballo con Rai 2?

«Stiamo valutando dei format ma è presto per parlarne. Ho avuto modo di conoscere Ludovico Di Meo, nuovo direttore di rete, e c’è stata una buona intesa».

Intanto sarà nel cast di Ballando con le stelle. Quando comincia?

«Quando la Rai darà il via libera e le misure di sicurezza lo permetteranno. Io intanto sono qui a Roma, mi alleno via Skype e faccio consulti con un ortopedico per monitorare la situazione delle mie gambe».

Perché?

«Ho avuto due incidenti da giovane, a seguito dei quali zoppico leggermente. Una volta fui travolto da una frana e mi ruppi una gamba, la seconda volta caddi rovinosamente: producevo servizi fotografici in Australia e in una casa abbandonata finii in una piscina vuota. Milly Carlucci mi ha fatto visitare a distanza da un ortopedico, il quale ha stabilito che non ho molto equilibro e dunque devo fare esercizi extra e addominali».

Sul palco cosa farà?

«Milly mi ha lasciato carta bianca su balletti, costumi e coreografie. Ovviamente mi atterrò a ciò che dicono i maestri ma non avrei mai accettato di fare un valzer in smoking. Ballerò con una donna e voglio che ogni coreografia sia un racconto ispirato a vecchie storie d’amore».

È pronto a litigare con Selvaggia Lucarelli e gli altri giudici?

«Il coltello della parte del manico ce l’hanno loro. Ovviamente se mai faranno Pechino mi vendicherò a tempo debito. Detto questo, io sono come Miccio: punto a vincere, non a partecipare (ride)».

Lei che è considerato radical chic, cosa c’entra con un programma ultra pop come Ballando?

«A volte mi danno del radical chic, a volte del liberale di destra. L’unica cosa vera è che vado nel Kerala, che è strapieno di sostenitrici di Corbyn: in mezzo a loro io sono un liberale e consumista. Detto questo, Ballando ha una doppia lettura e mi piaceva mettermi in gioco, mi sono chiesto se i miei fan mi avrebbero voluto vedere lì e mi sono risposto di sì. In passato mi hanno chiesto di fare l’Isola dei Famosi e la prima cosa che ho domandato è stata: “È vero che non si mangia?”. Mi hanno detto che era vero e ho rifiutato».

Oltre che per il cachet, che ci fa invece nei salotti della D’Urso?

«Perché non ci dovrei andare se m’invitano? Le puntate sull’affaire Prati erano arte, così come Temptation Island: conosco dei neuro scienziati che guardano i programmi della De Filippi e lo fanno senza pregiudizi. È chiaro che mi diverte di più stare in un posto dove accusano la Moric di morsicare un cane che non in un talk politico».

Non la imbarazza la D’Urso che recita l’Eterno riposo con Salvini?

«Seguo le religioni orientali, queste cose levantine non m’interessano. L’avrei trovato più grave se fosse andata in onda sul servizio pubblico. Di certo poi l’economia e sanità si ricostruiscono con i soldi, non i rosari recitati».

Che impressione le fa l’Italia in quarantena?

«Mi rattrista, come penso a tutti. Io poi vivo a Milano e la amo ma vedo che tutto un immaginario sull’efficiente e produttiva Lombardia è andato in fumo in poche settimane. Ma sono certo che ci daremo da fare per rimettere tutto in moto quanto prima».

Da viaggiatore incallito, sta già pensato ai prossimi viaggi da fare?

«Mi manca poter viaggiare e uscire, mi manca l’India e Bangkok. Sono molto influenzato dall’ambiente che mi circonda e sto meglio tra le piante di banano e i monaci vestiti color zafferano. Di sicuro tornerò in Kerala e poi vorrei scoprire meglio il nord dell’Europa, dalla Svezia all’Olanda, dove manco da tempo».

Lorenza Sebastiani per “il Giornale” il 14 febbraio 2020. «È arrivato il momento di incattivirsi». Costantino della Gherardesca, storico conduttore di Pechino Express su Rai2, ha appena aperto l' ottava edizione (in collaborazione con Banijay Italia) con una media di ascolto pari a circa 2 milioni di spettatori (9.2% di share). Risultati buoni, per un Costantino che sta cambiando registro di conduzione: «Vi accorgerete nel corso delle puntate, il gioco sarà più spietato. Mi vedrete più spesso a fianco dei concorrenti e avrò molta meno pietà del solito». Dieci puntate tra Thailandia, Cina e Corea del Sud con un cast eterogeneo, dieci coppie tra cui le Figlie d' Arte (Asia Argento e Vera Gemma), i Gladiatori (Max Giusti e Marco Mazzocchi), i Wedding Planner (Enzo Miccio e Carolina Gianuzzi). Lo show stavolta punta sulla competizione più sfrenata, con l' obiettivo di trovare un tetto per la notte.

Ci racconti questa sua nuova veste.

«Abbiamo fatto ricerche di mercato, il pubblico pensa sia diventato troppo buono, ultimamente. Quindi sono più cattivo, le prove saranno fisicamente e psicologicamente molto più difficili. Sono meno paterno e più sergente. Il pubblico vuole vedere una gara assatanata e ironica. E vi mostrerò paesaggi incredibili».

Cosa pensa del territorio che avete visitato?

«La Cina è un paese straordinario, bellissimo, con case popolari alte quaranta piani, con panni stesi al quarantesimo. Ogni anno il governo tira fuori dalla povertà tre milioni di persone, un paese devoto al progresso. Pechino è un format che ti permette di viaggiare, apre la mente. Quando ti trovi a Seul, che è quarant' anni avanti rispetto a noi, e rientri a Malpensa in mezzo alla nebbia e ai piumini color asfalto e verde ulivo della gente, capisci che non siamo di certo il primo mondo».

E lo racconta a Pechino Express, il programma che sente più suo.

«Ne sono sempre stato anche autore. Non ho mai sottovalutato il pubblico e non sono mai stato falso. Vede, la tv è piena di gente falsa, persone che si fingono buone, ma sono dei sicari».

È circolata voce che avrebbe potuto sostituirla Simona Ventura.

«Simona gioca a tennis ed è ancora in grandissima forma, ma Pechino è il programma psicologicamente e fisicamente più complicato che ci sia in tv. Bisogna alzarsi alle 4 del mattino, sopportare ritmi estremi. La vedo produttivamente difficile per un altro conduttore, a meno che non sia un atleta. Comunque per ora il pubblico vuole me. La gente sui social e fuori mi dice questo».

Cosa dobbiamo aspettarci da queste coppie?

«Stupisce la prepotenza di Enzo Miccio con la sua povera assistente, la cattiveria e i falsi sorrisi di Soleil Sorge. E un' Asia Argento sorprendentemente solare, con tanta voglia di vincere».

Curiosità. Ultimamente lei ha frequentato i salotti di Barbara D' Urso.

«È diventata un capro espiatorio per tutti gli addetti ai lavori che ne parlano male pensando di farsi belli. Se ci fa caso, non è che chi la critichi faccia dei film di Ken Loach. E poi il suo show è surreale, ha applicato il modello dei news network di destra americani all' intrattenimento. È un tipo di tv molto liberata e mi diverte molto».

E come definirebbe la sua, di tv?

«Mi interessa l' antropologia dello spettatore, del concorrente, la psicanalisi. La tv è un' arte che si impara praticandola. Ci sono certi segreti di chi fa tv che sono quasi mistici, non hanno nessun nesso logico. Ma per lavorare bene devi conoscerli».

Cosa le piace guardare?

«Non mi piacciono le polemiche, l' allarmismo, il gossip mascherato da giornalismo. Mi piace l' assurdo, tipo Temptation Island, visto da bagnini e scienziati. Geniale».

E di lei come conduttore, cosa pensa?

«A volte penso che la mia tv sia diventata troppo seria. Vede, ho un imprinting bacchettone, un filino democristiano. È arrivato per me il momento di aggiornarmi ai gusti dei giovani. Il nuovo Costantino ha voglia di osare, con cattiveria».

Presto su IGTV vedremo Un marito per Costa. Ma la sua realtà sentimentale qual è?

«Sto lavorando sempre. Non ho il tempo fisico per una vita personale e intima. Un filino mi rattrista, più che il sesso mi manca qualcuno con cui viaggiare. È colpa di voi giornalisti, che non mettete mai mie foto sexy accanto alle interviste. Per questo sono single, colpa vostra».

·        Cristina D'Avena.

Simone Marchetti per "vanityfair.it" il 4 novembre 2020. In questa intervista troverete, in ordine sparso: un merlo indiano che si chiama Spadaccino e che chiede se hai pagato il conto; due genitori, Ornella e Alfredo, che sembrano usciti da un duetto della Traviata; una donna bambina che si scopre sex symbol e Sant’Antonio che fa svariati miracoli. Poi, ancora: un professore universitario che baratta una canzone dei Puffi per un 19 in Fisica, la parrucca di Love me Licia che fa prudere i capelli e svariate paia di guanti di lattice che ti trasformano in femme fatale. «Sembra il riassunto della mia vita», racconta Cristina D’Avena mentre si abbiglia da Dita Von Teese per il servizio che vedete in queste pagine.

«Del resto, il segreto della mia storia è non averne mai scritta una: ho semplicemente assecondato il destino. E quando lui chiamava, io ho sempre risposto: sì, lo voglio».

Confermo. Quando le abbiamo chiesto di posare celebrando il desiderio, la sessualità, la voglia di amare nonostante tutto quello che ci sta succedendo, lei non si è tirata indietro.

«Per forza: io sono un’istintiva. E credo profondamente nel mio istinto di pancia. Infatti la mia carriera è stata un’infilata di prime volte, di innamoramenti a prima vista. Oppure di no a prima vista. Per me è tutto o niente. E lo capisco subito se una cosa fa per me».

Anche quando è lontanissima dal suo personaggio?

«Mi piace essere vista come un oggetto del desiderio. Nella vita mi è capitato un ruolo di bimba donna e di donna bambina: è un ossimoro strano, qualcosa che ti fa amare indistintamente da uomini e donne perché incarni la spensieratezza dell’infanzia e i chiaroscuri sensuali dell’età adulta. A me piace risvegliare il desiderio, ci gioco e mi appaga anche essere fonte di attrazione. Ma il punto è un altro: questa figura di donna bambina rassicura perché ti sembra di conoscerla da sempre, come fosse la tua migliore amica e insieme, forse, la tua amante. Il suo segreto è uno solo: la dolcezza».

Cos’ha imparato dal suo personaggio?

«Più che imparare dal mio personaggio, io ho vissuto nel mio personaggio come fosse una casa costruita per me. Lo so, ora mi chiederà se è stata una prigione. Me lo chiedono tutti».

Lo è stata?

«Per indole, non sono una ribelle e tendo ad assecondare il destino. Sognavo di fare il medico e mi sono ritrovata a cantare. È stata una prigione? Non lo so. Come non so se mi pesi il fatto di non aver avuto dei figli. O di essere sempre considerata la fidanzatina del mio pubblico. Vede, in fondo, io preferisco viverlo il destino, invece di cambiarlo».

Chi ha scritto il suo destino?

«All’inizio, i miei genitori. Innanzitutto papà Alfredo, un medico che ancora oggi tutti ricordano. Se n’è andato più di dieci anni fa. E io non riesco a farmene una ragione: mi manca così tanto, mi manca sempre. Era duro, severo e molto, molto geloso. Era il vero medico di famiglia che si alza all’alba, fa la prima visita alle sette di mattina, poi al pomeriggio in ambulatorio e la sera a studiare per aggiornarsi. Ricordo che portava me e mia mamma, che faceva la sua segretaria, in ospedale. E in ospedale passavo lunghe giornate con lei e con le suore. Fu una di queste, suor Cellina, a dire a mia madre “ma questa bambina canta sempre, perché non la iscrive allo Zecchino d’oro?”. Mamma nemmeno sapeva cosa fosse».

Com’è sua madre?

«Mamma Ornella è l’altra parte del cielo. Da lei ho avuto la formazione più tenera. Ricordo, per esempio, il merlo indiano Spadaccino, che apparteneva a suo padre, il nonno Ennere, che aveva un albergo. Quando lo portarono a casa nostra, che poi era un rifugio di animali domestici, Spadaccino ripeteva all’infinito: “Hai pagato il conto?”, perché era abituato a chiederlo ai clienti dell’hotel. Poi rideva e imitava la voce del nonno. Mamma è sempre stata una luce. E quando papà è mancato, ho iniziato a portarla con me ai concerti. I fan la chiamano la Regina Madre. E lei è sempre lì, al mattino pronta con la valigia per partire, alla sera splendente in prima fila».

Hanno influito molto i suoi genitori sulla sua carriera?

«Non mi hanno mai ostacolata. Ma nemmeno spinta. Papà per me sognava la carriera di medico. Fino all’università, il canto era per me, per noi, solo un hobby. Che anni quelli del Coro dell’Antoniano! Ho un ricordo vago, appena accennato di quando cantai il Valzer del moscerino a tre anni. Fu un successo clamoroso ma per noi bambini era normalità.

Ecco, se c’è una persona che ha influito nella mia formazione è Mariele Ventre, donna eccezionale, pugno di ferro coi bambini: all’Antoniano nessuno doveva pensare di essere un divo, né i bambini né i loro genitori. Si cantava per divertirsi e la disciplina serviva a diventare più bravi. Ho passato tutta l’infanzia nel coro: i concerti, i viaggi in pullman, la tournée in Israele. Quella severità e quel senso del canto e del divertimento sono diventati parte di me».

Poi sono arrivati I Puffi…

«Eh, prima dei Puffi c’è stata in realtà la sigla di Bambino Pinocchio. Funzionava così: ero al liceo e ogni tanto mi chiamavano per registrare una sigla dei cartoni animati. Ero un ingrediente tra i tanti, una bella voce tra tante. Poi, verso la fine del liceo, mi chiamano per questo nuovo progetto, I Puffi. Ricordo mio padre che mi accompagnava a Milano agli studi di registrazione e poi mi aspettava controllando tutto. Quello che successe dopo fu una cosa pazzesca: tutti cantavano quella canzone, il cartone animato divenne un caso arrivando a vendere 500.000 copie del singolo.

Io ero travolta: non ho un carattere da vincente, oggi non potrei mai partecipare a un talent. Il punto di svolta avvenne all’università, quando per la terza volta stavo tentando l’esame di Chimica. Lo scritto andò così così e all’orale il professore mi fece capire che non l’avrei passato di nuovo. Io lo guardai con i miei occhi e lui, sorridendo, mi disse: “Me la canti la canzone dei Puffi?”. Finì che mi beccai un 19. Grazie ai Puffi, ovviamente».

Quindi niente Medicina, era nata una stella.

«Non ancora, in realtà. Tutto divenne chiaro e io lascia l’università a pochi esami dalla fine solo quando mi chiamarono per il telefilm Love Me Licia. La verità è che mandavano le repliche del cartone animato Kiss Me Licia da troppo tempo e i fan iniziavano a chiedere di più. Si facevano ascolti che oggi sarebbero impossibili. Così Alessandra Valeri Manera mi chiamò e mi disse: vogliamo girare un serial e tu sarai Licia. Ci rimasi di stucco. Ma la cosa che più mi preoccupava, però, erano i capelli: me li dovevano tagliare e stirare tutti i giorni. Piansi, e si optò per una parrucca, che mi accompagnò per tutte le riprese facendomi prudere il capo. Non avevo nessuna base di teatro o di cinema, imparai tutto dai colleghi improvvisando in camerino prima di andare sul set. È stata una scuola eccezionale».

E l’inizio del suo personaggio di fatina.

Una fatina che vive di notte. Fin da piccola sono sempre stata poco mattiniera, ma con gli anni sono diventata proprio notturna. A volte vado a letto alle cinque, alle sei del mattino: mi piace quella sospensione del tempo che avviene di notte, quando nessuno ti chiama e tutto tace. Penso, scrivo, ripenso. È il mio territorio di libertà. Ricordo bene il lockdown di questa primavera, in una di quelle notti decisi di iniziare a dialogare col mio pubblico per intrattenerlo come non potevo più fare dal vivo. Non mi andava di fare come gli altri, di chiamare un collega e fare una diretta. Io volevo parlare direttamente con chi mi segue».

Si parla di nuovo di lockdown, ma è tutto diverso da allora.

«Eh sì, è finita la speranza, l’idea del sacrificio per un momento migliore, per un domani senza il virus. Ma sa che cosa ho imparato? A esorcizzare questa paura, questo momento buio in cui ci siamo ritrovati improvvisamente. Questa pandemia ci ha messi tutti a nudo, ci ha tolto la libertà. Non solo quella di muoverci o di lavorare. La libertà di toccare, di abbracciare, di baciare, di amare. Non puoi stringere una mano, te la devi disinfettare. Non puoi sorridere, non si vede sotto la mascherina. Però io non mi rassegno: una sera del lockdown, una ragazza di Brescia si collegò via Instagram e mi raccontò di aver perso i genitori per il Covid. Rimasi senza parole e fu lei a consolarmi: mi disse che non dovevo cambiare le cose, che non potevo, che non era necessario. Voleva solo che la coccolassi. Ecco, per me questo è esorcizzare la paura».

Cosa significa in pratica?

«Significa vivere il potere dei momenti che ancora abbiamo. Amare ancora, abbracciare chi possiamo, fare l’amore quando possiamo, approfittare di ogni singolo secondo come fosse un regalo. Non mi ritenga superficiale. Io penso che la mia vita e la mia carriera mi abbiano insegnato a coltivare una sana dose di fanciullezza. E tornare a essere bambini non significa essere superficiali. Vuol dire, invece, essere più positivi perché i bambini sanno essere leggeri, grande dote, e sanno convivere meglio con i momenti difficili perché posseggono la spensieratezza del reinventarsi».

E come si fa a reinventarsi oggi?

«Non lo so. Non sono cieca, vedo la difficoltà delle nuove generazioni che si trovano muri di fronte. Mancanza di lavoro, mancanza di opportunità. E un orizzonte per niente certo. Non voglio sembrarle supponente, ma ancora una volta io provo ad assecondare il destino. Facevo più di cento concerti l’anno, oggi se va bene ne faccio uno. La mia carriera sembrava stabile e ripetitiva, poi sono arrivati il Festival di Sanremo e due album di duetti con grandi cantanti. Ci doveva essere un programma tv dedicato ai miei quasi quarant’anni di carriera, ma è stato rimandato. Di notte sto sveglia pensando a cosa posso fare sul web, a come cambiare di nuovo le carte in tavola. Sa di cosa c’è bisogno? Di tolleranza e di speranza».

Si spieghi meglio.

«La tolleranza che si sta perdendo per via della faziosità dei social e di tanta politica contemporanea è fondamentale per capire tutto: gli altri, cosa non funziona, cosa funziona, come adattarsi. E la speranza è una sua conseguenza: la speranza è la virtù di chi riesce a vedere la luce in fondo al tunnel. È un esercizio di forza. Ricordo un mio concerto di qualche anno fa. Pochi minuti prima di salire, chiamo per sapere come stava una mia zia malata a cui ero molto affezionata. Mi dicono che è appena spirata. Arrivo sul palco, scoppio in lacrime e non posso fare altro che raccontare al pubblico come stanno le cose. Poi mi sforzo di cantare e nella mia testa dedico ogni canzone a lei. È stato il momento più difficile della mia carriera. Un esercizio di forza e di speranza, appunto. Quella che serve oggi. Però ho un altro asso nella manica, un amico speciale: Sant’Antonio».

Mi scusi?

«Sì, Sant’Antonio. Guardi, un giorno scriverò un libro sul mio rapporto con lui. Mi aiuta, mi consiglia, è sempre al mio fianco ed è come se facesse piccoli miracoli per me. Ma questa è un’altra storia ed è troppo difficile da spiegare. Più facile parlare di Cristina nei panni di Dita Von Teese».

Com’è stato cambiare così tanto la sua immagine per questa cover?

«È una provocazione, un invito a sciogliersi, a tollerare, ad amare di più, a sperare. Io penso davvero che questo sia da vivere come un momento di prova. E nei momenti di prova bisogna fare soprattutto una cosa: resistere. E non perdere mai la fiducia. Nel mentre, consiglio di chiudere le porte di casa, spegnere i social, tagliare fuori tutto e tutti. E amare. Noi stessi, chi ci è vicino, chi ci ama. Perché se ci si dimentica di amare, ci si dimentica di tutto».

Dagospia il 2 ottobre 2020. Da I Lunatici Rai Radio2. Cristina D'Avena è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei. Cristina D'Avena ha parlato dei suoi esordi e dei suoi sogni da ragazza: "Da bambina ero abbastanza studiosa, ma non sono mai stata al primo banco. Non mi piaceva fare la secchiona né mettermi davanti alla professoressa a guardarla negli occhi. Mi sono molto divertita a scuola, sono stati anni duri, ma avevo un buon rapporto con i miei compagni. E se c'era da passare un compito, lo passavo. Ho studiato medicina, sono arrivata a buon punto, ma il lavoro in quegli anni, negli anni 90, era abbastanza impegnativo. Facevo i telefilm, ero sempre a Milano, non potevo seguire le lezioni, ho dovuto lasciare gli studi per concentrarmi su un lavoro che comunque mi piace moltissimo. Mi mancavano pochi esami, era l'ultimo anno, avrei dovuto fare tirocinio. Ma non nego che siccome uno dei miei sogni era specializzarmi in neuropsichiatria infantile, mi piacerebbe laurearmi in medicina e prendere questa specializzazione. E' un campo che ritengo molto affascinante. Questo è uno dei miei obiettivi, uno dei miei sogni nel cassetto. Come è iniziato tutto nel lavoro? A sedici anni e mezzo. Andavo ancora a scuola. Mi avevano contattato dall'Antoniano di Bologna, Mediaset cercava una voce femminile per interpretare la sigla del cartone animato "Bambino Pinocchio". Sono stata convocata, mi sono presentata, mi hanno fatto una serie di domande e poi mi hanno detto che mi avrebbero chiamato per fare un provino a Milano. Così è stato, andai con mio padre e mi fecero direttamente incidere la canzone. Il mio modo di interpretare la canzone piacque moltissimo ai capi e mi richiamarono. Me ne fecero cantare altre, finché poi arrivata a una decina di pezzi pubblicai il primo Lp". Ancora sulle sigle dei cartoni animati: "La sigla a cui sono più legata? Quella di "kiss me Licia". E' una canzone che ho nel cuore perché "Kiss me Licia" con i telefilm mi ha fatto conoscere al pubblico anche come attrice, il pubblico ha iniziato a conoscere il mio volto, le mie movenze. Da lì sono arrivate popolarità, dischi d'oro, dischi di platino. Non ci rendevamo conto sul set che stavamo facendo una cosa che sarebbe diventata un cult. Ero molto piccola, ogni cosa la vivevo con assoluta naturalezza. Dopo tanto tempo mi sono resa conto che ho fatto una cosa grandiosa, perché quando parlo di Licia, dei miei telefilm, le persone si commuovono, iniziano a cantare le canzoni. Ormai i miei fans non hanno più un'età precisa. Vanno dai quarantenni e oltre ai bimbi piccoli. Come ho fatto a non montarmi la testa? Ho avuto una famiglia straordinaria. Papà e mamma sempre presenti. Papà era medico. Hanno sempre accompagnato il mio lavoro con discrezione e intelligenza. Poi io sono una persona umile di mio". Cristina D'Avena è una icona gay: "E' vero, ho tantissimi collaboratori omosessuali che amo e mi amano e ho un pubblico che mi segue da una vita che è cresciuto con me e anche grazie ai cartoni animati ha trovato spensieratezza, è riuscito ad uscire allo scoperto anche grazie ai colori dei cartoni animati. Ora nella nostra società le cose sono cambiate, una volta era più difficile. Il fatto attraverso i cartoni animati di poter cantare  e farsi conoscere attraverso quello che si vorrebbe essere, è stato tutto molto più dolce, facile e amorevole". Cristina D'Avena ormai è una sorta di sogno proibito per molte persone: "Ognuno ha la propria personalità che viene fuori sempre e comunque in ogni momento della vita. Io sono una femmina, mi piace il bustino stretto, far vedere le forme, anche se sono sempre moderata e mai volgare. Ma essendo una femmina mi piace fare la femmina e le cose vanno di pari passo con il tuo modo di essere e la tua maturità. Pur essendo adulta, la mia femminilità adesso che viene fuori in tutte le sue forme, desta una curiosità sicuramente maggiore verso il pubblico, che conosce la Cristina dei telefilm ma che scopre una Cristina nuova. Ora i fans trovano una Cristina diversa, che praticamente fa anche assaporare la propria femminilità nella forma più bella possibilità, senza comunque mai andare sopra le righe o essere volgare. Ho fatto una foto in bikini ed è successo di tutto. Ma l'ho fatto in maniera amorevole, tranquilla, senza maschere o ghirigori. Ho postato una foto fatta con un mio amico, una foto studiata, ma per noi. Poi l'abbiamo postata ed è stata una cosa molto divertente. E ovviamente a me fa piacere che un uomo possa dire che sono bella o che sono ancora in forma. I maniaci? Sì, sui social ogni tanto qualche maniaco arriva. Gli si deve spiegare che non è il caso di andare oltre. Se capisce bene, altrimenti lo blocchi".

M.Lo. per “il Messaggero” il 3 gennaio 2020. Chi l'avrebbe mai detto che Lady Oscar potesse mettere nei guai Cristina D'Avena. Oscar François de Jarjayes, la spadaccina di Parigi educata dal padre come un maschio per seguire la carriera militare, «il buon padre voleva un maschietto ma ahimé, sei nata tu», canta Cristina, bene proprio l'eroina dei cartoni animati giapponesi scatena una lite nel bel mezzo di un concerto a Cerveteri. Colpa di una battutaccia. «Vladimir Luxuria invidia Lady Oscar perché lei aveva la spada più lunga della sua». A spararla grossa è il frontman del gruppo rock Gem Boy, in arte CarlettoFX, che accompagna la D'Avena. È la sera del primo gennaio, tra il pubblico c'è la mamma di una giovane transgender, Olimpia, la seconda minore in Italia a fare la transizione di genere a 17 anni senza essersi sottoposta a un intervento. «Non permetto a nessuno di mortificare mia figlia e qualunque ragazzo o ragazza trans», s'indigna Mariella Fanfarillo. «Ho trovato quella battuta volgare e offensiva, senza aspettare la fine del concerto sono andata subito a protestare con la manager di Cristina D'Avena per chiedere le scuse immediate». Il concerto viene interrotto. Il frontman del gruppo rock dal palco spiega che qualcuno si era risentito per la battuta «mi è stata suggerita da un mio amico gay», aggiunge. Poi chiede scusa a Cristina D'Avena. La cantante giura che non era al corrente del copione e si dissocia. «Non sono intervenuta subito perché in quel momento è partita la base», si giustifica. Vladimir Luxuria sorride e risponde con ironia. «Io non sono invidiosa della spada di Lady Oscar: si ricordasse chi ha detto una tale battuta che chi di spada ferisce, di spada perisce». Sorpresa per quel che è successo sul palco, «perché non mi sarei aspettata che avvenisse a un concerto di Cristina D'Avena, che ha spesso partecipato a eventi Lgbt. Battute così non fanno ridere più nessuno». «Frase infelice, uno scivolone», concorda Cristina. «Chiedo scusa a Vladimir. Tutti conoscono le mie posizioni sui gay: ho sempre difeso la comunità, amo il mondo gay, vado alle loro manifestazioni. Ho avvertito Carlo: non fare mai più una battuta del genere perché la prossima volta ti butto giù dal palco». Scuse a Luxuria anche dal sindaco di Cerveteri, Alessio Pascucci.

Francesca D' Angelo per “Libero Quotidiano” il 4 gennaio 2020.

«Finalmente posso dire la mia: su questa faccenda sono stati interpellati tutti, tranne i diretti interessati».

Rimediamo subito. Da dove vuole partire?

«Dai fatti, quelli veri: la vicenda è stata romanzata. Non ci sto a passare come omofobo».

L' interessato in questione si chiama Carlo, detto Carletto: il frontman dei Gem Boy, una band nota per le sue canzoni politicamente scorrette, che da diversi anni si esibisce insieme a Cristina D' Avena. Il nostro è finito su tutti i giornali per la seguente battuta: «Vladimir ha invidia di Lady Oscar perché lei aveva la spada più lunga». Una freddura che avrebbe indignato una madre di una ragazza trans, presente al concerto, nonché la stessa Luxuria spingendo Cristina D' Avena a dissociarsi con quanto detto sul palco.

Lei però sostiene che sia andata diversamente.

«Esatto. Tanto per incominciare la battuta era diversa e non certo gratuita. In uno dei tanti siparietti sul palco, fingevo di aver rubato il cellulare a Cristina. Leggevo i vari sms, partendo da Siffredi («Ciao sono Rocco, tuo papà Gambalunga») fino appunto a quello di chiusura su Vladimir, che serviva a lanciare la canzone di Lady Oscar. Il suo finto sms era: «Ciao Cri, sei una grande, potresti dedicarmi Lady Oscar? È un personaggio in cui mi identifico molto anche se io ho la spada più lunga».

Il pubblico come ha reagito?

«Hanno riso tutti. Quando poi è finito lo spettacolo è arrivata questa signora: si è lanciata in un monologo acceso e critico monopolizzando tutto il fine serata e prendendo a male parole anche chi, tra la polizia municipale, la invitava a calmarsi. Alla fine mi ha dato un suo libro, dove racconta la storia di transizione di sua figlia. Se voleva farmi riflettere, poteva scegliere un modo più civile O forse cercava solo visibilità».

Il politicamente corretto sta tagliando le gambe alla comicità?

«Di questo passo non si può fare ironia su nulla. Una battuta non può diventare un manifesto! L' omofobia esiste e va combattuta, ma la signora ha mirato al bersaglio sbagliato: lavoro anche per il canale YouTube Piccole magazine che segue il mondo Lgbt».

Si scuserà con Luxuria?

«No. Scusarsi vorrebbe dire ammettere di aver sbagliato: sono stato semplicemente me stesso, ho fatto quello che faccio da anni. L'essenza dei Gem boy è la trasgressività. Tra l' altro sono sicuro che se Luxuria fosse stata al concerto avrebbe riso, rispondendo bonariamente pan per focaccia».

Vero è che siamo in un periodo dove i diritti gay non sono ancora assodati: un po' di tatto in più non guasterebbe?

«Fare ironia sulle minoranze è un campo minato perché ci sarà sempre qualcuno che si sentirà offeso. Il punto è che non sai mai chi c' è dietro l' uomo che fa la battuta: se è rispettoso o meno. Per questo io mi permetto di prendere in giro solo le persone che conosco (come Cristina D' Avena o Vladimir, che è un personaggio pubblico) e solo durante i concerti. Una volta sceso dal palco, il gioco finisce».

Altri paletti?

«Mai bestemmie e niente battute su fede, politica e calcio».

Come è nato il sodalizio con D' Avena, così diversa da voi?

«Abbiamo giocato proprio su questo: il diavolo e l' acqua santa. Lei inizialmente era titubante. Il sodalizio però ha funzionato e i nostri concerti sono sempre sold out». Avete inciso l' album FIGA - Fans Italiani Gnocca Amica. A questo punto sarete dei grandi fan dei titoli di Libero «Perché cosa c' è di strano nei vostri titoli? (ride, ndr) Quando qualcuno vede lo scandalo, noi non riusciamo a vederlo mai».

·        Cristina Quaranta.

Mattia Pagliarulo per Dagospia il 4 maggio 2020. Cristina Quaranta è sicuramente una delle showgirl degli anni novanta più note e ricordate. Tantissimi programmi all’attivo tra cui Domenica In, Non è la Rai, Striscia la Notizia, Guida al Campionato e L’Isola dei Famosi. Da svariati anni la bionda soubrette è lontana dal piccolo schermo, ha un lavoro normale e si dichiara felice. Non nasconde il desiderio però di poter tornare in televisione magari nelle vesti di opinionista, senza però contarci troppo, d’altronde il suo sogno da ragazza non era certo quello di fare televisione, era tutt’altro. Oggi l’abbiamo incontrata ed in esclusiva e ci racconta tutto.

Cristina cosa sognava di fare da adolescente?

«Ho frequentato l’istituto magistrale perché il mio sogno fin da bambina era quello di diventare un insegnante di educazione fisica, mi piaceva tanto lo sport un tempo, oggi invece le odio fortemente. Ero una fissata di sport, ed ero anche ben predisposta»

Qual è stato il suo primo approccio al mondo dello spettacolo?

«È successo tutto per caso, non era nei miei programmi. Era il lontano 1989 ed ho accompagnato mia cugina un giorno a fare un provino per Domenica In, stavano cercando una ragazza pompon. Gianni Boncompagni mi notó subito e mi chiese se volevo partecipare al programma, io accettai. Da lì sono diventata valletta insieme a Edwige Fenech del famoso Cruciverbone di Domenica In all’epoca condotta da Gigi Sabani. In tutto ciò mia cugina fu scartata e per questo non ci parliamo più da allora».

Qual è stata la trasmissione a cui è più legata e la persona con cui ha lavorato che più le è rimasta nel cuore?

«La trasmissione senza alcun dubbio che mi ha dato più soddisfazioni in assoluto è stata Guida al Campionato perché inerente al calcio, e io da tifosa ci sguazzavo volentieri. La persona con cui ho lavorato e che mi è rimasta più nel cuore è stato il grande Maurizio Mosca che purtroppo non c’è più, lo ricordo come un vero gentiluomo ed un gran signore oltre che un eccellente professionista».

Cristina lei è stata anche una delle storiche veline di Striscia la Notizia, divideva il bancone con Alessia Merz, che ricordi ha di lei?

«Io e Alessia siamo completamente diverse ma siamo sempre andate molto d’accordo, ci accomunava la passione per le carte, giocavano a Scala 40, a Burraco ecc ecc, le carte ci hanno unito molto. Da anni non la sento più perché anche lei si è ritirata vive a Brescia e si è dedicata alla famiglia ma conservo un bel ricordo di lei»

Non si è fatta mancare nemmeno il reality, ha partecipato all’edizione de L’Isola dei Famosi più vista della storia del programma. Che esperienza è stata? La rifarebbe?

«L’Isola dei Famosi 3 è stata una delle mie peggiori performance. È stata un’edizione ricca di concorrenti con cui non andavo d’accordo e con cui ho avuto forti litigi. Elena Santarelli, Romina Carrisi e Lory Del Santo mi chiesero scusa dopo avermi nominata, ma non so perché lo hanno fatto, forse mi temevano. Prima di iniziare il programma tra donne ci eravamo fatte la promessa di non nominarci mai tra noi, ed invece loro non hanno rispettato questo accordo e mi hanno nominata già la prima sera, per me è stato un grande dispiacere essere eliminata dopo una sola settimana. L’hanno fatto perché ero molto forte ed ero una papabile vincitrice. Pensa che qualche anno fa Simona Ventura mi chiese scusa dicendomi che solo dopo aver partecipato a questo programma come concorrente ha potuto capire certe dinamiche e certe situazioni, nella mia edizione era la conduttrice e mi attaccò più volte durante le puntate. I reality mi piacciono perché amo le sfide e perché mi piace mettermi in gioco, ma possono essere deleteri perché se gli autori vogliono massacrarti fanno di tutto per far uscire il peggio di te. Io ci rimasi malissimo in quell’occasione ed essendo focosa e passionale non le mandai certo a dire. L’Isola la ricordo come una brutta esperienza che rifarei solo con altre persone, con quei concorrenti non la rifarei mai, non ne sopportavo mezzo, fatta eccezione per Enzo Paolo Turchi e Manuel Casella che erano molto carini».

Da anni non appare più un televisione, cosa fa oggi nella vita?

«È da anni che non mi si vede in televisione perché ho deciso di accantonare il mondo dello spettacolo da quando sono diventata mamma, mia figlia Aurora è stata la priorità. Oggi che ha quasi 18 anni mi rendo conto che la tv non è più quella dei miei amati anni 90’. Da quando ho lasciato la tv ho fatto vari lavori: sono stata ufficio stampa, sono stata un agente immobiliare, oggi invece gestisco un negozio di tendaggi, do una mano ad un amico romano che ha questa bottega a Milano, quando è fuori città lo sostituisco; mi piace molto questo lavoro, anche perché io non sono fatta per stare a casa con le mani in mano, mi piace riscoprirmi, reinventarmi e fare tante cose nuove»

Cosa le piace guardare in tv e con che programma le piacerebbe tornare in onda?

«In televisione seguo molte serie su Netflix e guardo C’è Posta per Te e non faccio altro che piangere, quindi ogni tanto lo evito perché mi emoziono troppo. Accetterei di tornare in onda se mi facessero fare l’opinionista, sarei adatta a quel ruolo nella tv di oggi, potrei parlare di svariati argomenti con disinvoltura».

Cristina oggi è felice della sua vita? O è delusa perché il mondo della tv l’ha messa da parte?

«Non sono affatto arrabbiata con la televisione per il semplice fatto che io nella vita avrei voluto fare tutt’altro, è accaduto tutto per caso, io non ho mai cercato questa carriera; se mi chiamano e mi propongono qualcosa che mi piace accetto, altrimenti continuo a fare la mia vita lontana dai riflettori che mi appaga e mi gratifica. Col senno di poi però tornando indietro avrei fatto tutt’altro, sarei rimasta a Roma a fare l’insegnante di educazione fisica. Non mi è mai piaciuto l’ambiente dello spettacolo, ho pochissimi amici che fanno parte di questo mondo, mi sono sempre sentita un pesce fuor d’acqua. Sono molto amica di Laura Freddi da tantissimi anni, lei è una persona speciale e tra noi c’è un legame molto forte, abbiamo co-condotto anche un programma che si chiamava “Il Guastafeste”, io e Laura eravamo le primedonne di questo varietà del sabato sera di Canale 5. Le persone senza peli sulla lingua come me sono scomode e non volendo cambiare il mio carattere sono stata allontanata e fatta fuori, ma va bene così»

Sente di dover dire grazie a qualcuno?

«No! Tutto ciò che ho fatto l’ho fatto grazie alla mia buona volontà. Forse se tornassi indietro sarei più diplomatica, termine che non rientra nel mio vocabolario. Sono schietta e diretta e si sa che le persone come me per comodità vengono messe da parte, preferisco quindi rimanere sola o con pochi ma buoni amici»

·        Daisy Taylor.

Barbara Costa per Dagospia il 12 agosto 2020. Io con accanto una moglie così, sarei strafelice, ma non starei tranquilla. Di quel corpo, quei seni, quelle gambe, sarei gelosa. Vivrei nella perenne ansia paranoica che me la portassero via. Soprattutto per quel cazzo appetitoso che Daisy Taylor ha tra le gambe. Daisy è una femmina splendida, anche se femmina, alla nascita, all'anagrafe, mai è stata, ma Daisy è tutto tranne che un uomo: la magnifica appendice che le adorna il pube la rende e la esalta più femmina tra le femmine. Daisy Taylor è la sposa ideale, ne sono convintissima: se tu credi sia in errore, spiegami come mai il suo video porno fatto in casa, titolato sui siti "Scopo la mia bellissima moglie trans", somma milioni di affamati sguardi. Tutti lì, e io per prima, a sognare una moglie simile, a sua perfetta somiglianza: una tal femmina col cazzo, con noi, a letto, nuda! La donna la più desiderabile, Eva come Dio l’avrebbe dovuta plasmare, l’Afrodite nata dalla fusione della spuma del mare coi genitali di Urano. E qualcosa di quel divino sesso maschile in Daisy Taylor è rimasto, si è riprodotto vivo, vispo e eretto tra i suoi fianchi, fianchi e natiche di calda pelle perlata che un uomo sì, lui reale marito legittimo, si può godere quanto vuole. Se oggi la californiana Daisy Taylor è tra le pornostar trans la più accattivante, la più innamorante, la più disturbante, lo deve anche a lui, a suo marito Jordan, suo partner nella follia di mettere le loro scopate a letto (dove lo fanno in cow-girl ed è lei a montarlo, e lui a prendere quello di Daisy in bocca per farla godere il doppio) ma pure in cucina (dì, quanto vorresti essere tu, al posto di Jordan, a prendere Daisy da dietro?) su Pornhub e co., per sbranare la concorrenza in fatto di views e notorietà. E soldi. La popolarità e il conto in banca che ti apri coi porno home-made, sono forse una bolla destinata a inevitabile scoppio, o forse no: sono sicuro ciò che ha permesso a questi due ragazzi ex commessi di abbandonare un lavoro "comune" per buttarsi anima, corpo e piselli, nel mondo del porno più competitivo e proficuo. Non Jordan ma Daisy, la sua bellezza dilaniante ingemmata da quel suo cazzo invitante, ci ha messo niente a farsi prendere dalla "Grooby", grande casa di produzione porno con sventole trans. Daisy è stata messa subito sotto contratto, "tolta" ai doveri coniugali e messa a pornare con uomini, donne, e con "sorelle" trans giovani e spregiudicate, piene di una femminilità distante dai canoni etero-femminili in auge. Con Daisy Taylor si torna allo splendore skinny ma di più si lasciano i cogloni e le forme a clessidra di Kardashian dittatura. Si torna a natiche splendide ma piccole, natiche che muori dalla voglia di toccare, mordere, leccare, si torna a seni media misura, seni che paiono sbocciati in totale intesa al corpo di Daisy, e non lì innestati a inevitabili protesi. Perché il fascino stregante della moglie dei miei sogni sta nell’armonico lavorio con cui gli ormoni hanno "cesellato" il suo corpo nato maschio: tranne i seni nessun bisturi lo ha sfiorato. Guardalo e dimmi: pensi a lei come a un uomo? Pensi lo sia mai stata? Daisy ti eccita perché è donna, o… cosa? Se io e Daisy Taylor ci sposassimo, sarebbe una beatitudine di sc*pate, e una tarantella di discussione politica. La ragazza a 22 anni da poco compiuti, ha scoperto appunto la politica, e ci si è fiondata. Mi vuol cambiare le sorti del mondo! Lei ci crede e, da quando è scoppiato il caso Floyd, ha trasformato i suoi social - soprattutto Twitter - nel suo strumento e campo di battaglia. La mia onanistica mogliettina con la fissa della politica mi sa che c’è nata: è lei stessa politica rappresentanza e rivendicazione, e proprio lì, nel suo allupante corpo. Daisy è disarmante nella sua guerra ai pregiudizi: lei col porno non vuole solo realizzarsi, non vuol solo scopare e farsi scopare all'infinito, no, lei col porno vuole abbattere quel che noi non trans sbagliamo a pensare - spesso in buonissima fede - nei confronti delle e dei trans. Daisy Taylor vuole abolire ogni categorizzazione, e per lei e in primis nel porno non ci dovrebbe essere la categoria trans, perché lei non è una performer trans, né una moglie trans, lei è semplicemente una persona. Essendo una post-millennial, Daisy è cresciuta col web e con un cervello più acceso delle generazioni precedenti. È straconsapevole di ciò che è e vuole, e non incolpa chi la giudica: si limita a citare la statistica che vuole che l’85 per cento degli americani non ha mai conosciuto di persona un trans o una trans, inibendosi a valutarli tramite l’immagine stereotipata e distorta dei media. Dai un’occhiata a come la mia futura sposa si posta sui social: guarda con che baby-doll gira per casa! Casa dove ultimamente Jordan pare assente. Sulla sua scheda Modelhub, Daisy risulta ancora impegnata, ma io non demordo nei miei sogni di nozze: ho scoperto che è gattofila come me e che la sua cantante preferita è quella lagna di Mariah Carey. Daisy odia il sexting e guai a inviarle foto di peni (ci credo, in confronto a quelli che maneggia sui set!). Il sexting lo detesto anch’io, e comunque, io un pene da mandarle non ce l’ho.

·        Dalila Di Lazzaro.

Novella Toloni per ilgiornale.it il 2 ottobre 2020. Sono lontani i tempi di film cult come "Oh, Serafina!" e "Tre uomini da abbattere" dove Dalila Di Lazzaro era una delle protagoniste indiscusse del cinema degli '70 e '80. Oggi l'attrice, a 67 anni, combatte una lunga battaglia contro un male invisibile, il dolore cronico, che non le permette di condurre una vita normale né tanto meno lavorare. Ospite a Storie Italiane la Di Lazzaro ha riportato l'attenzione sul tema degli artisti dimenticati dallo Stato, parlando della sua dolorosa vicenda e togliendosi soprattutto qualche sassolino dalla scarpa nei confronti delle istituzioni. Nell'ultima puntata di Storie Italiane Eleonora Daniele si è occupata del tema degli artisti e liberi professioni del mondo dello spettacolo abbandonati da Governo e istituzioni. La recente pandemia, infatti, ha lasciato senza lavoro migliaia di autonomi, che senza un lavoro non percepiscono stipendio. Tra loro anche ballerini e attori come Dalila Di Lazzaro che, in collegamento esterno, ha raccontato la sua dolorosa vicenda. Dopo una folgorante carriera cinematografica Dalila Di Lazzaro ha dovuto abbandonare la scena a causa di due gravi incidenti, che ne hanno messo a rischio la vita. L'attrice è sopravvissuta ma con gravi conseguenze, come lei stessa ha ricordato a Storie Italiane: "Ho battuto la schiena nel muro e un pezzo di trapezio si è staccato, portandosi via parti nervose della spina dorsale. Da quel momento io non mi muovo più e ho dolori cronici. Giro con la morfina". L'attrice ha raccontato di aver speso, negli anni, quasi 750mila euro in cure mediche e specialistiche e di aver dato fondo a tutti i suoi risparmi. Dalila Di Lazzaro non può recitare né lavorare da ormai dieci anni e questo non le garantisce alcun introito economico, come lei stessa ha specificato. Per questo, da tempo, ha richiesto di poter ottenere una pensione di invalidità, negatale però per la mancanza di soli tre punti: "Quando hai dei punti di invalidità, se arrivi a 73 ti danno una mano, ti danno circa 700 euro di pensione, ma non mi danno la possibilità di fare questi tre punti in più. Io di andare a chiedere l’elemosina non mi va, è una disgrazia questa Italia". Poi lo sfogo, amaro, contro un sistema logoro che guarda solo al suo interesse: "Ho chiesto di avere una pensione di invalidità per il dolore cronico altrimenti mi vedreste lavorare tutti i giorni. Quello che mi scandalizza è vedere il presidente dell'Inps che si alza lo stipendio e certo non ha le 700 euro al mese. Vergognoso. C'è gente alla gogna e quanto si sentono questo cose ci scaldiamo e non ci sentiamo tutelati".

·        Dana Vespoli.

Barbara Costa per Dagospia il 20 dicembre 2020. Se sei una donna e delle donne ti piace il loro ano, ti fa impazzire quel grandioso foro, piccolo, (o)scuro, che hanno dietro, e ti piace aprirglielo, e farlo vedere, in video, in primo piano, "infilandoci" l’obiettivo, e poi lo strap-on che hai indosso…va bene, no? Se sei una donna, di 48 anni, madre di 3 figli, e madrina della quarta figlia di tuo marito…va bene, no? Se sei in affari con la moglie di tuo marito, e con lei lavori, ed è proprio il suo ano che più di una volta sui set hai fatto vedere, spalancato…va bene, no? Se sei laureata in letteratura comparata, e sei rimasta secchiona, una che fa e gira porno e vi immette Kierkegaard, ma pure l’horror, la politica, e la bava alla bocca, gli sputi, l’incesto, dio e empietà, blasfemia, e il diavolo…va bene, no? Se poi ci metti pure ascelle leccate e annusate, magari sudate… io penso vada benissimo. Va benissimo e sei al top se ti chiami Dana Vespoli, fai la regista e da 10 anni il porno lo comandi, e lo stemmi in femminismo. Sì, femminismo, e che, quello peloso che ci lessa l’anima con le sue lezioncine-predichine-leziosità va bene, e quello di Dana Vespoli no? Una donna che ha il potere, e lo ha nel porno, non vi piace? Che tira su 3 figli, che è un essere più che pensante, e che ha un viso da innamorarsene all’istante, e un corpo di cui mostra con orgoglio i segni delle gravidanze, e corpo che a chiamarla milf commetti reato grave. E infatti, guai a dirle milf, Dana s’incazza a iena, lei ha due crucci, uno è l’età, l’altro quando le chiedono del suo “sguardo femminile sul porno”: che significa avere uno sguardo femminile sul porno, e sul mondo?!? Cosa diavolo siamo, una fauna, una specie, qualcosa di speciale? Dio santo, ancora a rompere le balle sulla "diversità" femminile, e quale sarebbe questa diversità, quella che ci vorrebbe diverse, e diverse come, ancelle e materne, in accordo alle regole maschili, o migliori per l’unico fatto di possedere una fica tra le gambe come ragliano le odierne saputelle del giusto e del bene? Sì, dai, spiegatemelo, e poi trovatemi una casella per Dana Vespoli, una che starebbe una spanna sugli altri pure se tra le gambe avesse niente. C’è chi si dovrebbe piantare in testa che la differenza tra le persone la fa il cervello, un muscolo asessuato pompante pensieri formati e alimentati da ciò che ogni proprietario vi immette. Di Dana Vespoli, sceglietevi un porno a caso, e se ancora belate sul porno cinema di qualità infima, a meccanica riproduzione di fantasie maschili, e porno che vale nulla, dove ci lavora gente bacata, malata, sfruttata… che posso farci? Cibate il cervello a stoltezze. Dana Vespoli è entrata nel porno a più di 30 anni dopo aver lavorato nel settore assicurativo e averlo lasciato per ballerina di teatro (porno). Il suo obiettivo è sempre stato quello di fare la regista porno, ambizione in fermento dall’adolescenza, nutrita a scorpacciate di porno guardato, a casa, e nei cinema che ancora c’erano e dove sedeva illegalmente poiché minorenne. È entrata nel settore da performer decisa a conoscere cos’è fare porno per davvero prima di imprimerlo su pellicola. Ha debuttato nel 2003, quando il genere più in voga era l’anale il più violento e tosto. Il sedere di Dana è presto diventato leggenda, data la sua capacità di analmente prenderne in quantità. Dopo 8 mesi di set, Dana ha detto stop: era esaurita. Si è trasferita in Francia e il porno lo ha scritto da giornalista. È tornata negli Stati Uniti per recitarlo e per girarlo, e non da donna, ma da… Dana Vespoli. Ed essere Dana Vespoli significa ideare e firmare porno tra uomini gay, e firmare porno horror di mortale seduzione, firmare porno trans dove la transessualità e il travestitismo non sono innaturali ma il contrario. Scrivere e girare porno "Fluid" dove la protagonista è l’acqua in quanto feticcio, in quanto paura che desta, in quanto liquido tra intimi liquidi, e si è fluidi nel sesso che si è, si vuole, e si fa. Dana ha firmato porno sul consenso di "persone" nell’essere dominate, vessate da uomini perché tale è il feticismo di convinte donne che decidono sessualmente di viverlo, come ne decidono regole e limiti. Dana Vespoli mette in scena il dolore, ma quello che dà, provoca piacere in ogni forma a esso associata. I suoi porno a delizia lesbica-anale risultano contorti, scomodi. Molesti. Sono aggressivi. Controversi. Ci sono lesbiche che vanno con gli uomini e sono discriminate dalle altre lesbiche. Ci sono donne bianche che abusano uomini neri. Sono tutti porno girati da una donna, da una madre, che indignano donne, e indignano madri. Lo stesso offendono i Vespoli-porno "religiosi", a tema monastico-esorcistico, sacrilego, e Dana per prima si (trav)este da suora e rappresenta sullo schermo ciò e più a chi ha sposato il sacro è proibito fare. Dana tocca il (finto) incesto con matrigne cattive e figliastri inquietanti che scopano sotto ricatto psicologico. Sono i suoi porno tesi, a corruzione edipica. Col cinema di Dana Vespoli il sesso è ruvido, molto violento, e ci si sente in pericolo: con le sue invenzioni visuali, pulp, non hai scuse, se sei un uomo, e non hai appigli né difese, se sei una donna. Tu sei quello che decidi. Tu sei quello di cui hai e prendi responsabilità. Che tu abbia o meno una fessura tra le gambe, non ci interessa. Quant’è misero frignare quando le lacrime "femminili" non commuovono più, eh? Dana Vespoli è stata sposata 7 anni con Manuel Ferrara, attore e regista porno famosissimo. Hanno 3 figli. Manuel ha sposato in seconde nozze l’attrice e oggi regista porno Kayden Kross, da cui ha una figlia di cui Dana è madrina. Nel suo lavoro, Dana non prescinde dalle opinioni di Kayden: è una persona di cui si fida. Le due lavorano anche insieme, e Manuel è spesso porno-diretto da una delle 2, ma pure da entrambe. Dana non crede all’amore eterno o meglio, non ha tempo da dedicargli: le sue storie durano in media un mese, e lei adora pomiciare, al vaginale preferisce l’orgasmo anale e il suo feticismo è quello che porta in scena: annusare le ascelle! È attratta dal sudore, ma pure dai giochi sadomaso di scambi di ruolo, e vestire il proprio uomo da donna, truccarlo… e vederlo che scopa altre: ma qui entriamo nel campo cuckold e, sebbene Dana si professi voyeur anche nel privato, ora crescere 3 figli è la sua priorità, come lo è creare porno come sa e fa, come le suggerisce la vita che fa, chi frequenta, i suoi registi preferiti (Allen, Breillat, Lynch), gli scrittori (Sontang, Gaitskill, la Oates, Rilke, Woolf, Lorca, gli antichi greci). Dana Vespoli del romanticismo, nel porno, nella vita, se ne fotte. Lei è sopra, oltre. Ha una personalità a tal punto autorevole che sostiene che i siti freetube hanno fatto del bene al porno, perché professionalmente hanno tolto di mezzo gli incapaci, le mezze seghe, lasciando in attivo i più bravi, i più coraggiosi, chi lo sa fare, e tu, ancora stai lì, a cianciare di parità, femminilità, docilità… altre cazzate?

·        Daniela Martani.

Dagospia l'8 aprile 2020. Da “la Zanzara – Radio24”. A La Zanzara su Radio 24 l’animalista e vegana Daniela Martani torna sull’argomento vegani e coronavirus: “Non mi infetto perché sono vegana. Cosa vuol dire? Lo dicono tutti i medici. Non è che lo dico io. La gente mi fa ridere. Ho ricevuto giorni di attacchi allucinanti su tutti i social. Gente che chiede la mia morte. Finora la mia esperienza mi dimostra che è così. Perché a febbraio sono stata a Milano svariate volte, ho fatto su e giù con i treni, ho preso le metropolitane, ho assistito mia madre in ospedale a Roma. Sono entrata ed uscita dagli ospedali fino a quando si poteva. E finora non mi sono presa manco un raffreddore. Abbiamo un sistema immunitario più forte degli altri, ma non lo dico io. Lo capiscono anche gli analfabeti funzionali che non leggono un cazzo. Io leggo e mi informo. Sono vegana e voglio sapere quello che metto dentro la mia pancia. C’è una cosa importantissima che si chiama microbiota che ti alza le difese immunitarie”. Ma questo significa che i vegani hanno una specie di immunità dal Covid?: “Ma non lo dico io. L’alimentazione ha un ruolo fondamentale per la salute del nostro corpo. Ci sono degli studi che hanno verificato questo. Il fatto che voi non vogliate accettare che una dieta vegetariana sia più sana di una dieta carnivora, è un problema vostro. Ci sono degli studi che hanno verificato questo”. Dunque la carne ammazza più del coronavirus?: “Certo, perché comunque causa tumori. Sai quante persone sono morte finora di coronavirus in tutto il mondo? Circa 90mila. Sai quante sono morte di tumore? La carne uccide molto più del coronavirus perché le proteine animali sono la causa dell’insorgenza di tutte le malattie non trasmissibili. Quindi cancri, ictus, diabete, quasi tutte”. C’è chi sostiene che il coronavirus fa bene all’ambiente: “Il virus fa bene all’ambiente perché chiaramente l’attività umana in questo momento è completamente ferma. Certo, in questo momento si. Il pianeta sta respirando. Guarda che il vero virus, come ha detto anche Veronesi, siamo noi. Abbiamo distrutto la terra dove viviamo. Se ci fosse metà della popolazione, sarebbe meglio, siamo in troppi. Siamo quasi 8 miliardi di persone. Ma dove ci vogliamo mettere, scusa. Ma non lo vedi che devono costruire i palazzi in verticale perchè non sappiamo più dove stare? Non abbiamo più un’area verde”. Torniamo alla carne. Dunque io che mangio carne ho più possibilità di prendermi il virus?: “Certo, perché il tuo organismo sicuramente non funziona bene come il mio”. Ti interessa il vaccino?: “Ma guarda che il corpo ha la capacità di poter guarire da solo. Se verrà creato il vaccino, io non lo prenderò, non lo prenderò mai”. Ma tu sei matta: “Ma se una non la pensa come voi, la giudicate matta? Gesù l’hanno messo in croce perché hanno detto che era matto”.  C’è una connessione tra i contagi, i vaccini  e addirittura il 5G in Lombardia?: “Questo non lo dico io, ma ci sono vari studi. Hanno detto che è stata fatta una vaccinazione di massa sia per l’influenza che per la meningite poco prima che succedesse tutto questo proprio nella zona di Bergamo. E’ un’opzione che dev’essere valutata”. Ma perché continui a prendertela con Fedez e la Ferragni che hanno dato soldi per un ospedale?: “Ho ragione, assolutamente. Vogliono fare i buonisti dell’ultima ora. Per colpa loro andranno ammazzati milioni e milioni di animali. Per diventare le ciabatte della Ferragni. Le pantofole in visone che indossa la Ferragni sono roba vergognosa e diciamolo a tutta l’Italia. Roba vergognosa, vergognosa”. Ma chissenefrega delle pantofole della Ferragni: “No, caro Cruciani, ci sono delle vittime. Le posso fare le pantofole col tuo scalpo, Cruciani?”. Intanto loro hanno dato dei quattrini per l’ospedale, e pure i cacciatori: “Ma chissenefrega dei cacciatori, che fra l’altro sono una delle cause di tutto sto casino”. I cacciatori sarebbero la causa del coronavirus?: “Ma certo. Perché se tu vai a sfrucugliare gli animali selvatici, qua arriviamo al punto. Hai mai sentito parlare di peste suina? Cosa c’entrano i cacciatori con la peste suina? C’entrano. Sono degli sfigati che vanno a sparare agli animali. Prima li allevano, poi li liberano nell’ambiente per sparargli”. Ma che c’entra col coronavirus: “La causa del coronavirus è il rapporto completamente sbagliato che noi abbiamo con gli animali e quelli selvatici in particolare. Perché noi andiamo ad invadere il loro territorio”. Ti segnalo che in questo periodo sono morti un sacco di cacciatori: “Non me ne frega niente dei cacciatori morti per coronavirus. Se ti avessero detto lo sai che Hitler è morto di coronavirus? Tu cosa avresti detto?”. Cosa c’entrano i cacciatori con Hitler?: “Per me sono come Hitler. Ammazzano esseri innocenti che non possono neanche difendersi. Se muoiono non me ne frega niente”. A Bergamo e Brescia sono morti un sacco di cacciatori per il corona: “Meglio, meno animali uccisi nella prossima stagione di caccia. Dovrebbe essere eliminata. E’ una cosa aberrante”.

·        Daniela Rosati.

Daniela Rosati, l'ex di Galliani: "L'alto dirigente Mediaset che mi pestò brutalmente, a Berlusconi non dissi nulla". Libero Quotidiano il 22 giugno 2020. Ricordate Daniela Rosati, pioniera della medicina in tv ed ex di Adriano Galliani? Ora ha 62 anni e spiega in una lunga intervista al Fatto Quotidiano: "Ora mi dedico alla preghiera, alla carità e alla scrittura". Una vita legata a doppio filo alla religione, insomma. Ma nell'intervista c'è spazio anche per il passato e per alcuni episodi inquietanti. Come vive? "Vivo di quello che ho guadagnato grazie al mio lavoro e di ciò che ho avuto durante la separazione da Galliani: però, a differenza di quanto scritto da certi giornali, dal 2003 non ricevo più alcun mantenimento. Concretamente, passo le giornate pregando, vivendo la comunità e partecipando a conferenze e incontri dove vengo invitata a parlare", premette. Dunque, quando le chiedono se la castità è un peso, risponde: "All’inizio non ero contenta, anche perché all’epoca credevo di essere innamorata. Ma era necessario: dovevo scegliere e non è stato facile, ma nella vita tutto si può fare se si chiede aiuto a Dio. Il digiuno sessuale ora non mi pesa". Si passa poi ai trascorsi in Mediaset, ed è qui che la Rosati sgancia le bombe. In primis, quando le ricordano che era considerata una berlusconiana di ferro, risponde: "Il fatto che conoscessi il dottore – non ho mai nascosto l’affetto e la simpatia umana per lui – e il fatto che fossi stata sposata con Galliani creò invidie e vessazioni. Un alto dirigente arrivò persino a mettermi le mani addosso. Non lo denunciai pur avendo dei testimoni". E Silvio Berlusconi lo ha mai saputo: "No, non gli ho mai detto nulla. Più mi massacravano, più stavo zitta. Non mi piace pietire le cose e non credo che abbia mai saputo nulla". Ma non solo. Quando le chiedono se deve perdonare qualcuno, la Rosati spiega: "Chi mi ha fatto del male e soprattutto chi ha commesso nei miei confronti delle violenze fisiche terrificanti, che mi hanno lasciato una cicatrice interna indelebile". E quell'episodio, terrificante, lo svela. Si riferisce "a un momento terribile, che accadde nei primi anni ’80. Ero a Saint Paul de Vence con il mio compagno di allora – di cui non farò mai il nome – e scoprii di aspettare un bambino: avevo le nausee e non me la sentivo di andare in barca con gli amici, così gli dissi che sarei rimasta a casa. Lui ebbe crisi di violenza, mi prese a calci fino a farmi svenire. Rinvenni in un lago di sangue. Pulii tutto con della carta assorbente. Lo shock per la perdita del bambino fu enorme, tanto che non ricordo nulla dei giorni seguenti". Terrificante, terribile, violentissimo. La Rosati aggiunge di non aver mai denunciato quell'uomo "per amore dei suoi figli, in particolare quello più piccolo che viveva con noi. Finii in ospedale diverse volte, i medici insistevano perché denunciassi, ma non lo feci mai. Poco dopo, di fronte all’ennesima terribile violenza, gli ho lasciato la casa e sono andata via per sempre. Eppure, proprio questa persona, che non mi ha mai chiesto scusa, è la prima che mi ha chiamata preoccupata quando il virus è arrivato in Svezia", dove oggi la Rosati vive.

·        Danika e Steve Mori.

Dagospia  il 22 gennaio 2020. Da “la Zanzara - Radio24”. “Abbiamo più di un miliardo di visualizzazioni sul web, finora abbiamo guadagnato più di 500mila dollari”. A La Zanzara su Radio 24 Danika e Steve Mori, trent'anni, i fenomeni italiani e siciliani di Pornhub, la coppia di pornoattori più innovativa degli ultimi anni, parlano della loro attività. Siete mai stati con altri, oppure nei vostri video hard fate solo in coppia?

Danika: “Fino a qualche mese fa da soli, poi abbiamo incontrato una coppia di persone, nostri amici, che avevamo conosciuto già da tempo. Ci siamo trovati bene, abbiamo fatto qualche contenuto insieme. C’è stata una relazione a quattro per diversi mesi. Abbiamo girato qualcosa, però è disponibile per i nostri fans in abbonamento”.

Steve, i miei amici sono rimasti impressionati dalle misure del tuo cazzo: “Lungo 20 centimetri, largo sei. Sono abbastanza sopra la media”. Mi dicono che tu sia timido: “La videocamera crea un certo distacco. Tutto ciò che si vede nei video, siamo noi nella nostra piena intimità senza trama, è tutto naturale. Non è come avere un microfono putato davanti al viso, telecamere, etc…”. Ti sei spiegato perché il vostro successo?: “Non abbiamo comportamenti da pornoattori e scopiamo solo fra di noi? E tutti i contenuti sono gestiti da noi, il marketing, i social…”.

Danika, a casa com’è la situazione, voi siete siciliani: “Non ci odiano, ci vogliono bene, stiamo in contatto. Ma per una ragazza in famiglia è difficile. L’argomento di quello che faccio nella mia vita è tabù”. Le dimensioni di Steve ti hanno mai preoccupato?: “In realtà non ho mai controllato le dimensioni. Quando l’ho conosciuto ero giovanissima e non mi preoccupavo delle dimensioni”.

Eri vergine?: “No, non ero vergine. Ma con lui era come se lo fossi”. L’anal l’hai fatto con lui la prima volta?: “Sì, e ci ho messo un anno. Ci ho messo un anno per non soffrire tanto”. Steve: “E credimi, ho cercato di essere delicato. Un gentiluomo”. Lo squirting è tutto vero, Danika?: “Verissimo. Il primo è successo in macchina”. Steve: “Il primo in assoluto fu in macchina, vero. E fu qualcosa di incredibile. Senza telecamere, fra di noi. Eravamo ancora una coppietta, eravamo giovani”.

Dunque lo squirting è vero, non c’è trucco?: “No, non c’è trucco”. Quali sono le vostre scene più cliccate?: “Anal e squirting, se tu vai a vedere le statistiche, mediamente sono le scene più richieste”. Danika: “C’è da dire che comunque non si sa mai quale potrebbe essere il video più visto. Per esempio nel video con 40 milioni di visite, non c’è né anale né squirting. Semplicemente sesso tra di noi, passionale. Se io godo sempre quando faccio ste cose o c’è anche un po’ di finzione? No, no, io personalmente ho l’orgasmo facile. Mi diverto”. Steve: “Si può dire che sono fortunato”. Danika: “Sono multiorgasmica”.

·        Danny D.

Barbara Costa per Dagospia il 20 giugno 2020. Un buco è un buco, le terminazioni nervose che ci fanno godere lì stanno, e lui in video sì che ci dà sotto, con gli uomini, attivo e passivo, e in bocca lo mette e se lo fa mettere, lo succhia e se lo fa succhiare, con la sua lingua tra le natiche eccome se lecca e se le fa leccare. Ma Danny D. non è gay, né bisex, lui è etero, ma ha fatto porno gay. È lui quello che vedi in assoli masturbatori per seghe omosex, è lui tra quelli siglati "gay-for-pay", ovvero tra i pornostar che scopano uomini al di là del loro vero orientamento sessuale. Fermo là: non c’è da schifarsi, alzare il sopracciglio: ma tu davvero pensi che tutte le porno fighe che vedi nude, in 69, con altre fighe vogliose, siano lesbiche, se non proprio lesbiche, bisex? Scusa, ma chi te lo dice? Non è così, non sempre è così, non lo è per Danny D., che all’anagrafe manco si chiama così, ma Matt Hughes. Ed è lui, tra i re del porno 2020, suo l’Oscar come Best Performer Straniero. Come pornostar maschio. Etero. Ma prima, sui set, no. Sei in confusione? Ok, ricomincio. Dall’inizio. Danny D. ha 32 anni, è inglese, e non ha nemmeno terminato gli studi per fare porno. Ha capito che quel ben di Dio che gli sta tra le gambe - 24,5 centimetri di puro paradiso - non era mica giusto che se lo tenesse tutto per sé, e per le sue ragazze. Andava messo a frutto, e meglio se con gli uomini, nel porno gay che è settore che paga e bene ma per membri che siano belli grossi, ben oltre la media. Danny D. è entrato nel porno nel 2006, si è sfrenato in sesso gay amatorial e poi per le più rinomate produzioni di porno gay, fino a quando ha fatto il grande salto, mollando i maschi per le femmine. E qui sta il fatto-shock: devi sapere che nel porno, specialmente americano, fino a pochi anni fa esisteva un vero e proprio stigma sugli attori che facevano porno gay e volevano passare a pornare etero. Erano ritenuti pericolosi, ad alto rischio di malattie sessualmente trasmissibili. Erano pregiudizi basati sul fatto che l’AIDS a lungo si è accanito sulle realtà omosessuali falcidiandone gli esponenti, gravando anche sul porno omosex. Ma il porno gay di serie A, come il suo corrispettivo etero, è settore dove i performer sono testatissimi, e chi risulta positivo a qualsiasi cosa è subito fermato e giudicato uno stolto che si è andato a fare i fatti suoi fuori dal porno, senza protezione, con estranei da una botta e via. Perché il mondo del porno, etero e gay, è super-pulito, e piccolo, chiuso, dove si lavora tra le stesse persone, spesso accoppiate anche nella vita privata; persone che non ci pensano proprio a giocarsi salute (e carriera) per un incontro occasionale, senza condom, per giunta! Danny D. ha ucciso i preconcetti sugli attori di porno-gay, dimostrando con serietà che si può pornare con uomini (anche con uso di aiutini chimici, pratica comune in ambito gay-for-pay, anche se non si dice) e con donne, e diventare tra i più bravi (e ricchi). L’etero Danny D. è sposato con una donna, una ex star del porno, Sophia Knight. Una che ha lasciato il lavoro per lui, dedicandosi alla carriera del marito, o meglio, una che ha capito subito che il pene di Danny D. valeva enormemente più delle sue tette e dei suoi, di porno. Sophia è passata dietro la macchina da presa, lei e Danny hanno creato una casa di produzione che è in attivo e rende, anche perché gira voce che Danny D. non guadagni meno di 1500 dollari a scena. Danny dice che ha intenzione di pornare fino a 65 anni, la sua fama è al top, sebbene gli spettatori porno nei suoi confronti si dividano in due fazioni distinte: chi lo ama, e chi lo detesta (“che cazzo mostruoso, sono invidioso”; “a schizzi, non delude mai”; “Danny non mi piaci, che fisico emaciato, metti su massa!”. In effetti, Danny D. è alto 185 cm e pesa 68 kg, pene incluso). Anch’io Danny poco lo sopporto, specie nelle interviste, quando posa da caz*one e fa battute sceme (vedi quella dove gli chiedono quale donna famosa non porno vorrebbe sc*parsi, è lui risponde: la regina d’Inghilterra…), e mi deprimono le interviste doppie con Sophia, a miagolare i loro zero litigi, zero difetti, e che sono fedelissimi, non scambisti, e vogliono allargare la famiglia, e bla bla bla...Riconosco però che "Screw to Tango", porno girato con Valentina Nappi, è notevole, bellissimo. Danny il suo pisello lo sa usare, e gli va di dovere attribuito un indubbio talento recitativo che lo porta a incursioni nella comedy non porno. Il Danny D. privato a letto non va oltre il missionario, tifa Chelsea, ed è un modaiolo, uno che se non veste di marca e con capi che costano un occhio della testa, e meglio se sono pezzi unici, sta male. È fissato con le scarpe, compra sempre due paia dello stesso modello, e se non mi credi, scorri la sua pagina Instagram. Lui è un pornostar per cui vestirsi conta più che essere nudo, e comunque, è col suo corpo spogliato, col suo sesso dentro e fuori buchi maschili e femminili, che Danny D. si può permettere una enorme stanza-armadio per il suo guardaroba grande il doppio di quello di sua moglie. Poi dici che essere "gay-for-pay" non ha il suo perché!

·        Dante Ferretti.

Alain Elkann per “la Stampa” l'1 giugno 2020.

«Sono a Roma, a casa mia: mi sono fatto uno studiolo dove faccio dei bozzetti», racconta Dante Ferretti, scenografo e Premio Oscar.

Di che cosa si sta occupando adesso?

«Tornerò a Cinecittà, dove c' è il mio studio e dove mi sento più a mio agio. Aspetto di tornare negli Stati Uniti. In Oklahoma, dove sto preparando un film, "The Killers of the Flower Moon" di Martin Scorsese. Leonardo Di Caprio avrà il ruolo principale, Robert De Niro sarà William Hale».

Chi saranno le attrici?

«Stavano facendo il casting quando è venuto fuori il coronavirus e si è bloccato tutto. Noi stavamo lavorando vicino a Tulsa, in un paesino che si chiama Pawhuska, dove dovremo girare il film».

Qual è la trama?

«Sarà un western ambientato tra il 1921 e il 1922. Ci saranno dei cowboy che avranno sia delle vetture sia dei cavalli. E' tratto dall' omonimo romanzo di David Grann, che narra le uccisioni ai danni della tribù indiana Osage. Racconterà la storia della tribù alla quale viene donato un grandissimo territorio, che loro adoravano. Chiuso da barriere, da cui non potevano uscire, dovevano dormire sotto le tende o in baracche. A un certo punto dei ragazzi indiani cominciano a fare dei buchi nel terreno e trovano il petrolio. Per 10 anni gli Osage sono così diventati il popolo più ricco della Terra. Poi, come è accaduto in altri luoghi come le miniere del Colorado, sono sbarcati i bianchi, che avevano così tanto potere da ammazzare moltissimi indiani. Tra le altre cose si mescolerà a questa storia anche l' Fbi di Hoover, creata da poco».

Tornando a lei, in questi mesi italiani cosa ha fatto?

«Ho disegnato soprattutto il film: ho fatto i bozzetti. Ho disegnato anche delle opere, tra cui la Bohème che dovevo fare a Tokyo, ma che è stata spostata di un anno. Inoltre ho lavorato alla celebrazione dei 100 anni di Fellini e ho ricostruito il "Cinema Fulgor", a Rimini e poi a Cinecittà. Ho ricostruito anche il bordello nel film "La città delle donne". Quel film è molto significativo per me».

In che senso?

«È grazie a quel film che ho conosciuto Scorsese. Io devo molto a lui e a Fellini. Stavamo girando, appunto, "La città delle donne" e Scorsese, che ammirava molto Fellini, venne a trovarlo con Isabella Rossellini, mentre erano in viaggio di nozze. Fellini disse che non era certo il luogo ideale per un viaggio di nozze».

Poi cosa è successo?

«Scorsese mi ha chiesto di lavorare per lui, ma stavo lavorando sul film di Terry Gilliam "Le avventure del Barone di Münchausen" (con questo film ottenni la mia prima candidatura all' Oscar). Più tardi mi chiamò un' assistente di Scorsese, che mi disse: "C' è un film, L' età dell' innocenza, Martin ti vuole". Risposi "Vengo subito!"».

Quali sono i film di Scorsese in cui ha preferito lavorare?

«Senz' altro "Kundun", "L' età dell' innocenza", "The Aviator"».

Quali altri progetti?

«Mi hanno chiamato a Macerata, perché vogliono fare un museo sul mio lavoro. Mi hanno anche chiesto di illuminare una parte della città, dove tra l' altro è nato Matteo Ricci: sono nato non lontano da lì. Del resto mi avevano chiamato in Cina per ricostruire un pezzo del monastero dove ha vissuto il celebre gesuita che, come si sa, in Cina era diventato molto importante. Ma la cosa è sospesa. Vorrei anche ricordare che a Gent, in Belgio, ho rifatto "L' ultima cena" di Leonardo, con la fotografia di Storaro e i costumi di mia moglie, Francesca Lo Schiavo. E' un film che dura 10 minuti, con la regia di Acosta».

Lei ha anche cominciato a dipingere, non è così?

«Sì, sto facendo dei quadri grandi. In un certo senso sono figurativi, sono come una serie di reliquie di navi. Per esempio ho dipinto un' ancora o una nave affondata. Achille Bonito Oliva mi aveva proposto di fare una mostra».

Lei come ha vissuto questo periodo di coronavirus?

«Mi dispiace molto perché ha bloccato tutto. È un guaio tremendo per tutti e per il cinema non ne parliamo».

Però, stando a casa, si sono visti molti film e molte serie tv: cosa ne pensa?

«Per fortuna c' è Netflix e si possono rivedere i film da casa».

Secondo lei le serie televisive danneggeranno il cinema?

«Spero che tutto tornerà come una volta. Dicono che tra qualche mese si rassetti tutto e tutto ripartirà, altrimenti (dice con amara ironia) quello che si potrebbe fare è aprire un bel negozio di onoranze funebri e potrei disegnare delle casse da morto divertenti, con dentro la tv e un iphone: così uno potrebbe telefonare al morto. Io voglio essere scremato, non cremato: voglio essere congelato, consumato come un gelato, ma non buttato via nel mare».

Come vive l' interruzione?

«Quando mi tolgono un film mi sento come un attore che ha finito la sua parte».

Perché non fa film italiani?

«Da un lato non ci sono i soldi per pagarmi, dall' altro c' è una nuova generazione di registi che sono cresciuti con i loro amici che fanno gli scenografi, i costumisti e così via».

·        Dario Argento.

Dagospia l'11 febbraio 2020. Da Le Lunatiche. Dario Argento è intervenuto nel corso della trasmissione Le Lunatiche in onda su Rai Radio 2 ogni sabato e domenica dall’1 alle 5, condotta da Federica Elmi e Barbara Venditti.

Sulla notte: Sono nottambulo perché dormo poco, non riesco a dormire molto e penso molto. Nei momenti che non riesco a dormire penso, immagino, seguo le mie idee, i miei sogni, i miei incubi che poi fanno parte dei miei film. Le cose che ci spaventano sono sempre le stesse, nascono da qualcosa di profondo, dalla nostra metà oscura che ci fa immaginare gli incubi. Penso che in questi anno non è cambiato molto, l’importante è la nostra possibilità di immaginare, di vincere le nostre paure profonde, che poi non le vinciamo e le viviamo.

Sulla paura: Da bambino avevo le paure dei bambini, le stanze oscure, i corridoi lunghi senza luce, le nottate in cui cominci a immaginare, sognare, a vivere le brutte emozioni. Erano anche i riflessi dei libri che leggevo, dei film che vedevo, riapparivano la notte e mi perseguitavano leggermente. La mia passione per l’horror nasce da bambino, quando vidi un film in vacanza nelle Dolomiti, “Il fantasma dell’opera”, che mi impressionò molto e l’indomani tornai a vederlo. Da lì cominciai a ragionare su queste situazioni. Poi anche i libri, io ebbi un periodo di febbri che mi lasciarono a letto per alcuni mesi e quando tutti uscivano e restavo solo, pescavo dalla biblioteca di mio padre dei libri e per caso mi capitò la raccolta dei racconti di Edgar Allan Poe. Quelli mi aprirono uno spazio in cui scoprii delle situazioni che non avevo mai immaginato, di fantasmi, allucinazioni. Questo fu molto importante per la mia formazione.

Sui suoi film: Alcuni dei miei film che mi sono rimasti nel cuore sono Profondo Rosso, Suspiria, Phenomena. Non mi ispiro alla cronaca nera dei giornali, mi ispiro alle mie allucinazioni, ai miei pensieri profondi, alla mia metà oscura che è lì che lavora, immagina, che mi lascia delle cattive idee. Una specie di vaso di Pandora che contiene tutte le più grandi allucinazioni, gli incubi, un vaso che sta nella mia anima e che ho sempre paura che un giorno cada a terra, si spacca e tutte queste visioni mi invadano e mi lasciano stravolto. Spero che non accada mai. In “Quattro mosche di velluto grigio” avrei voluto le musiche dei Deep Purple e in “Profondo rosso” quelle dei Pink Floyd. Sono andato anche a Londra per incontrare i Pink Floyd, loro erano miei fan e conoscevano i miei film, ma loro in quel momento, seppur gentilissimi, stavano facendo The Wall e stavano preparando anche il film, quindi per questa ragione mi dissero che non potevano. Allora mi rivolsi ai Genesis, che invece sarebbero stati in tournèe per due anni. Volevo un gruppo di musicisti inglesi di quegli anni.

Su Sergio Leone e C’era una volta il west: Su “C’era una volta il west” non ho un aneddoto in particolare, ne ho molti perché abbiamo lavorato insieme per mesi e ne sono successe di tutti i colori, ci siamo dette tutte le cose più assurde. È stato bellissimo e importante lavorare con Bertolucci e Leone, con le sue visionarie idee di inquadrature, con le macchine da presa. Lui non pensava alla scrittura, lui pensava alle immagini, raccontava il film in questi modi immaginifici. È stato bellissimo lavorare tutti e tre insieme. Non ho aneddoti, ho situazioni che accadono, immagini, sogni. Io sono molto legato alla parte dei sogni, alla parte onirica, sono un grande estimatore di Sigmund Freud, della psicanalisi, immaginazione dei sogni, la sessualità applicata alla vita. Dopo Freud è cambiato tutto, la letteratura, la pittura, perché lui ha scoperto dei segreti della nostra anima che non conoscevamo.

Sulla figlia Asia: Mia figlia mi ha seguito sin da quando era piccolissima sui set, quindi conosceva molto bene il mio modo di lavorare e di immaginare, quindi quando poi abbiamo cominciato a lavorare insieme è stata una bellissima collaborazione perché lei mi raccontava le sue immagini, io le raccontavo le mie e insieme, la sera, dopo aver girato il film, mangiavamo insieme e insieme ci raccontavamo i nostri incubi.

Sul suo prossimo film: Di “Occhiali neri” non si può ancora parlare, è ancora lontano, coprodotto con i francesi. È un film giallo secondo la mia vecchia maniera. Dopo questo film dovrò fare una serie televisiva, la differenza tra cinema e serie è che il cinema ha quell’ora e mezza che è il film, invece la serie televisiva si prolunga allungando le storie, cercando il passato, il futuro, è un altro modo di raccontare per immagini. Ci sono storie che si dipanano, personaggi nuovi che arrivano, è interessante questo modo di raccontare.

Sul cinema italiano: Il cinema italiano va così così. Va benino, la maggior parte sono commedie, alcune di scarsa importanza alcune mediocri. Qualche film drammatico si fa, sono rari. Dobbiamo ancora continuare a spingere per tornare al vecchio cinema italiano, che dominava nel mondo con i suoi grandi registi e attori.

·        Dario Brunori.

Malcom Pagani per Vanity Fair il 4 febbraio 2020. Pensieri oziosi di un ozioso: «Non è che sia semplicemente pigro, io credo di essermi proprio reincarnato in Jerome K. Jerome. Tendo a non fare le cose quando so che devo espletare cento impegni, a perdere tempo, a evadere dagli obblighi. Volevo vivere di musica per non avere mai un mestiere e mi sono ritrovato dentro un lavoro vero. Non me lo sarei mai immaginato, ma ho trovato una soluzione. Affronto la mia condizione come se non mi appartenesse, come se non fossi Brunori, come se comporre canzoni non rappresentasse gran parte della mia esistenza. È una forma di distanza, un paradosso che fino a ora mi ha fatto godere di una certa spensieratezza, anche nei momenti in cui come adesso sono sotto pressione». Mentre Cip!, il suo quinto disco, prende il volo, Dario Brunori («la mia età/non è questa/ è almeno la metà») è arrivato a 42 anni. Fino ai 30 non aveva idea di come sarebbe andata a finire: «Dopo essere stato bocciato al test per entrare a Scienze della Comunicazione, mi ero laureato a Siena in Economia e Commercio, suonavo la chitarra con alcuni amici in un gruppo che abbracciando l’eufemismo definirei alternativo, producevo melodie per i cartoni animati delle tv locali e dopo qualche espediente senza costrutto mi ero dato alla carriera di parcheggiatore. Mi sembrava una manna, cullavo l’illusione romantica di un’occupazione notturna in cui sarei entrato a contatto con un’umanità varia e passando di gabbiotto in gabbiotto, ritirando il denaro dai vigilantes e sostituendo una volta un neon e l’altra un’asta difettosa, rimandavo l’appuntamento con la realtà».

Quale realtà?

«In Calabria mio padre aveva una rivendita di materiale per costruzioni, la Brunori Sas. Voleva tirare i remi in barca e mi chiese di tornare a casa per prendere in mano la ditta di famiglia».

E lei?

«Rifiutai. È vero che con la laurea non si guadagnava niente e che oggi come ieri nessuno voleva assumere i laureati considerati indistintamente un branco di potenziali rompicoglioni buoni soltanto a rivendicare i loro diritti, ma io volevo provare a fare musica».

Lui come la prese?

«Con grande dolore. Poi un giorno come un altro squillò il telefono. Dall’altra parte, la voce di mia zia. Disse “Tuo padre non sta bene” e io capii in un istante che babbo se ne era andato. Se si fosse trattato di un raffreddore mi avrebbe chiamato mia madre».

Cosa fece?

«Tornai a casa. Babbo non c’era più e a me sembrava impossibile. Certo, fumava come un pazzo e nonostante i medici glielo avessero proibito, lui continuava a farlo di nascosto. Certo, amava molto la tavola e nonostante i medici gli avessero consigliato di regolarsi, lui non si era mai regolato. Certo, non si risparmiava e nonostante i medici lo avessero pregato di risparmiarsi, lui continuava a darsi come se niente fosse. Ma nonostante tutto, per me babbo era immortale. Ero certo che non se ne sarebbe mai andato e invece, quell’idea mitica crollò senza preavviso».

In Cip! canta di un padre che se ne va da un giorno all’altro senza avvertire.

«Parlo del padre di un mio amico, ma chiaramente parlo anche di me. Del mio ricordo di allora, delle cose che avrei voluto dirgli e non gli ho detto, del passaggio repentino dalla bambagia senese al vendere mattoni ai muratori calabresi. Accadde tutto in un amen. La morte di mio padre fu uno choc, ma anche se pensandoci un po’ mi sento in colpa, la sua scomparsa fu anche un motore».

Un motore?

«Lo scuotimento necessario a imporre ordine nella mia vita, a trascinarmi nel mondo reale, a darmi una scossa. Serve a tutti, prima o poi, una scossa. Ti aiuta a porti domande fondamentali».

Che domanda si pose lei?

« “Vuoi fare davvero il cantante?”».

E cosa si rispose?

«Che non avevo più un secondo da perdere. Così cominciai a scrivere le mie prime canzoni di notte, tornando dal lavoro, ripercorrendo il mio passato. Avevo lasciato il Sud pensando di non tornare più. Ritrovarmi a casa fu come recuperare il mio ieri. Vidi le vecchie foto di famiglia, ricordai cose che avevo sepolto, feci riaffiorare quello che in superficie non si scorgeva. Si trattò della mia personale ricerca del tempo perduto».

Fu dura?

«Dall’attività di mio padre dipendeva la sussistenza economica di mia madre e i miei fratelli, entrambi ingegneri, erano lontani e non potevano occuparsene. Ma soprattutto ero chiamato a sostituire una figura forte che nessuno accettava non ci fosse più. I muratori mi chiamavano Bruno, come lui. Era una specie di transfert».

Perché aveva lasciato la Calabria?

«Perché volevo provare a suonare e nonostante l’esempio di mia madre che insegnava musica in una scuola media e proveniva da una famiglia in cui spartiti e note erano di casa, realizzare il mio sogno in Calabria mi sembrava lunare. Per cercare i dischi, in un’epoca in cui Internet ancora non esisteva, dovevo andare fino a Paola o a Cosenza. E ogni volta era un viaggio».

I suoi erano contrari all’ipotesi che suonasse?

«I miei erano pragmatici e la carriera di chitarrista, quella che volevo intraprendere, era il manifesto della precarietà. Così non essendo in grado, per carattere, di far prevalere il mio desiderio in maniera violenta feci un compromesso: “Vado a studiare, mi laureo e poi vediamo cosa succede”. In fondo sono sempre stato un bravo mediatore: Economia e Commercio però si rivelò una sofferenza dalla quale venni fuori con molta fatica e una tesi mignon, la più breve, credo, della storia dell’università italiana. Il caso Armani».

Giorgio?

«Un omonimo che aveva acquistato per primo il dominio Armani.it e poi si era trovato a mal partito perché l’Armani più celebre, Giorgio, ne rivendicava il possesso».

Mai pensato di mollare?

«Avevo dato a mamma e babbo la mia parola, avevo assicurato che mi sarei laureato e purtroppo quando faccio una promessa, per educazione, la mantengo. Con pathos calabro, un’ombra di mitomania e un’aria di tragedia annessa perché non c’è cosa che faccia, anche quando è semplicissima, che non tenda ad ammantare dell’aria dell’impresa».

Come è stata la sua educazione?

«A casa nostra il calabrese non esisteva. Si parlava in italiano. Al paese quando non mi esprimevo in dialetto mi dicevano: “Brunori, nun fa tanto ’u filosofo” che comunque, come concetto, non mi dispiaceva. Era come dire: non ti mettere dalla parte dei professori, resta al di là della cattedra, non darti un tono”».

Che famiglia era la sua?

«Una famiglia spuria in cui l’Emilia si incontrò con la Calabria. Il padre di mio padre, una specie di asso dei laterizi e degli altoforni, era sceso a Sud da Imola alla fine degli anni ’50. Era uno dei pochi a fare quel lavoro e un gruppo di imprenditori calabresi che avevano una cava di argilla gli aveva proposto di trasferirsi per fornir loro una modernità che in Calabria era del tutto sconosciuta. Paga buona, il sole, il fascino del forestiero. Abituato a spostarsi per lavoro e a impiantare forni ora in Umbria, ora in Sicilia, non ci aveva pensato un solo secondo e si era trasferito di corsa romanzando la Calabria di allora come se fosse un Paradiso delle vergini. Del luogo si era innamorato a prima vista anche se a mio padre, marchigiano, nei rari momenti di serietà, raccontava sconvolto anni dopo dell’arretratezza che aveva trovato al suo arrivo: i bracieri al centro dei saloni, le famiglie a dormire in una sola stanza, le case fatte di paglia e di terra, i bagni in mezzo al prato, un’unica cassapanca ai piedi del letto che recitava anche da frigorifero».

I Brunori erano imprenditori.

«Di impronta quasi olivettiana. Convinsero tanti emigrati a tornare. Il loro progetto era legato a un’imprenditoria dal volto umano in un contesto in cui, almeno negli anni ’60, i muratori, prima di imbracciare calce e cazzuola, erano stati a lavorare dalle 4 di mattina alle 8 nei campi». 

In Calabria, alla fine,  lei è tornato a vivere.

«A San Fili, tremila persone, il posto in cui credo resterò per sempre. Questo contesto mi dà la giusta serenità per concentrarmi. Lo conosco, ci sono cresciuto e mi appartiene, così come mi appartiene una certa abitudine alla noia. Penso che nel mio percorso, annoiarmi mi abbia aiutato tantissimo. Se fossi cresciuto a Milano, probabilmente, non avrei mai fatto il musicista».

Come mai?

«Per due motivi. Uno: per creare hai bisogno di trovare uno spazio per la contemplazione e in un posto in cui gli stimoli sono tantissimi è più difficile. Mi reputo un superficiale, mi distraggo facilmente, ho bisogno di ritrovare il silenzio in cui anche per solipsismo sono cresciuto».

E il secondo?

«La competizione. In città la specificità di ognuno di noi deve eccellere per condizione naturale. Per farsi ascoltare, forse persino da se stessi, si deve esagerare. Io non esagero, se non in certi ambiti. Mi ritraggo, mi schermisco. In città poi avrei trovato quindicenni che suonavano da dio e mi sarei nascosto per la vergogna. Da me ero il reuccio dell’assolo e un reuccio non si pone il dubbio mai che esistano altri re».

Cosa c’è in Cip! di lei?

«In questo disco, Cip!, più che nei precedenti, c’è molto del mio modo di vivere in Calabria. Per la prima volta, scrivendolo, mi sono accorto che stare lì mi mette in contatto con tutto ciò che in una realtà metropolitana non riuscirei a vedere. Vivere nella natura mi permette di non considerare il mondo come un esclusivo teatro per le vicende umane. C’è il silenzio, la natura, la montagna alle spalle. È una montagna viva e puoi sentirla quasi respirare. È un mondo immutabile, di impronta millenaria. Per riscoprirlo ho camminato tanto, ho fatto trekking, mi sono fatto influenzare dal territorio e credo che tutto questo abbia contribuito a creare il tono di Cip! che è più pacificato dei precedenti, più sereno, meno amaro. In questo disco faccio pace con me stesso. Ho imparato ad accettare cose che prima faticavo ad accettare».

È rassegnazione?

«È voglia di abbracciare gli altri, vitalità, desiderio di non soffrire. Non significa che mi vada bene tutto quel che vedo, ma sono consapevole che certe cose, anche se non rientrano nel mio modo di pensare, succedono. Stupirsene è un po’ infantile e soffrirne o farmi sequestrare da un’emozione negativa, una forma di masochismo e di perdita di tempo alla quale non voglio più piegarmi. Accettare che qualcosa che ho sempre reputato brutto accada significa capire anche che per ottenere il bello si deve passare per il brutto. Forse sono diventato semplicemente maturo o per essere più sinceri, vecchio».

Cip!, citazione: «Capita così: che un bel giorno ti guardi allo specchio e ti scopri più vecchio, di parecchio».

«Scoprirmi vecchio non è stato un problema. Mi sento così fin da quando mi sono riconosciuto per la prima volta: “Chi è ’sto vecchio che mi sta guardando?”, mi dicevo. Ed ero io, sempre io».

Ora vive ai piedi di una montagna, ma da bambino la montagna le metteva paura.

«Per me Aspromonte era sinonimo di sequestro di persona, di malavita, di terrore. Immaginavo le prigioni nella roccia, le catene, le cronache e la foto di Cesare Casella proiettata nei nostri tinelli da tutti i telegiornali giocavano a favore dei miei timori, ma va detto che sono sempre stato un bambino pauroso, pudìco, felice e a suo agio soprattutto nella solitudine. Non c’era uno sport in cui eccellessi e anche con le ragazze a prevalere era comunque il mio lato timido. Ho sempre avuto terrore dell’aggressività».

Lei era il chitarrista da falò.

«Quello che suonava mentre gli altri si baciavano. Ma fare il chitarrista era una mia aspirazione fin dall’adolescenza, dalle mie parti ero famoso perché ero l’unico a saper riprodurre gli assoli dei Gun’s, dei Metallica o dei Pink Floyd e in men che non si dica ero entrato subito in contatto con gli altri tipi “strani” del mio borgo, quelli che nella provincia ferma agli anni ’80 ascoltavano Hendrix, i Led Zeppelin e naturalmente i Doors. Se vedevo Sanremo e le garantisco che non mi perdevo una serata, magari lo facevo di nascosto perché non marcava benissimo. In casa nostra, all’epoca, su Sanremo, facevamo le pagelle e naturalmente imbrogliavamo anche. Per certe canzoni poi, penso a Perdere l’amore, perdevo letteralmente la testa. Il primo colpo di fulmine sanremese lo provai per Il clarinetto di Renzo Arbore: senza capire niente dei suoi mille doppi sensi».

In Cip! si augura di scrivere una canzone popolare. 

«Perché la mia parte nazionalpopolare è stata sempre viva e in ogni caso in Cip!, in un momento in cui la frattura tra un mondo che pretende la patente intellettuale e il pop è profonda, non mi dispiaceva l’idea di giocare in quel campionato».

(Si avvicinano due ragazzi, vorrebbero una foto: «Assolutamente sì, bravi, voi siete i figuranti che abbiamo pagato per far vedere che sono famoso? Poi per il compenso ci mettiamo d’accordo in separata sede».) Ride, scatta, ordina un Negroni.

Christian Rocca sostiene che lei sia il cantore entusiasta dell’insoddisfazione cronica.

«Lui mi definisce il disincantautore, ma in Cip! faccio pace con me stesso e recupero l’incanto».

Il disincanto e il cinismo sono parenti?

«Il disincanto è il bivio: osservi una cosa e puoi decidere di trasformarla in lamentela o in luce. Se un’illusione cade non è detto che si debba cadere nella disillusione. Anche il cinismo in fondo è un’illusione perché un cinico altro non è che un deluso che non accetta il franare dell’illusione».

Cosa la ispira?

«Un freddo che mi attraversa. Quando muore qualcosa dentro di me, in quel preciso istante, nasce un’idea. La canzone, in un certo senso, è una specie di testamento».

I suoi testi piacciono ai critici, qualcuno ci vede la poesia.

«Sono bravo nell’intuizione e nell’improvvisazione, meno nella scrittura, soprattutto a teatro. Aspetto sempre che l’improvvisazione mi faccia visita perché pensare è un’attività che mi affatica e alla fine mi rende infelice».

Lei non vuole esserlo.

«Puoi avere tutte le ragioni del mondo, ma se sei infelice avrai sempre torto».

E cosa la rende felice?

«Rimettere insieme i pezzi, trascorrere il tempo con alcune persone e soprattutto ridere bene perché forse lo saprà, si può ridere anche male».

Ha fatto i conti con il suo senso di colpa?

«Non del tutto, ma ci sto lavorando da alcuni anni. Alla fine penso che un po’ di senso di colpa sia pure giusto perché qualche colpa ce l’abbiamo tutti. Il senso di colpa mi tiene collegato agli altri, a patto che non mi castri, le dico la verità, mi sta anche bene». 

Ha un desiderio?

«È puerile, ma mi piacerebbe parlare un’ultima volta con mio padre e dirgli: “Babbo, hai visto che non è andata poi così male?”».

·        David Guetta.

Renato Franco per il Corriere della Sera il 12 novembre 2020. Cinquanta milioni di dischi, 10 miliardi di stream. Il francese David Guetta è il re dell'elettronica (appena premiato agli Mtv Europe Music Awards) o se preferite il dj numero uno al mondo (secondo la classifica globale di Dj Mag Top 100). Padre marocchino, madre belga, 53 anni, sua sorella Nathalie è nel cast di Don Matteo fin dalla prima stagione («ho visto qualche puntata naturalmente, ma non guardo la tv italiana anzi non guardo proprio mai la tv»).

Si sente il numero 1?

«Avevo già vinto 10 anni fa, ma vincere di nuovo probabilmente è più significativo perché rappresenta la longevità della mia carriera, significa che la mia musica è ancora in contatto con le nuove generazioni. Non so se sono il più bravo al mondo, ma penso di avere un impatto culturale sulla musica. Alle persone piace quando un dj ha un suono unico e io sono pronto a fare da colonna sonora alle loro feste».

L'esibizione agli Mtv Ema è stata ovviamente registrata a causa della pandemia. Come ci si sente a fare una sorta di live-fake, a mettere in scena una pallida imitazione di un concerto?

«Non credo sia fake, è vita reale, è diverso e personalmente preferisco avere persone in carne e ossa di fronte a me ma non c'è dubbio che la realtà virtuale diventerà sempre più centrale anche quando questa terribile pandemia si fermerà. Ho due figli e vedo come "escono virtualmente" con gli amici giocando online. Quindi non possiamo ignorare che anche quando potremo essere di nuovo tutti insieme - e faremo il più grande party di tutti i tempi per festeggiare - la realtà virtuale continuerà a essere una parte importante del mondo dell'intrattenimento».

Deve essere difficile bilanciare palco e vita quotidiana: dove trova l'adrenalina per la vita di tutti i giorni?

«Non c'è niente che possa essere paragonato all'essere sul palco. Essere in scena è come una droga, assolutamente. Nel primo mese di lockdown ero felice perché sono sempre in giro ed è stato bello svegliarsi ogni giorno nello stesso letto, dedicare più tempo alla mia famiglia. Ma ora mi manca davvero molto il contatto con il pubblico, quando sei sul palco ricevi una marea di amore, è incredibile».

Voi artisti siete oggetti di consumo, soggetti alle mode, legati al volatile piacere degli altri: come convive con il giudizio pubblico?

«È molto difficile. Quando ti affacci come nuovo artista nessuno si aspetta che tu abbia successo, quindi quello che ottieni lo vivi come un regalo. Quando raggiungi il top invece l'energia inizia a diventare paura di perdere quello che hai e questa è davvero un'energia negativa. Con il tempo ho imparato a scacciare quella paura, faccio musica perché adoro fare musica e accetto di non piacere a tutti. Ma molti artisti la vivono male: si suicidano o cadono in depressione perché la loro felicità dipende dall'amore di altre persone».

«Let' s Love», il nuovo singolo, è un messaggio di amore e speranza.

«L'idea è nata durante il lockdown. Ero bloccato nel mio appartamento a Miami e Sia nel suo a Los Angeles. Stavo guardando il tg e tutto era così deprimente, abbiamo capito che avevamo bisogno di fare una canzone allegra che ispirasse le persone ad attraversare questi momenti difficili. Insieme e non l'uno contro l'altro. È un brano che parla di amore universale, del rapporto tra esseri umani, del bisogno di essere vicini. A quel tempo ero in America e c'era tanto odio tra le comunità, vedo Paesi che puntano il dito contro altri Paesi, gruppi sociali che combattono tra di loro, la differenza tra ricchi e poveri è sempre più evidente. Penso che ci sia bisogno di un messaggio di unità».

In quale delle sue canzoni si riconosce di più?

«Ce ne sono molte, ma tre mi rappresentano al meglio: Titanium , Memories e I Gotta Feeling dei Black Eyed Peas (da lui prodotta) raccontano che sono un combattente e mi piace combattere per quello che voglio; e che sono una persona che vede sempre positivo e ama vivere il momento, cogliere l'attimo. Io sono così».

·        Davide Livermore.

Alberto Mattioli per lastampa.it il 29 agosto 2020. Torinese, torinista, tenore, mimo, attore, regista d’opera e di prosa, direttore (per ora di teatri, per l’orchestra si vedrà). All’attivo le due ultime prime della Scala come regista e una sovrintendenza a Valencia, oggi Davide Livermore continua a fare quel che ha sempre fatto, cioè tutto, ma con un altro impegno stabile, stavolta sul versante della prosa: la direzione del Teatro Nazionale di Genova.

Livermore, ha seguito il dibattito sulla Stampa? Il mondo della lirica è maschilista?

«Non più di altri, credo. Con una differenza importante, però: che è più meritocratico di altri. Una volta che sei sul palco, devi dimostrare quello che sai fare. Non ci sono rendite di posizione, neanche di genere. Aggiungo che, per esempio, nella classica vedo sempre più direttrici e orchestrali donne, segno che anche lì qualcosa si muove».

Le sovrintendenti donne, però, restano una minoranza.

«Vero, purtroppo. Ma sono meno anche le donne che pilotano un aereo o dirigono un supermercato. Il teatro è lo specchio della società. Per quel che riguarda il mio, al Nazionale di Genova su otto capi area sei sono donne e soltanto due maschi. E non perché ci sia un sistema di quote rosa, ma semplicemente perché sono brave».

Insomma, lei questo sessismo nello spettacolo non lo vede.

«Il maschilismo certamente esiste. Ma in teatro non più che nel resto della società, anzi forse di meno. E va benissimo parlarne, ma non si può parlare solo di questo. Oggi c’è un grande bisogno di parlare di teatro, sia per la bellezza di cui è portatore sia per il senso di comunità che deve tornare ad avere, dopo l’andamento terrificante del Covid e della comunicazione covidiaria. Alla gente va ricordato che il teatro pubblico è suo».

Da qui il Tir, Teatro In Rivoluzione. Di che si tratta?

«Di un tir, appunto, su cui sono montate le scene di Bastiano e Bastiana di Mozart. Lo portiamo in giro per la città e facciamo Mozart e non solo nelle piazze. Se la gente non può andare a teatro, noi portiamo il teatro alla gente. Abbiamo iniziato il 7 agosto e finiremo il 5 settembre. Si entra con la prenotazione, purtroppo, e distanziati. Ma gratis. E’ la cultura indomita, la bellezza dove non te l’aspetti, anche in una spianata di periferia, abbattendo la quarta parete e portando il teatro dove deve stare: in mezzo ai cittadini».

Risultato?

«E’ sempre tutto pieno, pur nel rispetto del distanziamento sociale, brutta parola, perché la distanza non è mai sociale. Ma l’obiettivo che il teatro si deve porre in questo periodo è vincere la paura di stare insieme, contro lo sfascismo della paura e il fascismo di chi individua sempre nell’altro un nemico».

Utopia, si potrebbe ribattere.

«No, non è idealismo. E nemmeno volontariato. Io sono un ragazzo di periferia la cui vita è stata cambiata dalla politica culturale che si faceva a Torino una volta. Il teatro deve riappropriarsi dell’immaginario della gente, ritornare a essere il luogo dove la comunità si ritrova e discute. Senza steccati».

Nemmeno di genere teatrale? Oltre a Mozart, sul tir c’è anche la prosa.

«E che prosa. Recital di Valentina Lodovini, Paolo Rossi, Laura Marinoni, Lella Costa e così via. Il Tir è un progetto del Nazionale inseme con il Carlo Felice. Bisogna che i teatri delle città inizino a parlarsi e a fare squadra. A tutti i livelli, anche artistico».

Non facile, siamo tutti abituati ai compartimenti stagni, anche il pubblico.

« L’estate scorsa ho battuto il record di sbigliettamento al teatro greco di Siracusa e con un titolo certo non notissimo come Elena di Euripide. La tragedia greca non è prosa. Abbiamo fatto Euripide amplificandolo come un concerto degli AC/DC, cioè traducendo in termini contemporanei l’amplificazione della voce che dava l’uso antico della maschera. Era prosa, era opera? Non so e non m’importa. Bisogna abbattere i confini fra generi. Oggi il teatro sembra Youporn: entri e devi scegliere fra etero, gay o bisex, insomma la tua categoria. E invece in teatro ci dev’essere la massima libertà».

Il paragone con Youporn mancava. Ma insomma, da regista preferisce l’opera o la prosa?

«Sono come uno che fa l’amore con Mariuccia pensando ad Annalisa e viceversa. Però è l’opera il teatro italiano più internazionale. Il nostro teatro di prosa dovrebbe ispirarsi all’opera, invece di restare in una comoda autoreferenzialità».

E da fare, quale delle due è più facile?

«Tutto sommato, l’opera».

·        Davide Mengacci.

Davide Mengacci: “Mike, il Cav e Gori i più importanti nella mia vita”. Sacha Lunatici il 23/05/2020 su Il Giornale Off. Con la sua simpatia e i suoi modi cordiali, da trentacinque anni Davide Mengacci è uno dei volti più amati della televisione italiana. In occasione del suo ritorno su Rete 4, insieme ad Anna Moroni e Gianluca Mech con la nuova edizione di Ricette all’italiana, ci svela il suo episodio OFF.

Davide, com’è stato tornare sul set di Ricette all’italiana dopo il periodo di quarantena?

«E’ stato un ritorno molto gradevole. Sono al timone di Ricette all’italiana, nella sua forma quotidiana, da otto anni: in ogni edizione abbiamo apportato delle piccole modifiche, ma mai in un modo così radicale come in questo caso. Questo periodo di lockdown, infatti, ci ha permesso di studiare un programma adatto alla situazione contingente ma, soprattutto, una formula originale che mi sta dando grandi soddisfazioni».

Ormai formate una squadra collaudata: cosa pensa che piaccia ai telespettatori?

«Sicuramente formiamo una squadra così variata in termini anagrafici che ci dà la possibilità di raggiungere pubblici diversi a seconda dell’età di chi ci guarda. Lo considero un punto di forza del programma».

Che ricordi conserva dei suoi esordi professionali?

«Una vita passata in televisione, ben trentacinque anni, mi ha fatto maturare non solo una serie di esperienze assolutamente rare, ma anche una quantità di aneddoti, curiosità e conoscenze che considero un reale patrimonio personale».

Nel corso degli anni la tv è molto cambiata…

«Potrei elencare tutta una serie di motivi storici, ma la diffusione del segnale è stata la cosa più determinante. Una volta l’etere era diviso in pochi canali che si spartivano il mercato pubblicitario: questo dava la possibilità a ciascuna rete di creare grandi programmi, perché c’erano tanti investimenti. Nel momento in cui è arrivato il segnale satellitare e successivamente il digitale terrestre, si è tutto frammentato: di conseguenza, anche i soldi a disposizione sono diventati una centesima parte. L’aspetto economico, in questo senso, è stato determinante nel cambiamento della qualità della produzione televisiva».

Ha mai avuto un altro piano B nella vita?

«In realtà il mio piano B è stata proprio la televisione (ride, ndr). All’inizio lavoravo come pubblicitario: quando mio padre è morto prematuramente a 49 anni ho mandato avanti l’agenzia della mia famiglia per quindici anni».

A chi sente di dover dire “grazie”?

«Tutti coloro coi quali ho avuto a che fare mi hanno lasciato qualcosa di positivo: dal punto di vista professionale e personale i più importanti sono tre. Mike Bongiorno, col quale ho lavorato a metà degli anni Ottanta e dal quale ho imparato tutto quello che metto in pratica ancora oggi: spiegarsi bene, usando parole comprensibili a tutti. Poi Silvio Berlusconi, che quando si occupava di televisione mi spinse a trasformarmi in conduttore nazionalpopolare, rispetto a quello che facevo prima, un tipo di tv più raffinata e settoriale. Infine Giorgio Gori, oggi sindaco di Bergamo, che mi scelse per condurre Scene da un matrimonio, un programma che mi ha dato il successo più grande».

Un episodio OFF della sua carriera?

«Se oggi vanno di moda i selfie, fino a pochi anni fa la gente mi fermava per un autografo…chiamandomi Giancarlo Magalli. Ed io firmavo Giancarlo Magalli! (ride, ndr)».

·        Davide Parenti.

Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 20 aprile 2020. Da domani in prima serata su Italia 1 si riaccendono Le Iene . Davide Parenti da oltre 20 anni è la mente dietro il programma.

Parte del vostro lavoro è sorprendere chi vuole evitare di dare risposte. Quanto è più difficile lavorare in queste condizioni?

«In questa situazione non possiamo andare fino in fondo a fare il nostro lavoro da Iene, dobbiamo organizzare tutti gli incontri su appuntamento e questo si riflette negativamente sulle inchieste perché sono tutti sul chi vive. Del resto ora non si può andare a incalzare qualcuno con un microfono in mano; se già molti pensano che sia un' aggressione farlo, figuriamoci di questi tempi».

Anche la scaletta del programma sarà condizionata dal coronavirus...

«È inevitabile: il 70% dei servizi sarà su questo tema, che catalizza l' attenzione di tutti. Faremo un giro nelle strutture sanitarie dismesse negli ultimi anni dalla regione Lombardia, alcune fatiscenti, altre in ottime condizioni. E ci si chiede come sia possibile: perché costruire strutture nuove quando ce n' erano di già pronte, con il riscaldamento e l' aria condizionata, con la vernice ancora fresca? E poi la truffa delle mascherine, l' esperienza del Veneto, le possibili cure... Abbiamo anche servizi più leggeri, a partire dagli scherzi. Il primo nella casa di Michelle Hunziker: organizzare uno scherzo in queste condizioni è una nuova sfida».

«Le Iene» sono il programma di punta di Italia 1, ma il loro habitat naturale dovrebbe essere Canale 5: le dispiace che non ci sia mai stata questa promozione?

«Qualche anno fa provai a capire se c' era spazio per noi a Canale 5 perché avevamo dimostrato che il nostro linguaggio poteva andare bene anche lì. Ma nacquero una serie di problemi interni a Mediaset, di equilibri che l' azienda voleva preservare. Il dispiacere c' è stato, pensavo che la naturale crescita del programma sarebbe stata andare su una rete che l' avrebbe fatto performare ancora meglio. Poi me ne sono fatto na ragione, anche perché Mediaset ci ha permesso di crescere facendoci andare in onda due volte alla settimana su Italia 1».

La tv deve essere pedagogica?

«La tv ha una funzione educativa, senza dubbio. Se non sei uno sconsiderato devi cucinare per gli altri quello che mangeresti tu, la televisione riflette quello che sei tu. Alle Iene siamo un gruppo di persone variopinto, non la pensiamo tutti allo stesso modo, ma siamo attenti a essere onesti. Può succedere di sbagliare, di esagerare. Noi siamo sempre sul filo, siamo come trapezisti, succede di cadere, fa parte del mestiere. Ma stiamo anche antipatici perché rompiamo le scatole a molti».

Avete messo alla gogna il regista Brizzi, ma le accuse nei suoi confronti sono state archiviate...

«Se il risultato di alcune inchieste è un' accusa al nostro lavoro significa che c' è un errore in quello che facciamo. Ma non c' è un metodo Iene. Le cose che abbiamo detto su Brizzi sono così infamanti che qualcuno avrebbe dovuto denunciarci. Noi a Brizzi abbiamo detto di portarci in tribunale, ma non è mai successo».

Il «metodo Stamina» era totalmente privo di validità scientifica, eppure lo avete «sostenuto» con tanti servizi...

«Su Stamina potrei parlare 10 ore. Vannoni era un personaggio che dire ambiguo è riduttivo, che fosse un poco di buono è evidente. Però ricordo che Stamina era una cura compassionevole fatta dagli ospedali di Brescia, quel metodo non sono state le Iene a inventarlo, ma lo Stato. La colpa che mi do è che ne abbiamo parlato troppo... Dietro una critica c' è sempre qualcosa da ascoltare, ma davvero siamo in buona fede».

Quanta libertà c'è a Mediaset?

«Inutile fingere. La libertà assoluta non esiste, da nessuna parte. Un programma è sempre un patto con l' editore, quello che fai è quello che ti è permesso di fare in dato modo. Io ad esempio ho scelto di non parlare mai di Berlusconi, per le Iene Berlusconi non esiste».

Cosa le manca di Nadia Toffa?

«Con Nadia abbiamo condiviso passioni di vita dalla mattina alla sera, successi e frustrazioni. Era favolosa, era parte di noi. Ci manca, Nadia ci manca».

·        Demi Moore.

Demi Moore si racconta: amori, famiglia, alcol, droga e successo nell’autobiografia della star. E quel primo incontro con Bruce Willis. Nelle librerie dal 12 maggio “Inside Out” (Fabbri Editori) è l’autobiografia con la quale Demi Moore si mette a nudo. Dagli amori con Bruce Willis e Ashton Kutcher alle dipendenze da droga e alcol, dai disturbi alimentari alla violenza subita da adolescente fino al rapporto con le figlie. Un ritratto crudo e sincero del quale pubblichiamo un estratto in anteprima in cui svela per la prima volta come è nato l'amore con il divo. La Repubblica il 10 Maggio 2020. Demi Moore è una stella del cinema, una celebrità ricca, famosa, attraente. Cosa può esserci di tanto interessante in “Inside Out”, la sua biografia edita da Fabbri Editore e in uscita in Italia il 12 maggio? Parlerà forse del dramma di abitare in una villa di Beverly Hills, o di quanto sia scomodo viaggiare su un jet privato? Sarà il solito racconto sugli amori patinati che abbiamo già letto centinaia di volte sui rotocalchi degli ultimi 30 anni? Niente di tutto questo: “Inside Out” è un’apertura intima e sincera su Demi. Non la star, ma la donna di 57 anni alla quale le figlie non hanno telefonato nemmeno per fare gli auguri di compleanno. È una storia di fallimenti, più che di successi, ed è per questo che è interessante. O, per dirla con le parole di Demi Moore: "Lo so, sembra una vita perfetta. Ma, come avrei scoperto ben presto, se ti porti dentro una voragine di vergogna e traumi, non c’è denaro, successo o celebrità che possano riempirla". C’è la vita sotto i riflettori, davanti agli obiettivi dei fotografi, sulle copertine dei magazine più famosi al mondo. E poi c’è la vita vera, quella personale, quella intrecciata dagli eventi come un canestro di paglia nel quale raccogliere la propria umanità. Demi Moore ha scritto di quest’ultima senza risparmiarsi critiche, senza indulgenze auto assolutorie, alzando il sipario sull’intimità delle sue debolezze come donna, come madre, come moglie e anche come attrice. Un’infanzia movimentata con i continui traslochi di due genitori dei quali prendersi cura più che ai quali affidarsi, la violenza sessuale subita da adolescente con la complicità della sua stessa madre, le prime esperienze sul set, i primi amori, l’incontro con Bruce Willis (leggete l'estratto che pubblichiamo in anteprima in fondo a questo articolo) e l’ingresso in una vita a duemila all’ora nella quale Demi Moore finisce per farsi trascinare senza averne mai il controllo. Parla delle sue insicurezze e da dove vengono, del rapporto complicato col suo corpo e dei disturbi alimentari che ne sono conseguiti, delle dipendenze da alcol e droga che l’hanno accompagnata per molti anni. E scrive anche d’amore Demi, del primo matrimonio con Freddy Moore (da cui ha preso e tenuto il cognome), del secondo con Bruce Willis dal quale ha avuto le tre figlie Rumer, Scout e Tallulah (e con il quale sta, un po' a sorpresa, trascorrendo la quarantena a causa del coronavirus), e del terzo con Ashton Kutcher, finito nel 2013: in “Inside Out” c’è la sua versione di queste relazioni, come lei le ha vissute da dentro con tutto quello che sui giornali e nelle foto degli immancabili paparazzi non è mai emerso. D.it vi propone in anteprima un breve estratto di questo libro, quello nel quale Demi racconta del suo primo incontro con Bruce Willis, il marito (prima) e l'amico (poi) al quale è rimasta legata in tutti questi anni. E che avviene quando lei è fidanzata con Emilio Estevez, attore molto popolare e figlio di Martin Sheen. "Nessuno mi aveva mai trattata in quel modo", scrive l'attrice, e forse è proprio per questo che tra i due nacque un legame che ha resistito alla prova del divorzio e a quella del tempo. In queste righe ecco come Demi ce lo racconta: "Ti sta appiccicato come la tua ombra" disse Emilio di quello sconosciuto bello, moro e sicuro di sé. In realtà, all’inizio Bruce mi era sembrato arrogante. Eravamo arrivati alla prima nello stesso momento, e lui era con un mio amico, il comico Rick Ducommun: fu lui a presentarci. A quel punto Bruce aveva già ricevuto due nomination agli Emmy per Moonlighting (e ne avrebbe vinto uno il mese seguente), ma io non guardavo molta televisione e non avevo mai visto la serie; mi ricordavo di lui solo per le pubblicità degli aperitivi Seagram (ve le ricordate? Suonava qualche accordo all’armonica e poi cantava lo slogan come fosse un blues). Eravamo entrambi sotto contratto con la TriStar Pictures, così gli dissi: "Ho sentito dire che hai l’ufficio migliore alla TriStar". Lui mi rispose, in modo stringato, qualcosa tipo: "Non ci vado mai". Pensai che fosse un po’ stronzo. Ma quando lo rividi all’after party al ristorante El Coyote, si dimostrò molto più gentile. "Posso offrirti da bere?" mi chiese, appena mi vide arrivare. Gli dissi che non bevevo. "Allora ti offro una Perrier" ribatté lui. Bruce aveva lavorato come barista a New York prima di sfondare in tv e quella sera dava spettacolo dietro il bancone, lanciando in aria lo shaker e facendo quelle acrobazie che oggi ci sembrano imbarazzanti, ma che nel 1987 erano molto cool. Emilio aveva ragione: mentre sfoderava il suo repertorio da barman, Bruce non mi staccava gli occhi di dosso. Nel corso della serata fu così galante che, in seguito, mi stupì molto sapere che era arrivato con un’altra donna! Si fece tardi, e qualcuno voleva proseguire la serata all’Improv, dove Rick aveva uno spettacolo di stand-up. "Vieni anche tu! Vieni anche tu!" mi implorarono Bruce e Rick. Era chiaro che Emilio non era entusiasta di tutte quelle attenzioni; io stessa, ripensandoci, avrei voluto esserlo meno. Ma il club era sulla strada di casa, così decisi di fare un salto. Quando arrivai, vidi che tutti gli amici di Bruce erano seduti a un grande tavolo. Di fianco, Bruce si era fatto apparecchiare un tavolino per due, con una Perrier ad aspettarmi. Balzò in piedi e mi fece accomodare. Nessuno mi aveva mai trattata in quel modo. Bruce era molto galante; un vero gentiluomo, in quella sua maniera turbolenta. Quando dissi che sarei tornata a casa, si offrì di accompagnarmi alla macchina. Era così impaziente, che sembrava un ragazzino preoccupato di mancare il carretto dei gelati. Mi chiese il numero di telefono e sentii le farfalle nello stomaco, come una ragazzina. "Hai una penna?". Controllò nelle tasche: niente da fare. "Non andartene!" mi disse, e schizzò via a cercarne una. Poi se lo appuntò sul braccio: un’immagine che avrei visto un milione di volte negli anni seguenti; Bruce si scriveva sempre le cose sul braccio. Ma quella volta gli tremavano le mani. Si era completamente esposto, della sua spavalderia non c’era più alcuna traccia. (...) Quando i nostri sguardi si incrociarono, Bruce mi salutò togliendosi il cappellino da baseball. Doveva essersi dimenticato delle canne che si era calcato dietro le orecchie, perché volarono via nella notte. Mi chiamò il mattino seguente. Mi chiese che programmi avevo per la giornata e io gli dissi che sarei andata nella contea di Orange a trovare George e DeAnna. "Vengo con te" mi disse, a sorpresa. Non ero sicura che fosse una grande idea. Ci sarebbe stata anche la sorella di mio padre, Mary, che era davvero un personaggio particolare. "Ci sarà anche una mia zia, che è una un po’ fuori, e la casa è molto piccola" dissi. "Sei proprio sicuro?". Era proprio sicuro. Ero molto colpita. Questo tizio era pronto a passare due ore chiuso dentro un’auto per la dubbia soddisfazione di conoscere i miei bizzarri parenti. Era disposto a mettersi in gioco e lo faceva solo per me. A essere sincera, fu quasi uno choc.

·        Diego Abatantuono.

Dagospia il 5 febbraio 2020. Da I Lunatici Rai Radio2. Diego Abatantuono è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Abatantuono ha rivelato: "Io non ho quasi mai fatto satira politica, ma una volta i politici erano più seriosi, si prestavano di più alla presa in giro. Oggi sono molto divertenti, anche loro malgrado. L'asticella per fare satira è sempre più alta. Crozza è uno dei pochi che riesce a fare ancora satira". Sul Milan: "Non ho mai smesso di tifarlo, avevo fatto una provocazione dicendo che mi mettevo a tifare Atalanta, volevo mandare un messaggio. Posso avere una squadra e tifarla se ha una struttura societaria. Se tu hai un fondo, hai una banca. La banca è senz'anima. Non conosco nessuno che sia innamorato di una banca, a parte quelli che hanno il grano vero. Ho detto Atalanta perché mi sembrava l'immagine più facile da evocare". Sul cinema e i film interpretati: "Non voglio bene a tutti i film che ho fatto. In alcuni ho fatto molta fatica e mi sono rotto le scatole mentre giravamo. Però percentualmente sono sempre stato bene sul set. Non sono d'accordo con chi dice che sul set si deve soffrire. Io voglio star bene, ho una carriera che dura da 45 anni, mi piace star bene, divertirmi, anche quando lavoro. Per me il set è un bel posto. Possono capitare disagi, dovuti alla location, al tempo, al fatto che si lavora molto di notte. Ad esempio in Mediterraneo, fu meraviglioso stare in un'isola, con mare stupendo, in compagnia di gente di qualità". Sull'eventualità di fare un terzo capitolo di 'Regalo di Natale': "Ho visto qualche settimana fa il secondo, mi è piaciuto tantissimo. Bisognerebbe chiedere a Pupi Avati. Spero che lo voglia fare, con lui lavoro molto volentieri, è una persona che ha un grande senso dell'umorismo, ci divertiamo, ridiamo, stiamo bene, non vedo l'ora che rifaccia una commedia anche brillante. Io amo sia i film drammatici che quelli comici, ma quelli comici brillanti mentre li fai c'è un clima molto piacevole. Siccome in questo periodo c'è poco da ridere, se ci divertiamo anche noi mentre facciamo un film non c'è niente di male. Il virus nato in Cina mi mette ansia. Noi italiani siamo molto fortunati, ma il mondo è vicino, sempre di più. Bisogna stare molto in campana. Quindi se mi diverto un po' almeno mentre si lavora, sono ben contento".

Renato Franco per corriere.it il 27 gennaio 2020. «La comicità dei politici ha superato quella dei comici di professione. Eravamo abituati a uomini di potere sussiegosi, mentre adesso la parodia di un personaggio non regge il confronto con il suo alter ego reale: fare satira politica oggi è molto più difficile». Parola di Diego Abatantuono che riflette su questi tempi purtroppo molto comici, ma paradossalmente difficili per i giullari. Abatantuono era partito dal Derby — il tempio milanese dell’ironia — per arrivare al cinema. Oggi è tutto cambiato: «Un tempo il comico faceva una lunga gavetta, tra teatro e cabaret. Oggi la tv ha bisogno di prodotti veloci, il web è istantaneo: anni fa se avevi una buona idea ci campavi per 2 anni, adesso si brucia in un attimo». Abatantuono si riaffaccia in tv, da domenica 2 febbraio sarà su Italia 1 con Enjoy – Ridere fa bene, nuovo show comico condotto da Diana Del Bufalo, in studio due squadre di comici che si sfideranno in una serie di prove. Da una parte, il team capitanato da Gigi e Ross; dall’altra, quello guidato dai PanPers. Nel cast delle due squadre, tra gli altri, Vincenzo Albano, Herbert Ballerina, Barbara Foria, Alberto Farina, Gianluca Impastato, Claudio Lauretta, Francesca Manzini. Unico giudice il pubblico in studio che, con un telecomando, giudicherà le esibizioni. Il compito di Abatantuono — che non ha diritto di voto — è quello di influenzare con la sua cifra pungente i giudizi degli spettatori. Oltre a ridere, c’è pure l’obiettivo benefico, ovvero finanziare i progetti di solidarietà promossi da Mediafriends, la Onlus di Mediaset, Mondadori e Medusa. «C’è un bel gruppo di cabarettisti, un bel mix tra giovani e meno giovani, la qualità comica è alta. Spesso si dice che è stato divertente farlo anche quando non è vero: in questo caso assicuro di sì, quando si crea un certo clima poi si riflette anche sulla riuscita del programma. Un po’ come accadde sul set di Marrakech Express: il film era lo specchio della sintonia che c’era tra di noi».

La formula matematica della battuta o della commedia non c’è: «Se ci fossero ricette saremmo tutti più ricchi: ci sono film che vanno inspiegabilmente bene e altri che vanno inspiegabilmente male; lo stesso vale per i programmi tv. È un meccanismo misterioso che mi mette anche una certa ansia». La tv non è stato il core business della carriera di Abatantuono, che spesso è stato ingaggiato come follower del dio pallone, tra Controcampo e Quelli che il calcio: «Era un modo perfetto per scroccare le partite ed essere pure pagato. Oggi mi tocca organizzare a casa mia e pagare pure per dar da mangiare agli ospiti».

Il cinema è sempre stato la sua priorità: «Io volevo fare solo quello e dal teatro del cabaret sono passato direttamente al set dei film». Oltre 100 ne ha fatti, tra i più divertenti citava Marrakech Express: «Era un film on the road e se la compagnia è divertente, all’avventura del film si aggiungono le disavventure della vita che vivi nelle pause, nei trasferimenti da un posto all’altro. In genere succede quando giri lontano da casa. Mediterraneo era stanziale, ma era impagabile stare in acqua e poi andare sul set. Il giudice Mastrangelo lo abbiamo girato in Salento prima che diventasse una moda. Il cinema rimane il luogo dove mi sento più a mio agio, è il mio habitat, so sempre quello che succede e prevedo quello che succederà». L’aspetto meno ludico dei film? «Gli orari, spesso sono pesanti. E soprattutto andrebbero pensati meglio: alzarsi alle 5 di mattina per recitare in un dramma va bene, così arrivi con la faccia da tragedia già pronta; ma non va bene per una commedia: se mi sveglio a quell’ora mi impedisci di ridere almeno fino a mezzogiorno. Vanzina lo aveva capito benissimo, sapeva che i comici non fanno ridere la mattina».

·        Diego «Zoro» Bianchi.

Stefania Ulivi per il “Corriere della Sera” l'1 giugno 2020. La scelta più ovvia sarebbe stata interrompere. Come accaduto ad altre trasmissioni in diretta con pubblico in studio e musica dal vivo. «Invece abbiamo deciso subito di andare avanti adattandoci alle circostanze, nel rispetto delle norme di sicurezza». Ovvero presenze in studio ridotte all' osso, mascherine, distanziamento, ospiti in remoto. E una platea piena di sagome cartonate. Mancano due puntate alla fine di Propaganda Live su La7 (il 12 giugno) e Diego «Zoro» Bianchi, riflette su una stagione delicata, «pesante per tanti motivi, anche personali. Non ultimo la perdita di Ezio Bosso, un amico oltre che amico del programma, ci è rimasto addosso». La migliore stagione di sempre in termini di ascolti: oltre il 6% di share, con picchi del 7,5% da marzo a oggi. Valeva la pena di non fermarsi, in effetti. «La nostra storia è costellata di situazioni in cui abbiamo fatto di necessità virtù e di sfide che abbiamo preso con responsabilità e adrenalina. Ci scambiano per comitiva di persone che fanno solo ridere, ma già alla seconda o terza puntata di Gazebo - il programma nato nel 2013 su Raitre, ndr - ci trovammo a stravolgere la scaletta dopo la notizia del naufragio e i morti di Lampedusa». È capitato spesso: con l' attentato a Charlie Hebdo , il Bataclan, il terremoto del 2016, solo per fare alcuni esempi. Nella scorsa puntata c' è stato un ospite speciale, Ben Harper, a portare l' attualità in studio, l' ondata di proteste seguita all' uccisione di George Floyd a Minneapolis. «L' avevamo invitato per presentare il suo ultimo pezzo, dedicato agli invisibili, tema già di per sé caldo. Lui dice che stiamo tornano indietro di anni, la questione razziale in Usa è un cancro del sistema». Mescolare i registri è una delle specialità della casa, ricorda Bianchi. «Trovare il lato satirico e comico anche per i temi più duri. Con l' emergenza Covid-19 c' era un' esigenza informativa altissima, ma anche di alleggerire il racconto ossessionante, senza ovviamente perdere di vista che si stesse andando in onda con le notizie, terribili, dei tantissimi morti». Anche l' assenza di uno dei protagonisti della trasmissione è diventata un' occasione. «La mancanza di pubblico in studio per un programma che si chiama Propaganda Live è una maledizione. Avevamo già usato le sagome per il tormentone "da dove riparte la sinistra" con i potenziali leader, da Pamela Anderson a Baglioni. Le abbiamo rilanciate. Personaggi di ultra-nicchia e nazionalpopolari, a ogni puntata ne cambiamo una ventina. Sono circa trecento, a fine stagione forse faremo un' asta, chissà. Abbiamo notato che la cosa ha preso piede, dalle messe agli stadi della Bundesliga». Per la ripartenza si spera non servano più. «Contiamo torni il pubblico. Ma qualche soluzione, come i concerti dal vivo nel piazzale davanti alle porte dello studio, Diodato, Daniele Silvestri, Rancore, penso che li manterremo». Di questa stagione restano anche ospiti normalmente allergici alla tv. «Abbiamo una squadra già competitiva - Makkox, Damilano, Francesca Schianchi, Paolo Celata, Constanze Reuscher, la band, lo stesso Andrea Salerno -. Zerocalcare è diventato presenza fissa con Rebibbia quarantine che non sapevamo sarebbe diventata una serie. Valerio Mastandrea con i siparietti #restiacasa con Chiara Martegiani. E abbiamo avuto il regalo del ritorno di Corrado Guzzanti, con Lorenzo cresciuto e Vulvia. Vai a sapere che la ministra Azzolina si sarebbe avventurata sugli imbuti, era una palla alzata». Anche durante la pandemia, d' altronde, i politici hanno continuato a offrire materia utile per la Top Ten dei social network. In quanto a lui, ha riportato alla luce Tolleranza Zoro . «Il mio lavoro era legato a viaggi e reportage ma avrei rischiato di ammalarmi e fermare il programma. Perciò l' ho ritirato, dopo sette anni, dalla prima puntata di Gazebo . Con la convivenza forzata con i due alter ego, uno da Milano, uno da Parigi, per giocare sul mio lato più satirico, e attoriale. E dire la mia». La cosa più toccante? «I messaggi che ci arrivavano dall'estero, in particolare dai migranti siriani di cui avevamo seguito i destini in questi anni che volevano essere certi che stessimo bene».

·        Diletta Leotta.

Da golssip.it il 15 gennaio 2020. “L’Ariston sarà il mio stadio. Mi sentirò come a San Siro o al Bernabeu, quello sarà il mio stadio e, per la prima volta, avrò la possibilità di passare da bordo campo direttamente in campo, sperando di poter essere un buon centravanti”. Così Diletta Leotta, volto televisivo del calcio prima per Sky poi per Dazn, si prepara a tornare a Sanremo, stavolta tra le regine del festival. “In questo caso i calciatori siamo noi donne e scenderemo in campo con il mister Amadeus, che ci guiderà nel modo migliore”. Amadeus è interista… “Io sarò imparziale e poi ci sarà Georgina, la compagna di Ronaldo, per assicurare la quota bianconera” che farà rivivere la sfida scudetto. Il 70/o Festival di Sanremo sarà anche una celebrazione della figura femminile in cui Diletta esclude che ci sarà gara ad essere la ‘prima donna’. “Nasceranno amicizie, non ci saranno sfide tra noi. Sono contenta, ci sono tante donne con sfaccettature molto diverse l’una dall’altra. Sono particolarmente felice per la presenza di Antonella Clerici che mi ha dato un sacco di consigli e mi ha fatto da Cicerone a Sanremo, un palco che conosce molto bene”. E poi c’è Rula Jebreal, che arriva dopo tante polemiche. “E’ una donna forte e coraggiosa. Sono molto contenta di aprire Sanremo con lei”. Diletta, il calcio, la tv e la musica… quale preferisce? “Faccio radio da tre anni e ascolto tantissimo la musica che va in onda in radio. Qui a Sanremo devo essere imparziale, non posso sbilanciarmi troppo”. Che Diletta sia già la beniamina di questo Festival lo dimostra anche il fatto che tutti la cercano. Finita la conferenza stampa di presentazione del Festival subisce un vero e proprio assalto da giornalisti, fotografi, cineoperatori e addetti ai lavori, magari solo per un selfie. “Volevo mangiare una pizzetta, ma non ce l’ho ancora fatta – dice con ironia – ma tanta attenzione mi inorgoglisce. Non vedo l’ora di cominciare questa avventura, di godere di tutto questo entusiasmo, di farmi trasportare da questa onda bellissima. Sono felice anche perché da oggi posso parlare di questo: finora non l’ho fatto, da ora potrò rispondere a tutti i messaggi che mi sono arrivati in queste settimane”. L’assalto si attenua, c’è il tempo per una pizzetta, un pasticcino, un calice di bollicine. Ora per Diletta scatta la lunga vigilia verso la discesa in campo all’Ariston: la maglia da titolare l’ha già conquistata. Non le resta che aspettare il fischio d’inizio.

Rinaldo Frignani per il Corriere della Sera l'1 maggio 2020. Era il 4 aprile scorso quando Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, si è rivolto alla polizia postale di Milano per segnalare quello che numerose follower gli avevano scritto: ragazze disperate perché vittime di «revenge porn», con le loro foto sul web, alcune in pose ammiccanti ma palesemente scherzose, utilizzate invece per scopi sessuali su Telegram. A loro insaputa. Da quel momento gli investigatori del capoluogo lombardo, insieme con quelli di Cagliari e Palermo, hanno cominciato a tracciare chi stava approfittando delle immagini, rubate a centinaia dalle piattaforme social. Comprese quelle della giornalista Diletta Leotta, che non ha esitato a sporgere denuncia. Decisione «fondamentale» per chi indaga, perché ha fatto scattare le indagini anche per chi non aveva avuto il coraggio di portare a termine questo passo. Gli agenti hanno così individuato a tempo di record tre personaggi che pensavano di rimanere anonimi, fra loro due amministratori di gruppi, un 35enne della provincia di Nuoro e un 17enne che abita vicino a Palermo, insieme con un 29enne di Bergamo. Quest' ultimo, un ex agente di commercio ora disoccupato, dopo un menage con due ragazze che lo avevano poi lasciato, aveva deciso di vendicarsi di una di loro postando le sue foto private sul gruppo gestito proprio dall' amministratore sardo, rintracciato a casa, con il telefonino ancora in mano connesso a Telegram. I tre sono accusati di «revenge porn», sostituzione di persona, diffamazione e trattamento illecito di dati personali. Nessuno ha aperto bocca, soltanto l' ex agente di commercio si è mostrato più collaborativo degli altri, dopo che i poliziotti gli hanno sequestrato smartphone e computer. Si calcola che i gruppi creati dai due amministratori - dai titoli volgari ed espliciti - abbiano danneggiato l' immagine di alcune decine di ragazze che, anche dopo un tweet di Fedez che confermava l' avvio dell' indagine, si sono già rivolte alla Postale in tutta Italia. Giovani che hanno scoperto le loro fotografie, rubate su Instagram e Facebook, estrapolate dal contesto nel quale erano state pubblicate e sfruttate per provocare le reazioni sessuali degli utenti collegati a quei gruppi. In pratica stupri virtuali, perché quelle immagini venivano commentate con insulti e oscenità, nonché istigazioni alla pedopornografia e al femminicidio, rivolti alle giovani protagoniste. Il 17enne poi aveva già sfruttato il canale per guadagnare 5 mila euro, vendendo cataloghi di immagini a 2-3 euro l' una. Ora l' indagine punta a capire se ci siano stati davvero casi di pedopornografia, ma intanto il direttore della Divisione operativa della Postale Alessandra Belardini lancia un appello: «Mai condividere immagini intime sul web, nemmeno con i partner che oggi ci sono e domani chissà.

Tutti i segreti di Diletta Leotta. Diletta Leotta, la bellissima conduttrice sportiva che dalle emittenti locali della sua Sicilia è approdata sulle tv nazionali facendo il grande exploit, è ormai una vera star del piccolo schermo e dei social.  Anita Adriani, Lunedì 02/03/2020 su Il Giornale.  È apparso sulle scene un nuovo volto femminile che ha conquistato il pubblico televisivo: è quello della biondissima e talentuosa Diletta Leotta, incoronata a pieno titolo regina del mondo calcistico. La giornalista e conduttrice di Dazn, reduce dal ingaggio a Sky Sport dove si è distinta per capacità e intraprendenza, oggi è ormai una vera star del jet set. La procace siciliana è diventata un personaggio ambito e conteso: richiesta dalla televisione, dalla moda e testimonial per i brand più in voga. Diventata un simbolo per i tifosi di calcio, la Leotta ha scalzato nel tempo la professionalità e bravura di Ilaria D’Amico sostituendosi a lei come figura amata dai fanatici del pallone. È lei la donna nei campi di calcio che ammalia, abbaglia per la sua bellezza da amazzone, per la sinuosità erotica del suo corpo ma anche per le sue doti di abile comunicatrice. Poi il primato tra le colleghe giornaliste lo detiene lei in ambito social: la Leotta con i suoi scatti dalle tinte calienti attrae stuoli di proseliti che su Facebook, Instagram e Twitter sognano a occhi aperti ipnotizzati dalla sua sensualità "felina". Diletta Leotta sta cavalcando la sua onda favorevole, la sua presenza sul piccolo schermo fa schizzare l'audience alle stelle essendo una delle conduttrici più seguite e desiderate nel panorama dello showbiz. È impossibile che passi inosservata Diletta Leotta: capelli biondi, fisico prorompente, sorriso magnetico, simpatia effervescente. La bella siciliana è diventata la nota conduttrice di oggi, riferimento assoluto per gli appassionati di calcio e per tutto il pubblico in modo trasversale. Piace la Leotta sia per il suo talento di giornalista affermata e al contempo per la sua esplosiva avvenenza. Il volto di Dazn si è data da fare negli anni crescendo come professionista emulando le colleghe già famose. La sua carta vincente, oltre la bellezza straordinaria, è la sua spontaneità e carica vitale contagiosa. La sua figura di giornalista frizzante, loquace, estemporanea è il prototipo di volto televisivo moderno che "buca il video", facendo il botto di ascolti. Il nome di Diletta Leotta spopola negli ultimi tempi dappertutto: è lei la donna che ha fatto girare la testa agli italiani.

L'excursus biografico di Diletta Leotta dall'infanzia al momento d'oro. Diletta Leotta si è fatta largo nel mondo dello spettacolo esordendo e trovando la sua fortuna grazie alla conduzione di trasmissioni sportive. In breve tempo la fama di Diletta è brillata come una stella del firmamento. La popolarità l'ha portata a sperimentare anche altri lidi: incassi lauti tra ospitate varie in tv e spot pubblicitari di brand importanti. Il suo nome all'anagrafe è Giulia Diletta Leotta, ma l'artista ha scelto di usare esclusivamente il suo secondo nome, più glamour per fare il suo grande exploit nel mondo della tv. Diletta Leotta è nata il 16 agosto 1991 a Catania. Pesa 63 chili ed è alta 175 cm, le sue misure sono 86-61-89. La Leotta è figlia di Ofelia Castorina e Rori Leotta, è cresciuta in "una tribù" avendo quattro fratelli nati da relazioni precedenti dei suoi genitori. Quello che è noto al grande pubblico è l'esistenza di un fratello di nome Mirko, un affermato chirurgo estetico di Milano. Sin dalla giovinezza Diletta ha sempre mostrato forte ambizione puntando in alto per il raggiungimento dei suoi obiettivi. Prima si è realizzata nel percorso scolastico e accademico con dedizione e zelo nello studio, riuscendo a conseguire la maturità e diplomarsi al liceo scientifico (indirizzo linguistico). La sua predisposizione e il successo negli studi l'hanno portata a conseguire nel 2015 la laurea in Scienze Giuridiche alla LUISS Guido Carlo di Roma.

La carriera folgorante della sexy giornalista sportiva. Dopo la laurea in Giurisprudenza presso l’Università LUISS di Roma, si è tuffata anima e corpo per realizzare il suo sogno di entrare nel mondo dello spettacolo. La Leotta 15enne già ammiccava alla meta tutta lustrini e luci del patinato mondo dello spettacolo. È il 2006 quando Diletta all'età di 15 anni ha partecipato al concorso di bellezza Miss Muretto, ma senza nessuno sbocco concreto. Tre anni più tardi nel 2009 la Leotta ha ritentato la sorte presentandosi alle selezioni di Miss Italia, ma anche questa chance è andata persa, poiché la sua speranza si è spenta prima del traguardo della finalissima. Il suo esordio in televisione ha visto la luce nel 2010 quando è stata chiamata come valletta in alcuni programmi locali. La sua carriera, dunque, ha preso il via in Sicilia quando all'età di 19 anni è apparsa in tv sulla rete locale Antenna Sicilia, accanto a Salvo La Rosa. I due hanno lavorato fianco a fianco conducendo insieme l’11º Festival della nuova canzone siciliana e il programma "Insieme". La vera svolta professionale è arrivata nel 2011 quando è entrata nella importante emittente nazionale Mediaset, dove ha avuto la grande chance di condurre la trasmissione tv "Il Compleanno di La5", trasmesso proprio su La5. Finalmente il sipario si è sollevato e l'immagine divina di Diletta Leotta è apparsa agli occhi di tutta la platea italiana. È il momento dell'ascesa della sinuosa showgirl. Ecco che si sono aperte le porte del successo: la redazione di Sky Sport di Murdoch l'ha reclamata come volto da lanciare sulle proprie reti satellitari. Nel 2012, infatti, è approdata a Sky, diventando una delle figure femminili di Sky Meteo 24. la famosa "meteorina". Nello stesso anno le è stata affidata la conduzione della striscia giornaliera "Come Giochi?" che decantava il gioco del poker, su POKERItalia24, diventandone testimonial per eccellenza. L'occasione d'oro nella carriera di Diletta Leotta è avvenuta nel 2015 quando è stata chiamata al timone di Sky Serie B per la stagione sportiva di calcio 2015-2016, diventando la desiderata "signora della Serie B" sul canale Sky Sport 1 al fianco di Gianluca di Marzio. Di lì in avanti gli assidui del calcio sono impazziti davanti all'apparizione della sexy Leotta, i tifosi ammirano nella giornalista, oltre la esplosiva bellezza, anche il suo appeal e simpatia. È nata una stella: Diletta Leotta incarna l'immagine fresca ed energica del giornalismo sportivo italiano. Ormai Diletta Leotta è una star. Dal suo ingresso in Sky è diventata un personaggio famoso. Nell’estate del 2016, insieme all'altra bella e brava giornalista sportiva, Ilaria D’Amico, ha condotto alcuni speciali di Sky in occasione degli Europei di calcio del 2016. La Leotta è acclamata e richiestissima a ogni evento tv e mondano. La conduttrice è stata chiamata nella compagnia di "Rds Academy", talent show dedicato ad aspiranti dj radiofonici, nel suo ruolo canonico. Sempre rimanendo nell'ambiente radiofonico, nel gennaio 2017 è approdata a Radio Deejay, assunta alla conduzione di "Goal Deejay", prendendo il posto del cantante Emis Killa. Diletta Leotta è talmente apprezzata e conosciuta che a febbraio è stata ospite al Festival di Sanremo del 2017, in una delle serate della kermesse di Rai 1 nell'edizione condotta da Carlo Conti. La conduttrice, definita l’erede di Ilaria D’Amico, è desiderata anche in radio: è entrata nello staff di Radio 105 per condurre "105 Take Away" con i due speaker Daniele Battaglia e Alan Caligiuri. Le proposte sono susseguite copiose con gli autori televisivi all'inseguimento della star del momento: la splendida Diletta Leotta. Una nuova avventura si è profilata all'orizzonte. L'artista è tornata in televisione per condurre su La7 la finale della 79ª edizione di Miss Italia 2018, questa volta non in veste di ospite, insieme a Francesco Facchinetti. Nell'autunno del 2018, dopo il suo congedo da Sky Sport, è andata a condurre un reality su Fox Life, la quarta edizione de "Il contadino cerca moglie". Per la Leotta si sono aperte anche le porte del cinema con l'opportunità di cimentarsi nel doppiaggio del cartone "Pupazzi alla riscossa", uscito il 14 novembre dello stessso anno. Il 2018 è l'anno della rivoluzione in campo televisivo: le emittenti si fanno la guerra per aggiudicarsi i diritti tv, soprattutto nel calcio, e in questo bailamme la Leotta è stata reclutata su Dazn, il servizio streaming dove è la punta di diamante della innovativa rete satellitare. La piattaforma Dazn nel 2018 ha scelto la bella Leotta come volto di riferimento, affidandole un programma tutto suo, "Diletta gol". Allo scadere del 2018 un'altra proposta di conduzione è arrivata per la brava Diletta Leotta che il 5 dicembre su LA7 ha presentato i Gazzetta Awards 2018. Il volto della Leotta è entrato nella casa degli italiani, la showgirl è diventata nota per aver prestato la sua immagine favolosa come testimonial per numerose campagne pubblicitarie da Intimissimi al Parmigiano Reggiano fino a Wind Tre e alla Kia. La conduttrice dal 2018 è il volto principale di Dazn e da allora l'ascesa del bella siciliana nella piattaforma è sensazionale. I programmi a lei affidati vertono tutti attorno al tema sportivo: Dazn Non solo sport, dal 2019 si occupa dei programmi spin-off, "Diletta gol stories", "Diletta gol in campo" e "Linea Diletta". Ancora proposte allettanti per la bionda giornalista. Nel luglio 2019 è apparsa su Italia Uno alla conduzione del format estivo W La Playa, al fianco di Daniele Battaglia. Il successo di Diletta Leotta in tv è incontrastato, e come ciliegina sulla torta, Amedeus l'ha corteggiata per indurla ad accettare la co-conduziome del Festival di Sanremo 2020. Lei ha calcato il prestigioso palco del Teatro Ariston apparendo nella prima serata della kermesse canora insieme alla giornalista Rula Jebreal.

La sfera privata della conduttrice di Dazn. Andando a scrutare nella vita privata della super sexy Diletta Leotta si può scoprire che è stata fidanzata con il dirigente di Sky Matteo Mammì per ben 4 anni. Matteo Mammì è nipote di Oscar Mammì, ex Ministro delle Comunicazioni. Diletta Leotta e Matteo Mammì dal 2018 hanno convissuto insieme a Milano. La relazione tra i due è sbocciata nel 2016, ma la Leotta ha deciso di troncarla a giugno 2019. Ma chi è ora l'uomo al fianco della bellissima Leotta? Appena terminata la storia con il manager Sky, nel giugno 2019 si è vociferato di una liaison tra la bionda showgirl e Francesco Monte, poi smentita dalla stessa protagonista. Nella estate dello stesso anno imperversava il gossip e le paparazzate hanno avvistato la procace conduttrice accanto allo sportivo della boxe, Daniele Scardina. Sotto assedio dei media, il famoso pugile ha confessato a La Gazzetta dello Sport: "Diletta è venuta a presentare un mio incontro e l’ho conosciuta tramite amici. E poi… Si vede nelle foto. Sì, è un’amica speciale". L'avvenenza di Diletta Leotta è talmente apprezzata che i flirt attribuitole sono spuntati a gogo durante la sua estate da single. Altri scatti l'hanno "pizzicata" in compagnia intima con un musicista, Matteo Lotti. Ma anche in questo caso nulla di confermato ufficialmente. Adesso che è una star dello showbiz la vita privata di Diletta è continuamente al centro dei riflettori e del gossip. Il 2019 è l'anno dei flirt nuovi attribuiti alla Leotta: altri pettegolezzi hanno riportato la notizia che il volto di Dazn è stata avvistata ad ottobre in intimità con l’attore Alessandro Borghi.

Ma Diletta ha sempre smentito i gossip sulla sua vita prima. Ora, però, qualcosa è cambiato. La giornalista, infatti, è felicemente fidanzata con l'atletico Daniele Scardina, campione del mondo IBF dei pesi Supermedi.

Dal Corriere della Sera il 6 febbraio 2020. Toc toc E in camera arrivano due mazzi di fiori. «È il momento migliore della giornata». Diletta Leotta il giorno dopo il debutto da co-conduttrice e le critiche al monologo sulla bellezza e il tempo che passa. «Forse sarebbe stato meglio non essere nella stessa sera di Rula Jebreal, ma mi avrebbero criticata comunque».

Ha seguito Rula?

«Fortissima. Nessun paragone, mondi opposti. La sua è una storia vera e tragica. Il mio un momento ironico e, come me, autoironico».

Riesce a esserlo anche con i cori «faccela vede'»?

«Se mi fanno le canzoncine come ai calciatori mi diverto, ma quando vanno oltre bisogna farglielo capire. Una volta all' accoglienza calorosa di una curva ho risposto con il pollice alzato. Quando hanno iniziato a gridare "fuori le tette" l' ho girato in giù».

L' ironia nel calcio?

«Un po' ci sta, ma bisogna ricordarsi che si parla di risultati e che chi ha perso a volte è arrabbiato».

«La bellezza capita, non è un merito». L' attacco del suo monologo è stato criticato accostando le sue foto di qualche anno fa e di oggi che fanno pensare a dei ritocchi «Hanno decontestualizzato una frase. Il mio era un elogio al tempo che passa, non una lotta alle rughe e alla vecchiaia. Sfido chiunque a mettersi a confronto con le foto di quando aveva 13 anni».

Nessun intervento?

«Se uno ha voglia di farsi qualcosa per sentirsi meglio sono d' accordo. Anzi gli offro un suggerimento: mio fratello è un chirurgo bravissimo».

Lei ci è andata?

«Quando hai in casa uno così ci fai ricorso. Il ritocco per me non è paura di invecchiare, ma sistemare difetti che mentalmente non ti fanno stare bene».

Le critiche sono arrivate dalle donne. Se lo aspettava?

«Come sempre. E mi spiace. A quelle di Selvaggia Lucarelli sono abbonata: mi preoccuperebbe il contrario. Alessia Marcuzzi mi ha fatto i complimenti. Evidentemente non mi è concesso di essere autoironica. Forse deve passare del tempo per poter essere credibile ai loro occhi».

Si è rivolta a nonna Elena, seduta in prima fila...

«Dietro le quinte lei e mamma hanno pianto».

Lei sa fare la crostata con la marmellata di mandarini che le preparava?

«Benissimo. Potrei condurre un programma sui dolci. Le ricette si tramandano di generazione in generazione con il quadernetto della bisnonna».

Che farà per la finale?

«Non sono un attrice e ho fatto un monologo. Non sono una cantante o una ballerina ma darò anche quello. Sono qui per divertirmi».

Marco Castoro per leggo.it il 6 febbraio 2020.

Diletta Leotta e il monologo sulla bellezza. È farina del suo sacco oppure ha letto un testo preparato?

«A Sanremo c’è il lavoro di un team di autori che ringrazio. Insieme abbiamo deciso di affrontare il tema del tempo che passa. Loro hanno creato i concetti, io ci ho messo dentro le mie storie, mia nonna e la crostata di mandarino».

Nonna è rimasta contenta?

«Macché, non sapeva nulla. Si è molto vergognata. Comunque, in pochi si sono accorti che ho tremato all’inizio del monologo quando ho visto che mia nonna non era seduta nel posto dove mi avevano detto. Su quella poltrona c’era Malgioglio. Poi l’ho vista e mi sono tranquillizzata».  

Lei che parla della bellezza ha scatenato i leoni della tastiera che hanno subito tirato fuori foto e malignità sui suoi ritocchi estetici. Ma ci sono stati o no?

«Beh, quando si ha un fratello bravo nel suo lavoro qualche ritocchino si può anche fare».

Come reagisce ai commenti non teneri sui social?

«Non mi innervosiscono. Difficile che veda commenti positivi. Il 99% sono di donne che esprimono la loro “solidarietà femminile”. Se una ragazza è un po’ carina non è concesso che possa essere anche ironica».

Finale di Champions o Sanremo. Cosa preferisce?

«Champions e Sanremo».

Tutte e due non vale. 

«Sono cose diverse, quindi una non esclude l’altra. A me piace raccontare le emozioni dei protagonisti».

Quindi nel suo futuro c’è un talk, magari politico?

«La politica non credo sia adatta al mio percorso attuale. Chissà tra qualche anno…».

Che musica ascolta?

«Ho tante playlist. Lavorando in radio sono aggiornatissima, sono la prima a scoprire i brani».

La colonna sonora del momento più bello?

«Non mi viene. Quella che ho ascoltato quando ho sceso i gradini della scala di Sanremo, Careless whisper».

Una persona si è presentata all’entrata dell’hotel dicendo di essere il suo fidanzato?

«Per fortuna ha sbagliato location ed è intervenuta la sicurezza».

Il fidanzato, quello vero, è a Sanremo? 

«No. Ma non c’è un fidanzato».

Quindi è single?

«Diciamo che dal punto di vista sentimentale sono molto serena e felice».

Personalità e sicurezza davanti alla telecamera: è innata, studiata, costruita?

«Da 10 anni sono sempre in diretta. Pur avendo 28 anni ho fatto tanta esperienza».

Segue un canovaccio o improvvisa?

«Mi piace avere un canovaccio rigido, una basa solida, poi qualcosa improvviso».

Nella finale di Sanremo cosa farà?

«Vi stupirò con effetti speciali»

Porterà mamma?

«No. La famiglia ha già dato».

Scenderà le scale con il fidanzato?

«Nemmeno. Canterò una canzone che non è nella mia playlist».

Antonella Luppoli per “Libero quotidiano” il 9 febbraio 2020. Nome: Diletta. Cognome: Leotta. Anni: ventotto. Professione: canta, balla, recita monologhi, conduce programmi sportivi e, all' occorrenza pure il Festival di Sanremo al fianco di Amadeus. Ieri sera è tornata sul palco dell' Ariston, ha ballato Ciuri Ciuri su una base di Eminem.

Come le è venuta questa idea?

«Insieme a Franco Miseria abbiamo scelto questa canzone perché sono siciliana, Fiorello è siciliano come me e Amadeus lo chiama proprio Ciuri. È un omaggio alla Sicilia e alla sicilianità, condito con un po' di Eminem per sembrare più cattiva. Anche se io poi non sono cattiva mai».

E com' è?

«Molto ironica. Mi sento goffa quando ballo, ma mi sforzo di essere più femminile possibile».

Cosa porta con sé da questa esperienza?

«Mi sono divertita un sacco, sono venuta a Sanremo con l' idea di mettermi in gioco e di provare più registri possibili, oltre a quello della conduzione. Ho sperimentato il ballo, il canto e la recitazione».

Si sente più showgirl come Belen Rodriguez o conduttrice sportiva come Ilaria D' Amico?

«Un po' entrambe le cose, dentro di me convivono più anime e sono felice così».

È soddisfatta?

«Per dirla in termini calcistici, mi porto dietro una bella vittoria. Di squadra. Al femminile».

Crede nella solidarietà femminile?

«Molto. E vorrei che si sperimentasse un po' di più nel mondo dello spettacolo. Credo che uno dei punti forza di questo Sanremo sia stata proprio la presenza di dieci donne diverse in cui ciascuno ha potuto immedesimarsi».

Presenze fisse del Festival anche Fiorello e Tiziano Ferro.

«Con Fiorello mi sono molto divertita. Tiziano l' ho conosciuto e gli ho confessato che il mio primo bacetto ha come colonna sonora la sua canzone "Sere Nere". Mi ha detto spero che sia andato bene e io gli ho risposto di sì, tutt' apposto e gli ho anche detto che non mi dimenticherò mai di lui. (ride, ndr»).

A proposito di amore, cosa le ha detto il suo fidanzato Daniele Scardina?

«Fidanzato è un parolone amico specialissimo dai! Dopo la conferenza stampa ho ricevuto una quantità di messaggi che nessuno può immaginare perché mi avevano fatto terrorismo psicologico e non avevo detto nulla a nessuno. Solo a mia madre».

Chi e quando le hanno chiesto di esserci?

«Era un lunedì sera di qualche mese fa, ero a cena a casa di un mio amico e Amadeus mi ha scritto un messaggio dicendomi che voleva propormi la co-conduzione del Festival. Ero incredula. E per tutti i lunedì a seguire sono andata a casa del mio amico con la speranza di ricevere altre proposte di lavoro così importanti (sorride, ndr). Per me questo è un punto di arrivo ma anche di partenza».

Un altro sogno?

«Magari condurlo e non co-condurlo. Vorrei al mio fianco una donna».

È vero che inizialmente era previsto che avrebbe fatto tutte e cinque le serate?

«No, abbiamo sempre parlato di prima e ultima serata».

A Sanremo ha trovato più amici o nemici?

«Amici. E ho conosciuto donne meravigliose come Rula Jebreal. Forte e anche fragile con cui si è creata grande complicità».

Nel monologo che ha recitato nel corso della prima sera ha ironizzato sul tempo che passa, come risponde a chi dice che la sua bellezza è artefatta?

«Sono polemiche da social, credo che il monologo sia venuto molto bene e ho ricevuto tanti complimenti. Le polemiche fanno parte del festival di Sanremo e alla fine va bene così, sono quasi contenta che ci siano state delle polemiche perché vuol dire che ho lasciato il segno (ride, ndr)».

Sua madre l'ha difesa dalle critiche che sono arrivate dopo il monologo, sapeva che lo avrebbe fatto?

«Ovviamente no, se no le avrei detto di non farlo. Ma la mamma è la mamma... ».

Cosa le ha detto sua nonna?

«Che tutte le sue amiche l' hanno chiamata, faceva troppo ridere. E poi mi ha detto che quando ha ripreso l'aereo per tornare a Catania l' hanno fatta passare avanti perché l'hanno riconosciuta e mi diceva entusiasta che tutto si sarebbe aspettata tranne una cosa del genere a 85 anni. Lei non immaginava che avrei parlato di lei, era felicissima. Lei è un punto di riferimento nella mia vita».

La sua canzone preferita?

«Più di una. Canticchio già la canzone di Elodie, Raphael Gualazzi, Anastasio, Achille Lauro, Le Vibrazioni».

È stato il Festival dell'imprevedibilità: tra Bugo e Morgan chi ha ragione?

«Sono dispiaciuta per quello che è successo. Non me lo sarei mai aspettato. Morgan è un personaggio imprevedibile».

In conferenza stampa ha detto che avrebbe preso un caffè con Paola Ferrari, ha ricevuto dei feedback da lei?

«Non direttamente, ma ho letto da qualche parte che ha detto che lo prende volentieri il famoso caffè».

Dagospia il 7 febbraio 2020. Gentile mamma di Diletta Leotta, per lei alcune donne che “contano” avrebbero attaccato sua figlia perché motivate dall’odio verso altre donne. Per altri casi non posso parlare. Io parlo per me: non ho mai preso in giro nessuno o offeso. Non ho pubblicato la foto dei presunti “prima e dopo” per evidenziare i ritocchi chirurgici, ridicolizzando Diletta. Non ho attaccato lei, mai, anzi! Quante volte l’ho difesa anche in televisione. Io, proprio io, che ovunque esprimo solidarietà a chi si mostra libera, fiera di ciò che è. Appunto, di ciò che si è. Ad esempio, Diletta mostra il suo corpo sui social esponendosi a commenti di ogni sorta e se ne infischia. Commenti violenti, volgari . Inevitabili o meno, non è ciò che conta (strano però che quello non ferisca una mamma! Non si è mai espressa in tal proposito?!). Ma è proprio la mancanza di coerenza e di corrispondenza fra ciò che ha sempre mostrato e trasmesso e quello che ha detto che strideva, su quel palco. Io ho espresso un giudizio sul contenuto del suo monologo per il quale mi sono sentita presa in giro per la mancanza di onestà. Ed è anche il mio lavoro. Se sei un personaggio pubblico e comunichi qualcosa non puoi aspettarti assenza di critica. Se vuoi essere la protagonista di un momento di tv verità devi dirla fino in fondo con coraggio, la tua verità. E lo fai con l’esempio, non solo con le tue parole. Per me quando si raccontano storie personali non si può delegare agli autori la responsabilità della propria commozione. Altrimenti si chiama affabulazione. Non ho apprezzato il presuntuoso monologo di Diletta Leotta: un finto “smascheramento” che ha cercato la complicità del pubblico, senza riscontro perché non ha abbassato l maschera. Perché risulta solo retorica. lei poteva liberarci dall’ipocrisia e raccontare che sì, si può avere paura di invecchiare. Di non corrispondere ai canoni estetici che sognavamo e di essere libere di ristrutturarsi quando non ti “capita” la bellezza che desideravi per te stessa. Perché ritoccarsi è una libera scelta di buon senso, buon gusto, ma pur sempre una libera scelta. E se l’avesse ammesso sarebbe diventata la paladina di un’altra verità, seppur scomoda. Avrebbe sdoganato un sacrosanto diritto al libero arbitrio sul proprio corpo, manifesto vero di emancipazione. Anche perché la differenza la fa sempre chi indossa un abito, come lo si indossa. Si può essere naturali e volgari allo stesso tempo, infatti. Ma se mi dice che le rughe non le fanno paura non serve, non le credo e non basta la nonna a renderla credibile. Perché se non sei la Magnani e le rughe non le mostri, allora sí, hai paura cara Diletta. E qualcuno te lo doveva suggerire che non c’è nientedi male. Il male è nell’inganno e non è estetico. Ma se menti si vede, e non c’è trucco (o trucchetti) che servano. E poi che noia quando ha detto “non ci prendiamo in giro sul palco ci stai se sei bona”, perché fortunatamente esistono innumerevoli qualità e talenti da mostrare. Io ho avuto tante paure di: ingrassare, invecchiare. Ma sono quelle paure, superate a modo nostro, che ci rendono uniche.

Victori Venturelli per “Novella 2000” il 28 aprile 2020. All’anagafe è Daniele Scardina, campione internazionale di boxe pesi supermedi, ma tutti lo conoscono come King Toretto (come il personaggio interpretato da Vin Diesel nella serie cinematografica Fast and Furious). In più, da tempo è al centro del gossip per il suo legame con la conduttrice radio e tv Diletta Leotta. Classe 1992, nato a Rozzano, alle porte di Milano, Daniele fin da subito si accorge che deve dare una svolta alla sua vita mettendosi in gioco. E cosa più di un ring poteva dargli questa sensazione? A 20 anni inizia a indossare i guantoni. Nel 2013 vince il Guanto d’oro e partecipa alle World Serie of Boxing e alla Talent League. Si trasferisce a Miami e nel 2019 vince il titolo internazionale dei Supermedi IBF. Cosa si cela dietro i guantoni? Passione. Determinazione. Umiltà. E una grande fede che lo accompagna dall’inizio della sua carriera, rappresentata anche dagli innumerevoli tatuaggi: dal suo idolo Mike Tyson ad alcuni simboli cristiani, alla scritta Scardina Team, celebrazione della famiglia e di tutti coloro che credono in lui. Una personalità complessa che ha conquistato Diletta Leotta. Una relazione, la loro, che sta appassionando innumerevoli follower e in questi mesi di quarantena, come testimoniano le stories sui social, li vede sempre più affiatati. E pensare che fino a poco tempo fa entrambi negavano parlando di “amicizia”...Abbiamo raggiunto (via telefono) Daniele in questo periodo di reclusione, e ci ha aperto virtualmente le porte della sua casa.

Come sta vivendo questa quarantena?

«Mi sto adattando un po’ alle cose. Diciamo che non ci resta altro da fare: mi alleno, guardo film, studio, leggo».

Com’è la vita lontano dal ring?

«Sono una persona molto iperattiva. Ora mi sto adattando a questa reclusione. So che è per il nostro bene quindi mi tocca. Ci siamo adattati e continuiamo a farlo sperando di ripartire al più presto».

L’allenamento non può mancare. Che allenamento e dieta sta seguendo in questo periodo?

Ora siamo in una fase fuori stagione: non ho incontri programmati. Inutile quindi andare a stressare mente e corpo. Mi mantengo in forma con corsa, circuiti e allenamenti con attrezzi. Svolgo un’attività di pesistica con il mio preparatore, in videochiamata. Mi alleno due volte al giorno e cerco di stare in forma. A livello di dieta mangio un po’ più regolare: il rischio dello stare a casa è di mangiare troppo. Sono abituato a fare diete, a prendere e perdere peso, un po’ a fisarmonica. Poi sono un goloso, se mi metti un piatto davanti ne mangio due... devo controllarmi».

A casa cucina lei?

«No, no! Cucina Diletta. Ma io cucino ogni tanto comunque. Diciamo che è lei che mi vizia».

Su Instagram abbiamo potuto vedere allenamenti di coppia. Come sono Daniele come coach e Diletta come allieva?

«In realtà sono più bravo come atleta che come coach! Lei invece è davvero molto brava».

La prima cosa che farà finita la quarantena?

«Andare a trovare la mia famiglia, i miei nonni. Hanno una certa età quindi ho anche paura ad avvicinarmi a loro in questo momento. Poi andare dal barbiere, vedermi con qualche amico, farmi una camminata... cose molto semplici. Sarà una ripresa un po’ dura per tutti».

Prossimi obiettivi e impegni per cui si sta allenando?

«Quest’anno dovevo difendere il titolo e puntare ad altri successi. Ora è tutto fermo e non so quando riprenderemo gli allenamenti e gli incontri. Spero comunque di andare presto avanti con la carriera e di vincere altri titoli. Poi ho alcuni programmi televisivi che devono riprendere come Ballando con le stelle che però ora sono fermi ai box».

Come se la cava a ballare?

«Devo dire che mi piace, me la cavo bene».

Insomma prove di convivenza, qualcuno direbbe di matrimonio. Ci state pensando?

«No no... meglio non parlarne».

Miami o Milano? A quale città si senti più legato tra le due in cui si divide la sua vita?

«A Milano sono nato, è casa mia, ma anche Miami lo è, lì ci sono la mia palestra, mio fratello e mio nipote. Mi sento a casa in entrambe. Spero di tornare entro l’estate a Miami per riprendere la preparazione. Ho bisogno di combattere».

Chi è il vero Daniele Scardina?

«Cerco di essere sempre me stesso. Un esempio per i giovani nello sport e nella vita, un esempio per chiunque. Mi vedono come un duro, quello che si allena come una bestia, tutto tatuato... È vero sono quello. Ma sono anche una persona di cuore, di fede soprattutto. Una persona che motiva gli altri. In me c’è sia il lato duro sia quello buono».

Con Diletta ormai non vi nascondete più. Ha trovato il vero amore?

«Non ci nascondiamo né niente. Non lo abbiamo mai voluto fare in realtà. Cerchiamo solo di rimanere discreti, visto che siamo sempre sotto i riflettori, lei soprattutto. Cerchiamo di tenere la nostra storia per noi. Ci piace cucinare insieme, stare sul divano e guardare film. In questo periodo ci stiamo conoscendo al 100% e siamo felici. Facciamo tutto quello che si può fare in quarantena stando a casa». Bello lui, bella lei, giovani e innamorati, non si limiteranno alla cucina. 

Monica Leofreddi contro la madre di Diletta Leotta: "Io invidiosa? Proprio no". Tiene ancora banco il monologo su bellezza e merito di Diletta Leotta al festival di Sanremo. La madre la difende dalle "odiatrici" e la polemica si infiamma coinvolgendo anche la conduttrice Monica Leofreddi. Novella Toloni, Venerdì, 07/02/2020, su Il Giornale. Non si spegne la polemica intorno a Diletta Leotta dopo il suo monologo sulla bellezza femminile e il merito andato in scena nella seconda serata del festival di Sanremo. Nella discussione si è inserita, suo malgrado, la conduttrice Monica Leofreddi tirata in ballo dalla mamma della Leotta che, nel post Sanremo, ha difeso la figlia durante un'ospitata a "Storie Italiane". Il discorso di Diletta Leotta sulla bellezza e sul tempo che passa ha lasciato numerosi strascichi nel post gara del Festival. Molti personaggi famosi del mondo dello spettacolo – da Francesca Barra a Jimmy Ghione – si sono infatti scagliati contro di lei, giudicandola "ipocrita". Ad alimentare la discussione ci ha pensato la madre della conduttrice di Dazn, Ofelia Castorina, che sui social e in diretta nella trasmissione di Eleonora Daniele ha puntato il dito contro le "odiatrici", lamentando una scarsa solidarietà femminile nei confronti della figlia. Tra le accusate c'era anche la conduttrice Monica Leofreddi che, chiamata in causa dalla signora Castorina, ha voluto rispondere con un lungo messaggio affidato a Instagram. Monica Leofreddi si è rivolta alla madre di Diletta Leotta spiegando che il suo tweet (pubblicato dopo il monologo della conduttrice sportiva) non era offensivo, ma soltanto espressione di un disaccordo nel veder rappresenta "la bellezza come valore e come qualcosa che capita da una ragazza bellissima ma che già così giovane, ha modificato il suo corpo alla ricerca di una bellezza perfetta". La conduttrice televisiva ha criticato l’affondo rivoltole dalla signora, rimarcando quanto la solidarietà femminile non possa essere usata - sempre e comunque - a discapito di "sincerità e coerenza". Monica Leofreddi ha poi invitato la signora Ofelia a tacere: "La fatica di essere donne è esasperata da falsi modelli e falsi ideali che ci portano lontano da noi stesse, dal nostro centro. Tacciare ogni dissenso con l’etichetta di invidia non aiuta. Lei non ha naturalmente l’obbligo di conoscere la mia storia il mio vissuto e le mie lotta, ma la prego, darmi della odiatrice e dell’invidiosa proprio no!".

Facebook: monicaleofreddi_official Verificato. Gentile Signora Leotta, ho appreso leggendo @dago.spia che per difendere sua figlia mi ha citata tra le “ odiatrici” di Diletta, mi ha anche accusata di non essere solidale con le donne. Il twitt che ho scritto dopo il monologo di Diletta non era offensivo, era semplicemente espressione di un dissenso nel veder rappresenta la bellezza come valore e come qualcosa che capita,da una ragazza bellissima ma che già così giovane , ha modificato il suo corpo alla ricerca di una bellezza perfetta. La bellezza è un valore ma non l’unico, ci sarà sempre qualcuna più bella più giovane più magra o con un seno e un sedere più bello.La chirurgia estetica non va demonizzata ma neanche esaltata.La solidarietà femminile si deve esprimere attraverso la sincerità, la coerenza, non raccontando solo favole. La fatica di essere donne è esasperata da falsi modelli e falsi ideali che ci portano lontano da noi stesse, dal nostro centro.Tacciare ogni dissenso con l’etichetta di invidia non aiuta. Ha visto @rulajebreal come è stata attaccata prima ancora della sua partecipazione? Poi ha risposto sul palco con la sua storia le sue emozioni la sua anima e la sua capacità di lottare per se stessa e per le altre donne. Sul palco di Sanremo in queste bellissime serate Amadeus ha saputo mettere in scena tanti modi di essere donna, tutti preziosi , tutti unici. Lei non ha naturalmente l’obbligo di conoscere la mia storia il mio vissuto e le mie lotte , ma la prego , darmi della odiatrice e dell’invidiosa proprio no! #sanremo2020 #donne

Diletta Leotta rifatta? Il fratello chirurgo smentisce: "Mia sorella è naturale". Il monologo sulla bellezza recitato da Diletta Leotta al Festival di Sanremo 2020 ha scatenato gli scherni e le accuse del popolo web. Sono in molti a credere che la conduttrice sportiva abbia beneficiato di qualche ritocco estetico e che la sua bellezza sia niente affato naturale: è intervenuto il fratello Mirko Manola per smentire le voci maligne. Anita Adriani, Giovedì 06/02/2020 su Il Giornale. Diletta Leotta è rifatta o la sua bellezza è del tutto naturale? La domanda sorge spontanea dopo aver assistito al monologo esposto da Diletta Leotta inneggiante al tema della bellezza che ha tenuto banco durante la prima serata del Festival di Sanremo. L'esibizione della Leotta ha fatto molto discutere il pubblico: in tanti hanno interpetato in un'accezione negativa il messaggio di fondo del discorso della conduttrice sportiva. E alcune voci critiche non si sono fatte sfuggire l'occasione ghiotta per sollevare la polemica. Ma in soccorso della sorella famosa è intevenuto Mirko Manola, il fratello maggiore del volto di Dazn, per dissipare i sospetti che il pubblico si pone ossessivamente. Manolo dall'alto della sua competenza professionale di chirurgo estestico, difende a spada tratta sua sorella Diletta, svelando tutta la verità sulla sua bellezza. Diletta Leotta ha debuttato da vera star sul palco del Teatro Ariston, affiancando Amadeus nella conduzione della prima serata del Festival di Sanremo 2020. La settantesima edizone della nota kermesse musicale italiana ha visto un esordio scoppiettante e ricco di momenti inediti ed esaltanti. L'importante presenza feminile sul palco è piaciuta al pubblico che ha risposto bene in termini di audience. Naturalmente la tematica di fondo che ha ispirato la serara di apertura del Festival non poteva non vertere sul concetto di "bellezza".

Il fratello chirurgo della Leotta difende la bellezza naturale della conduttrice. Alcuni "pezzi forte" del popolare show canoro in partenza si sono rinvenuti sia nel monologo recitato da Rula Jebreal: la giornalista che nel suo soliloquio ha solidarizzato con le donne vittime di violenza, che nell'intervento oratorio della bionda esplosiva della tv Dazn. Anche Diletta Leotta ha deliziato il pubblico di Sanremo con un discorso emozionante focalizzato sulla "bellezza", e con piglio poetico ha detto che "la bellezza capita, non è un merito. Certo, è un vantaggio, altrimenti col cavolo che sarei qui". Il monologo della conduttrice è stato teso a rimarcare l'importanza del fattore estetico, ma senza sopravvalutarlo in senso esclusivista. Diletta Leotta, visibilmente commossa, ha menzionato anche gli insegnamenti della nonna, asserendo: "Sarei ipocrita se dicessi che il mio aspetto è secondario. Mia nonna Elena me lo diceva sempre: 'La bellezza è un peso che con il tempo ti fa inciampare se non la sai portare'". E' il Leotta-pensiero effuso durante la prima serata del Festival di Sanremo 2020. Il discorso così toccante e profondo della Leotta non è stato apprezzato dal pubblico del Festival nel senso auspicato dalla giornalista. Le parole esternate dalla bionda e procace conduttrice hanno suscitato uno strascico di polemiche. I fedelissimi della nota kermesse sanremese, in particolare il popolo social, non hanno approvato affatto il monologo della conduttrice di Dazn, alla luce dei ritocchi estetici ai quali si è sottoposta, almeno stando ai giudizi sommari. Molti l’hanno accusata di non essere la persona idonea per parlare del valore della bellezza in senso universale come virtù innata. Le voci maligne l'hanno accusata di aver fatto ricorso al chirurgo estetico per apparire con un tale aspetto fisico così avvenente. Altro che bellezza verace così come concepita da sua madre. Gli hater hanno associato la co-conduttrice del Festival della canzone italiana alla didascalia "Bellezza rifatta", divulgandola sui social network. Mirko Manola, fratello maggiore di Diletta Leotta, è intervenuto per smorzare la carica denigratoria dei rumors sulla sua bellezza. Manola è un noto chirurgo plastico che opera a Milano, molto attivo sui social dove disquisisce delle sue tecniche chirurgiche all'avanguardia. Il fratello di Diletta è più volte sceso in campo in difesa della sorella per smentre le voci secondo cui la conduttrice sportiva avrebbe fatto ricorso a diversi interventi di chirurgia plastica per forzare la mano di madre natura. Il chirurgo estetico di fama ha affermato con assoluta certezza che la bellezza di sua sorella è tutta naturale. Nel corso di un’intervista rilasciata alla rivista Gente, Mirko ha replicato a tono a quanti hanno polemizzato sulla bellezza artificiosa della Leotta: "Mia sorella è venuta in ambulatorio da me al massimo una volta, preferiamo vederci altrove", per allontanare l'idea maliziosa dei fan più scettici. Sul web gli hater si sono scatenati ritenendo che la compagna del pugile Daniele Scardina sia ricorsa all'aiutino della chirurgia estetica, potendo disporre a proprio piacimento del bisturi "miracoloso" del fratello chirurgo plastico. Il mondo social sostiene che la Leotta potrebbe aver modifcato il seno, il naso e le labbra. Saranno fondate tali voci di gossip? A parere del fratello Mirko Manola è una teoria del tutto campata in aria. Su Tweeter i follower sono insorti ironizzando su alcuni passaggi poco credibili del monologo di Diletta Leotta effuso sul prestigioso palco dell'Ariston: "La bellezza ti capita". Tra le critiche più pungenti postate sui social spuntano quelle di Selvaggia Lucarelli, Francesca Barra e di Monica Leofreddi. La giornalista e conduttrice Rai si è scagliata contro le parole inappropriate pronunciate al Festival di Sanremo dalla Leotta, commentando con un post su Tweeter il suo totale disappunto: "Con tutto il rispetto per Diletta Leotta, ma che la bellezza come valore debba essere rappresentata da una che a 28 anni si è rifatta tutta non mi sembra il massimo". La Leofreddi ha corredato il suo cinguettio con una foto rivelatrice di Diletta Leotta che mostra il prima e il dopo i presunti ritocchi estetici, avallando in tal modo la sua tesi maligna. Dal canto suo, la sensuale Leotta con ritegno sorvola sulle critiche velenose lanciate contro di lei, tralasciando di commentare. Adesso è il suo momento di gloria, tutto il resto non conta.

Diletta Leotta, dalla laurea alla squadra del cuore: 10 curiosità. Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Arianna Ascione. Tra le dieci donne che a Sanremo 2020 si alterneranno sul palco accanto ad Amadeus ci sarà anche Diletta Leotta: «L'Ariston è un po' come San Siro - ha raccontato durante la conferenza stampa - Amadeus sarà il mio mister. Per la prima volta non starò a bordo campo ma in campo a giocare la partita. Sono molto contenta di giocarla con così tante donne».

La conduttrice di Dazn, nata a Catania nel 1991, nel giro di pochi anni è diventata molto popolare in ambito sportivo, ma nel suo passato c'è una laurea in Giurisprudenza. È stato il padre, avvocato, a spingerla a portare avanti gli studi: «Papà mi disse di scegliere tra legge, medicina e ingegneria», ricordava a Vanity Fair nel 2016.

I primi passi nel mondo dello spettacolo. Gli inizi in tv risalgono al 2010: a 19 anni ha affiancato su Antenna Sicilia il conduttore del Festival della nuova canzone siciliana, Salvo La Rosa. È stata anche sua valletta nel programma di intrattenimento Insieme.

I concorsi di bellezza. Prima di intraprendere la carriera televisiva Diletta Leotta aveva già tentato di farsi conoscere attraversi i concorsi di bellezza: la sua partecipazione a Miss Muretto risale al 2006, mentre nel 2009 tentò la carta di Miss Italia e fu eliminata alle preselezioni. Nel 2018 però potè prendersi una piccola rivincita: fu chiamata a condurre l'edizione del concorso presieduto da Patrizia Mirigliani insieme a Francesco Facchinetti.

La squadra del cuore. La passione per il calcio le è stata trasmessa dal papà Rori, che - quando era bambina - la portava allo stadio a vedere le partite del Catania, squadra per cui ancora oggi simpatizza.

Che tempo fa? Prima di approdare nella redazione di Sky Sport dal 2012 al 2015 ha ricoperto il ruolo di meteorina a SkyTg24.

Star di Instagram. La sua pagina Instagram (@dilettaleotta) è seguita tanto quanto quella delle più rinomate influencer: ad oggi può vantare 5,9 milioni di follower. Tra le foto pubblicate ci sono immagini legate all'ambito professionale (soprattutto Dazn e Radio 105) ma anche fotogrammi dei suoi momenti di relax, vissuti da sola o in compagnia della sua famiglia a cui è molto legata.

Il sogno nel cassetto. Intervistare giocatori del calibro di Messi, Sergio Ramos, Salah, Kane, Neymar e leggende della Premier League (David Beckham, Alan Shearer e Sir Alex Ferguson). Ma non solo. Diletta Leotta ha rivelato in un'intervista al Sun di avere un ambizioso sogno nel cassetto: «Mi piacerebbe essere in campo quando l'Italia vincerà la prossima Coppa del Mondo!».

Dicono di lei...Paola Ferrari. La giornalista sportiva Paola Ferrari l'ha attaccata più di una volta: dopo averla accusata lo scorso anno di aver ceduto ai «ritocchini» qualche settimana fa è tornata alla carica. «Io vorrei Bebe Vio a Sanremo insieme ad Amadeus - ha detto ospite di Tv Talk la conduttrice della Domenica Sportiva - Quella è una donna italiana che mi dà orgoglio e mi fa sentire voglia di essere una donna italiana. Non una donna che va in tv per le sue forme».

Il vestito della discordia. Commentando l'abito audace scelto da Diletta per partecipare a Sanremo 2017 come ospite Caterina Balivo aveva commentato su Twitter: «Non puoi parlare della violazione della #privacy con quel vestito e con la mano che cerca di allargare lo spacco della gonna». Dopo aver ricevuto numerose critiche per le sue esternazioni la padrona di casa di Vieni da me si era scusata: «Ieri sera prima di andare a dormire ho postato un tweet infelice, che ha scatenato tantissime polemiche. Ho espresso un giudizio sull'atteggiamento, me ne dispiace: non sono nessuno per giudicare un atteggiamento di un'altra donna».

Violazione della privacy. La conduttrice Dazn era stata invitata da Carlo Conti per parlare di cyberbullismo e violazione della privacy, rievocando una brutta esperienza - il furto di alcune sue foto hot dal cloud del suo smartphone poi diffuse in rete - da cui è riuscita ad uscire con grinta (anche grazie al supporto della sua famiglia che le è sempre rimasta accanto). Come raccontò a Diva e Donna: «Rifarei quelle foto e soprattutto farei più attenzione alle password dei miei account. Sicuramente non è stato un momento bello. Il fatto di essere un personaggio pubblico mi ha dato la forza di reagire con grinta e positività. Se questa reazione forte fosse stata imitata anche solo da una ragazza con una storia simile sarebbe un successo».

·        Domiziana Giordano.

Federico Rocca per "vanityfair.it" il 10 gennaio 2020. Una cometa luminosa, dalla traiettoria eccentrica, la carriera di Domiziana Giordano. Per un decennio il suo talento misterioso gravita, come un satellite, attorno all’orbita di registi oggetto di venerazione religiosa: Andrej Tarkovskij, che nel 1983 le regala il suo primo ruolo importante in Nostalghia, Jean-Luc Godard, che la vuole al fianco di Alain Delon in Nouvelle Vague, nel 1990, e, soprattutto, Neil Jordan, che le spalanca le porte di Hollywood con l’indelebile Intervista col vampiro (1994). Poi, la stella collassa. Trasformandosi in buco nero. Sparendo all’orizzonte. Ma Halley insegna.

Ha fatto in 10 anni quello che altre non fanno in una vita.

«Avrei potuto fare di più. Ma la mia carriera si è interrotta».

Appunto. Perché?

«Colpa di Tangentopoli, quello scandalo mi ha distrutta».

Mi ricordi come andò.

«Era il 1994, vivevo a Parigi perché in Italia non mi si filavano. Diedi in subaffitto il mio appartamento, me ne serviva uno a Los Angeles. Mi capitò la persona sbagliata».

Il latitante Ferdinando Mach di Palmstein, intimo di Craxi.

«Mai frequentata quella gente, sapevamo tutti che tipi erano: i politici si davano da fare solo per comprarsi le ville. A me non fregava niente dell’Italia, manco leggevo i giornali. Ho peccato di ingenuità».

Finì sulle prime pagine.

«Una bella attrice è il perfetto capro espiatorio. Su Variety uscì un titolo a 4 colonne, le mie agenzie mi licenziarono in tronco. Nessuno che mi abbia difeso, nessuno che mi abbia intervistata. Per anni mi sono sentita colpevole: provavo vergogna per una cosa che non avevo fatto. Ho visto l’inferno».

Perse il lavoro.

«Non solo. All’epoca stavo con una donna della quale ero molto innamorata. Mi lasciò, così come il mio amico fraterno. Quando hai successo diventi facile preda per i parassiti».

Dallo scandalo uscì pulita.

«Ma fu come uno stupro. La prego di usare queste parole: uno stupro mediatico. Mi sentii un’intoccabile. Ho pianto per anni. Ho tentato il suicidio. Sono stata in manicomio».

Mi racconti.

«Stavo a Roma, presi dei farmaci, quelli che usavo per dormire. Ma la confezione non era piena, e i medici arrivati per salvarmi mi diedero una dose di antidoto − non so, anfetamine − tarata sull’intero flacone. Ho dato di matto».

Cosa ricorda?

«Mi ricoverarono, vedevo tutto in bianco e nero come in un film di Ciprì e Maresco. Gli infermieri mi sembravano due Hannibal Lecter che mi avevano rinchiuso in una caverna per farmi a pezzi. Li presi a colpi di karate. Mi sono risvegliata al manicomio di Cassino con la camicia di forza».

Quanto ci è stata?

«Quindici giorni… non ricordo. Il responsabile era un fascistone. Conoscendomi come una di sinistra non voleva più lasciarmi andare via. Ma io avevo − e ho − un sacco di amici: mi hanno fatta uscire di lì e aiutata a campare negli anni seguenti. Se sei una persona di merda non ti aiuta nessuno».

Ha detto che in Italia non se la filavano.

«Ero diversa, non stavo zitta: questa cosa non andava bene. E poi ero strana, non ero la classica bellezza».

Be’…

«Di Monica Bellucci dicono tutti che è bellissima. Di me no. Ma va bene anche così, è già grasso che cola».

Credo che la gente pensi che sia stata lei a lasciare il cinema.

«Mi hanno dato un calcio nel sedere. Ho pagato il fatto di essere andata avanti sempre da sola, senza raccomandazioni».

Le piaceva fare l’attrice?

«Certo, mi sentivo come un tortellino nel suo brodo».

Vorrebbe tornare a fare cinema?

«Anche a sfilare! Sto bene, no, con quello che ho passato?».

Con quali registi vorrebbe lavorare?

«Con quelli bravi. Matteo Garrone, carino e simpatico. Paolo Sorrentino. Nanni Moretti è bravissimo, a parte qualche film proprio odioso. Ma il più bravo di tutti è un altro: Woody Allen, un genio, un vate, un filosofo. Amo Crimini e misfatti».

Davvero nessun regista l’ha più cercata?

«Sono scesa a Roma, recentemente. Niente, gli agenti non mi vogliono. E va be’, chi se ne frega».

Ha un brutto carattere?

«Una donna che dice quello che pensa ce l’ha».

E un uomo?

«Ha carattere, è un figo: mi creda, in questo mondo è più facile essere uomini omosessuali piuttosto che donne».

La sua nuova vita è dedicata all’arte.

«Guardi che io vengo dall’arte, mio nonno era un pittore. A casa mia, se non dipingevi, eri un pusillanime».

Ma presto ha scoperto il cinema.

«Sì, però volevo stare dietro la macchina da presa. Solo che ero molto bella. E molto vaga. Mi dicevano così: vaga. Sa, allora il mondo era molto maschilista».

Ora meno?

«Be’, sì, anche se stiamo facendo dei passi indietro, con Salvini e questa gente qui. Salvini è pericolosissimo. Non capisco: una volta si finiva in prigione per il reato di apologia del fascismo. Ora non ci va più nessuno».

Però la gente lo vota, Salvini.

«La gente è pecora e segue la Bestia. La destra è compatta e va a votare; la sinistra sta a casa a limarsi le unghie. Bisogna uscire fuori, come fanno le sardine. Sono fantastiche».

Esistono ancora destra e sinistra?

«Chi lo nega o non conosce la storia, o è di destra».

Il cinema: puntava a fare la regista, ma la volle Tarkovskij.

«Da quel momento sono stata una macchina da guerra: imparai che il lavoro d’attore non ti lascia tempo per altro».

Nemmeno per l’amore?

«Già all’Accademia ci avevano inculcato nella testa: “Non pensiate di avere un cane, un gatto, un marito”. Che, poi, io non sono mai stata molto monogama».

L’incontro con Jean-Luc Godard, un altro mostro sacro.

«Non è famoso per essere simpatico. E in effetti non lo è stato. Lo salutai dicendogli: “Non lavorerò mai più con lei!”».

Intervista col vampiro di Neil Jordan è un cult.

«Lui è fantastico. Banderas era molto carino, abbiamo legato. Con Pitt e Cruise no. Gli americani sono strani forte, sa. Classisti da morire. Tom non parlava con nessuno, aveva una roulotte tutta per sé. Volevo conoscerlo, aprii la porta sorridendo: “Si può?”. L’assistente mi cacciò malamente».

Domiziana si alza dal divano del suo appartamento/studio milanese, irrequieta. Colpa della salopette che indossa.

«Scusi eh, questi jeans sono così scomodi, io li odio. Li metto solo per dipingere, a me piace vestirmi diversamente».

Come?

«Bene! Anche a casa, la mattina, sono perfetta. Adoro la moda: un negozio di Gucci, oggi, è meglio di un museo».

Subiva il fascino del red carpet?

«Certo, è molto meglio dello psicanalista».

Ci va?

«Ci sono stata un paio di volte, ma li ho sempre licenziati. Credo di più nelle terapie di gruppo: ci andavo perché sono sempre stata bulimica. Ingrassavo e dimagrivo di continuo».

È guarita dalla bulimia?

«Grazie allo sport: ti cambia la chimica. Tutti i giorni faccio 60 minuti di cyclette».

Che palle.

«Ma neanche un po’, mi metto lì e guardo un film. La ginnastica è meglio dei farmaci per curare la depressione».

Oggi come sta?

«Bene. Joseph Conrad, in La linea d’ombra, scrive: “La gente ha una grande opinione sui vantaggi dell’esperienza. Ma sotto un certo profilo, esperienza significa sempre qualcosa di spiacevole, in contrasto con il fascino e l’innocenza delle illusioni”. Ho avuto molte esperienze io».

Compresa l’Isola dei famosi, nel 2006.

«Capii subito che gli autori, tutti berlusconiani, mi stavano cucendo addosso un personaggio e me ne andai».

Quale?

«La stronza del gruppo, in quanto donna impegnata. Era il momento in cui Berlusconi stava istruendo l’Italia a diventare quello che è adesso: un paese culturalmente analfabeta».

Con Massimo Ceccherini furono scintille.

«Manco lo conoscevo, e mi tirò addosso dei piatti, a tavola. Un odio terribile contro di me, solo perché ero il suo esatto opposto. Simona Ventura lo sosteneva».

Sua madre la difese in diretta, eroicamente.

«Tutte le madri cercano di difendere le figlie, anche se noi non abbiamo mai avuto un rapporto facile».

In che senso?

«Vengo da una famiglia complicata. Non sono sempre i figli ad avere problemi coi genitori; spesso è vero il contrario».

Il suo nuovo progetto artistico si intitola Caso e necessità.

«È basato su un testo del premio Nobel Jacques Monod. Il tema è la religione: dove c’è, c’è discriminazione. Tutte le religioni, non da ultima quella cattolica, sono fissate contro le donne e i gay. Sono anticlericale, ma amo molto papa Francesco, secondo me è il più grande statista del mondo».

In che cosa si sente discriminata, in quanto donna?

«Prima di tutto, non posso diventare prete».

Suona come una provocazione. A proposito: è vero che Maurizio Cattelan ha dichiarato che lei è il suo mito?

«È troppo carino! Ogni tanto lo incrocio in una pizzeria al taglio».

Si considera una grande artista?

«Sta agli altri dirlo. È un ambiente difficile. Vai al cinema, il film ti piace, lo consigli agli amici e ha successo. Nell’arte c’è un critico che dice, guardando la foto di una cacca secca: ”Capolavoro!”. La gente non capisce niente, e ci crede».

In Amici miei – Atto II Gastone Moschin dice: «A volte il peccato ha in sé qualcosa di grandioso». E lei risponde: «Forse è vero, ma forse è per questo che l’è ancora più grandioso rinunciarvi».

«Non pecco molto, io. Esco dagli schemi, questo sì. Sono un essere umano che fa delle cose: alcune lecite, altre no. Non serve la religione per stabilirle. Dovrebbe bastare l’etica».

I peccati vanno confessati?

«La religione cattolica è geniale: ti confessi e tutto è a posto».

Ecco cos’è, allora, quest’intervista. Una confessione.

·        Donatella Rettore.

Alessandra Menzani per Libero Quotidiano il 5 aprile 2020.

«Non morirò, almeno non ora».

Il post di Donatella Rettore ha colpito tutti. La contattiamo, è ancora provata: «Non riesco a capire quello che sta succedendo a me, visto quello che sta capitando in giro». La cantante di Splendido splendente vive un un dramma nel dramma. Quello del coronavirus, che definisce una «falce che colpisce tutti, belli e brutti», e quello di un tumore che l' ha costretta a due interventi consecutivi con ricovero in ospedale, a metà marzo.

«Non vedevo l' ora di uscire», ammette. Sessantasei anni, una vita spericolata, la cantante veneta si racconta a Libero a cuore aperto.

Come sta ora?

«Mi hanno operato il primo marzo, il 13 mi hanno detto che dovevano intervenire di nuovo. Lo hanno fatto il 16 a Castelfranco Veneto, distaccamento dello Iov. Sono fortunata, ogni anno faccio la visita, la mammografia era negativa ma la ginecologa mi ha detto: "Hai un sasso grosso. Sentilo". Via sotto ai ferri».

In pieno caos coronavirus.

«Consideriamo poi che sono talassemica, non ho gli anticorpi. Ho l' anemia mediterranea. Già nel 2009 pensavo di averla scampata».

Da cosa?

«Avevo la Sars quando nessuno più la prendeva. Sembro abbonata.

In giro c' erano solo quattro casi, all' epoca vivevo a Roma».

In ospedale ha avuto paura di prendere il virus?

«Sì. Io ero in oncologia, che ovviamente era separata dalla virologia.

Ma non si sa mai. "Qui non c' è il virus, vero?", chiedevo ai medici».

Dopo ha fatto il tampone?

«Volevo farlo, ma non ce n' erano. Il tampone alla fine è un semplice cotton fioc che ti infilano nel naso, ma mancava il reagente».

Ora cosa farà?

«Dovrei andare a una visita per controllare la ferita e per l' ultimo esame istologico, ma preferisco evitare. Ho un brutto raffreddore, mal di testa con sinusite».

La sua quarantena è una convalescenza. Cosa fa?

«A casa non ci sto volentieri, sono una attiva, mi arrampico pure. Ma ci sto, anche se sbrocco. Bevo un po' di vin brulè che fa bene. Guardo i social, dopo un po' mi stufano perché mi stressano. "In Cina hanno ricominciato a mangiare i cani", leggo.

Sono terroristi pure gli animalisti».

Porta a spasso i cani spesso?

«Ma no, come dicevo, non sto ancora benissimo. Ne ho tre: Orso, Lupo e Collins. Se potessi terrei in casa anche giraffe e leoni. Leggo tanto, mi piace Ammaniti. Ho al mio fianco mio marito. Per ora non abbiamo ancora litigato io e Claudio. Stavamo per avere una discussione poi ho detto: "No, non ora"».

È una di quelli che alle 18 puntuale si incolla alla tv per gli aggiornamenti sui morti?

«Sì. Mi arrabbio perché non sono chiari. Vedo la Cuccarini e Matano alla Vita in diretta e cerco di capire».

Giuseppe Conte le piace?

«No. Come presidente del consiglio preferirei uno anche antipatico ma con il pugno di ferro. Conte non è antipatico, è anche carino. Craxi era l' uomo forte, lui mi piaceva».

Cosa la fa arrabbiare «La burocrazia. Straccerei tutto.

Della burocrazia si nutrono i male intenzionati».

Aveva progetti che sono saltati per colpa del coronavirus?

«Dovevo uscire con un singolo e fare il tour. Non possiamo fare concerti a porte chiuse. Avevo 15 date fissate, una scaletta fantastica, con i miei musicisti giovani e scatenati. Vediamo. Mi auguro che Burioni annunci: "Io ho il vaccino". Voglio vedere adesso che dicono i no-vax».

Ha ricevuto solidarietà dal mondo dello spettacolo?

«Mara Venier, Simona Ventura, che avevo visto due volte, Giusi Ferreri. Il capitano dell' Hellas Verona Pazzini. Stiamo diventando più umani, prima c' erano solo odiatori».

Alcuni colleghi hanno scritto canzoni sul virus. Lei lo farebbe?

«No. Cercherei di scrivere una canzone che mette allegria. C' è voglia di leggerezza, di ritmo, d' amore».

La trasmissione Rai Ora o mai più la rifarà?

«Non si sa. Tante cose sono saltate, preferirei qualcosa di nuovo. Siamo nel 2020: è iniziato malissimo ma siamo in un nuovo decennio. Speriamo in un 2021 Splendido splendente».

Serena Granato per ilgiornale.it il 28 gennaio 2020. Dopo aver vissuto ben 43 anni al fianco del marito, Claudio Rego, ha dichiarato che avrebbe voluto avere almeno un figlio, che però non è mai arrivato. "Non ci è riuscito di fare un figlio, perchè sono talassemica e abbiamo detto meglio non provarci più”, ha dichiarato nel corso del suo ultimo intervento televisivo, senza nascondere quindi di aver provato in passato a raggiungere la maternità tanto desiderata. Alla luce delle prime dichiarazioni rilasciate dall'ospite, la Venier ha incalzato quest'ultima sulle adozioni, chiedendole se avesse mai pensato di adottare un figlio. E la Rettore ha, dal suo canto, fatto sapere di aver provato ad adottare, seppur i suoi tentativi siano stati del tutto vani: “Sì, ma in Italia è sempre più difficile che altrove, perchè deve essere così difficile in Italia adottare un bambino che sta male? I bambini non devono passare per la burocrazia, se un genitore è in salute e ha la possibilità di mantenere un figlio è fatta”. Oltre ad aver riportato delle indiscrezioni sulla vita privata, l'artista ha anche ricordato i momenti salienti della sua carriera, che la vide debuttare sul palco del Festival di Sanremo nel lontano 1974, kermesse dove arrivò penultima. Da sempre viene considerata una delle artiste più iconiche della musica italiana e, in risposta alle domande della Venier, non si è risparmiata, inoltre, sui particolari del suo make-up glitterato, che ha ideato spaccando delle palline da un albero di Natale: “Sono sempre stata così. Il mio truccatore è sempre lo stesso dall’88, ma prima ci pensavo io. Ho lanciato io la moda dei glitter”. Dietro il suo look sempre eccentrico e aggressivo, si nascondono, in realtà, delle insicurezze. "Ed è per quello che si diventa aggressivi", ha riferito Donatella Rettore. Circa la sfera affettiva, ha dichiarato di non aver mai avuto un rapporto idilliaco con la madre, la quale avrebbe voluto vederla realizzata come ingegnere nucleare: "Mia madre non è mai venuta ad un mio concerto. Mio padre conosceva tutti gli artisti ed era una persona aperta. Mamma si vergognava. E io mi dispiacevo. Sono stata sempre fedele alla sua morale. Prima di morire mi guardò e mi disse ‘sei sempre una bella ragazza’, da lì capii che era contenta, ma me lo ha detto solo alla fine”. Nel corso della sua ultima ospitata in casa Rai, è stato mandato in onda dalla regia - per lei - un filmato, registrato dal membro storico dei Pooh, Red Canzian. E nel video in questione, il cantante rivolge a Donatella Rettore il seguente messaggio: “Oggi, festeggi 40 anni splendidi splendenti della tua carriera, ti faccio gli auguri e i complimenti, sei dolcissima anche se lo racconti in modo diverso, sei una persona perbene. Ti conosco da giovanissimo, so bene chi sei”. All'ascolto di quest'ultime parole, la Rettore non ha nascosto l'affetto e la stima che la legano al mittente del messaggio. Da giovanissimi avevano avuto un flirt e di recente hanno partecipato a Ora o mai più, in qualità di giudici. "Ci vogliamo veramente bene... - ha riferito, infine, sul rapporto maturato con Canzian, la Rettore-. Fidanzati? Ma così, io facevo scuola di pomeriggio, era già un mito tra noi adolescenti, era molto famoso in Veneto. Un giorno me lo son trovato fuori scuola con la chitarra a tracolla, bello come il sole e mi chiese se mi poteva accompagnare alla stazione. L’avevo conosciuto al Piper dove suonava. Poi da questo è nata una piccola storia, ma anche una grande amicizia. E’ veramente un amico”.

Ivan Buratti per su tvblog.it il 27 gennaio 2020. A oltre dieci anni di distanza dal duro scontro avuto nello studio di Scalo 76, talk show musicale di Rai 2 andato in onda dal 2007 al 2009, Donatella Rettore e Pierluigi Diaco si sono ritrovati in televisione per riappacificarsi di fronte alle telecamere di Domenica In. Cosa accadde fra i due, nell'ottobre del 2008? Al centro della lite, tra i primi video divenuti virali su YouTube Italia (oggi conta oltre 600.000 visualizzazioni), le parole della cantautrice veneta, che prima criticò la scelta di Mina di cantare alcuni brani ritenuti "brutti", poi distinse il proprio pubblico, "uomini prima di essere gay", dalle "checche laide" che erano solite seguire altre sue colleghe. Indignato per il commento, Diaco replicò: Non penso che il pubblico omosessuale che ti segue faccia questa distinzione, la distinzione fra gay e checche fa sorridere. Come si fa a ghettizzare il mondo omosessuale? Al commento di Pierluigi Diaco seguì perfino il "culattone" da parte della cantante di Kobra e Lamette, insulto che fece da innesco per uno scontro continuato poi su giornali e blog, su cui solo oggi i due hanno messo un punto. Previsti entrambi come ospiti nello spazio di Domenica In di domenica 26 gennaio 2020 dedicato al prossimo Festival di Sanremo, Donatella Rettore e il conduttore di Io e Te si sono incontrati per volere di Mara Venier ancora prima del talk, al termine dell'intervista alla cantautrice. "Hai detto che nella vita bisogna volersi bene, quindi dovete fare pace, lui ti adora", l'invito della zia Mara a Rettore, che ha accettato la proposta di fare entrare in studio il giornalista. Il lungo abbraccio e il doppio bacio sulla guancia hanno così sancito la pace fra Donatella Rettore e Pierluigi Diaco, che con queste parole ha voluto mettere una pietra sopra al conflitto: Nella televisione è quasi impossibile riconoscersi e darsi l'opportunità di conoscere per davvero. È tutto passato, viva Rettore. L'artista, a sua volta, ha urlato "Viva Diaco!" e invitato gli spettatori di caricare la riconciliazione su YouTube. Le regole del copyright, nel corso degli anni, sono però mutate: se volete rivedere lo storico incontro fra i due, c'è pur sempre RaiPlay!

Alessandro Ferrucci per ''il Fatto Quotidiano'' il 20 gennaio 2020.  È metà gennaio, "ma subisco ancora i postumi del Natale". Dolore. "Sono come un pullman: quando mi fermo è complicato ripartire". Mannaggia. "Comunque di uomini non capisco nulla: o diventano sudditi o io ancella, e se mi tramuto in ancella poi si rompono loro". Bel guaio. "Di recente, per un gol, sono cascata dalla tribuna dell' Hellas Verona; alla fine della partita sono arrivati i dirigenti della squadra e mi hanno detto: Non ci venire più, sei pericolosa. A me il pallone piace". E di pallone sa effettivamente molto, Donatella Rettore. Punk, situazionista, pensatrice imprevedibile, come l' ape del Belli si posa - di argomento in argomento - con una padronanza non comune, con un misto di ironia, provocazione intrinseca e consapevolezza, solo da vivere, da percepire nella sua matrice, senza cercare di capire dov' è la prima mollica di Pollicino.

Lei è la cantautrice più conosciuta all'estero.

«In pochi ne sono coscienti, e in gran parte è colpa delle varie case discografiche: mi hanno voluto inquadrare più nel ruolo di creatrice di singoli che in quello di autrice di pezzi. Eppure scrivo bene. È la mia forza».

E quindi?

«Ho deciso di cantare brani meno conosciuti, come Delirio, Curiosa o Brivido. Ho preparato una scaletta bellissima per l' estate. E mi piacerebbe ricoprire il Duomo di Milano con le mie canzoni».

A un certo punto ha smesso di scrivere per altri.

«Perché ero diventata troppo famosa per loro, e questa è solo una reticenza italiana, una reticenza un po' bigotta; una volta Umberto Eco mi scrisse: "Lei è una ragazza forte, sarebbe andata meglio se fosse nata anglosassone, figlia di una cultura calvinista o luterana"».

E invece...

«Sono veneta, tutti bigotti, polentoni e baciasantini: lì la religione è ovunque, e il parroco era la persona più importante della città».

Però lei ha iniziato a cantare all' oratorio.

«Grazie a Dio! In Italia non esistevano scuole laiche di vera qualità con spazi aperti nei quali socializzare, gli unici erano gli oratori, e io ci sono cresciuta, tra una canzone e una partita a pallone».

Il calcio le piace proprio.

«Tanto, quando posso vado allo stadio, e da sempre sono amica dei calciatori».

Di chi?

«Uno dei primi è stato Picchio De Sisti: mi invitò all' Olimpico per la sua ultima partita, credo Roma-Atalanta (1979), io seduta in tribuna; a un certo punto sbaglia un passaggio e gli urlano "Mejo se te ritiri". Io zitta. Poco dopo si inventa un assist, e cambiano il tono: "Nun ce lascià!" A quel punto Mi sono girata: "Ve dovete decide"; (cambia all' improvviso) anche Walter Zenga, grande amico».

Innamorato di lei.

«No, lui solo le giornaliste; però ci scambiavamo confidenze, e quando giocava all'Inter lo chiamavo in ogni albergo dove alloggiava la squadra; il calcio è veramente lo spettacolo più bello del mondo».

È da stadio.

«Nel 1981 ho cantato a Marassi prima di Sampdoria-Genoa, e grazie al presidente Mantovani, gran persona, solo che alla fine dello spettacolo stavo per sentirmi male: ero vestita di plastica, una sudata pazzesca».

È stata tra le prime a esibirsi negli stadi.

«In quegli anni non era scontato, i parametri odierni, tipo Vasco, non erano stabiliti».

Le piace Vasco?

«È un ammaliatore, è uno di casa, non mette soggezione, ha trovato la sua formula e la ripropone in ogni pezzo. Così il pubblico non si sforza».

È un punto di riferimento.

«Come capita, chi più e chi meno, a chiunque diventa conosciuto».

Come a lei.

«L' altro giorno ho partecipato a una fiera dedicata al mondo delle quattro zampe, ero lì per esibirmi con il mio cane e la mia squadra; alla fine si avvicina una signora: "Potevate organizzare meglio questa manifestazione"».

A lei?

«Quando ci sono è tutto merito o tutta colpa della sottoscritta; prima o poi divento un cantante mascherato».

Per questo è rimasta a vivere in provincia?

«Ma qui arrivano dei pullman per cercarmi, qui sono nate personalità come Guidolin, Giorgione, Giorgio Lago (ex direttore del Gazzettino), ma vengono per me».

E la trovano.

«A volte mi beccano».

Le dispiace?

«Dipende, è che hanno degli smartphone che sono simili a delle colt, ti tolgono brandelli di vita; ha ragione la Pravo: lei si rifiuta di partecipare al rito del selfie».

Tempo fa ha definito la Pravo "una fine dicitrice".

«Premesso: sono una sua fan, il suo fascino è inarrivabile, è totalizzante, e con i suoi atteggiamenti per anni ha superato tutte, compresa Mina».

C' è un sottofondo di però.

«Oggi spesso non canta, non trova proprio le note, mentre quando è uscita con Se perdo te, non resistevo, e in casa la intonavo tutto il giorno, mamma disperata».

Mamma attrice goldoniana.

«Sono arrivata dopo tre gravidanze andate male, mi ha partorita quando aveva 39 anni, per quel tempo una rarità, mentre oggi non c' è limite».

Sbagliato?

«Sì, perché sei costretto a delegare: io sono cresciuta con la tetta di mamma, con i suoi anticorpi, e come lei, come spesso i veneti, soffro di microcitemia. E Nel '92 mi ero decisa ad avere un figlio: ho rinunciato quando ho capito che non sarebbe stato sano. Ho sofferto».

Da lì la passione per i cani?

«No! Già da ragazzina raccattavo tutti i cani randagi e li portavo a casa, alla fine mi hanno sbattuta in collegio: non ne potevano più».

Dicevamo: mamma goldoniana.

«Era la pupilla di Cesco Baseggio, e d' estate raggiungeva apposta Chianciano Terme per beccare Armando Curcio e cercare uno scambio culturale; (cambia tono) mamma aveva finito solo il ginnasio, era quindi autodidatta, e ha ripreso a studiare quando sono andata via di casa».

È stata dura lasciare la sua quotidianità?

«Sono una donna pigra, pragmatica e abitudinaria; poi però mi rompo le palle di essere abitudinaria, mi sparo sei mesi di follie, e dopo mi riconnetto con me stessa».

Un percorso.

«È difficile vivermi dentro».

E starle accanto?

«Tutti dobbiamo abbozzare, poi ogni tanto scoppia la bomba, e con mio marito siamo sposati dal 2005, ma ci conosciamo dal 1977 (sorride). Però dai primi anni Novanta non ci siamo più concessi le nostre innocenti evasioni.

Come mai?

«Colpa dell' Aids».

Ve le confessavate?

«In assoluto è sempre meglio tacere, ma un tempo c' erano i paparazzi, quelli veri e bravi, e dovevi alzare le mani davanti alla verità».

Si innervosiva per gli scatti?

«Li adoro, hanno un senso di affetto per i personaggi, e poi svolgono il loro lavoro».

Reciproco amore?

«Qualche volta finivo dentro a delle catastrofi, allora li fermavo e pregavo: "Quelle foto no, magari organizziamo altre situazioni". Accettavano».

Reciproco rispetto.

«Il lavoro va trattato come merita: me lo ha insegnato mio padre, socialista nenniano, orgoglioso di un numero storico de l' Avanti!; peccato, non ci sono più personalità come Pertini e Nenni».

Cantava alle Feste de l' Unità?

«Certo, e pure a quelle socialiste e democristiane e i miei primi pezzi erano molto impegnati, tanto che una volta Andrea Mingardi mi disse: "Sei una bella figa, cosa te ne frega di cantare sulla rivoluzione spagnola o sulle femministe. E poi le femministe sono tutte brutte"».

Il suo rapporto con le femministe?

«Un pomeriggio ho partecipato a una manifestazione in piazza Farnese, a Roma: salgo sul palco, canto e capisco di non rientrare nei loro parametri».

Come mai?

«Ero bionda, curata e con i jeans. Un suo pezzo del tempo è dedicato alle molestie. È la storia di un preside, un democristiano di merda; (due secondi di silenzio) già mi interessavo di politica, a casa veniva Tina Anselmi, convocata da mia madre per ragguagliarla dei pettegolezzi della cittadina, ma allora il livello culturale era veramente più alto, poi sono arrivati questi barbari leghisti e la liturgia del piccolo imprenditore».

Che si fa?

«Ma lo mandiamo via il pomata?»

Chi?

«Zaia! Lo voteranno ancora? Io pago le tasse in Italia, non a Montecarlo o a Lugano».

Le hanno mai proposto un paradiso fiscale?

«In passato mi hanno prospettato ben altro, ma ogni volta ho risposto: "Voi siete pazzi, non posso diventare massona, ho già i miei problemi". E poi ti chiedono i piaceri. Per carità».

Torniamo al preside.

«Si divertiva con le proposte sconce alle professoresse, che non si sottraevano, anzi le vedevo civettare, così non erano più supplenti. Altri non capivano certe dinamiche, io sì: già allora ero sveglia. Scuola pubblica. Fino alla seconda media sono andata dalle suore, poi in terza ho chiesto a mamma di affrontare la realtà e ho visto il disastro».

È cattolica?

«Sono cristiana non praticante, sposata in chiesa. Per me l' ultimo vero papa è stato Albino Luciani, quando c' era lui sono tornata a confessarmi».

Papa Francesco?

«No, è argentino, e lì ci sono le corride: non mi fido di un paese dove esiste il piacere di uccidere».

Vegetariana?

«Sì, però mangio il formaggio. Sul risotto è fondamentale».

È sempre claustrofobica?

«Certo. Ultimamente mi è presa pure la sudarella dentro al traffico di Roma. Tutti che suonano. Tutti che rompono. Uno mi ha pure urlato: "Se non te levi te passo sopra". Ha abbozzato. Sono scesa dalla macchina. "Ma sei la Rettore? Allora nun te preoccupà, va bene così"».

Aereo?

«Mi piace, eppure a 18 anni sono finita dentro a un Fokker che è atterrato con i motori in fiamme e la schiuma per tamponare la situazione; ogni tanto vado vicino casa a vedere i caccia dell' esercito, il mio sogno è salirci sopra. Subito un appello. Negli anni Ottanta ho scritto a Craxi, e lui: "Sei matta?"».

Lo conosceva?

«Eravamo molto amici, ma ci siamo allontanati quando non ha capito dove andava la questione del finanziamento pubblico ai partiti».

A chi dice grazie?

«Uno dei primi? A Lucio Dalla, uomo ironico, spiritoso e di grandissimo talento; sono stata l' unica donna che ha amato, ma solo perché mi considerava un maschiaccio».

Il grazie.

«Non avevo una lira e lui mi coinvolse nei concerti in Veneto e riuscì a togliere i dubbi a mia madre con una frase lapidaria: "Signora deve solo cantare, non fare la troia"».

Risposta di mamma?

«"È già piena di grilli per la testa". E Dalla: "Risolviamo così: sua figlia canta e lei va a dire un paio di preghiere"».

Quando è salita sul palco?

«Tremavo, avevo una paresi alle labbra e salivazione azzerata; ah, pure un altro Lucio mi ha colpita».

Battisti.

«Incontrato per la prima volta ad Amburgo: lì avevo un gran bel successo, la numero uno, mentre in Italia no. E stupito mi domanda: "Ma tu chi sei?". Gli spiego la situazione E Sconsolato mi coinvolge in una riflessione: "Da noi guardano più alla forma, al foulard, a quanto pesi, se hai le gambe a x. Mi sono rotto le palle di stare a dieta, e poi la mia donna l' ho trovata". Da quel giorno ha acquistato tutti i miei dischi».

È una sopravvissuta?

«Sono piena di cicatrici».

Con la fama a cosa ha rinunciato?

«Alla libertà, per questo ogni tanto mi difendo con il ruolo della stronza, e non rinuncio a una passeggiata in città con il mio cane e a una bella tazza di cioccolata. Adoro impiastricciarmi di panna».

Guai a chi la scoccia.

«Un pomeriggio ci ha provato Sgarbi: "Come ti sei messa? Sembri un travestito". Tranquilla ho replicato: "Non mi rompere. Sto mangiando".(Ride) A me piace Grillo».

Che c' entra?

«Nulla, volevo dirlo. È il mio preferito, voglio andare con lui a scavare la sabbia a Marina di Bibbona, e un tempo mi faceva il filo: è un seduttore».

Con lei non solo Grillo.

«Bionda, bella, con due chilometri di gambe, solo i gay non ci provavano. Ma adesso ho la pace dei sensi. Forse. (Perché il cobra non è un serpente, ma un pensiero frequente. Che diventa indecente)».

·        Donnie Yen, l'erede di Bruce Lee.

Donnie Yen, l'erede di Bruce Lee: "Nelle arti marziali non conta vincere ma cogliere l'umanità". Pubblicato mercoledì, 15 luglio 2020 da Chiara Ugolini su La Repubblica.it. La passione per le arti marziali cinesi è nata quando era un bambino, figlio di una maestra di tai-chi chuan ha iniziato a praticarlo dall'età di 4 anni, il cinema è arrivato a vent'anni quando, dopo essersi trasferito a Boston con la famiglia, comincia a ottenere i primi ruoli in film dove le arti marziali hanno un ruolo importante. Oggi, a 56 anni, Donnie Yen è uno dei maggiori esponenti del cinema marziale mondiale, grazie alla saga dedicata al maestro Ip Man, da molti giudicato l'erede di Bruce Lee, in passato ha criticato il ritratto che ne ha fatto Quentin Tarantino in C'era una volta a... Hollywood, alle spalle una settantina di titoli tra Hollywood e Hong Kong.

Ip Man 4: The finale di Wilson Yip è l'ultimo capitolo di una tetralogia dedicata al Maestro del wing chun, maestro di Bruce Lee. Presentato in anteprima al Far East Film Festival, che quest'anno ha trovato una formula vincente con un programma virtuale con 3000 accreditati da 45 Paesi, e nelle sale italiane grazie a Tucker Film nel 2021, il film racconta la parentesi americana del maestro cinese. I tre episodi precedenti avevano seguito il maestro mentre affrontava i nemici giapponesi in Cina in tempo di guerra e poi mentre abitava, insegnava e combatteva a Hong Kong dal 1949 in poi. Nel quarto capitolo della saga, la storia riprende nel 1964 a San Francisco, con Bruce Lee (Danny Chan) che divulga la sua filosofia del kung fu e partecipa ai principali tornei. Lee, ex allievo di Ip, invita il suo vecchio maestro ad andare a trovarlo in America. A Hong Kong il figlio adolescente, che ha perso la madre ed è in conflitto con il padre, è ingestibile e così Ip prende in considerazione di mandarlo a studiare negli Stati Uniti. E, come ci si può aspettare da un film della serie di Ip Man, il viaggio americano si rivela un'esperienza impegnativa con grandi combattimenti e molte sfide. In attesa di vederlo nei panni del Comandante Tung, nel live action Mulan, la cui uscita è stata ancora rinviata e attualmente è prevista per il 21 agosto negli Stati Uniti, abbiamo raggiunto Donnie Yen a Hong Kong.

Dopo dodici anni si conclude l'avventura di Ip Man. Quali sensazioni?

"Sono davvero grato di aver fatto parte di questo viaggio. Una serie di film di solito non ha più di due sequel perché tende a scendere di livello a partire dal terzo film, quindi sono immensamente orgoglioso del franchise di Ip Man perché è riuscito a mantenere qualità e popolarità. Prima dei film pochi conoscevano Ip Man, ma la nostra saga ora ha trasformato il maestro di Wing Chun in un nome familiare a livello globale. In questi anni, abbiamo sviluppato una forte relazione con il personaggio e gli abbiamo dato una storia completa cercando di esplorare diversi aspetti della vita man mano che la saga si sviluppava".

Questi quattro film avevano la missione di far conoscere la figura del maestro Ip Man al mondo. Qual è la lezione più importante che ha lasciato?

"La virtù principale che emerge nei film di Ip Man è la modestia e definisce quali siano le buone arti marziali. Con la storia di Ip Man e la sua filosofia, impariamo che le arti marziali non significano tanto azioni o la vittoria di un combattimento, ciò che più conta è capire l'umanità e la vulnerabilità delle persone. Questo è lo spirito dietro la cultura cinese del Kung Fu".

Come è stata la sua esperienza sul set di "Rogue One"? È vero che è stato lei a proporre al regista di far diventare cieco il monaco Chirrut Imwe?

"Come Chirrut sia diventato cieco è il frutto della collaborazione tra me e Gareth (Edwards, ndr). Durante la preparazione del film stavamo parlando di diverse possibilità e mi ha chiesto cosa ne pensavo, gli ho detto: 'Voglio che questo personaggio non sia così stereotipato. Ho interpretato questo tipo di personaggio, quello di un abile guerriero, migliaia di volte. Voglio che sia radicato nella realtà, che sia umano, anche vulnerabile. Non sarebbe interessante renderlo cieco?' L'idea gli è piaciuta, la Disney ha adorato questa versione e Chirrut ha finito per essere cieco".

Nella sua carriera ha fatto più di 70 film, qual è la sua prossima sfida?

"Vorrei che tutti i film che farò per tutta la mia carriera possano essere di stimolo. Ip Man 4 potrà anche essere il mio canto del cigno, ma la mia passione per le arti marziali non finirà mai".

Sappiamo del suo impegno durante la pandemia per raccogliere fondi per la ricerca. Come ha vissuto questo periodo di quarantena?

"Quando siamo tornati dagli Stati Uniti dopo la promozione di Mulan con la mia famiglia siamo stati in quarantena per 14 giorni. Ci siamo chiusi in casa a guardare film, cucinare. È stata una grande opportunità per trascorrere del tempo prezioso con mia moglie e i miei figli, cosa che non mi succedeva da tanto".

·        Duffy.

Duffy: «Io rapita, tenuta prigioniera e violentata». Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Paolo Virtuani. Nel 2008 il suo album d’esordio vinse il Grammy, con il singolo Mercy arrivò al primo posto delle classifiche britanniche e di altri undici Paesi (in Italia al n° 3) e al terzo posto nelle charts mondiali. Dal 2011 è praticamente sparita dalle scene con sole alcune rare apparizioni. Ora, sul suo profilo Instagram, la cantante gallese Duffy racconta la sua drammatica storia: «Sono stata rapita, tenuta prigioniera per alcuni giorni e violentata. Non riesco a cantare questa storia». Duffy, nome d’arte di Amy Ann Duffy, 35 anni, era considerata insieme ad Amy Winehouse e Adele la star del soul bianco. Nel febbraio 2011, all’apice della carriera dopo essere stata la protagonista di un film e la pubblicazione del suo secondo album, annunciò di voler prendere «una pausa di riflessione». Da allora la si è vista solo nel settembre 2013 a New York a una serata in onore di Edith Piaf e in un ruolo (e nella colonna sonora) di un altro film del 2015. Duffy dice che in questi anni ha cercato di recuperare dal trauma subito. «Sono stata rapita, tenuta prigioniera e violentata», racconta senza però fornire altri particolari. «Ora mi sento meglio e chiedo ai miei fan di sostenermi». Ulteriori dettagli li renderà noti in una intervista che sarà pubblicata a breve. «Mi chiederete perché non ho scelto di usare la mia voce per raccontare il mio dolore. Ma non volevo mostrare al mondo la tristezza nei miei occhi. Mi domandavo: “Come posso cantare con il cuore se questo è spezzato? Pian piano ho curato le mie ferite dell’anima”».

Da "fanpage.it" il 26 febbraio 2020. La cantante Duffy, vincitrice di un Grammy, è stata violentata, drogata e tenuta prigioniera per alcuni giorni. Per questo motivo ha deciso di abbandonare la ribalta pubblica per anni, come ha scritto in un post su Instagram, spiegando ai fan cosa era successo e spiegando di aver bisogno di riprendersi da quella esperienza dalla quale, spiega, "sono sopravvissuta". La cantante, che raggiunse la popolarità mondiale grazie al singolo "Mercy" nel 2008, seguito dal successo enorme dell'album d'esordio "Rockferry" che fu l'album più venduto in Gran Bretagna quell'anno davanti ai Take That e ai Kings of Leon, passando 42 settimane nella Top 10 della classifcia degli album inglesi e vendendo quasi oltre un milione e mezzo di copie. "Non potete immaginare le volte che ho pensato di scrivere questa cosa. Il modo in cui avrei voluto scriverlo, il modo in cui mi sarei sentita successivamente – si legge nel post su Instagram della cantante gallese -. Beh, non sono completamente sicura del perché questo sia il momento giusto e cos'è che mi fa sentire libera ed emozionata nel parlarne. Non riesco a esprimerlo" ha cominciato. "In molti si sono chiesti cosa mi sia successo, dove sono scomparsa e perché. Un giornalista mi contattò, ha trovato il modo per trovarmi e gli ho raccontato tutto l'estate scorsa. È stato carino e sembrò così bello parlarne".

Perché Duffy non ha voluto parlarne. A quel punto Duffy ha parlato di quello che ha vissuto: "La verità è – e vi prego, credetemi, sto bene e salva, adesso -, sono stata violentata, drogata e tenuta prigioniera per alcuni giorni. Ovviamente sono sopravvissuta. Il recupero ha richiesto tempo e non c'è un modo più leggero per dirlo. Posso dirvi, però, che negli ultimi dieci anni, dopo le migliaia di giorni in cui mi sono impegnata a cercare la luce per sentire ancora la luce nel mio cuore, finalmente il sole è tornato a splendere". La cantante ha poi spiegato il perché non ne ha parlato prima: "Vi chiederete come mai non abbia usato la mia voce per esprimere il mio panico. Non volevo mostrare al mondo la tristezza nei miei occhi, mi sono chiesta come posso cantare dal cuore se è distrutto? E pian piano si è ricomposto. Nei prossimi giorni vi posterò l'intervista, se avete domande da fare risponderò, se posso. Ho un amore speciale e una gratitudine sincera per la vostra gentilezza nel corso degli anni. Siete stati degli amici e vi ringrazio per questo". Alla fine del post la cantante ha chiesto anche rispetto per la sua famiglia: "Per favore, questo è stato un gesto difficile da fare, per me,  e non voglio intrusioni nella mia famiglia, aiutatemi a farne un'esperienza positiva".

·        Ed Sheeran.

Alessio Lana per corriere.it il 28 luglio 2020. Una «personalità molto dipendente», una carriera partita troppo velocemente, un tour mondiale stressante hanno spinto Ed Sheeran all’abuso. All’inizio del suo successo non esagerava solo col cibo e l’alcool ma anche con la cocaina. Parlando a un convegno online sull’ansia e sul benessere, la star ha raccontato anche i noti attacchi di panico di cui soffriva in passato e di odiare il modo in cui si è preso cura di se stesso mentre diventava famoso.

Tour e abuso di sostanze. Il momento più difficile della sua vita ha riguardato il periodo 2014-15. Era il tempo in cui il suo nome era sulla bocca di tutti, conquistava prime pagine e durante quel tour mondiale folle si accalcavano per vederlo. Su quel successo sfavillante però c’era sempre un’ombra. Sheeran ha confessato che beveva tutta la notte sul pullman tra una tappa e l’altra per poi crollare nel sonno e riemergere per salire sul palco. «Volevo rimanere sveglio e bere tutta la notte e poi dormire sul pullman — ha spiegato — Facevo lo spettacolo, bevevo di nuovo sul pullman e non ho visto la luce del sole forse per quattro mesi». Una vita difficile soprattutto per chi si presenta al mondo con un’aria gentile, genuina, fragile forse ma non oscura. A un certo punto, dice Sheeran, ha iniziato «a diventare triste». Perché non c’era solo l’alcool tra le sue dipendenze ma anche «lo zucchero, le cose dolci, il cibo spazzatura, la cocaina».

La rinascita. Ma dal fondo si riemerge e nel suo caso è stata salvifica sua moglie, Cherry, che lo ha aiutato a cambiare vita. «Lei si allena molto, quindi ho iniziato a correre con lei. Mangia in modo abbastanza sano, quindi ho iniziato a mangiare in modo abbastanza sano. Non beve tanto quindi ho cominciato a non bere», ha spiegato aggiungendo che la sua attuale pausa dalla musica si deve al fatto che ha iniziato a dipingere. «Puoi percepire quando il pubblico comincia a pensare: “Ne abbiamo avuto abbastanza ora”», ha detto dell’accoglienza del suo ultimo album, No. 6 Collaborations Project: «Una delle cose importanti nel settore — ha concluso — è sapere quando non solo concederti una pausa, ma anche concedere una pausa al pubblico». E adesso è arrivato il suo momento di premere il tasto Stop.

Da "blitzquotidiano.it" il 9 ottobre 2020. Stuart Camp, manager di Ed Sheeran, ha bollato la principessa Beatrice come “una fo*tuta idiota” per aver ferito la superstar su una guancia con una spada cerimoniale. Secondo quanto riportato dal Sun, nel 2016 durante una festa al Royal Lodge di Windsor, la principessa Beatrice avrebbe ferito Ed Sheeran mentre fingeva di nominare “cavaliere” il cantante James Blunt. La nipote della regina Elisabetta, nell’agitare la spada, ha provocato un taglio sul volto del malcapitato Sheeran che ha rischiato danni permanenti. A distanza di 4 anni, il manager per la prima volta ha commentato l’episodio, criticando la 32enne principessa. Al Daily Telegraph ha detto: “Non sto mentendo, qualcuno è un fottuto idiota”. “Ha pensato: “Toglierò una spada dal muro” ma a quel punto è evidente che stai solo cercando guai”. Sembra che la principessa Beatrice abbia fatto oscillare la spada cerimoniale sopra la spalla senza rendersi conto che Ed era in piedi, proprio dietro di lei. Una fonte ha detto all’epoca: “Poteva essere colpito all’occhio”. Su alcune foto si vede chiaramente la ferita sul viso, proprio sotto l’occhio.

"Fottuto idiota": poi Beatrice ferisce Ed Sheeran con una spada. A anni di distanza dai fatti il manager del cantante inglese ha ammesso le responsabilità della principessa. Il "gioco" al termine di una festa privata costò a Sheeran diversi punti di sutura. Novella Toloni, Giovedì 08/10/2020 su Il Giornale. Fu la principessa Beatrice a sfregiare con una spada d'epoca il volto di Ed Sheeran durante una festa privata a Londra. La verità è emersa. All'epoca la vicenda fece clamore ma non troppo. I fatti vennero "insabbiati" grazie al cantante James Blunt, che per aiutare la principessa Beatrice, dichiarò che Ed Sheeran era un mitomane e che si era ferito da solo al termine di una serata alcolica. Da allora il mistero aleggia su quella folle notte di festa alla Royal Lodge e, oggi, a cinque anni di distanza a rivelare di chi fu davvero la colpa dell'incidente è il manager del cantante britannico. Tutta colpa della figlia del principe Andrea. A vuotare il sacco è stato Stuart Camp, il manager di Ed Sheeran, che ha rilasciato dichiarazioni sprezzanti sul conto della principessa Beatrice durante un'intervista al tabloid britannico Telegraph. Era il 2016, Ed Sheeran e James Blunt erano stati invitati da Beatrice di York a una festa privata alla Royal Lodge. Durante la serata, dopo qualche bicchiere di troppo, il cantante di "Beautiful People" aveva rivelato di aver un desiderio nascosto: essere nominato "Sir". La principessa Beatrice - fresca di nozze - avrebbe assecondato il gioco del cantante, prendendo una spada appesa al muro e simulando l'investitura reale. Nel farlo, però, Beatrice aveva sbagliato mira, sfregiando il volto di Sheeran che dovette ricorrere alle cure mediche e alcuni punti di sutura. Giorni dopo l'accaduto il cantante inglese non si fece problemi a dare la colpa alla nipote della regina Elisabetta. Ma la reale venne salvata da James Blunt, che scagionò la principessa sostenendo che l'amico si era inventato tutto perché ubriaco. Cinque anni dopo il manager di Ed Sheeran ha fatto luce sulla vicenda e ha puntato il dito contro Beatrice di York, parlando con il Telegraph: "Sono diventato piuttosto protettivo su questo. Perché non l'abbiamo mai commentato pubblicamente. Ma alcune persone ci dissero: “Oh, dovreste mentire e dire che non era lei e dire che era qualcun altro'. Ho detto: 'Beh, non stiamo dicendo niente a nessuno. Non sto mentendo, solo perché qualcuno è un fottuto idiota e ha pensato, mi ubriacherò e toglierò una spada dal muro. Stai solo cercando guai”". Un racconto che non lascia dubbi e che assume toni ancora più "accesi" sapendo che, dal quel giorno, i rapporti tra la reale e Ed Sheeran si sono raffreddati: "Non abbiamo più avuto sue notizie da allora". Niente scusa, insomma.

·        Edoardo ed Eugenio Bennato.

Bennato, ecco l'ultimo ribelle "Siamo finiti ma ce la faremo". L'album "Non c'è" raccoglie inediti e vecchi capolavori: "L'ho pensato come se fosse il quotidiano di domani". Paolo Giordano, Venerdì 20/11/2020 su Il Giornale. Se ci pensate, è proprio così: Edoardo Bennato è rimasto l'ultimo rompiscatole del rock italiano, l'ultimo mostro sacro che dopo oltre sessant'anni di carriera abbia ancora voglia di andare controcorrente, di mettersi in gioco e fuorigioco, di prendersi magari fischi e pernacchie ma di dire comunque quello che pensa. Mica poco, specialmente se sei nato nel 1946 e nel 1980 hai riempito San Siro ben prima di tutti gli altri artisti italiani. Il ribelle Edoardo Bennato lo fa anche nel nuovo disco che si intitola Non c'è e, già dalla copertina, sembra la prima pagina di un quotidiano immaginario: «Nel guardare i titoli e i testi scritti sul foglio ho immaginato la prima pagina di un quotidiano dei giorni nostri, dove gli strilli in prima pagina esaltano e sottolineano argomenti e tematiche popolari di sempre, ma in particolare di questi ultimi tempi: Salviamo il salvabile, Bravi ragazzi, La realtà non può essere questa, Dotti, medici e sapienti, Non farti cadere le braccia, L'isola che non c'è». Come si vede, non tutti i titoli sono nuovi. «Tornare con un disco di soli brani inediti sarebbe stato ovvio, così ho riarrangiato, risuonato e ricantato alcune mie canzoni del passato», ha spiegato ieri durante una video conferenza nella quale ha suonato e cantato alla sua maniera, mescolando voce, chitarra e armonica. Ma non solo: ha anche fatto il guitto, ha improvvisato, si è divertito a imitare a denti stretti il sempre più chiacchierato De Luca. «Come si permette questo cantautore da strapazzo di giudicare me, il governatore che vi salverà?», ha sibilato usando il tono del governatore della Campania e definendolo poi «così grottesco che Totò sarebbe solo una sua spalla, un'ottima spalla». Idem con il sindaco di Napoli anche lui imitato nella parte in cui si difende dalle accuse di De Luca. Dopotutto Bennato è sempre stato una voce fuori dal coro e questa sua candida spigolosità lo ha talvolta penalizzato: «Qui ho riassunto tutto il mio pensiero: siamo sull'orlo del baratro però ci salveremo». Le nuove canzoni sono il combinato disposto della sua estrazione musicale, sempre più blues, e di un assiduo sguardo sull'attualità, come nel brano Il mistero della pubblica istruzione: «E chi è che ci trova la soluzione del mistero della pubblica istruzione?». Oppure nel riferimento impersonale ma assoluto agli slogan politici di Signore e signori: «Fidatevi di me perché io sto parlando nel vostro esclusivo interesse». Brano dopo brano, in Non c'è il filo conduttore non si interrompe mai, anche se gli inediti sono otto e, nella versione Lp, i pezzi già editi e spesso strafamosi sono addirittura quindici, come Bravi ragazzi, Cantautore, Mangiafuoco, Italiani, Non farti cadere le braccia. In Perché c'è anche Morgan che canta e suona il pianoforte, mentre nella nuova L'uomo nero si riconosce il feat di Clementino, che ha un flow riconoscibilissimo. Invece La realtà non può essere questa riunisce i due fratelli, Edoardo ed Eugenio, in una canzone scritta e pubblicata durante il lockdown ma che, nonostante siano trascorsi mesi e mesi, è ancora terribilmente attuale: «Ammesso che si richiesto a me di dare messaggi, il messaggio è questo: l'Isola che non c'è (uno dei capolavori che ha ricantato - ndr) è utopia. Ma non possiamo rassegnarci a ipotizzarla e basta, la situazione è tale che dobbiamo darci da fare. Risolutamente, dobbiamo trasformare i nostri sogni e le nostre utopie in realtà». Nel marasma di novità che intasano quotidianamente il mercato, questo Non c'è di Bennato ha suoni e toni completamente distanti dal «mainstream», dalle regole dei brani corti, radiofonici, legati a campionamenti o loop o autotune. È un album come si faceva una volta, con una buona dose di entusiasmo e altrettanta di convinzione. Ed è l'album dell'ultimo dei mohicani che utilizza ancora la canzone come arma di discussione, non il post oppure l'apparizione tv. Ad esempio, spiega, «Bravi ragazzi sembra scritto ieri sera, è la colonna sonora di quello che stiamo vivendo in questi giorni». E poi cita una strofa quasi profetica visto che è stata scritta nel 1974 per il disco I buoni e i cattivi: «Una di notte c'è il coprifuoco, e pensare che all'inizio sembrava quasi un gioco. Ora non c'è più tempo per pensare, tutti dentro, chiusi ad aspettare».

Insomma, Non c'è è il canto libero di un artista che si è liberato da tutti i vincoli e oggi può dire liberamente che «cercavo il successo 50 anni fa e anche adesso sono alla ricerca del successo». Più chiaro di così.

Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 19 novembre 2020. Sovversivo, provocatore, «una pietra rotolante». Così si definisce Edoardo Bennato e così ha sempre vissuto, lo dimostrano le sue «canzoni, canzonette, canzonacce» e una coerenza che in pochi possono vantare nel panorama musicale italiano. Ora torna con un disco, in uscita il 20 novembre, che si intitola Non c’è, come il primo singolo. A partire dalla copertina mira dritto al punto, senza retorica: la cover, pensata e disegnata dall’artista, rappresenta la prima pagina di un quotidiano ed è arricchita con gli strilli che rimandano ai titoli delle canzoni. Il tutto, nello stile bennatiano: pungente, audace, avanguardista. Un quotidiano di oggi, anzi di domani. Sono sette i brani inediti: Geniale, Il mistero della pubblica istruzione, L’uomo nero (con Clementino), La bella addormentata, Maskerate, Non c’è, Signore e signori, più La realtà non può essere questa con Eugenio Bennato. Quindici invece i brani di repertorio che ne hanno segnato la carriera artistica, fra i quali spicca Perché (feat. Morgan). Lo abbiamo incontrato per parlare dell’album, ma soprattutto per capire come mai uno come lui che ha riempito stadi ed è stato la colonna sonora dei mondiali ’90, sembra sparito da certi giri che contano. La sua risposta è lapidaria: «Da vero rocker pago per le mie idee»».

Come vivi questo nuovo momento di reclusione forzata in casa?

«Io sono sempre il solito pazzaglione, però in questo periodo sono responsabilizzato perché ho una figlia di 15 anni e la vedo costretta in casa a fare lezione senza andare a scuola. La tecnologia ci assiste, sembra di essere in un’aula, ma soffro a vederla imprigionata. Per fortuna anni fa ho pensato di iscriverla alla scuola americana a Bagnoli. È fondamentale in una società come la nostra. In Italia viviamo uno stato di soggezione totale nei confronti dei modelli artistici, culturali, etici e tecnologici del mondo anglo-americano. Infatti, non diciamo più fine settimana o di essere chiusi in casa, ma weekend e lockdown. Ormai fanno parte di questa congenita soggezione, che può essere anche molto pericolosa».

A cosa ti riferisci?

«Quando Humphrey Bogart parlava con questa sigaretta fra le labbra dava un modello etico comportamentale ai ragazzini degli anni ’50 e loro, per avere ascendente sulle coetanee, fumavano. Era moderno, lo diceva il cinema! Nel bene e nel male siamo sempre condizionati, ancora di più se certi modelli arrivano da fonti “attendibili”».

Il problema è che molti di quei ragazzini, sono oggi gli anziani che hanno accumulato gravi patologie polmonari e sono vittime del virus. Mentre stiamo parlando è tutto chiuso, ma le tabaccherie no.

«Continuano a vendere queste cose con scritto sulla confezione “nuoce gravemente alla salute, tua e degli altri”. Se in questo momento, un marziano arrivasse sulla terra, ci direbbe: «Di cosa cianciate? Morite di gravi patologie anche legate al fumo e il vostro ministro della sanità non impedisce neppure di fumare? Cosa vi aspettate dal futuro? Siete una massa di squilibrati, incapaci e inetti nelle mani del potere più assoluto»».

Veniamo al singolo Non c’è. Un ragazzo suona per strada davanti al Teatro dei Talent e non entra per cercare il successo. È quel che ti auguri per chi sta provando a intraprendere una carriera artistica?

«Se lo riascolto ora mi fa venire in mente i Verve, con Richard Ashcroft che canta Lucky Man. A parte questo, il videoclip è un cartone animato di Marco Pavone, con cui avevo già collaborato per La fantastica storia del pifferaio magico. Il protagonista, giovanissimo, suona per strada perché si ostina a non avere rapporti con i media, i discografici, i talent, i gatti e le volpi che gli offrono un contratto. Ha percepito che la musica gli basta, va bene così, scendere a compromessi è negativo. Io lo invidio questo ragazzo, perché a differenza sua, io da sempre inseguo il successo. Fin dalla prima ora in cui fui costretto a mettermi per strada per farmi notare».

La strada può ancora essere una gavetta utile un giovane rocker?

«Io sono stato costretto, visto che il direttore della Ricordi mi aveva licenziato. Il disco era nei negozi, ma la radio non ne volevano sapere di trasmettere le mie canzoni per cui mi mise alla porta. Fortunatamente, a Londra mi ero costruito il tamburino a pedali vedendo gli uomini-orchestra che si esibivano nelle metropolitane o davanti ai cinema. Così anch’io, con il mio supporto di rame, mi misi in strada a fare dei pezzi punk. Dalle origini il punk è un modo schizofrenico per reagire a una società che si proclama sensibile e che invece è tutto il contrario. Allora, negli anni ’70, potevo persino sfottere il presidente della Repubblica, la censura era meno oppressiva di oggi. Un giorno passarono dei giornalisti che lavoravano a quello che era considerato il vangelo per i giovani, Ciao 2001, e mi aiutarono ad andare a un festival importante che poi è stato l’inizio per avere la “patente” di musicista che mi aveva negato l’etichetta discografica».

A un giovane musicista oggi sconsiglieresti di entrare in quel Teatro dei Talent?

«Gli consiglierei di darsi da fare e verificare le proprie capacità nei pianobar, nei ristoranti, nei bar, ovunque possa mettersi alla prova. Per essere audace e osare devi prima di tutto avere fiducia in te stesso. Negli sport ci si confronta con l’avversario ed esiste sempre una competitività con gli altri dai quali ricavi dati inconfutabili. Per la musica non è così, visto che è tutto opinabile. Io come tanti altri siamo stati scoraggiati all’inizio, ma quando hai fiducia in te stesso vai avanti. Anche se, lo ammetto, invidio il ragazzino che rifiuta il successo, però nello stesso tempo quel giovane rinuncia a combattere e ad affrontare la realtà. Per cui non posso invitare un ragazzo a non lottare per raggiungere i suoi sogni».

È particolare anche la copertina, realizzata come la prima pagina di un giornale in cui gli strilli sono i titoli delle canzoni (un po’ come il John Lennon di Some Time in New York City, ndr).

«Ho sempre usato le copertine in modo creativo. C’è complementarietà fra il saltimbanco, il musicista e il cantautore e quindi inconsciamente utilizzo qualsiasi cosa per lanciare messaggi, non solo le canzoni, le canzonette o le canzonacce. La mia prima copertina aveva due carabinieri ammanettati fra loro, qui invece ho messo come strilli di giornale i titoli dei pezzi che sono emblematici.  Come Bravi ragazzi, che sembra scritta adesso, parlando di un coprifuoco all’una di notte. È la colonna sonora di quello che vediamo al telegiornale. Oppure come in Salviamo il salvabile, oppure Il mistero della pubblica istruzione, perché da sempre faccio ironia sui paradossi del presente che facciamo finta di non vedere».

Nell’album sono presenti solo tre collaborazioni, però ben precise. Come a rimarcare chi vuoi vicino nei momenti importanti. Prima di tutto tuo fratello Eugenio. Cosa rappresenta per te?

«Eugenio dalla prima ora è stato il mio consigliere, mi dà dritte su testi, sui termini, persino sulle virgole, dall’alto della sua laurea in fisica nucleare da 110 e lode e nonostante faccia anche lui il saltimbanco su un palco per eccesso di vanità, di presenzialismo e per avere un ascendente sulle ragazze. Nello stesso tempo fa poesia e il testo de La realtà non può essere questa l’ha scritto lui. È una ballata acustica chitarra e armonica in stile dylaniano. Un po’ come L’Isola che non c’è parla di speranza e tra le righe traspare una dose di fatalismo. Siccome è la ricerca di una utopia irrealizzabile sembra che ci si debba rassegnare, invece la realtà è necessario provare a cambiarla».

Morgan all’apparenza sembra lontano dalle tue sonorità e invece si sposa benissimo nel brano Perché.

«Ci conosciamo da tempo, abitiamo vicini a Milano, siamo amici da tanto. Lui ha delle schizofrenie importanti e nonostante sembri un pazzo scalmanato dice sempre cose sensate. Mi fido di lui, c’è complementarietà. Ci amiamo e ci aiutiamo. Lo stimo molto. È in grado in una nottata di scrivere le partiture per una orchestra sinfonica. In questo brano canta bene e non è stato scelto a caso. Lui mi dice: «Perché vuoi giocare con me che sono schizofrenico?». E io gli rispondo: «E perché tu vuoi dare indicazioni a me che sono uno sbandato?». Alla fine, siamo due psicopatici rock che si provocano facendo rotolare i loro traumi e si confessano a vicenda».

A Clementino, invece, ti unisce anche la provenienza geografica.

«Sì e con lui c’è una unione di pensiero totale, a partire dall’infezione che ci riguarda più da vicino: il razzismo. È un atteggiamento che viene dall’ignoranza, dall’apparente diversificazione delle razze, solo che gli umani hanno le stesse potenzialità fisiche e morali. Anzi, i nostri modelli culturali e musicali sono personaggi nerissimi come B. B. King, Bo Diddley, Ray Charles, Chuck Berry e quindi umani di prima categoria. Nello stesso modo Clementino si ispira ai rapper americani che sono quasi tutti di colore. Con lui la sintonia parte da questo, dalla favola dell’uomo nero, che se non fai il bravo ti porta via. Il razzismo è una vera infezione grave, più di quella polmonare».

Sei stato il primo cantautore italiano a riempire lo stadio di San Siro, hai venduto milioni di copie, hai una carriera eccezionale, eppure da qualche tempo non ti si vede più così presente. È una scelta o una costrizione?

«Bennato non c’è, hai ragione! Negli anni di San Siro pubblicai due album insieme per evitare che dopo Pinocchio con Burattino senza fili si aspettassero Peter Pan. Purtroppo, sono sempre sotto accusa, da quando ho ricevuto la “patente” da una fazione politica ben definita e quindi vengo aggredito sia da loro che dalle fazioni avverse e ne pago le conseguenze. Non voglio dire che sono un perseguitato, però la mia vita artistica è abbastanza complicata, dai rapporti con le radio a quelli con le istituzioni politiche che sovraintendono le arti. Mi sembra chiaro, comunque, che pago le conseguenze del mio essere iconoclasta, provocatore, sobillatore, eversivo. Pago per le mie idee, insomma, e forse è giusto così».

Ti senti di dare un consiglio ai giovani artisti che oggi raggiungono il successo molto velocemente, magari attraverso i social, ma che forse non sono strutturati per durare nel tempo?

«I gatti e le volpi, oltre ad adescarti e prometterti il successo, te lo tolgono quando diventi troppo importante. Loro ti aspettano all’angolo della strada e ti dicono: «Ma che vai a scuola a fare? Vuoi fare così fatica per niente? Vieni con noi che ti daremo il successo, ma prima firma il contratto». Questi giovani sono carne da macello, fanno leva sulle loro aspirazioni per trarne vantaggio. Con Luigi Tenco non potevano farlo e pagò tragicamente. Ricordo lo stesso Fabrizio De André, che era un amico e mi seguiva incuriosito che fossi svincolato dai canoni dell’industria del disco e intorno non avessi discografici, ma amici dai tempi del cortile. Ricordo come si divertiva a seguire il festival di Sanremo per sfottere tutti i partecipanti».

A Sanremo non ti vedremo più?

«No, perché è l’emblema della musica stantia e rancida, del carrozzone maleodorante degli impresari senza scrupoli. Negli anni ’70 era ridotto a poco più di una recita parrocchiale. Non rappresenta altro che la superficialità del baraccone dorato della musica leggera dove i personaggi vengono enfatizzati e poi distrutti. Ci si diverte sadicamente a creare gli eroi e poi a distruggerli. Io ti ho creato e io ti distruggo, questa è la logica dell’industria discografica, delle radio e dei media in questo momento».

Sei uomo del sud, di Napoli. Con quali occhi guardi la tua terra investita dall’emergenza Covid e a tutte le difficoltà che sta incontrando?

«Il disagio di questa pandemia evidenzia ed esaspera le tensioni tra nord e sud del paese, dell’Europa e del pianeta. Dicono di noi che siamo improvvisatori, mafiosi, scalmanati, navigatori, santi, guelfi e ghibellini, terroni e padani, ma fortunatamente italiani. Solo che l’Italia è geneticamente difettosa. Non è mai stata omogenea e mentre parliamo la differenza economica, sociale, tecnologica fra nord e sud aumenta per minuto per minuto. È emblematico che il governatore della Campania inveisca ferocemente contro il governo invitandolo a dimettersi. Accusa il ministro di essere un cialtrone e incapace. Il ministro gli risponde che lui è solo un personaggio comico alla Totò che serve a Crozza per le imitazioni. Insomma, siamo alle comiche finali. Mentre c’è un virus che fa morire migliaia di persone vulnerabili, è altrettanto vero che è l’Italia stessa ad essere vulnerabile e in pericolo».

Non hai fiducia nella classe politica che ci governa?

«L’Italia è ingovernabile! E chi si ostina a governarla da 150 anni si fa male. Ed è giusto che si faccia male, perché si assume l’incarico di governare una entità che da Bolzano a Reggio Calabria registra una differenza tale da impedire qualsiasi governabilità. È sotto i nostri occhi, però facciamo finta di non vedere e di non capire. Mussolini si è fatto male, De Mita pure, così Craxi, Andreotti, Berlusconi, Renzi e ora è giusto che si facciano male questi di adesso, che ancora si ostinano a governare. La musica leggera è rassicurante e conciliante, “finché la barca va lasciala andare”. Ma io faccio rock e il rock è proprio questo: evidenziare i paradossi. Io sono un sovversivo, un provocatore, una pietra rotolante, per questo mi meriterei la copertina di Rolling Stone!»

Insomma, sono le diseguaglianze il primo problema sul quale la politica dovrebbe concentrarsi?

«Per ogni problema etico, morale, religioso, razziale, funziona il parametro latitudinale. Nelle aree più civili del mondo, quando si delega a un ministro, a un assessore o a un sindaco non ci si limita a questo, ma lo si controlla. La comunità ha una maturità sociale più alta con milioni di fili invisibili ma solidi che la legano e i potenti si guardano bene dal non fare l’interesse della collettività. Più ci spostiamo a sud e meno questi fili sono resistenti. A Milano meno, a Roma meno, a Trapani ancora meno, a Il Cairo pochissimo e infine a Lagos non esistono perché il ministro è un despota. Lì puoi andare in hotel e credere di essere in un Paese civile, ci sono tutti i confort, solo che fuori vivono nel medioevo. È la schizofrenia fra aree privilegiate e terzo mondo, che rappresenta il vero grande problema del prossimo futuro».

È quello che temi dovrà affrontare tua figlia che oggi ha 15 anni?

«Mia figlia Gaia, essendo di madrelingua inglese, ha sentito anche le interviste a Donald Trump e mi diceva: «Com’è possibile che gli americani abbiano scelto un pagliaccio?». E poi mi parla del riscaldamento globale come di una questione prioritaria. Ma ancora prima, le rispondo io, viene lo squilibrio intollerabile fra le varie parti del pianeta. Ci sono città del sud del mondo che rappresentano delle polveriere e le devastazioni che accadono là arrivano fino a noi sotto forma di esodi collettivi. È questo che mi preoccupa, anche rispetto a mia figlia».

Anche i no sono molto rock. C’è un rifiuto che guardandoti indietro sei fiero di aver detto?

«Nel 1990 Franco De Lucia mi disse che Caterina Caselli e Gianna Nannini volevano che scrivessi io il testo per la sigla dei mondiali. Ma come, gli dissi, sei impazzito? Non me la perdoneranno mai, a me che sono un rivoluzionario! Ma alla fine cedetti e mi azzardai persino a farla in mondovisione… Non l’avessi mai fatto. Dopo qualche tempo, un giornalista di una certa lobby mi apostrofò: «Tu per noi eri un simbolo, ma quando ti abbiamo visto sgambettare sul campo dei mondiali ci è crollato un mito». E aveva lo stesso tono come se mi accusasse di avermi visto spacciare droga davanti alle scuole elementari».

Non la rifaresti Un’estate italiana?

«La rifarei perché c’è sempre il rovescio della medaglia. Dopo un anno, al Pistoia Blues dove c’era ospite B. B. King qualcuno entrò nei suoi camerini per presentarmi e lui rispose: «Chi è questo ragazzo?». Ci fu un attimo di gelo e poi gli dissero: «Quello che ha fatto la sigla dei mondiali» e fu rassicurato. Tanto che poi andammo insieme sul palco, quindi ammesso al suo cospetto grazie a quella canzone. Dopo qualche tempo, ci suonai assieme in Sardegna e in quell’occasione mi conferì la “laurea” del blues».

C’è ancora un sogno nel cassetto di Edoardo Bennato?

«Sto lavorando ai pezzi di un musical su Peter Pan, ho scritto prima i brani in inglese a modo mio. Però sono stato a Santa Fe, in Nuovo Messico e ho conosciuto Jono Manson, grande cantautore americano, e con lui ho tradotto tutti i brani. Non è stato difficile, perché nascono già in “finto” inglese. Li canterà lui, perché più credibile in quella lingua, ma il progetto è pronto a sbarcare negli Stati Uniti, manca solo un produttore, uno che si occupi di business. Ecco qual è il mio sogno proibito, di accompagnare un giorno mia figlia Gaia a vedere uno spettacolo a Broadway dove mettono in scena il mio musical in inglese su Peter Pan».

Candida Morvillo per il Corriere della Sera il 5 luglio 2020.

Edoardo Bennato, anche lei ha scritto un libro, perché?

«Perché ho una figlia adolescente, il futuro mi preoccupa e non posso più permettermi di essere un pazzaglione».

Cos' è un «pazzaglione»?

«Ho sempre riempito i testi di strepitii politico-esistenziali e denunce contro guerre, razzismo, stupidità, potere. Il primo brano, Salviamo il Salvabile , lo suonavo per strada, con un tamburello a pedale per suonare insieme anche chitarra e kazoo. Facevo punk perché a una comunità schizofrenica rispondevo con un linguaggio schizofrenico. Ho ironizzato su tutto, anche con violenza, come in Ma che bella città o in Uno buono , lo sfottò al presidente della Repubblica Leone. Ora canto ancora cose provocatorie, sto registrando un album per settembre, ma mi sento responsabile verso una bambina che si affaccia al mondo».

Gaia ha 15 anni e lei dice bambina?

«Eh... sì. Ne ho una sola. Le sto sempre dietro, anche se è molto assennata e brava a scuola».

L' ha avuta anche alla vigilia dei 60.

«Sono stato sempre tardivo, la prima ragazza l' ho avuta a 23 anni. Il titolo del libro uscito ora per Baldini+Castoldi è Girogirotondo e viene da una canzone scritta per Gaia: "Siamo tutti sulla stessa barca, tutti della stessa razza. Ma i cattivi sfortunatamente sempre ai posti di comando, ah ah". E Koso è opera sua a cinque anni».

Chi è Koso?

«Il pupazzetto di un extraterrestre che le chiesi di disegnare per poterle spiegare delle cose facendole dire al pupazzo. Avendolo fatto lei, Koso può provocarmi, mettermi di fronte alle mie contraddizioni e incolparmi di tutti i mali del mondo. Venendo da un pianeta più avanzato, ha già visto tutto, sa più cose».

La più importante?

«Che quello che sembra non è ciò che è vero. Esempio: dal mio balcone a Napoli, sto guardando Capri, il mare è piatto, non c' è vento, tutto sembra fermo, invece, la Terra sta ruotando su se stessa a 1.700 chilometri all' ora, intorno al Sole a 100mila chilometri e si muove con il sistema solare a un milione di chilometri all' ora. Questo assurdo dovrebbe essere il presupposto per capire la realtà. E leggendo il codice latitudinale della Terra si spiegano poveri e ricchi, buoni e cattivi».

Cos' è il Codex latitudinis, sottotitolo del libro?

«Racconta l' umanità delle nostre latitudini che ha progredito dovendo aguzzare l' ingegno per adattarsi a climi mutevoli o ostili. Per il libro, ho disegnato Cristoforo Colombo che sbarca nelle Americhe con spada e caravelle, quello è lo spartiacque fra era antica e moderna. In quella immagine c' è la famiglia umana adulta che incontra la famiglia bambina e non si riconoscono come appartenenti alla stessa specie. Il razzismo arriva lì. Nel corso di un lungo cammino gli esseri umani hanno visto cambiare colore della pelle, ma tutti hanno lo stesso potenziale, mi rifiuto di credere che a Oslo si nasca intelligenti e al Cairo no. Intanto, disegnavo Colombo e ovunque volevano buttarne giù la statua».

Nella sua infanzia, cosa sembrava vero e non lo era?

«Papà che tornava in bici, la sera, dall' Italsider di Bagnoli, e diceva a noi tre figli: ragazzi, tutto bene, tutto bene! Chi sa che passava in fabbrica: chiasso, fatica e la salute barattata con lo stipendio... E noi eravamo fortunati: i miei si amavano e mamma era eccezionale. Nei maschi, il rapporto con la madre è fondante: se è sano, hanno rispetto per le donne».

È sua madre quella della canzone Viva la mamma?

«Portava avanti tutto lei, come sanno fare le donne anche quando sembra che comandino gli uomini. Diceva "il risparmio è il miglior guadagno", non ci ha mai fatto sentire disagi. E s' inventò una scuola materna: sceglieva solo maestre che sapevano dare affetto ai bambini. Il codice latitudinale spiega anche il cammino di emancipazione femminile: alle latitudini più dure, come nel Nord Europa, le donne hanno ruoli di rilievo da tempo. So che un prof di Scienze Politiche o Sociologia può dire: Bennato, non è meglio che faccia canzonette?».

Suppongo che abbia la riposta pronta per il prof.

«Io sono laureato in Architettura e architetti e ingegneri costruiscono allo stesso modo in tutto il mondo perché hanno un parametro che è la legge di gravità. Le scienze umane non hanno un parametro acclarato, ma sarebbe un bene se lo trovassero. Il mio è un libro provocatorio il cui senso si rintraccia nella scena di me quindicenne che risolvo il problema del parcheggio del condominio».

E come lo risolse?

«In cortile, tutti parcheggiavano a caso. Per uscire, dovevi suonare venti campanelli per far spostare le macchine. Nessuno se n'occupava. Io dal quinto piano, osservavo. Un giorno, con la vernice bianca, dipingo le strisce per parcheggiare. Creo un codice e, magicamente, tutti lo rispettano. Un adulto l' avrebbero contestato, un ragazzino no».

Questa è anche un' autobiografia?

«Ho dovuto spiegare come sono arrivato qui. A 13 anni, avevo già girato il mondo su una nave da crociera suonando coi miei fratelli. E ho sempre viaggiato, per capire al di là della retorica. Ho conosciuto Salvador Allende, Fidel Castro, e ho scritto Arrivano i buoni : "Arrivano finalmente e hanno già fatto un elenco dei cattivi da eliminar... Ah Ah».

Il primo disco fu un flop, come poté non arrendersi?

«Ero entrato nell' etichetta di Mogol e Battisti. Mogol mi indica Lucio e mi fa: "Lo vedi questo? Il primo pezzo l' ho buttato nel wc, il secondo pure, al terzo ho iniziato a lavorarci". Battisti mi diceva "ao', prima o poi, verrà anche er momento tuo". Ma il primo album vende zero: dicevano che ero sgraziato. Allora, mi misi a suonare fuori dalla Rai.

Renzo Arbore mi vede, mi segnala a un festival e l' intellighenzia mi fa simbolo dell' insoddisfazione giovanile».

Oggi, lei che padre è?

«Seguo le indicazioni di mamma: sono affettuoso. Ma Gaia ha preso il suo posto e mi dà consigli: sembra che io guidi lei, ma lei guida me».

"Io e Maradona, il senso delle notti magiche". ll cantautore napoletano: "Diego durante le prove a San Siro mi chiese di conoscere Gianna Nannini". Paolo Giordano, Lunedì 08/06/2020 su Il Giornale. Manco sembra vero ma oggi sono proprio trent'anni esatti dalle notti magiche, quelle che «inseguendo un goal» hanno segnato un'epoca (e un'epica). Insomma, trent'anni tondi tondi dell'inno dei Mondiali 1990. Si intitola Un'estate italiana, ma tutti lo ricordano per le notti magiche entrate nel nostro dizionario di immagini festose. Fu eseguito per la prima volta (in playback) proprio l'8 giugno del 1990 da Gianna Nannini ed Edoardo Bennato a San Siro giusto in tempo per la partita inaugurale che l'Argentina perse con il Camerun grazie a una mazzata di Omam-Biyik, crudele come quella del coreano Pak Doo-ik agli azzurri dei mondiali nel 1966. Ma Un'estate italiana è un brano che va oltre il semplice (si fa per dire) risvolto musicale: rappresenta la fine degli anni Ottanta, l'inizio di un'altra era, di un'altra politica, di un altro calcio. «Quando Caterina Caselli e Gianna Nannini mi chiesero di scrivere il testo, io ero incerto ma hanno insistito molto», ricorda Bennato che poi spiegherà il perché dell'esitazione. La musica originale di Un'estate italiana, scritta da Giorgio Moroder, era accompagnata da un testo inglese e quindi bisognava riscriverlo per farlo diventare l'inno dei mondiali italiani e trasformarlo nel brano più venduto, trasmesso, ascoltato dell'anno. Per capirci, alzi la mano chi non l'ha canticchiata almeno una volta. E tutto esplose sostanzialmente proprio l'8 giugno, trent'anni oggi. «Nel pomeriggio, durante le prove allo stadio, dall'altra parte del campo vidi arrivare Diego Armando Maradona che mi disse subito: Dai, Edoardo, mi presenti Gianna Nannini?. C'è una nostra foto tutti e tre insieme», racconta Bennato che con quel brano ha sempre avuto un rapporto controverso. In ogni caso, nel giorno in cui iniziavano i mondiali, la canzone aveva già vinto il proprio personalissimo campionato, visto che era praticamente il tormentone dell'estate.

Però, caro Edoardo Bennato, come siete arrivati lì?

«Un giorno un mio amico d'infanzia, uno di quelli che chiamo amici del cortile e che era più o meno il mio manager, venne da me e mi disse: Senti, sai che Caselli e Nannini vorrebbero che tu facessi la sigla dei Mondiali?. E io risposi a bruciapelo: Franco, ma sei pazzo?».

Invece era così.

«Io pensavo che a me, a noi, non fosse concessa una cosa del genere, l'ufficialità, la sigla dei Mondiali di calcio. Però loro insistevano e mi ritrovai a San Siro in mondovisione».

Mica male. Per di più nello stesso giorno in cui giocava Maradona, eroe di Napoli.

«Diego si riteneva un prescelto da Dio e quindi pensava di essere sempre in debito con gli altri per la fortuna che aveva avuto. Era nato in un ghetto di Buenos Aires ed era diventato un idolo mondiale. Però Napoli, che è la città più bella del mondo, è anche piena di insidie. Maradona per certi versi aveva delle vulnerabilità e le patì proprio qui. Gli altri calciatori a Udine o a Torino possono uscire a farsi due passi sotto i portici. Maradona non poteva. È un buono per natura, molto istintivo, capisce subito se può fidarsi di te. Di Gianni Minà si fida, ad esempio. Di Blatter no...».

Anche lui fu uno dei protagonisti di quella Estate italiana.

«In realtà io avevo la sensazione di aver fatto qualcosa di troppo audace per me e per ciò che ero».

Si spieghi meglio.

«Circa un anno dopo, durante un'intervista, un giornalista mi disse: Senti Edo, te lo devo dire: tu per noi eri un punto di riferimento, ma quando ti abbiamo visto sgambettare sul palco dei Mondiali di calcio con la Nannini, ci è crollato un mito. Insomma, mi colpevolizzò come peraltro temevo».

Ma perché?

«Perché io arrivo dal mio cortile cosmopolita di Napoli nel viale Campi Flegrei a Bagnoli. Quando ho avuto la patente per questo mestiere dopo il famoso festival a Civitanova Marche, ho radunato i miei amici del cortile e non ho voluto manager, road manager e cose del genere».

Un ribelle per natura.

«Diciamo che ho sempre avuto problemi con il mondo classico della musica leggera e con la cosiddetta intellighenzia, ossia con quell'entità spocchiosa, supponente, a volte anche arrogante degli opinion leader che condizionano le mandrie, pardon le masse».

Non a caso Bennato fu licenziato dalla Ricordi dopo il primo disco del 1973.

«Il direttore disse che avevano messo il disco nei negozi ma la mia voce era sgradevole o qualcosa del genere».

Però poi si pentì.

«Nel luglio del 1980 ho fatto 15 stadi di seguito, non solo San Siro. Abbiamo suonato anche a Torino, Udine, Napoli eccetera. Perciò Un'estate italiana risultava un'anomalia nella mia storia. Però c'è anche il rovescio della medaglia».

Ossia?

«Nel 1991 o 1992, non ricordo con precisione, ero in cartellone al Pistoia Blues Festival e c'era anche B.B.King. Quando mi presentarono chiese: Chi è questo qui?. Qualcuno rispose: È quello che ha fatto la sigla dei Mondiali. Allora si rassicurò e suonammo insieme. Lo abbiamo fatto anche l'anno successivo in un Festival in Sardegna. Lui alla chitarra e io all'armonica. Alla fine mi disse: Man, you can play the blues, puoi suonare il blues».

Ecco il rovescio della medaglia.

«Per molti miei fan, la sigla dei Mondiali fu un capo d'accusa. Ma alla fine mi fece anche guadagnare la laurea in blues».

Edoardo ed Eugenio Bennato cantano insieme: "Un brano sul day after che stiamo vivendo". I due fratelli hanno composto «La realtà non può essere questa», i cui proventi vanno in beneficenza. La canzone è nata «a distanza» e anche il video li mostra nelle rispettive abitazioni. «Io ho scritto la musica - dice Edoardo - mentre Eugenio ha trovato parole geniali». Paolo Giordano, Sabato 18/04/2020 su Il Giornale. Edoardo Bennato con gli occhiali a specchio, la chitarra e l’armonica. Suo fratello Eugenio davanti a una libreria. Insieme hanno composto «La realtà non può essere questa», una canzone che fotografa il momento pazzesco e doloroso che stiamo vivendo. E lo fa alla loro maniera, la maniera cantautorale un po’ ruvida ma molto ispirata. «È una ballata classica che racconta questa sorta di “day after” e che vuole trasmettere le buone vibrazioni del futuro alle porte» spiega Edoardo che aggiunge: «All’inizio avevo un’altra idea, poi Eugenio, con la sua genialità ha scritto un testo che rappresenta proprio la realtà di adesso. Si dice che non può essere questa la realtà vera, quella che si percepisce da e sul web». Infatti le parole dicono che «la realtà è tutta in questa stanza, nella rete che annulla ogni distanza, la realtà è fuori dal balcone, nelle rete che diventa una prigione». Edoardo ed Eugenio Bennato sono fratelli artisticamente diversi e distanti. Uno più votato al rock e al blues. L’altro legato alla canzone d’autore e alla ricerca nella tradizione. E solo ogni tanto hanno collaborato insieme per qualche brano e per alcune rare esibizioni dal vivo. Stavolta lo hanno fatto quasi all’improvviso, scrivendo e componendo all’unisono, mossi da quel bisogno di comunicare che, specialmente oggi, accende gli artisti che si ritrovano senza contatto con il pubblico. «Seppur lontani, non abbiamo avuto difficoltà nel comporre questo brano perché la creatività non conosce ostacoli. È una canzone nata in poco tempo, è stata immediata». E anche il videoclip che accompagna il brano è nato a distanza. Le loro case, a Posillipo, sono divise soltanto da una collina e le immagini mostrano gli interni. Edoardo è rock, non a caso è stato il primo italiano a riempire uno stafio con le proprie canzoni. Eugenio è più cantautorale e, nel video, ricorda quasi Giorgio Gaber per movenze e postura. Insieme, i due fratelli hanno dimostrato che la musica risponde sempre «presente» quando c’è bisogno di aiutare la società come in questo momento di pandemia. I proventi del brano andranno per intero all’Azienda Ospedaliera dei Colli (Monaldi - Cotugno - C.T.O) di Napoli. Nonostante siano artisti di lungo corso (Edoardo, classe 1946, ha esordito a metà degli anni Sessanta; Eugenio, 1948, ha fondato la Nuova Compagnia di Canto Popolare nel 1969), hanno conservato l’entusiasmo sincero e quasi candido dell’esordiente che si mette al servizio della collettività. Una lezione per i più giovani magari un po’ meno spontanei.

Alessandro Ferrucci per il “Fatto quotidiano” il 29 aprile 2020. I dubbi e le domande gli assillano sempre la mente, e al contrario di quanto cantava ironicamente nel 1980 ("Io di risposte non ne ho. Io faccio solo rock' n' roll"), Edoardo Bennato è pieno di risposte, non di certezze, ma di esperienze on the road, di parametri maturati sul campo, sulla pelle; di sintesi e incontri, e i suoi occhi hanno convogliato nella mente lezioni di vita "già da quando a 12 anni sono partito con i miei due fratelli per il Sudamerica". Da allora ha girato il mondo, conosciuto personaggi e protagonisti di inni e ideologie come Salvador Allende e Fidel Castro; suonato e bevuto con Fabrizo De André, condiviso emozioni con Maradona, sfatato il tabù dei concerti negli stadi e come sostengono alcuni suoi colleghi (da Vasco a Jovanotti e Alex Britti), ha incarnato per primo il ruolo della rockstar. Venerdì sarà tra i protagonisti del concerto del Primo Maggio e ha appena inciso un brano (bellissimo) insieme a suo fratello Eugenio, La realtà non può essere questa; per loro la "Rete che diventa una prigione. La realtà è tutta l' illusione", cantano.

Drastico.

«Noi giochiamo con le parole, e dobbiamo sollecitare la poesia, non siamo ai trattati di sociologia; (ci pensa) la verità è che siamo anche avvantaggiati: partire a dodici anni per il Sudamerica è stata una grande fortuna».

Nata, come?

«Suonavamo nei circoli cittadini, e lì ci vide un celebre armatore che ci regalò un viaggio in America: a 12 anni mi si è spalancata la realtà, aperti gli orizzonti; mi ritrovai pure ospite alla televisione venezuelana; vidi il mondo con i miei occhi, un mondo non filtrato dai libri, dai giornali o dalla televisione».

E..

«È cambiata ogni prospettiva; grazie alla musica sono stato in Cile nel 1971, 1972 e 1973, ho rappresentato l' Italia al Festival di Vina del Mar, ho conosciuto Salvador Allende, una persona degna di assoluto rispetto, e lì ho visto la situazione politica peggiorare».

Com' era Allende?

«Uno serio, attento, preparato, dotato di umanità e schiacciato nelle beghe politiche internazionali di allora. Mi colpì soprattutto la sua umiltà».

Allende ha segnato generazioni.

«Come pure Fidel Castro, conosciuto grazie a un viaggio a Cuba con Gianni Minà: ho suonato per lui, poi sono tornato un' altra decina di volte».

Ha viaggiato molto.

«È fondamentale, mi fa sentire e mi rende libero di vedere e capire, perché da sempre rifuggo le lotte tra Guelfi e Ghibellini, voglio restare al di sopra delle parti e ironizzare su tutto, compreso me stesso: Cantautore è un brano dedicato a me, al mio ruolo presunto, quello che gli altri mi hanno affibbiato».

Qual è il suo?

«Di provocare, di creare poesie e buone vibrazioni; anche in questo momento surreale».

Prima lezione imparata nel viaggio a 12 anni.

«Siamo partiti da Napoli in nave, poi tappa a Genova, Nizza, Barcellona, Stretto di Gibilterra, Canarie e infine l' America; al ritorno la stiva era piena di emigranti ammassati, persone di Guadalupa o Martinica che sbarcavano a Nizza per fermarsi in Francia o raggiungere l' Inghilterra; l' immagine di quella stiva mi torna utile anche oggi».

Jovanotti, Vasco, Britti, Finardi, Pelù e altri la considerano un maestro.

«Sono contento, ma preferisco sempre il ruolo di alunno».

Chi è stato il suo maestro?

«Woody Guthrie, uno che da giovane lavorava e cantava canzoni di protesta nei campi di cotone del sud degli Stati Uniti; però rifuggo dalla retorica, dal buonismo e dai luoghi comuni e nell' ultimo album, Pronti a salpare, parlo della necessità di noi privilegiati di capire che il benessere futuro non potrà prescindere dalla soluzione dei problemi del Terzo mondo».

Qui l' accuseranno di buonismo.

«No, ribalto il discorso: è utilitarismo. E non mi faccio imbrigliare da certi stereotipi».

Chi e quante volte hanno provato a imbrigliarla?

«Da subito, già dalla prima ora sono stato costretto a mostrarmi un pazzaglione: dopo aver pubblicato Non farti cadere le braccia, il direttore della Ricordi mi disse: "Hai una voce sgraziata e sgradevole, per questo i responsabili della Rai hanno deciso di non trasmettere i tuoi brani, quindi abbi pazienza e togliti dai piedi. Continua con l' università"».

E lei?

«Giocai l' ultima carta: in Inghilterra mi ero costruito un tamburello a pedale, e un marchingegno per suonare l' armonica insieme alla chitarra in stile Bob Dylan; così scrissi delle canzoni punk, Salviamo il salvabile, Ma che bella città o Uno buono e mi misi a cantare in mezzo alla strada, davanti alla Rai: arrivarono i giornalisti e mi mandarono subito al festival di Civitanova Marche; (ride) Uno buono era uno sfottò dedicato all' allora presidente Leone, poi c' era un altro pezzo per il Papa (pausa)».

A cosa pensa?

«Che allora la censura era meno forte di oggi; oggi non potrei affrontare brani del genere».

Lei a un talent?

«Mi avrebbero cacciato subito; comunque hanno sempre cercato di piegare il rock ai desideri dei potenti, ma il rock è libero anche rispetto alla musica leggera».

Quanto le è costata questa correttezza?

«Chi vuol criticare lo fa a prescindere; nel 1973 ho partecipato ad alcune manifestazioni di Lotta Continua, o di Avanguardia, eppure mi arrivavano comunque le accuse da sinistra.

In quegli anni le proteste toccavano il palco.

«Nel 1978 esistevano gli autoriduttori: queste persone si presentavano ai concerti, e se non gli permettevi di entrare gratis, spaccavano tutto; in quel periodo dovevamo difenderci e fortunatamente ero coperto dagli amici del cortile».

Cioè?

«Avevo annusato l' aria e non mi circondavo da addetti ai lavori, da manager o discografici; avevo gli amici del cortile di Napoli, quasi tutti figli di operai e impiegati dell' Italsider di Bagnoli: un cortile cosmopolita, con famiglie di Piombino, delle Marche, del Veneto, e in quel contesto non accumulavamo frustrazioni tra Nord e Sud, ma vivevamo in una situazione smaliziata, senza atteggiamenti campanilistici».

Insomma...

«Andavo in giro con loro: il ragazzo del piano di sotto, Aldo Foglia, da manager, mio fratello Eugenio come consigliere, l' altro fratello Giorgio era il tecnico del suono, Franco De Lucia della scala G il road manager».

Team su misura.

«Imponevamo il costo dei biglietti a 1.000 lire quando c' era chi ne pretendeva 10.000; tutto questo piaceva molto a Fabrizio De André: l' ho sempre amato e stimato, anche lui non andava d' accordo con il mondo della musica e in Sardegna siamo stati parecchi giorni insieme».

L' immagine che ha dentro di De André.

«Fabrizio lo ricordo seduto con nella mano sinistra un bicchiere di whisky e nella destra la sigaretta; poi ogni tanto posava il whisky e si accendeva un' altra sigaretta. E andava avanti così; era fortissimo, e si divertiva a stare con la nostra banda».

Giocavate a pallone?

«(Scoppia a ridere) In questi giorni mi sto esercitando sul balcone con un pallone un po' sgonfio: così tengo allenate le gambe, sono pur sempre un frontman».

19 luglio 1980: lei ha riempito San Siro.

«In quell' anno abbiamo suonato in 15 stadi, un giorno sì e uno no Ha aperto un fronte. In effetti il primo concerto è del 1978 al San Paolo di Napoli, un live arrivato dopo uno stop di parecchi anni, a causa degli incidenti del 1971 al Vigorelli di Milano».

Comunque lei ha rilanciato i live.

«Ed ero preoccupato solo dei problemi tecnici, non mi convinceva la potenza del suono, tanto da dover minacciare i miei amici del cortile: o migliorate, o niente San Siro; alla fine chiamarono David Zard (celeberrimo organizzatore) che ci prestò l' attrezzatura adatta».

Pappalardo la ricorda alla fine dei Sessanta negli studi della "Numero Uno" di Battisti e Mogol.

«Lucio spesso mi riportava a casa con il suo Duetto (spider Alfa Romeo) color rosso, e quando sconsolato gli manifestavo le mie preoccupazioni, spesso mi ripeteva: "Aoh, nun te preoccupa', arriverà il tuo momento". E a differenza della vulgata comune, era simpatico, con lui si stava bene».

Cos' è per lei Napoli?

«Un accumulatore costante di energia e creatività; mi sento cittadino del mondo, ma soprattutto napoletano».

È amico di Maradona.

«Sempre conosciuto grazie a Gianni (Minà) che è un giornalista integro moralmente, affidabile. E Diego è animalesco, istintivo, capisce subito se il suo interlocutore è serio, e non si fida quasi di nessuno; poi è un uomo vulnerabile ma ha sempre mantenuto un sentimento forte nei confronti dei più deboli, dei diseredati: una volta al ristorante, prima di andare via, pretese di salutare i lavoratori della cucina, e a tutti loro consegnò delle banconote in mano. Una cifra assurda».

Lei e Diego parlavate la stessa lingua.

«Sì, aveva solo il problema della dipendenza dalla droga, che per fortuna non mi ha mai toccato».

Mai?

«Non fumo neanche le sigarette e non per moralismo».

Neanche uno spinello?

«Purtroppo no, e offro pubblica ammenda: a 15 anni ho provato una sigaretta, non mi piaceva e un tizio mi spiegò: "Non ti preoccupare, ti ci abitui"; pensai: "Sto in un mondo di scemi, mi devo abituare a qualcosa di sgradevole?"».

Negli anni Settanta le droghe erano comuni.

«Io giocavo a pallone; sono i luoghi comuni a pretendere e prescrivere l' uso di additivi per chi suona rock».

I suoi additivi?

«Sono il calcio, lo sport e la femminilità. Sulla femminilità sono vulnerabile».

Cosa la seduce in una donna?

«Il cervello, cosa trasmettono gli occhi».

E qui è stato diplomatico. Oltre?

«Vita stretta e fianchi larghi».

Torniamo a Maradona.

«Diego a Napoli era talmente osannato da non poter uscire ed è normale diventare schiavi di certe realtà; la stessa situazione è capitata a Elvis Presley, prigioniero del suo mito».

Le sue canzoni e quelle di Battisti sono da generazione protagoniste dei falò.

«Ci sono anche i miei amici De Gregori, Zucchero, Britti e Jovanotti; (ci pensa) ecco, Lorenzo non è un moralista però neanche lui fuma, anzi si sveglia prima di me, e in quanto a sregolatezza è fuori dagli schemi soliti del rock».

Chi è dentro?

«Be', Vasco; una volta eravamo a Rimini, a un certo punto mi domanda: "Come fai a giocare a pallone, a correre tanto, a mantenere questo ritmo". E io: "Guagliò, è così", ma non sapevo cosa aggiungere; dopo poco scendiamo dalla macchina e vedo una bottiglia di Jack Daniels nella portiera».

Perfetto.

«Ma a lui cosa vuoi dire? È talmente simpatico».

Alcol?

«Qualcosa con gli amici; ma preferisco bere la mia centrifuga di melograno (e descrive la ricetta): almeno tre al giorno».

Alla faccia della colite.

«Sono drogato di agrumi».

Si sente un sopravvissuto?

«Tutti lo siamo; ma oggi avverto solo responsabilità verso mia figlia, mentre quando sono stato cacciato dalla Ricordi ero paradossalmente più leggero nell' affrontare la battaglia».

In questi anni, umanamente chi l' ha colpita?

«Bob Dylan: l' ho incontrato più volte e lui è veramente il rock controcorrente e contro se stesso».

Perché?

«Quando vai contro tutti, alla fine non sostieni più i tuoi interessi, hai chiunque contro e lui è da sempre oggetto di critiche; per questo ha maturato un atteggiamento diffidente sia nei confronti delle masse che verso gli addetti ai lavori».

Dylan dal vivo è impegnativo.

«Adesso sì; per lui è come una forma di vendetta verso le persone: non concede nulla e quando sale sul palco lo fa con l' atteggiamento del "oggi decido io, non voi" (sospira). Lui è un punto di riferimento».

Chi altro lo è?

«Potrei ascoltare John Lee Hooker 24 ore al giorno e senza stancarmi».

E di italiani?

«A parte gli amici che ho citato? Nel mio cuore c' è Luigi Tenco: ha scritto capolavori come Lontano lontano e Io sono uno. Dovrebbe essere un riferimento per tutti noi, stesso giudizio lo do rispetto a Fabrizio De André».

De André spesso viene accusato di plagio.

«Ognuno ha i suoi capi d' accusa da parte dei giornalisti».

Lei di cosa viene tacciato?

«Di essere un qualunquista; di essere uno che non fa mai capire da che parte sta».

È scaramantico?

«Non so se è scaramanzia, ma parecchi anni fa ho fatto un voto alla Madonna dell' Arco, un santuario napoletano: ci vado in pellegrinaggio ogni anno; ah, poi giro con un cornetto rosso e in tasca ho due monetine da dieci lire, come cantavo in Campi Flegrei "venti lire soltanto"; (ci pensa ancora) ne ho un' altra: salgo sul palco solo dal lato sinistro».

A Sanremo non è mai andato.

«Il Festival è il circo rutilante della musica leggera, un incontro di impresari e manager dove la musica viene commercializzata; l'unica volta che ho calcato le assi di quel teatro è stato da ospite, e non è un caso se ho cantato Ciao amore ciao di Tenco».

Chi è lei?

«Un pazzo squilibrato».

(Canta Bennato in "Sono solo canzonette": "E nei sogni di bambino la chitarra era una spada. E chi non ci credeva era un pirata; e la voglia di cantare, e la voglia di volare forse mi è venuta proprio allora; forse è stata una pazzia però è l' unica maniera di dire sempre quello che mi va").

·        Elena Sofia Ricci.

Elena Sofia Ricci: "A 12 anni abusata dal nonno di una mia amica". Elena Sofia Ricci parla del suo percorso in analisi, prima per comprendere il suo rapporto con gli uomini e poi per superare un abuso subito a 12 anni. Luana Rosato, Giovedì 16/04/2020 su Il Giornale. L’attrice Elena Sofia Ricci tornerà sul piccolo schermo con la fiction “Vivi e lascia vivere” in cui interpreta una donna dal carattere forte, ma nel suo passato si nasconde un dramma che l’ha costretta a rivolgersi ad un analista. “Per due anni l’analisi è stato un appuntamento regolare. Mi ha aiutata a capirmi, a indagare nella mia essenza di figlia, a sciogliere quei nodi che mi hanno poi permesso di essere mamma e di non riversare sulle figlie certe incompiutezze – ha raccontato al settimanale Oggi - . Mia madre e mio padre si erano separati quando io ero piccola e io sono cresciuta lontana da lui. L’ho ritrovato da grande”. L’assenza del padre ha inciso durante la crescita della Ricci e nei suoi rapporti con gli uomini. “Nel frattempo, avevo sempre scelto uomini sbagliati, sempre quelli che mi garantissero di essere mollata. Ah, in questo sono stata medaglia d’oro… - ha aggiunto, rivelando anche un aspetto della sua vita privata drammatico - . Ora ho cambiato analista, ci vado meno, ho scelto uno specialista che si occupa di ragazze violate. A 12 anni sono stata abusata dal nonno di una mia amica. Quando lo affronti, scopri che questo dramma appartiene a molte persone”. I dolori e i drammi che l’hanno segnata, però, sono superati e lasciati alle spalle. Ora Elena Sofia Ricci vive una vita serena insieme al marito, il compositore Stefano Mainetti. “In questi 19 anni abbiamo litigato, abbiamo affrontato momenti difficili, alti e bassi nel lavoro, lutti di persone care – ha spiegato - . Ma la cornice amorosa non è mai mancata, come la stima profondissima”. “E poi, Stefano è bello, figo, persona perbene, artista onesto. È un grande uomo, anche se sa essere criticone e rompiscatole. Il nostro progetto di famiglia non è mai venuto meno”, ha aggiunto confermando il forte sentimento che la lega al compagno. Prima di Mainetti, però, Elena Sofia Ricci ha avuto una lunga relazione con il regista e attore Pino Quartullo dal quale ha avuto la sua primogenita, Emma, che reciterà insieme a lei nella fiction “Vivi e lascia vivere” in onda dal 23 aprile prossimo su Rai 1. “Emma interpreta il mio personaggio da ragazza: pensarla in questo ruolo mi diverte e mi emoziona”, ha spiegato orgogliosa.

Da dilei.it il 3 febbraio 2020. Elena Sofia Ricci, una delle attrici più amate dal pubblico italiano, si è raccontata oggi a Verissimo. Come sempre, l’appuntamento con Silvia Toffanin riserva grandi emozioni e spunti di riflessione. La padrona di casa ha regalato al pubblico un momento di forte intensità con l’intervista all’attrice di Che Dio ci aiuti. La poliedrica attrice, sempre sulla cresta dell’onda, si è accomodata nel salotto della Toffanin e, dopo averla salutata con affetto, ha iniziato a parlare della sua infanzia spiegando di essere nata e cresciuta dentro, fuori e intorno all’arte: Costringevo i miei amichetti e cuginetti a vedere i miei spettacoli. Mia nonna Licia è stata la prima a capire che avevo un talento. Lei creò degli spazi per farmi esibire, nella sua casa a Firenze. Io poi continuai anche negli anni a venire: recitavo per i miei compagnetti, a scuola e al liceo mi cimentai in Jesus Christ Superstar. Dalla recitazione, il balzo è facile alla madre della Ricci: Elena Ricci Poretto, prima scenografa italiana, venuta a mancare nel 2018. Il loro è stato un rapporto segnato dalla durezza della donna, che era rigida e severa ma che è riuscita a trasferirle rigore e passione alla figlia. Due doti che mette tutt’ora nei suoi lavori e nei suoi impegni giornalieri. Un altro momento particolarmente intenso è quello in cui la Ricci ha parlato del suo rapporto con la fede, che è arrivata però molto dopo, grazie a un ruolo che ama: quello di Suor Angela in Che Dio Ci Aiuti. Nella realtà l’attrice ha incontrato davvero una suora – per altro di nome Angela – che le ha insegnato a credere ancora una volta, facendole provare cose che non aveva mai più provato: un legame con Dio, fortemente paterno. E proprio parlando di legame paterno, Silvia Toffanin incalza chiedendo alla Ricci che rapporto abbia con i suoi padri, quello biologico, Paolo Barucchieri che non ha mai frequentato ma ha ritrovato a 30 anni e quello putativo, il regista Pino Passalacqua. Ho riscoperto entrambi. Ho voluto tenerli vicini, ma ho anche imparato a lasciarli andare. Si deve sempre imparare a lasciare andare le persone, anche se a volte ci si incavola anche con i “piani superiori”. Ho detto a loro (e a mia madre) tutto ciò che avevo da dire, perdonandoli per il pasticcio che avevano combinato. La Ricci ha anche sottolineato l’importanza della psicoterapia per superare quanto le è successo, dall’infanzia tormentata all’abuso da parte di un amico di famiglia: La terapia è fondamentale, l’ho scoperta. Farla è come imparare un’altra lingua. Riguardo l’abuso, è fondamentale cercare di parlarne. Me ne sono vergognata a lungo, all’inizio lo sapeva solo Pino [Passalacqua, ndr] perché dovevo girare un film e avevo dei problemi. Ogni caso è diverso da un altro e bisogna ricordare che ci sono molte gamme di grigio. Parlando ancora dell’abuso, avvenuto quando aveva solo 12 anni, la Ricci ha rivelato che non è mai riuscita a superare completamente: È un nodo che non riesco a sciogliere e che non mi permette di vivere certe cose. Quando ci penso ringrazio mio marito Stefano, perché deve amarmi davvero tanto per starmi accanto. L’abuso sui minori è un omicidio del maschile e del femminile che portiamo dentro. Bisognerebbe che le pene fossero certe e che non ci fossero sconti. L’intervista, infine, si chiude con un piccolo riassunto degli impegni dell’attrice e con un momento di tenerezza verso i suoi figli. Per questo motivo, per l’emozione regalata al pubblico, la bella attrice viene invitata da una commossa Toffanin a tornare la settimana prossima: chissà dunque che non ci riservi ancora delle sorprese.

Dagospia il 5 febbraio 2020. Da “I Lunatici – Rai Radio2”. Elena Sofia Ricci è intervenuta ai microfoni di  Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. L'attrice ha raccontato alcune cose di se: "Io sono sempre stata su un palcoscenico. Vengo dalla danza e dalla musica. Ho iniziato a studiare danza a Firenze a 3 anni. Ho fatto danza classica e moderna per sedici anni. Poi ho suonato la chitarra classica. Non ho fatto altro che esibirmi. In realtà non son fare nient'altro. Sono nata su un palcoscenico". Sulla bellezza: "Non siamo ipocriti, la bellezza chiaramente aiuta.  Per essere una donna della mia età, me la cavo. Aiuta la bellezza ma ovviamente non basta. A un certo punto sfiorisce, se non hai lavorato sulla bellezza interiore, che è decisamente più importante, non fai strada. E poi non sembra, ma il lavoro sulla parte più profonda di te, traspare anche nella parte esteriore. Lavorare sulla propria anima con onestà e profondità produce effetti anche sul corpo. Io mi sono presa cura di tutto, curo il mio corpo, non fumo, faccio ginnastica, sono una salutista, ho cura del dono che mi è stato fatto dai miei genitori, ma mi sono occupata anche molto della mia anima". Sul momento che stanno attraversando le donne: "Tema complesso. La parità ancora non c'è. Non c'è sulla carta, sugli scranni del potere, nei ruoli importanti. Certamente le cose sono migliorate. Ma è dal punto di vista emotivo che ancora bisogna lavorare. Dal punto di vista razionale riusciamo a dire che dobbiamo essere alla pari, ma dal punto di vista emotivo non ne siamo capaci. Delle volte la donna ha comunque bisogno del maschio alfa". Sulla vittoria di Mahmood nello scorso festival di Sanremo: "Facevo parte della giuria di qualità del Festival. Siamo stati crocifissi per la vittoria di Mahmood, siamo stati usati come capro espiatorio. Noi avevamo dato dei voti a tutti i cantanti in maniera assolutamente libera, nessuno si era messo d'accordo su nulla, nessuno di noi otto poveri cristi sapeva cosa accadeva dietro alle quinte, non sapevamo quali fossero gli orientamenti delle altre giurie. Abbiamo votato tutti secondo coscienza, capendo qualcosa di musica. Io ho suonato e studiato chitarra classica per otto anni e mi sono sentita offendere e trattare da ignorante. Abbiamo votato secondo il nostro gusto,nessuno di noi immaginava mai che Mahmood sarebbe potuto arrivare tra i primi tre. Quando lo abbiamo visto sul podio ognuno di noi ha votato secondo il proprio gusto. Noi contavamo il venti percento, ci sono arrivati insulti e offese bruttissime. Non abbiamo ritenuto di dover fare nessun intervento, convinti che tanto la storia avrebbe decretato il vincitore. Zucchero e Vasco Rossi arrivarono ultimi. Mahmood ha sfiorato la vittoria all'Eurofestival, possibile che fossimo proprio così ignoranti? Evidentemente avevamo sentito qualche aspetto di novità. Detto questo, la Bertè è straordinaria e ha fatto la storia della musica italiana, se non arrivò sul podio non è stata certo colpa nostra. Noi non ci mettemmo d'accordo, abbiamo votato e basta. Solo dopo ci siamo accorti che tutti e otto avevamo votato Mahmood, ragazzo originale che ha portato una ventata di novità. Mia Martini e Renato Zero sono arrivati secondi con dei veri capolavori, nessuno dei due si è di dire nulla. Ma di che parliamo? Fu veramente una cosa esagerata. Comunque, viva Sanremo, un grande in bocca al lupo ad Amadeus".

·        Elena Sonzogni.

Dagospia il 31 maggio 2020. Comunicato Stampa. La pornostar Elena Sonzogni in arte Lena ha smesso di girare film ed incontrare i suoi ‘fans’ i primi giorni di marzo da quando il premier Giuseppe Conte ha dato il fischio di inizio al lockdown per ritirarsi a vita di campagna nella casa del padre aiutandolo nell’azienda agricola di famiglia a Castel Gabbiano, paesino agreste di 450 anime in provincia di Cremona. “In questi due mesi in cui non ho potuto girare filmini porno ed incontrare fans ho deciso di trasferirmi a casa di papà ed aiutarlo nella stalla e nei campi. Mio padre in questi mesi in cui non ho lavorato mi ha aiutato in tutte le mie spese vive  - racconta la trentaseienne castelgabbianese - sono una ragazza di campagna, sono nata qui e ho conservato la mia anima ruspante e sempliciotta; quando non lavoro non mi trucco, non mi apparecchio e non metto nemmeno lo smalto! - poi ci parla della sua astinenza sessuale - è stata molto dura i primi giorni, non sono mai stata senza maneggiare un pene per così tanto tempo, ero in crisi di astinenza, avevo un appetito sessuale da attacco di panico! Poi con il tempo la voglia di maschio è diminuita notevolmente, era controllabile almeno, masturbandomi spesso e aiutandomi con il mio dildo riuscivo a calmarmi da sola ! - la vulcanica accompagnatrice racconta della ripresa nel lavoro - ho ricominciato a fare i miei incontri privati dal 4 maggio, andando via da casa di mio padre e tornando nel mio bell’appartamento di Romano di Lombardia in provincia di Bergamo...gli uomini sono arrapatissimi, dopo mesi di digiuno sessuale mi stanno smontando...e che fatica riprendere a fare il sesso anale dopo due mesi, il buchetto era tornato stretto ed immacolato. Sono tornata praticamente vergine! - ed aggiunge - nei miei incontri privati non è cambiato assolutamente nulla, faccio tutto tassativamente coperto a parte l’orale, che tra l’altro è il mio cavallo di battaglia, ho ricevuto sempre applausi e richieste del bis per questa mia specialità. Sono la ragazza ninfomane, golosa e passionale di sempre...Ai miei uomini faccio fare il bidet con sapone igienizzante, faccio usare il gel alcolico per le mani e li disinfetto con le salviettine antibatteriche. - conclude le sue dichiarazioni con una stoccata al vetriolo allo zio, sindaco di Castel Gabbiano - A mio zio Giorgio Sonzogni, sindaco del mio paese natale che se mi incontra per strada gira la faccia dall’altra parte perché si vergogna di avere una nipote pornostar ed escort dico solo di vergognarsi lui per questo finto bigottismo; io non ho mai fatto del male a nessuno, ho solo donato piacere agli altri. Anzi, gli lancio una provocazione, caro zietto inseriscimi nel consiglio comunale come assessore al Sesso! E a tutti i miei fans segaioli anticipo che la loro bocchinara Lena sarà in tour tutta l’estate in tante città d’Italia per incontrarli e divertirci insieme”.

·        Elenoire Casalegno.

"Nessuno mi fa paura. Solo Raimondo Vianello è riuscito a domarmi". La conduttrice è (quasi) pronta per il primo romanzo. E in tv? "Cerco storie di vita". Lorenza Sebastiani, Martedì 18/08/2020 su Il Giornale. «Credo di non aver dato ancora tutto, in tv. Non ho ancora avuto l'occasione di esprimermi in pieno. Certo, non sono più di primo pelo, ma potrei sorprendervi». È una piacevole minaccia che ci incuriosisce, quella di Elenoire Casalegno, che sta lavorando al suo primo romanzo top secret in uscita il prossimo anno. «Non si tratta di una biografia, mi sembrerebbe pretenzioso. Però è una storia in cui racconto una parte di me». È diventata famosa da minorenne, in un'epoca in cui lo show business italiano era in quella piena opulenza tipica degli anni Novanta, «erano anni leggeri, spensierati, mica come oggi che serve una scatola di pastiglie di Maalox sempre sul comodino. Ma vedere il lato positivo di ogni situazione è un'attitudine che non riesco a togliermi di dosso».

Ha appena concluso la stagione di Vite da Copertina su Tv8. Cosa prova in merito all'arrivo di Rosanna Cancellieri, al posto suo e di Giovanni Ciacci?

«Una punta di amarezza è naturale, ma anche soddisfazione personale di aver raggiunto buoni ascolti, di aver centrato l'obiettivo preposto. La Cancellieri darà un'impronta completamente diversa al programma rispetto alla nostra. Del resto anche la formula del programma cambierà parecchio».

Ora cosa farà in tv?

«Ho progetti al vaglio. Mi hanno sempre affascinato le storie di vita, scavare nella profondità delle persone, soprattutto in un'epoca di superficialità».

Ha lavorato con pilastri importanti. Chi le ha lasciato il segno?

«Raimondo Vianello è stato unico, non esisterà mai un suo erede. Aveva un'ironia a tratti macabra, che non tutti riuscivano a digerire. Lui e la moglie Sandra erano due persone perbene, incontrarne così oggi è una rarità. Ricordo che a un certo punto non volevo più condurre Pressing con lui, per troppi impegni, non la prese benissimo. Ai casting bocciava tutte le mie possibili sostitute e disse se non lo fa Elenoire, non lo faccio più nemmeno io. Mi mise all'angolo e mi costrinse a dire di sì».

Altri ricordi?

«Un altro gigante è Pippo Baudo, un femminista della tv. Non mi ha mai trattato da valletta, né si è mai messo in competizione con le professioniste al suo fianco. I grandi uomini si riconoscono anche da questo».

Lei ha raggiunto la popolarità a 17 anni, cosa ricorda di quei tempi?

«Volevo fare il magistrato, ero ossessionata dal senso di giustizia. Poi è arrivato lo spettacolo. Non era il mio obiettivo, all'inizio lo prendevo come un gioco».

Un agnello in un branco di lupi, all'epoca.

«Mi sono sempre comportata da maschiaccio, avevo idee chiarissime anche da ragazzina e sapevo cosa fare per non trovarmi nei guai».

Molti dicono che lei è diventata famosa grazie alla sua storia da giovanissima con Vittorio Sgarbi.

«A quell'età molte donne subiscono il fascino dell'uomo più adulto. Lui poi era molto affascinante, per via della sua cultura. Siamo stati insieme tre mesi e non mi ha lasciato un segno indelebile, ma abbiamo riempito rotocalchi per anni, all'epoca il mondo del gossip era diverso. Mantengo ancora oggi un bel rapporto con Vittorio, l'ho sentito poco tempo fa per una consulenza su un quadro da acquistare».

Altri amori degni di nota?

«Una storia per me davvero significativa è stata quella con Ringo, con cui infatti ho fatto una figlia. Ho valori ferrei e sono molto contenta quando qualcuno mi dice che la mia Swami si sa comportare ed è educata. Siamo di generazioni vicine, ma sono stata una madre colonnello, severa, non amica».

Cos'ha capito dell'amore?

«È fondamentale non cercare mai di cambiare l'altro. Al momento continua la mia storia con Andrea, una persona che ha saputo prendermi per mano. Fa il commercialista e cucina da Dio. Sta diventando un problema per la mia linea...»

Curiosità: le hanno mai proposto di buttarsi in politica?

«Certo, qualche anno fa. Ho rifiutato perché se dovessi trovarmi a non condividere le idee del mio partito, su una determinata battaglia, non potrei mai portarle avanti. Mi avrebbero fatto fuori dopo un secondo».

·        Eleonora Abbagnato.

"Mia madre è malata" Eleonora Abbagnato lascia l'Opéra di Parigi. Redazione, Lunedì 27/01/2020, su Il Giornale. «Lascio l'Opéra di Parigi per stare vicino a mia mamma malata». Eleonora Abbagnato, ballerina di fama mondiale, ha annunciato la decisione di lasciarsi alle spalle l'esperienza di Parigi per stare accanto a sua madre, alla quale è stata diagnosticata la leucemia. Non si tratta di un addio alla danza, ma di una scelta non facile, anche se dettata dal cuore. «Ho altri progetti, smettere da un giorno all'altro è troppo violento», ha detto in un'intervista a Verissimo. «Quando hai un sogno, una mamma forte ti dà la voglia di metterci tutta te stessa - ha raccontato -. Io ho lasciato la mia famiglia a dieci anni e tutti mi dicevano che l'Opéra di Parigi era inarrivabile. La mamma mi sosteneva da lontano, sempre. Mi diceva di non mollare e che, se mi sentivo triste, dovevo tornare a Palermo. Ha tenuto la famiglia solida. Adesso ha questa malattia brutta». La Abbagnato, direttrice del Corpo di ballo del Teatro dell'Opera di Roma, racconta di non averla comunque mai lasciata sola. «Sono sempre stata vicina a lei, per telefono - ha spiegato la ballerina, oggi 42enne -. Non sono potuta andare da lei ma, ora che tornerò in Italia, spero di stare con lei. I ruoli cambiano. Penso che queste sono malattie che riusciamo a superare anche con la nostra testa. Mamma sta andando alla grande, sono contenta». «Lascerò l'Opéra, ma non lascerò la danza, anche se certamente non ballerò più gli stessi ruoli - ha aggiunto -. Mi mancherà Parigi. Lì i ballerini vanno in pensione a 42 anni, penso sia l'età giusta per lasciare spazio ai giovani». Si dedicherà al marito Federico Balzaretti, a Julia e Gabriel, i figli avuti con lui e alle due bimbe che il calciatore aveva già. «Non pensavo che avrei sposato un biondo calciatore - dice ancora -. Ma lui è un calciatore atipico. Ha due figlie che si è tenuto da solo e che vivono con noi. Non è facile perché non sono le mie, ma le amo come se lo fossero».

Simona Antonucci per ilmesssaggero.it  il 21 gennaio 2020. Accovacciata sul pavimento a sistemarsi le scarpe di raso rosa con i nastri attorno alle caviglie sembra una ragazzina uscita da un quadro di Degas. E non un’étoile che sta per restituire le chiavi del camerino. «A Parigi è così», spiega Eleonora Abbagnato, palermitana, 41 anni e un po’, «a 42 anni il teatro ti manda in pensione. In Italia, le fondazioni ti consentono di ballare fino a 47. Direi che 45 sarebbe una giusta via di mezzo. Anche se già a 38 anni devi cominciare a dire addio a molti ruoli. Al Lago dei Cigni e a quasi tutto il repertorio classico. Per altri, invece, come le coreografie della “Serata Jerome Robbins” che ballo qui al Teatro dell’Opera di Roma dal 30 gennaio o “La Dama delle Camelie” che porto a Varsavia a marzo, una donna matura è perfetta. Si cresce. Si cambia». La data per l’uscita dall’Opera di Parigi, dove entrò 28 anni fa (la prima italiana, «l’italienne e qualche volta la mafieuse») è stata fissata, dopo slittamenti e scioperi, al prossimo 18 maggio: «Ci saranno tutti, il corpo di ballo, gli amici, i colleghi. Farò i miei brani preferiti, “Rose Malade”, “Le Parc”... Sarà una festa. Sì. Una festa. Non voglio pensare altro. Non ha senso dare spazio alla tristezza. E poi, ho ancora tante di quelle cose da fare».

Un addio a Parigi e un arrivederci a presto ad altri palcoscenici?

«Per fortuna! A Roma stiamo provando la Serata Jerome Robbins. Io sarò in scena nel brano “In The Night”. In duo con Zachary Catazaro. E poi spazio ai miei ragazzi. Si tratta di un’altra tappa del percorso di avvicinamento ai coreografi contemporanei. Da quando sono responsabile del Ballo al Costanzi ho cominciato a rivedere la programmazione. Repertorio classico e titoli più recenti, anche per portare i ragazzi al livello dei teatri europei».

Poi la Dama delle Camelie a Varsavia. Uno dei suoi ruoli preferiti, Perché?

«Perché è cinema. John Neumeier, il coreografo, è un genio. In scena non sei una ballerina, diventi un’attrice».

A proposito di cinema, come vanno le riprese del film dedicato alla sua vita?

«Il regista, Irish Braschi, sta cercando una bambina con il mio carattere. Irrequieta. Determinata. La storia comincia a Palermo, io piccolissima, e si ferma con il mio ingresso all’Opéra di Parigi, a 14 anni. Raccontiamo il sogno. Alla Billy Elliot, senza i drammi familiari».

E il resto della storia farà parte di un sequel?

«Ma chissà. Un bel drammone tipo Cigno nero. Scherzo. Anche se nel mio ambiente devi sempre stare in guardia. Saperti difendere e saper attaccare. Sì, come nel calcio. Imparo da mio marito, Federico Balzaretti. Sotto i riflettori è così, più cresci, più resti solo».

Il nido sicuro?

«Casa, con lui e i nostri quattro figli».

Allora cominciamo anche noi a sfogliare i ricordi da bambina.

«A 11 anni sono partita. Scuola a Montecarlo. Sostenuta dalla mia famiglia, da mamma soprattutto. Ma è stato l’incontro con Roland Petit a trasformare un’avventura in favola. Mi scelse per il ruolo di Aurora nella Bella Addormentata. E diventai la mascotte della compagnia».

Che cosa vide Petit in lei?

«Non avevo paura di lui, anche perché non mi era chiaro chi fosse. Ero diretta e sveglia. Stavo già sulle punte. In un minuto imparavo la parte. Lui era severo. E geniale. Per lo spettacolo mi tinsero i capelli di nero. Dovevamo tutte assomigliare alla sua musa, Zizi Jeanmaire».

E l’incontro con Pina Bausch?

«Ero già a Parigi. Pina fece della audizioni senza tener conto del “grado”. Io ero una delle tante. Ma volle me per la sua “Sacre du Printemps”. Lavorare con lei era come stare in perenne seduta psicanalitica. Mia madre restava turbata quando mi vedeva ballare quel brano. Non mi riconosceva».

Ora che sta per lasciare Parigi,  ricorda il suo arrivo?

«Ricordo i sogni e la mia indipendenza. A 14 anni ero già autonoma, mi cucinavo, badavo a me stessa. E a casa sto cercando di far passare questa linea anche con i figli. Durante i week end mi trasferivo nella mia famiglia di accoglienza dove c’erano altri quattro bambini. Furono anni indimenticabili. Diventai un’étoile. Imparai a combattere la solitudine. Ma ora, stare da sola, non mi piace più». 

·        Eleonora Giorgi.

Dagospia il 2 giugno 2020. Da "I Lunatici Radio2". Eleonora Giorgi è intervenuta ai microfoni diRai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino.

L'attrice ha raccontato: "Amo molto la notte, è il mio mondo. Notti indimenticabili? Mi viene in mente una notte di San Lorenzo col mio secondo marito, Massimo Ciavarro. Separati da anni, eravamo tutti e due in Sardegna, vicino Cagliari. Improvvisamente ho molto desiderato di tornare con lui, ci siamo ritrovati in spiaggia a guardare le stelle. Come spesso accade, non è accaduto nulla di ciò che si sognava. Il sogno non è svanito da parte mia, ma non era contraccambiato. Delle volte l'altro nella nostra vita non sempre è tarato nello stesso momento. Un'altra notte indimenticabile di molti anni fa risale a quando avevo una guardia del corpo e un'alfetta e dal Veneto dovevo trasferirmi a Positano. In mezzo all'Appennino la mia guardia del corpo mi ha svegliato, io dormivo, disperato perché aveva messo il diesel al posto della benzina. Io ero sposata con Angelo Rizzoli, erano anni molto particolari, ci ritrovammo di notte a camminare nel buio. Lui si sentì molto in colpa".

Sull'approdo nel cinema: "Da bambina non volevo fare l'attrice, anche perché quando avevo nove o dieci anni le attrici erano tutte messe in posa, finte, artefatte, con questi bambini damerini. Poi fece irruzione Brigitte Bardot e cambiai idea, mi rivedevo un pochino in lei. Su di lei si è formato il mio immaginario di look. Nonostante lei non pensavo di fare l'attrice. E' stato un caso, il destino, che già si era annunciato a quattordici anni. Avevo quindici anni, ero andata a Fregene in vespa con il mio fidanzato che mi stava facendo delle foto. C'era Fellini che camminava sulla spiaggia insieme alla sua segretaria, ha rallentato, si è fermato a guardarci incuriosito, ci ha parlato e mi ha chiesto di raggiungerlo a Cinecittà. Ma io mi guardai bene dall'andare. Non so perché, avevo paura, avevo paura anche di Fellini. Poi, cercando di guadagnare un po' di soldi, iniziai a fare delle foto, dei piccoli tour a Milano. Le mie foto arrivarono sulla scrivania di un produttore che cercava per il suo film la sostituta di Ornella Muti, all'epoca già famosissima. Aveva scartato un sacco di attrici, appena vide le mie foto disse che ero perfetta. Noi comunque eravamo molto più fighe delle ragazze di oggi".

Su Borotalco: "E' l'apice della mia carriera, un film di cui vado fiera. Conoscevo Carlo come leggenda, a Roma molti già sapevano che era un genio, era famoso per le imitazioni che faceva di presidi e professori. Desideravo da tempo fare un film con lui, che ne è stato entusiasta. Stava girando Bianco Rosso e Verdone e con me si è lanciato nel film a unico episodio anche se riesce a impersonare due personaggi. Quel film è un capolavoro di Carlo, io ho un piccolo parziale merito, tocca dei tasti di una tale tenerezza che è struggente. Avevo vinto con Borotalco il Festival di Montreal, Cecchi Gori mi mandò una copia per fare una proiezione privata a Los Angeles, c'era anche Jack Nicholson, se l'è visto in lingua originale e ha riso ai punti giusti, capendo tutto. Fu un trionfo. Come finisce tra Nadia e Sergio? Loro riprendono a sognare perché la vita ordinaria di tutti i giorni non fa per loro, anche se magari è serena. Si prendono in giro, lo sanno, ma ricominciano a sognare. E magari faranno anche l'amore, chi lo sa... . Una volta, sempre a Los Angels con Jack Nicholson, a un certo punto in un supermercato entra un gruppo di italiani. Si voltano e fanno “noo Eleonora Giorgi”. Trattandomi come una star, davanti a lui. Facendomi fare un figurone. Jack Nicholson è un fico, io sono molto sensibile all'estetica, non amo la vecchiaia, Jack era di un fascino incredibile, grande conversatore. Ho passato serate surreali in cui chiacchieravo con lui. Se Jack ci ha mai provato con me? Non in quel periodo, ma dieci anni dopo sì, a Roma. Ho avuto una vita incredibile, molto ricca di esperienze. Forse non me la sono neanche meritata".

Ancora Eleonora Giorgi: "Mi hanno rimosso dal mio lavoro con il David in mano e un calcio nel sedere, con il quale mi hanno buttato nell'abisso. Solo perché ero la moglie di Angelo Rizzoli. Mi hanno trattato come se fossi stata la moglie di un gerarca fascista. Una vendetta così violenta è stata durissima. Angelo Rizzoli era un intellettuale, lo amavo profondamente, ma era molto difficile da mettere a fuoco. Era più che doppio. Me ne sono andata in campagna, ho scoperto l'agricoltura biologica".

Sul lockdown: "Io sono un po' ribelle, siccome sono una donna serissima, ligia, diligente che quando mi esponi una esigenza io ottempero, nel momento in cui scoppia una cosa del genere e tu mi spieghi, io obbedisco. Ma l'imposizione dall'alto, la guerra dei numeri, il controllo minuzioso, è stato per me molto pesante. Gli italiani si sono dimostrati di una tale maturità e serietà che non serviva tutta quella ferocia. Poi c'è un'altra cosa che a me attanaglia il cuore. Non ci poniamo fino in fondo il problema di tutti quelli che il godimento di stare a casa e non fare niente non se lo sono potuti permettere. Penso a tutte le persone che hanno perso il lavoro, nel turismo, nei bar o nei ristoranti che sono vuoti. Tutti quelli che non sono garantiti sono al primo posto ai miei occhi. Non è vero che siamo stati tutti sulla stessa barca. Abbiamo affrontati tutti la stessa tempesta, ma su barche differenti".

·        Eleonora Daniele.

Da leggo.it il 24 febbraio 2020. “È da un paio d’anni che cercavamo un bimbo e non era scontato che riuscissi a realizzare il mio desiderio visto che avevo superato i 40 anni”, Eleonora Daniele, al quinto mese di gravidanza racconta come è riuscita a rimanere incinta. Il trucco è stato quello di non farsi schiacciare dall’ansia: “Non mi sono mai lasciata assalire dall’ansia dell’età – ha raccontato in un’intervista a “Gente” -  Ci credevo, lo speravo, ma più il tempo passava più la vedevo difficile. Poi, però, proprio quando ero più serena, sono rimasta incinta naturalmente, senza l’ausilio di cure ormonali, che magari avrei anche preso in considerazione se non fosse accaduto”. All’inizio pensava di aspettare due gemelli: “Sono di cinque mesi e mezzo, ho preso una decina di chili, praticamente tutti nella pancia. Sin da subito è stata evidente, tanto che all’inizio pensavo di aspettare due gemelli. Avendone in famiglia, sarebbe potuto anche accadere. Solo dopo i primi esami, accurate indagini sul Dna e l’ecografia, ho fugato ogni dubbio. E’ una e si chiamerà Carlotta”. Lavorerà fino alla fine, nonostante la gravidanza: “Vorrei partorire naturalmente. Accadrà poco dopo la fine del mio programma, prevista per il 29 maggio”.

·        Elettra Lamborghini.

Da liberoquotidiano.it il 27 settembre 2020. Dopo settimane di stress, suspance, dolori renali e cadute, che lasciavano presagire un rinvio, ieri Elettra Lamborghini, 26 anni, e il dj olandere Nick de Wall, 33 anni, noto come Afrojack, hanno detto sì sul lago di Como. La data, il 26 settembre, non è stata scelta a caso: è, infatti, il giorno in cui è iniziata la loro storia d'amore coronata ieri con lo scambio degli anelli nella cornice di Villa Balbiano di Ossuccio, circondata da un parco che affaccia direttamente sul lago. L'organizzazione delle nozze è stata affidata ad Enzo Miccio, affermato wedding, affiancato per l'occasione da Vincenzo d'Ascanio, apprezzato floral designer. La cerimonia religiosa si è svolta in inglese, mentre agli invitati, circa un centinaio, è stato chiesto di sottoporsi al tampone per vivere con più tranquillità la giornata di festa. Testimoni della sposa le sorelle minori Flaminia e Lucrezia. Assente la Ginevra, con la quale Elettra pare abbia avuto degli screzi. Su Instagram ha scritto: «Vi auguro il meglio. Avrei voluto esserci anche io».

Elettra Lamborghini estrema: "Perché mia sorella Ginevra non era al matrimonio". Parole pesantissime, è finita in disgrazia. Libero Quotidiano il 29 settembre 2020. La grande assente alle chiacchieratissime nozze tra Elettra Lamborghini e Afrojack era la sorella della prima, Ginevra Lamborghini. Assenza pesantissima. Dovuta a cosa? Voci e indiscrezioni miravano sul cattivo rapporto che ci sarebbe tra le due sorelle (quattro in totale, le altre due, gemelle, erano ovviamente presenti). E queste voci, di fatto, vengono confermate da Elettra Lamborghini stessa in un'intervista a Chi, il settimanale di Alfonso Signorini, in edicola da mercoledì 30 settembre, un servizio con immagini esclusive sul grande giorno che si è consumato sabato 26 settembre. "Come mai al matrimonio non era presente mia sorella? Accanto a noi c'erano le persone del cuore, solo quelle che desideravamo", ha tagliato corto Elettra Lamborghini. Parole che non hanno bisogno di alcuna spiegazione. Sui social, comunque, Ginevra ha voluto augurare il meglio alla sorella e ad Afrojack.

Fabrizio Biasin per “Libero quotidiano” il 4 giugno 2020. Elettra Lamborghini non è fatta proprio come tutte le altre persone, come me e te, per dire. Noi non abbiamo il corpo tempestato di diamanti, lei sì. Noi non abbiamo il culo leopardato, lei sì. Soprattutto, noi non abbiamo il suo conto corrente. Tra le altre cose che distinguono "noi" da "lei" c' è la capacità di dire le cose per quello che sono, l' innato istinto a non fingere per piacere a tutti i costi. Prendete le sue ultime storie su Instagram: mentre in giro per il mondo vip e vippettini, eminenze varie e persone comuni si adoperano per postare la "foto in nero", ovvero pubblicizzano via social la loro solidarietà alla comunità afro per i fatti di Minneapolis, lei evita e spiega perché senza troppi giri di parole. Dice: «Non mi piace pubblicare quello che pubblicano le altre persone perché semplicemente è un "hype" (letteralmente "una montatura" ndr)». E poi: «Mi sta sul cazzo, loro non sanno quello che sta capitando, non sanno niente, lo fanno solo per tendenza». E ancora: «Anche la giornata dei gay... pubblicano l' arcobaleno e poi sono i primi che gli danno dei froci maledetti». Fino a: «Oggi è la giornata che bisogna mettere la foto tutta nera, poi sono i peggio razzisti. Io a queste cose non ci sto. Se foste tutti così buoni non sarebbe un mondo così di merda. Quindi fate anche meno gli ipocriti. Vogliono fare tutti le belle faccine quando invece sono le peggio me..e. Il cambiamento non è postare una foto». Bene, come avete potuto intuire Elettra è una del genere «parlo come mangio» ma, al netto di questa o quella parolaccia, ha tutta la nostra approvazione. Cioè, la forma sarà pure quella che è, ma la sostanza è decisamente sottoscrivibile (stesso discorso per Alec Baldwin, l'attore americano massacrato per aver definito il Blackout Tuesday «la giornata nazionale di qualunque cosa»). Per ovvi motivi è impossibile produrre una statistica di qualche genere, ma la sensazione è che, nella maggior parte dei casi, fatti come quello di Minneapolis siano visti dall' influencer di turno come un' occasione per «fare volume», beccarsi qualche chilo di cuoricini aggratis, aumentare il proprio consenso sfruttando il momento. E allora eccole lì le foto in nero pubblicate da chi il giorno prima ha mandato a quel paese i gilet arancioni e quello prima ancora ha fatto pubblicamente il tifo per infermieri e dottori. Oh, capiamoci, tutte scelte corrette, ma soprattutto molto "comode" («scrivo così, sto con la maggioranza, faccio bella figura, tutti felici»). Ecco, la Lamborghini non ci sta e amplia il discorso: «Voi siete gli stessi che se la prendevano quando sbarcavano le madri e i bambini, siete gli stessi che giudicano dal colore della pelle. Non sapete guardare al di là del vostro naso». E, niente, senza voler fare chissà quale analisi sociologica la cantante bolognese (sì, canta. E vende pure) fa intendere che i social siano un serbatoio di ipocrisia e, invece, andrebbero utilizzati senza prendersi troppo sul serio. Ecco, per dire, dopo il predicozzo agli pseudo-antirazzisti Elettra la butta sul cazzeggio e gioca con la sua Musica. (E il resto scompare), il brano presentato all' ultimo Festival: «Ho un' infezione ai reni che purtroppo mi torna spesso. Stanotte ho passato la nottata al cesso. Stando al cesso il dolore scompare, quindi... facendo due calcoli... cesso e il dolore scompare». Fattuale.

Da donnaglamour.it il 28 maggio 2020. L’ereditiera Elettra Lamborghini si è sfogata via social per alcune foto false che starebbero girando sul web e in cui lei sarebbe ritratta senza veli. La cantante ha messo in guardia i suoi fan affermando che scaricando tali immagini si riceverebbero invece dei virus, e ha anche affermato che per episodi simili alcune ragazze si sarebbero suicidate. “Vedere così poco rispetto per cose così serie mi fa schifo. State molto attenti perché su queste cose c’è poco da fare. Una volta che le foto sono in rete, nonostante le denunce, lì resteranno. Internet è un mare troppo profondo. State attente a certi maniaci”, ha scritto nelle sue stories. Senza nascondere il proprio disgusto per l’episodio di cui è stata vittima, Elettra Lamborghini si è sfogata via social con una lunga serie di stories in cui ha specificato che le foto in cui sarebbe ritratta in déshabillé sarebbero tutte false, e che molto spesso si tratterebbe di fotomontaggi realizzati ad arte attraverso le sue foto in bikini. Elettra Lamborghini L’ereditiera ha anche affermato che per episodi simili in passato alcune giovani donne si sarebbero suicidate, e ha intimato ai fan di non accettare simili contenuti da chi cerca di diffonderli su internet. Il matrimonio con Dj Afrojack Polemiche escluse si tratta di un periodo roseo per Elettra Lamborghini, che sta mettendo a punto i preparativi per le sue prossime nozze col fidanzato, Dj Afrojack (nome d’arte di Nick van de Wall). L’ereditiera ha rivelato via social di aver affidato parte dei preparativi al famoso wedding planner Enzo Miccio, con il quale è andata a visitare alcune delle lussuose location in cui potrebbe svolgersi il giorno del fatidico sì. A causa dell’emergenza Coronavirus ancora non è chiaro quale sarà la data dell’attesissimo matrimonio. Il lockdown fa ingrassare? Scarica QUI la dieta da seguire ai tempi del coronavirus.

Sanremo 2020, Elettra Lamborghini e lo schiaffo alle femministe col lato B: perché il suo è un trionfo. Paola Tommasi su Libero Quotidiano l'8 Febbraio 2020. E se fosse Elettra Lamborghini la vera paladina delle donne al Festival di Sanremo? Se badassimo ai testi delle canzoni piuttosto che ai pregiudizi, il suo messaggio è forte quanto quello di Rula Jebreal. Così come la sua storia. Poteva fare l' ereditiera, invece ha deciso di mettersi in gioco a Sanremo. Il suo twerking, che la Rai timorosa ha inquadrato solo per pochi secondi, è il più grande gesto di libertà che una donna potesse fare in mondovisione, al pari dei balletti di Jennifer Lopez e Shakira al Superbowl americano. Perché ci vuole coraggio anche a mostrare il sedere, tanto più se magari in famiglia avrebbero preferito che facessi la manager o l' avvocato, o comunque evitassi di esporti così tanto in pubblico. Elettra è un genio: non ha un fisico da modella ma, piuttosto che disperarsi per le forme abbondanti, ha fatto dei suoi chili di troppo un punto di forza e ha rilanciato un modo di ballare, il twerking appunto, che spopola in tutto il globo. Sui Social ha cinque milioni di seguaci e piace perché è spontanea: prima di salire sul palco dell' Ariston, mercoledì era agitatissima. Lo ha raccontato per tutto il giorno ai suoi fan, che la sera erano emozionati quanto lei mentre cantava, si immedesimavano e facevano il tifo su Twitter. Perché il Festival è anche questo: le citazioni online e il numero di visualizzazioni su Youtube del pezzo in gara. Elettra ha portato tantissimi clic a Sanremo. Perfino Fiorello, dopo l' esibizione, si è voluto accertare che si fosse tranquillizzata. Sembra così esuberante, in realtà è timida, ci tiene al Festival e al brano che presenta perché lo considera particolarmente "suo". In giornate così importanti ha anche il ciclo, sappiamo tutte cosa significa e lei non si vergogna a dirlo.

APPASSIONATA. Ha 25 anni, fa la provocatrice, ma non beve (lo dice nella canzone) e tra poco si sposa con il suo fidanzato, Afrojack, disc jockey di 33 anni nato nei Paesi Bassi. Li unisce la voglia di creare insieme una famiglia, fatto ormai raro purtroppo tra i giovani, che non si può non apprezzare, e la musica. Per Elettra è una passione: l' ha studiata, si aggiorna costantemente, ha sotto controllo il panorama internazionale e ne ha fatto la sua strada. Come ciascuna di noi in tutte le professioni.

NON CORRISPOSTA. La musica è la protagonista del suo pezzo, la musica che consola l' amore non corrisposto. "E anche se non mi hai detto mai "quanto sei bella" io non ho mai smesso di sorridere", recita una strofa: non è un messaggio di forza questo? Di chi resiste al dolore, di chi ce la fa anche quando gli uomini fanno soffrire. Ma se lo dice Rula Jebreal ha un significato, se a parlare è la Lamborghini non si commuove nessuno. Tanto che Amadeus nel presentarla non ha mancato di sottolineare che il successo in Italia, dopo aver sbancato in Spagna, è arrivato grazie a Guè Pequeno e Sfera Ebbasta. Già, perché l' idea che Elettra Lamborghini possa essersi fatta da sola proprio non l' ha sfiorato. Femministi soltanto a parole.

"Palla di lardo" scrive un hater ed Elettra Lamborghini gli risponde per le rime. A poche ore dal debutto al Festival di Sanremo, la popstar resta più social che mai e ben attenta a quel che scrivono di lei su Twitter. Così un pesante insulto di un utente non è rimasto impunito. Sandra Rondini, Martedì 04/02/2020 su Il Giornale. "Bella palla di lardo. Cafona peggio di una scrofa". Questo il terribile commento indirizzato su Twitter da un hater ad Elettra Lamborghini che stasera sarà in gara tra i big al Festival di Sanremo. Mentre la cantante si prepara facendo le ultime prove in una mattinata piena di ansia e aspettative in attesa di esibirsi sul palco dell’Ariston, trova sempre il modo di essere social e twitta più che può in modo da mantenere un filo diretto con i suoi tantissimi fan che non vedono l’ora di televotarla e sostenerla non solo per permetterle di vincere Sanremo, ma per vederla irrompere con tutta la sua energia sul palco dell’Eurovision a maggio dove, secondo molti, "potrebbe davvero spaccare" e regalare all'Italia quella vittoria che manca dal 1990, anno in cui a Zagabria vinse Toto Cutugno con "Insieme:1992". Da allora più niente, al punto che l'Italia tra gli addetti ai lavori è definita la "Leonardo DiCaprio dell'Eurovision: sempre candidata alla vittoria e sempre a bocca asciutta". Intanto, mentre sono tanti i follower che aspettano di assistere all’esibizione della sexy ereditiera dopo aver scoperto, dalle prime anticipazioni, che Elettra twerkerà davvero sul palco, altri utenti invece non fanno mistero di detestarla nel modo più assoluto ed arrivano ad attaccala pesantemente, con insulti beceri che vanno ben oltre il semplice body shaming. È accaduto questa mattina quando un utente, tale @Prozack86, ha etichettato come "palla di lardo", "scrofa" e "cafona" la cantante la cui giornata sui social non è iniziata benissimo per via di questi pesanti insulti. Ma la popstar 25enne non ha permesso che questo commento restasse in cima al Twitter di una delle giornate più importanti della sua vita, senza che lei rispondesse di persona. E non le ha certo mandate a dire, com’è, d’altronde, nel suo stile. La risposta di Elettra Lamborgini non si è fatta decisamente attendere ed è arrivata pochi minuti dopo che l’hater aveva postato il suo offensivo commento. "Sei proprio un deficiente – ha esordito in modo duro la cantante - Sicuramente il profilo fake è dovuto al fatto che hai il pisellino più piccolo di una mollica di pane". E ancora: "Questa cosa ti ha reso infelice e arrabbiato col mondo...mi dispiace...pisellino". Tanti i like e i retweet della risposta di Elettra che ha scaldato lo zoccolo duro dei suoi tanti fan che da una persona vivace, carica e sanguigna come lei non si aspettavano altro che una risposta ferma e decisa, "da vera Kween", come scrivono in tanti. "Io la adoro troppo, sono caduta dalla sedia leggendo la sua asfaltata" e: "Parliamo sempre di come Chiara Ferragni asfalta gli haters, ma vogliamo parlare anche di come li asfalta queen Elettra Lamborghini? Il buongiorno si vede dal mattino". E ancora, quanto al presunto fisico curvy della cantante, al centro dell'attacco dell'hater: "Altro che palla di lardo! La bellezza di Elettra Lamborghini è incredibile e tu sei solo uno fuori di testa". Ma c’è anche chi fa notare che non si risponde al body shaming col body shaming, ma usando termini più intelligenti rispetto a quelli scelti dall'interlocutore con cui ci si confronta. Qualche follower, infatti, scrive: "Scusate, state esaltando Elettra Lamborghini perché ha usato le dimensioni del pene come insulto e le ha poste in correlazione alle facoltà cognitive di uno che è semplicemente un cafone? Il body shaming non rende kween proprio di niente, ripigliamoci!". Ma è una nota isolata. I fan sono tutti con la Queen bolognese del reggaeton, attesa alla prova del nove del palco dell’Ariston stasera, serata inaugurale del 70esimo Festival della canzone italiana, dove sembra, grazie al suo imponente seguito social, sia una delle favorite per la vittoria.

Elettra Lamborghini, Sanremo e gli affari con i soci pugliesi di Chiara Ferragni. Pubblicato mercoledì, 05 febbraio 2020 su Corriere.it da Mario Gerevini. Il punto di partenza è elettralamborghini.com. Entriamo: è «Il sito web ufficiale di Elettra Lamborghini». Racconta di lei, dei suoi tour è una porta d’accesso per acquistare i suoi album, felpe, body, T-shirt ecc. Ma il sito, in realtà, non è di proprietà della nipote di Ferruccio Lamborghini, fondatore del mitico marchio di auto sportive (oggi dell’Audi-Vw). E non è nemmeno della sua nuova società.Elettra Miura, infatti, questo il nome completo, da meno di un anno ha incaricato il commercialista di dotarla di società personale, al di fuori delle attività del padre (Tonino Lamborghini) con cui collabora in un paio di aziende del gruppo. Così è nata l’anno scorso ad Argelato, in provincia di Bologna, poco prima del suo debutto su Rai 2 ad aprile come coach di The Voice of Italy, la «Deseos Ent». Ed è lì che la «showebgirl» incassa ora i diritti per le sue opere e attività artistiche. Il sito invece non è suo, come si diceva, ma della Mofra Shoes di Barletta. E chi acquista maglie, felpe, jeans, scarpe targate Elettra fa una compravendita con la Mofra che «è titolare – si legge nel contratto telematico – del sito web elettralamborghini.com tramite il quale svolge, tra l’altro, attività di commercio elettronico». La Mofra di Barletta è un noto produttore di scarpe (quasi 13 milioni di fatturato e 4 di utili nel 2018) per il quale la Lamborghini ha firmato una collezione. È controllata dai fratelli Giuseppe (47 anni) e Pasquale Morgese (50). Ecco il link d’affari con la Ferragni.I Morgese sono infatti i produttori della linea di scarpe Chiara Ferragni Shoes ma soprattutto sono soci al 45% dell’influencer (quote rilevate dall’ex fidanzato Riccardo Pozzoli) nella Tbs Crew, la società cui fa capo la gestione del blog The Blonde Salad. L’alleanza ha avuto momenti di tensione, ma tiene. E così a Barletta, nel tacco dello stivale, i fratelli pugliesi fanno business sia con Elettra Lamborghini che con Chiara Ferragni.

·        Elio Germano.

Elio Germano: dagli esordi a 8 anni col pandoro Bauli alla segretissima vita privata. Pubblicato sabato, 29 febbraio 2020 su Corriere.it da Francesca Angeleri. Elio Germano si è aggiudicato l’Orso d’Argento come Miglior Attore alla settantesima edizione della Berlinale 2020 interpretando il ruolo del grande pittore Ligabue nel film «Volevo nascondermi» di Giorgio Diritti. Un grande film che ha messo in luce, per l’ennesima volta, la sua indiscutibile e immensa capacità attoriale. E come arrivare meglio al traguardo dei 40 anni che stringendo in mano l’ennesima statuetta che testimonia quanto sei bravo? Germano è nato a Roma nel 1980 e i suoi genitori sono originari di Duronia in provincia di Campobasso. La sua prima interpretazione è stata nel 1988 per lo spot televisivo del pandoro Bauli, nel 1995 appare nella pubblicità del Kinder Bueno. Bisogna attendere i suoi 13 anni e il ruolo di «cotoletta» nella commedia di Castellano e Pipolo «Ci hai rotto papà» per la prima interpretazione. La recitazione entra nella sua vita presto, infatti, mentre frequenta il liceo scientifico, frequenta la scuola Teatro Azione e trova un importante maestro in Giancarlo Cobelli. Ad attenderlo, dietro l’angolo, un set dei fratelli Vanzina che gli affidano la parte del protagonista in «Il cielo in una stanza», pellicola fortunata che lo traghetta all’attenzione di cineasti della levatura di Ettore Scola che nel 2001 lo chiama a impersonare il figlio di Diego Abatantuono in «Concorrenza sleale».

Elio Germano: «La felicità è quando riusciamo a perderci negli altri». Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it da Enrico Caiano. Si presenta in felpa blu con cappuccio e la scritta Gold dorata sul petto, il ragazzo d’oro del cinema italiano Elio Germano. E non importa che sia un altro il metallo prezioso di cui l’hanno insignito quasi un mese fa a Berlino con l’Orso d’Argento, per l’interpretazione magistrale del pittore Antonio Ligabue in Volevo nascondermi di Giorgio Diritti. Tecnicamente Elio non è neppure un ragazzo, nonostante felpa (non salviniana) e motorino da film di Moccia con cui si muove per Roma: a settembre farà 40 anni, ha due figli nati da pochissimo, uno via l’altro, e una compagna rigorosamente non attrice. Di tutti e tre con puntiglioso orgoglio non vuole rivelare nulla a stampa o fan. E ci riesce benissimo. Diciamo allora che è un ragazzo ma antico: ai social preferisce i centri sociali, alla città il suo paese molisano di Duronia, oggi 400 anime, ai discorsi con i colleghi quelli coi vecchi della sua famiglia allargata emigrata a piedi dalla campagna alla Capitale e arrivata nel 1943 sotto le bombe americane che «cadevano come neve il 19 luglio a San Lorenzo», secondo i versi dell’amato De Gregori. Sceso dal motorino ti aggiorna subito sulla situazione dei bar romani ai tempi del coronavirus («Ho preso il caffè al bancone con tanto spazio attorno a me...»): quando parliamo Roma non è ancora sottoposta a misure restrittive (ndr. l’intervista è stata fatta prima dell’ultimo decreto che ha chiuso i locali pubblici anche nella Capitale). Poi durante l’intervista arriva la notizia che Zingaretti è positivo: «Zingaretti chi?», sbotta preoccupato. «Ah, Nicola, il politico! Pensavo Luca, che abbiamo preso l’aereo assieme... Sono fratelli ma si vedono pochissimo, sto tranquillo». Reazione un po’ egoista? Umana, da ragazzo. Poi si fa serio: «Ci dicono che il virus è arrivato all’uomo da un pipistrello ma non ci chiediamo cosa magari quel pipistrello si è mangiato di prodotto dall’uomo per diventare così: se fosse uno scarto nucleare?».

Germano, ma allora lei è una prova che il Molise esiste?

«No, io continuo a pubblicizzare la non esistenza del Molise. Lo faccio per salvarlo. Vorrei che esistesse per le persone che lo vivono bene, girandolo magari a piedi. A tutti gli altri che vogliono costruire stradoni, alberghi a picco sul mare vorrei annunciare che il Molise non esiste».

Il suo Molise Anni Ottanta di bambino e ragazzo com’era?

«Gli abitanti di Duronia, provincia di Campobasso, erano migliaia quando ero piccolo io, che al paese ho avuto la fortuna di abitare per almeno un terzo della mia vita. Ho imparato un senso della famiglia molto radicato. Da sempre amo sentire gli anziani, come mio nonno, che raccontano il mondo di una volta davanti al camino. Crescendo mi sono accorto che è un po’ come vivere in Cent’anni di solitudine: rivedi nei bisnonni i caratteri di persone che se ne sono magari andate dal paese ma hanno la stessa indole di quegli anziani. Non parlo solo di somiglianze ma di gente che rifà gli stessi errori. Divorzi che si ripetono... Io col mio lavoro, girando sempre, cambiando pelle, ho bisogno di un punto fermo. È il paese, più di Roma».

Quando era ragazzino a Duronia già pensava: «Farò l’attore»?

«No, ma la mia avventura è lì che affonda le sue radici. Duronia era attraversata dal tratturo, praticamente un’autostrada larga 100 metri e lunga chilometri dalla Puglia all’Abruzzo che serviva per le transumanze delle greggi: l’Internet di una volta. Non si usciva mai dal paese e tutte le informazioni, quel poco di pesce sottaceto o secco tipo baccalà da comprare, passava da là. E così pure il teatro, gli zingari, le giostre. Negli Anni 80 i tratturi erano già scomparsi, mangiati dal bosco. Ma come le pecore venivano messe sui camion per portarle da una parte all’altra, così anche il teatro e le giostre, greggi su gomma e asfalto, hanno continuato a muoversi».

Per i bambini il teatro cos’era?

«Uno spettacolo nella dimensione della piazza. La popolazione si sistemava o tra il pubblico o sul palco perché i ruoli erano misti, gli attori che arrivavano in paese coinvolgevano i locali. Il passaggio successivo era farlo noi bambini il teatro. Dai 7/8 anni cominciavamo a rappresentare spettacoli in piazza, vendendo i biglietti casa per casa. Così mi sono affacciato a quello che poi è diventato un mestiere, senza una finalizzazione al lavoro come capitava invece ai figli degli avvocati che pensano subito allo studio del padre. È stata la mia salvezza, mi ha portato a frequentare un corso di teatro. Dopo il liceo mi sono iscritto a Filosofia e pensavo a che fare nella vita. Mi è venuto in mente che forse... Ho richiamato gente che avevo conosciuto chiedendo se c’era qualche lavoretto».

Prima, a 8 e 15 anni, c’erano stati gli spot...

«Sì, ore e ore in fila poi fai vedere profilo destro, sinistro, faccia, dici il nome e vai a casa: ne ho fatte tante di quelle file. Gli spot Bauli e Kinder Bueno sono stati la cosa più umiliante della mia vita, ho capito sulla mia pelle cosa vuol dire la pubblicità: tutti mi chiamavano col nome del prodotto. Prendevo attorno ai mille euro di oggi. Quando poi da grande mi hanno offerto diversi anni di stipendio per fare pubblicità ho rifiutato per terrore epidermico, lo stesso degli orsi che hanno preso la scossa al circo... Non me la sentivo di rimettermi in quel dolore».

Ora finalmente è un attore completo: cinema, teatro, tv...

«Non faccio differenza, quel che conta è la magia. Se devo definire l’attore dico che è un mezzo di trasporto. Per me e per il pubblico vuol dire affacciarsi in una sfera “altra”. Che è un meccanismo anche per perdersi. Se ci si pensa quelli sono gli unici momenti della vita in cui siamo felici. La felicità è quando non siamo (presenti a noi stessi). Quando ci perdiamo. Nell’altro, nelle cose. La sfida è riuscire a essere funzionale al perdersi dello spettatore. Tutte le volte che l’attore si ritrova e pensa a sé stesso non prende più per mano chi lo guarda. Se invece ti perdi nelle cose sei un mezzo di trasporto. Ecco, chiamiamola sincerità. Come quella di Ligabue. Lui aveva un rapporto di scambio sincero con poche persone, che possedevano davvero qualcosa in più. Spesso erano le famiglie più povere ad accoglierlo. O artisti come lui, dalla vita non ordinaria, che si riconoscevano in quella differenza».

Lei ha anche un gruppo rap da 22 anni, Bestierare vi chiamate.

«Il progetto rap per me è una necessità e un lusso per tentare di esprimermi: il lavoro infatti è sempre filtrato da una necessità, da un compromesso. Uno del gruppo è del mio paese, i nostri nonni sono arrivati a 14-15 anni insieme a Roma e noi, come tante famiglie, siamo cresciuti insieme. Io poi sono figlio unico, quindi legatissimo a questo nucleo molto allargato. Ho tanti fratelli: conosco i genitori, i nonni, al limite i bisnonni. I loro zii li chiamo anche io zii. Quel che succede ad egiziani, marocchini, romeni oggi».

In questo contesto come ha vissuto la città di Roma?

«Mia nonna mi portava a Villa Pamphili un po’ con lo stesso atteggiamento con cui portavano le pecore al pascolo. La scena era: sedie pieghevoli, nonne con bambini al seguito, loro a chiacchierare e noi al pascolo. Al tramonto un fischio e tornavamo. Io ringrazio Villa Pamphili, sono cresciuto pascolando, inseguendo lucertole e formiche, con le mani nere di pece dei pini».

Fa venire in mente Ligabue immerso nella natura del Po.

«Nel mio metodo di lavoro non cerco mai di attingere alle cose personali. Adotto il meccanismo contrario: cerco io di mettermi nella condizione di essere nato in una data epoca, di immaginare che se mio padre e mia madre mi avessero trattato come Ligabue, sarei diventato così. Più che andare io dal personaggio cerco di ricondurlo a me. Certo quando devi pensare a una cosa mai provata, alle motivazioni di un assassino, magari mi ricordo di quando ho ammazzato una lucertola».

Questo film, il «Favolacce» dei D’Innocenzo premiato a Berlino per la sceneggiatura di cui è pure protagonista: è l’alba di una nuova stagione del nostro cinema?

«C’è sempre stato un cinema italiano così. Quello che capita ora è che le produzioni cominciano a darci fiducia. C’è un mainstream che per sua natura ha bisogno di certezze e reinveste sempre in cose che non rischiano. Forse ora i produttori si convincono che se rischiano innovando magari gli va bene».

Dieci anni fa lei vinceva a Cannes come miglior attore per «La nostra vita» ma la situazione generale del cinema era peggiore.

«Va meglio di 10 anni fa perché... hanno chiuso tanti ristoranti. Quando i McDonald’s erano pieni andava bene così, ma ora sono costretti a mettere panini con ingredienti dop italiani. Si libera la fantasia culinaria. E così nel cinema. A Hollywood ha vinto il coreano, anche là erano stanchi dei loro panini».

Da ragazzo ha avuto il mito di un altro molisano illustre, Di Pietro?

«Pensavo mi citasse De Niro, Castellitto... No, io non sono un giustizialista e credo nelle regole per l’uomo e non nell’uomo per le regole. Non mi sento tutelato dalla giustizia e dalle leggi, che ho sempre un po’ subito rispetto alle mie esperienze di vita. Non sono un fan dei giustizialisti né ho mai urlato “legalità legalità”. I penitenziari sono pieni di persone che non hanno fatto male a nessuno e chi ha fatto disastri contro l’umanità, altro che il coronavirus, alle carceri non arriva. Frequento i penitenziari, un po’ per persone che ci sono capitate dentro, un po’ perché ho fatto delle iniziative di teatro, e la cosa più impressionante è che lì scopri di sentirti meglio che fuori. Come se ci fossero persone migliori in carcere. Siccome poi mi capita per lavoro di stare appresso agli squali veri, noto che rispettano tutte le regole ma sono ben più spregevoli».

La politica di oggi, la società di oggi non le piacciono.

«C’è una deriva culturale di pensiero critico enorme ma non solo in Italia. Costruiamo il nostro pensiero sposando le opinioni altrui. Non esistono più le assemblee. Mentre per me politica è riunirsi e discutere insieme le cose. Poi, eventualmente, trovare dei rappresentanti. Oggi è il contrario. Ma chi rappresenta deve ascoltare gli altri, non inventarsi delle cose per convincerli. Si dice “parla bene o è bello e quindi lo voto”. La bellezza premiamo? La fichezza, la coolness per usare una parola ancora più fica? La democrazia funziona se tutti sappiamo di che si parla. Dovrebbe fondarsi innanzitutto sulla formazione delle persone per poi farle scegliere con la propria testa».

Anche i grillini l’hanno delusa?

«Mai considerati. Mi basta la differenza con gli spagnoli di Podemos che facevano le assemblee per strada, non su Internet. Io sono cresciuto nelle assemblee. Sono faticose ma è lì che metti in discussione te stesso e chi ti sta accanto. Senza queste dinamiche la politica non cambierà mai verso, la subiremo sempre. Oggi il politico è un ufficio stampa ma quelli che hanno costruito la nostra nazione erano ben diversi: Cavour era dislessico, balbettava, diceva una parola per l’altra, un casino; Mazzini un oppiomane che stava sempre da solo; Garibaldi veniva preso in giro da tutto il mondo perché sbagliava le parole e non prendeva un congiuntivo. È evidente che questa gente si occupava di altro, era concentrata su altro. Questo me li fa amare».

Sui social sarebbero presi in giro.

«Il social mio è negli spazi sociali ed è già duro da realizzare perché i centri sociali li chiudono o la polizia mi chiede i documenti come se stessi andando a rubare, colleziono denunce e querele. Poi c’è il tempo. Vorrei capire dove la gente trova il tempo di scrivere e leggere cose sul telefonino lamentandosi però di non avere il tempo per fare niente. Io non riesco: preferisco vivere».

Elio GermanoLa vita — Elio Germano è nato il 25 settembre 1980 a Roma da genitori molisani di Duronia (Campobasso). Ha esordito nel cinema a 12 anni con il film Ci hai rotto papà e si è poi diplomato al liceo scientifico. Ha fondato con un amico il gruppo rap Bestierare. Ha due figli.

I suoi film — Ha recitato per alcuni dei più importanti registi italiani. Con Gabriele Salvatores ( Quo vadis, baby?, Come Dio comanda ), Daniele Luchetti ( La nostra vita), Mario Martone ( Il giovane favoloso)

I premi — Ha vinto tre David di Donatello, tre Globi d’oro e un Nastro d’argento. È stato l’unico italiano, dopo Marcello Mastroianni, a vincere a Cannes come migliore attore nel 2010 ( La nostra vita ). Il 1° marzo ha vinto l’Orso d’argento al Festival di Berlino.

·        Elisa Isoardi.

Dagospia il 27 ottobre 2020. Da “I Lunatici Radio2”. Elisa Isoardi è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei. La Isoardi ha parlato un po' di se: "Sono tenace, sto sempre in tensione, fa parte della mia genetica. A volte vorrei fare troppo, la caviglia è partita perché provavo dalla mattina alla sera e anche oltre. Ora si va avanti con maggiore maturità, non avevo contezza del mio fisico, la caviglia per me serviva per camminare. Ora so una cosa in più".

Sul suo 2020: "Da affrontare, da vivere. Bisogna vivere, non lasciarsi vivere. Bisogna reagire a tutto. Con molta cautela, noi abbiamo descritto avvenimenti capitati per il ballo, certamente non sono queste le tragedie, bisogna guardare a quello che di più grave c'è in giro. Bisogna affrontare le cose volta per volta, è in arrivo il coprifuoco, probabilmente ci saranno regole ancora più aspre. Bisogna rispettarle. Ci vuole cautela. Il voto al mio 2020? Alla fine positivo, è iniziato con un po' di trambusti, però alla fine sto bene anche nella cosa nuova. E chissà se prossimamente ci sarà anche una casa per me....".

Sul gossip: "I pettegolezzi tra me e Todaro? Il gossip fa parte della vita, se si parla di affetto e fiducia ben venga. Meno male che esistono ancora queste cose davanti alle altre. Se siamo una coppia a tutti gli effetti? No, questo lo state dicendo voi. Abbiamo fiducia l'uno nell'altro, il ballo è bellissimo, scava, tira fuori tante emozioni, ma che ruotano attorno al ballo, appunto,ho grande rispetto per lui come persona".

Sulla sua vita privata: "Ho dichiarato di spaventare gli uomini? Non credo dipenda dalla bellezza, che lascia il tempo che trova. Ma credo sia una questione di carattere. La mia era una dichiarazione ironica, si può stare bene anche da soli e andare avanti in pace. La mia era una presa di consapevolezza, di autodeterminazione, le donne possono andare avanti da sole. Rapporto col mio corpo? La mia fisicità è un dono, non è un merito, ben venga".

E ancora: "Quando leggo titoli in cui mi definiscono la ex di Salvini? Chi mi chiama così evidentemente non sa tutto il resto, chi fa determinati titoli lo invito a studiare. Ma va bene così, non mi genera nulla".

Sugli ex che richiedono indietro i regali: "E' una cosa che non può essere considerata dal genere umano, qui c'è proprio una carenza, una lacuna, nell'essere uomo. Glieli avrei ridati tutti e chi se ne frega. Va bene così".

Sulla cucina: "Se mi manca? La faccio a casa, sono anche a brava".

Francesca Galici per ilgiornale.it il 26 ottobre 2020. Elisa Isoardi, ieri, era a Ballando con le stelle. C'era nonostante tutto, nonostante i problemi alla caviglia e il dolore. Per la conduttrice la sfida di ballo è prima di tutto una sfida con se stessa, motivo per il quale ha fatto il possibile per presentarsi in pista con il suo ballerino, Raimondo Todaro. La loro coppia è stata messa a dura prova da una serie di casualità sfortunate, tra le quali l'appendicite con peritonite del ballerino professionista ma dopo qualche settimana di assenza, il ragazzo è tornato in pista. Certo limitata nei movimenti, Elisa Isoardi si è presentata davanti alla giuria con una coreografia che il suo maestro ha dovuto adattare alla situazione e che ha portato Guillermo Mariotto a esporsi con una battuta che non molti hanno gradito. Raimondo Todaro ed Elisa Isoardi sono stati bravi a montare una coreografia in linea con le attuali possibilità fisiche della conduttrice. Non un'esibizione particolarmente dinamica ma comunque appassionante, sensuale e con la giusta carica di erotismo, tanto che al pubblico ha gradito il momento. Anche i giudici in studio sono sembrati piacevolmente colpiti dalla prova di Todaro e della Isoardi ma il giurato venezuelano, forse nel tentativo di fare un complimento alla conduttrice è scivolato si una battuta da molti considerata di pessimo gusto. "Quei movimenti sul letto… Si vede che ormai sei esperta, ti vengono benissimo…", ha esclamato Mariotto, probabilmente nel tentativo di fare un complimento. Elisa Isoardi ha preferito non replicare e la puntata è andata oltre, ma al pubblico a casa quelle parole non sono sfuggite e, soprattutto, non sono piaciute. Chiara l'allusione sessuale del giudice nei confronti della conduttrice, che ha abbozzato senza replicare. Ovviamente diversa è stata la reazione dei social network, che si sono scagliati contro Guillermo Mariotto per quel commento. "Un cafone del genere che si rivolge così a una signora meriterebbe pesanti calci in culo", ha scritto Emanuele su Twitter. Sono tanti i commenti come il suo, anche perché è ancora fresco nei ricordi dei telespettatori il siparietto di Mario Balotelli nella casa del Grande Fratello e la sua battuta infelice a Dayane Mello. Diversi utenti, infatti, hanno messo a paragone i due momenti e non hanno potuto fare a meno di notare il silenzio di un'altra giurata di Ballando con le stelle, Selvaggia Lucarelli, solitamente caustica e solerte nel commentare quanto vede in tv. "Selvaggia scrive post contro le frasi (squallide) di Balotelli per attaccare il Gf Vip, chissà se scriverà le stesse cose contro Mariotto", si chiede un'utente. Ma c'è chi non ha gradito nemmeno il comportamento della conduttrice di Ballando con le stelle: "La Carlucci muta. Dopo il caso di Balotelli al Gf Vip, stasera anche in Rai si gioca con le battute sessiste".

Lo sfogo di Elisa Isoardi: "Piango ancora per La prova del cuoco, hanno provato a distruggermi". Nella lunga intervista rilasciata al settimanale Oggi, Elisa Isoardi ripercorre i suoi anni a La prova del cuoco e ne svela le difficoltà, prima di buttarsi a capofitto nelle nuove avventure professionali di settembre. Francesca Galici, Giovedì 16/07/2020 su Il Giornale. Poche settimane fa si è conclusa l'avventura di Elisa Isoardi a La prova del cuoco, che dopo 20 anni ha chiuso definitivamente i battenti. In onda dal 2000, per 18 anni è stato il regno incontrastato di Antonella Clerici, che nel 2008 ha ceduto temporaneamente lo scettro alla collega per la nascita della figlia Maelle per poi riprenderlo dal 2010 al 2018, quando la conduzione è passata definitivamente a Elisa Isoardi. Lei ha avuto il difficile compito di salutare per l'ultima volta, definitivamente, il pubblico affezionato de La prova del cuoco, non senza sofferenza. "Piango ancora se penso alla fantastica squadra con cui ho lavorato", ha rivelato la conduttrice in un'intervista rilasciata al settimanale Oggi. Sui giornali si parla da sempre di una presunta rivalità tra le due prime donne de La prova del cuoco e i saluti finali del programma hanno acuito questa percezione nel pubblico a casa, perché la Isoardi non avrebbe salutato la collega in chiusura di programma: "Quando sono entrata nel programma, dopo di lei, l'ho ringraziata. Ma perché avrei dovuto farlo anche nell'ultima puntata? Fra di noi non c'è alcuna antipatia. ]...] Comunque chiedo scusa, pardon...". La vena polemica non è sfuggita alla giornalista, alla quale la Isoardi ha risposto di sentirsi in una coppia di fatto con la Clerici, nonostante per lei la bionda collega sia inarrivabile.

Da settembre Elisa Isoardi non starà a casa, come altre sue colleghe che, per obbligo o scelta, hanno chiuso i loro programmi. Dopo 18 anni, infatti, la conduttrice riaccenderà le telecamere del programma Check-up, un titolo storico di Rai1 chiuso nel 2002 dopo 25 anni di messa in onda ininterrotta e fino a qualche settimana fa si mormorava che non fosse felice di questo incarico. Dalle pagine di Oggi, però, è arrivata la smentita: "Mi sono occupata di questo argomento a Uno mattina per diversi anni e farlo ora in un momento storico in cui la salute è così importante, mi onora". Sono stati anni belli ma complicati quelli de La prova del cuoco per Elisa Isoardi, che ora può togliersi qualche sassolino: "Hanno provato a distruggermi in tutti i modi ma non ce l'hanno fatta. Andare in diretta tutti i giorni per me è stato un viatico. Si accendeva la telecamera e mi lasciavo tutto alle spalle: è stato davvero terapeutico. Mi ha regalato spensieratezza e ora mi viene il magone a pensare di non rivedere più le persone con cui lavoravo, perché sono stati compagni di viaggio." Oltre che a Check-up, la Isoardi sarà impegnata anche nella nuova edizione di Ballando con le stelle, anche se, come dice lei: "Io e il ballo siamo due sconosciuti." Nonostante le reticenze, c'è spazio anche per parlare della relazione con Matteo Salvini, del quale però Elisa Isoardi non ama parlare: "Avrò una vita prima e dopo di lui, cappero". E alla giornalista che le ricorda come, secondo alcuni, lui sia stata una presenza ingombrante nella sua vita, la conduttrice ribatte pronta: "E se lo fossi stata io nella sua? Io non sono una tipina semplice, siamo stati entrambi ingombranti l'uno per l'altro." 

·         Elisabetta Canalis.

Elisabetta Canalis: "Basta censura buonista e politicamente corretto". L'ex velina ha condiviso sui suoi canali social una lettera di Roberto D'Agostino contro la censura e le etichette e si è schierata in difesa della libertà di espressione. Novella Toloni, Venerdì 25/12/2020 su Il Giornale. "Sono stata vittima e oggetto di diverse battute di Luciana Littizzetto e ne sono onorata". Comincia così lo sfogo di Elisabetta Canalis su Instagram. L'ex velina sarda ha affidato al web una riflessione sul politically correct, un trend sempre più dominante in Italia e che nelle ultime settimane ha visto scoppiare più di una polemica. A dare il "la" al messaggio di Elisabetta Canalis è stato un articolo pubblicato su Dagospia a firma del suo ideatore, Roberto D'Agostino, in cui il giornalista ha affrontato il delicato tema della censura buonista. Dal "gallina" pronunciato da Mauro Corona a Cartabianca alla "Jolanda prensile" di Wanda Nara, sono numerose le polemiche scoppiate negli ultimi giorni in nome del politicamente corretto. Una tendenza che l'ex velina mora conosce bene vivendo negli Stati Uniti, ma che nel nostro Paese sta prendendo piede solo ora. Forse. Elisabetta Canalis si è così unita al coro dei liberi pensatori e al punto di vista del creatore di Dagospia: "Pubblico volentieri l'articolo scritto da Roberto D'Agostino riguardo alla censura buonista del politicamente corretto che sta arrivando anche in Italia. Lo dico vivendo in USA, un paese vittima di questa ipocrisia in cui fare una battuta ed avere un'opinione che sia diversa da quella del gregge equivale ad essere tacciati di razzismo, omofobia o misoginia". Basta con l'ipocrisia e con il finto perbenismo ha sbottato Elisabetta Canalis, condividendo il suo pensiero attraverso alcune storie Instagram. Screenshot che l'ex velina ha scelto di salvate sotto la categoria "Freedom", cioè libertà. Lei che, diverse volte, è finita sotto la "forca" delle battute e dei giudizi ma che mai se l'è davvero presa: "Sono stata vittima e oggetto di diverse battute della Littizzetto e ne sono onorata perché la considero una grande attrice comica ed un personaggio televisivo irriverente e mai mai volgare. Mi sono fatta delle gran risate e mai ho pensato di essere stata offesa come donna. Smettiamola di omologarci al pensiero delle star di Hollywood o di chi ci impone di pensarla a senso unico. Abbiamo un cervello ed un senso dell'ironia che non possiamo reprimere in nome delle etichette che gli altri ti vogliono dare". Insomma, stop ai "modelli" che gli altri ci vogliono imporre e sì all'emancipazione da "pensatori liberi". Elisabetta Canalis in fatto di libertà ha le idee chiare.

Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 26 luglio 2020. È fine luglio 2009 quando il settimanale Chi spara la copertina che nessuno si aspetta: George Clooney avvinghiato a Elisabetta Canalis, l'uomo più sexy del mondo stando alla classifica di People conquistato da un'italiana, per giunta ex velina, non esattamente una stella di pari statura. Lui ha anche già vinto un Oscar per «Syriana», è messaggero di Pace per l'Onu e celebre per le sue campagne umanitarie in Darfur. C'è da essere increduli e, infatti, molti lo sono. Ne è complice la sventata dichiarazione di Brad Pitt: «Io e Angelina Jolie siamo per le unioni gay e ci sposeremo solo quando anche George potrà sposare il suo compagno». Pitt è il migliore amico di Clooney e i due si fanno parecchi scherzi a vicenda, ma il gossip è partito e nulla lo fermerà. Davanti alle foto di George e Canalis nella villa del divo sul lago di Como, il mondo si divide fra chi vuole credere alla favola possibile della Cenerentola contemporanea e chi si convince che trattasi di fidanzamento di copertura e fa notare che l'omosessualità stroncherebbe ogni carriera da sex symbol, prova ne è che Paul Newman, Montgomery Clift, Rock Hudson hanno sempre negato di essere gay. Comunque, la scintilla scocca a Roma, a una cena dove Elisabetta viene convocata da Manuele Malenotti, patron del marchio Belstaff, amico dell'attore. E già lì pare subito sospetto che la foto successiva veda i «Cloonalis» in moto, abbigliati coi giubbotti prodotti da Cupido. Il sito americano bibbia del gossip Tmz liquida l'italiana come «fidanzata seriale di calciatori». Pazienza se di ex certi del pallone c'è solo Bobo Vieri, mentre Drogba, Maicon e Balotelli sono flirt presunti. C'è chi con sottile perfidia ricorda che Clooney sarà pure una star, ma è fissato con le cameriere, avendone avute tre, Maria Bertrand, Lucy Wolvert e Sarah Larson. Un rotocalco francese asserisce che Canalis è stata contrattualizzata per fare la finta fidanzata, 30 mila euro al mese il cachet. Il tema diventa argomento da bar. Vero? Falso? Non è già un prezzo adeguato la popolarità global che le porterà infatti una campagna mondiale per Roberto Cavalli, un telefilm negli States, un Festival di Sanremo? E, piuttosto: se è sotto contratto, non dovrebbe sorridere di più? Il broncio permanente di Elisabetta sarà uno dei due tormentoni dei quasi due anni di relazione. Paginate di giornali vivisezionano ogni apparizione della coppia alla ricerca dell'espressione triste o seccata di lei, e pure del suo pincher nano, Piero, paparazzato in bilico sul cornicione di un balcone di Villa L'Oleandra a Laglio, sospettato di meditare il suicidio per noia. Elisabetta non ride mai. Non dovrebbe essere la ragazza più felice del mondo? Alla fine, pure chi non vuole credere alla favola pretende la favola stessa, ovvero che Cenerentola sia felice e grata e anzi si compiaccia di invidia e critiche. Il secondo tormentone è: perché non si baciano mai? Il primo bacio arriva a ottobre, a Sulmona, dove lui sta girando «The American» di Anton Corbijn. «Un bacetto da prima elementare» titola Novella 2000 . Per gli incontentabili, ogni red carpet diventa una pubblica verifica d'intimità: si sfiorano, si abbracciano? E come e quanto? E in quel merengue Venezia, per quanto lei era focosa, lui non era troppo tiepido? Ovvio che a una venga il broncio perenne. Passano i mesi e i Cloonalis durano. George sbarca ad Alghero per conoscere i suoceri. I sognatori e gli scettici sono sempre più agguerriti gli uni contro gli altri, fra chi sostiene che è andato a chiedere la mano di lei al padre, all'italiana e all'antica, e chi sbandiera l'intervista in cui lui ha detto che sarebbe un pessimo marito e non vuole figli. È uno scontro di civiltà tra opposte narrazioni, la fiaba e il thriller. Arrivano mesi di fiacca, ma il pubblico non può restare a corto di puntate. Al che: lei stufa perché lui la trascura per il poker; lui stufo perché lei è gelosa e teme un'irresistibile attrazione per Sandra Bullock sul set di «Gravity». Se non s' inventa da zero, comunque ci s' ingegna. Tipo: l'astrologo nota come i Cloonalis siano dello stesso segno di Raimondo Vianello e Sandra Mondaini (lui Toro, lei Vergine, ovvero l'intesa c'è, ma più spirituale che passionale); l'esperto di linguaggio del corpo identifica dieci gesti di Elisabetta che dimostrerebbero inequivocabilmente come punti a farsi sposare. Finirà così, per sfinimento. Martedì 21 giugno 2011 Novella 2000 va in stampa con il titolo: «Elisabetta scappa da casa Clooney» e scrive che l'umore cupo della ragazza, sfatta dalla pressione mediatica, ha avuto la meglio e che a sbattere la porta è stata lei. Il giorno dopo, un comunicato ufficiale conferma che i due si sono lasciati. Come, perché, a oggi, restano ipotesi e ormai a chi importa? Ormai, Elisabetta vive a Los Angeles, ha sposato un chirurgo americano, ha una bambina. E George, al netto di recenti voci di crisi, ha due gemelli e ha sposato l'avvocatessa Amal Alamuddin. Che compare nel 2014 e a tutti sembra subito la signora Clooney perfetta: bella, impegnata sui diritti umani, addirittura la first lady ideale qualora George mirasse alla Casa Bianca. Soprattutto, Amal sorride sempre. Ci mancherebbe, vista la planetaria accoglienza.

·        Elisabetta Gregoraci.

Da liberoquotidiano.it il 10 dicembre 2020. Elisabetta Gregoraci è appena uscita dal Grande Fratello Vip, il reality di Canale 5 condotto da Alfonso Signorini che l’ha vista grande protagonista per quasi tre mesi. La showgirl di Soverato è però circondata dal gossip, soprattutto da quello molto scomodo di Mino Magli, che la Gregoraci ha smentito dalla prima all’ultima parola una volta lasciata la casa di Cinecittà. Eppure l’uomo, che sostiene di aver avuto una relazione con lei per sette anni, continua a rilasciare interviste: l’ultima al settimanale Oggi, dove ha gettato ulteriori ombre sulla storia tra la Gregoraci e Flavio Briatore. “Mi disse che era un amico - ha dichiarato - che c’era un accordo e che doveva essere solo la fidanzata "da parata", ma che loro non andavano a letto insieme. Mi chiese di sopportare questa situazione per il bene della sua carriera. Era molto ambiziosa, tanto che a volte temevo fosse un’opportunista. Pensavo di essere il padrone del castello, ma invece era una multiproprietà…”. Parole pesanti, alle quali probabilmente la Gregoraci risponderà tra qualche giorno: prima di tutto viene la famiglia, con Elisabetta che sarà offline per un po’ per godersi il figlio Nathan Falco.

Che lavoro faceva Elisabetta Gregoraci prima del successo in tv? Notizie.it il 21/10/2020. Oggi Elisabetta Gregoraci è una delle showgirl più note del piccolo schermo ma la sua carriera non è sempre stata nel mondo della tv. Oggi quello di Elisabetta Gregoraci è senza dubbio uno dei volti più noti del piccolo schermo italiano, e non a caso la showgirl è attualmente concorrente al Grande Fratello Vip. Prima di approdare al mondo del cinema e della tv Elisabetta Gregoraci ha iniziato la sua carriera in Calabria (dov’è nata) giovanissima. Oggi tutti in Italia conoscono Elisabetta Gregoraci per la sua straordinaria bellezza, per la sua carriera in tv e non ultimo per il suo matrimonio (oggi naufragato) con Flavio Briatore. La carriera della showgirl è iniziata in realtà a metà degli anni ’90, in Calabria e più precisamente al concorso Miss Calabria (da lei vinto). Dopo i concorsi di bellezza per Elisabetta Gregoraci si sono spalancate le porte del mondo della moda, e infatti per diversi anni ha lavorato come modella e indossatrice per alcuni dei più prestigiosi marchi di moda. In tv comincia a lavorare solo nei primi anni 2000 (ma nel 1999 aveva già debuttato al cinema per il film Il Cielo in una stanza, di Carlo Vanzina). Senza dubbio la sua vita sentimentale è stata al centro delle cronache rosa fin dal 2006, anno in cui viene paparazzata per la prima volta accanto a quello che diventerà suo marito, Flavio Briatore. I due sono stati insieme per oltre 12 anni ma l’unione è naufragata nel 2017 con una separazione consensuale da parte di entrambi. L’ex coppia ha avuto insieme un figlio, Nathan Falco, oggi legatissimo ad entrambi i genitori. Dopo la fine del matrimonio Elisabetta Gregoraci è stata legata per un anno a Francesco Bettuzzi, e tanti sono i rumor riguardanti la sua vita privata e le sue presunte liaison.

Da tv.fanpage.it il 9 novembre 2020. Nella casa del Grande Fratello Vip continuano ad evolversi le vicende dei concorrenti. Ma ai due nuovi "vipponi", Giulia Salemi e Stefano Bettarini, appena entrati nel loft, non sono ancora ben chiare tutte le dinamiche. In un momento di chiacchiere in giardino, Giulia Salemi si confronta con Elisabetta Gregoraci. Cerca di indagare sulla sua vita sentimentale, non solo dentro la casa, ma anche fuori e così le chiede di Flavio Briatore. Elisabetta risponde in maniera criptica ma tranquilla, ammettendo senza mezzi termini di avere in ballo con l'ex marito un contratto che la vincola ad apparire single in pubblico per tre anni dalla loro separazione. O almeno, è quanto si deduce dalle sue parole. Ma la vicenda del contratto non è per nulla nuova, visto che già Signorini ne aveva parlato tempo fa. La conversazione con Giulia Salemi sembra esserne una conferma.

Elisabetta rivela il contratto con Briatore a Giulia Salemi. In uno scorcio di conversazione, Elisabetta Gregoraci e Giulia Salemi vengono sorprese a parlare della vita privata della showgirl calabrese. Giulia le chiede dell'ex marito Flavio Briatore e si fa avanti senza mezzi termini: "Ma ognuno di voi è libero di frequentare chi vuole senza rotture di palle, oppure...". Elisabetta ride e lascia intendere di non poter parlare. "Ok è una risata isterica, capisco", la giustifica la Salemi. "Cambiamo domanda", taglia corto Elisabetta. Ma poi spiega: "Sono tre anni…", intende dalla separazione con l'imprenditore. "Mi hai mai visto con qualcuno? Uno solo con cui sono stata fidanzata due anni, ma è finita malissimo quindi figurati….". Poi aggiunge, con Giulia Salemi in silenzio: "È abbastanza possessivo F. B. Sono sua…per lui….", ben attenta a non pronunciare il nome di Flavio Briatore per esteso. Il rapporto con Pierpaolo Pretelli nella casa del GFVip ha riacceso i riflettori sulla vita privata di Elisabetta Gregoraci, sempre molto riservata suoi suoi amori e attenta a non lasciarsi andare nel flirt con l'ex Velino. E così era tornato a galla il "contratto segreto" che la legherebbe a Flavio Briatore di cui aveva parlato Alfonso Signorini nel 2019, ospite di Piero Chiambretti a #CR4 – La repubblica delle donne. Allora sganciò una vera e propria bomba su Elisabetta Gregoraci: Lo sanno in pochi ma esiste un contratto post matrimoniale pazzesco fra la Gregoraci e Briatore. La conditio sine qua non che lui ha imposto a lei è questa: per tre anni dopo la separazione non deve farsi vedere sui giornali con un altro uomo, altrimenti deve pagare delle penali salatissime. Lei ha firmato, ecco perché non la vediamo mai con altre persone… Magari si frequenta con qualcuno, però si fa gli affari suoi.

L'amore con Francesco Bettuzzi lontano dai riflettori. La relazione di cui parla Elisabetta, durata due anni, è quella con Francesco Bettuzzi, nata apparentemente dopo il divorzio da Briatore nel 2017, ma mai portata alla luce. I due infatti sarebbero stati insieme in gran segreto, per evitare di farsi vedere in pubblico: "Siamo stati insieme per tre anni in gran segreto, ma la presenza dell'ex marito Briatore c'era e la condizionava. Abbiamo fatto una vita low profile e siamo sempre andati in luoghi dove non potessero riconoscerci", aveva spiegato Bettuzzi. Oggi Elisabetta si dichiara single, ma dopo l'esperienza nella casa sembra ormai certo che fuori dalla casa ci sia qualche uomo misterioso ad aspettarla, nonostante la sorella abbia smentito la presunta relazione con Stefano Coletti.

Elisabetta Gregoraci al GF Vip: "Non doveva dirlo, ha un passato discutibile", dopo Briatore spunta un ex pericoloso. Libero Quotidiano il 16 ottobre 2020. Elisabetta Gregoraci continua a movimentare il gossip a sua insaputa, visto che non può essere a conoscenza di quanto si scrive e si dice fuori dalla casa del Grande Fratello Vip. Il reality di Canale 5 condotto da Alfonso Signorini sta riscuotendo ottimo successo, soprattutto sui social, grazie anche alla presenza di un nome pesantissimo come quello dell’ex moglie di Flavio Briatore: smaltito il filone che riguardava proprio quest’ultimo, la Gregoraci potrebbe finire sotto i riflettori nelle prossime puntate per via delle rivelazioni fatte dal suo ex manager Francesco Chiesa Soprani, che sostiene di essere stato anche in rapporti intimi con Elisabetta. Ora dal settimanale Nuovo arriva l’opinione di Arianna David, presentata come un’amica della Gregoraci: “Quando si ha un passato discutibile è sempre meglio evitare la gogna mediatica, in modo da tutelare il suo ex marito e il proprio figlio”. Ma cosa intende per passato discutibile? “Mi riferisco alle dichiarazioni di Francesco Chiesa Soprani e a certe affermazioni di alcuni opinionisti tv… Ciò è avvenuto perché ha dichiarato di aver fatto una "vita di sacrifici", non doveva dirlo…”. 

Da liberoquotidiano.it il 15 ottobre 2020. "Ha tradito Flavio Briatore con me". A gettare discredito su Elisabetta Gregoraci è il suo ex manager, Francesco Chiesa Soprani, intervistato da Nuovo. "Non ho avuto una relazione stabile con lei, ma è vero che abbiamo avuto dei rapporti intimi. L'ultimo è stato poco più di un mese dopo il suo fidanzamento con Briatore". Una bella botta per la showgirl calabrese, ancora impegnata nel Grande Fratello Vip. Dopo il flirt, l'ex manager ha continuato a sentire la Gregoraci, che avrebbe anche trovato il modo di lasciargli una confidenza molto intima sul manager del Billionaire. "La notizia è molto delicata e anche oggi, a distanza di anni, preferisco non fornire particolari... Per Elisabetta invece non era un problema dare in pasto ai media il privato di Briatore in nome della popolarità". Anche per questo Chiesa Soprani è convinto che la lettera inviata da Briatore alla Gregoraci al GF Vip sia una sorta di "messaggio subliminale per evitare che Elisabetta racconti altri dettagli che potrebbero creare disagio".

Elisabetta Gregoraci, il suo ex al Live: "Con Flavio Briatore c'era un contratto. Niente amore, solo per la carriera". Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 19 ottobre 2020. Adesso parla Nino Magli che al Live-Non è la D'Urso - su Canale 5 domenica 18 ottobre - dice di aver avuto per sei anni una storia segreta con Elisabetta Gregoraci. Una verità choc. Silenzio in studio da Barbara D'Urso, dove arriva Mino, che dice in quel periodo la Gregoraci iniziò a frequentare Flavio Briatore. “Nel 2005 mi parlò di un viaggio in Kenya con Briatore. Mi disse che era un viaggio importante per la sua vita e carriera. La aspettavo per il mio compleanno, lei mi scrisse una lettera per dirmi addio e mi parlò di un contratto con Briatore”, tuona Magli. “Me ne parlava sempre, lei mi diceva che non c'era niente tra lei e Briatore, serviva per la sua carriera" . In studio porta quella lettera scritta a gennaio 2006, dopo il viaggio in Kenya con Briatore. “La Gregoraci mi spacciava per amico di famiglia”, racconta Nino. “Parlò di un viaggio di 2 o 3 giorni, ma invece furono molti e mi diede questa lettera. La salutai e andai via. Mi disse di non chiedere nulla”, continua il presunto ex fidanzato della Gregoraci. “Mi parlava di un contratto con Briatore, che non c’era nulla. Ma serviva per la sua vita e per il suo futuro. Non l’ho mai letto, me ne ha parlato”, tuona l’ex presunto fidanzato. Si attende la replica della Gregoraci. Le accuse sono pesantissime.

Un messaggio misterioso per Elisabetta scatena curiosità in Casa… ? Roberto Alessi per liberoquotidiano.it il 13 ottobre 2020. Ho scoperto che Elisabetta Gregoraci ha avuto un flirt (magari più che innocente) con il cantante Mr. Rain, signor pioggia, che ha conosciuto durante la settimana in cui ha presentato, prove comprese, Battiti Live, la fortunata trasmissione di Radio Norba. Mr. Rain ovviamente è italianissimo (da Tony Renis in poi i cantanti italiani adorano i nomi stranieri), visto che è lo pseudonimo di Mattia Balardi cresciuto a pane e polenta a Desenzano del Garda. Della notizia se ne è occupata Barbara d'Urso a Pomeriggio 5, dove ero presente anch' io. E proprio da Barbarina è stato insinuato, anche dalla d'Urso, che Elisabetta Gregoraci sì aveva gioito quando sulla casa del Grande Fratello Vip è arrivato l'aereo con la scritta sulla scia che diceva "Tu sei l'epicentro del mio terremoto". Sì è un verso di una canzone di Mr Rain, ma «mi risulta che sia un altro cantante ad aver inviato quell'aereo», mi ha detto Barbara che ha concluso: «E mi dicono che fa parte di un gruppo». Vero? Falso? Possibile che chi mi ha parlato di Mr. Rain fosse su una strada sbagliata? Mi sembra strano, visto che chi me lo ha detto è molto, molto, molto vicino all'ex signora Briatore. Tra l'altro la Gregoraci proprio dentro alla casa del Gf Vip ha detto che fuori ha un flirt ed io ho pensato che potesse essere Mr. Rain. Invece a Canale 5, dove si produce il Grande Fratello Vip, che, condotto da Alfonso Signorini, va piuttosto bene anche come ascolti, mi dicono che Elisabetta sarebbe innamorata di un cantante, ma non sarebbe Mr. Rain come ho detto, ma si tratterebbe di Piero Baroni, uno dei tre tenori (basta chiamarli tenorini) di Il Volo. Barone infatti è uno dei componenti de Il Volo insieme a Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble. Classe 1993, tredici anni più giovane di Elisabetta, è originario di Naro, un paesino in provincia di Agrigento. Piero arriva da una famiglia molto unita. Possibile che abbia preso una sbandata per una donna più grande, con un figlio di dieci, e che le abbia anche mandato un aereo per manifestarle il suo amore? Tutto può essere, il gossip non è una scienza esatta, di certo stride con il suo passato. Piero ha avuto diverse love story con donne famose. In passato è stato legato a Veronica Ruggeri, inviata delle Iene oggi morosa di Nicolò De Devitiis, collega ed ex fidanzato di Eleonora Pedron. Nel suo curriculum c'è anche Valentina Allegri, figlia dell'allenatore Massimiliano. Ma oggi Piero risulta single. Possibile che lui, sempre restio a parlare di sé, abbia mandato addirittura un aereo? Certo, Elisabetta può far sbarellare più di un uomo (anche Mr. Rain?), ma perché Barone avrebbe dovuto scrivere il testo della canzone di un altro? Non era meglio usare il testo di Grande amore, la canzone con cui ha vinto il Festival di Sanremo? Sentite: "Amore, solo amore è quello che sento/ Dimmi perché quando penso, penso solo a te". Aspettiamo con ansia notizie dalla casa.

Anticipazione da “Chi” il 13 ottobre 2020. In esclusiva su Chi, in edicola da mercoledì 14 ottobre, parla per la prima volta Francesco Bettuzzi, l'ex fidanzato di Elisabetta Gregoraci: “Siamo stati insieme per tre anni in gran segreto, ma la presenza dell'ex marito Briatore c'era e la condizionava. Abbiamo fatto una vita low profile e siamo sempre andati in luoghi dove non potessero riconoscerci, ma alla lunga sono diventato insofferente a questa situazione e dopo diverse incomprensioni ci siamo lasciati”. E continua: “L'amore tra noi si è esaurito, non potremo più tornare insieme. La sua liaison con Pretelli? Si merita di essere felice. Certo, forse ci vorrebbe altro per lei, ma se si piacciono, perché no?”. 

Da "liberoquotidiano.it" il 12 ottobre 2020. A poche ore dalla diretta di lunedì 12 ottobre del Grande Fratello Vip di Alfonso Signorini, ecco piovere le ultime indiscrezioni su Elisabetta Gregoraci. E no, Pierpaolo Pretelli non c'entra, questa volta. Si parla del suo cachet: insomma, quanto guadagna l'ex di Flavio Briatore per prendere parte al programma Mediaset? Le indiscrezioni rilanciate dal Corriere dello Sport sono davvero succose: secondo quanto messo nero su bianco, il cachet dovrebbe aggirarsi tra i 10 e i 20mila euro a settimana, in base alla popolarità del personaggio. Indubbio, insomma, che nel caso la Gregoraci si viaggi sui 20mila euro. Inoltre, in caso di eliminazione, i concorrenti incassano circa 8mila euro a puntata come ospiti in studio. Infine, si segnala che chi vincerà il GfVip incasserà il montepremi di 100mila euro, 50mila dei quali andranno in beneficenza. Insomma, fate un po' i vostri calcoli...

Da liberoquotidiano.it il 29 settembre 2020. "Se vuole essere autonoma allora potrebbe rinunciare anche a quello che le passo". A parlare è Flavio Briatore, che risponde a tono alla sua ex moglie Elisabetta Gregoraci, ora inquilina della casa del Grande Fratello Vip. Le parole della showgirl non hanno lasciato indifferente l'imprenditore piemontese. La Gregoraci, che intanto pare abbia un interesse per un altro concorrente, Pierpaolo Pretelli, ha confessato di aver fatto molte rinunce per stare con Briatore e spesso è stata costretta a seguirlo a causa del suo lavoro. "I primi anni è venuta a qualche Gran Premio che le interessava, altrimenti andavo da solo e faceva quel che voleva", questa la risposta di Briatore nell'intervista rilasciata a Selvaggia Lucarelli per il Fatto quotidiano. A lui, inoltre, sembra assurdo che l'ex moglie possa essersi considerata infelice in passato: "Passava in Sardegna due mesi l'anno, aerei privati, a Montecarlo 1000 mq  di casa, a Londra 1.500 mq di casa, la casa a Roma che le ho comprato, l'autista...". La Gregoraci ha detto anche che non riusciva ad essere indipendente con l'ex marito. Ma questa affermazione non va giù all'imprenditore, che infatti decide di attaccare: "Se a 40 anni vuole andare al Gf e stare con i ragazzini e se questo per lei è affrancarsi, ok". Poi arriva la stoccata sull'assegno che le dà ogni mese. Briatore, infatti, propone in maniera provocatoria alla showgirl di rinunciare ai soldi che riceve da lui, se proprio vuole dimostrare di essere autonoma. I due hanno comunque trovato un buon accordo per stare con il figlio Nathan Falco: "Viviamo a 300 metri di distanza a Montecarlo per condividere il più possibile la vita con Falco, senza regole rigide. Voglio che lei non abbia pensieri e cresca Falco con serenità. Dobbiamo pensare al bene di nostro figlio".

Da liberoquotidiano.it l'8 ottobre 2020. Botta e risposta. E la storia tra Flavio Briatore ed Elisabetta Gregoraci non finisce mica con una lettera che l’imprenditore ha inviato alla sua ex durante l’ultima puntata del Grande Fratello Vip, il reality condotto da Alfonso Signorini su Canale 5. Ora parola l’ex manager di Elisabetta. “Briatore si è stancato perché Elisabetta ha detto una serie di cavolate. Lo capisco, visto tutto quel che ha fatto per lei e i soldi che le passa ogni mese. Sicuramente la parola riconoscenza per la Gregoraci non esiste. Né nei sentimenti né in ambito professionale”, dice Francesco Chiesa Soprani (ex manager di Elisabetta). “Lei ha sbagliato anche solo a pronunciare il nome di Flavio perché lui è l’uomo che le ha cambiato la vita. Sapendo com’è nata la loro storia, io dubito che fosse amore. Quando lo ha incontrato, Elisabetta aveva un altro obiettivo: voleva sentirsi importante e diventare la moglie di un uomo come lui, che le apriva qualsiasi porta e davanti al quale tutti si inginocchiavano, sia i potenti sia i personaggi dello spettacolo. Elisabetta vive per questo, è sempre stato il suo sogno”, continua. Queste frasi fanno il giro della Rete in pochissimo tempo ed infiammano la vicenda. Secondo Soprani la Gregoraci non avrebbe mai dato filo a Pierpaolo Pretelli fuori dalla casa. Insomma boccia categoricamente la loro presunta storia d’amore. “Non la vedo a passare le sue serate sul divano con lui guardando le partite in tv e mangiando la pizza nel cartone. La Gregoraci sta vivendo una relazione sentimentale con un ragazzo che mai frequenterebbe al di fuori del reality. Anche perché dovrebbe essere lei a mantenere lui. Ed Elisabetta non è mai stata una donna generosa…”, queste sono le ultime parole di fuoco dell’ex manager. Ma Elisabetta ha confessato, proprio nelle scorse ore, di avere un affetto importante fuori dalla casa. Top secret sull’identità dell’uomo in questione.

Liberoquotidiano.it l'1 ottobre 2020. Al Grande Fratello Vip continua lo scontro a distanza tra Elisabetta Gregoraci e Flavio Briatore. Dopo che quest’ultimo ha provocato l’ex moglie invitandola a rinunciare alla bella vita se le pesa tanto ed a divertirsi con i “ragazzini” della casa del reality di Canale 5, la Gregoraci ha fatto delle confidenze scottanti su di lui. Tra l’altro senza sapere che Briatore c’era andato giù molto pesante con lei: probabilmente lo scoprirà nella puntata di venerdì 2 ottobre, intanto ha svelato un retroscena che mette in cattiva luce l’ex marito. “Mi trascurava molto, era sempre molto impegnato”, ha dichiarato prima di affondare il colpo: “Una cosa che mi ha fatto rimanere davvero male è quando è morta mia madre, mi ha lasciata sola il giorno del funerale perché doveva andare in discoteca. Non gliel’ho mai perdonato, da lì mi è scattato qualcosa”. Poi la Gregoraci ha corretto parzialmente il tiro: “Lui non è cattivo però non sa gestire certe situazioni. È roba molto delicata questa, ero stremata da questa cosa, poi sono stata male perché mi sono trovata anche i paparazzi al funerale”.

Da ilmessaggero.it il 3 ottobre 2020. Elisabetta Gregoraci durante la sesta puntata del Grande Fratello Vip, ha la possibilità di leggere alcuni pezzi dell'intervista che l'ex marito Flavio Briatore ha concesso a Il Fatto Quotidiano. La Gregoraci non si è fatta intimidire e al termine della clip si è lasciata sfuggire: «Io sono stata zitta, ma ora vomito tutto». Elisabetta ha voluto rivedere ogni signola dichiarazione e ha ribattuto punto per punto all'intervista dell'ex marito: «Quando io e Flavio Briatore ci siamo lasciati non ho mai preteso le sue cose, come la casa in Sardegna o a Montecarlo. Anzi, io ho diritto a 15 giorni di vacanza con mio figlio e invece di andare in albergo ha risparmiato anche dei soldi visto che siamo stati in Sardegna». Sul mantenimento: «Subito dopo la mia separazione uscirono notizie non vere, io ho sempre lavorato anche quando ero la signora Briatore, e tutte le volte che lui si arrabbiava sono andata dritta per la mia strada. Mi dispiace questa intervista perchè in tutti questi anni io sono stata zitta e non ho mai detto niente contro di lui. Fosse anche andare a tagliare i nastri io non mi vergogno, come vedi parte sempre tutto da lui. Signori si nasce non si diventa».

Da "corrieredellosport.it" il 6 ottobre 2020. Serata commovente al GF VIP con una grande sorpresa: Flavio Briatore ha scritto una lettera a Elisabetta Gregoraci, letta tutta in diretta tv su Canale 5. Il testo completo della lettera di Briatore alla Gregoraci: "Cara Elisabetta, inizio col dire che, fin dal principio, ero contento della tua partecipazione al Grande Fratello Vip. Alcune tue affermazioni, inevitabilmente, mi hanno fato molto male, ma sarà opportuno parlarne in privato come abbiamo sempre fatto. Portare il privato in pubblico, conoscendo la tua e la mia riservatezza, non ci appartiene. Facciamo vivere i momenti belli che abbiamo vissuto e ti ringrazio per le parole con cui mi hai descritto in confessionale quando ho rivisto la vera “Eli”. E sappi che l’intervista che ho rilasciato non era solo racchiusa in quei tre punti che ti hanno mostrato. All’interno c’erano anche belle parole dedicate a te. Avrai tempo di leggerle. Insieme abbiamo realizzato quel sogno di figlio che abbiamo realizzato: il nostro Nathan Falco, che da un lato è sereno e sta bene e ti saluta, dall’altro lo sai bene che ti guarda da casa! Insieme dobbiamo proteggerlo e al tempo stesso dobbiamo coltivare il bene per la nostra famiglia che non può e non deve essere spezzato dalla tv o dal tuo lavoro. Viviamo, rispettandoci. Ti auguro di essere felice. Ti voglio bene. Continuerò a volertene. Flavio".

La reazione della Gregoraci alla lettera di Briatore. La reazione della Gregoraci è stata positiva e condita da tante lacrime. “Non me l’aspettavo, mando un grande bacio a lui e soprattutto a mio figlio Nathan Falco. Però dico solo una cosa, è lui che tira fuori certi argomenti e facendo questo costringe poi me a difendermi”.

La Gregoraci e il flirt con Pierpaolo Petrelli. Elisabetta Gregoraci e Pierpaolo Petrelli sempre più vicini anche se le parole dell’ex marito le hanno fatto tirare un po’ il freno a mano. “Lui è giovane, è un cucciolotto e secondo me di alcune cose non si rende nemmeno conto”, ha detto la Gregoraci a proposito di Pierpaolo che in questi giorni ha provato a consolarla vedendola giù. “C’è sempre il pensiero di quello che c’è fuori, in primis mio figlio. Questa cosa mi frena, ovviamente. Sono una donna ormai, non una ragazzina”, ha detto la Gregoraci a proposito della sua ‘frenata’ nei confronti di Pierpaolo che ha dichiarato: “Me la sto vivendo serenamente questa amicizia con Elisabetta, senza problemi o ansie. Sono un uomo anche io e mi do da fare per essere un bravo ragazzo”. “Flavio è intelligente e con lui sono stato insieme tantissimi anni. Dire quelle cose l’ho trovato poco carino e poco da signore e l’ha detto in un momento in cui non potevo replicare. E poi così facendo non sta affatto difendendo nostro figlio”, ha concluso la Gregoraci.

"Billionaire no mask? Ma mica potevamo sparare alla gente". Selvaggia Lucarelli per “il Fatto Quotidiano” il 29 settembre 2020.

(…) Era infelice?

Passava in Sardegna due mesi l'anno, aerei privati, a Montecarlo 1.000 mq di casa, a Londra 1.500 mq di casa, la casa a Roma che le ho comprato, l'autista.

(…) Quanto le dai al mese?

Non lo dico, ma non è obbligata a fare qualunque cosa per vivere, non deve tagliare i nastri alla fiera della castagna a Reggio Calabria.

(…) Dice che con te non era indipendente.

Se a 40 anni vuole andare al Gf e stare con i ragazzini e se questo per lei è affrancarsi, ok. Ma allora potrebbe rinunciare anche a quello che le passo e dimostrare che davvero vuole essere autonoma, no?

(…) In molte discoteche in Puglia o Romagna c'erano migliaia di persone. Le immagini del Billionaire parlano chiaro. I nostri dipendenti avevano le mascherine. I clienti no. Non siamo poliziotti, non potevamo sparare alla gente. Ci sono state discoteche con 120 positivi, noi alla fine ne abbiamo avuti 28.

(…) Ma non possiamo fermare tutto. Ti faccio un esempio: mio figlio avrebbe adorato fare la scuola online così non combina nulla, per cui gli ho detto: 'Falco, se tu non vai a scuola, io non vado a lavorare. Se non fai bene la scuola perdi i privilegi che hai, l'estate un mese in Sardegna non ci vai più, resti qui'. Be', resta a Montecarlo, non è un granché come minaccia.

Ma ha tutti i suoi amici lì d'estate. Ha capito? Stamattina alle 7.30 è venuto e mi ha detto: 'papà hai ragione, vado a scuola prima'. E tu? Gli ho detto: 'non andare prima che aprano i cancelli cazzo, vai alle 8,25! Se ti vedono lì alle 7 i tuoi compagni svengono'. Insomma, diventerà stakanovista come il papà. Sperando che faccia qualche casino in meno.

Elisabetta Gregoraci, un grosso problema con gli uomini: "Cosa significa essere stata con Flavio Briatore". Libero Quotidiano il 29 Gennaio 2020. Una confessione dolorosa, quella di Elisabetta Gregoraci, che torna a parlare del suo ex marito, Flavio Briatore. Conclusa da poco la relazione con Francesco Bettuzzi, la showgirl ammette che per gli uomini il confronto con mister Billionaire non è affatto semplice. La Gregoraci si sbottona a Chi, il settimanale diretto da Alfonso Signorini, a cui spiega: "Avendo avuto un compagno così, chi viene dopo sente sempre il confronto e questa cosa non mi aiuta. Non è facile stare con me, ho tante caratteristiche che possono spaventare un uomo", ammette. Insomma, un po' di amarezza nella vita sentimentale che viene però compensata dalle soddisfazioni che le dà la sua carriera: "Sono contenta del mio percorso, sono una che seleziona molto. Ho iniziato con la moda, sono tuttora testimonial di brand importanti, e ho portato al successo due programmi come Made in Sud, che ho condotto per nove anni, e Battiti Live, che è arrivato alla sua quarta edizione. Ho fatto anche cinema d'autore e penso che cinema e tv si completino", conclude Elisabetta Gregoraci.

Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 29 agosto 2020. È una mamma che ricorda sempre a suo figlio di mettere la canottiera. «Se no si ammala, glielo ripeto ogni volta. Anche io uso la maglia della salute, confesso». Dopo anni di incessante corteggiamento, Elisabetta Gregoraci il 14 settembre entrerà nella Casa del Grande Fratello Vip . E non è un caso se la sua prima preoccupazione è lasciare lui, suo figlio. «Non siamo mai stati lontani per più di nove giorni, quindi, anche se ho organizzato tutto, il pensiero c'è. Prima di accettare ne ho discusso con lui: Nathan ha 10 anni, è grande e grosso, il mio piccolo gigante buono, e parla anche come un adulto... alla fine per lui sarà quasi un sollievo allontanarsi un po' da una mamma così fisica, rompiscatole».

Suo papà, Flavio Briatore, è risultato positivo al Coronavirus. La domanda è d'obbligo: Nathan come sta?

«Grazie a Dio sta benissimo, ha fatto i tamponi ed è negativo. Anche io sto bene, ho fatto vacanze tranquille, mai come quest' anno: niente estero, solo due giorni in Calabria, poi a Forte dei Marmi e in Sardegna».

Cosa pensa di quello che è successo nelle notti sarde?

«Il problema non è la notte sarda, ma sono le notti in generale. Con tutto quello che abbiamo attraversato capisco la voglia di evadere, ma questo problema esiste non ce lo dobbiamo scordare. Servono tutte le attenzioni e le precauzioni, non bisogna sottovalutare niente».

Non le era capitato di consigliare prudenza anche al suo ex marito?

 «Io consiglio sempre tutte le persone che mi sono vicine, sono molto attenta, per alcune amiche addirittura bacchettona. Poi ognuno fa di testa sua».

Diciamo che anche questi ultimi giorni prima di entrare nella Casa non sono stati tra i più spensierati, per lei...

«Ormai sono abituata, non ho quasi mai giornate esattamente leggere. Però sono molto emozionata: lavoro in tv da 15 anni, ho recitato in sei film, ho scritto un libro eppure sono agitata. Non ho ancora preparato nemmeno la valigia. Vivo questa cosa con lo spirito della gita scolastica».

La spaventa qualcosa, a parte la nostalgia di suo figlio?

«Il fatto che non conosco i miei compagni. Al momento non so proprio chi ci sarà con me. Ho avuto una vita molto intensa per la mia età, ho fatto tantissime esperienze, ma qui si tratta di condividere, di mettersi a nudo: credo che molti mi vedranno sotto una luce inaspettata».

Avverte di dover fronteggiare spesso il pregiudizio?

«Sì. Penso che una donna, specie se bella, deve sempre dimostrare di dover essere anche brava. Lavoro da quando ho 17 anni, prima conducendo le serate di Miss Italia in giro per la Calabria, poi decidendo di partecipare. Mia mamma, che è mancata troppo presto, mi ha insegnato presto che l'indipendenza è fondamentale e io sono cresciuta con questa mentalità».

Cosa, negli anni, l'ha ferita di più?

«Quando mi sono sposata dicevano che l'avevo fatto per interesse e che il mio matrimonio sarebbe durato sei mesi. Invece siamo stati insieme 13 anni, abbiamo avuto un figlio e ancora oggi abbiamo un bel rapporto. Ma la sensazione di dover dimostrare agli altri di essere diversa da come pensavano l'ho avuta anche sul lavoro. Nel cinema, ad esempio».

Racconti...

«Ho deciso di recitare in ruoli inattesi, spesso drammatici. Nell'ultimo film di Calopresti, Aspromonte - La terra degli ultimi , sono una mamma disperata a cui portano via il figlio. Ho dimostrato sul campo di essere capace, poi pensando di dire a chi vede il film: a voi la sentenza. Quando a Venezia tutti applaudivano e diversi critici dicevano: "Quanto è brava la Gregoraci", ecco, è stata una soddisfazione grande».

Come mai ha deciso proprio ora di partecipare al «Grande Fratello Vip»?

«Mi chiedono da quando ho 18 anni di prendere parte a un reality. Lo scorso anno ho visto un programma che era più un varietà, non era come gli altri anni. E mi è piaciuto, così come mi piace la conduzione colta e intelligente di Alfonso Signorini. Poi, forse, avevo anche voglia di un po' di evasione».

Suo figlio capirà...

«Sì, penso di sì. Nel dubbio gli ho già scritto una serie di lettere che riceverà quando sarò via, in cui gli dico cose tipo "ti voglio bene", "studia", "ti penso". E poi, certo, "mettiti la canottiera».

·        Elodie.

Elodie: «Io, cresciuta al Quartaccio fra droga in famiglia e amiche incinte a 15 anni. Ma si può venirne fuori». La cantante: il mio passato nel Quartaccio è la mia fortuna, non ho subìto la vita. E già da piccola provavo a proteggere mia sorella Fey. Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 4 ottobre 2020. Nelle strade di Quartaccio, a Roma, qualche anno fa, c’era una ragazza con troppa libertà e grandi sogni. Li sentiva, avvertiva da sempre di voler fare «qualcosa di grande», ma non ci si soffermava e ancora meno si azzardava a condividerli con qualcuno, cresciuta com’era: quando devi difenderti da subito e per tutto, un talento o anche solo un’ambizione diventano per gli altri il tuo punto debole, il tasto dove andare a colpire. E quindi Elodie Di Patrizi non ne parlava, quasi non ci pensava. Ma dentro di lei sapeva che prima o poi, chissà come, ma da quel quartiere se ne sarebbe andata, che la sua vita non sarebbe rimasta quella che per vent’anni pareva l’unica possibile. «Oggi non mi sento tormentata e sono piuttosto lucida riguardo a quello che è stato. Considero il mio passato la mia fortuna: mi ha dato la possibilità di vedere la vita cruda fin dall’inizio e non l’ho subìta».

La famiglia. In ogni parola di Elodie c’è un carico di verità raro. Niente retorica, nessun dolore. Solo una finestra spalancata su un mondo che ti fa guardare a lei come a una specie di miracolo, incarnazione perfetta di uno quei fiori che contro ogni logica rompono l’asfalto e vedono la luce. «I miei si sono separati quando avevo otto anni ma anche prima non erano molto felici, a casa non c’era una bella arietta — racconta —. Mia mamma faceva la cubista, era una ragazza con problemi, mi ha avuta a 21 anni. Entrambi hanno sofferto molto ed erano onesti in questo, non hanno mai camuffato il loro malessere. Ma per me che ero una ragazzina e lì vedevo così erano dei folli». Anche lei era «un personaggetto particolare: le cose non mi scomponevano, ho avuto problemi complessi dentro casa, ma era come se li vedessi da fuori». I problemi dei suoi genitori, quando lei era solo una bambina, erano complessi davvero. «Tossicodipendenza. Io l’ho capito dopo un po’ ma non ho reagito arrabbiandomi, anche se poi ho avuto dentro di me tanta rabbia per parecchio tempo. Ho detto vabbè vi do una mano, cerco di capire come aiutare. Non mi va di addossare colpe a loro, ma sono stata anni a tentare di sistemare una cosa che non è sistemabile, non da una ragazzina.

Senza acqua calda. «Erano persone che stavano molto male». Un macigno che viaggiava «assieme a tutta una serie di rotture pratiche: tornavo a casa e non c’era l’acqua calda, non riuscivo a studiare, provavo a proteggere mia sorella che ha tre anni meno di me: cercavo di non farle capire quanto andassero male le cose. Una situazione che mi creava un nervoso, una rabbia enorme, ma che non mi ha mai fatto sentire una sconfitta». «Potrei fare un film dai miei otto anni ai 23, con tutti i personaggi della mia vita: anche solo sul pianerottolo c’erano spacciatori, gente sessualmente promiscua, alcolizzati, la mia famiglia che non era quella del Mulino bianco. Ma tutto il quartiere aveva volti parecchio coloriti: osservandoli è come se avessi studiato, ho amato tante di quelle persone. Mi hanno dato la possibilità di vedere le vita con serenità: tutte le cose si risolvono e anche quando soffri è una fortuna, perché stai vivendo». Un corso intensivo di umanità che oggi la fa sentire «tanto ricca: ho vissuto un sacco di esperienze anche senza girare, anche perché: dove andavo? Alla fine, siamo stati tutti tanto male ma adesso stiamo tutti bene. E sono orgogliosa della mia famiglia: sono frutto della loro storia». È felice però che nessuno, oggi, viva più in quella casa: «Sono successe troppe cose brutte». Lei ogni tanto torna a trovare le sue amiche storiche: «Le mie vicine del pianerottolo, altre ragazze con cui giocavo in cortile. Come me hanno vissuto cose difficili per la loro età, c’è chi l’ha presa in un modo, chi in un altro. Con alcune siamo riuscite a sviscerare quello che ci era successo solo da grandi, con altre non ne abbiamo parlato mai. Anche se ripeto sempre che non è colpa nostra, quello che è stato non deve condizionare la tua vita ma deve diventare un punto di forza perché significa che sei stato in grado di andare avanti e alzare l’asticella: dovremmo tutti sentirci più forti, mentre i figli di situazioni eccessive spesso se ne vergognano». Un primo passo necessario per evitare di sentirsi «dentro una gabbia, se no ci rimani incastrato. Parliamo di persone con situazioni hardcore, quindi dovrebbero essere iper aperti no? Invece c’è molta chiusura, c’è paura. In quei contesti non c’è un filtro aperto ma una totale mancanza di comunicazione». Anche lei si è vergognata, per qualche tempo, della sua storia.

La maturità mai fatta. «Ti senti sporco, questa è la verità. È un contesto che rischia di inghiottirti. Non studiamo, a nessuno gliene frega niente, ma chi ti chiede i voti della pagella? I miei genitori non sono mai andati a parlare con un professore. Io ho la terza media e per dirlo ci ho messo anni: mi vergognavo come una ladra». Nonostante la sua intelligenza non comune, Elodie anche oggi vive questa cosa come un difetto enorme: «Rimpiango moltissimo il fatto di essere ignorante. Mi fa sentire a disagio, anche perché sono stata vigliacca: ho fatto il liceo fino al quinto anno, senza mai essere bocciata. Arrivata a maggio, mi sono ritirata. Non mi sentivo all’altezza di fare l’esame. Certo, allora mica l’ho detto così, ho fatto la coatta: mi ero inventata una storia del tipo che non avevo bisogno che qualcuno mi giudicasse, che mi dicesse se fossi pronta o meno. Ma avevo solo paura del fallimento, una cosa che mi ha accompagnata a lungo». Non ha dubbi sul fatto che, specie in quartieri come il suo, «servirebbero delle super scuole, l’unica via d’uscita è lo studio, solo quello. Se tu studi vedi che ti passa la voglia di fare cavolate: ti si apre un mondo. Ma gli strumenti me li devi dare, invece se ne fregano. Senza, se sei giovane è un attimo che ti trovi a rubare o spacciare». Anche lei è stata «una ragazzina complicata. A 12 anni mi facevo le canne tutto il giorno: iniziavo la mattina e finivo la sera. Ogni giorno. Ho iniziato in seconda media, per stare tranquilla: ero sempre arrabbiata. Facevamo delle collette con le amiche e quelle erano le mie giornate: al liceo non capivo le lezioni, tornavo a casa e me le facevo di nuovo, tanto nessuno diceva niente, ognuno faceva come gli pareva. Bevevo anche, uscivo e tornavo alle 7 del mattino, a 15 anni: ho avuto una libertà totale. E se hai troppa libertà sbagli». Diverse sue amiche hanno avuto figli a 15, 16 anni. «Ecco io quello no, ero proprio vergine, anzi. Una delle più rigide su certe cose. Quando una mia amica si era fidanzata con un tossico di eroina ero impazzita: l’ho sequestrata dentro casa, le ho detto tu da qua non esci. Questo ha cecato di entrare, mia madre era spaventata, mi minacciava... ma cosa minacci, vatti a fa’ ‘na pera».

Scappata di casa. Normale, forse, che oggi gli insulti sui social non la scompongano più di tanto: «Ho già sentito tutti quelli possibili, pure con le mie amiche c’era una gara a chi era più scurrile. A un certo punto mi divertiva ma capivo che non volevo starci lì: i miei spasimanti mi spaventavano, vedevo queste ragazze fare figli... così me ne sono andata perché poi, se resti, rischi di non uscire più e io non volevo». A 19 anni si è trasferita a vivere in Salento, con un uomo. «Sono scappata di casa perché la situazione era veramente tosta e non sapevo più come gestirla. Mia sorella si era arrabbiata come una bestia perché quando sono andata via ha scoperto tutto. Nei periodi negativi devi tenere botta e resistere, ricordare, con lucidità, che le cose possono cambiare. Ma io non avevo più voglia di difendermi». Con il tempo l’ha capito anche sua sorella, Fey. Sono molto unite. «È lesbica ma non lo diceva. Lo sapevamo tutti ma lei non lo voleva dire e quando l’ha fatto si è messa a piangere... ma cosa piangi, le ho detto, ma fai come ti pare, basta che sei felice». Certo, anche poter parlare liberamente del proprio orientamento sessuale in quel contesto non è semplice: «Figurati se non ti chiamano frocio. Ma succede se ammetti qualunque cosa di tuo, di intimo: lo usano per attaccarti. Tutto così, una gara a chi umilia di più... ma se sei perso pure te, ma cosa vuoi da me». Elodie non è mai riuscita a mandare giù le ingiustizie: «Non sto zitta, sono “impiccetta”. Odiavo i bulli ma ero scontrosa come un bullo. Avevano paura di me perché ero un po’ isterica, secca secca, nervosa. Avevano paura dei miei occhi, di cos’altro? Ai bulli devi far capire che sei forte, fargli sentire quel disagio che vogliono incutere loro stessi». E lei lo faceva alla grande, «perché l’umiliazione mi fa stare proprio male, la sento addosso a me. Alle medie c’era una professoressa di filosofia tutta particolare: non si faceva la tinta, aveva dei peli di gatto sui vestiti, gli occhiali storti ma il suo modo mi faceva volare. Quando mi confessava che qualcuno l’aveva fatta impazzire, anche in un’altra classe, io entravo tutta spavalda e chiedevo: “Chi ha trattato male la professoressa?”». Un senso di protezione che ha provato per tutti, amiche comprese: «Alcune si sono perse, un’altra è finita in carcere. In generale stanno bene però, ma vivono situazioni che potevano sistemare meglio... sono sempre subordinate a questi cavolo di mariti che diventano dei figli e si appoggiano. Una è stata tosta, l’ha mandato a quel paese, sta crescendo da sola i suoi figli, lavora, non si compra un vestito... sono in tante così, con uomini che vogliono fare i pischelli per sempre. Quasi tutte a quelli gli fanno barba e capelli e non se ne rendono conto. Hai due figli che tiri su da sola, lavori, torni a casa e pulisci, sistemi tutti e riesci essere per bene: ma non ti rendi conto che hai due palle così?». Uno, dieci, cento fiori, che come lei sono riusciti a non soffocare e bucare l’asfalto.

Barbara Visentin per il "Corriere della Sera" il 10 agosto 2020. Impossibile accendere la radio senza incontrarla: che sia con Guaranà o Ciclone , la voce calda di Elodie ci sta accompagnando per tutta l'estate. Da quando è approdata a Sanremo con Andromeda , la 30enne romana lanciata da «Amici» sta vivendo un anno d'oro.

Come immaginava il 2020?

«Ero carica come un'atleta. Poi sono stata fermata dal lockdown, come tutti, ma sono tornata sul palco appena si è potuto».

 Ha una squadra tutta femminile: perché questa scelta?

«Sono così orgogliosa di queste ragazze bravissime, una dj e due cantanti che non voglio siano solo coriste, ma protagoniste assieme a me. Mi piace lavorare con loro perché noi donne ci capiamo. Abbiamo bisogno, specie in questo periodo, di imparare a giocare in squadra come gli uomini fanno da sempre».

Fra donne, nella musica, c'è complicità?

«C'è, ma bisogna fare il primo passo perché siamo sempre sul chi va là, vittime di una competizione inutile. Dobbiamo conoscerci e fidarci reciprocamente e questo deve partire da noi».

 Pensa ci siano poche artiste donne?

«Siamo troppo poche e facciamo fatica. Bisognerebbe anche lasciare spazio alle più giovani. Il pubblico ai concerti è per la maggior parte femminile, eppure non siamo nostre fan e i palchi sono governati dagli uomini. Serve un tifo vero, di sorellanza».

Sarebbe favorevole alle quote rosa nei festival?

«Mi piace l'idea che ci sia un 50 e 50, ma non mi piace la parola quota. Sembra che ci venga fatto un favore. Ma de che? Lavoriamo e siamo professioniste tanto quanto i maschi. C'è bisogno di normalizzare la nostra presenza, ma senza una terminologia».

Marco Masini ha commentato la sua magrezza e lei ha risposto per le rime.

«Non lascio passare niente e se vedo anche delle mini-ingiustizie non le tollero. Gli uomini sono interessanti anche quando hanno dei difetti, non capisco questa ricerca spasmodica di dover piacere che hanno le donne, la nostra grande paranoia. Ci sono cose più importanti. E la colpa è sempre anche un po' nostra».

Come riuscire a non curarsi di presunti modelli di perfezione?

«È difficilissimo e anche io in qualche modo subisco i trend, ma prima di tutto penso che sono una donna intelligente, che non cambio per gli altri finché non sbaglio. Sono stata educata a essere libera, ma tutti i giorni devo combattere contro il pregiudizio».

In che modo?

«Discuto sempre, anche con gli ex. È capitato che soffrissero la determinazione, l'avere degli obiettivi, il guadagnare più di loro. Com' è possibile? Il mio successo non deve ledere la tua autostima, è un grave retaggio culturale. E le ragazze che verranno dopo non dovranno avere questo problema».

Dopo le accuse razziste a Sergio Sylvestre ha anche definito Matteo Salvini «un piccolo uomo».

«Quando hai un ruolo politico hai un megafono. E se offendi gratuitamente qualcuno scatenando odio ti assumi una grande responsabilità. Non mi piace come la Lega cerca di accalappiare voti. Vorrei avere dei veri punti di riferimento a rappresentarci».

Lei ha origini creole: in Italia c'è integrazione?

«Che sia stata a Lecce o nelle case popolari a Roma, ho sempre trovato una grande famiglia, gente che accoglie il diverso. Il Paese è meglio di chi lo rappresenta. Certo, c'è tanta ignoranza e sarebbe bello che chi ci governa la diminuisse, anziché far leva su quello».

Tormentoni o brani personali, qual è la vera Elodie?

«La mia forza e il mio problema: mi sento tante cose. Mi piace la leggerezza dei tormentoni, ma ho anche la necessità di raccontare delle cose più profonde. Penso stia tornando quest' ultimo lato».

Scriverà lei dei brani?

«Non so se ne sono all'altezza, scrivere è un'arte. Ma ho la fortuna di poter interpretare canzoni che parlano di me scritte da amici bravissimi, come Mahmood e Dardust».

Lavorerà ancora con loro?

«È probabile, anche se magari aggiungerò persone nuove. Loro sono amici veri, parliamo di tutto, usciamo a bere. E Mahmood ha dato un bello scossone alla musica italiana».

Farebbe cinema o tv?

«Adesso ho bisogno di fare musica, ma in futuro perché no. Vorrei provare tante cose prima di invecchiare e mi sono sempre buttata».

Mattia Marzi per il Messaggero il 30 luglio 2020. Riunioni, video, registrazioni. Elodie non si ferma un attimo. Da quando, dopo la crisi post Amici (nel 2016 arrivò seconda, poi rischiò di perdersi), la cantante ha cambiato tutto - «nei panni dell' interprete elegante e raffinata non mi ci ritrovavo» - per indossare quelli della popstar sexy e provocante, e tutto ha ripreso a girare meglio. «Oggi faccio quello che voglio e mi mostro per quella che sono. Se il corpo mi ha aiutata? Oltre alla bellezza ci deve essere il talento». Crescere in borgata, al Quartaccio, periferia a nord della Capitale, tra baracche, spaccio e povertà, l' ha forgiata. Figlia di un artista di strada e di una modella delle Antille francesi, nel passato ha trovato la forza di reagire: «Quella di Amici non era la vera Elodie, cresciuta ascoltando il rap e scappata di casa a 18 anni mantenendosi come cubista». Il ritorno a Sanremo 2020 con Andromeda, il successo nonostante lo scialbo settimo posto in classifica, poi lo stop a causa del virus. Non si è data per vinta. Ha continuato a lavorare anche durante il lockdown, passato in casa con il compagno Marracash (rapper tra i più sfrontati della scena). Ora, mentre si sentono ovunque le sue Guaranà e Ciclone (la hit con Takagi & Ketra, i Gipsy Kings e la star latina Mariah), la 30enne romana torna dal vivo con una serie di concerti che la vedono condividere il palco con una band tutta al femminile (il 5 agosto sarà a Messina, il 30 ad Ascoli, il 3 settembre a Catania, il 13 a Bari): «Questo ambiente è maschilista - bisogna invertire la tendenza. Io lo faccio dando visibilità a musiciste di talento».

Basta per cambiare le cose?

«No. Con le altre cantanti dovremmo confrontarci più spesso, ma ci perdiamo in stupide rivalità. Fortuna che ci sono anche colleghe intelligenti».

Chi?

«Emma, Levante, Baby K, Myss Keta. Insieme facciamo squadra e ci sentiamo più rispettate».

Il suo modello chi è?

«Loredana Bertè. Mi è sempre piaciuto il suo modo di essere: una donna forte».

La sua musica è molto fisica: non ha paura che ai concerti il pubblico infranga le norme anti-Covid?

«Chiedo ai ragazzi di dare il buon esempio, di non fare come chi ha partecipato alle manifestazioni politiche senza rispettare il distanziamento. Ci si può divertire comunque».

Dove ha trascorso il lockdown?

«A Milano. A casa di Fabio (vero nome di Marracash, ndr). Abbiamo sperimentato per la prima volta la convivenza».

Non vivete insieme?

«No. Sono innamorata, ma ho bisogno dei miei spazi. E lui è come me. Finito il lockdown ho fatto le valigie».

A trent' anni non sente il bisogno di mettere su famiglia?

«Cerco solidità, ma non per forza una famiglia».

E allora in cosa consiste?

«Mettere giudizio. Lavoro tutto il giorno. La sera preferisco rilassarmi piuttosto che fare l' alba in discoteca».

Un figlio?

«Non ho uno spirito materno».

Il rapporto con i suoi genitori com' è?

«Divorziarono quando avevo otto anni. Con mamma c' è più affiatamento. Ha preso casa a Como, così stiamo più vicine. Papà è rimasto a Roma».

Gli amici e i parenti cosa le raccontavano del lockdown in borgata?

«Molte famiglie sono state costrette a chiedere i pacchi alimentari. Io stessa ho aiutato economicamente amiche rimaste senza lavoro, con figli da sfamare. È stata dura».

A cosa ci si aggrappa in momenti così?

«C' è chi si è affidato alla religione. Io sono atea: ho aspettato che finisse».

Segue la politica?

«Da ragazzina mi informavo di più. Guardavo i talk e discutevo di attualità. In borgata vedevo solo ingiustizie».

Sui social ha definito Salvini un piccolo uomo, reo di aver fomentato l' odio razziale nei confronti del suo collega Sergio Sylvestre per aver sbagliato l' Inno di Mameli alla finale di Coppa Italia. Lo rifarebbe?

«Certo. Ho scritto ciò che pensavo e spero di non essere l' unica a considerarlo tale».

Mai stata discriminata per le sue origini creole?

«Più volte. Mia mamma era l' unica nera del quartiere e in borgata sono sempre rigidi rispetto alle diversità».

Da Sanremo si aspettava di più?

«Sì. Ma Andromeda ha lasciato comunque il segno».

Tornerebbe in gara l' anno prossimo?

«No. Cercavo un rilancio. È arrivato. Ora mi godo questa rinascita».

Ernesto Assante per “la Repubblica” il 10 aprile 2020. Elodie Di Patrizi è in casa come tutti, a Milano, con il suo fidanzato, Fabio Bartolo Rizzo in arte Marracash. Ma la musica va avanti e oggi escono su tutte le piattaforme digitali due versioni del suo singolo sanremese, Andromeda, una con la collaborazione di Madame e Dardust, l' altra con il remix di Merk& Kremont. Tra poche settimane compirà trent' anni ed è a un punto di svolta della sua carriera. Come dimostra con Andromeda Remix: «L' obiettivo è connettersi, fare in modo che nella mia musica si ritrovino anche altri. Ci lavoro molto ma con spontaneità, sono sempre una bambina che gioca».

Quando ha iniziato a giocare con la musica, a sognare di diventare cantante?

«Ho sempre sognato, a quanto mi ricordo. Vedevo Christina Aguilera, Mina, guardavo Sanremo, riuscivo a distaccarmi da quello che ero nella vita e immaginavo come volevo essere. Facevo le prove allo specchio, lo faccio ancora, prima dei video o dei live. Immagino come muovermi, gioco come facevo da piccola».

Chi la giudicava allora, chi la giudica adesso? Di chi si fida?

«Il primo giudice di me stessa sono io, allora e adesso. Mi fido ancora di vecchi amici, parenti, mio padre, Fabio, anche se con lui faccio un po' di fatica, o ho un po' pudore».

Gli amici sono quelli del suo quartiere a Roma, della scuola?

«No, quartiere mai, scuola mai. Non lo sapeva nessuno che cantavo, mi vergognavo troppo. Sono passata direttamente da casa mia ai provini». 

Di cosa aveva paura?

«Non volevo che mi dicessero che non ero brava. Ho sempre pensato di non esserlo, lo penso anche oggi, ma mi sono abituata e ogni tanto riesco a convincermi che non sia così».

Allora perché è andata a fare i provini?

«Per una scommessa con mio padre. Lui diceva che ero brava, io no, quindi sono andata a fare i provini per X Factor, nel 2009. E mi presero. Arrivai agli home visit, un passo prima del live. In realtà non capivo perché mi facessero passare il turno. Studiavo le canzoni e andavo avanti. Poi la Ventura mi disse "non ti prendo perché non ci tieni abbastanza", e mi eliminarono. Mi arrabbiai tantissimo ma aveva ragione. Decisi di non cantare più, non lo feci per qualche anno. Ho ricominciato quando mi sono trasferita a Lecce».

Per amore.

«Esatto. Io avevo vent' anni, lui molti più di me. Ero incosciente, non sopportavo più la mia famiglia, scappavo da una situazione più grande di me che avevo creduto di poter gestire. Ora non lo farei mai, allora pensavo di non avere niente da perdere. In realtà lui non stava bene, non poteva amarmi, e io ero di nuovo in una situazione più grande di me e con uno sconosciuto».

Un altro cambiamento era necessario.

«A ventitrè anni ho deciso di provare a pensare a me stessa. E ho cominciato a vivere di musica, band, piano bar, discoteche».

E poi "Amici". L' ha scelto lei o qualcuno l' ha consigliata?

«Mi hanno consigliata, non ci sarei mai andata da sola. L' amica con cui vivevo si è incazzata e io ci sono andata. L' ho fatto per me, per avere una cosa tutta mia di cui essere orgogliosa. E da quando sono entrata vedevo solo la finale».

È lavoro o arte?

«Per me è innanzitutto vita. È il mio lavoro, mi dà la possibilità di essere serena, contenta di me, di quello che faccio. Sono un' interprete, non creo la mia musica, faccio scelte e cerco di fare in modo che siano coerenti, ragiono come se fossi una piccola azienda. Sono pragmatica e questo mi salva, mi fa vedere bene le cose. So che il lavoro che faccio può durare una vita o un giorno, che è fichissimo ma non è detto che continui».

Cosa le piace della musica?

«Il fatto che sia un continuo esperimento, che mette in gioco un sacco di sensazioni e sentimenti. Ha mille contraddizioni, nessuna regola: la cosa più fica che possa esistere».

La musica la aiuta in questi giorni di reclusione forzata?

«Sì, ma faccio cose diverse. Al mattino yoga, ma soprattutto sono impazzita per le costruzioni Lego, faccio un sacco di edifici. Penso agli altri, a me, mi chiedo se ce la farò. Ma qualsiasi cosa accada saremo forti per affrontarla, dobbiamo esserlo. Il nostro compito è essere responsabili, cercare di fare di tutto per far star meglio gli altri anche quando, come adesso, nessuno ha certezze».

Marracash: "Elodie? La rivedrò dopo Sanremo". E il sogno è l'Eurovision. Il rapper vuole che la sua fidanzata, in gara al Festival, si concentri per dare il massimo. Per questo la sente solo per telefono e la rivedrà di persona solo dopo la finale, sperando che il testo scritto per lei da Mahmood le valga l'accesso a Eurovision. Sandra Rondini, Lunedì 03/02/2020, su Il Giornale. Ospite di Fabio Fazio a "Che tempo che fa" il rapper Marracash si è lasciato andare a molte confidenze sul suo conto, parlando in particolare dei suoi esordi, i suoi sogni e su quelli che sono attualmente i progetti musicali in cantiere. Fidanzato con la bella Elodie con cui ha sfornato la hit "Margarita", suonata e ballata in tutte le spiagge italiane la scorsa estate, proprio sulle domande sulla sua dolce metà il rapper si è chiuso un po'a riccio, come spesso fa, non volendo rivelare molto della sua sfera privata. A quanto pare i due non si vedono da settimane. Nessuna crisi in atto, però. Come ha spiegato sorridendo Marracash a Fabio Fazio il fatto che Elodie sia in gara a Sanremo li sta tenendo lontani fisicamente, in modo che lei possa concentrarsi al 100% sulla sua performance che è una delle più attese del Festival. "Andrò a trovarla solo alla finale. Non prima perché non voglio agitarla", ha dichiarato Marracash, lasciando intendere che in giornate intense come queste e, soprattutto alla vigilia dell’inizio ufficiale del Festival, che prenderà il via domani sera, con l'esibizione di tutti i big in gara, è meglio lasciare che ogni artista alle sue prove e alle interviste che già sta rilasciando a media, tv e radio. I due, però, ha assicurato il rapper, si sentono telefonicamente e la sua Elodie è pronta a dare il massimo. Il sogno resta l’Eurovision. Chi vince il Festival di Sanremo vi accede di diritto come rappresentante della sua nazione in gara e sono tanti, in effetti, i giovani cantanti in gara con questa grande ambizione, perché, come scrivono in molti sui social, "mica vorremo mandare Rita Pavone all’Eurovision? Nelle ultime tre edizioni abbiamo perso ingiustamente, siamo i Leonardo DiCaprio di questo festival visto in tutto il mondo: sempre favoriti, ma non vinciamo mai. Ci serve un giovane che spacchi!”. In effetti l’anno scorso il vincitore morale dell’Eurovision risultò essere Mahmood. Tutti ricordano la sua "Soldi" che è diventata una hit mondiale grazie all’Eurovision, mentre la canzone vincitrice, quella dell’Olanda, non ha riscontrato alcun successo su youtube, spotify e nelle vendite. Ora Elodie si presenta al Festival di Sanremo proprio con un pezzo scritto per lei da Mahmood, "Andromeda", e i critici musicali che hanno avuto modo di ascoltare giorni fa in preview tutti i brani di Sanremo hanno scritto che il suo pezzo che è una vera bomba. Eurovision in vista per la sexy popstar? Intanto c’è da superare lo scoglio di Sanremo e dare il massimo domani e nelle altre serate in cui dovrà esibirsi dal vivo. Elodie è giovane, bella, grintosa e con una gran voce. Se poi testo e musica dovessero rivelarsi vincenti, non le resterà che preparare a maggio le valigie per i Paesi Bassi che ospiteranno l’edizione 2020 dell’Eurovision. E questa volta magari Marracash sarà con lei tutto il tempo, senza dover aspettare la finalissima per poterla riabbracciare.

“Io sono Elodie, io so’ coatta. poi anche la tipa di Marracash". La cantante in una video-intervista a “Vice” racconta la sua infanzia al Quartaccio, periferia di Roma: “Mio padre suonava per strada, a me non reggerebbe la pompa neanche adesso. Sono incazzata con la mia famiglia. Vi spiego il motivo" - La separazione dei suoi (“C’era violenza in casa”), la bocciatura a X Factor (“per anni non ho cantato”), gli anni da cubista a Lecce, Amici, il rap.

Da vice.com l'11 febbraio 2020. Elodie Di Patrizi sa spiegare la periferia, l'isolamento e il disincanto meglio di tantissimi rapper. Siamo andati a trovarla a Roma e lei ci ha accolto nel quartiere dove è cresciuta, il Quartaccio: è la prima volta che lo porta in un'intervista, e il suo nuovo album This Is Elodie è il primo che racconta veramente la persona dietro alla popstar. Quella che ha portato a Sanremo 2020 "Andromeda", scritta dai suoi amici Mahmood e Dardust. Abbiamo visitato le case popolari di Quartaccio dove, dice lei, non esiste l'idea di farcela, di avere un obiettivo: si diventa genitori presto, ci si deve difendere, si deve affrontare l'esistenza giorno dopo giorno. Ma si stringono anche legami forti, che attraversano gli anni e le difficoltà—come quello che la lega a Patrizia e Riccardo, che hanno cresciuto lei e sua sorella Fey quando i loro genitori non ci sono stati. La vita di Elodie è stata segnata dai pregiudizi. Uscita da Amici, interprete e non autrice, è stata percepita come una cantante italiana come tante altre. La realtà è che lei stessa ha sempre combattuto per far capire al mondo la persona che è—da quando scelse di fare la cubista, come la madre, a quando ha scelto di mettersi in gioco e sfidare i preconcetti avvicinandosi al mondo del rap.

Elodie, dalla borgata a Sanremo: "Da piccola c'era violenza in casa". Un infanzia difficile nel quartiere Quartaccio, estrema periferia di Roma, dove Elodie ha vissuto con la sua famiglia prima di conquistare il successo, senza mai rinnegare le difficoltà del suo passato. Francesca Galici, Mercoledì 12/02/2020 su Il Giornale. Elodie al festival di Sanremo ha incantato con la sua Andromeda. La voce profonda e graffiante si è perfettamente integrata alle sonorità di Durdust, dando vita a un brano molto amato dal pubblico, che non ha ottenuto un riscontro efficace in classifica. Elodie, la stessa che per quattro sere ha sceso le scale del teatro Ariston di Sanremo fasciata in stupendi abiti di Versace, è figlia di una borgata di Roma. È questo suo lato inedito che ha deciso di raccontare con un'intensa video intervista concessa a Vice, dalla quale emerge tutto quello che c'è dietro la cantante di successo. Elodie è nata e cresciuta al Quartaccio, uno dei quartieri più periferici della Capitale. È la periferia della periferia romana, una borgata nata negli anni Ottanta le cui vicissitudini non sono sempre state semplici. I fasti di Roma, dei suoi monumenti e delle sue bellezze sono lontani dal Quartaccio, dove Elodie è vissuta insieme a sua sorella fino a quando ha compiuto 19 anni e si è trasferita a Lecce. "Ci sono famiglie di tutti i tempi. Famiglie che spesso fanno fatica. Queste case non sono mai state finite veramente. Nell'88 la gente è entrata ma non erano finite nemmeno le fognature. Io avevo la muffa che era metà parete, era tutto nero, abbiamo dovuto togliere i termosifoni per fare i muri che permettessero di isolare", inizia così il racconto di Elodie tra le vie e le piazze della sua borgata, fatta di palazzine fatiscenti dove ancora oggi vivono quelli che qualcuno definirebbe figli di un Dio minore. Come dice la stessa Elodie, il problema al Quartaccio sono le famiglie. "Qui si diventa genitori molto presto. La gente già fa fatica a lavorare, quindi non riescono a seguire i figli. Sono disillusi, c'è il disincanto", dice Elodie mentre passeggia per il viale del quartiere, dove il concetto di serenità è troppo distante per essere percepito come reale. La sensazione che si ha passeggiando tra queste strade è quella dell'abbandono. C'è la totale assenza delle istituzioni al Quartaccio, dove negli anni le cose sono cambiate poco. "La sensazione è quasi che le cose siano fatte per lasciarti là", spiega Elodie descrivendo come il Quartaccio fosse quasi un ghetto, dove tutto ciò che serviva era all'interno del perimetro del quartiere. "Come per dire: rimanete qua, non interagite con il resto della società, questo è poco inclusivo", prosegue Elodie prima di parlare della sua vita e della sua famiglia. "Io sono sempre stata orgogliosa di questo", dice la cantante nel raccontare il suo nuovo disco This is Elodie, all'interno del quale c'è tutto il suo vissuto, la sua crescita, che inevitabilmente è parte del passato vissuto al Quartaccio. "Ho avuto un'infanzia particolare. I miei si sono separati che io ero molto piccola e c'era violenza a casa. Io cercavo di proteggere mia sorella più piccola. I miei genitori hanno pensato a come ricominciare la loro vita al di là del fatto di essere genitori. Io sono stata molto incazzata con la mia famiglia", ha ammesso Elodie, che è dovuta crescere troppo presto. Suo padre ha lavorato a lungo come artista di strada e questo ha creato non pochi imbarazzi alla cantante, prima che riuscisse a capire e a metabolizzare: "Questa cosa mi ha aiutato a fregarmene veramente poco di quello che pensa la gente. Mio padre era libero, alla fine ci vuole pure coraggio, a me forse ancora adesso non m'aregge la pompa." Il padre è forse il vero artefice della carriera di Elodie. È lui che a 18 anni la convince a fare un provino per X-Factor. La cantante supera tutte le selezioni tranne l'ultima, quella decisiva per partecipare al programma: "Non mi prendono e mi rode talmente tanto il culo, mi sentivo sputtanata, quindi per un po' di anni non ho cantato." La fortuna di Elodie è arrivata con Amici di Maria de Filippi: "Facciamo finta che i talent siano quartieri: i Parioli e il Quartaccio. Amici è la casa popolare, X-Factor è il talent chic." La cantante riconosce l'importanza di Amici per la sua carriera, "la scuola mi ha dato la possibilità di rimettermi in riga", dice prima di sottolineare come Maria De Filippi non abbia mai fatto cenno alla sua storia durante il programma. A 19 anni, Elodie ha fatto la cubista a Lecce: "Era il lavoro che faceva mia madre, che quando l'ho scoperto mi sono incazzata. Pensavo che era un lavoro da donna poco di buono.” Ha raccontato episodio spiacevoli di quel lavoro, quando gli uomini toccavano o riprendevano da sotto, situazioni non degradanti figlie di un mestiere difficile per fare il quale è necessario difendersi: “Io so coatta, io ho spaccato mani, telefoni. La borgata lì mi è servita." Nel corso dell'intervista, Elodie ha presentato sua sorella Fey e ha raccontato come la loro sia stata una vita senza regole, frutto dell'assenza dei loro genitori. "A 14 anni potevo tornare pure alle 6 del mattino e nessuno mi diceva niente", ricorda la cantante tra aneddoti di vita vissuta, non semplici e non comuni. Amici per Elodie è stata anche l'occasione per rinsaldare i rapporti familiari, fare squadra e arrivare fino alla fine, nonostante la sensazione di precarietà figlia del Quartaccio che da sempre la accompagna. Il pezzo portato a Sanremo è stato scritto da Mahamood e da Dardust, due dei compositori e autori più di successo dell'attuale scena musicale. Sono stati proprio loro, come racconta Elodie, a proporsi per questa avventura, prima come amici che come colleghi. "Andromeda parla di una storia agli inizi, che poi è la storia tra me e Fabio. Mi piacerebbe lavorare con lui un giorno, vedere come mi vede lui, che cosa farebbe se fosse me", dice Elodie, legata da qualche mese al collega Marracash. "Parlo perché sono la tipa di Marra? Io sono Elodie, poi sono anche la tipa di Marra e se sta con me c'è un motivo. È l'uomo che ho scelto, sono orgogliosa di stare con lui. Rimango una donna forte e indipendente, anche se vengo associata a lui, sono orgogliosa di questo", termina Elodie il suo racconto, quello di una ragazza che dalle estreme periferie è riuscita a costruire la vita che voleva, senza perdersi ma tenendo dentro tutto quello che è stata la sua vita di borgata.

Elodie, la madre: “Mia figlia deve sposarsi”. Alice il 10/02/2020 su Notizie.it. La madre di Elodie ha conosciuto Marracash, e si è lasciata andare ad alcune inaspettate confessioni sul rapporto tra lui e sua figlia. In occasione della partecipazione di Elodie al Festival di Sanremo 2020 la madre della cantante, Claudia Mitai, si è lasciata andare ad alcune intime confessioni a proposito del rapporto tra sua figlia e il rapper Marracash. La madre di Elodie ha fatto alcuen confessioni inattese sul rapporto che sua figlia ha instaurato col rapper Marracash, con cui la storia prosegue dall’estate del 2019, quando i due si sono incontrati sul set del loro successo “Margarita”. Claudia Mitai, questo il nome della donna, ha dichiarato di aver conosciuto Marracash e di trovarlo il ragazzo perfetto per sua figlia, per questo ora sognerebbe il matrimonio tra i due e l’arrivo di un nipotino. Marracash e Elodie non hanno mai dato adito alle voci sui loro presunti e imminenti fiori d’arancio, ma è fuor di dubbio che tra i due la passione sia alle stelle: “L’ho invitato a cena, senza pensieri, volevo solo conoscerlo meglio. Ora mi sento un’adolescente. Sono una che controlla tutto, ma con lui non riesco a essere distaccata. (…) Con lui non c’è stato, discutiamo, ci sfidiamo, siamo già consapevoli dei nostri difetti. È una cosa onesta, viscerale”, ha dichiarato la giovane cantante all’indomani dall’inizio della sua liaison con Marracash. I due non hanno nascosto di essere molto affiatati, ma hanno anche rivelato di non voler vivere la loro storia sui social come molte altre coppie dello show business. Entrambi preferirebbero mantenere la spontaneità e la naturalezza del loro rapporto, e chissà che presto non soddisfino i desideri della mamma di Elodie facendo insieme un bambino o convolando a nozze!

Da "solodonna.it" il 29 marzo 2020. Elodie non è solo una delle più amate artiste uscite dalla scuola di Amici di Maria De Filippi. Elodie non è solo la straordinaria interprete che al recente Festival di Sanremo ha scalato la classifica con la sua Andromeda ed ora è trasmessa moltissimo in radio. Elodie è una ragazza dal grande talento, una artista che ha saputo rimboccarsi le maniche, credere nel proprio talento e nelle proprie potenzialità e mettersi in gioco. Con la sua bellissima voce – e con il suo fisico mozzafiato, abbondantemente messo in mostra sul palco dell’Ariston con abiti davvero sexy – ha incantato chi ha seguito il Festival e chi la ascolta in radio. In un’intervista al settimanale Grazia, ora in edicola, la cantante ha scelto di mettersi a nudo, ha raccontato di sé, della sua famiglia, del suo amore. Ha parlato del suo modo di essere, del suo modo di affrontare la vita, che ha sempre preso di petto, con coraggio. Oggi che ha accanto un uomo come Marracash, che la supporta, la segue, la incoraggia, la consiglia, dice Elodie al settimanale, tutto è più semplice: lui “crede in me. E lo fa perché è onesto, non perché è il mio fidanzato”. Nonostante questo e nonostante il successo che la sta baciando negli ultimi anni, Elodie vive sempre “con i piedi per terra“. Però il suo fidanzato ha davvero un potere magico su di lei: “Lui guarda lontano” e un po’ questo lo sta insegnando anche a lei, che con lui si sente felice, gratificata. Marracash “mi porta su, mi fa respirare. Siamo amanti, amici, nemici, siamo tutto”. In questo “tutto” è racchiusa l’essenza del loro rapporto, “il più bello” che Elodie abbia mai vissuto nella sua vita. Perché oggi, alla soglia dei 30 anni, sente di essere diventata “più leggera, più ragazzina” ed è così che vive la loro storia d’amore. Un amore “musicale”, nel senso che è nato proprio da un rapporto musicale, quando Elodie e Marracash insieme hanno cantato Margarita, diventato poi una hit. Nell’intervista a Grazia c’è stato spazio anche per le confidenze ancora più personali, private. Elodie parla anche del rapporto con la sorella, alla quale è legatissima. Le due ragazze sono unite, amiche, complici. Elodie c’era quando sua sorella ha iniziato a maturare la propria omosessualità: “Che lei fosse omosessuale, l’ho capito prima di lei“, ha confidato l’artista di Amici. Naturalmente “è stato un percorso lungo. Quando me l’ha confidato, piangeva. Tutti in famiglia l’avevamo capito, mio padre in questo è sempre stato aperto e ci ha parlato con naturalezza di sesso, senza fare riferimento al genere”.

·        Elton John.

Daniela Seclì per "fanpage.it" il 26 agosto 2020. Continua la battaglia legale di Renate Blauel contro l'ex marito Elton John. La donna ha chiesto al cantante oltre 3 milioni di euro di danni per non essersi attenuto all'accordo previsto in sede di divorzio. Ciò che ha mandato su tutte le furie la Blauel, che lavora come tecnico del suono, è il fatto che nella biografia dell'ex marito ci sia un capitolo dedicato al loro matrimonio. A quanto pare, aveva chiesto espressamente di non essere citata. L'uscita del libro avrebbe innescato in lei il risveglio di "preesistenti problemi mentali". Renata Blauel avrebbe tentato il suicidio nel 1984. La BBC riporta alcuni dettagli contenuti nei documenti legali depositati dall'avvocato della Blauel presso l'Alta Corte di Londra. A supporto dell'esistenza di radicati problemi mentali, si cita quanto sarebbe avvenuto mentre la donna era in viaggio di nozze con Elton John. Sul sito della BBC si legge: "L'ex moglie di Elton John, Renate Blauel, ha tentato il suicidio durante la luna di miele nel 1984, secondo i documenti legali depositati presso l'Alta Corte di Londra. La signora Blauel parla di una overdose di Valium dopo che il marito le disse che "il matrimonio non stava funzionando e che voleva lasciarla", dopo 3 giorni che soggiornavano a Saint-Tropez". Adam Wolanski, legale di Renate Blauel, sostiene che Elton John conosca perfettamente i problemi di salute della sua ex moglie che includono anche "depressione e ansia". Problemi che sarebbero tornati alla ribalta a causa della pubblicazione della biografia del cantante. Sembra, infatti, che i giornalisti siano tornati a interessarsi a lei, cercandola con insistenza e innescando reazioni di grande ansia.

La replica dei legali di Elton John. Gli avvocati di Elton John hanno ammesso l'esistenza di un accordo firmato dopo il divorzio, ma ritengono che il loro assistito non abbia "causato danni psicologici" all'ex moglie. Jenny Afia, legale del cantante, ha dichiarato: "Elton ha sempre rispettato la privacy di Renate e continuerà a farlo. È ampiamente documentato che il loro matrimonio è stato carico di rispetto e che il rapporto che Elton e Renate hanno avuto dopo il divorzio ha continuato a essere gentile, rispettoso e onesto per 30 anni. È sconcertante che la causa ruoti attorno alla privacy, quando Renate ha scelto di rendere queste accuse di dominio pubblico. Questo mostra il vero proposito delle sue richieste che è togliere una grossa somma di denaro a Elton e sporcare il suo nome pubblicamente con delle bugie".

L'ex moglie di Elton John, Renate Blauel, gli fa causa: presentata un'ingiunzione. Rimasta in silenzio per oltre trent'anni, la donna tedesca che sposò il cantante nel 1984 ha aperto un procedimento legale contro di lui all’Alta Corte di Londra. Enrico Franceschini il 26 giugno 2020 su La Repubblica. Torna in scena dopo trent’anni di silenzio l’ex moglie di Elton John: non su un palcoscenico, bensì in una corte di giustizia. Renate Blauel, che sposò il cantante il giorno di San Valentino del 1984, divorziando nel 1988, ha aperto un procedimento legale contro di lui all’Alta Corte di Londra. La notizia è riportata stamane dai giornali inglesi senza fornire, per il momento, i dettagli del ricorso: la sostanza del procedimento è coperta dalle leggi sulla privacy. Si sa soltanto che Blauel ha presentato “un’ingiunzione” contro Elton: in linguaggio giuridico significa in genere la richiesta di saldo di un debito da parte di un creditore. Può darsi dunque che si tratti di un accordo finanziario tra la coppia stipulato quando terminò il loro matrimonio e che, secondo l’ex moglie, lui non ha soddisfatto come previsto. Di solito si ricorre a un’ingiunzione per impedire la pubblicazione di certi materiali. L’avvocato di Elton John rifiuta di fare commenti. L’avvocato di Renate Blauel si limita a dire che spera di risolvere la disputa “amichevolmente”. Di origine tedesca, Renate incontrò il cantante inglese mentre lui stava registrando l’album Too Low for Zero, quasi quarant’anni or sono. Si sposarono l’anno successivo durante la sua tournée in Australia. Dal matrimonio non sono nati figli. Dopo il divorzio, Elton annunciò di essere gay e più tardi si è risposato con David Furnish, insieme al quale ha ora due bambini. Di lei da allora non si era più sentito parlare, fino alla pubblicazione lo scorso anno dell’autobiografia del cantante e all’uscita di Rocketman, il film che ne è stato tratto, in cui la loro relazione viene brevemente ricordata. Nel libro, Elton parla con affetto di Renate: “Ho spezzato il cuore di una donna che amavo e che mi ha amato incondizionatamente. Lasciarsi è stato doloroso, ma senza acrimonia. Per anni, ogni volta che mi succedeva qualcosa, la stampa si presentava alla porta di casa sua per raccogliere qualche gossip maligno, ma lei ha sempre rifiutato di dare interviste”. Il cantante ricorda che, dopo avere avuto dei figli, invitò una volta Renate a casa propria “perché volevo farglieli vedere, volevo che in qualche modo facesse parte anche lei della nostra vita, ma lei declinò l’invito e ho rispettato la sua scelta”. 

Da leggo.it il 24 luglio 2020. L'ex moglie di Elton John, Renate Blauel, ha chiesto un risarcimento di circa 3 milioni di sterline alla star, sostenendo che il cantante abbia infranto i termini del loro accordo di divorzio. La Blauel, ingegnere del suono che è stata sposata con la star per quattro anni, gli sta facendo causa per alcuni passaggi che la riguardano nel libro di memorie di Elton John 'Mè e nel film "Rocketman". Blauel afferma che entrambi i lavori rivelano dettagli del loro matrimonio, contravvenendo all'accordo di riservatezza fatto quando divorziarono nel 1988. E che queste rivelazioni le hanno creato problemi di salute mentale. Gli avvocato di Elton John hanno riconosciuto l'esistenza dell'accordo di divorzio ma ne hanno negato qualsiasi violazione così come la possibilità di aver causato «danni psicologici» alla donna. Secondo i documenti depositati dalla Blauel il mese scorso presso l'Alta Corte di Londra, Elton John aveva accettato di rimuovere alcuni passaggi dalla sua autobiografia prima che fosse pubblicata l'anno scorso, e nella versione finale, la signora Blauel appare solo in otto pagine. Elton John, in realtà, descrive la donna in termini positivi nel libro, definendola una persona «che non posso criticare in alcun modo». Tuttavia, Blauel afferma che alcuni dei passaggi rimasti nel libro «hanno travisato gravemente la natura della loro relazione». Ad esempio, nel suo libro Sir Elton affermava di non aver iniziato il loro matrimonio con l'intenzione di dare vita ad una famiglia. Ma Blauel sostiene invece che «hanno tentato di avere figli durante la loro relazione ma non sono riusciti ad averli». Una richiesta di rimozione di questo passaggio è stata respinta, secondo i documenti del tribunale. La donna sostiene anche di non essere stata consultata sulla sua apparizione in “Rocketman”: nel film la donna è stata interpretata da Celinde Schoenmaker, anche se il matrimonio occupa una scena di meno di cinque minuti. La Blauel ha anche lamentato che, in occasione dell'uscita del film e del libro, una giornalista aveva cercato di rintracciarla, causandole «grande ansia». L'avvocato della Blauel, Yisrael Hiller, ha detto alla Bbc che Elton John ha «ignorato» la promessa di mantenere privati i dettagli del loro matrimonio. «Renate è particolarmente turbata dal film», ha aggiunto. «Il film cerca di dipingere il loro matrimonio come una finzione, una visione che lei contesta con tutto il cuore e considera una rappresentazione falsa e irrispettosa del tempo che hanno trascorso insieme», ha proseguito il legale. «Renate pretende la privacy che le è stata promessa, ecco perché sta facendo un'ingiunzione. Qualsiasi richiesta di risarcimento è secondaria e coprirebbe solo i danni e le spese future causate dalle violazioni di Elton», ha concluso il legale della donna. La citazione depositata non suggerisce una cifra per i danni, ma la somma di 3 milioni di sterline viene citata nella difesa di Elton John, come una somma di cui si è parlato nella precedente corrispondenza tra le due parti. Una fonte vicina al cantante ha detto alla Bbc: «Elton è scioccato e rattristato dal comportamento di Renate dopo 30 anni di divorzio consensuale amichevole e rispettoso, soprattutto perché lui l'ha sempre elogiata pubblicamente». La coppia si incontrò nel 1983, mentre Elton John registrava il suo album 'Two Low For Zerò negli Air Studios di Londra, dove la Blauel lavorava come ingegnere del suono. La coppia si sposò l'anno seguente in Australia, con la signora Blauel che definì il neosposo: «Il ragazzo più simpatico che abbia mai incontrato». Quattro anni dopo arrivò il divorzio. D'altronde, Elton John già nel 1976 si era dichiarato bisessuale e successivamente disse che si sentiva piuttosto a suo agio come gay. Nel 2005, poi, la star ha sposato il regista David Furnish nel 2005, e la coppia ha avuto due figli. Finora la Blauel ha mantenuto un profilo basso dopo divorzio, mentre è capitato che Elton John abbia parlato del suo senso di colpa e del rimpianto per la ferita che le aveva causato.

Massimo Cotto per il Messaggero il 14 giugno 2020. Non era previsto che parlassimo di quell'argomento. Iniziammo parlando di canzoni. Gli citai Truffaut, «i film sono come la vita, ma senza tempi morti e senza ingorghi, avanzano come treni nella notte». Gli chiesi che cosa fossero le canzoni.  «Le canzoni sono momenti che attraversano la mia esistenza. Sono importanti, un veicolo che trasmette le mie emozioni - come potrei comunicare con la gente, altrimenti? - ma non sono tutto. Se lo fossero, vorrebbe dire che nella mia vita c'è qualcosa che non funziona». Citò il suo vecchio amico Gianni Versace, assassinato quattro anni prima. «Mi raccomandava sempre di assorbire la bellezza della vita come una spugna: mi mostrava come scoprire la meraviglia nelle chiese, in strada, in campagna. Assorbire la bellezza e trasformarla in arte. Questo faceva lui, questo cerco di fare io. Rubo la felicità a ogni singolo giorno, in attesa di sapere quando arriverà il mio, spero il più tardi possibile». Poi, da un vecchio ricordo d'infanzia, l'intervista prese lentamente una piega diversa e fu lui a dargliela. Io non lo spinsi in nessun modo. «Da piccolo, quando i miei genitori litigavano, fuggivo nella mia stanza per ascoltare dischi o la radio o suonare il piano. Da quando ho tre anni, la musica è la mia compagna di vita, mia moglie, la prima fidanzata, il primo fidanzato. Nei momenti di dolore e peggior tristezza, mi ha accompagnato e, nei limiti del possibile, curato le ferite. Quando mi drogavo, nel periodo peggiore, ovvero quando ero perfettamente consapevole di dove stavo scivolando, una canzone mi è servita a resistere: Don't Give Up, di Peter Gabriel e Kate Bush. La ascoltavo e continuavo a ripetere ad alta voce: Non mollerò, non getterò la spugna. E piangevo, piangevo fino a non avere più lacrime. Vedi, gli altri possono dire quello che vogliono, ma la musica è ancora un veicolo di liberazione e catarsi». Gli dissi, riprendendo le sue parole, che gli altri possono dire quello che vogliono, ma l'idea che un uomo non debba piangere perché non deve mostrare debolezza, a me sembrava una solenne sciocchezza. Si alzò in piedi e mi abbracciò. «Io piango in continuazione. Quando vedo film tristi o ascolto musica malinconica o splendida. Non riesco a sentire le Variazioni Enigma senza commuovermi. Piango davanti a una fotografia, a un quadro. Piango molto, forse troppo. Amo le lacrime. Mi fanno piangere». E giù una risata.

L'ILLUSIONE. Da quel momento, fu una confessione più che un alternarsi di domande e risposte. Elton John diventò torrente. «Io ho rovinato la vita delle persone che amo, per un certo periodo. Mia madre mi odiava, i miei amici mi evitavano: ero arrogante e insopportabile. Perché mi drogavo, anche se avevo tutto? Gli artisti non hanno mai tutto, sono gli altri che lo credono. All'inizio, la cocaina mi dava eccitazione, esaltazione, gioia. Il danno peggiore che mi ha provocato è stata l'illusione che il mio lavoro, in quel periodo, fosse davvero valido. Va detto che è stata una fortuna che io abbia continuato a suonare. Non l'avessi fatto, ora sarei morto, perché avrei passato tutto il tempo a sniffare. Sono andato in tour ogni anno, e ogni anno sono salito sul palco... anche se non ricordo niente di quel che ho fatto sul palco!». Immagino non sia facile venirne fuori, dissi. «Solo riflettendo sui miei sbagli, sono riuscito a trasformarmi da quel che ero un alcolizzato che passava la notte a bere, un tossico che consumava quantità sconsiderate di cocaina, tanto che perfino George Harrison, una volta, mi raccomandò di andarci piano in un essere umano. Ho imparato ad ascoltare, a seguire i consigli della gente, a pensare che non ero l'unico depositario della verità, perché nessuno possiede questo dono; ho imparato a chiedere scusa e a chiedere aiuto. Il drogato tarda a disintossicarsi perché è convinto di essere in grado di venirne fuori da solo. La droga devasta anche le persone intelligenti. Prima di iniziare a drogarmi pensavo: hai scalato fino alla cima ogni gradino, sei diventato qualcuno, hai una forza di volontà tale da sradicare un albero, vuoi non essere capace di lasciare la cocaina quando vuoi? E invece ho dovuto chiedere aiuto».

LA RINASCITA. Da lì, per Elton John, è stata rinascita. Un rapporto ritrovato con Bernie Taupin, il suo storico paroliere, e con il pubblico. E il successo ritorna a essere clamoroso. Gli chiesi se il successo l'avesse più viziato, nutrito, aiutato o danneggiato. Fu l'unica domanda alla quale non rispose di getto. Ci pensò su, poi disse: «Un po' di tutte queste cose. Mi ha ispirato e aiutato a incontrare persone meravigliose, ma mi ha anche reso egoista, intrattabile e insopportabile, perché pensavo che tutto mi fosse concesso. Il successo ti trasforma in un mostro. La maggior parte degli artisti lo è. Ho sperimentato tutto e lo sperimento ancora, ogni giorno. La mia vita è stata una bellissima, surreale corsa sulle montagne russe, densa di riconoscimenti e ricompense che, però, solo ora che sono disintossicato, sono in grado di apprezzare». Prima di chiudere, gli chiesi il permesso di una domanda cretina. Rispose: «Sia la benvenuta dopo tanta serietà». Dissi: cosa farà scrivere sulla sua tomba? Elton John rise fragorosamente, poi rispose: «Il numero della mia carta di credito! Ho il terrore di rimanere senza soldi. Metti che nell'aldilà ci siano cose belle da comprare e io rimanga senza contanti!». 

·        Ema Stockholma.

Dagospia il 26 febbraio 2020. Da I Lunatici Radio2. Ema Stockholma è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Ema ha parlato del suo libro 'Per il mio bene' in cui racconta degli abusi e le violenze subite dalla madre: "Non ne ho parlato per 36 anni. Poi ho sentito un caso si cronaca, di un bambino a Napoli morto in casa, ucciso dalle botte. Tutti si sono indignati, giustamente, però sono cose che succedono più spesso di quanto si pensi. E siamo tutti complici di certe cose. Perché quando un bambino muore in casa, non è la prima volta che le prende. Bisogna sbirciare tra le tende dei nostri vicini. Bisogna capire di più cosa succede ai nostri bambini. Io avevo bisogno di essere aiutata. Mia madre, a sua volta, aveva bisogno di aiuto. Così ho iniziato a scrivere. Per spezzare questo tabù. Per aprire gli occhi della gente. Io non ho usato il libro come una terapia, terapia la faccio già a parte. Ho iniziato a stare meglio non quando l'ho scritto, ma quando altri hanno iniziato a leggerlo. E' come se fosse andata via una parte di rabbia. All'improvviso mi sono sentita compresa. Calma. Non dovevo più lottare da sola". La Stockholma ha aggiunto: "Centinaia di persone che hanno vissuto esperienze simili alla mia mi hanno scritto. Sono moltissime le situazioni simili. E' spaventosa questa cosa. Spesso ci si vergogna di parlarne. Se vedi una che lavora in Radio, che hai visto a Sanremo, che ne parla, forse capisci che non c'è niente di cui doversi vergognare. Mi hanno scritto anche molti genitori che leggendo il mio libro hanno capito che devono affrontare il loro lato oscuro". Ancora Ema: "Quando ho iniziato a pensare che mia madre fosse un mostro? Non lo ricordo. L'ho pensato da sempre. E' come se fossi nata con questa consapevolezza. Ricordo benissimo quando invece a quindici anni ho promesso a me stessa che quella sarebbe stata l'ultima volta in cui avrei preso le botte. Ho preso e son partita. Avevo 15 anni. Sono scappata. Me ne sono andata. Istinto di sopravvivenza". Sul pericolo di convivere con il senso di colpa: "Mia madre mi diceva delle cose talmente assurda che io anche se ero piccola e avevo quattro o cinque anni sapevo che non avevo fatto niente. Sapevo che il problema ce l'aveva lei. Verso mia madre non ho mai avuto sensi di colpa. Verso mio fratello sì. Quando sono andata via di casa l'ho lasciato lì. Mi sono sentita in colpa per averlo abbandonato. Ci ho dovuto lavorare molto. Oggi siamo legatissimi". Sul perdono: "Io non sono cattolica, quindi per me il perdono non è una cosa obbligatoria. La comprensione e l'empatia per me sono obbligatorie. Provo empatia verso questa persona che mi ha fatto del male che però a sua volta ha sofferto. Io non ho ricevuto nessun aiuto ma neanche lei. Non la perdono perché alcune cose me le ricorderò per sempre. Non dobbiamo per forza fare i finti buonisti. I sentimenti negativi sono comunque sentimenti importanti. Però bisogna provare empatia. Sempre mettersi nei panni dell'altra persona". Sull'amicizia con Andrea Delogu: "Siamo amiche davvero. Non abbiamo mai litigato anche se siamo diverse su tutto. Gusti, musica, modi di vivere. Lei è il giorno, io sono la notte. Lei alle 23 anche se è a cena si spegne, si addormenta sul tavolo. Siamo l'opposto su tutto, ma Andrea è una delle poche persone che questa storia che ho raccontato nel libro l'ha veramente ascoltata e capita. E' una donna coraggiosa e poi è divertente. Fa ridere tanto, credo sia unica. Non conosco qualcuno come lei".

Da "leggo.it" il 25 ottobre 2020. La dj Ema Stokholma, ex concorrente di Pechino Express, ha denunciato molestie sessuali. Sulla sua pagina Instagram, tra le stories, ha raccontato cosa le è successo solo ieri durante il sound check alla Mole di Torino per l’esibizione in occasione della festa di San Giovanni. Qualcuno, senza che lei lo notasse, le ha messo un telefono in basso, sotto la gonna, registrando tutto. «Mi hanno ripresa dal basso verso l’alto, inquadrando le parti intime», ha spiegato, raccontando di aver preso il telefono e controllato cosa ci fosse, per poi scoprire che c'erano molti altri filmati simili a quello che le era stato fatto.  «Mentre stavo facendo il sound check mi sono accorta della presenza di un cellulare vicino alla mia postazione e, quando mi sono avvicinata, ho visto che mi stava riprendendo». Oltre a lei anche altre vittime: «Una donna, in jeans, che mentre saliva le scale della Mole veniva videoripresa dal basso verso l’alto sotto, proprio com’è stato fatto con me». La dj ha sporto denuncia alla polizia, ma quello che l'ha indignata è stata la reazione degli uomini che stavano intorno a lei a cui ha detto cosa era accaduto: «Quando ho chiesto di chi fosse il telefonino e ho trovato il proprietario, tutti, tranne il mio manager, hanno cercato di minimizzare l’accaduto pesando la cosa come uno stupido scherzo, una goliardia».

Maria Elena Barnabi per “il Messaggero” il 26 ottobre 2020. La donna su cui Rai Radio2 sta puntando per intercettare i giovani è francese, piena di tatuaggi, esperta di rap e periferie. Si chiama Ema Stokholma, ha 36 anni, un passato da modella, uno da barbona, un altro ancora da cubista fino a quando non si è scoperta dj. Nel 2015 Ema, che di vero nome fa Morwenn Moguerou (il nome d' arte l' ha scelto perché innamorata della città svedese), si è inventata il programma culto Back2Back, due dj che si sfidano a suon di musica: la Rai l' ha messa alla prova per due anni nei weekend e poi l' ha promossa. Dal 2017 con la sua inconfondibile erre francese va in onda su Radio2 dal lunedì al venerdì, alle 21, in coppia con Gino Castaldo, il guru del giornalismo musicale italiano. Ma non è tutto: dopo la vittoria nel 2017 del reality show di Rai2 Pechino Express, per Radio2 ha seguito tre edizioni di Sanremo, Eurovision, Castrocaro Terme. E dal 2 novembre condurrà su Rai 4, dalle 23.15, Stranger Tape in Town, un programma sui protagonisti della trap italiana e sulle periferie in cui sono cresciuti.

La Rai conta tanto su di lei: perché?

«Me lo chiedo anch' io. Quando ho iniziato non avevo mai fatto radio. Sono solo un' esperta di musica di periferia perché è lì che sono cresciuta. Per questo ho 36 anni e ascolto le canzoni dei sedicenni».

Tutto qui?

«Sono una donna e la direttrice di Rai Radio2 Paola Marchesini vuole valorizzarci. Mi ha dato fiducia e io mi sono subito innamorata del mezzo».

Com' è andata?

«Mi ha spinto la mia amica Andrea Delogu, che ho conosciuto anni fa quando io facevo la dj e lei la vocalist. Andrea lavorava già a Radio2 e ha insistito tanto affinché con la mia voce provassi anch' io. L' idea di Back2Back è nata così: prima con Don Joe, ex dei Club Dogo, poi per un anno con tanti ospiti della scena rap italiana: Fabri Fibra, Emis Killa, Luchè, Shade, Frankie Hi-Nrg e Gemitaiz, che allora era il mio fidanzato».

Quel Gemitaiz rapper romano che nel 2014 è stato arrestato per questioni di droga?

«Sì, lui».

A lei è mai successo?

«No. Nel 2016 però, di ritorno da Amsterdam, sono stata fermata all' aeroporto di Bologna perché un cane aveva sentito odore di marijuana, che non avevo. La cosa da ridere è che il foglio per dirmi che era tutto a posto me l' hanno consegnato tre anni dopo, mentre ero a Sanremo per il Festival. La polizia venne alle 8 del mattino nel mio albergo per portarmi nei loro uffici. Vicino a me c' era Boss Doms, il chitarrista di Achille Lauro, che - terrorizzato - pensava cercassero lui».

Torniamo alla radio. Dal 2017 è in coppia con Castaldo: come vi siete incontrati?

«L' idea è stata della Rai. Siamo una strana coppia che funziona benissimo. Io metto un pezzo mio, di rap o trap, e lo spiego, e Gino mette un pezzo che ha fatto la storia, e racconta aneddoti: cene con Fifty Cent, Robert De Niro, Al Pacino Ha incontrato tutti. Ho imparato tanto da lui».

I giovani vi ascoltano?

«Certo. E molti lo fanno assieme ai genitori. Io voglio abbattere i muri tra adulti e ragazzi. Non è vero che la musica di oggi fa schifo, le cose si ripetono di generazione in generazione. Mia madre, per dire, mi criticava perché ascoltavo le Spice Girls».

Molti cantanti trap parlano solo di droga, lusso, soldi...

«Ozzy Osbourne addentò un pipistrello, c' è mai stato qualcuno che ha fatto altrettanto? Tanti parlano di altro, però. È importante che la Rai dia spazio a giovani artisti come Madame, Frah Quintale, Rosa Chemical e tanti altri».

Si impegna per i giovani perché la sua infanzia le è stata rubata da una madre violenta, come racconta nel suo libro Per il mio bene?

«Sì. I bambini e i giovani sono indifesi e vanno aiutati. Mia madre, che ora non c' è più, mi ha sempre picchiato. Pugni e calci tutti i giorni, fino a quando non si stancava. Mi trascinava a fare bagni freddi di notte, a quattro anni mi accusava di avere rapporti sessuali. Un giorni mi chiese di buttarmi nel fiume».

Come riuscì ad andare avanti?

«Nonostante fossi piccolissima, capivo che diceva cose senza senso, pensavo: Questa è pazza. Sono scappata più volte, ma la polizia mi ha sempre riportata a casa».

Perché ha raccontato la sua storia?

«Quando due anni fa ho letto dell' ennesimo bambino morto in casa, vittima di violenza, ho deciso di parlare. Tutti criticavano i genitori, ma la colpa è di quelli che chiudono gli occhi di fronte ai lividi dei bambini, ai loro comportamenti strani. Nessuno ha aiutato me e mio fratello, o mia madre che stava male. Invece quando si vede un bambino in difficoltà bisogna intervenire: chiedere, segnalare, denunciare».

Si è salvata scappando di casa a 15 anni, raggiungendo Roma dove c' era suo padre.

«Sì. Lui, però, non mi aiutò. Il nostro rapporto devo ancora risolverlo. Ero alta e magra, tutti mi dicevano che avrei dovuto fare la modella, e così feci. Avevo le misure da mannequin e Laura Biagiotti e Fendi mi cucivano addosso le collezioni, viaggiavo in tutta Europa».

Eppure lei a 21 anni mollò tutto per andare a vivere a Londra. Sotto i ponti.

«Credevo che Roma sarebbe stata la mia salvezza, e mi sbagliavo. Ho cominciato a stare meglio a 30 anni. Prima ho voluto farmi del male da sola, era il modo per esistere. Scelsi la vita più difficile, quella della strada. Così partii. Da sola e senza un soldo».

Come se la cavò?

«Io da bambina ho vissuto l' inferno. Niente poteva essere così. Niente mi spaventava. Mi imbruttii, tagliai i capelli lasciandomi solo un lungo dread, feci mille piercing, con i tatuaggi ero già a buon punto... e via: ero pronta a tutto».

Quanti tatuaggi ha?

«Più di trenta. Ora li toglierei tutti, non sono più quella persona lì».

Dove dormiva?

«Negli squat, le case occupate, a volte così malandate e puzzolenti che era meglio la strada. C' erano un sacco di ragazzi italiani».

Ha scritto che si arrangiava anche illegalmente.

«Mi è capitato di rubare cibo e vestiti nei supermercati, per me e i miei amici. Mi è capitato anche di mangiare dalla spazzatura, fuori dai McDonald' s. Non me ne vergogno».

Quanto andò avanti con questa vita?

«Due anni. Andavo a un sacco di rave, era una vita al limite. Un giorno mi sono detta: se vado avanti così muoio. Sono tornata».

Storie di droghe?

«Preferisco non parlarne. Non mi drogo più da moltissimi anni».

Tornata in Italia cosa fece?

«Ripresi con la moda, e poi iniziai a fare la cubista. Entravo gratis in tutte le discoteche di Milano. Lì mi sono resa conto che avevo molto più gusto musicale di tanti che sentivo e venivano anche pagati bene. Così con i guadagni di qualche sfilata ho comprato un mixer e ho iniziato a suonare nei locali. Era il 2009».

Dopo la modella e la squatter, questo è il terzo nuovo inizio che sta raccontando. E aveva solo 26 anni.

«Per tre anni ho fatto la fame: in Romagna mi davano cento euro a sera, che bastavano per il viaggio, così dormivo in spiaggia. Poi le cose sono migliorate e oggi posso dire che in Italia ho suonato dappertutto. Idem a Ibiza, Formentera».

Ha continuato a fare serate pazze come a Londra?

«Quando ero con Andrea Delogu no, lei è astemia... Mi andava meglio quando ero con il mio amico Davide: me lo ricordo una mattina che cantava Britney Spears fuori dal mitico Cocoricò di Misano con i pantaloni abbassati e le chiappe di fuori».

Le dj donne sono rare. Ha ricevuto molte avances in consolle?

«Zero. Non ho mai battuto chiodo. Gli uomini con me non ci provano. È da due anni che sono single, prima avevo un ragazzo francese che mi ha spezzato il cuore.

Ora ho solo un toy boy. Ma non posso dire di essere corteggiata».

È una bella donna. Come mai?

«Non lo so. Forse con il mio vocione sembro una tipa aggressiva. E in effetti qualche problema con l' aggressività, soprattutto con gli uomini, in passato l' ho avuto. Sarà stato per via della mia infanzia. Ma è stata una delle prime cose che ho voluto mettere a posto con l' analisi».

Ora non vuole più fare la dj?

«È un lavoro durissimo. Per dodici anni sono andata a letto alle 8 del mattino, per svegliarmi alle 19 e fare colazione mentre tutti cenavamo. Ho preso migliaia di aerei, non ce la faccio più. Mi sono disamorata. Invece la radio è un amore che cresce giorno dopo giorno».

Cosa le piacerebbe fare in futuro?

«Mi basterebbe sapere che tra vent' anni sarò ancora in onda. E magari diventare il Gino Castaldo della trap».

·        Emma Marrone.

Emma Marrone: "Sono definitivamente uscita dalla malattia". Pubblicato giovedì, 27 agosto 2020 da Anna Puricella su La Repubblica.it La cantante nel settembre 2019 aveva annunciato uno stop forzato per affrontare il ritorno del male che l'aveva colpita negli anni passati. Alla vigilia dell’uscita di un nuovo singolo la cantante salentina racconta la sua rinascita. Il tumore appartiene definitivamente al passato. Emma Marrone ha vinto la battaglia contro la malattia, e ora può finalmente piangere di gioia. La cantante di origini salentine si è confidata in un'intervista a Grazia, che le dedica la copertina. Ed è finalmente libera. L'ultimo momento di terrore è stato agli inizi di agosto, quando ha ricevuto una telefonata: "Quando ha squillato il telefono, era il mio medico - racconta - Ho pensato: "Ci risiamo". Ho pensato che dovessi ricominciare tutto da capo. Invece mi diceva che in base agli ultimi esami sono uscita definitivamente dalla malattia". Un percorso che l'ha ostacolata per anni, nonostante sia riuscita a inanellare successi, pubblicare dischi, salire sui palcoscenici. La sua storia con la malattia è cominciata quando aveva 24 anni e faceva la commessa a Lecce. Arrivò la prima diagnosi, cancro all'utero e alle ovaie, ma Emma non si fermò: affrontò l'operazione e si presentò poco dopo al provino di "Amici", e da lì cominciò la sua seconda vita. Il talent di Maria De Filippi lo vinse (era il 2009), e non volle far leva sulla malattia per conquistare il favore del pubblico. Vinse la sua voce, vinse la sua energia. Ma quell'ombra che si portava dentro volle renderla pubblica, e fu lei stessa poco dopo a parlare per la prima volta del suo vissuto: "Da quando sono scampata al male mi sento un po' fortunata e un po' missionaria nei confronti nei giovani - diceva - A loro dico: mi raccomando, non bisogna vergognarsi di andare dal medico". Non era finita. Mentre conquistava il palco del Festival di Sanremo - arrivando seconda nel 2011 con i Modà, e poi prima un anno dopo con "Non è l'inferno" - la malattia c'era ancora, ed è tornata a farsi sentire. Emma aveva già subito due interventi, ma non era finita. È il 2019 quando l'incubo sembra ricominciare. L'artista ha più volte speso le sue parole e il suo volto per sensibilizzare i giovani - e non solo loro - alla prevenzione, ma si trova nuovamente faccia a faccia con il tumore. Ha 35 anni, sta per uscire il suo ultimo album "Fortuna", ma è costretta a fermarsi. Lo fa con un annuncio su Instagram, citando John Lennon e ricordando che "la vita è ciò che ti accade quando sei tutto intento a fare altri piani". Torna in ospedale, si opera nuovamente e per avvisare tutti dell'esito positivo dell'intervento pubblica una foto del suo braccialetto ospedaliero. Nel frattempo non si è mai fermata, e anzi aveva programmato un concerto unico all'Arena di Verona nel giorno del suo 36esimo compleanno. A scombinare i suoi piani ci ha pensato il Covid-19. L'evento è stato rimandato di un anno, intanto Emma ha lavorato al cinema - è nel cast del film "Gli anni più belli" di Gabriele Muccino - ed è giudice della prossima edizione di X Factor (con Manuel Agnelli, Mika, Hell Raton). Vita nuova, ancora una volta, e che la strada stavolta fosse quella giusta la cantante l'aveva già intuito all'inizio dell'estate, dopo un controllo medico dall'esito positivo. Ora la conferma definitiva. "Non ho pianto prima di entrare in sala operatoria né dopo - racconta - Mi hanno aperto a metà per ben due volte in questi anni. Ho discrezione nel pianto come nel riso". Le cicatrici le aveva volute mostrare ai fan con una foto del suo ventre, contenuta nell'edizione deluxe dell'album "Essere qui". Ora, invece, la prima cosa che ha fatto è stata chiamare sua madre. E intanto il lavoro continua: il 28 agosto Emma torna in radio con "Latina", singolo scritto per lei da Dario Faini, Edoardo D'Erme (Calcutta) e Davide Petrella, con la produzione di Dardust.

Emma Marrone: “Junior Cally? L’arte deve essere libera”. Alice il 31/01/2020 su Notizie.it Dopo le polemiche Emma Marrone è accorsa in difesa di Junior Cally e Amadeus per le critiche scoppiate a Sanremo 2020. Dopo le polemiche che hanno investito Amadeus e Junior Calli alla 70esima edizione del Festival di Sanremo, Emma Marrone, di recente uscita dalla malattia, ha voluto dichiarare la sua opinione in merito.

Emma Marrone e Junior Cally. Al Festival di Sanremo 2020 sono scoppiate numerose polemiche: la prima riguarda Amadeus e la sua frase su Francesca Sofia Novello, scelta a suo avviso per la sua capacità “di stare un passo indietro a un grande uomo”. La seconda invece ha a che fare con un testo di Junior Cally giudicato sessista. Emma Marrone ha replicato alle critiche dichiarando che secondo lei l’arte “deve avere la libertà di esprimersi” mentre su Amadeus ha dichiarato: “Credo che sia stato frainteso. E lo direi anche se non fossi stata invitata. Amadeus non è un sessista o maschilista e non denigra le donne. Questa polemica sminuisce il dibattito: i toni vanno inaspriti quando si parla di vera violenza sulle donne.” La cantante, da poco uscita dalla sua seconda battaglia contro la malattia, ha detto che su consiglio dei medici non farà più la tinta ai suoi capelli, e invece per quanto riguarda i ritocchini di chirurgia plastica si è detta fermamente contraria, affermando che come sua madre preferirebbe usare solo della buona crema e un po’ di rimmel, accettando che il suo corpo cambi col passare del tempo. In tanti sono impazienti di vederla sul palco dell’Ariston dove finora non sono mancate polemiche di ogni tipo: il direttore artistico di questa edizione ha comunque promesso che sarà uno show memorabile e ricco di sorprese.

Emma Marrone rompe il silenzio: "Così è finita tra me e Stefano". Un amore nato tra i banchi di scuola di Amici di Maria De Filippi, ma poi finito improvvisamente. Ed ecco che, finalmente, Emma Marrone svela il motivo della loro rottura. Ludovica Marchese, Martedì 03/03/2020 su Il Giornale. Emma Marrone e Stefano De Martino sono stati una delle coppie più belle del mondo dello spettacolo. Lei cantante e lui ballerino, la coppia ha condiviso un pezzo di strada insieme, ma alla fine la loro storia d’amore non ha resistito alle prove che la vita gli ha messo davanti. Come ricordiamo, i due si sono conosciuti all’interno del talent show di Amici di Maria De Filippi e sono stati insieme per quasi due anni. Emma e Stefano hanno vissuto un grande amore, fatto però di alti e bassi. Stefano De Martino infatti ha lasciato una prima volta Emma Marrone perché ebbe un vero e proprio colpo di fulmine per la collega di Amici 10 Giulia Pauselli. Una storia che non è però durata molto e che si è conclusa con il ritorno di Stefano dalla salentina. Dopo il flirt Emma ha perdonato Stefano riaccogliendolo di nuovo tra le sue braccia, ma poco tempo dopo il ballerino si buttò in una nuova relazione, quella conosciuta ai più, con la splendida showgirl argentina Belen Rodriguez. Insomma, il loro è stato un amore intenso ma piuttosto travagliato. Non è mai stato chiaro il motivo della loro rottura e le riviste di gossip si hanno ricamato su con estrema facilità. Tuttavia, in un’intervista che Stefano De Martino ha rilasciato qualche anno fa al settimanale Di Più Tv, si potrebbe intendere che la crisi tra i due non sia sopraggiunta, come tutti credono, a seguito della conoscenza di Belen, ma per incompatibilità su argomenti della vita molto importanti e per priorità differenti. Ma è proprio in questi giorni che finalmente è arrivata la verità sulla loro rottura ed a parlare è stata proprio Emma Marrone, ormai una star a livello internazionale. "Io e lui avevamo creato un pezzettino magico nel nostro privato: eravamo felici così e non avevamo bisogno di nient’altro […]", ha esordito Emma nel corso di un’intervista per il magazine Chi. Poi l’inaspettato: "All’improvviso uno tsunami ha travolto tutto e tutti, e a quel punto ho temuto davvero che tutti i sacrifici che avevo fatto per la mia musica fossero cancellati da quel maledetto circo mediatico. Ho saputo custodire i miei sentimenti. Non sono mai esplosa con esternazioni di rabbia e vendetta. Con copertine studiate ‘ad hoc’. Ho abbracciato il silenzio e aspettato di capire tutto lucidamente". Insomma, contrariamente a quanto abbia affermato Stefano in passato, dalle parole di Emma Marrone sembra davvero che tra loro ci fosse davvero una terza persona. Infatti, dopo soli pochi mesi dalla loro rottura è spuntata la modella argentina. Sta di fatto che Emma ha saputo riprendersi alla grande, nonostante le difficoltà di salute. Che dire? Un esempio per tutte le donne che si sono trovate nella sua stessa infelice situazione.

Emma Marrone: «Ogni anno azzero tutto e ricomincio. Sennò mi annoio». Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Andrea Laffranchi. I dieci anni di carriera non la toccano: «La data conta per gli altri». Tornare a Sanremo non la fa sentire «consacrata». E a 7 racconta della sua reazione al tumore, tra paura e spavalderia. Ed Emma annunciò la sosta «per un problema di salute». Emma Marrone, 35 anni, sul palco di Bologna nel febbraio 2019, durante una tappa del tour «Essere qui». L’artista ha vissuto a Firenze fino ai 6 anni, poi con la famiglia si è trasferita in Puglia (foto Roberto Serra/Iguana press/Getty) «Potrei anche non tornare mai più bionda. Mi basta sapere che sono bionda dentro». Emma Marrone sorride e si accarezza i capelli. Sono più scuri di come siamo abituati a vederli da quando ha fatto il suo ingresso ad Amici, edizione 2009-10. «Dopo l’operazione i medici mi hanno detto di non tingerli. Mi sono presa la libertà di farli riposare. E adesso che penso alle ore risparmiate dal parrucchiere sono tentata...». L’operazione è quella con cui a settembre aveva annunciato che avrebbe chiuso «i conti una volta per tutte con questa storia», un tumore alle ovaie che si era presentato poco prima di entrare nella scuola di Maria De Filippi.

Una foto per riassumere questi dieci anni?

«Troppo limitativo: una foto offre un’idea visiva e non lascia spazio all’emotività... E poi questi 10 anni sono una ricorrenza più per gli altri che per me. Non sono un’accumulatrice seriale di nulla, nemmeno di anni. Faccio una cosa ed è fatta. Azzero e ricomincio tutto all’arrivo di ogni anno».

Il 2020 si apre con la sua presenza in doppia veste a Sanremo: con Gabriele Muccino e il cast di «I migliori anni» e super ospite musicale. Ha completato l’album: in gara due volte - la vittoria nel 2012 - co-conduttrice con Arisa e Carlo Conti. Il Festival preferito?

«Meglio in gara che come conduttrice. Dell’anno con Conti ricordo prove alle tre di notte e al mattino sveglia presto per la conferenza stampa... Comunque anche senza gara mi sento in ansia: l’orchestra è imponente, il palco è importante».

Super ospite: è la consacrazione?

«Quando mi invitarono la prima volta lo vidi come un atto di fiducia nei miei confronti. Oggi la sensazione è la stessa: non mi sento consacrata, voglio solo dimostrare che la musica è qualcosa di importante nella mia vita».

Errori e pentimenti?

«Sbaglio tutti i giorni, ma vado dritta anche se so che alla fine ci può essere il disastro. So che se avessi fatto scelte differenti con Essere qui, il disco che ha preceduto Fortuna, sarebbe andata meglio perché avrei accontentato tutti. La tv ti porta nelle vite degli altri che alla fine pensano di sapere tutto di te. E io non volevo dare loro quella percezione. Non mi piace trattare il pubblico come un gregge. Offro la verità e in cambio sono libera. Così se una mattina mi sveglio e quello che faccio non mi va più, il pubblico non si sente tradito. La gente non è più abituata alla verità».

I social non aiutano. Ci mostriamo sempre nei momenti migliori e chissà cosa c’è fuori dall’inquadratura perfetta...

«Per questo li gestisco direttamente, senza un social media manager che sceglie l’orario giusto per pubblicare o il filtro perfetto. E ai fan che si lamentano per lo scatto senza trucco chiedo: “preferireste una cosa costruita alla verità?”. Anche mia mamma spesso mi dice “questa non me l’aspettavo da te”: se non mi conosce lei che mi ha messo al mondo come possono pretendere di farlo gli altri?».

Verità è anche raccontare la malattia. Non ha avuto paura di esporsi troppo?

«Non potevo non dirlo: ho dovuto cancellare un impegno e qualcuno aveva comprato voli e alberghi per partecipare. Fosse capitato in un momento professionale vuoto non avrei detto nulla. Non sono poi responsabile delle storture fatte da chi va a caccia di clic... Qualcuno è arrivato a pubblicare delle false lastre...».

Ha avuto paura?

«Come tutte le altre volte. Non cambia mai. Ho fatto una visita di controllo prima di Natale e mi tremavano mani e gambe. E mi succede ogni 3 mesi, quando devo fare le analisi. Ci sono animali che si fingono morti di fronte al pericolo, altri che attaccano prima di essere attaccati: appartengo a questa seconda specie. In sala operatoria sono entrata spaccona e baldanzosa».

Emma dieci anni fa.

«Nelle giornate di libera uscita da Amici prendevo il pullman da Cinecittà al centro: la campagnola che va nella capitale... Amo il disordine, evito i posti rilassanti per paura del silenzio. Mi sentivo a mio agio in quella realtà decadente che mi faceva riconoscere posti visti nei film del passato... Sono sempre stata una retrò. Non pensavo alle Spice Girls ma al mondo di Fellini, Anna Magnani e Monica Vitti...».

A Roma adesso ci vive...

«Mi piace da morire. È una città che bisogna vivere a quartieri, come un piccolo paesotto. Il mio raggio di azione è tra Gianicolo, Testaccio e Trastevere».

Salentina, ma nata a Firenze. Come mai?

«I miei si sono conosciuti da ragazzini in Salento, amicizie di famiglia. Poi papà si trasferì a Firenze per lavoro, faceva l’infermiere. E mia mamma andò lì per curarsi. Si sono fatti una vita in Toscana, a Sesto Fiorentino, dove siamo rimasti fino ai miei 6 anni. Forse per questo sento di non appartenere visceralmente a nessun posto. Sto bene dove le persone mi fanno stare bene».

I rapporti in casa Marrone?

«La famiglia è qualcosa di imprescindibile. E pensare che all’inizio mia mamma non ne voleva sapere di papà: faceva troppo il divo e la rockstar... Per Natale ho deciso di fare loro una sorpresa. Sono scesa qualche giorno prima senza dire nulla. Mio fratello è venuto a prendermi in aeroporto e siamo arrivati a casa che già dormivano. Mi sono messa a cantare a squarciagola Stupida allegria e mi sono buttata nel lettone tipo Hulk Hogan. Erano sbigottiti. Avevo fame, mamma mi ha preparato una minestrina calda e siamo state in cucina a chiacchierare fino alle quattro».

Dal Salento alle registrazioni del disco a Los Angeles, dalle paillettes ai post senza filtri. Lo scrittore e filosofo americano Nicolas Bommarito parla di grandezza della modestia: modesto è chi vive le esperienze con apertura totale perché non ha bisogno di relazionare tutto a se stesso...

«Non mi sono mai voluta definire a livello comportamentale e umorale. Ogni giorno deve cambiare qualcosa. La gente ti dice “sei cambiata” con accezione negativa. Per me invece è necessario, a prescindere dal fatto che il cambiamento sia in meglio in peggio. Dentro di me c’è una bambina di 7 anni, senza stimoli si annoia».

Com’era da bambina?

«Il ricordo è filtrato da quello che dice mia mamma. Ho il broncio naturale e la gente ha sempre scambiato per cupezza la mia espressione. Invece sono sul chi va là e vivo con attenzione quello che accade intorno. Sono sempre stata indipendente, generosa, egocentrica: le linee guida sono rimaste quelle. Alla materna non piangevo mai quando mamma mi lasciava al mattino. Andò lei dalla psicologa: aveva paura che pensassero non fosse una brava mamma».

Come fronteggia Emma Marrone gli anni che passano?

«Voglio diventare decadente. Con tutta la comprensione per chi si sente bene con un ritocco. Non mi piace andare dall’estetista, i massaggi mi rompono le scatole. Se vado alla spa è perché dentro c’è anche un ristorante da paura e non uno di quelli healthy... Madre natura mi ha graziata e se sono in periodo di ritenzione idrica mi metto un bel pantalone al posto dell’abito. Del resto non ho mai visto mamma truccarsi e ingioiellarsi: lei è sempre stata una da un filo di crema, mascara e via. La odiavo perché non era come le altre mamme, ma adesso mi esce lo stesso atteggiamento: mi ammazzo di creme idratanti e basta».

Lei si è sempre schierata per l’empowerment femminile. Che ne pensa delle polemiche O per “il passo indietro” con cui Amadeus ha raccontato una delle ospiti? Un passo avanti o indietro, le donne si collocano sempre rispetto ad altro?

«Credo sia stato frainteso. E lo direi anche se non fossi stata invitata. Amadeus non è un sessista o maschilista e non denigra le donne. Questa polemica sminuisce il dibattito: i toni vanno inaspriti quando si parla di vera violenza sulle donne. E sul rapporto uomo donna credo che si debba stare fianco a fianco».

La violenza sulle donne è nelle rime di molti rapper. E anche qui Amadeus è stato criticato per aver invitato Junior Cally (ma anche Marco Masini e Achille Lauro) che in passato ha scritto brani in cui le volgarità sulle donne non si risparmiano. Che ne pensa?

«Se venisse Eminem ospite lo manderemmo a casa per i testi? L’arte deve essere libera, altrimenti è censura. A volte si ricorre a temi e termini forti. Vasco è passato dal definire la donna troia in Colpa d’Alfredo ad elevarla a ruolo fondamentale e quasi sacro in Sally, Toffee e altri brani. Bisogna saper leggere il testo, capire se c’è ironia, cinismo o altro. Non giudico ma il mio non è un non prendere posizione. Contro la violenza sulle donne mi batto dal mio palco, non posso pensare di metter le mie parole in bocca a chi non le vuole pronunciare. La censura però non fa bene. Non porta a essere meno violenti, ma a chiudere gli occhi».

Torniamo al suo 2020: cosa farà in «I migliori anni»?

«Sono Anna, una ragazza piena di aspettative e sogni che non vanno a buon fine e che finisce intrappolata in una vita che non voleva. Per me è la prima volta, non ho studiato recitazione e sono andata a istinto: ho cercato di darle una vita. La cosa più forte che ho provato è che mentre pensavo a lei scoprivo lati di me che non mi erano mai saltati all’occhio. Preparavo Anna e conoscevo Emma».

Il 25 maggio, giorno del suo compleanno, sarà all’Arena di Verona e in autunno il tour nei palasport.

«Me la posso tirare? È andata sold out in pochi giorni... Ci saranno mamma, papà e fratello: la vera emozione sarà far vedere loro l’Arena piena. Un po’ come i figli che mostrano master e lauree».

La vita — Emma Marrone è nata a Firenze il 25 maggio del 1984 da genitori pugliesi. Ha vissuto ad Aradeo, in provincia di Lecce. Ha frequentato il liceo classico e ha lavorato come magazziniera e commessa per tre anni. Lo scorso anno è stata operata per un tumore, che già l’aveva colpita dieci anni prima. Emma Marrone, 35 anni, a febbraio dello scorso anno a Bologna durante una tappa del tour Essere qui.

La carriera — Ha vinto la nona edizione del talent show Amici. Ha partecipato due volte al Festival di Sanremo, la prima con i Modà (nel 2011) poi da sola, nel 2012, quando ha vinto l’edizione con il brano Non è l’inferno. Nel 2020 festeggia 10 anni di carriera: è previsto un concerto il 25 maggio all’Arena di Verona. E poi il tour che parte il 3 ottobre a Jesolo, il 5 a Milano, il 10 a Roma, il 13 a Firenze, il 16 a Napoli, il 17 a Bari, il 20 a Catania , il 23 Bologna e il 24 a Torino.

·        Emis Killa.

Dagospia il 26 maggio 2020.Da “la Zanzara – Radio24”. “Sì, è vero. Non mi piacciono le donne coi peli sotto le ascelle e nemmeno sotto. E allora? A me le donne piacciono lisce. Ma il punto non è questo. Ho i miei gusti, secondo me la femminilità non è una ragazza che smadonna e parla come gli uomini, che non si fa i peli, non mi piacciono quelle che non si curano e non fanno la ceretta sulle gambe. Ma sono solo gusti miei, non ho detto che le altre non sono donne”. A La Zanzara su Radio 24 Emis Killa parla di gusti sessuali, donne e torna sulla polemica con le femministe. 

Sei feticista dei piedi?: “Hai voglia. Io dico sempre che mi piace di meno una donna che ha dei brutti piedi rispetto ad una che magari non ha tette o culo. Per me il piede bello è importante. Perché secondo me il piede bello è il piede femminile, curato, smaltato, senza alluce valgo o cose simili. Oddio, adesso salterà fuori qualcuno che dopo questa chiamata dirà: io ho i piedi come un hobbit, come ti permetti?”.

Qual è il tuo rapporto con la masturbazione:  “E’ bello acceso”. Quante volte al giorno?: “Arrivo anche a tre volte,  e questo pur conducendo una vita sessuale bella colorata. E’ anti stress. C’è quello che va a farsi la corsetta, c’è quello che dipinge, poi ci sono quelli che si masturbano”. La usi la parola troia?: “Bisogna vedere che accezione dai alla parola troia. Può essere offensivo, ma può anche essere un elogio. La verità è che agli uomini piacciono le troie. Per troia non intendo una che va con tutti, ma una bella calda. Una ragazza passionale. Non è che puoi dire troia alla commessa del supermercato. E comunque troia se lo dicono anche fra di loro”. Ma tu sei uno geloso? Le corna le sopporti?: “No, su quello sono proprio siculo. Sono molto geloso. Non potrei mai permettere una cosa del genere”.

Emis Killa a La Zanzara su Radio 24 attacca ancora Vittorio Brumotti: “Va a rompere i coglioni con le telecamere da gente che fa certe cose, cosa ti aspetti?”. “Se voleva smascherare certe cose faceva l’infiltrato, invece così non risolve nulla e quelli continuano a spacciare”. “Brumotti è masochista, se le va a cercare”.

“Per me se la va a cercare. Non è che io sia nemico di Brumotti, però sicuramente non ci stiamo simpatici. Perché l’ho visto più volte ironizzare su me e sui miei colleghi, dandoci dei drogati con quei meme stronzi che mette sulla sua pagina di Instagram. Diciamo che non c’è amore. Non penso di scoprire l’acqua calda se dico che se le va proprio a cercare”. Lo dice il rapper Emis Killa parlando a La Zanzara su Radio 24, parlando dell’inviato di Striscia Vittorio Brumotti. Dice ancora: “Va sempre da sti disperati che vendono in strada, rompono i coglioni con le telecamere. Non so, che reazione si aspetta?”. Ma lui fa solo il suo lavoro, obiettano i connduttori: “? No, non fa il suo lavoro. Quello è il lavoro delle forze dell’ordine, non è il lavoro di uno con le telecamere che va a fare questo cinema per poi fare il piagnone”. Dunque l’obiettivo è quello di farsi picchiare?: “Se voleva smascherare le cose, faceva l’infiltrato, invece così vai soltanto a rompere le palle. Tu prendi le botte e quelli continuano a spacciare. Lo sa anche lui che non risolve niente. Quella non è gente tranquilla, ma ha un determinato stile di vita. Quando vai lì con le telecamere a provocare, che reazione ti aspetti da queste persone? Che si costituiscano? Non lo faranno mai. O se ne vanno, o cominciano a menarti. E’ già successo altre volte, quindi se continua ed è recidivo, è masochista”.

Daniela Mastromattei per “Libero quotidiano” il 31 maggio 2020. «La bellezza di una donna non dipende dai vestiti che indossa né dall' aspetto che possiede o dal modo di pettinarsi. La bellezza di una donna si deve percepire dai suoi occhi, perché quella è la porta del suo cuore...», sosteneva Audrey Hepburn, la stessa che nel film Colazione da Tiffany dichiarava: «Non sono capace di leggere un messaggio triste senza prima mettermi il rossetto». Ecco perché a noi fanno sorridere, ad altri indignare, le esternazioni di Emis Killa sulla sua ragazza ideale, ossia «femminile». Apriti cielo. Lampi, fulmini e pioggia di critiche. Perché tanta rabbia da parte dei follower? Forse per aver poi rincarato la dose in modo provocatorio, com' è nel suo stile: «A meno che non vi piacciano le donne con i peli che parlano come uomini e via dicendo, sì. Ora mi aspetto reazioni delle femministe...». Si può rimproverare al rapper trentenne di avere una sua personale idea sul tipo di signorina con cui voler trascorrere le serate (e molto di più); di preferire, al genere volgarotto, fanciulle ben curate, gentili e dal bon ton stampato nel dna. Avercene, sono una rarità. Probabilmente a questo serviva l' appello di Killa, a sensibilizzare il mondo femminile che avrebbe un gran bisogno di dare una sbirciatina agli anni '80 a quell' amore per le canoniche misure 90-60-90, seno prosperoso, gambe slanciate, vitino di vespa, ventre piatto e sguardo ammaliante alla Cindy Crawford per intenderci. In contrasto con le gatte morte anoressiche e dal linguaggio scurrile degli ultimi anni. Tutte concentrate a far carriera, peggio degli uomini. UN accanimento feroce L' accanimento è forte sui social: «Sei rimasto al Medioevo!», scrivono al rapper di Vimercate, che ha cercato di smorzare i toni in modo spiritoso: «Esco, fuori il sole spacca oggi. Ciao». Ma gli insulti procedono con ferocia: «Pensare al fatto che Emis Killa abbia una figlia mi fa venire voglia di pregare per lei anche essendo la persona più atea della terra. Povera creatura, chissà come sarà trattata». È la goccia che fa traboccare il vaso. Killa replica con un video: «Secondo me - voi che mi state insultando - predicate bene e razzolate male. Si parla sempre di parità tra i sessi e di libertà di pensiero, però poi appena uno dice una cosa che non vi piace andate a rompergli i....Non ho mai detto che una donna non possa avere i peli, non si possa vestire da uomo...o atteggiarsi come un uomo. Per me siete libere di fare il c... che volete. Però come voi siete libere di conciarvi come volete io sarò libero di dire che così non mi piacete oppure no? Sono obbligato a dire che le donne mi piacciono tutte se no sono maschilista? Io non credo che il problema tra i due sessi si ponga quando uno esprime un suo parere personale. Il femminismo è una causa giusta quando si tratta di temi seri come i maltrattamenti, le violenze e il maschilismo sul lavoro. In quello mi trovate d' accordo, ma non posso ogni volta chiedervi scusa perché le donne mi piacciono depilate, con lo smalto e il rossetto». Un polverone inutile, sollevato in un periodo storico (leggi: pandemia) che avrebbe dovuto spostare l' asticella delle priorità. Invece certe teste calde non le ferma nemmeno il Coronavirus. Continuano a fare i pirla, come si dice a Milano, nascondendosi dietro un pc, con i loro profili finti e le foto ritoccate. Tutti fenomeni pronti a criticare o prendere a male parole questo o quel personaggio spinti da un terribile sentimento chiamato invidia; a far uscire la rabbia repressa, tipica di chi nella vita reale si sente un fantozziano signor nessuno. Fa riflettere Trump che accusa Twitter di interferire nelle elezioni presidenziali americane 2020 («non possiamo permettere che ciò accada»). E minaccia di chiudere i social media.

·        Enrica Bonaccorti.

"QUANDO AVEVO 18 ANNI UNGARETTI MI HA ACCAREZZATO LE GAMBE. PER ME FU UNO SHOCK”. Da I Lunatici Radio2 il 13.03.2019.Enrica Bonaccorti è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. La Bonaccorti ha aperto il cassetto dei ricordi: "L'attività che sento di svolgere medio è scrivere. Ho scritto due canzoni per Domenico Modugno, sono state le primissime che ho scritto. La Lontananza è la prima, Amara Terra Mia la seconda.  Sono nate da cose che scrissi in un diario attorno ai quattordici anni. Ho sempre scritto. Dietro alle canzoni c'è un fatto vero. Quando c'è un fatto vero alla base di una canzone, la gente le ama, le canzoni diventano eterne. C'è anche un'altra canzone nel mio cassetto, prima dei cento anni la tirerò fuori. Ho proprio il provino di Domenico Modugno, c'è la sua voce". Enrica Bonaccorti ha incontrato, tra gli altri, Ungaretti: "Se è vero che Ungaretti mi molestò? Beh, insomma, adesso le chiameremmo molestie. A un certo punto, per alcuni mesi, sono stata nel gruppo degli uccelli, gli anarchici, manifestavamo, occupavamo la scuola, eravamo un piccolo gruppo anarchico che ha tenuto banco per qualche mese. Andavamo anche nella case dei grandi. Siamo entrati in casa di Carlo Levi e anche in casa di Ungaretti. Se qualcuno non la pensava come noi, entravamo in casa sua, ci sedevamo sul suo divano. Ungaretti mi ha dato una carezza sulle gambe, mentre guidavo. Io stavo svenendo, pensavo fosse un film. Avevo 18 anni. Per me era come pensare a Leopardi che ti dà un pizzicotto sul sedere".

Sul #metoo: "Ho benedetto Asia Argento, anche se non è il massimo della simpatia e ci sono stati molti appigli per darle addosso. Ma io la benedico perché è uscito fuori un qualcosa che sappiamo tutte e che tutte abbiamo passato. Sia prima di cominciare a lavorare che dopo credo che quasi tutte le donne di questa nazione abbiano avuto qualche brutta esperienza".

Su Non è la Rai: "Ne ho un ricordo estremamente tenero. Non avevo capito la portata di quello che si faceva, anche perché per i primi tre mesi, e forse questo chi non l'ha fatto non se lo ricorda, era una trasmissione che aveva anche dei contenuti dentro. Poi è rimasto soltanto il luccichio e in quel senso mi dispiacque. E poi per quello che mi riguarda ci fu un grosso spartiacque, quando cercarono di truffarmi in diretta, con la scena del Cruciverbone, e la concorrente che fornì la risposta giusta prima ancora che io le facessi la domanda. Quella vicenda non la pesarono come la pesai io. Anzi, avrebbero preferito che io stessi zitta. Lei fu assolta perché secondo il tribunale ha avuto una premonizione. Questo è il nostro Paese".

Enrica Bonaccorti, negli anni della scuola, è stata anche arrestata: "Avevamo fatto una manifestazione molto tranquilla e pacifica. Stavo telefonando a mia madre, avevo 17 anni. Siamo stati caricati di colpo dalla polizia, ho visto quelle stesse divise che mi hanno allevato, mio padre era un colonnello, che mi caricavano. Il giorno dopo occupammo la scuola, c'erano anche Giuliano Ferrara e Paolo Liguori. Ci hanno portato via di peso, ci hanno dato tante botte, io stavo telefonando, sono stata presa per i capelli, portata fuori, e picchiata, non sapete in che modo. Anche quando ci hanno portato via dalla scuola, dentro al cellulare, sono volate botte. Quando ci interrogarono, il commissario disse che si meravigliava di me, visto che mio padre era nella caserma accanto. Io risposi che ero io ad essere meravigliata. Perché per me le forze dell'ordine sono tutti fratelli con cui sono cresciuta, sono cresciuta in caserma. Lui mi disse che non era possibile che fossimo stati picchiati. Disse che forse, inavvertitamente, ci eravamo urtati tra di noi. Per me fu uno shock".

Enrica Bonaccorti choc: "Dagli 8 ai 19 anni sono stata molestata. Francesca Galici per ilgiornale.it il 21 settembre 2020. Quello di Enrica Bonaccorti a Storie italiane è un racconto choc, che svela un retroscena amaro e inedito della vita della conduttrice. Lo spunto per la confessione della Bonaccorti è il caso di cronaca che vede protagonista Giada Vitale, la ragazza abusata in sagrestia da un sacerdote ora condannato in via definitiva a 4 anni e 10 mesi di reclusione. Nel salotto di Eleonora Daniele, la conduttrice è apparsa visibilmente scossa, tanto da esplodere come un fiume in piena nel racconto della sua storia.

Enrica Bonaccorti: "Ungaretti mi accarezzò le gambe". "A me è successo qualcosa di molto simile a quello che racconti, ne avevo 8 di anni, non si riesce a dirlo neanche alla persona più giusta che sarebbe la madre. Anche in quei momenti rimani bloccata, non riesci a fare nulla, sei congelata. E resti congelata anche nella mente", ha detto Enrica Bonaccorti, prima di continuare il suo racconto, che non è limitato a un singolo episodio ma pare si sia protratto per molti anni e in situazioni diverse. "Di esperienze negative ne ho avute molte dagli 8 ai 19 anni e da quando ho iniziato a lavorare avrei molti altri episodi da raccontare. Non sono rimasta traumatizzata per le mie brutte esperienze. Sono figlia di una cultura che all'epoca dava per scontate certe cose. Non basta dare un calcio per difendersi, specie se si ha 8 anni e chi abusa è un adulto", prosegue la Bonaccorti. Pare che le sia venuto spontaneo raccontare la sua esperienza personale, ascoltando il fatto di cronaca che in quel momento si stava trattando a Storie Italiane. Vista la sua difficoltà e l'inevitabile imbarazzo e reticenza, Eleonora Daniele ha provato a spronare la sua ospite a continuare il suo racconto, anche per lanciare un messaggio importante, a chi guarda il programma da casa. Parlarne, raccontare e condannare è utile per fare breccia nel muro della sottocultura di cui è stata vittima anche Enrica Bonaccorti e di cui, purtroppo, sono ancora vittime molte donne, nonostante le campagne mediatiche e le battaglie in parlamento. "Sono stata molestata da persone molto vicine alla mia famiglia, persone i cui nomi non potevano mai essere fatti", ha detto la Bonaccorti, sfiorando anche il tasto delle violenze in famiglia, molto più comuni di quanto non si sappia. Enrica Bonaccorti ha, però, espresso la sua perplessità sulla campagna del MeToo, asserendo di trovarsi maggiormente rispecchiata nell'hashtag #Nonènormalechesianormale, lanciato due anni fa in condanna delle violenze sulle donne.

Totò Rizzo per leggo.it il 27 maggio 2020. Dici «la lontananza…» e capita che qualcuno ti venga appresso e continui, canticchiando, «… sai, è come il vento…». Potenza delle canzoni. Quelle trasversali per tempo, moda, generazioni. I classici. «La lontananza» compie cinquant’anni, il 6 giugno del 1970 entrò in «Hit parade» e non si schiodò dalla classifica per mesi, più volte «regina», disco più venduto di quell’anno, più di «Insieme» di Mina che pure fece sfracelli. Parole di Enrica Bonaccorti, musica di Domenico Modugno. Ma è la Bonaccorti il motore primo di quel successo clamoroso. E a raccontarlo aprendo per la prima volta, dopo mezzo secolo, per i lettori di Leggo, le pagine di quel suo diario d’adolescente da dove nacque tutto.

Leggenda vuole che quelli fossero i versi di una ragazza dopo un amore appena finito.

«Per una volta la leggenda è storia vera, ma l’amore non era finito, sapevo solo che ci saremmo trasferiti e ci avrebbe diviso il mare. Avevo 14 anni e mezzo, ovviamente seguivo la famiglia. Cinque anni dopo, debutto da attrice in una “estiva” e al teatro greco di Tindari c’è l’amministratore della compagnia di Modugno che mi convoca a settembre per un provino per un piccolissimo ruolo nella commedia “Mi è caduta una ragazza nel piatto”. Furono nove mesi di tournée, sempre in viaggio da una città all’altra, 102 esattamente, e in una di queste, a Cuneo, il 20 gennaio del 1970, nacque “La lontananza”».

Modugno si innamorò subito di quei versi?

«Avevo confidato a Mimmo che scrivevo poesie, raccontini, ballate e lui mi faceva ascoltare delle musiche facendomi provare la metrica. Poi una sera, dopo lo spettacolo, su una melodia che aveva già un testo che non lo convinceva, gli faccio leggere quella frase sul mio diario e Mimmo esplode. Ho sentito il racconto di Migliacci quando gli portò le parole di “Volare”, e la reazione fu identica. Mimmo comincia a saltare, a ripetere “questo è un successo!”. Non si fermava più».

Scritta, arrangiata, incisa: un trionfo. Ve l’aspettavate?

«Mimmo sì, e dal primo istante. Io non ci pensavo, anzi, da sciocca sentimentale che sono, la prima volta che sentii un ragazzo che la cantava sulla sua “Vespetta” mi sembrò che avesse letto il diario senza il mio permesso…».

La collaborazione con Modugno si rinsaldò l’anno dopo per un altro successo, “Amara terra mia” che è diventata una hit che molti interpreti anche delle nuove generazioni fino agli anni recenti hanno ripreso.

«Parte da un canto del ’600 e parla del distacco dalla propria terra, ma sempre di lontananza si tratta... credo che quelle parole siano arrivate così profondamente fino ai ragazzi di oggi perché c’è tanta verità dentro, storie vere, sia quelle degli emigranti che quelle sul mio primissimo amore, e perché poi tutto questo passa attraverso Modugno. Se “la vita è l’arte dell’incontro”, quello con lui è stato un capolavoro. Poeta, artista, attore ancor prima che cantante. Una fonte di energia perenne».

Attrice di teatro e cinema, giornalista, scrittrice, conduttrice televisiva. Il «ruolo» che Enrica Bonaccorti ha amato di più?

«Credo che quello che so far meglio sia scrivere. Già a 13 anni i primi soldi mi sono arrivati da temi per borse di studio, a 20 con le prime canzoni, a 24 con la sceneggiatura del film “Cagliostro”, poi i programmi alla radio e alla tv dagli anni ’70, tre romanzi di cui l’ultimo, “Il condominio”, è già in ristampa: scrivere per me è un’esigenza, tuttora scrivo tutti i giorni, o meglio, tutte le notti».

In tv le… dobbiamo Magalli conduttore dopo quel clamoroso annuncio della sua gravidanza in diretta che le costò tante polemiche.

«Ormai in tv si dice di tutto, ma allora, nel novembre 1986, fu uno scandalo annunciare la mia gravidanza. Lo dissi in poche parole, semplici, come quando si dice in famiglia prima che si venga a sapere da altri. Allora vivevo con otto paparazzi che mi seguivano, non mi andava che la notizia arrivasse dal gossip. Mi sembrò una cosa da amica del pubblico ma tutta la stampa mi condannò per “uso privato del servizio pubblico!”. Neanche un'ora dopo il mio annuncio, mentre mi cambiavo in camerino, ebbi un’emorragia e un'ambulanza mi portò in clinica. Avrebbe dovuto sostituirmi sul famoso divano del mezzogiorno la redattrice più carina e aggraziata, Livia Azzariti. Intorno al mio letto in clinica si fece una riunione con Boncompagni e Magalli (che filmò anche la mia ecografia) e, visto che la mia assenza si sarebbe prolungata, decidemmo che nel frattempo il mio ruolo l’avrebbe coperto Magalli, che era già un autore rodato e conduceva un gioco all'interno del programma. Ma nonostante l’immobilità a letto e le cure, dopo venti giorni persi il bambino. Come dico sempre per stemperare un ricordo doloroso, ho perso un bambino ed è nato Magalli. Unico caso in cui il figlio è più vecchio della madre».

Enrica Bonaccorti rimpiange più “Italia sera” o “Non è la Rai?”. Oppure la sua amatissima radio, il “3131”?

«Il programma di cui sono più orgogliosa è sicuramente “Italia Sera”, uno spartiacque per la televisione italiana, una quotidiana che in diretta toccava tanti argomenti e raccontava l’attualità, condotta da un grande giornalista, Mino Damato, e da una “non-giornalista” che allora ero io. È la trasmissione madre di tutte le quotidiane pomeridiane e mattutine che ora affollano i palinsesti. Ma quanto mi manca la radio! Dal “3131” a “Tornando a casa” che ho condotto ogni giorno per sei anni…».

Qualcosa di nuovo?

«Ben più di qualcosa, le idee non mi mancano, ma se qualcuno non decide di realizzarle...».

Gioco di specchi: Enrica, donna matura di oggi, ed Enrica, la diciannovenne del famoso diario, si guardano. Come si vedono?

«Che bella domanda… difficile però. L’Enrica di allora mi fa tenerezza per la fiducia che aveva nel mondo e rabbia per come si considerava, autostima minima, sempre sorpresa dei buoni risultati e dei complimenti. Se quell’Enrica vedesse quella di oggi, sicuramente si stupirebbe, non se la sarebbe mai immaginata così. Non ho mai pensato al futuro, mai avuto mete da raggiungere, quel che si deve fare si fa mentre navighi a vista fra i marosi della vita. Ma a ben pensarci, non sono poi così diverse le due Enrica, a distanza di mezzo secolo. Non so se purtroppo o per fortuna. A volte ho l’impressione di invecchiare senza crescere».

·        Enrico Bertolino.

Renato Franco per il "Corriere della Sera" l'11 agosto 2020. «I villaggi turistici erano originariamente il ritrovo dei single che volevano andare a cuccare. Nei Méditerranée le leggende narrano di mischioni notturni da bungalow a bungalow. Nella seconda ondata c'è stato il momento delle famiglie: tanta resa poca spesa, all inclusive. Se si può mangiare e bere senza limiti gli italiani sono pronti a prendersi il morbo di Montezuma. A Santo Domingo bevevano Coca Cola in polvere mischiata con l'acqua locale: a metà settimana il villaggio risparmiava carne, perché mangiavano tutti riso». Enrico Bertolino sugli italiani (non solo in vacanza) ha scritto monologhi e spettacoli. La sua cifra è l'osservazione e il paradosso: cogliere il lato ironico e grottesco che è nella natura delle umane debolezze.

E quest' anno che estate è?

«Andrò in Alto Adige per sentire un po' di tedesco perché ogni tanto mi viene la nostalgia di essere comandato. L'organizzazione teutonica è invidiabile, nel dirti che sei benvenuto ti ricordano che se ti comporti male verrai deportato in un'altra struttura. Sono già stato al Conero dove ho visto un bel turismo di ritorno. Ho trovato ragazzi bresciani e bergamaschi che non si fidavano di andare in vacanza a Ibiza e sono andati a Senigallia che non è proprio la stessa cosa. Il virus può offrire anche nuove opportunità...».

Il milanese è una tipologia a parte.

«Il milanese è faticoso a prescindere, adesso è incattivito. Lo diceva il mio amico sociologo Galimberti, non ne usciremo migliori, anzi gli stronzi saranno più stronzi per via dell'astinenza durante il lockdown a esercitare la professione di stronzi. Sto scrivendo un monologo sul fatto che andrà tutto ad minchiam . L'evasore fiscale non avrà una conversione sulla via di Binasco. Anche se ha usufruito di tutti i servizi che lo Stato gli ha offerto, non me lo vedo che improvvisamente si presenta all'Agenzia delle Entrate per dire che ha capito di aver sbagliato».

Ha scritto un libro (Le 50 giornate di Milano , edito da Solferino) in cui cercava di trovare il «buono» nella pandemia.

«Non mi piace il termine distanziamento sociale, che mi ricorda il campo di lavoro. Preferisco distanziamento socievole, Milano è sempre stata antesignana, mi ricordo che mia mamma quando le stavo troppo addosso mi diceva sta su de doss , ovvero stammi a un metro e non venirmi ad alitare sul collo. Ora, grazie al virus, sono obbligati a star distanti quelli che la mattina ti tossiscono il caffelatte sul collo in autobus: è un bel vantaggio».

Lei ha portato in giro il suo «Instant Theatre», uno spettacolo di satira strettamente legata all'attualità, ora come si fa?

«È diventato "Distant Theatre", la stessa cosa ma a un metro. Satira alla giusta distanza. Faremo una serata al festival dell'Unità di Modena che è come fare uno spettacolo a Pompei: esiste il Festival dell'Unità ma non esiste più il giornale... Parleremo di Unione europea, un consesso che ricorda quelle comitive che vanno al ristorante a mangiare, ma appena arriva Draghi con il conto iniziano a discutere: i frugali dicono che hanno preso solo la minerale, vogliono vedere chi ha preso cosa, mentre italiani e spagnoli sono quelli che chiedono subito le bottiglie di roba buona per tutti. La Merkel protesta perché lei beve la birra».

Il comico per sua natura dovrebbe godere di immunità, invece ormai tutti si offendono per tutto...

«L'immunità non esiste più. Sui social decontestualizzano, spaccano una frase in due e se hai detto una cosa sbagliata nella prima o nella seconda parte ti massacrano. Il nostro compito però è quello di osare e rischiare. Troppo facile fare battute solo sulla vita di coppia».

 Lei finì in una lista nera di comici fatta da Berlusconi. Che effetto le fa ripensandoci ora?

«Penso che in parte ci è riuscito perché mi hanno segato un po' dalla tv. Sono anche stato sfortunato perché quando fece l'elenco non si ricordava il nome e lo chiese a Bondi. Come se uno dicesse, c'era Hitler, Goebbels e come cavolo si chiama l'altro? Ah già Göring. Mi è andata male, nelle foto segnaletica alcuni giornali non mi hanno neanche messo. Rai3 all'epoca campava su quella roba lì, i nostri eroi e martiri. Adesso il comico se lo tirano nel partito... i Toninelli, i De Luca. Quando le battute più belle le fa quello che dovresti prendere in giro sei fregato. È difficile fare comicità e satira in questo clima».

Che settembre sarà?

«All'insegna della vendetta dell'infettivologo che andrà in giro a dire: io ve l'avevo detto».

·        Enrico Brignano.

Ilaria Ravarino per “il Messaggero” il 17 dicembre 2020. Tornerà il 22 e il 29 dicembre su Rai2, con due prime serate da un' ora, Un' ora sola vi vorrei Per le Feste, lo show di Enrico Brignano già portato sulla seconda rete, in cinque puntate, lo scorso ottobre. Tra monologhi, ospiti (il cantante Mario Biondi, il ballerino Stefano De Martino, il musicista Nicola Piovani tra i primi invitati) e momenti musicali, «ritorniamo a grande richiesta dice il 54enne attore romano i giornali hanno scritto che la rete ha fatto ascolti sotto alle aspettative, e che ci chiamano per questo. Non so se sia così, ma siamo onorati di esserci. Cercheremo di far divertire la gente».

Che Italia troverà davanti allo schermo?

«Un' Italia che fa i conti con storie drammatiche. E come in tutte le catastrofi, c' è chi lucra e chi si impoverisce».

A chi pensa?

«Ci sono aziende che sono fiorite come i supermercati e le farmacie. Chi vende il gel disinfettante e i saturimetri, i privati che vengono a farti il tampone a casa per 200 euro, uno scandalo. E poi c' è chi soffre, come gli operai Whirlpool licenziati con un sms».

Cosa risponde a chi le dà del populista?

«Che sono popolare, più che populista. Sono uno del popolo: mia madre faceva la fruttivendola e ora è pensionata, mio fratello lavora all' Ama. Sono populista se dico che vorrei vivere in un paese in cui il rispetto della salute e del lavoro siano fondamentali?»

Si sente del popolo anche se guadagna con la tv?

«Ma io guido il furgone, il camion e il camper. Faccio la differenziata, aiuto il giardiniere. Sto sempre a verniciare e scartavetrare, quando entro dal ferramenta mi suonano la Marsigliese. Se voglio essere generoso lo sono: nessuno dei parenti di mia moglie è benestante. Se mi cojoni, divento del popolo».

L' ha mai querelata qualcuno?

«Non è mai capitato. Cerco sempre di salvare capra e cavoli. La comicità vera deve divertire anche chi chiami in causa. Non puoi sproloquiare. A meno di non avere una schiera di avvocati dietro le spalle».

I suoi video sono virali. Anche tra i complottisti. Che effetto le fa?

«Che colpa ne ho io se intervisto un finto negazionista e la gente in rete pensa che sia vero? Le persone dovrebbero ragionare di più, anche sul web. Non oso immaginare cosa succederà quando parlerò di vaccini».

E che direbbe?

«Ora non lo faccio, verrà il momento. In generale credo che la chiave per parlare alle persone sia evitare assolutismi. Dare una visione più democratica delle cose».

Democratica o democristiana?

«Democratica. Che ammetta la possibilità dell' errore».

Lei è uno che chiede scusa?

«Non tantissimo, ma avendo una famiglia sto imparando».

Asia Argento, dopo che difese Fausto Brizzi nella tempesta del #Metoo, voleva picchiarla. Le ha chiesto scusa?

«Lei non aveva capito la mia posizione e io forse non avevo capito bene la sua storia. È una donna impulsiva, un po' borderline. Io sono uno che sta sempre al centro, anche a tavola. Mai stato estremista. Solo su alcune cose non transigo».

Quali?

«Onestà e amicizia. Non sono uno stinco di santo, ma ho pagato i miei errori».

Quello peggiore?

«Una volta, parlando della Svizzera in un monologo, mi sono messo a ironizzare sul fatto che fosse un paese neutrale e ricchissimo, e che gli svizzeri ci trattano male. Mi sono ritrovato tutti contro».

Due volte a Sanremo, nel 2013 e nel 2016. Torna o ha fatto errori?

«Non credo di tornare con questa gestione qua. È come se hai una tavola da 12 e vengono a mangiare in 15».

La politica le interessa?

«Nessuno mi ha mai chiesto di candidarmi. Però stimo uno come Giletti. Da quando la Rai lo ha messo al bando, dice quello che pensa. Non è più uno da ora di pranzo».

Enrico Brignano: «Ho iniziato facendo ridere i pendolari sul trenino». Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 da Emilia Costantini su Corriere.it. La sua, una vita da migrante. Nato a Dragona, periferia romana, ha iniziato la carriera sul trenino che lo portava a scuola, dal suo quartiere alla zona della Piramide Cestia, andata e ritorno. «Frequentavo un istituto professionale, perché sognavo di diventare un tecnico di industrie meccaniche — racconta Enrico Brignano —. In borgata si fanno sogni piccoli, il cassetto per contenerli è stretto e ce ne puoi infilare pochi. La mia massima aspettativa non era quella di fare il pilota di rally o il divo del pallone, aspiravo al posto fisso e a mettere la testa a posto. Non immaginavo lontanamente il mondo dello spettacolo, fare l’attore, recitare non erano i miei traguardi, però il gusto di far ridere la gente già ce l’avevo e così, nel tragitto da casa a scuola, quel trenino blu di pendolari è diventato il mio primo palcoscenico».

Qual era il repertorio?

«Avevo imparato a fare le imitazioni di personaggi famosi e a raccontare barzellette per i miei compagni quando giocavamo a calcio nel campetto della parrocchia. Ero diventato bravino a imitare il balbuziente, oppure a rifare i dialetti. Spinto dalla voglia di esercitarmi, mi esibivo in quel percorso. Non all’andata, dato che alle 7 del mattino era difficile far ridere le persone, tutte ingrugnate. Al ritorno davo il meglio: i passeggeri erano più disponibili, magari stanchi e affamati, ma fuori dal finestrino non c’era un bel panorama da guardare. Per acciuffarne l’attenzione mi scatenavo: dovevo portare a casa almeno una risata e, prima di scendere, doveva scattare l’applauso. D’altro canto, il mio era uno spettacolino a gratis».

Riusciva nell’intento?

«C’erano quelli che non volevano ridere, mi accanivo proprio su di loro. Una volta, un signore distinto, di sicuro non era un operaio come la maggior parte dei passeggeri, si teneva in disparte, leggeva un libro. Era un tipo difficile e, se di solito mi bastavano un paio di fermate per far partire la risata, lui nun voleva proprio ride’. Arrivato a fine corsa, mi giocai il jolly: il trenino si ferma e, mentre scendevo, prendo una musata sulla porta a soffietto che, essendo loffia, non si era aperta del tutto. In quella frazione di secondo mi sono inventato mille facce strane e finalmente anche quel tizio sbotta a ridere. Tutti gli altri applaudivano esclamando “Bravo! Ma ‘ndo abbiti?”. Tornai a casa dolorante per la botta che avevo preso sul serio, ma vincitore».

Quel signore l’ha incontrato ancora?

«No, tuttavia è stato importante quell’incontro, perché grazie alla sua ostilità ho intrapreso il mio modus operandi in scena: divertire tutti gli spettatori è la mia filosofia. All’epoca non avevo mestiere, ero un ragazzotto genuino. Ora il pubblico che assiste ai miei spettacoli ha pagato il biglietto, mi ha scelto e la mia diventa una missione».

Addirittura!

«Certo. Quando dal palco intravedo qualcuno che non partecipa, scendo in platea e gli vado a chiedere: che è successo? Perché non ride? La vicinanza provoca un ammorbidimento dello spettatore musone, si rilassa e si concede al sorriso».

Da chi ha ereditato la vis comica?

«Dicono da mio nonno paterno, non l’ho mai conosciuto, pare fosse un grande intrattenitore. Era siciliano ma, con moglie e figli, viveva a Tunisi: erano gli italiani emigranti di quel tempo, che approdavano alle coste tunisine a bordo di barchette di legno, in siciliano le vutticedde, le botticelle, come piccole botti. Poi la mia famiglia è tornata in Italia: mio padre e mia madre aprirono una frutteria a Dragona. Ho avuto la fortuna di vivere a Roma, però lo spirito da migrante l’ho mantenuto: migro con le tournée da scavalcamontagne».

Un migrante di lusso che ha imparato il mestiere da un maestro come Gigi Proietti.

«Avevo finito di frequentare l’istituto tecnico e decisi di cambiare strada. Al vicolo del Moro, c’era il laboratorio del grande Gigi. Mi iscrissi per il provino: portai un brano dall’Enrico IV di Pirandello, ero convinto di saperlo fare bene, e invece mi dissero sbrigativi: le faremo sapere, come a dire, te ne devi anna’».

Deluso?

«Ovvio, ma non scoraggiato. In quel periodo facevo il militare a Chieti e il mio caporale marchigiano, che parlava malissimo l’italiano, mi propose di iscriverci insieme a una scuola di teatro a Pescara: insegnavano dizione, mimo, movimento del corpo... Accettai. Il corso durò un anno e, quando tornai a casa, tentai provini in altre accademie. Nessuno mi prendeva, sembrava che i miei sogni perdessero quota e invece la caparbietà si è fortificata. Finalmente arriva il bando di un nuovo laboratorio con Proietti e c’ho riprovato».

Di nuovo Pirandello?

«No, per carità! Ho virato sul Conte Agenore, tratto da Operetta di Gombrowicz: vestito in frac e col cilindro in testa, cantai, ballai, recitai...».

Ma il mattatore era presente?

«Sì, c’era Gigi: figura mitologica, mezzo uomo e mezza capoccia, con voce profonda. Lo intravedevo in fondo alla sala e, devo dire la verità, sulle prime mi ricordava un po’ il signore del treno, non rideva tanto. Mi stavo scoraggiando, così ho iniziato una raffica di annunci di treni, quelli che si sentono nelle stazioni dagli altoparlanti, in tutti i dialetti italiani... Alla fine scorgo il sorriso di Gigi e poi applausi da tutti. La fortuna aiuta gli audaci e stavolta ho centrato l’obiettivo».

Proietti mattatore e anche maestro...

«Era bravo a insegnare. Durante le lezioni, quando l’allievo era duro de comprendonio e Gigi non riusciva a spiegargli con le parole ciò che voleva da lui, saliva sul palco e glielo spiegava facendolo: come un grande chef ti mostrava tutti gli ingredienti necessari al piatto da creare per il pubblico. Ho imparato anche facendo per una decina d’anni la sua spalla. Il mio primo impegno, però, fu da suggeritore e attrezzista, grande scuola».

Nessun incidente dietro le quinte?

«Come no? Me ricordo quella volta che interpretava l’Edmund Kean. In una scena lui doveva attaccarsi a garganella a una bottiglia, fingendo che fosse di whisky: la svuotava, si asciugava la bocca e prendeva l’applauso. In realtà dentro c’era il tè e io non avevo capito perché non dovevo riempirla completamente. Durante una replica, riempio la bottiglia fino all’orlo. Gigi si attacca e beve, beve... non finiva più il liquido, era diventato paonazzo, non riprendeva fiato! Ero disperato, lo guardavo da dietro le quinte e non sapevo come soccorrerlo. Finalmente, riesce a finire il tè e a riprendere fiato, scatta l’applauso, lui si volta verso di me, mi brucia con le cornee degli occhi come a dire: te possino ammazza’... poi famo i conti».

E li avete fatti?

«No, il maestro era un pezzo di pane, mai severo. Rimproveri pochi e poi, diciamo la verità, qualche volta si sbagliava pure lui».

Consigli preziosi ricevuti da Proietti?

«Quando ho cominciato a fargli da spalla, pretendeva la massima attenzione e nulla doveva essere lasciato all’improvvisazione. Un consiglio importante me lo ha dato quando venni scritturato da Canale 5 per il programma La sai l’ultima?: facevo il barzellettiere e mi dava tanta popolarità. Gigi mi fece i complimenti, poi mi prese a quattr’occhi, dicendo con tono grave: “Me raccomanno, va bene la tv ma non ti dimenticare mai il teatro”. Sembrava quasi un rimprovero, invece era una santa raccomandazione che ho sempre rispettato».E ha conquistato anche il ruolo di Rugantino al Sistina...«Ho sempre sognato di interpretarlo, un personaggio straordinario, cavallo di battaglia di tanti attori. Sono stato il quinto a impersonarlo in ordine cronologico. Mi sono preparato ripercorrendone la storia sui ritagli di giornali e con i ricordi di Gigi Magni... L’ho vissuto come una consacrazione».

Una lunga carriera. Errori? Rimpianti?

«Nelle sliding doors della vita, mi è capitato qualche errore e rimpianto. Tuttavia certi miei rifiuti si sono rivelati migliori di quanto pensassi. Il vero rimpianto e che avrei voluto dire più volte a mio padre ti voglio bene, non ce lo siamo mai detto. Per questo nel 2011, quando è mancato, gli ho dedicato uno spettacolo intero, intitolato Tutto suo padre».

La vita da migrante continua...

«E ancora di più! Voglio fare spettacoli per gli italiani all’estero, per mantenere alto il morale dei nostri connazionali. Perché mi creda: quelli che fanno lavori umili, in posti tanto lontani da casa, hanno davvero bisogno de fasse ogni tanto ‘na risata».

·        Enrico Lucherini.

Rodolfo di Giammarco per “la Repubblica - Edizione Roma” il 26 ottobre 2020. «Tutti i palcoscenici, i set e le opportunità della mia vita hanno a che fare con Roma. Dopo due anni di Medicina all' università per far contento mio padre, a piazzale della Croce Rossa incontro ragazze e ragazzi che m' invogliano a fare un provino all' Accademia Nazionale d' Arte Drammatica, entro, e studio recitazione» ricorda parlando a raffica Enrico Lucherini. «E quando lì il maestro Orazio Costa mi dice di fare "Edipo Re", e qualcuno commenta 'Ecco Edipo ai Parioli', capisco che sono un cane, me ne vado, ma una collega, Rossella Falk, mi convince a lavorare con la Compagnia dei Giovani insieme a Romolo Valli e Giorgio De Lullo, e giriamo l' Italia, andiamo in tournée in Sud America con sette commedie dove dico solo tre parole, e intanto assisto ai lanci dei nostri spettacoli a Montevideo, Lima, Caracas e Santiago, e quando torniamo in Italia m' invento la professione di press-agent». Oggi Enrico Lucherini, energico 88enne, ha all' attivo, come testimoniano mostre antologiche e docufilm, la bellezza di 582 eventi da lui curati, valorizzati, resi clamorosi.

I primi spettacoli dal vivo da lei lanciati in che sale della Capitale figuravano in programma?

«Feci un' esperienza non facile all' Eliseo nel 1960 con un allestimento coraggioso di Visconti come "L' Arialda" di Testori che suscitò polemiche, censure e dissensi, con Luchino che rispose al pubblico col gesto dell' ombrello, e con Morelli-Stoppa, e Orsini, che manifestarono per protesta davanti al Quirinale. Poi al Valle nel 1965 mi sono occupato de "Il giardino dei ciliegi" sempre con regia di Visconti, ancora con Morelli-Stoppa, nel cartellone del Teatro Stabile della Città di Roma. Al contrario di allestimenti dolorosi e di routine, era un Cechov tutto fiorito e di color rosa, e ce l' ho nel cuore. Ma ricordo con uguale entusiasmo anche il battage per l'"Adelchi" di Vittorio Gassman nella tenda-circo piazzata nei pressi dell' Hotel Parco dei Principi. Che avventura nuova!».

All' inizio degli anni Sessanta lei è stato parte integrante della comunità notturna di via Veneto...

«Si andava al cinema, c' erano solo due locali importanti allora, e poi senza dircelo ci ritrovavamo tutti lì, in fazioni separate. Da Doney c' era il clan Visconti con Patroni Griffi, La Capria, Rosi. Di fronte, al Cafè de Paris, c' erano Flaiano, Fellini, Gassman e la Ferrero, De Feo, Talarico. Più su da Rosati c' erano i più seri e composti, tipo Antonioni e la Vitti, il regista Franco Indovina con Soraya, magari il Re Faruk con la cantante lirica Irma Capece Minutolo (che ribattezzammo Irma-capace-di-tutto).

Fioccavano i soprannomi.

Claudia Cardinale un po' malmenata (si diceva) da Pasquale Squitieri: Bella di botte. I due De Laurentiis: Momenti di Boria. Giuliana De Sio: la Melato immaginaria. Eleonora Giorgi: Bionda frégalo. Serena Grandi: Sotto il vestito gente. L' agente Carol Levi: L' onore dei prezzi...».

Intanto lei sfornava dovunque promozioni clamorose e s' era alleato con bravi paparazzi...

«Operavo anche in società. Dopo gli incarichi ricevuti per "La notte brava", "La ciociara" e "Il Gattopardo" chiesi aiuto a Matteo Spinola. Ed ebbi una fortuna sfacciata, che un po' m' andavo a cercare. Tra le prime cose che mi aiutarono a far rumore ci fu la richiesta dello sceneggiatore Gualtiero Jacopetti di dargli una mano per promuovere il film " Il mondo di notte" a base di spogliarelli: coinvolsi una regina dello strip- tease, Dodo D' Hambourg, la introdussi nell' inaugurazione di sei vetrine del sarto Emilio Schuberth a via Condotti, le chiesi di mostrarsi completamente nuda buttando via di colpo la pelliccia di zibellino, e ottenni che i fotografi urlassero, e che Schuberth ci cacciò furente dal suo atelier. Ma il giorno dopo eravamo su tutti i giornali».

Lei in quest' ambiente vanitoso, interessato, e pronto a qualsiasi colpo di scena, ha mai avuto amicizie serie, legami umani?

«Ho voluto bene a Luchino Visconti, Peppino Patroni Griffi, Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni».

Può confessare una sua gaffe, un suo pauroso incidente professionale?

«Un giorno mi telefona Antonioni, mi prega di andare da lui alla Collina Fleming. Trovo in casa Monica Vitti, piuttosto cambiata da come l' avevo conosciuta in Accademia. Lui ha in mano la sceneggiatura di "Deserto rosso". Lei tocca la coda d' un pianoforte e dice 'Michele, viene, mi parla', a me lì per lì sfugge un 'Che dice?', e tutti e due mi guardano come se avessi rotto la poesia. Penso d' averla fatta grossa, ci salutiamo, vado via, e poi però vengo incaricato del film, e in seguito ho assistito Monica per i suoi film comici».

Tra circostanze a rischio e geniali trovate innocue, quali momenti del suo mestiere l' hanno divertita di più?

«Nella bolgia per la ballerina attrice turca Aiché Nana spogliatasi al Rugantino io c' ero, e il fotoreporter Secchiaroli mise in tasca a me i rullini quando fu perquisito dalla polizia, e l' ultima pagina dell' Espresso uscì inondata da quelle immagini. Con un' ambulanza salvai Agostina Belli che stava morendo in cella in un film agli Studios sulla Tiburtina. Calcolai bene come lanciare Sandra Milo sul set di "Vanina Vanini" facendole andare a fuoco la parrucca che io, Rossellini e Terzieff le strappammo un po' a fatica. In una conferenza organizzai un feroce litigio tra Monica Guerritore e un produttore accusato di aver messo una cinepresa non autorizzata che la riprendeva in certi punti chiave del corpo: un bluff. Terrorizzai la Cardinale facendole accarezzare un ghepardo per il film "Il Gattopardo". Ma mi vanto d' aver fatto accettare a Sofia Loren la foto-manifesto disperata e violenta per "La ciociara". Mi piacque sorprendere i giornalisti a casa mia facendo loro scoprire dietro una porta Pieraccioni che leggeva un brano de "I laureati", o portare la stampa dietro le quinte del debutto di "D' amore si muore" di Patroni Griffi per svelare che il rumore del mare si doveva al rullio di sfere dentro un tamburo. Adesso a dare il buon esempio ci pensa il mio socio Gianluca Pignatelli».

Quando non deve sostenere un' impresa artistica, che Roma cerca e riconosce sua?

«Mio padre mi cacciò di casa e mi comprò un ufficio ai Parioli, in una traversa di Viale Parioli. Fuori dal lavoro andavo al Bar della Pace, ma ordinariamente vado con giornali e riviste al bar Cigno. Se capita, sono uno spettatore teatrale. Dopo le direttive di ieri, aspetterò che le sale riaprano. Io la stavo per far grossa: il 6 novembre avrei inaugurato, da attore, la stagione dell' Off/Off, con "C' era questo, c' era quello", raccontando memorie di tanto lavoro, accanto a un amico ingegnere, Nunzio Bertolami».

·        Enrico Montesano.

Enrico Montesano, l'intervista: "Perché odio la mascherina, è un lavaggio di cervello. Italiano medio? Cacacazzo" Tommaso Montesano su Libero Quotidiano il 17 ottobre 2020. Premessa: non è semplice intervistare il proprio padre. I motivi sono facilmente immaginabili: imbarazzo, resistenze deontologiche, incapacità di restringere il campo delle potenziali domande e di contenere le risposte. Così io e quello che formalmente è l'intervistato - mio padre, appunto: Enrico Montesano, classe 1945, di professione attore - ci siamo sforzati di adottare un'accortezza: cercare di trasformare il più possibile questa conversazione in una chiacchierata in famiglia più che in un'intervista in senso classico. Una chiacchierata, come quelle che avvengono nelle case degli italiani davanti a un piatto di spaghetti nel pranzo della domenica. Dove il convitato di pietra, da oltre sette mesi, è sempre lo stesso: il Coronavirus. Con Montesano senior ingiustamente tacciato, per il solo fatto di essere «critico», di essere negazionista.

Ho visto un video con una discussione tra te e un poliziotto sull'uso della mascherina.

«Un video parziale, mancano alcune parti. O i tuoi colleghi sono arrivati tardi, o è stato tagliato. E comunque c'è un'interpretazione errata dell'audio».

In che punto?

«Nel finale».

Non è andata così?

«No! Tutto il contrario. Mia moglie dice: "Andiamo via, facciamoci arrestare!"».

Però è vero che non indossavi la mascherina.

«Indossare la mascherina all'aperto quando si è lontani dalla ressa e le distanze sono assicurate è inutile, dannoso e non previsto dalle norme. Io la mascherina, in ogni caso, ce l'avevo in tasca, pronto a indossarla in caso di necessità».

Perché eri andato in piazza Montecitorio?

«Non volevo lasciare mia moglie da sola nella manifestazione per il 21esimo anniversario dell'inizio della prigionia di Chico Forti, un cittadino italiano ingiustamente detenuto negli Stati Uniti».

C'era Matteo Salvini.

«Lui c'è sempre quando ci sono queste iniziative. Avrei gradito anche la presenza di Nicola Zingaretti e del presidente della Camera, Roberto Fico».

Perché è iniziato il battibecco con il poliziotto?

«Mentre stavo andando via, mi sono sentito chiamare: "Signor Montesano, buongiorno.. Io sono un suo fan, sono cresciuto con i suoi film, però, mannaggia, se la poteva anche mettere la mascherina! Lì per lì ho pensato a un ammiratore. Poi ha detto: "Sono un poliziotto" e mi ha fatto vedere il distintivo. È iniziata una chiacchierata: lui ripeteva che c'è un decreto e io gli rileggevo le leggi che lo contrastano. Un pacato dialogo, diciamo, sul filo della disquisizione legale sull'uso della mascherina».

Vi siete messi a discutere in punta di diritto?

«Ho osservato che essendo a distanza non stavo contravvenendo a nessuna norma. Anzi, la stavo rispettando, la legge».

C'è un dpcm che obbliga a indossare la mascherina anche all'aperto, adesso.

«Ma il dpcm non è una legge. E oltretutto entra in contrasto con altre norme. Ad esempio quella dell'obbligo del riconoscimento facciale. Tanto è vero che a un certo punto - io avevo già il cappello - ho indossato occhiali e mascherina e detto al poliziotto: adesso mi riconosce? Non ero riconoscibile, invece la legge impone che lo sia».

Alla fine col poliziotto com' è finita?

«Ci tengo a dirlo: ha usato il buon senso e non mi ha contestato alcunché. Si è comportato in maniera ragionevole. Io, del resto, non ho nulla contro le Forze dell'ordine, anzi! Pensa che ad ogni "prima" dei miei spettacoli invito sempre tutti i poliziotti del mio commissariato!».

Per 48 ore sei finito su tutti i siti di informazione.

«Pensa come ci siamo ridotti: 48 ore a parlare di un marginale fatto di cronaca, una diatriba finita bene. Certo che c'è 'na fame de' novità! Li ho sfamati dal punto di vista del rinnovo dei contenuti e non solo! Il giornalista che mi seguiva e che celava il suo cartellino sotto il giubbotto, ben chiuso dalla lampo, ha venduto servizi a tutti! Di faccia me lo ricordo, aveva la mascherina abbassata (sic!), vorrei sapere come si chiama, almeno per farmi pagare una cena! Del resto sono tre mesi che giornali e tv ripetono sempre le stesse cose: per ringraziarmi mi dovrebbero mandare un regalo».

Che ne pensi del clima che si respira in Italia? Conte ci ha rassicurato: niente Polizia nelle nostre case.

«Meno male! Però ha pensato di mandarla?».

Evidentemente, sì.

«Perché se io dico: non ti do un pugno, significa che prima ho pensato di dartelo. Non mi piace questo clima, non ne ricordo uno simile neanche ai tempi del tanto vituperato Pentapartito».

Adesso fai il nostalgico della Prima repubblica?

«Rimpiango quei tempi, quando potevi fare battute su Fanfani, De Mita, Gava e Andreotti e il giorno dopo il divo Giulio mi mandava un bigliettino di ringraziamento! Non c'era questo ostracismo. Oggi appena esci dal seminato del politicamente corretto sei demonizzato. Vietato essere una voce dissenziente. Peccato che il dissenso sia il sale della democrazia».

Prima hai citato Salvini: col senno del poi, non è assurdo che sia stato messo in croce per una frase, quella sui "pieni poteri"?

«Altroché! Oggi mi pare che i "pieni poteri" ce l'abbia tutti il nostro presidente del Consiglio».

Eppure, per i sondaggi, Conte è popolare. Perché c'è questa assuefazione?

«Rispondo citando un brano del filosofo Massimo De Carolis: "In un regime di emergenza, non c'è chi non senta il bisogno di affidarsi a un potere organizzato, per far fronte al pericolo costante».

Cosa è successo?

«C'è stato un lavaggio del cervello. Poi un po' è la paura della malattia, un po' il timore delle sanzioni. L'italiano medio è un po' cacasotto, dai. Ti racconto un aneddoto».

Vai.

«Una volta, quando ero vicino all'allora Pds, sono stato parlamentare europeo e consigliere comunale a Roma, di ritorno da una manifestazione feci il viaggio insieme a Pietro Ingrao a bordo di una 850 guidata da un impiegato di Botteghe Oscure. Ingrao, un grande comunista, aveva tenuto una sorta di lectio magistralis. In auto mi raccontò che durante la guerra, mentre si nascondeva, teneva sempre a portata di mano una pasticca: in caso di necessità l'avrebbe ingoiata».

Una lezione per i tempi di oggi?

«Quei ragazzi come Ingrao e tanti altri, appartenenti a vari gruppi politici, i tuoi nonni, hanno affrontato i pericoli veri e non si sono impauriti. Hanno lottato per la nostra libertà. Meno male che la guerra l'hanno fatta loro, sennò con gli italiani di oggi avremmo ancora i nazisti dentro casa. Speriamo nei nipoti».

Dai socialisti ai no mask: la battaglia di Montesano contro la mascherina. Enrico Montesano si è recentemente schierato dalla parte di chi contesta l'obbligatorietà dell'uso della mascherina all'aperto. Questa è solo l'ultima di una lunga serie di prese di posizioni politiche assunte negli anni dall'attore romano. Francesco Curridori, Mercoledì 14/10/2020 su Il Giornale. “Non riesco a respirare, mi fa male”. Enrico Montesano, presente ieri in piazza Montecitorio per chiedere la liberazione di Chico Foti, si è opposto all’uso della mascherina ma, alla fine, ha dovuto cedere alle forze dell’ordine che gli hanno intimato di indossarla. Montesano solo qualche giorno fa aveva annunciato la sua adesione alla manifestazione no mask che si è tenuta sabato scorso a Roma. “Credo che le mascherine vadano portate nei luoghi chiusi, ma all’aperto non credo che ci proteggano dalle polveri sottili, dalle polveri d’amianto e dunque anche dal virus. Attraverso i tessuti passa tutto”, aveva sostenuto nel corso di un’intervista al quotidiano La Stampa. E aveva aggiunto: “Le mascherine sicure al 100% non ci farebbero neppure respirare. In compenso quelle correnti ci fanno respirare la nostra anidride carbonica. In aggiunta alle polveri dell’aria inquinata. Ma perché se vado da solo in riva al mare, o in un parco, mi devo mettere la mascherina? È inutile e dannosa per i miei polmoni”. Ma l’attore romano non è nuovo a prese di posizioni politiche che, nel tempo, sono mutate più volte e che hanno sempre destato scalpore e fatto notizia. Montesano, figlio del portiere del palazzo dove ha sede l’Msi, inizia la sua carriera artistica alla fine degli anni ’60 con la compagnia teatrale di Pier Francesco Pingitore, il Bagaglino, ma i suoi ideali di riferimento sono di stampo socialista. Nel 1975 incide insieme all’Equipe 84 un disco propagandistico in cui invitava a votare Psi alle elezioni Regionali di quell’anno. Con la fine della Prima Repubblica, si avvicina al Pds che lo candida come consigliere comunale alle amministrative di Roma del 1993. Montesano, con 8300 preferenze, risultato il più votato della Capitale contribuendo in modo significativo alla vittoria di Francesco Rutelli. In un’intervista rilasciata nel 2018 a Peter Gomez si dichiarerà pentito della scelta fatta: “Non volevo incarichi, perché ero già un attore conosciuto e famoso, ci ho solo rimesso. Mi aspettavo un riconoscimento ideale, non pratico, essere considerato, venire interpellato”. Nel 1994 Montesano lascia il Comune di Roma per presentarsi alle Europee e viene nuovamente eletto, ma si dimetterà due anni dopo per evitare di ottenere il diritto al vitalizio. Nel 2001, sorprendendo tutti, annuncia il suo voto a favore di Antonio Tajani, all’epoca candidato del centrodestra a sindaco della Capitale. Da quel momento in poi Montesano, che per anni è stato ospite d’onore alle Feste dell’Unità, si sposta sempre più a destra. Nel 2004 partecipa a una convention organizzata dall’allora leader di An, Gianfranco Fini, e al quotidiano Il Tempo dichiara: “Stando qui uno si sente socialista”. Quattro anni più tardi l’attore romano fa apertamente campagna elettorale per Gianni Alemanno proprio contro quel Francesco Rutelli col quale si era schierato 15 anni prima. Col passare del tempo anche la fascinazione per il centrodestra svanisce e, dopo un breve innamoramento per il Movimento Libertario, Montesano si avvicina al M5S che voterà alle Politiche del 2013. Due anni dopo apre la kermesse “la Notte dell’Onestà’, organizzata dai grillini per riportare l'attenzione sul tema della legalità nella città travolta dall’inchiesta ‘Mondo di mezzo’. Il comico romano riconfermerà il suo sostegno ai pentastellati anche nel 2018, ma nello stesso tempo difende anche Matteo Salvini e le sue politiche sull’immigrazione. "Non credo che sia razzista come non credo lo sia nessuno di noi italiani", dirà parlando del leader della Lega col quale si è fermato a interloquire anche ieri in piazza Montecitorio. Negli ultimi mesi, invece, sono numerosi i video fortemente critici nei confronti del premier Giuseppe Conte che Montesano ha pubblicato nella sua pagina Facebook.

Enrico Montesano: “Se io fossi ministro della Cultura direi…”. Alberto Ciapparoni il 15 Settembre 2020 su culturaidentita.it. Ha compiuto 75 anni e merita sicuramente un posto permanente nell’Olimpo della commedia italiana. Ma Enrico Montesano, nipote e bisnipote di commedianti e musicisti, già parlamentare europeo, già consigliere comunale, tifoso laziale doc, è un artista a tutto tondo, sempre controcorrente, mai allineato. Ha interpretato “Er pomata” in “Febbre da cavallo”, ha condotto “Fantastico”, è stato “Rugantino”, e alcuni suoi personaggi sono passati alla storia: chi non ha mai visto il vecchietto Torquato? E le sue avventure non sembrano affatto finite, tutt’altro. All’orizzonte si profila persino il Campidoglio. Sì, proprio la poltrona di primo cittadino della Capitale.

Montesano, è vero che fra poco dovremo chiamarla Sindaco?

«E’ nato tutto come uno scherzo e una provocazione, dopo aver letto le dichiarazioni di disponibilità alla candidatura da parte di Massimo Ghini, con il quale eravamo nel Consiglio comunale di Roma nel 1994, all’epoca della prima Giunta Rutelli, allora presi 8.300 preferenze. Io penso che fare il Sindaco di Roma sia una cosa da far drizzare i capelli, una cosa da non dover augurare al peggior nemico, ma sarebbe un grandissimo onore se penso a Luigi Petroselli, a Ernesto Nathan, a Ugo Vetere, il Sindaco che mi ha sposato. Ho detto scherzando a Ghini di fare scapoli contro ammogliati e vediamo chi vince».

Insomma, le piacerebbe.

«Io per la mia città sono pronto a sacrificarmi e a farmi mettere in croce, Roma merita questo e altro, io sono una piccola entità, però sono un cittadino romano, e sono stato un consigliere comunale, e quindi un onorevole, come nella tradizione del Senato romano. E come si dice, la lingua batte dove il dente duole, e il dente mi duole parecchio: ci sarebbe da levare la carie, ma qui non c’è rimasto più niente, "se so’ magnati pure il dente". C’è un abbandono completo, ho visto un deterioramento e un peggioramento lenti e inesorabili».

Quindi si riferisce anche alle responsabilità di Virginia Raggi?

«Da quarant’anni a questa parte, forse cinquanta, c’è stata una classe dirigente che si è impegnata a fondo per questa degenerazione: qualcosa fanno ma proprio poco. Il litorale romano per esempio è diventato squallido. Per i primi tempi ho difeso l’attuale Sindaco, anche perché sono stato un suo elettore, ho creduto nell’azione politica di un nuovo movimento, devo constatare però con amarezza e delusione che le idee e i programmi originari sono andati a finire in cantina e in soffitta. Il primo M5S non lo vedo più».

Raggi bocciata dunque?

«All’inizio ho sempre difeso la Raggi, so quali sono le difficoltà e aveva ragione Vetere quando da presidente del I° municipio diceva di vergognarsi perché non aveva i soldi per rimettere a posto la pavimentazione di Piazza Barberini, ovvero il salotto di Roma.  Ed è vera la tesi di chi sostiene che quando si capirà che chi va a fare l’amministratore non sta lì per risolvere i problemi della cittadinanza ma i suoi problemi, si sarà capito cos’è la politica; tuttavia, ci sono dei politici che ci provano a risolvere i problemi: Petroselli, ad esempio. Io la Raggi la giustifico per il primo periodo, ma poi se mi si rompe la scala mobile di una fermata della metro a costo di chiamare il mio fabbro di casa, la devo riparare in una settimana, non me ne frega niente delle zavorre. Sono 40 anni che c’è una struttura che non si vede, che non è votata, che sta là fra gli amministrativi, e che blocca tutto: se non si possono cacciare, ruotiamoli… Non so se la Raggi abbia provato o meno, ma che si fa, andiamo avanti così per altri 50 anni? Roma va bene così com’è?»

Covid 19, fase 1,2,3, ripartenza: che Italia è, che governo è?

«Il mio personaggio che ho lanciato sulla Rete, il rapper Fermo Blas, per gli amici Blasfemo, direbbe: ma che stai a dì, un sacco di pappole! I 25mila euro di prestiti non li ha visti nessuno. Dicono che i sondaggi per l’avvocato del popolo siano alti, ma saranno veri? Come diceva Giulio Andreotti a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si indovina. Parlavo recentemente con un mio amico imprenditore del Veneto e concordavamo: la classe politica della prima Repubblica in confronto agli attuali politici era molto meglio, non c’è paragone. Se uno pensa a Rino Formica, a Giulio Andreotti, a Bettino Craxi. E se qualcuno dice che quelli rubavano, io rispondo, perché questi no? Sono tutti stinchi di santo che fanno tutto per il nostro bene, infatti ho visto la vicenda dei 15 milioni di mascherine nel Lazio?! Se dobbiamo far finta che va tutto bene…»

Nel settore cultura, e teatro in particolare dove adesso si riprende con gli spettacoli, la situazione è diversa?

«Macché, è tragica, e la gestione del coronavirus potrebbe essere il colpo di grazia finale. Negli anni ’80 io ero al Sistina di Giovannini e Garinei e la gente veniva, adesso si fatica, si va a vedere solo l’evento particolare. Del resto, abbiamo mai fatto una politica a favore della cultura? Come al solito c’è una politica assistenziale, si danno dei soldi ma soltanto a qualcuno, un po’ di elemosina, tutti col cappello in mano. Poi ci sono i teatri privati, quelli che faccio io, e non ho mai beccato un soldo, manco uno, e paghiamo un sacco di tasse, paghiamo l’Irap che è una tassa assurda: ma come, io produco, assumo 20 persone, e tu mi fai pagare l’imposta? Mi dovresti dare un premio. Questi comitati tecnico-scientifici hanno mai amministrato una compagnia teatrale, un teatro? Una fila sì, una fila no, un posto sì, un posto no? C’è da mettersi a piangere tutti assieme. Come si fa? Uno squallore! Il teatro o si rifà come si faceva prima del covid o se no è la fine. Se io fossi ministro della Cultura direi: allora, tutti i soldi spesi per il teatro si possono scaricare. Quindi, toglierei un po’ di tasse alle compagnie, che sono quelle che producono: senza compagnie al posto del teatro ci fai un bel garage».

E se per i teatri l’esecutivo proponesse divisori in plexigas come aveva fatto in un primo momento il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina per la scuola e i banchi nelle classi?

«Al plexiglass gli darei fuoco, è un’assurdità: il virus da destra e sinistra non entra, però potrebbe dall’alto o dal basso… Non capisco, non capisco davvero. Al ristorante per andare al cesso devi metterti la mascherina: che regola è? Basta cercare di stare ad una distanza di sicurezza, che poi è quella che si dovrebbe usare come forma di educazione, non si va sotto alle persone, è maleducato, si mantiene una distanza di rispetto e di riguardo. Così come da sempre mi lavo le mani, non c’è bisogno che me lo dica l’Istituto superiore della Sanità, mia nonna mi diceva prima di cena "bambini, lavatevi le mani, e non mettetevi le dita nel naso". Una cosa buona il covid l’ha fatta…»

Quale?

«Di fare in modo che i tavoli non stiano troppo attaccati: quando l’esercente tratta meglio i suoi clienti e offre loro un po’ di spazio in più, c’è soddisfazione, è bello poter parlare senza essere ascoltati. Lo stesso si può dire per il mare e per la distanza fra gli ombrelloni».

Quali sono i suoi programmi nell’immediato?

«Non lo so, regna l’incertezza, ma mi piacerebbe tanto fare una trasmissione televisiva, però vedo che replicano roba vecchia, dicono che non ci sono soldi, e c’è una programmazione lontana dal varietà».

Ma lei in Rai sta pagando le sue posizioni spesso controcorrente?

«Può anche darsi che io metta un po’ di preoccupazione, però poi c’è qualcuno che le battute le fa lo stesso. Molto dipende dai rapporti personali e dalle conoscenze. Io penso che occorra giudicare dal risultato professionale, si diceva nel ‘68 che una risata vi seppellirà, poi non ha seppellito nessuno. In un Paese democratico non bisogna avere il terrore di una battuta, anzi la battuta rafforza la democrazia. Da noi al contrario si ha timore, e allora si preferisce riempire la tv di trasmissioni del bla bla bla e del pettegolezzo, invece di fare programmi di varietà intelligenti, divertenti soprattutto, gradevoli, per intrattenere lo spettatore. Al contrario, vogliamo spettatori annoiati e inebetiti che stanno davanti al piccolo schermo».

In realtà qualche programma di satira c’è, anche se solo contro una precisa parte politica, cioè il centrodestra.

«E’ vero, sì, si fa un po’ di satira, pure abbastanza pesante e feroce, però a mio avviso la satira è contro il potere costituito, o perlomeno non dovrebbe avere colore, e colpire a destra e a manca, altrimenti siamo vestali del pensiero unico: ma in Italia si colpisce a destra, a manca un po’ meno, anzi la satira che colpisce a manca manca…»

·        Enrico Nigiotti.

Marco Gasperetti per corriere.it il 18 giugno 2020. Nella bufera giudiziaria ci sono finiti diciotto professionisti, tra i quali medici e avvocati, dieci dei quali arrestati. Sono accusati di «associazione per delinquere» finalizzata alla «corruzione», di «fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e mutilazione fraudolenta della propria persona» e di altri reati. In altre parole avrebbero falsificato documentazioni sanitarie di incidenti stradali per far ottenere ai propri clienti risarcimenti sovrastimati da parte delle compagnie assicurative. Altre 71 persone sono state indagate dalla procura di Livorno perché avrebbero consentito l’alterazione dei loro referti medici. Tra queste anche un nome celebre dello spettacolo: il cantautore Enrico Nigiotti, 33 anni, livornese, volto celebre della tv anche per aver partecipato con successo al Festival di Sanremo con brani entrati poi nella classifica dei più ascoltati. Nigiotti non ha nessun provvedimento cautelare ed è solo indagato. Su di lui il sospetto di aver accettato di falsificare o alterare in concorso con altre persone la documentazione sanitaria di un incidente stradale facendo pagare all’assicurazione un risarcimento (12 mila euro) più alto del dovuto.

Operazione «Triade Sicura». L’operazione, denominata «Triade Sicura», è scattata dopo lunghe indagini della compagnia dei carabinieri di Livorno al comando del maggiore Guglielmo Palazzetti. Le persone fine in carcere sono il medico legale Francesco Papini, 62 anni, la moglie Cinzia Allegranti (52). Agli arresti domiciliari il perito informatico Claudio Del Grosso (63), lo psichiatra Massimo Nencioni (65) e l’operatrice socio sanitaria Serena Cioni (53). Sono 35 i sinistri stradali per i quali l’associazione avrebbe chiesto e ottenuto da importanti gruppi assicurativi risarcimenti, per un valore complessivo di circa 650 mila euro. I carabinieri hanno sequestrato a Papini quattro immobili nonché opere d’arte di diversi autori italiani contemporanei, tra i quali Guttuso, Schifano, Carrà, De Pisis e Fattori, sculture e anche un’anfora romana, per un valore complessivo di 2 milioni di euro.

Livorno, falsi incidenti per truffare le assicurazioni: indagato anche il cantautore Nigiotti. Secondo l'accusa avrebbe alterato i danni per avere un risarcimento superiore. Cinque persone arrestate, 89 nell'inchiesta. Sequestrati quadri di grandi artisti, anche un Guttuso, un Carrà, uno Schifano. La Repubblica il 18 giugno 2020. Avrebbero falsificato la documentazione sanitaria e informatica di decine incidenti stradali per ottenere illeciti risarcimenti da parte delle compagnie assicurative. E' questa l'accusa al centro di un'inchiesta della Procura di Livorno che ha portato all'esecuzione di 10 misure cautelari eseguite dai carabinieri e che ha permesso di sgominare una presunta associazione per delinquere dedita alle truffe alle assicurazioni. Tra gli indagati - in tutto 89 - anche il cantautore toscano, reduce dall'ultimo festival di Sanremo, Enrico Nigiotti: secondo l'accusa il cantante avrebbe acconsentito a falsificare il referto medico di un incidente stradale in cui era rimasto coinvolto per avere un risarcimento più alto: una cifra che si aggira intorno ai 12 mila euro. Il cantante è subito intervenuto sulla vicenda con un post sui suoi canali social: "Riguardo l'operazione "Triade Sicura", che oltre me vede indagate altre 71 persone con una serie di sinistri stradali, attualmente non sono a conoscenza degli atti di indagine avendo saputo solo il titolo di reato per il quale si sta procedendo.- spiega Nigiotti su Facebook e Instagram - Io sono rimasto coinvolto un anno fa in un brutto incidente stradale nel quale ho rischiato la vita. Confido di poter chiarire il prima possibile la mia posizione ma, al momento, devo ancora ricostruire i fatti e recuperare i documenti relativi al risarcimento del danno derivante da quel sinistro". "Ho piena fiducia nella magistratura e valuterò con il mio avvocato le iniziative da intraprendere a tutela della mia persona. - continua Nigiotti - Al momento posso solo dichiarare la mia estraneità a qualsiasi fatto di natura illecita, avendo sempre agito nel pieno rispetto della Legge". L'indagine, denominata Triade sicura che si è conclusa oggi con dieci misure cautelari (2 arresti in carcere, 3 ai domiciliari e 5 interdizioni dalla professione eseguite a Livorno, Empoli, Pontedera e Viareggio) era cominciata a maggio 2019: gli accertamenti degli investigatori erano iniziati indagando su un medico legale livornese finito oggi in carcere. Gli inquirenti hanno ricostruito che sarebbe esistita una "collaudata rete" di 18 professionisti, che comprendeva medici, avvocati, un esperto informatico, che si occupava di falsificare la documentazione sanitaria relativa agli incidenti stradali. Lo scopo della presunta organizzazione era quello di ottenere illecitamente risarcimenti sovrastimati da parte delle compagnie assicurative. Sono 35 gli incidenti stradali per i quali il gruppo di truffatori avrebbe chiesto ed ottenuto da importanti gruppi assicurativi risarcimenti, per un valore complessivo di circa 650 mila euro. Sono finiti in carcere il medico legale livornese Francesco Papini, 62 anni, e la moglie, Cinzia Allegranti, 52 anni, ai quali sono stati anche sequestrati quattro immobili (una villa, due appartamenti, uno studio) nonché 57 quadri di diversi artisti italiani (tra gli altri Guttuso, Schifano, Carrà, De Pisis e Fattori), una scultura e anche un'anfora romana. A Papini è stata applicata anche l'interdizione dall'esercizio della professione. Agli arresti domiciliari invece il perito informatico Claudio Del Grosso, 63 anni, di Livorno, lo psichiatra Massimo Nencioni (a cui è stata applicata anche l'interdizione dall'esercizio della professione), 65 anni, di Viareggio, e la sua collaboratrice, l'operatrice socio sanitaria Serena Cioni, 53 anni, di Empoli. Per altri cinque indagati è stata disposta l'interdizione dall'esercizio della professione: si tratta di un medico legale, di un medico ortopedico e tre avvocati. Sono tutti accusati, insieme ad altri otto indagati a piede libero, dei reati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla istigazione alla corruzione di pubblici ufficiali nonché al "fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e mutilazione fraudolenta della propria persona". A carico di due dei presunti associati, insieme a un terzo indagato a piede libero, sono stati configurati anche i reati di autoriciclaggio e la sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Altre 71 le persone, considerate "affidabili" dai presunti organizzatori delle truffe, sono indagate per aver consentito l'alterazione dei loro referti medici. Tra queste, ma senza provvedimenti cautelari a suo carico, il cantautore Nigiotti, 33 anni. A tutti i 71 indagati, nei confronti dei quali oggi sono state eseguite anche delle perquisizioni, è stata notificata l'informazione di garanzia per il reato di "fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e mutilazione fraudolenta della propria persona".

·        Enrico Remigio: il milionario.

Chi vuol essere milionario, ha vinto Enrico Remigio: il milione è suo. Jacopo Bongini il 29/01/2020 su Notize.it. Enrico Remigio è la quarta persona nella storia di Chi vuol essere milionario a rispondere correttamente alla domanda da un milione di euro. Il 30enne Enrico Remigio è riuscito ad entrare nella storia di Chi vuol essere milionario come il quarto concorrente ad essere riuscito a vincere il milione di euro. Il giovane manager originario di Pescara, ma residente a Singapore, ha infatti risposto correttamente alla domanda da un milione di euro mettendo la parole fine all’emozionante cavalcata cominciata una settimana fa nella precedente puntata del programma condotto da Gerry Scotti.

Enrico Remigio vince il milione. Nella puntata di Chi vuol essere milionario andata in onda nella serata del 29 gennaio Enrico Remigio è riuscito a rispondere esattamente alla domanda da un milione di euro “Cosa lasciò scritto sul suolo lunare Gene Cernan, l’ultimo uomo che mise piede sulla Luna?”. La risposta esatta in questo caso era la B: Cernan infatti lascio sulla Luna le iniziali della figlia Teresa inscritte nella polvere. Con la sua vittoria, Remigio diventa così il quarto concorrente a vincere il milione di euro su sette che nei vent’anni di storia del programma sono riusciti ad arrivare alla domanda finale, la quindicesima. Il 30enne ha raggiunto il traguardo avendo in precedenza utilizzato tutti e quattro gli aiuti e rispondendo esattamente al quesito da un milione di euro utilizzando soltanto il proprio ragionamento. Nella puntata precedente, Remigio aveva risposto esattamente alla domanda da 300mila euro, che chiedeva quale fosse stato il primo “Uomo dell’anno” della rivista statunitense Time nel 1927. In quell’occasione la risposta esatta era Charles Lindberg. 

Enrico, nuovo re del quiz in tv «Ho voluto osare e sono milionario». Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Renato Franco. Chi vuol essere milionario? Tutti, la risposta è facile. Meno quando in mezzo c’è una scalata di 15 domande. Enrico Remigio ci è arrivato, lassù in cima, dove prima di lui solo in tre erano saliti, gli unici capaci di vincere l’intero premio del quiz di Gerry Scotti, il format di successo globale che è diventato pure un film da Oscar (The Millionaire di Danny Boyle, 8 premi tra cui miglior film e regia). «Cosa lasciò scritto sul suolo lunare Gene Cernan, l’ultimo uomo che mise piede sulla Luna?». È la domanda che vale 1 milione di euro, la risposta Enrico Remigio non la conosce, ma «ci sono arrivato con un misto di ragionamento e istinto: alla fine mi è arrivata l’illuminazione, ma la componente di fortuna è innegabile». La classica botta di vita. Euro dopo euro, domanda dopo domanda. Una dopo l’altra, scalino dopo scalino, e anche lì non che le sapesse tutte: «Ragioni, vagli le possibilità e scegli: audaces fortuna iuvat». Alla fine volavano coriandoli e il cuore batteva in testa: «La prima sensazione è stata quella di incredulità; quando giochi certo che speri di vincere, ma sai che è praticamente impossibile». Infatti in 1700 puntate è successo solo tre volte, l’ultima nel 2011. «Poi è arrivata la gioia, capisci che ti è capitato qualcosa di unico nella vita». Del resto come diceva Flaiano i giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume. La fortuna aiuta gli audaci. Ma lui ha sfiorato la follia, più della temerarietà. Perché settimana scorsa era arrivato a 300mila euro. Poteva fermarsi e scappare con il malloppo. Ma ha deciso di andare avanti, sapendo che se sbagliava gli sarebbero rimasti solo 70mila euro in tasca. Un bell’azzardo. Pochi lo avrebbero fatto: «Infatti i miei genitori e la mia ragazza sono rimasti basiti. Ma ha vinto la paura del rimpianto». Un rimpianto al contrario: non quello di perdere, ma quello di lasciar andare l’opportunità di vincere: «Il pensiero di non averci provato mi avrebbe perseguitato». Nato 30 anni fa a Popoli (Pescara), il padre agente di commercio, la madre direttrice di hotel, una sorella più piccola di 5 anni, Enrico Remigio si è laureato in Marketing alla Bocconi di Milano. Nel 2013 ha trovato il suo primo lavoro in Thailandia in una fabbrica che esporta forniture per impianti elettrici. Da un anno, invece, vive e lavora a Singapore come responsabile vendite alla Ktm (l’azienda di motociclette). È fidanzato da 5 anni con una ragazza francese (Lauren, 33 anni) che vive a Bangkok. Un tipico figlio di questo tempo. «Vivo all’estero da tanti anni e non seguo più di tanto la tv italiana, ma Chi vuol essere milionario? è uno dei pochi programmi che ho sempre guardato, è una sfida che ho sempre pensato di poter affrontare». Talmente convinto che ha preso un aereo (a sue spese ovviamente) da Singapore per venire a fare i provini in Italia: «Sono partito alla cieca, è stato anche quello un rischio: di soldi e tempo». Poi è andato a Varsavia dove Canale 5 ha il set della trasmissione (per motivi meramente economici): in Polonia il quiz va in onda ogni giorno e lo studio è già pronto, allestito con loghi e grafiche, quindi per Mediaset girare lì i 7 speciali rappresenta un risparmio costi. La domanda più scontata: come spenderà il milione? «Non ho spese immediate da affrontare, non c’è un sogno che volevo realizzare. In un’epoca di incertezza sul futuro, è un cuscinetto che mi dà la possibilità di ricominciare dove voglio, magari tornare in Europa; insomma è un’ottima base su cui fare affidamento». Quanti parenti sconosciuti si sono fatti improvvisamente vivi? «Il metro lo danno Facebook e LinkedIn, mi sono arrivate un migliaio di richieste, gente mai sentita prima». Non si può studiare per un quiz del genere: «È impossibile, contano i propri interessi, le proprie letture, gli studi: ci si prepara con la propria vita». Almeno un regalo se lo farà? «Penso che sia venuto il momento di comprare un anello...».

Ps. «Le iniziali della figlia». Era questa la risposta giusta.

Il quiz da un milione di euro e i biglietti della fortuna: vincite record, non solo in tv. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Antonella De Gregorio. Un milione di euro in prima serata: il manager uscito dalla Bocconi, impiegato a Singapore, Enrico Remigio, è riuscito nell'impresa che prima avevano centrato solo altri tre concorrenti; l’ultimo, nove anni fa. Alla fatidica domanda: «Cosa lasciò scritto sul suolo lunare Gene Cernan, l’ultimo uomo che mise piede sulla Luna?», il giovane manager - che nella puntata precedente era già arrivato alla domanda da 300mila euro - ha dato la risposta esatta («Le iniziali della figlia»). Sei volte Gerry Scotti ha posto il quesito milionario, negli anni di conduzione del famoso quiz, andato in onda ininterrottamente dal maggio 2000 al luglio 2011, e poi tornato sulla rete ammiraglia di casa Mediaset dal dicembre 2018, per i vent’anni del format originale inglese: «Who wants to be a millionaire?», a cui si sono ispirate oltre cento edizioni in tutto il mondo. In quattro, con Remigio, hanno azzeccato la doviziosa risposta. La prima, Francesca Cinelli nel 2001, quando nei portafogli degli italiani giravano ancora le lire. La 28enne di Empoli, allora segretaria in un concessionario d’auto, conquistò il jackpot (da un miliardo) nel gioco che allora si chiamava «Chi vuol essere miliardario?». Secondo protagonista dello show, Davide Pavesi nel 2004: a soli 22 anni, il vincitore più giovane nella storia del gioco. Nel 2011 il milione lo intascò Michela De Paoli, casalinga di Pavia, che dopo la vincita aprì una gelateria con il marito. Non ebbe successo: nel 2018 si ritrovò in difficoltà economiche e senza lavoro. Anche altri concorrenti baciati dalla fortuna hanno subito poco dopo un rovescio della sorte: è successo a Francesco Nonnis, Michael Di Liberto e Marco Burato, che hanno partecipato nel 2017 al quiz «Reazione a catena» su Rai Uno: dopo 35 puntate e 400mila euro di vincite, sono stati licenziati dall’azienda per la quale lavoravano, «per troppe assenze». In tv, tra le vincite più alte degli ultimi tempi, quella dell’aprile 2018: sul Canale Nove, i Raggi X, un team composto da quattro ragazzi, ha vinto la somma record di 570 mila euro durante la puntata di «Boom!», il quiz tv condotto da Max Giusti. Non dalle grandi reti Rai e Mediaset, dunque, è arrivata la vittoria più alta. Ma grandi soddisfazioni sono arrivate anche sulla Rai: Nunzia Cannizzaro, operatore socio sanitario di Savona, a «I Soliti Ignoti» - il game show di Rai1 condotto da Amadeus, dove i concorrenti giocano a indovinare l’identità di personaggi misteriosi - il 6 dicembre 2017 si è aggiudicata un premio di 380mila euro. E Caterina, casalinga disoccupata, l’8 gennaio 2020 ha vinto, nello stesso show, 250 mila euro in gettoni d’oro. L’ultima vincita straordinaria non è passata per la tv, ma da una tabaccheria: «Il Quadrifoglio», di Arcola, in provincia di La Spezia. Nome-amuleto, che ha fruttato una vincita da 67 milioni di euro al fortunato che il 28 gennaio ha centrato, con una schedina da soli 2 euro, il 6 al Superenalotto. sono 123 le vincite con punti 6 realizzate dalla nascita del SuperEnalotto. Il precedente, nel 17 settembre 2019, con un Jackpot da 66,4 milioni di euro vinto a Montechiarugolo (Pr). Il 13 agosto 2019, invece, è stato vinto a Lodi il Jackpot record di 209 milioni di euro, la vincita più alta nella storia del SuperEnalotto di Sisal. La vincita più alta della storia, 1,6 miliardi di dollari (1,40 miliardi di euro) è stata quella della lotteria «Mega Millions», il 23 ottobre 2019 è stato sbancato il jackpot con uno dei biglietti che costano solo due dollari, venduti in 44 Stati americani. Le possibilità di vittoria sono solo una su 32 milioni: quel giorno chi acquistò il biglietto nella Carolina del Sud diventò il più ricco di sempre. La vincita precedente, nel luglio 2018:40 milioni di dollari (35 milioni di euro). L’ultima vincita risale allo scorso luglio quando il fortunato vincitore riuscì ad accaparrarsi 40 milioni di dollari (35 milioni di euro). Ma l’ultimo record ha bruciato anche il primato della lotteria Powerball del 2016 (1,5 miliardi). L’America è il paese delle lotterie, con i montepremi più ricchi del mondo. in America, i vincitori delle lotterie possono scegliere di ricevere il denaro in una rendita annuale, o di ottenere tutta la somma in una volta sola, in un unico pagamento, per un importo inferiore. Il più grande jackpot della lotteria in Europa è stato un premio di 161,7 milioni di sterline, assegnato il 12 luglio 2011 dalla lotteria EuroMillions, nel Regno Unito. È stato venduto un solo biglietto vincente, che lo ha reso il più grande jackpot assegnato a un singolo giocatore in Europa. 177,7 milioni di euro. In Italia, la vincita del Super Enalotto più alta in assoluto assegnata fino ad oggi è invece quella da 209milioni (il 13 agosto 2019); il 30 ottobre 2010 sono stati assegnati 177 milioni di euro con un sistema da 70 quote. E con una schedina da 3 euro giocata a Vibo Valentia, un’altra vincita record, 163 milioni di euro. Furono nove i vincitori del leggendario jackpot da quasi 64 miliardi di lire, frutto di un sistema messo a punto da una edicola-ricevitoria di Peschici ormai 20 anni fa, il 31 ottobre 1998.

·        Enrico Ruggeri.

Quarta Repubblica, Enrico Ruggeri "fascista"? "Perché mi considerano di destra", la vergogna dei compagni. Libero Quotidiano il 15 dicembre 2020. Contro il pensiero unico. Enrico Ruggeri, intervistato da Nicola Porro a Quarta Repubblica su Rete 4, spiega fin da subito cosa significa andare controcorrente e venire etichettato. "I punk visto che erano vestiti di nero venivano pensati di destra", ed ecco affibbiatagli la nomea di "fascista" fin da giovanissimo, quando era leader dei Decibel e rompeva gli schemi della musica italiana importando nuovi linguaggi. Ma il suo essere "contro" lo ha accompagnato come uomo, per tutta la vita. E lui ne va fiero. "Quando vedo un'ingiustizia non ce la faccio, sapere che i pescatori di Mazara del Vallo da 100 giorni sono ancora lì in Libia, mi fa rabbia e non se ne è parlato quanto si doveva", punge ad esempio Luigi Di Maio e Giuseppe Conte. Anche su coronavirus e pandemia ha il coraggio di parlare fuori dal coro: "I nostri figli subiranno conseguenze per anni. Questa non socializzazione è un peso che porteranno per tutta la vita. Capisco che c'è un'emergenza ed uso tutti i protocolli, ma non possiamo rinunciare a vivere per la paura di morire". "Se nella storia - conclude - tutti avessero pensato alla salute non si sarebbe scoperta l'America e non si sarebbe combattuto per un'idea". Che sia troppo di destra dirlo? 

·        Enrico Vanzina.

Dagospia il 17 dicembre 2020. Da I Lunatici – Radio 2. Enrico Vanzina è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei del mattino. Vanzina ha raccontato alcune cose di se: "Come sto? Questo periodo lo sto vivendo in maniera ragionata. Sono confuso, preoccupato e anche un po' stanco. L'altra volta era diverso psicologicamente, questo miscuglio di apertura e chiusura rende tutto più complicato, c'è una commistione tra semilibertà e poi invece no, la sera ti ritrovi con serate tutte uguali, psicologicamente è pesante. L'altra volta c'era una serrata totale, l'ho vissuta quasi come una sfida alla nostra integrità morale. Ora è diverso".

Sul settore del cinema: "Non sono un "piagnone", ma amo rimboccarmi le maniche. Ora la situazione è molto dura. C'è una disabitudine al cinema che già era in atto, ora il pubblico si è abituato a guardare i film in un altro modo. Sarà difficile che riaprano tutti i cinema che hanno chiuso. Questo rito collettivo non morirà, sicuramente, ma abbiamo subito uno schiaffo violentissimo e siamo molto preoccupati". Sulla critica: "Chi fa le commedie generalmente subisce un certo trattamento. Poi questo è un Paese dove non ti perdonano il successo. Ma il tempo è sempre galantuomo. Alla fine il tempo rimette a posto tutto. E poi succede qualcosa di strano, che è accaduto a mio padre, ma anche a mio fratello, quando ancora era in vita. Che diventi di culto. Prima venivi trattato in modo superficiale, poi iniziano a cercare significati in ogni inquadratura che in realtà non esistono. E' sbagliato sia il primo caso che il secondo".

Ancora Vanzina: "Chi fa il cinema deve fare delle cose: vedere i film degli altri, e invece molti registi non vanno al cinema. Poi stare tra la gente, soprattutto chi fa la commedia. Devi andare allo stadio devi andare al ristorante, devi fare l'amore, devi stare a contatto con la realtà. Se non guardi quello che c'è attorno a te non puoi fare la commedia. Nel corso degli anni la commedia all'italiana è diventata ideologica, invece nella grande commedia all'italiana, quella di Monicelli, non dava un giudizio sui personaggi. Poi giudica il pubblico. La grandezza del cinema italiana è di non aver mai messo l'ideologia al centro del racconto".

La sua idea sugli italiani: "Degli italiani ho letto moltissimo. Siamo un popolo odioso e meraviglioso al tempo stesso. L'Italia è ancora legata a piccole divisioni, ai dialetti, ma alla fine è bello così. Siamo strani ma meravigliosi".

Sui suoi esordi: "Non volevo fare il cinema, volevo scrivere e basta. Poi sono stato trascinato dentro, ho iniziato a fare l'aiuto regista. Mi è piaciuto, meno male. Totò? Me lo ricordo bene, se ne è andato quando ero piccolo. Era elegantissimo e molto riservato, non diceva mai parolacce, faceva anche un po' impressione a frequentarlo. Quando lo vedevo sul set era Totò, ma nella vita era il principe De Curtis".

Su Gigi Proietti: "Io con lui ho mille aneddoti, ho avuto la fortuna di lavorare tantissimo con lui. Eravamo anche amici nella vita. Ricordo che una volta stavamo girando ai Caraibi e c'era una partita della Roma contro il Napoli. L'abbiamo sentita tramite una radiolina a seimila chilometri di distanza. La Roma vinse, iniziammo a correre sulla spiaggia per festeggiare, e ci infilammo in un ciringuito a bere Rum".

Su Paolo Villaggio: "Con lui girammo a Tokyo 'Banzai', facendo il film più brutto della nostra vita. Disse che voleva andare in Giappone a mandare il sushi, così inventammo una storia insensata ambientata a Tokyo. Però andare in giro in Giappone con Villaggio è stato meraviglioso. Era un uomo speciale, aveva una cultura e una semplicità incredibile".

Sulle attrici con cui ha lavorato: "Una in particolare che ha segnato la mia storia? Tante, ma una sicuramente la Melato. Devo moltissimo a Monica Vitti. E poi altre. Credo di aver lavorato con quasi tutte le attrici italiane".

·        Enzo Iacchetti.

Enzo Iacchetti contro Ezio Greggio: “Non ho amici in tv”. Alice il 22/01/2020 su Notizie.it. Ezio Iacchetti è stato piuttosto duro e lapidario per quanto riguarda le sue amicizie nel mondo della televisione: il celebre conduttore ha dichiarato di non avere amici nella sfera lavorativa e poi si è espresso in maniera piuttosto fredda anche per quanto riguarda il suo storico collega, Ezio Greggio.

Enzo Iacchetti contro Ezio Greggio. “Greggio? Un compagno di banco”, con queste parole Enzo Iacchetti ha descritto la sua amicizia con lo storico collega Ezio Greggio, dopo che ha anche dichiarato di non avere amici in TV. Tra i due colleghi dunque non ci sarebbe il profondo rapporto d’amicizia che chiunque avrebbe potuto pensare vedendoli a Striscia la Notizia. I due, evidentemente, fuori dal lavoro non avrebbero alcun rapporto e del resto Iacchetti ha ammesso che non avrebbe proprio “amici” nel mondo della televisione. Il conduttore ha detto anche che preferisce coltivare rapporti con persone che siano al di fuori del proprio ambito lavorativo: “Adoro il mio mestiere ma appena finisco una puntata di Striscia…”, ha dichiarato. Il conduttore non ha mai nascosto che quando conobbe Greggio lui sarebbe stato intenzionato ad “annientarlo”: tra i due non sarebbe mai corsa un’immediata simpatia reciproca ma col tempo, nonostante i differenti caratteri, sarebbero riusciti a rispettarsi e a trovare un punto d’incontro. Iacchetti ha confessato nel corso delle sue interviste di essere intollerante anche alle “follie” dei vip, e di preferire piuttosto gente comune o semplice che si possa incontrare ovunque, fuori dal contesto in cui lavora. “Ho amici che fanno gli idraulici, i meccanici, qualcuno il dentista, uno il commercialista”, ha dichiarato.

Dagospia  il 21 gennaio 2020. Da I Lunatici Radio2. Enzo Iacchetti è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Iacchetti ha parlato un po' di se: "Il mio rapporto con la notte? Non sopporto di dormire lontano da casa quando faccio le serate. Anche a teatro, se sono a meno di 400 chilometri torno a Milano. Il teatro per me è stata fame per tanti anni e lo è ancora adesso rispetto alla televisione, però andando avanti faccio meno televisione perché sono riuscito a pagare i debiti e quindi faccio quello che mi piace. Il teatro è la mia dimensione, mi ha dato la parola. Io non parlavo da bambino, poi salivo sul palco e iniziavo a parlare. Anche più di quanto diceva il copione. Sono ancora timido, mi vergogno quando mi chiedono di fare i selfie. Sono stato molto fortunato, cerco di non fare il Vip, il Vip fa una vita del cacchio. Non è libero. Io invece giro libero. Mi chiamano tutti Enzino, solo la mia mamma mi chiamava Vincenzo. Rimarrò Enzino, l'importante è che la gente mi voglia bene".

Sulla popolarità: "Guai a considerare la gente una rottura di scatole. Altrimenti sarei un Vip. Io non mi scoccio a fare i selfie. Non dico di spegnere i cellulari. Io vado a far la spesa al supermercato e il mio target di signore over 70 impazziscono. Uno normale ci mette un quarto d'ora a comprare tre cose, io invece ci metto 40 minuti. Sto lì, gliela racconto, faccio la foto. Di solito la devo fare io perché loro mettono il video. Mi danno il bacino, molte puntano in bocca perché sono vedove. Se vado a casa con la guancia sporca di rossetto il mio cane non si ingelosisce. Se prendi un taxi il selfie lo fai. Poi molto spesso capita che mi chiedano se sono Ezio Greggio. Ma anche a lui capita di essere chiamato Iacchetti. Oppure nel mese di giugno la gente ti incontra e ti dice che ti vede tutte le sere. Ma sei andato via da Striscia a novembre".

Sull'arrivo del successo: "Io ho fatto provini con tutti fino a 39 anni, da quando ne avevo 15. Da bambino suonavo sette strumenti, ma i miei non avevano le possibilità di farmi studiare la musica. Io scappavo di casa, rubano le chitarre, ho sempre fatto questa cosa. Ma l'occasione è arrivata per caso, quasi trent'anni dopo. Da Costanzo, nel '90. Ero scettico sull'andare lì, all'inizio mi avevano scartato. Un redattore mi disse che le cose che facevo non funzionavano. Lui dalla prima puntata me ne fece fare 187. E la mia vita è cambiata. Per un comico andare da Costanzo quattro volte significava sfangarla. I produttori che non mi volevano a fare le cose, poi me le hanno fatte fare. Azzeccato Costanzo, azzeccato il primo anno di Striscia, tutti quelli che mi avevano scartato poi sono tornati. Mio papà è mancato a 55 anni, non ha mai visto né la mia gavetta né l'arrivo al successo. Mia mamma sì, ma nel paese in cui vivevo le dicevano che cantavo sciocchezze e stupidate. Lei non andava più a far la spesa, finché non mi vide in prima serata con la Cuccarini a condurre un programma. La prova del successo per me fu fare un programma con Lorella".

Sul mondo dello spettacolo: "Non ho amici nel mio ambiente. In teatro costruisco le famiglie, da tanti anni non ho una famiglia, a volte produco i miei spettacoli, scelgo delle persone brave e giovani che hanno bisogno, mi stanno vicino e mi vogliono bene. Ceno sempre con i tecnici, non sopporto le follie dei vip. E' stato un bene arrivare al successo a quarant'anni. Se ci arrivi a venti e non hai nessuno che ti protegge, la guerra la perdi. Il conto in banca cresce improvvisamente, ti cambia tutto, non ti soddisfa più niente. Ho degli amici che fanno i meccanici, gli idraulici, qualcuno il dentista, uno il commercialista".

Sul rapporto con Ezio Greggio: "Siamo come i compagni di banco che si ritrovano a scuola l'anno successivo. Tra noi c'è un tacito accordo di buona convivenza. Quando siamo in onda usciamo insieme a cena qualche volta, ci mandiamo qualche messaggio, ci facciamo qualche scherzo. Poi però per me è lontano lui. E' un compagno di banco di televisione, gli voglio bene, mi ha insegnato tante cose senza dirmi niente. Io l'ho osservato, mi ha insegnato molte cose senza volerlo".

Iacchetti: in scena la vita di Burtun attore sfortunato come me. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Emilia Costantini. Burt e Leon fanno a gara con le loro disgrazie e disavventure. Sono due attori, un po’ attempati, che sognano di acciuffare la grande occasione a Hollywood, ma intanto si accontentano di dirsene di tutti i colori seduti davanti al loro hambuger, nella mensa per artisti negli Studios di Los Angeles. Hollywood Burger è lo spettacolo di Roberto Cavosi interpretato da Enzo Iacchetti e Pino Quartullo, da stasera in tournée: prima tappa al palazzo del Parco di Bordighera. «Siamo due poveri cialtroni, due autentici sfigati - esordisce Iacchetti - Per un motivo o per l’altro, viene sempre tagliata la scena di film importanti cui abbiamo partecipato».

Per esempio?

«Nel mio primo film, Casablanca, io facevo la parte del giovane accordatore del pianoforte e dovevo dire la battuta al pianista “suonala ancora Sam”. Invece, arriva Bogart e la dice lui. Nel Titanicvengo costretto dal regista a fare un bagnino che girava tra gli iceberg in gommone, ma poi anche questa scena viene tagliata. Il mio Burt sul grande schermo non è mai apparso, però insieme col collega si danno arie di grandezza, snocciolando nomi famosi di attori, come fossero intimi amici, tipo Stanley, cioè Kubrick, Al, cioè Al Pacino, Ridley, cioè Scott...».

La vera carriera dell’attore Iacchetti inizia con un licenziamento.

«Giusto. Mi ero sposato da poco e dovevo portare i soldi a casa. Vado in Svizzera a lavorare in un’agenzia di viaggi: speravo di poter girare il mondo e, invece, mi ritrovo in un ufficetto, seduto alla scrivania, con dietro un poster del Sri Lanka: l’unico viaggio di fantasia che potevo fare. La verità è che sin da piccolo avevo il sacro fuoco del palcoscenico. Le prime apparizioni nelle compagnie dialettali, poi mi esibivo in scene cabarettistiche nelle pizzerie, i clienti mi tiravano crostoni di pizza, io me li portavo a casa e li mangiavo. Fame nera! Poi il Derby di Milano. La vera svolta è arrivata a 40 anni».

Con Ezio Greggio?

«Quando mi telefonò, credevo fosse Scherzi a parte. Ezio mi invita a pranzo con Antonio Ricci: al ristorante mi guardavo intorno sospettoso, per capire se ci fossero telecamere nascoste. Non credevo ai miei occhi! E quando andò in onda la mia prima apparizione a Striscia, telefonai a mia madre, chiedendole se mi aveva veramente visto».

Con Greggio, una coppia inscindibile.

«Da 26 anni ci sopportiamo, ci capiamo al volo».

Mai capitato un incidente?

«Ne ricordo uno divertente. Una sera ci accorgiamo che le veline, mentre le guardavamo da sotto, erano senza mutande. Forse non avevano fatto in tempo a mettersele. Ezio ed io non potevamo crederci!».

Tra tante risate, come le è venuto in mente di portare in scena un testo che parlava di Erika e Omar, del delitto di Novi Ligure?

«Fu uno spettacolo di denuncia, di impegno politico».

Impegno politico che lei ha vissuto in prima persona.

«Sono stato nel Pci fino alla morte di Berlinguer. Morto lui, sono morto politicamente e non ho più votato».

E la simpatia per i 5 Stelle?

«Mi piacevano i “vaffa” di Beppe Grillo e ho ricominciato a votare. Poi, ho smesso di nuovo».

Delle Sardine che ne pensa?

«Mi piacciono i ragazzi che scendono in piazza e rompono le scatole».

Nel 2015 ha preso un voto all’elezione del Presidente della Repubblica. Contento?

«Mi sono arrabbiato! Ezio ne aveva presi due».

Quanto somiglia allo sfigato Burt?

«Tantissimo! Sono stato perseguitato dalla sfiga, ma ho sempre tenuto duro. Non ho mai aspettato il treno passare e rifarei tutto quello che ho fatto, anche gli errori».

·        Enzo Ghinazzi-Pupo.

Cesare Lanza per “la Verità” il 28 giugno 2020. Per me, Enzo Ghinazzi - in arte, come cantante, Pupo - è un mito. Come giocatore, dico: uno di quelli che ha saputo scendere all'inferno, senza farsi bruciare l'anima per intero, e quindi tornare, e poi ripiombare all'inferno, e poi ritornare. Straordinario, anzi unico. Il rischio è nel suo sangue. Prima di entrare nelle incredibili vicende del gioco, vi ricordo (certamente molti di voi la conoscono) la sua particolare vita privata. È legato alla moglie, che ama, e ad un'altra donna, che ama non di meno. È finita qui non c'è nulla di straordinario, sono migliaia le storie private di questo tipo! Ma c'è un piccolo particolare che rende gigantesca questo comune rapporto. Pupo è riuscito a convincere le due donne, straordinarie anch' esse, a convivere con lui; e sono tutti e tre felici. Da molti anni ormai. Ecco come Pupo racconta delle sue due donne di casa, la moglie e l'amante, Anna e Patricia, che convivono serenamente: «Io non sono bigamo, la bigamia è illegale in Italia. Io sono circondato da una moglie, una compagna, una madre, tre figlie, c'è pure Valentina, e Viola, la nostra favorita, la nipotina di cinque anni. Anna è una donna semplice, Patricia di classe. Diverse, ma simili per la grande intelligenza. Non accetterei mai che una di loro mi tradisse. Patricia è possessiva, la chiamano "il Rottweiler". Anche Anna è gelosa, ma è più brava a nasconderlo». Ebbene, questo legame a tre non è un rischio, non è un complicato gioco d'azzardo? Non è forse un rischio sposarsi? Amare? Mettere al mondo un figlio? Sono rischi grandi. Penso che Pupo viva la sua vita come se fosse davanti a una partitina o partitona di azzardo. La vita di questo cantante è stata descritta (ingiustamente) più di una volta in modo critico: «Trans, vizio del gioco, debiti Pupo si confessa. Una vita vissuta al limite, fatta di eccessi e vizi, senza mai un freno. E svela segreti e perversioni», ho letto. Penso sinceramente che di perverso non ci sia proprio nulla. C'è una diversità e c'è il coraggio di raccontarla, cercando la verità in se stesso, senza moralismi, e senza paura di confidarsi con gli altri, che fossero amici o giornalisti. Pupo ha raccontato anche la sua "malattia" del sesso: «Da quando nella mia vita c'è Patricia, l'aspetto sessuale va meglio, prima era una malattia. Negli anni '80 megalomania pura, quando prendevo il Concorde da Parigi per vedere una donna a New York, avevo raptus continui. Le prendevo nei camerini e nelle camere d'albergo. Essere piccoli non aiuta, più raccolto sei, più sei soggetto a tempeste ormonali. Me l'ha confermato l'andrologo, ho il testosterone a mille. Ora sono più sereno, meno frequenza, ma qualità alta». Un'altra sua qualità: ha saputo - succede rarissimamente - accettarsi. A cominciare dall'altezza. Un metro e sessantacinque per 60 chili: le misure di Pupo: «Un centimetro in meno di Chiambretti, porto le Hogan perché mi regalano tre centimetri». Senza disperazione o esaltazione, come cantante e come giocatore ha fatto e disfatto autentiche fortune. In passato ha avuto anche un albergo: «Una roba di lusso, all'inizio del 2000 se l'era preso la banca: avevo 3 milioni e 200.000 euro di debito, tra gioco e investimento sbagliato. Poi, l'ho ricomprato per ripicca: 400.000 euro cash, anche se non so che farmene». Pupo, una celebrità, ha avuto problemi di debiti, che darebbero ansie e angoscia a chiunque, ma non si è mai demoralizzato: «La povertà non so nemmeno cosa sia. Ero pieno di debiti, ma senza mai abbassare il tenore di vita. Mi bastava prendere la chitarra e andare in giro per il mondo. Ci mettevo niente ad alzare 1 miliardo di lire con Morandi. Gianni è uno che ti porta all'esasperazione quando giochi, ti stuzzica, ti provoca. All'epoca mi sono rovinato con lo chemin de fer. Lì mi sfidavo con Dio. E perdevo. la mia fede è il gioco, il poker andrebbe insegnato nelle scuole al posto della religione. Tuttavia, vorrei salvare i giocatori compulsivi dal vizio. Quelli che si rovinano con le slot machine. Le odio, io sono stato l'ultimo romantico dei giocatori: lo smoking impeccabile, la mia Jaguar e la gnocca che ti arriva da Cleveland. Quattro giorni al Cipriani a Venezia e vai... Vuoi mettere la tristezza assoluta di quelli sudati e puzzolenti che entrano in una sala bingo?». Enzo Ghinazzi è nato a Ponticino, in provincia di Arezzo. «Sono partito da qui», dice con orgoglio. Alcuni anni fa mi raccontò una sua romanzesca sconfitta al casinò di Saint Vincent, a chemin de fer. Aveva vinto molto nelle sale comuni, nei diversi giochi, aveva le tasche piene di fiscie. Era euforico, si sentiva determinato a realizzare una colossale vincita. Per curiosità si avvicinò al salone del privè. Affacciandosi, vide che il tavolo di chemin era fermo. Il croupier ripeteva quasi stancamente: «Il banco è di 103 milioni, chi lo batte? Le puntate sono aperte... Chi chiama il banco di 103 milioni...». «Ero euforico, mi sentivo in forma, ispirato...», mi raccontò Pupo. «Senza esitare, dissi: "Banco! Banco solo..."». Era ciò che aveva in tasca, assai più di quello che aveva vinto in quel momento. «Mi avvicinai al tavolo e, come da regolamento, posai sul panno verde le fiscie necessarie per coprire la puntata, enorme». Gli altri giocatori lo fissavano, incuriositi. «Sentii il banchiere, un vecchio e grande industriale lombardo, che mormorava al croupier: "Chi è questo giovanotto che chiama il mio banco per intero?" E il croupier rispose con sufficienza: "È un cantante che si fa chiamare Pupo"». Lui, Pupo, si interruppe e mi fissò negli occhi: «Tu sai che, al gioco, a volte si hanno sensazioni inspiegabili. In quel momento capii che avrei perso! Forse per quell'aria di degnazione con cui il banchiere e il croupier mi avevano trattato». Il croupier non aveva ancora sfilato le carte dal sabot. Per regolamento, il giocatore di punta aveva il diritto di cambiare la puntata, o anche di rinunciarvi. Pupo dunque aveva la possibilità di evitare il rischio di perdere in un solo colpo 103 milioni. Ma non lo fece. Nessun grande giocatore rinuncia alla sua puntata. Per carattere, per orgoglio o per dignità; o anche per evitare rimorsi, nel caso le carte fossero vincenti. Pupo non rinunciò, il banchiere sfilò le carte e gli picchiò in faccia un 9, il punto vincente e imbattibile. Ghinazzi mi raccontò anche il suo triste ritorno a casa, in auto, in Toscana. «Arrivai all'alba e mia mamma mi aspettava in piedi, mi aveva preparato la colazione. Mi chiese: "Posso dirti una cosa?" e ovviamente assentii. Anche se ero stanco sfinito e non vedevo l'ora di buttarmi a letto. "Quell'antipatico del panettiere ha aumentato i biscotti di 10 lire, così, da un giorno all'altro. Gli stessi biscotti. Uguali e precisi, di ieri. E sono quelli che piacciono a te. Che dici, continuo a prenderli, oppure lasciamo perdere?"». Pupo si interruppe e mi fissò, ridendo: «Capisci? Qualche ora prima avevo perso 100 milioni in tre secondi e adesso lei, mia mamma, era indignata per l'aumento dei biscotti!». Vi ho detto che considero Pupo un mito. C'è un altro episodio da raccontarvi, la sua vita al tavolo verde è costellata anche di successi: nel 1994 in un casinò di Melbourne il cantante scommise sulla nostra vittoria nella partita Italia-Nigeria al campionato mondiale di calcio ed ebbe la meglio su un ricco uomo d'affari nigeriano. Vinse 300.000 dollari australiani, corrispondenti a 185.000 euro attuali (Ghinazzi aveva vinto la stessa somma il giorno prima al tavolo del baccarat). Negli anni Ottanta Pupo raggiunse il quinto posto in un campionato internazionale di poker organizzato all'hotel Fini di Modena. Furono «giorni e notti con le carte in mano», ha ricordato il cantante in un'intervista. All'inferno e ritorno? Si può. Debbo riferire che Pupo ha detto: «Sono l'esempio vivente che se ne può uscire». Perché vive la sua maggior vittoria, quella sulla ludopatia, come un dovere verso tutti quelli che si sono perduti nel tunnel del gioco d'azzardo. Il cantante si è messo a completa disposizione di chi ha, o ha avuto, il suo stesso problema. E, insieme a Pupo, tante personalità che con lui hanno affrontato questo problema. Ormai per lui il vizio del gioco è solo un (brutto? non credo proprio) ricordo. E ammette di essere stato schiavo della ludopatia in precedenza. «Io ho fatto una promessa a me stesso, nel momento in cui ho capito che forse potevo uscire dal tunnel del gioco d'azzardo, di dedicare parte della mia vita a raccontare quello che mi è capitato». Ma ripete anche, con soddisfazione, di essere la prova vivente che si può cambiare, se si vuole cambiare. «Chiaramente dal punto di vista di uno che ce l'ha fatta. L'esempio vivente che se ne può uscire. Lo sento come un dovere, un impegno perché la vita a me ha restituito qualcosa che non sempre restituisce, non lo dico io ma le statistiche. Direi che il mio "come-in back", il mio ritorno, è rarissimo. In questo senso ho il dovere di restituire almeno in termini di racconto qualcosa alle persone che invece adesso sono dentro al problema». Le scommesse milionarie, la dipendenza e la successiva guarigione: fiumi di inchiostro sono stati versati sul rapporto tra Enzo Ghinazzi e il gioco. L'artista toscano ha riferito di aver cominciato a giocare d'azzardo a 14 anni, seguendo l'esempio del padre sui tavoli del circolo Enal di Ponticino. In un'intervista mi disse di preferire il classico poker a quattro, rispetto ai testa a testa. Una vera e propria passione iniziata da giovane, anzi da giovanissimo. Tuttavia, il poker ha dato nuova notorietà a Pupo, che abbiamo scoperto in questi anni, con la conduzione di alcuni contenitori televisivi legati proprio al Texas Hold 'em. Nel periodo in cui il Texas Hold 'em cominciava a farsi strada nel nostro Paese Pupo condusse, insieme a Fabio Caressa e Stefano De Grandis, il programma La Notte del Poker, in onda su Sky. Qualche tempo dopo Pupo prese parte insieme ad altri personaggi famosi a un torneo organizzato nella stazione di Roma Termini, a favore dei terremotati abruzzesi. Per far fronte ai debiti di gioco infine, Pupo chiese e ottenne da Gianni Morandi un prestito da 200 milioni di lire. Pupo glieli restituì inaspettatamente nel 2008, dandogli in mano un assegno durante un concerto: il fatto venne documentato dalle telecamere di Striscia la notizia. Proprio Morandi, secondo quanto riferito da Ghinazzi, l'avrebbe spennato a poker, durante una partita giocata in aereo rientrando a Roma da New York.

Giovanni Terzi per Libero Quotidiano il 22 giugno 2020. «Quando mi chiedono cosa mi sia piaciuto di più tra le tante cose che ho fatto, io rispondo che per me la cosa più importante è sempre stato comunicare con la gente, con il pubblico. La musica certamente è la base da cui sono partito ma altri linguaggi, dalla scrittura di libri al presentare programmi televisivi o al fare docu-film sulla mia vita, mi hanno dato grandissima soddisfazione perché hanno permesso di raccontarmi e mettermi in relazione con le persone in una modalità diversa». Chi si sta raccontando con naturalezza e sincerità è Enzo Ghinazzi, conosciuto dal grande pubblico con il nome d'arte di Pupo. Enzo è un artista completo e autentico che fa della verità la sua cifra umana; così anche la nostra intervista assume immediatamente un sapore di una chiacchierata tra amici.

Non ha paura Enzo di raccontare i suoi errori e le sue cadute e lo fa con amabile sincerità quasi a voler spiegare con umiltà come i suoi più grandi successi, spesso, siano capitati dopo i suoi tormenti più profondi. Così sono gli artisti genuini e veri. Enzo, ma esiste un motivo per cui lei ha fatto così tante cose e così diverse?

«Due sono gli elementi che muovono la mia vita: la curiosità e la paura di annoiarmi. La curiosità ha permesso alla mia persona di migliorare la mia cultura, che è scolastica, ma sempre assetata di conoscenza. La paura di annoiarmi mi ha sempre portato ad intraprendere sfide nuove capaci di regalarmi entusiasmi che mi hanno sempre portato fuori dalla routine in cui ognuno di noi, suo malgrado, spesso si trova. In sintesi io mi devo sempre sentire vivo ed in buona fede».

Mi può spiegare cosa significa "sentirsi in buona fede"?

«Nel mio rapporto con il pubblico, e anche nel privato, devo essere certo di non mentire».

Mi riesce a fare un esempio?

«Quando fondai insieme ad altri amici artisti la Nazionale di calcio cantanti dopo un po' di tempo mi sorse una domanda: sono io che sto portando a casa più comunicazione utile per me o davvero ciò che sto facendo e utile a chi riceve la beneficenza? Sono più popolare io o l'iniziativa ? Questi dilemmi mi hanno attanagliato per anni quando magari andavo nelle scuole a presentare l'iniziativa della Nazionale e così, ad un certo punto, lasciai quel progetto».

E sul piano privato ?

«Sicuramente il tema sono le donne. Sono spesso stato menzoniero nel rapporto con loro e questo mi ha causato un grande conflitto interiore. Dal 1974, esattamente il 28 luglio, sono sposato con Anna e dal 1989, il 18 settembre, sono fidanzato con Patricia. La svolta per me è stato quando ho raccontato ad entrambe le donne che amavo il nostro rapporto».

E come è stato quando ha raccontato la sua "bigamia"?

«Non semplice ed infatti ci sono stati momenti di grande fatica emotiva. Poi, piano piano, senza alcuna ricetta ma semplicemente coltivando la sincerità nei rapporti si è creato qualcosa di meraviglioso. Io sono solito dire che siamo tre gambe di uno stesso tavolo e che se una cede, cade il tavolo».

Ma che rapporto c'è tra tutti voi, per esempio il Natale come lo passate?

«Siamo una famiglia allargata ed il Natale, quando il lavoro lo permette, lo passiamo tutto assieme. Ormai Anna e Patricia sono diventate amiche».

Nessuna gelosia?

«La gelosia con il tempo passa e rimane soltanto l'amore che tutto è ma non il possesso».

C'è stato qualche momento difficile?

«Tanti, come in ogni famiglia tradizionale».

Per esempio?

«Quando ebbi l'intuizione di raccontare la mia situazione sentimentale in un docufilm prodotto da Magnolia. Nessuno di loro voleva farlo ma io capii che era il momento. Giocai una carta che mai più tirai fuori».

Cosa accadde?

«Ebbi l'intuizione che il racconto della mia situazione familiare potesse diventare uno strumento per rilanciare la mia carriera e così dissi ad Anna e Patricia che, qualora loro persistevano a negarmi questa possibilità, le nostre strade si sarebbero divise per sempre perché mancava il presupposto alla relazione: la fiducia in me».

E loro cosa fecero?

«Accettarono e girammo la docu-serie sulla nostra vita».

Lei parla di intuizione per rilanciare la sua carriera...

"Io non ho mai avuto una seconda vita musicale. I successi di canzoni come Gelato al cioccolato oppure o Sarà perché ti amo (che scrissi per i Ricchi e Poveri) sono state sempre inarrivabili. Così, quando mi venne chiesto da Davide Parenti e Claudio Canepari di raccontare la mia vita mi venne in mente la frase della canzone di De Andrè "dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori". Mi buttai ed ebbi ragione».

In questo suo "raccontarsi" con linguaggi diversi c'è anche l'ultima esperienza del Grande Fratello Vip condotto da Alfonso Signorini?

«Assolutamente sì. Con Signorini mi sono trovato benissimo. È un uomo colto e profondo che ha condotto un programma difficile anche per il periodo storico in cui si è svolto, durante il coronavirus. Alfonso è un uomo che ha saputo insegnarmi e darmi qualcosa in più, con la sua profondità, alla mia vita. Gli sono grato».

Lei prima mi parlava della sua canzone Gelato al cioccolato scritta da Cristiano Malgioglio: ci fu polemica su questo?

«Malgioglio, che è un amico, è una delle persone più furbe che io abbia mai conosciuto ed è riuscito a ottenere il massimo vendendo i suoi scampoli di talento. In quel periodo scriveva canzoni per Mina e per la Vanoni ed altri artisti quindi disdegnava di firmare una mia canzone. In realtà poi lo fece e credo che adesso guadagni di più con i diritti di Gelato al cioccolato che con altre canzoni».

Ma ci fu polemica tra voi su questo ?

«Malgioglio si arrabbiò perché io raccontavo che per quella canzone trovò ispirazione in Marocco vedendo sul bagnasciuga un giovane di colore. Così andavo in giro a raccontare che quando scoprii la genesi quasi erotica di Gelato al cioccolato mi imbarazzai».

Ma era vero?

«Assolutamente no. Malgioglio ebbe ispirazione da altro».

Lei ebbe un periodo buio in cui arrivò quasi a suicidarsi ...

«Era la fine degli anni '80 e avevo perso tutto, ero pieno di debiti e mi avevano pignorato ogni cosa. La banca mi chiedeva cinquanta milioni che io non avevo. Così cercai fortuna al Casinò ma persi altri 40 milioni. Al ritorno verso casa mi fermai sul cavalcavia tra la Toscana e l'Emilia andai verso il bordo del viadotto...».

Cosa successe?

«Improvvisamente passò un camion che letteralmente mi spostò con l'aria fatta con la sua velocità risvegliandomi dal torpore. Mi salvò la vita. Da quel momento ho recuperato tutto».

Qual è la sua ricetta per la vita?

«Saper gestire due cose: l'attesa e la sofferenza. Gestire l'attesa in cui si aspetta qualche risposta è decisivo perché è proprio in quel momento che si fanno i più grandi errori. La sofferenza è un diavolo, spesso anche causato dalle attese, che se non gestisci ti lacerano. Io sono riuscito a gestire entrambe».

Pupo: “Continuate a fare l’amore, anche in isolamento…” Marco Lomonaco il 02/05/2020 su Il Giornale Off. Enzo Ghinazzi, 64 anni, cantante di successo, meglio conosciuto come Pupo. Ieri, primo maggio, è tornato con un nuovo brano inedito e oggi si racconta a OFF…

Enzo, quando hai capito che la musica avrebbe cambiato la tua vita?

«L’ho capito tardi. Solo qualche anno fa. Anche negli anni 80, quando giravo già il mondo ed ero molto famoso, pensavo che tutto sarebbe passato e che avrei dovuto alla fine trovarmi un mestiere più “serio”. Più duraturo. Poi qualche anno fa ho definitivamente maturato l’idea che questo, purtroppo o per fortuna, sarebbe stato il mio mestiere fino alla fine dei miei giorni. E lì, la mia vita è cambiata per davvero. Naturalmente in meglio. Comunque la musica, anche se non fossi diventato celebre, avrebbe sempre occupato un posto importante nella mia vita. In questo ultimo periodo, dopo una “lunga astinenza”, ho ritrovato la voglia di scrivere: proprio ieri infatti è uscito un mio nuovo brano intitolato Il rischio enorme di perdersi».

Ci racconti l’incontro che ha cambiato la tua carriera?

«Quello nel 1975 con Freddy Naggiar, il fondatore della casa discografica Baby Records. Fu lui che mi impose il nome d’arte di Pupo e combatté contro tutti per impormi in radio ed in televisione. Alla fine ha avuto ragione su tutto».

Oltre che un grande musicista sei anche un grande amante. Ma secondo te esiste ancora l’amore eterno?

«L’amore eterno è raro, ma è sempre esistito. È una anomalia di questo tormentato sentimento. Ma secondo me chi si innamora eternamente di qualcuno, alla base ha dei seri problemi. Poi, siccome tutti quanti noi siamo pieni di problemi, è giusto che ognuno viva la vita che si merita e che gli capita».

Il sesso cos’è per te?

«Il sesso è alla base di tutte le scelte che facciamo fino ad un certo punto della nostra esistenza; poi, da una certa età in avanti, in condizioni normali si intende, perde sempre più di importanza».

Raccontaci del brano realizzato con Giuseppe Cruciani della Zanzara per il progetto Le Cronache di Escort Advisor (e riadattato dalla tua Porno contro amore).

«Porno contro Amore è la canzone che dà il titolo al mio ultimo album di inediti che pubblicai quattro anni fa. Il brano che abbiamo registrato con Cruciani non è altro che il riadattamento di quest’ultima. Il brano racconta la mia dipendenza dal sesso che, per un certo periodo, mi ha condizionato la vita. Abbiamo pensato che fosse perfetta per questo drammatico periodo. Sembra scritta apposta».

Dai un consiglio ai lettori di OFF per affrontare quel che resta della quarantena.

«A questo punto… non fate cazzate, resistete che presto tutto finirà. Continuate a fare l’amore e, se siete soli, organizzatevi bene con l’autoerotismo. Non si diventa ciechi, ve lo garantisco. Magari, per creare un po’ d’atmosfera, oltre ad optare per Porno contro Amore, ascoltate anche la mia nuovissima canzone, l’inedito che ieri è stato pubblicato su tutte le più importanti piattaforme digitali intitolato Il rischio enorme di perdersi. È un gioiello, parola di Pupo».

Lunedì potremo finalmente rivedere fidanzate e fidanzati, insomma sarà un trionfo… come la vedi?

«Sarà un’esplosione! Un orgasmo di massa! Segnatevi bene il 4 maggio 2020 e vedrete a febbraio 2021 quanti pupetti nasceranno in Italia!»

Per finire, raccontaci un episodio OFF della tua carriera.

«La mia vita e la mia carriera traboccano di episodi OFF che hanno segnato il mio dannato, ma meraviglioso percorso! Nessuno però è più un segreto. Perciò, potrei dirti di quando decisi di chiedere di fare il militare in anticipo. All’epoca, nel 1974, si poteva chiedere per motivi famigliari o altro, di anticipare di un anno la partenza per il militare. Io lo feci e fu una intuizione decisiva perché, nel 1975, l’anno che sarei dovuto normalmente partire per fare il soldato, incisi il mio primo disco e da lì è partito tutto. Chissà se sarebbe accaduto la stessa cosa se io non avessi sparigliato le carte l’anno prima?»

Da "liberoquotidiano.it" il 4 marzo 2020. Al Grande Fratello Vip si è verificato un curioso siparietto con Pupo protagonista. Il noto cantautore nel corso delle puntate in diretta su Canale 5 ha più volte dichiarato di aver avuto una relazione con una donna molto famosa in Italia, ma non ha mai fatto il nome. Alfonso Signorini lo ha fatto al suo posto: Barbara d'Urso. Quest'ultima a Pomeriggio 5 ha deciso di replicare, cosa che non aveva mai fatto in precedenza: "Sui siti ci sono alcune dichiarazioni su una presunta storia che avrei avuto con un piccolo ragazzo, un piccolo uomo. Naturalmente piccolo di età. Al Grande Fratello continua a raccontare di un'ipotetica storia che avrebbe avuto con me, cosa assolutamente falsa. Io ci ho riso, non ho mai replicato, ma adesso basta". 

Angela Magnani per "trendit.it" il 4 marzo 2020. Pupo, all’anagrafe Enzo Ghinazzi, ha chiesto scusa a Barbara d’Urso. Il cantante di Gelato al Cioccolato è tornato sui suoi passi ed ha fatto mea culpa pubblico. Per chi se lo fosse perso, oggi pomeriggio, durante Pomeriggio Cinque, la padrona di casa, Barbara d’Urso, ha voluto fare una precisazione in merito a quanto detto da Pupo. L’opinionista del Grande Fratello Vip, da tempo dichiara di avere avuto una liaison con la conduttrice che, al contrario, nega con fermezza. Questo pomeriggio Barbara ha pregato Pupo di smetterla di dichiarare il falso. Dopo la richiesta di Barbarella Nazionale non sono tardate le scuse pubbliche di colui che per anni avrebbe quindi fantasticato riguardo una relazione con lei: Carmelita d’Urso ti prometto che mai più tornerò, nemmeno con delle allusioni, a parlare di questa vicenda. Io ti voglio realmente molto bene e ti stimo profondamente. Ascoltando “La storia di noi due” penserò ad un sogno che però non si è mai realizzato. Scusa. Pupo, un dettaglio nelle sue scuse lascia perplessi. Pupo nel post con cui chiede scusa a Barbara d’Urso fa riferimento ad una canzone in particolare. Si tratta di La storia di noi due che lo stesso cantante disse in un’intervista di aver scritto proprio per Barbara: Ad essere sincero, questa canzone l’ho scritta nel 1981 e dedicata ad una grande donna di Mediaset che oggi fa la conduttrice con cui ho avuto un flirt. Era Barbara d’Urso. Il testo non lascia spazio ad equivoci, parla di una breve storia d’amore segreta che ha lo ha portato ad innamorarsi. La domanda sorge spontanea: le scuse fatte da Pupo sono solo il pretesto per lanciare l’ennesima frecciatina alla conduttrice? Non lo sapremo mai, o forse si, non ci resta che aspettare e vedere come si evolverà la situazione.

Giampiero Mughini per Dagospia il 4 marzo 2020. Caro Dago, leggo solo sulle tue pagine - perché di tutte le altre pagine web me ne strafotto - di Tizio e Caio che racconta di avere avuto una storia ricca di faccende di letto con Tizia e Caia. E gran litigi e gran schiamazzi di Tizia e Caia che dicono di no, che non poteva essere, che quell’uomo era troppo “piccolo” per lei. Allibisco e degli uni e delle altre. Allibisco che qualcuno possa raccontare le sue cose private e strombazzarle e vantarsene, quelle cose private che stanno nascoste e silenti in fondo alla nostra anima e alla nostra memoria, e che per nessuna ragione al mondo dovrebbero venire alla superficie. Allibisco di tanta volgarità e che una tale volgarità irrompa talmente alla superficie del nostro attuale schiamazzo massmediatico. Mai e poi mai e poi mai il più minuscolo particolare della mia vita personale lo affiderei a un giornale o a un canale tv, mai e poi mai. In quei sette anni che una fanciulla mi fece vedere i sorci verdi, mai un volta ho fatto il suo nome all’amico fraterno con cui mi vedevo un giorno sì e l’altro pure. Forse lo avrei fatto sotto tortura o forse avrei fatto come il libraio parigino Pierre Brossolette che agguantato dai tedeschi e torturato a lungo, appena intravide un varco si scaraventò giù dal quarto piano a morire pur di non svelare i nomi e gli indirizzi dei suoi compagni della Resistenza francese. Mai un nome, mai un particolare della propria vita personale. E come altrimenti potrei guardarmi allo specchio, la mattina, ed essere talmente lieto di quello che vedo.

Grande Fratello Vip, Pupo confessa: "All'inizio ero scettico. E su Wanda Nara...". Libero Quotidiano il 3 Febbraio 2020. Enzo Ghinazzi, in arte Pupo, è uno dei pochi che non cede alla morale comune e al politicamente corretto. Donne, religione, politica, Pupo è dissacrante. Sessantaquattro anni, di Laternina, tre figli, tre nipoti che lo chiamano Nonno Pupo, un tentato suicidio, una crisi personale fatta di gioco d'azzardo e 5 miliardi di vecchie lire persi, la rinascita in tv: sembra che abbia avuto sette vite. Tutti sanno che - unico praticamente al mondo - ha una moglie e una compagna/amante ufficiale, Anna e Patricia. Il cantante festeggia i 40 anni della sua canzone più famosa, Su di noi, con un tour mondiale e in televisione è l'opinionista del Grande Fratello Vip su Canale 5 con Alfonso Signorini. Il 5 febbraio sarà anche a Firenze al Teatro Puccini in uno spettacolo basato sull'improvvisazione.

Quanto conta per lei?

«Tanto. Nella vita ho sempre improvvisato. A volte va bene a volte va male».

Si diverte al Grande Fratello Vip?

«Sono sorprendentemente a mio agio, oltre le più rosee aspettative. Ero molto scettico all'inizio. Nella mia vita non avevo mai visto cinque minuti di Grande Fratello, ma nemmeno di Isola e di altri talent. Dopo la chiamata di Alfonso Signorini mi sono consultato con il mio manager, Umberto Chiaramonte, e ho deciso. Portare il Pupo-Pensiero, mi passi il termine, in quel contesto, sarebbe stato interessante».

Nel parterre c'è anche Wanda Nara. Le piace?

«Sapere che ci sarebbe stata lei mi ha convinto ancora di più. Era una figura che mi incuriosiva molto, ne sentivo parlare, abbastanza male direi, mi ha intrigato. Il riscontro della gente è ottimo, ieri mi hanno fermato 15 persone per strada, piace il mio modo di fare l' opinionista: sarcastico, non trash».

Ci sveli il Pupo-Pensiero cui accennava prima.

«Un insieme di cose, un modo di vivere. Penso di essere una delle persone più coerenti dell'universo. Difendo talmente la famiglia che ne ho due. Non ho due mogli, come dicono tanti, ma una moglie e una compagna. Odio l'ipocrisia e il politicamente corretto. Non mi piacciono neppure quelli senza filtri. E le donne-alfa, quelle violente. Oggi vedo in giro tante dominatrici, guardiamo al Grande Fratello: Adriana Volpe, Lucia Nunez, Rita Rusic. E sono convinte di essere dalla parte della ragione».

Non teme di essere accusato di sessismo?

«Ho una moglie da 45 anni, una compagna da 30, tante coriste. Chi mi accusa di sessismo è un pazzo e uno squilibrato. Non mi piace la violenza, io ho subìto violenza dalle donne».

In che senso?

«Mi hanno picchiato, mi hanno stalkerizzato, ho denunciato. Nel 1989 facevo Domenica in tra le ragazze scalmanate ce n'era una che voleva... avermi. Abitavo all'epoca alla VHouse di Roma, è arrivata sul posto, ho dovuto chiamare i carabiniere. Sto parlando di fatti che accadono, non così rari, non così anormale. Solo che da quando c'è il MeToo non si può dire niente».

E quando l'hanno picchiata, cosa ha fatto?

«Ovviamente non ho reagito. Io ho sempre tradito le donne e loro si incazzavano».

Donne virtuose ne ha conosciute?

«Io vado d'accordo con le donne, mi hanno salvato. Sto parlando di quelle della mia famiglia. Mi hanno accettato con le mie debolezze e io le ho ricambiate con il mio amore».

Avrà sentito del polverone a Sanremo per la frase di Amadeus sulle donne.

«Quella dello stare un passo indietro? Guardi, io preferisco stare io un passo indietro alle donne, perché c'è un panorama migliore».

Su, sia serio!

«Ma se uno non ci mette un po' di leggerezza, che si può fare... Vede, anche adesso che sto parlando con lei, cerco di stare attento perché poi chissà cosa esce sul giornale. C'è sempre il rischio di essere male interpretato. La morale mediocre comune è questa...io non ci casco».

Da quando, secondo lei, siamo diventati così bacchettoni e politicamente corretti?

«Non so perché siamo arrivati a questo livello. Secondo me è un abbassamento culturale generale, anche dato dai social. Tutti possono parlare. Una volta se andavo in tv interloquivo con personaggi artisticamente al mio livello. Oggi trovi persone popolari grazie al nulla. Bisogna adeguarsi».

Anche Sanremo è così? Ragazzi che arrivano dai talent show al pari di artisti con 30 anni di carriera?

«Discorso diverso. Qui parliamo di vocalità. Dai talent escono giovani con doti canore a cui dare canzoni scritte ad hoc. La prima cosa bella, dei Ricchi e poveri, se la canto io o lei è uguale. Si tratta di un brano bellissimo. Oggi le canzoni sono scritte appositamente per una persona. Alberto Urso ha una voce stupenda, bisognerebbe dare a lui una valida canzone».

Come sarà questo Festival?

«Avrà successo, è molto popolare. A livello televisivo sarà un grande Sanremo, a livello musicale spero altrettanto».

Ha iniziato il tour mondiale?

«Sì, l'11 gennaio. Dopo il Grande Fratello Vip andrò in Canada, Stati Uniti. Gran chiusura il 14 settembre all'Auditorium di Roma».

All'estero è una divinità, dove va più forte?

«Nei Paesi dell'Est: Russia, Kazakistan, Azerbaijan, Lettonia, Ucraina».

È vero che si è avvicinato al buddismo?

«Ne sono sempre stato attratto, anche se sono ateo, però alla ricerca di una fonte di energia. Mi ritrovo nella storia di Herman Hesse, mi sento molto Siddharta. Il dolore, lo sporcarsi le mani, la purificazione, la rinascita: passaggi che hanno fatto parte della mia vita. Ma non sposo nessuna fede, sono per le vie di mezzo».

Politicamente come la vede?

«La politica è lo specchio della situazione culturale odierna. Anni fa facevo campagna elettorale per Amintore Fanfani, andavo in giro con il megafono e l'auto con lo scudo crociato. Sono sempre stato di quell'area lì».

Democristiano.

«Ho conosciuto Craxi, Andreotti, Berlinguer, Almirante: gente che si sporcava le mani per un ideale alto, quello dello Stato. Oggi ci sono personaggi puliti, che non sbagliano. Non mi fido di chi non fa errori. Chi è senza peccato scagli la prima pietra? No, chi è senza peccato fa una vita di merda».

È sempre il Pupo-Pensiero?

«Questa politica è traboccante di demagogia. Io non guardo il tg di oggi, ma leggo gli osservatori che mi diranno cosa succede tra 20 anni».

E cosa succede?

«Niente di buono».

Dei grillini cosa pensa?

«Non penso a loro. Non penso nemmeno al Pd e alla Lega. Viene voglia di astensionismo. Anche se è un abominio: una mancanza di rispetto verso chi ha dato la vita perché noi votassimo».

di Alessandra Menzani

Pupo, disavventura al funerale dello zio: non c'è la tomba al cimitero. È successo a Ponticino, in provincia di Arezzo: Pupo e famiglia stavano per raggiungere il cimitero quando sono stati avvisati che non era possibile seppellire il defunto. Alessandro Zoppo, Giovedì 16/01/2020, su Il Giornale. Pupo, aretino celebre e da sempre appassionato delle cose di Valdarno, è stato protagonista di una strana disavventura nella sua Ponticino, frazione del comune di Pergine Laterina, in provincia di Arezzo. Il cantante, che in queste settimane imperversa al Grande Fratello Vip nell’inedita veste di opinionista in compagnia di Wanda Nara e Alfonso Signorini, è tornato nella sua terra per partecipare alle esequie dello zio, scomparsi nei giorni scorsi. Ghinazzi e famiglia hanno preso parte al funerale in chiesa ma non si sarebbero mai aspettati quello che è accaduto nei momenti successivi all’ultimo saluto al parente: una volta pronti per raggiungere il cimitero, sono stati avvisati dalle autorità locali che la fossa dove seppellire l’anziano non era stata scavata. A riportare la notizia è il Corriere di Arezzo, secondo il quale la ditta di pompe funebri che avrebbe dovuto occuparsi della tumulazione non ha ricevuto alcuna comunicazione dal Comune. Così è successo che quando il carro funebre stava per avviarsi al camposanto, i familiari sono rimasti di stucco dinanzi all’impossibilità di seppellire il compianto zio. Scompiglio e incredulità tra tutti e cento i parenti presenti al funerale: Pupo in particolare è rimasto sbigottito dinanzi a questo imprevisto e ha dichiarato che lui e i suoi cari sono stati “increduli” per la scena che si è palesata davanti ai loro occhi. "Un fatto grave – ha fatto sapere la 36enne sindaco Simona Neri –. Siamo molto dispiaciuti. Ho chiesto una relazione per capire cosa sia successo e ricostruire di chi siano le responsabilità". Ponticino, parte di Laterina Pergine Valdarno, il comune nato dalla fusione di Laterina e Pergine Valdarno, è il paese in cui Pupo ha aperto il suo “Gelato al cioccolato”, una gelateria – gestita dalle due figlie, Clara e Ilaria – in cui è possibile gustare un ottimo gelato artigianale e ripercorrere la carriera del cantante. Sempre a Ponticino, nel 2015, Ghinazzi ha portato una partita del cuore della Nazionale cantanti per raccogliere fondi per due associazioni di volontario, la Fondazione “Cure 2 Children” di Firenze e l’Associazione Vite Onlus di Arezzo. Il sindaco Simona Neri, invece, era salita agli onori della cronaca nel novembre del 2018 quando dei volantini con insulti sessisti erano stati affissi sui muri del paese. Neri aveva ricevuto molti messaggi di solidarietà, da Virginia Raggi a Maria Elena Boschi, originaria di Laterina, piccolo centro accorpato proprio al limitrofo Pergine Valdarno.

Roberto Pavanello per la Stampa il 26 gennaio 2020. Enzo Ghinazzi, altrimenti noto come Pupo, che l' 11 settembre compirà 65 anni, è stato molte cose. Cantante di successo e senza successo, marito e compagno - di due donne contemporaneamente - ricco, povero e di nuovo ricco, padre di tre figlie (l' ultima riconosciuta solo nel 2016) e tre volte nonno, giocatore d' azzardo, conduttore e opinionista tv.

Pupo, quante vite ha vissuto?

«Mi viene in mente Siddharta di Hermann Hesse quando scrive che l'esperienza reale è l'unica vera risorsa per poter raggiungere l' equilibrio. Ecco, io ho fatto molte esperienze reali e mi ci sono immerso. 

Sono caduto e mi sono rialzato tante volte. Non è un vanto, sia chiaro, però mi dà orgoglio essermi riscattato. Oggi sono una persona consapevole e in equilibrio. Ma mi guardo intorno e vedo troppa mediocrità, a partire dalla politica».

Ma c' è una figura politica che le piace?

«Faccio proprio fatica a trovarla. La politica si è imbarbarita. Resto legato al passato, a Fanfani, Moro, Berlinguer, Almirante, Craxi... Ormai faccio fatica anche a trovare un motivo per non scegliere il non voto. Oggi i politici non si sporcano le mani, dichiarano e basta. Mi piace chi si riscatta. Uno come Andreotti le mani con la mafia se le è sporcate. Ma per un bene più alto, lo Stato. A trionfare oggi è l' ipocrisia, stanno tutti a giudicare».

Ha seguito le polemiche sanremesi che hanno coinvolto Amadeus e Junior Cally?

«Certo, ritengo che sarebbe una follia escludere un ragazzo perché descrive un certo mondo. E infatti non lo faranno».

Torniamo alla sua carriera: come si fa a non perdere la testa quando si vendono oltre venti milioni di dischi a poco più di vent' anni?

«Non lo so, infatti l' ho persa. Ho solo avuto la fortuna di sopravvivere alle mie follie. Avevo fama, donne e denaro in grande quantità. Droga e alcol a parte, non mi sono risparmiato niente. Ho fatto più eccessi io che Vasco Rossi. A 25 anni ero miliardario, a 40 indigente con i mobili, gli strumenti musicali e le case pignorati».

Lei si definisce cantante?

«No. E mai mi ci sono definito. Non sono un cantante, la mia voce può anche non piacere. Sono un uomo di comunicazione, anche se ho solo la terza media. Ho avuto la forza di non diventare un revival vivente come tanti miei colleghi».

In epoca di #metoo, non ha avuto remore a dire che non accetterebbe che sua moglie la sua compagna avessero un altro uomo. Coraggioso...

«E sono stato fin moderato. Ho dovuto lavorare sulla mia megalomania: sono piccolo ma mi vedo alto. Mi vedo bello. Soffro di follia egocentrica e quindi devo lavorare per contenerla. Amo due donne ma non si può strategicamente impostare una vita sentimentale. Mai avrei pensato di convivere per trent' anni con due donne. È accaduto che tre persone si sono incontrate e invece di fare come il 90 percento dei ragazzi di oggi che alla prima difficoltà si arrendono, hanno deciso di non distruggere. Oggi raccolgono frutti che hanno un sapore che le persone "normali" magari non conoscono».

È per egocentrismo che fa l' opinionista al Grande Fratello Vip?

«È per la curiosità di andare a confrontarmi con queste miserie umane, e lo dico con affetto per questi ragazzi. Culturalmente la stupidità è meravigliosa, anche la mia eh. Visto che il panorama degli opinionisti tv è abbastanza imbarazzante, ho pensato che avrei potuto fare una bella figura. Non avrei mai fatto il concorrente, non ne ho bisogno, ma quando Signorini mi ha chiamato, mi sono consultato con il mio agente Umberto Chiaramonte e dopo un quarto d' ora ho detto "ok"».

Nel romanzo di Sandro Veronesi, Il colibrì, il protagonista rinuncia a una grande cifra vinta alle carte perché, dice, gli avrebbe rovinato la vita. È credibile?

«È perfetto: rinunciare vuol dire avere vinto, avere superato la dipendenza. Al giocatore non interessano le cifre, ma il gioco. A poker vincevo sempre, ma non mi bastava. Volevo sfidare la fortuna, ecco perché nell' 83 al Casinò di Saint Vincent persi allo chemin de fer 130 milioni in tre secondi. Ho smesso di giocare da 13 anni ed è stata una fatica pazzesca. Perché a differenza della droga o dell' alcol, il demone del gioco ce l' hai dentro. Devi dominare una passione che è in te, non una sostanza esterna. La lotta è così dura che se vinci, a ripagarti è l' autostima: ti senti dio, proprio come quando giochi».

Torniamo a Sanremo: il suo secondo posto nel 2010 con Emanuele Filiberto e Luca Canonici viene sempre citato per dire che il solo televoto non funziona...

«Perché le giurie di qualità sì? Ma avete visto chi le compone? A me nessuno ha mai chiamato e i titoli io sì che li avrei. La verità è che noi avevamo vinto. Fu una truffa, lo dico da allora e nessuno mi ha mai querelato. Invece mi è dispiaciuto che quest' anno non mi abbiano invitato per celebrare i quarant' anni di Su di noi. Nel 1980 quando Ravera mi chiamò al Festival, ero una stella e contribuii al rilancio della manifestazione. Non c' è riconoscenza».

Enzo Ghinazzi e Pupo sono la stessa persona?

«Oggi sì. C' è stato un momento, nel '92, quando con il mio amico Gianni Morandi avevamo deciso che non sarei più stato Pupo. Partecipai al Festival con La mia preghiera, quando Pippo Baudo mi annunciò come Enzo Ghinazzi, ricordo che dal palco notai le facce in platea. Dicevano: "Chiii?". Capii subito di avere sbagliato. Fui eliminato. Ero e sono Pupo».

Gf Vip, siparietto tra Pupo e Wanda Nara: "Insegnami una strategia per toglierle il reggiseno". Siparietto finale in studio al Gf Vip tra Pupo e Wanda Nara, che si mostrano sempre più affiatati; il cantante toscano, parlando di strategie, ha dichiarato di volerne trovare una per sganciare il reggiseno della collega. Francesca Galici, Giovedì 16/01/2020, su Il Giornale. La terza puntata del Grande Fratello Vip ha abbracciato numerosi temi. Alfonso Signorini ha aperto con quello che è stato il caso della settimana, ossia l'espulsione di Salvo Veneziano per le frasi sessiste rivolte a due concorrenti. Gli opinionisti hanno fortemente stigmatizzato l'accaduto, soprattutto Wanda Nara, che ha incitato i tre Higlander superstiti a scusarsi per il loro comportamento. Successivamente sono state affrontate le diverse dinamiche della Casa, con l'incursione dall'esterno di Paola Caruso per Ivan Gonzales e il confronto tra Elisa De Panicis e Andrea Denver. In entrambi i casi si tratta di flirt mai decollati che hanno però lasciato delle acredini e dei sospesi tra i protagonisti, che Alfonso Signorini ha cercato di appianare. Molto intenso anche il momento sulla maternità, affrontato con Antonella Elia e con Adriana Volpe, due donne molto diverse che condividono una piccola parte del loro percorso personale, che a un certo punto ha però preso strade diverse. Anche in questo caso l'intervento di Wanda Nara è stato toccante, soprattutto per l'emozione provata dalla showgirl argentina, madre di cinque figli. A differenza delle due concorrenti, Wanda Nara ha scelto di diventare madre in giovane età ma a un certo punto della sua vita si è ritrovata da sola a dover ricominciare da zero, in Argentina, con tre figli piccoli da dover mantenere. Storie di donne, quindi, al centro della puntata, durante la quale i tre Highlander sono stati invitati a partecipare attivamente alle attività di un centro per l'accoglienza delle donne vittime di violenza, per aiutare e per ascoltare le loro storie. Si è riso e si è riflettuto con i best momenti nella casa di Antonella Elia, Barbara Alberti e con la prova ricompensa svolta da Michele Cucuzza e Adriana Volpe. In chiusura di puntata, poi, c'è stato un siparietto tra Pupo e Wanda Nara. Il cantante toscano ha obiettato sul considerare come negativo l'atteggiamento strategico dei concorrenti, visto che essendo il Grande Fratello un gioco, è giusto che i concorrenti giochino la loro partita. Proprio sulla scia di questo discorso, Pupo ne approfitta per fare una battuta sulla sua collega: "Mi devi insegnare una strategia per togliere il reggiseno a Wanda Nara." Grandi risate da parte di Alfonso Signorini e Wanda Nara decide di stare al gioco, rispondendo a Pupo: “Non ce l'ho il reggiseno!” Wanda Nara ha poi ribadito che solo suo marito Mauro Icardi è autorizzato a slacciarle il reggiseno (quando c'è).

·        Enzo Salvi.

Enrico Chillè per leggo.it il 15 luglio 2020. Un clamoroso errore di comunicazione, ma anche un'offesa agli abitanti di quella città che, quattro anni fa, al ballottaggio avevano dato i due terzi delle preferenze a Virginia Raggi. Il post di Beppe Grillo, con la lettera in romanesco scritta da un attivista M5S che ha fatto indignare tantissimi romani definiti "gente de fogna" (e poco conta se poi è arrivata la correzione in "gente da niente"), continua a generare polemiche ed ora è arrivata anche la replica piccata, sui social, di Enzo Salvi. L'attore e comico romano, infatti, ha 'dedicato' al fondatore del Movimento 5 Stelle un suo brano di sei anni fa, intitolato 'Va va va' (ed il resto del ritornello è anche fin troppo facile da immaginare). Si tratta di una libera reinterpretazione del celebre brano 'Da da da (I Don't Love You You Don't Love Me Aha Aha Aha)' della band tedesca Trio, che in questo caso è diretta a Beppe Grillo. «Vorrei scriverti tante cose, ma sarò breve. Perché io sò romano e me ne vanto!», ha scritto Enzo Salvi sulla sua pagina Facebook ufficiale. Pubblicare un post del genere, con un evidente insulto ai cittadini romani, è un clamoroso errore comunicativo. Possibile che un grande comunicatore come Beppe Grillo abbia potuto commettere un simile 'autogol'?

«Chiariamo innanzitutto che preferisco, per rispetto, non esprimere un'opinione sull'operato della giunta di Virginia Raggi, ma parlo esclusivamente da cittadino romano: non posso che sentirmi offeso. Volendo, quel "gente di fogna" potrebbe essere un riferimento alla cloaca maxima inventata dagli antichi Romani, che avevano ideato un metodo avanzatissimo di smaltimento delle acque, ma sinceramente non credo che quel post volesse elogiare la tradizione architettonica millenaria di Roma».

Beppe Grillo dovrebbe chiedere scusa pubblicamente ai cittadini di Roma per aver pubblicato quel post?

«Me lo aspetto, sinceramente. Oltre a dei chiarimenti, ci vorrebbe un passo indietro dopo una simile caduta di stile, assolutamente di cattivo gusto. Vengono tutti a Roma "a magnà e a beve", poi denigrano la nostra bellissima città e ci prendono in giro: basta, è stato superato il limite. Nella storia moderna, Roma ha fatto da culla a generazioni e generazioni di politici e il ringraziamento è l'accostamento alle fogne? Noi romani siamo un popolo di cuore, goliardico e simpatico, ma non è un difetto. La mia romanità è un vanto e l'ho sempre portata anche nei film, facendo ridere tutta Italia. Nel mio piccolo, questo dimostra come Roma e i romani siano assolutamente internazionali. Senza dimenticare che, con gli spettacoli a Roma, Beppe Grillo si è arricchito e dovrebbe mostrare un minimo di riconoscenza».

Un fatto incontrovertibile è che l'uscita di Beppe Grillo non è il primo attacco a Roma e ai romani da parte della politica. La capitale di un paese (e i suoi abitanti) possono essere soggetti a offese provenienti da ogni parte d'Italia?

«La verità è che noi romani siamo gente di cuore e forse qualcuno ci invidia la città. Ci vuole coraggio ad offendere i romani, siamo persone dal cuore d'oro. Noi cittadini viviamo disagi quotidiani che nessuno riesce a risolvere, eppure abbiamo sempre ospitato persone da tutta Italia e non solo, per poi essere anche insultati. Alla fine, purtroppo, chi paga il maggior prezzo sono le persone perbene, ma noi romani, alla fine, siamo "tutti precisi, tutti carucci, tutti pettinati"».

Pochi giorni fa il pappagallo Fly è uscito dalla clinica veterinaria dopo essere stato ferito a colpi di pietra. Come sta ora?

«Non ha ancora ricominciato a volare, deve affrontare una lunga riabilitazione ma posso dire che è stato miracolato. La pietra lanciatagli da quello squilibrato lo ha colpito alla testa e non ha colpito l'occhio per meno di mezzo centimetro. Il trauma causato dal colpo è stato gravissimo, se è vivo è solo per un miracolo. Sono ancora molto scosso dal fatto, ma mi sto riprendendo anche io. La cosa che mi fa più rabbia è che quell'individuo, pur essendo denunciato, è a piede libero e potrebbe tornare a fare del male a qualcuno, che sia una persona o un animale. Ai carabinieri di Ostia Antica ha detto di essersi spaventato dopo aver sentito Fly parlare, una motivazione assurda e che mi fa ancora più rabbia. Io mi sono sentito impotente, lui per ora è rimasto impunito».

Se quell'uomo è a piede libero, la responsabilità è però anche di chi dovrebbe legiferare in merito.

«Vero, io posso solo portare come dimostrazione il caso specifico di Fly, ma serve un inasprimento delle leggi. Purtroppo oggi ci sono tutele anche nei confronti di chi uccide persone, figuriamoci chi fa male agli animali. Eppure il rispetto degli animali, per me, è il principale indicatore della civiltà del paese. Intanto, nel mio piccolo, sono testimonial insieme a Maurizio Mattioli per il Comune di Roma in una campagna contro l'abbandono degli animali: nella locandina ufficiale ci siamo io, lui e i miei due cani, Peggy e il pinscher Tyson».

Rinaldo Frignani per corriere.it il 30 giugno 2020. Il pappagallo Fly è sotto sedativi. In osservazione nella sua gabbietta. Le prossime ore saranno decisive per capire se riuscirà a farcela. Il referto del veterinario parla chiaro: «Frattura cranica con edema delle strutture soprastanti». E ancora, sottolinea il medico, Paolo Selleri, la bestiola è «abbattuta, con difficoltà a mantenere l’equilibrio» e presenta una «evidente lesione lacero-contusa sul frontale destro». Il padrone e addestratore del pappagallo, l’attore Enzo Salvi, è disperato. Anche perché Fly è stato preso a sassate ieri mattina mentre si stava riposando dopo essere stato portato proprio da Salvi a svolazzare nelle campagne di Ostia Antica. Un’abitudine per il comico di 56 anni, che non riesce a darsi pace per quello che è successo mentre i carabinieri della stazione di Ostia Antica stanno dando la caccia al folle che si è accanito prima sul volatile - un Ara Ararauna - e quindi proprio contro Salvi e un suo amico, Luigi, che lo stava filmando, per strappargli dalle mani lo smartphone. Non si esclude che il personaggio in questione, un 25enne forse africano, sia lo stesso con problemi psichici che qualche settimana fa ha lanciato pietre contro le auto al Torrino. Anche in quel caso è stato filmato. «Pensavo avesse ucciso Fly - spiega l’attore, che è anche presidente dell’Associazione Passione Pappagalli Freeflight - povero, stava su un palo a sette metri di altezza, attorno non c’è niente. Quel tipo è sbucato dal nulla e farfugliando qualcosa nella sua lingua ha cominciato a tirargli le pietre addosso. Gli ho gridato: "Smettila che fai?”, ma lui nemmeno mi ha sentito. Ha continuato a bersagliare il pappagallo fino a quando lo ha preso in pieno. Mi chiedo: perché? Che gli aveva fatto di male quella bestiola così bella e innocente? In quel personaggio ho visto tanta cattiveria gratuita, crudeltà senza senso. Ho paura che possa fare qualcosa del genere con bambini o anziani, per questo spero che lo prendano subito. Deve essere punito». Salvi questa volta non sorride. È davvero provato da una brutta avventura, anche inspiegabile. «Anche perché mentre stavo inginocchiato con Fly fra le mani credendo che fosse ormai morto, quello è arrivato alle mie spalle e ha cominciato a prendermi a calci. Io ero troppo sconvolto per farci caso, altrimenti sarebbe andata in un altro modo. Luigi si è messo in mezzo, lo ha inseguito per filmarlo, lui se n’è accorto e ha colpito anche lui, poi è sparito». L’aggressione è avvenuta in località Pianabella, un posto conosciuto da Salvi che è nato proprio a Ostia Antica. «Ora devo stare vicino a Fly, sperando che si riprenda presto. Non riesce stare in piedi in equilibrio. A lui piace moltissimo volare, è uno dei più forti in Italia. Sto male per quello che gli è successo. Sono un amante degli animali, fra poco sarò il testimonial del Comune contro l’abbandono. Ho altri due pappagalli - Jerry e Chicco -, ancora non ci credo che qualcuno possa avergli fatto tanto male. E pensare che prima di cadere mi chiamava da lassù: “Ciao Enzo, ciao Enzo”. Poi è caduto senza accennare nemmeno a una reazione per riprendere il volo».

Dagospia l'1 luglio 2020. Da I Lunatici Radio2. Enzo Salvi ha raccontato ai Lunatici di Rai Radio2, programma condotto nella notte da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, l'incredibile aggressione di cui è stato vittima a Roma. L'attore è tornato sulle dinamiche dell'aggressione subita lui e dal suo pappagallo ad Ostia: "Sono ancora provato e sofferente. Sotto choc.  Stavo facendo volare il mio pappagallo come faccio ogni mattina. Sono vicepresidente di una associazione in cui insegniamo il volo libero ai pappagalli. Il mio è un grande campione, si chiama Fly, ha una voglia di volare che fa venire i brividi. Ero alle spalle del cimitero di Ostia Antica, dove c'è una distesa di prati infinita, un posto isolato, che sembra un paradiso terrestre. Durante l'ultimo volo, si è avvicinato a me, è rientrato dal volo, si è posizionato su un palo e ha iniziato a chiamarmi, lui mi chiama papà, lo fa quando vuole avvertirmi che sta tornando da me. Proprio mentre urlava 'papà' dal nulla è venuta fuori una persona che ha iniziato a prenderlo a sassate. L'ho supplicato di fermarsi, lui non mi ha ascoltato, ha continuato a prendere a sassate il pappagallo e l'ultima pietra che ha tirato lo ha centrato in pieno viso. Fly è caduto rovinosamente a terra. Sono corso, ero a un centinaio di metri di distanza, ho preso in braccio il pappagallo, mi sono cedute le gambe, pensavo che il pappagallo fosse morto, era immobile, con la testa a penzoloni, esanime". Salvi è ancora molto scosso: "Non ho mai visto tanta violenza gratuita. E ingiustificata. Mi è caduto il mondo addosso in quel momento ero scioccato, e lo sono ancora. Quando sono rimasto con il pappagallo in mano, urlando e piangendo come un disperato perché secondo me era morto, questa persona ha aggredito anche me, da dietro. Mi ha dato due calci sulla schiena. Poi ha dato due schiaffi anche all'amico che era con me e si è dileguato in aperta campagna. Siamo riusciti a fargli una foto, ho chiamato immediatamente i carabinieri". Sulle condizioni di salute del pappagallo: "Fly ha una brutta frattura cranica, dovuta all'impatto della pietra che l'ha raggiunto in pieno volto e dalla caduta che ha fatto, da sei metri di altezza. La situazione non è delle più semplici. Va tenuto sotto controllo, stiamo iniziando una terapia particolare. Speriamo bene". L'aggressore è stato preso dai carabinieri: "Lui portato in stazione ha detto di aver preso a sassate il pappagallo perché ha sentito parlare dall'alto del palo, si è messo paura e l'ha preso a sassate. Si è difeso così. E' inutile commentare, perché è veramente una cosa inaudita. E' stato denunciato a piede libero, questo mi fa molto male. Speriamo venga fatta giustizia".

 Enzo Salvi: "Quei sassi contro il pappagallo. Voleva pure rubare il cellulare". Enzo Salvi, ancora sotto choc, racconta in esclusiva a IlGiornale.it come si è svolta l'aggressione al suo amato pappagallo Fly e come l'extracomunitario dopo averlo assalito ha tentato di rubare anche il cellulare all'amico che era con lui. Roberta Damiata, Mercoledì 01/07/2020 su Il Giornale. È ancora sotto shock Enzo Salvi quando ci racconta cosa è successo al suo adorato pappagallo Fly. "Lo considero come un figlio", dice commosso. L'uomo che lo ha aggredito a sassate, un giovane africano arrestato ma subito rilasciato dai carabinieri a piede libero, non solo avrebbe lapidato il povero animale - che tutt'ora rischia la vita e di non poter più volare per un trauma cranico -, ma ha poi aggredito anche lui e il suo amico tentando di rubargli il cellulare. "Io credo che non si possa andare avanti così", ci racconta sconsolato.

L'extracomunitario è stato arrestato, lei come si sente?

"Male perché chiaramente questa persona è rimasta impunita: è a piede libero mentre Fly il mio pappagallo sta lottando tra la vita e la morte. Non trovo i termini adatti per poter descrivere le mie sensazioni".

Come sta Fly ora?

"È stato portato in una clinica specializzata subito dopo l'aggressione e gli hanno fatto una tac per stabilire le lesioni e le conseguenze. Ha preso una sassata in piena testa ed è quindi precipitato dal palo dove era appollaiato per riposarsi dopo il volo, quindi ha sia il trauma del colpo sia quello della caduta dall'alto. Ha una frattura del cranio e serie difficoltà di equilibrio. Cosa che per un uccello è molto grave dovendo volare. Ora i veterinari, mi hanno detto di riportarlo a casa solo perché lo stress in un ambiente a lui sconosciuto potrebbe peggiorare la situazione. Io sono sempre con lui. Anche la notte gli dormo vicino... Spero si riprenda e possa tornare a volare felice come faceva prima".

Può raccontare cosa è successo?

"È stata un'esperienza tragica. Io ero quasi come ogni mattina in questi appezzamenti di terreni dove coltivano i prati precostituiti per far volare Fly. Quest'uomo che lo ha aggredito è praticamente uscito dal nulla. Quella è una zona poco frequentata in genere, figuriamoci in un giorno di festa come San Pietro e Paolo quando è accaduto il fatto. Vado sempre lì la mattina presto, per essere sicuro che Fly possa volare in assoluta sicurezza anche per la presenza di cornacchie o rapaci. Mentre effettuava l'ultimo volo si è fermato su questo palo della luce per riposarsi e, come faceva sempre, ha cominciato a gracchiare "papà" perché lui mi ha sempre chiamato così. Ad un certo punto ho visto sbucare davvero dal nulla questa persona che ha cominciato a prenderlo a sassate. Io gli ho urlato, anzi l'ho implorato di fermarsi perché avevo paura che lo uccidesse. E così è stato perché con una pietra grande lo ha centrato in testa e il pappagallo è caduto a terra. Mi sono spaventato da morire e sono corso verso Fly. L'ho preso in braccio e ho visto che aveva la testa riversa da un lato come fosse morto. Sono caduto in ginocchio dalla disperazione e ho cominciato ad urlare verso quest'uomo dicendogli che me lo aveva ucciso. Lui per risposta mi ha dato un calcio dietro la schiena e poi ha cercato di scappare. L'amico che era con me, ha tentato di fargli una foto. Così l'uomo si è avventato anche su di lui, prima prendendolo a schiaffi e poi cercando di rubargli il cellulare. Fortunatamente non ci è riuscito ed è poi scappato in aperta campagna".

Quando sono intervenuti i carabinieri?

"Lo hanno trovato nel pomeriggio nascosto dentro un fienile in quella zona. Io, subito dopo l'accaduto, ho fatto immediatamente portare Fly dal veterinario per i primi soccorsi e poi sono andato dai carabinieri a denunciare perché veramente quest'uomo è pericoloso. I carabinieri lo hanno quindi fermato, portato nella stazione di Ostia Antica e denunciato a piede libero. Quindi ora è libero".

Cosa ha raccontato quest'uomo ai carabinieri? Perché avrebbe fatto questa cosa?

"Ha dichiarato che lo ha preso a sassate perché il pappagallo parlava e lui si è spaventato. Ma che giustificazione è? Io in quel momento ho pensato solo a Fly e a salvargli la vita, ma poi ho avuto una rabbia tremenda. Ero così sconvolto che mi sono ritrovato in ginocchio ad urlare".

È stato identificato?

"È un africano extracomunitario che lavora in un maneggio lì vicino. So che mi ripeto, ma io non riesco ancora a spiegare con quanta violenza gratuita e senza motivo, si è scagliato contro un animale indifeso che è solo da ammirare per la sua bellezza. La cosa che mi fa rabbia ora è che questa persona è di nuovo in giro, libero di prendere a sassate chiunque, una persona, un animale. E in questo lo Stato non fa nulla".

Cosa vorrebbe?

"Fino a che i nostri governanti non ci metteranno in condizione di poter tutelare la nostra sicurezza la nostra incolumità, noi saremo solo dei bersagli, perché siamo anche impossibilitati a reagire. Se in questo caso io avessi risposto all'aggressione magari dando uno schiaffo per difendermi, sarei subito passato dalla parte del torto. Io non sto facendo un discorso discriminatorio, sono amico di persone di tutte le etnie e ne vado orgoglioso, ma questo fatto che qualcuno possa colpirti senza motivo e che tu non puoi neanche difenderti è assurdo. Secondo la legge italiana aggredire due persone, tentare di rubare un cellulare e di uccidere un animale non sono reati sufficienti per poterlo mettere in carcere. Dalla preoccupazione ho perfino rinunciato a farmi refertare per assistere Fly in clinica. Sto male perché sono rimasto impotente a piangere vedendo il mio animale soffrire e lui impunito. Io amo tutti gli animali, faccio spettacoli per loro, devolvo parte degli incassi a quelli meno fortunati. Sono vicepresidente dell'associazione "Passione Pappagalli" con cui giriamo per tutta l'Italia facendo Pet therapy con i bambini e per far conoscere questo animale bellissimo a tante persone".

·        Erjona Sulejmani.

Emanuela Longo per ilsussidiario.net l'1 febbraio 2020. Erjona Sulejmani è ospite a Rivelo. Nel salotto di Lorella Boccia si parla della sua vita da mamma, modella e agente immobiliare. A questo non manca il suo lavoro in tv. Lei si è unita nel 2015 con il calciatore del bologna Blerim Dzemaili. Per prima cosa si parla delle sofferenze vissute quando era molto piccola ed è stata costretta a scappare dal Kosovo. Tra le chiacchiere con Lorella Boccia, è uscito anche il tema della chirurgia estetica, una pratica che è molto popolare tra le mogli dei calciatori. “Chi dice che non ha provato dice balle. Io ho fatto qualcosa che non sto a dire”. Al che Lorella cerca di tirarle fuori qualche dettaglio in più ma Erjona si limita a dire: “L’età passa altrimenti si casca a pezzi. Ma senza esagerare. Se tu fai una cosa perché non ti vedi bene, ben venga. ma quando diventi uguale alle altre, non va bene. Non esagerare”. Poi fa un esempio riferito al mondo in cui ha vissuto fino a poco tempo fa: “Nel mondo del calcio ci sono tante bellissime donne che si mantengono, certe esagerano anche. C’era una signora, una wags, che si faceva il botox da sola mentre eravamo a cena. Era talmente abituata e brava. È un caso da ricovero”. (agg. Chiara Greco)

Questa sera, nella puntata di Rivelo ci sarà un’ospite molto speciale: Erjona Sulejmani, la modella albanese famosa per essere una delle wag più popolari. La sua popolarità è anche dovuta alla relazione con Blerim Dzemaili, centrocampista del Bologna. Oltre a parlare tanto della loro relazione, ha espresso alcune considerazioni molto forti sul mondo del calcio, rivelando che quel mondo molto maschile è pieno di omosessuali: “Non vedo perchè questo tabù dell’omosessualità oggi sia un argomento così duro. Mi riferisco al calcio e in generale. Se ne sentono di tutti i colori…”, ha continuato la Sulejmani criticando fortemente coloro che non concepiscono questa realtà in questo sport. “Io dico ‘che ti cambia se giochi a calcio con uno che esce fuori e ha la moglie, la fidanzata… o il fidanzato?!”. La sua posizione è quindi molto a favore delle relazioni omosessuali nel calcio. Lei che c’è stata però può assicurare che sotto diverse coperture, diversi calciatori nascondono la loro omosessualità: “Nel calcio ci sono tanti casi…”. (agg. Chiara Greco)

Sulejmani: “Dzemaili? Non lo amo più, mia vita da wag è stata dura”. Sarà la bellissima Erjona Sulejmani, modella di origini albanesi, imprenditrice ed ex “wag”, l’ospite di Lorella Boccia nella nuova puntata di Rivelo, la trasmissione di Real Time in onda come di consueto nella prima serata del giovedì. La Sulejmani, ex di Blerim Dzemaili, si è raccontata a 360 gradi, dall’infanzia non semplice al suo arrivo in Italia, senza naturalmente trascurare l’amore e il suo attuale stato sentimentale. “All’età di nove anni una bambina che vive la guerra sicuramente si trascina dei traumi. Non è facile… bisogna viverla sulla propria pelle”, ha rivelato alla Boccia, indicando così il contesto in cui è cresciuta, ovvero durante la guerra per l’indipendenza del Kosovo, suo paese d’origine. Una situazione complessa che ha costretto la sua famiglia a scappare in Italia, come molti suoi compaesani nello stesso periodo. Un momento non facile della sua vita ma che al tempo stesso, pur segnandola, le ha anche insegnato tanto “perchè sono le esperienze forti che ti fanno crescere, ti formano, ti fanno diventare una guerriera e scoprire parti di te che non pensavi di avere”. L’accoglienza in Italia, ha raccontato, è stata molto positiva. Da 21 anni lei e la sua famiglia vive sul lago di Garda da dove non si sono mai mossi: “Mi sento a casa”, rivela. Nel corso delle sue rivelazioni c’è spazio anche per altri aspetti delicati della sua vita. Erjona Sulejmani ha per esempio ammesso di aver subito atti discriminatori, “anche se in percentuale minore rispetto ad altri, perchè i miei genitori lavoravano anche 16 ore al giorno per poterci dare, a me e mio fratello, una vita dove non ci sentivamo diversi dagli altri o emarginati…”, dice. Ora che è mamma comprende perfettamente tutti i sacrifici della sua famiglia. Spazio quindi alla sua storia con Blerim Dzemaili, conosciuto dopo aver vinto la fascia di Miss Eleganza in Albania: “Quando mi ha confessato di essere un calciatore gli ho detto ‘per carità, alla larga, non voglio avere a che fare con te’”, ha rivelato. Oggi il loro matrimonio è finito e Erjona si sente “una donna libera e felicemente single”, ma al tempo stesso ammette di rendersi conto di quanto possa essere dura la vita da “wag”: “Lasci da parte la tua vita per seguire la vita di un altro… cambi continuamente città, paese… non puoi avere un lavoro fisso in un luogo”. Oggi ammette di volere ancora bene al suo ex nonché padre di suo figlio: “lo rispetterò sempre per il ruolo che copre. Gli auguro di realizzarsi in quello che desidera. Però non lo amo più”, rivela. Infine dice la sua sull’omosessualità e su quanto ancora oggi continui ad essere un tabù nel mondo del calcio ma non solo: “Io dico ‘che ti cambia se giochi a calcio con uno che esce fuori e ha la moglie, la fidanzata… o il fidanzato?’. Nel calcio ci sono tanti casi…”, ha chiosato la modella.

·        Eros Ramazzotti.

Da I Lunatici Rai Radio2 il 15 settembre 2020.  Eros Ramazzotti è intervenuto ai microfoni di  Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei del mattino. Ramazzotti ha parlato un po' di se: "Che estate è stata per me? Una estate di operazione alla spalla e fisioterapia, mi sono imbattuto in una caduta, mi sono fatto male alla spalla destra, ho dovuto operarla, sono ancora lì a lavorare per rimetterla a posto. Mi sono esibito all'Arena di Verona, ho giocato anche a pallone, ma l'ho fatto per aiutare il settore della musica, l'ho fatto a fin di bene. Cosa scelgo tra estate e autunno? Dipende, non amo il caldo, a meno che uno non sia al mare. Io poi sono un tipo un po' solitario, adoro il camino, cose così". Sullo stato di salute di chi sta dietro al mondo della musica: "Il problema è generalizzato un po' per tutti, dietro alla musica, al teatro, al cinema c'è gente che lavora, che ha famiglia, tutto quello che facciamo è per loro. Noi artisti in qualche modo ce la caviamo, ma chi sta dietro deve lavorare, guadagnare e mandare avanti una famiglia. E' importante dare una mano a chi è più in difficoltà". Su come siamo usciti dal lockdown: "Se ne siamo usciti migliori? Mah, non tutti. Non tutti ne sono usciti migliori. Purtroppo l'essere umano è abituato a certi ritmi, a certi standard, difficilmente lo stacchi da certe abitudini. Quello di cui sono preoccupato è il non rispetto per la natura e per il prossimo. C'è molta cattiveria in giro, probabilmente dovuta anche a tutti questi mesi di stop. Bisognerebbe essere uniti sempre, tutti i giorni, non solo quando si è costretti ad essere chiusi in casa. Se il lockdown ha fatto da detonatore all'aggressività che si vede in giro? Un po' sì, guarda morte di Willy. Non posso pensare ci sia gente così in giro. Però purtroppo c'è, esiste, è sempre esistita e questa situazione l'ha amplificata". Sul ritorno a scuola dei bambini: "Dipende da come hanno vissuto il lockdown e da come sono stati coccolati dai genitori. Ci son caratteri e caratteri, i bambini son tutti diversi, i miei fortunatamente son molto sereni. I miei figli son giorni che giocano con gli amici, si divertono, non credo abbiano sofferto più di tanto questa situazione. Spero che la scuola riprenda, non si può tenerli a casa". Sulla musica italiana: "Una canzone non mia che mi sarebbe piaciuto scrivere? Ce ne sono a valanghe, io ho la musica nel sangue. Da De Andrè a Guccini, passando per tutti i grandi cantautori, io canterei tutto. Da Vasco a Cremonini, ai grandi che hanno fatto la storia della musica italiana. Da piccolo ascoltavo di tutto, dai Genesis a Gianni Morandi, a tutti i cantautori. Ero e sono ancora un fruitore di musica tutti i giorni, non si finisce mai di imparare, per scrivere delle belle canzoni bisogna ascoltare anche gli altri. Come sta la musica italiana oggi? Penso che si sia appiattito un po' tutto, il mondo, non solo quello della musica. Sono un ragazzo degli anni' 60, adoro e ascolto musica di quegli anni, musica anche particolare. Non sentire più quei suoni, non sentire più il basso, la batteria, mi fa un po' paura. Si è appiattito un po' tutto, ora si fanno dischi in tre giorni, con il computer. I testi, la musica, certi generi che ormai hanno preso piede, sono tormentoni, ma non credo siano cose che tra vent'anni si possano cantare o riascoltare. La musica pop a differenza di quello che può pensare la gente non è facile da fare. Oggi di pop ce n'è poco. C'è Cremonini, c'è Ultimo, c'è Coez, ci sono questi cantautori nuovi, ma il pop è stato scalzato da altri generi che non rimarranno secondo me". Ramazzotti è un grande amante degli animali: "Ho sempre avuto questa passione. Ho avuto quaranta cani quando ero piccolo, di ogni tipo. Ho avuto anche una scimmia. Si chiamava Cita, non era molto originale il nome. Questa scimmia faceva dei numeri pazzeschi, ogni tanto scappava e tutto il quartiere le correva dietro. Delle scene incredibili. Ce l'avevo quando vivevo a Roma, a Cinecittà. Avevo due balconi piccoli, su uno c'era la scimmia. La mia famiglia era famosa per essere amante degli animali". Sulla Juventus, di cui è noto tifoso: "Pirlo è stato uno dei più grandi centrocampisti del mondo. Non ha esperienza ma porta aria nuova a un ambiente che si era un po' adagiato. Bisognerebbe cambiare un po' di giocatori, ma è difficili. Vedo molto forti anche Inter, Napoli, Lazio, Roma e Milan. Adoro guardare l'Atalanta, la Dea per me è una squadra meravigliosa e considero Gasperini un genio. Mi fanno impazzire i suoi ragazzi che corrono per novanta minuti. Tornando alla Juve, quando ho letto di Pirlo all'inizio sono rimasto perplesso. Ci aspettavamo un nome forte, uno alla Guardiola, uno come Zidane. Poi però ci ho pensato, se lui è convinto vuol dire che è sicuro di quello che fa. Pirlo è una persona intelligente, ho fiducia di vedere buon gioco, che è la cosa che mi piace di più".

Eros Ramazzotti ricorda la sua ex Marica: "L'ho subito fatta conoscere a mia figlia". Eros Ramazzotti in diretta con I Lunatici su Radio 2 ha raccontato il suo lockdown e commentato i gossip che l'hanno interessato ultimamente, che lui ha prontamente smentito per rispetto ai figli. Francesca Galici, Giovedì 21/05/2020 su Il Giornale. Solo ieri, il settimanale Chi diretto da Alfonso Signorini ha lanciato lo scoop sulla presunta liasion in corso tra Eros Ramazzotti e Sonia Lorenzini, paparazzati in atteggiamenti molto complici in un maneggio. Il cantante di Roma si è affrettato a smentire il tutto, derubricando l'incontro come una semplice casualità. Poche ore dopo, Ramazzotti è intervenuto nella notte a I Lunatici, il programma di Rai Radio 2 in onda dalle 00.30 alle 06.00 del mattino e si è raccontato a Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio come si riesce a fare solo nel corso delle ore notturne, dal lockdown al gossip. Ai microfoni de I Lunatici, Eros Ramazzotti ha raccontato il suo lockdown molto particolare, iniziato in America Latina: "Quando la cosa è scoppiata in Italia ero in America, ho fatto una parte dei concerti in programma, poi avevo organizzato un periodo in Messico dai miei amici e sono rimasto bloccato lì per un po', perché anche lì per un periodo hanno chiuso tutto. Cancun era una città fantasma." Il cantante raccomanda la massima prudenza nella ripartenza e pensa che tutto questo possa essere frutto di una esasperazione della natura nei confronti dell'uomo, che era diventato insostenibile per il pianeta. Eros Ramazzotti è riuscito a tornare in Italia solo quando il peggio era ormai passato ma nonostante la lontananza non ha mai perso i contatti con la sua famiglia. Inevitabile, per lui, un pensiero per quanti hanno subito perdite a causa del coronavirus: "Non posso immaginare lo sconforto che hanno avuto tanti perdendo parenti senza neanche potergli dare l'ultimo saluto. È una cosa che ancora si respira, che si taglia col coltello. Siamo ancora al centro, dove è successo tutto. Io sono rimasto bloccato a Cancun, hanno cancellato almeno tre voli. Tantissimi italiani hanno avuto problemi a rientrare in Italia, ma da tutto il mondo. La natura ha dato un segnale molto forte." Inevutabile un passaggio dell'intervista sul gossip che periodicamente lo investe e che sembra infastidirlo molto: "Ogni due settimane mi attribuiscono un nuovo flirt. Mia figlia legge, viaggia molto in internet, capita che legga una cosa così e mi venga a fare domande. E cosa le dico? Se non posso mettere piede fuori casa che mi fanno le foto e mi attribuiscono una nuova fiamma. Non si può far niente, non c'è rimedio." Se Eros non avesse dei figli, soprattutto i piccoli, a cui render conto ammette che non sarebbe un problema ma così la situazione è diversa. "Se cambierò numero di telefono, vuol dire che avrò incontrato la donna giusta. Se fossi da solo, se non avessi i figli, me ne fregherebbe poco. È pubblicità", ammette Eros Ramazzotti, che poi ricorda l'incontro della sua seconda moglie con la sua prima figlia: "Quando ho conosciuto Marika l'ho fatta conoscere ad Aurora. Ma tutte le altre storie e le cose che ho avuto prima me le sono tenute per me. È giusto che sia io a decidere quando dire ai miei figli chi è la mia nuova compagna."

Alberto Dandolo per oggi.it il 20 maggio 2020. Eros Ramazzotti è di nuovo, suo malgrado, al centro della cronaca rosa e nuovamente si parla di presunti rapporti affettivi. Il tutto ha avuto come scenario un maneggio in provincia di Bergamo, dove il cantante è solito portare i suoi figli. E proprio qui, ecco che è stato “pizzicato”, si fa per dire, con Sonia Lorenzini, l’ex tronista di Uomini e Donne, che ha ben 25 anni meno di lui…

QUANTI AMORI… - Il fatto è che dalla fine del matrimonio con Marica Pellegrinelli, che tanto aveva fatto sognare i fan, ad Eros Ramazzotti sono stati periodicamente affibbiati amori, e tutti presunti. E anche questa volta…

 “SOLO UN’AMICA” - Ma questa volta è lo stesso Eros Ramazzotti che smentisce tutto, in esclusiva al settimanale Oggi: “È l’amica della figlia di Maurizio Zanella, dell’azienda vinicola Ca’ del Bosco: era lì anche lei a cavallo. Tra noi Non c’è assolutamente niente. Non è che se saluto una persona ci sto assieme… Questo mondo del gossip è un disastro. Ci siamo incontrati lì, è un’amica di una mia amica e tra di noi non c’è niente. Proprio niente “. Più chiaro di così…

Da CHI il 14 gennaio 2020. «Sono felice. È un momento di ripartenze. E ripartire per me significa abbracciare i miei affetti più cari: i miei figli, ai quali insegno il rispetto e il sorriso». E' un Eros Ramazzotti, carico e pieno di energia quello che si racconta in esclusiva sulle pagine di “Chi” in edicola da mercoledì 15 gennaio. Il cantante è reduce da una vacanza alle Maldive, la prima dalla separazione da Marica Pellegrinelli, una separazione che ha fatto molto discutere, anche in positivo, visto che si è svolta all'insegna della civiltà e del rispetto reciproco proprio per amore dei due figli della coppia, Raffaela Maria e Gabrio Tullio,  che sono andati in vacanza con il papà insieme con Aurora, nata dal primo matrimonio di Ramazzotti con Michelle Hunziker, e il suo fidanzato  Goffredo. «Io non riesco a vivere se non di emozioni positive. Anche quando la vita ti mostra l’altra faccia, il dolore lo senti, è inevitabile, ma poi devi girare le spalle e guardare chi c’è dietro te», dice Eros a “Chi”. «E dietro le mie spalle ci sono tre figli meravigliosi, oltre sessanta milioni di dischi venduti e un pubblico disseminato nel mondo che conosce le mie canzoni e mi segue da trent’anni. Che cosa potrei volere di più?». E aggiunge :Alle Maldive abbiamo giocato, parlato, ci siamo confrontati da grandi pur rimanendo piccini. Questa la ricorderò come una delle vacanze più belle e costruttive della mia vita perché a volte è proprio dai bambini che si può imparare tanto e da Aury, che bambina non lo è più, ma si è fatta una donna con una testa velocissima». E sulla separazione da Marica, che Eros ha difeso pubblicamente dagli attacchi ricevuti dai fan sul web dice: «Come abbiamo detto quando ci siamo lasciati, il rapporto  basato sul rispetto, quello che mi hanno insegnato i miei genitori e che io con tutte le mie forze voglio trasmettere ai miei figli, non verrà mai intaccato. Potrei dire “Sono cose della vita”... bella canzone. Sapete per caso di chi è?»

Silvia Natella per leggo.it il 17 febbraio 2020. Eros Ramazzotti è "nato ai bordi di periferia" e proprio il quartiere popolare in cui è cresciuto, Lamaro-Cinecittà, gli rende omaggio con un murale grande quanto la facciata di un palazzo, ben 15 metri. Nell'opera di Cosimo Cheone Caiffa il cantante è ritratto giovanissimo e in canottiera bianca. Così lo ricordiamo all'epoca del trionfo a Sanremo Giovani negli anni Ottanta. Il murale nel comprensorio di case popolari in Viale Palmiro Togliatti, a Roma, reca la scritta "Musica è", che è il titolo di un suo grande successo. «Abbiamo voluto mostrargli la nostra riconoscenza per tutto quello che rappresenta e quello che continua a fare per noi», racconta a Leggo Augusto, amico di infanzia del cantante. L'idea del murales è stata sua e di altri coetanei residenti che da bambini giocavano nei cortili con Eros Ramazzotti. Il gruppo di amici, classe 1963 o giù di lì, ha deciso il soggetto da raffigurare insieme al cantante. L'idea, nata tra ottobre e novembre, rientra in un progetto di riqualificazione del territorio e ha richiesto una serie di autorizzazioni e di operazioni burocratiche che sono state affidate all'Associazione daSud. Eros è stato informato subito dell'iniziativa.  È stato il figlio di uno degli amici di Ramazzotti a pensare di replicare quanto già fatto in altri quartieri della Capitale, come quello in cui è nato Francesco Totti. Augusto poi ha cercato su Internet l'artista a cui commissionare il dipinto. «Eros - continua l'amico - ci ha voluto dare un contributo e ha scelto il soggetto tra le foto che lo ritraevano all'età in cui se n'è andato da qui. Un disegno che rispecchiasse la nostra giovinezza. E per la scritta pensavamo di inserire tutti i versi di "Musica è", ma lui ha deciso di mettere solo il titolo con la sua grafia. Quella canzone per questa zona rappresenta tutto. Nessuno lo sa, ma Eros per noi ha fatto parecchio: ci ha aiutato con la squadra di calcio e ha sostenuto le spese di interventi molto pesanti per persone che stavano male». "Musica è" è un brano del 1988, che dà il titolo al quarto album di Eros. Nel testo della canzone alcuni versi raccontano l'infanzia nella periferia romana: "Le voci della strada dove son nato, mia madre quante volte mi avrà chiamato ma era più forte il grido di libertà e sotto il sole che fulmina i cortili, le corse polverose dei bambini, che di giocare non la smettono più". Una canzone che guarda al futuro e al passato e sa di riscatto per tutti quelli che in periferia sognano di diventare qualcuno. A volte i sogni si avverano. L'opera sarà inaugurata domenica prossima - 23 febbraio - in presenza del padre, ma in molti stanno già fotografando il nuovo volto del quartiere "dove l'aria è popolare" in viale Palmiro Togliatti. Ramazzotti è cresciuto a pochi metri da lì, in via Carlo Calisse, dove ben presto ha coltivato il sogno di fare musica. «A otto anni già poteva andare a Sanremo, suonava quattro strumenti ed era fortissimo. Sapeva che avrebbe fatto il cantante e che sarebbe arrivato fino in fondo. Aveva 12 anni e su una panchina diceva 'Pensa che quando vincerò Sanremo qua sotto metteranno tutti gli striscioni. E ora gli abbiamo fatto un murale. La musica ce l'ha sempre avuta dentro».

·        Eva Henger.

Dagospia il 25 ottobre 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Ciao Dago, ho letto questo articolo e devo dirti che purtroppo non con risponde a verità. Magari. Inoltre, purtroppo, dal 28 di agosto non riesco tornare in Italia perché in Ungheria hanno chiuso le frontiere dal primo settembre. Solo per farti sapere che è una cazzata. Un abbraccio Eva Henger

Roberto Alessi per “Libero quotidiano” il 25 ottobre 2020. LE HENGER Odiare solo come una madre e una figlia sanno fare. La madre dice che non le piace la figlia, non si parlano da un anno. Mercedesz risponde: «Quando ero in carne mi assillava che ero cicciona, quando avevo l' acne mi assillava... ero abituata solo agli insulti. Se dice che sono fragile si domandasse perché... Smettila di criticarmi. Sono serenissima, felice... insinua anche che questo cambiamento l' ho fatto per piacere di più a Lucas, il mio uomo, le ricordo che queste cose ha iniziato a dirle molto prima che mi mettessi con lui». Non ho parole.

Dagospia il 25 ottobre 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Dago, ma se Henger madre e figlia non si parlano da un anno, come mai due giorni fa erano attovagliate a pranzo in uno dei migliori ristoranti romani? E non è che erano in un pranzo casuale e magari lavorativo, erano proprio in un pranzo di piacere madre/figlia! Erano in sintonia totale, sono state sedute a mangiare, bere e parlare per oltre un'ora: si sono abbracciate e baciate, sembravano tutto fuorché 2 persone in lite tra loro! Mi sa che la storia dell'anno che non si parlano è tutta un'invenzione a favore di show televisivo: vuoi scommettere che a breve ce le troveremo dalla D'Urso LAUTAMENTE PAGATE?! Scommettiamo? Ciao Daghino... firmato un (ex)amico di Eva...

Federico Rocca per “Vanity Fair” il 10 novembre 2020. Attenzione, spoiler. Non aspettatevi, in queste pagine, cronache dettagliate di avventure boccaccesche, resoconti pruriginosi di assembramenti orgiastici, inventari meticolosi di depravazioni irriferibili. Niente di tutto cio. Quel che ci troverete, piuttosto, sara lo stupore di un giornalista che, forse rammaricato, riuscira a sorprendersi di fronte a quella che, a pensarci anche solo un istante, e solo una pura e quasi banale ovvieta. Che cosa ci fa uno in cam con il figlio di Rocco Siffredi e con la figlia di Eva Henger? Non quello che in molti potrebbero immaginare e, forse ancor di piu, desiderare. Niente sedute di chatroulette hot, niente meeting vietati ai minori, niente sesso (virtuale) ai tempi del Covid-19. Leonardo Tano e Mercedesz Henger si incontrano per la prima volta nei rispettivi schermi, per confrontarsi su un tema che pretenderebbe di essere audace: la formazione sessuale di chi ha genitori, da questo punto di vista, presumibilmente ingombranti (oddio, si puo usare quest’aggettivo a proposito di Rocco Siffredi?). Leonardo e collegato dalla sua cameretta a Budapest, dove vive con la famiglia e studia Ingegneria meccanica. Ci aspetta online gia da una ventina di minuti, ma non siamo noi a essere in ritardo. Alle sue spalle una sfilza di trofei, conquistati sul campo. Che, a scanso di equivoci, e quello delle gare di corsa in go-kart. Mercedesz, invece, si connette con qualche minuto di ritardo. E chi, in tutto cio, ci vuole leggere una metafora piu ampia delle tempistiche che proverbialmente differenziano il genere maschile e quello femminile sotto le lenzuola, faccia pure. Zero trucco, una felpa rosa baby. Ci saluta come Heidi da quella che sembra una malga d’alta montagna. «Parliamo in ungherese, cosi lui non capisce niente!», esordisce Leonardo dopo una risata che e solo la prima di una lunga serie. Una risata di timidezza, se non proprio di imbarazzo. Proposta di complicita accolta: Mercedesz gorgoglia qualcosa che provero, senza successo, a interpretare anche con Google Translate. E gia uno si sente, ulteriormente, tagliato fuori. «L’altro giorno ti ho stalkerizzato: sei veramente un bellissimo ragazzo. L’ho detto anche a Lucas, il mio fidanzato. Fai anche il modello, giusto?». Risata numero due e primo accenno di rossore in volto: «Grazie. Diciamo che ci ho provato, ma non mi piace molto. E noioso». Immagino che abbiate scoperto il sesso in modo diverso rispetto a noi, che non abbiamo avuto un genitore pornostar. Mercedesz: «E cosi. Per me la nudita e il sesso sono sempre stati presenze normali. Gli uffici di mio padre (Riccardo Schicchi, talent scout del mondo dell’hard che ha scoperto, tra le altre, Cicciolina e Moana Pozzi, ndr) erano attaccati a casa nostra: scendevo a giocare con le sue segretarie, e attorno a me vedevo girare queste bellissime donne nude. Per mio padre il corpo femminile era una meravigliosa forma d’arte, nella quale non era possibile vedere il male. Ho realizzato che, forse, tutto cio non era poi cosi normale a 8 anni, quando un compagno di scuola mi disse: “Ma tu sei figlia di una pornostar? Tua mamma lo fa per soldi? Non va bene!”. Pensai che forse sbagliavo a parlare della vita dei miei genitori con tutta quella naturalezza. Ma crescendo ho capito che come la vedo io, la vedo io. E come la vedono gli altri, la vedono gli altri».

Leonardo: «Tutti gli amici di papa lavoravano nel settore, e spesso stavo con loro. Ho sempre sentito parlare di porno, anche quando ero piccolo. Era tutto cosi normale anche per me, che non l’ho mai nascosto ai miei compagni».

Mai sentiti strani, dunque?

L: «A me e sembrato strano sentire dalla mia ragazza che, per lei, era stata utile l’educazione sessuale a scuola, perche i genitori non le avevano mai detto niente. Per me era esattamente il contrario. E non mi riferisco al porno: i miei non hanno mai avuto nessuna paura di parlarmene».

Il sesso, cioe il lavoro, da una parte e l’amore dall’altra: ve l’hanno raccontata cosi?

M: «Per i miei genitori la parte personale e quella professionale erano una specie di miscuglio. Il sesso e una forma d’amore, che puoi condividere con chi vuoi. Farne un lavoro, per mio padre, e stato un modo per condividerla con piu persone. La sua era una visione quasi poetica: e difficile da spiegare a chi non la pensa come lui. Ma io ci sono cresciuta, lo capisco. E sono fiera di questo treno di pensieri che mi ha lasciato».

Miti da sfatare ne abbiamo?

M: «La gente immagina che, essendo cresciuta cosi, io possa essere stata troppo...insomma, che abbia cominciato giovanissima a fare sesso. E invece no. Ho preso i miei tempi, ho aspettato di innamorarmi. E poi ho fatto il passo successivo».

A che eta?

M: «Diciotto, probabilmente sopra la media. Molte mie compagne, forse soffocate dai propri genitori, si sono ribellate prima. Lo dico con fierezza, ma se anche fosse successo prima so che l’avrei fatto in modo consapevole, e che sarebbe stato in ogni caso il momento giusto per me».

L: «Io avevo diciassette anni. Non ero giovanissimo, ma non so se sia dipeso in qualche modo dal lavoro di papa. Sia io sia mio fratello siamo fidanzati da tanto tempo...».

Con la stessa ragazza? Mi regali questo brivido, la prego.

L: «No, volevo dire che anche noi abbiamo aspettato di incontrare l’amore, prima di fare sesso. Sono fidanzato da quasi due anni. L’ho conosciuta a scuola quando ne avevo 12, sai, quando sei bambino e ti dai i bacini. Poi lei si e trasferita in India e ci siamo ritrovati quando e tornata qui in Ungheria. Potremmo dire di stare assieme da 10 anni. La cosa divertente e che nel mezzo ho avuto altre ragazze, e dopo che ci siamo lasciati ho saputo che i loro genitori, forse spaventati, chiedevano loro se con me fosse stato tutto ok o se fosse successo qualcosa di... strano, ecco».

Oltre a quest’apertura mentale, che cosa vi hanno insegnato i vostri genitori riguardo al sesso?

L: «Fortunatamente solo quello. Sarebbe stato strano avere delle lezioni piu dettagliate».

M: «Per me e stato un apprendimento continuo: non mi ricordo il momento esatto in cui ho imparato che cosa volesse dire fare sesso. Proprio come non ricordo la mia prima parola».

E quando avete visto i vostri genitori in un video?

M: «Mai vista mia madre. Una cosa e essere consapevoli di quello che fa, un’altra vederlo coi tuoi occhi. E poi so che a mia madre non farebbe piacere».

L: «Anche io non l’ho mai visto in azione. Ho visto le cover dei dvd che giravano per casa ma... non me l’ha mai detto, pero ho capito che non vorrebbe lo vedessi».

M: «Davvero? Ero convinta che per i maschi fosse diverso. Ma, in effetti, te lo immagini: “Figliolo, guarda qui in tv che cosa ho fatto, che ne pensi?”».

I vostri genitori hanno mai lavorato assieme?

M: «Non lo so, dopo googlo. Ma non voglio vedere niente».

Finita l’intervista lo faro io – dovere professionale – per scoprire che nel cast di Rocco lo spaccone, primi anni ’90, c’e anche Eva Henger. Ma al pensiero di dover giustificare la cronologia delle ricerche nel pc di lavoro, mi accontento delle informazioni che ho. Stavolta il bravo giornalista non verifica le sue fonti.

Timidi o disinibiti? Come siete, sessualmente parlando?

M: «Normale, credo. Non mi scandalizza niente, e non faccio nulla di scandaloso. Nella coppia e importante saper trovare dei punti d’incontro. Anche sotto quell’aspetto».

L: «Non giro nudo per casa, non mi piace che i miei genitori mi vedano. Sono timido, si, se era questa la domanda».

No, veramente era piu tipo: a letto le piace sperimentare?

L: «Ah... no, proprio no. Anche lei e piuttosto all’antica, non vorrei mai spingerla a fare cose che non desidera. Temo di essere super noioso».

Ma scusate, io cosa scrivo in quest’articolo? Siete di una normalita sconcertante.

L: «Diciamo che se devo vedere qualcosa di strano basta che vada sul set».

Anche nelle vostre famiglie la sera, a cena, si parla dei problemi di lavoro?

L: «Capita. Adesso che mio padre lavora come produttore molto spesso lo sento lamentarsi di attori che non funzionano. Vuol dire che... non gli si alza il... coso».

Leonardo questa volta diventa tutto rosso, sotto il ciuffo di capelli biondi.

M: «Capitava, ma eviterei di ricordare qui i dettagli. Potrebbero sembrare un po’ volgari».

Non vi ha mai sfiorato il pensiero di seguire le orme dei vostri genitori?

M: «Io non sarei mai capace di fare quel lavoro. Mai. Mia madre, in qualche modo, si e anche “pentita” della sua carriera. Forse anche questo ha influito su di me».

L: «Per scherzo, una volta a papa l’ho detto: e facilissimo, posso farlo anch’io!».

E poi ha capito che non lo era?

L: «No, non mi interessa proprio. E poi credo che sarebbe stupido fare qualcosa solo perche prima l’ha fatta tuo padre».

L’Italia e un Paese di avvocati figli di avvocati, di medici figli di medici...

M: «Ma ci sono figli di attori hard che hanno fatto gli attori hard, o siamo tutti messi cosi? Una coincidenza? Non credo».

Per voi, oggi, il sesso che cosa e?

M: «La cosa piu bella e intima da condividere con la persona che ami».

L: «Eh si, condivido».

Solo con una persona che ami?

M: «Per me si. Ma non voglio dire che debba esserlo anche per gli altri».

L: «Adesso come adesso la penso cosi: non vorrei farlo con nessun’altra che non sia la ragazza a cui voglio bene».

M: «Oh, che patatino!».

Sono sempre piu basito. A una certa eta i genitori o si idealizzano, o si contestano. Nel vostro caso?

M: «Come si sa, io e mia madre non ci parliamo da un anno. Ma per questioni personali, il mondo dell’hard non c’entra per niente. Mio padre Riccardo e sempre stata la persona piu importante della mia vita, fino al giorno in cui e morto. Per me era perfetto».

L: «Io li ammiro entrambi, sono un vero punto di riferimento».

Quindi, che cosa hanno in comune i figli delle pornostar?

M: «Siamo partiti dai set hard, per arrivare allo stesso punto: pensare al sesso come a una cosa bella da condividere con la persona che ami. Ci accomuna questa mentalita aperta, la liberta di essere normali».

L: «E anche il non essere quello che la gente si aspetta. E mi creda, sarebbe molto piu facile...».

·        Eva Robin’s – Roberto Coatti.

Dagispia l'1 febbraio 2020. Anticipazione da “la Confessione” in onda venerdì 31 gennaio su "NOVE". Ultimo appuntamento di stagione sul NOVE con “LA CONFESSIONE” di Peter Gomez. Questo ciclo invernale di interviste si conclude venerdì 31 gennaio alle 22:45 con ospiti il giornalista e scrittore Paolo Brosio e l’attrice ex icona della trasgressione Eva Robin’s. Ed è proprio l’artista bolognese a rivelare al conduttore, durante la lunga intervista: "Mi dispiace che Berlusconi abbia avuto a che fare con delle dilettanti, come tutte quelle di cui si è circondato e che lo hanno sputtanato". Eva Robin's ammette di non conoscere direttamente ‘Berlusca’ ma di considerarlo ‘troppo simpatico’. La conoscenza da parte della Robin’s è indiretta: "Ho delle amiche transessuali che sono state in villa da lui e che mi hanno detto che è veramente un uomo d'altri tempi, molto galante, come non ne esistono più". Tuttavia l’attrice si dispiace che il Cavaliere "abbia avuto a che fare con delle dilettanti, come tutte quelle di cui si è circondato e che lo hanno sputtanato". Il direttore de ilfattoquotidiano.it obietta: "Le sue amiche sicuramente sono molto riservate, però qualcosa le avranno raccontato del bunga bunga: ormai tutti sanno tutto". "Mi hanno detto solo che in ogni bagno c'era un fondotinta... e non era per le ragazze” - spiega l'ex icona della trasgressione – “Ha fatto tanto bene a queste ragazze, irriconoscenti per altro".Silvio Berlusconi, Eva Robin's a la confessione: "Cosa c'era in ogni suo bagno ad Arcore". Libero Quotidiano il 31 Gennaio 2020. Parole clamorose, pesantissime, quelle pronunciate da Eva Robin's a La Confessione, il programma di Peter Gomez in onda sul Nove. Nella puntata di venerdì 31 gennaio, l'artista bolognese si spende su Silvio Berlusconi. E afferma: "Mi dispiace che Berlusconi abbia avuto a che fare con delle dilettanti, come tutte quelle di cui si è circondato e che lo hanno sputtanato". La Robin's ammette di non conoscere di persona il leader di Forza Italia, ma lo considera "troppo simpatico". La conoscenza, semmai, arriva da parte di alcune sue frequentazioni: "Ho delle amiche transessuali che sono state in villa da lui e che mi hanno detto che è veramente un uomo d'altri tempi, molto galante, come non ne esistono più". Perché mai amico di altri tempi? Presto detto, ecco alcuni esempi: "Le mie amiche mi hanno detto solo che in ogni bagno c'era un fondotinta... e non era per le ragazze”, rivela. E ancora: "Ha fatto tanto bene a queste ragazze, irriconoscenti per altro", conclude Eva Robin's.

Marina Perzy per DIVA E DONNA il 14 gennaio 2020. Libera, trasgressiva, scandalosa, discreta nello stesso tempo, nasce uomo all’anagrafe, ma vive da donna. La prima ermafrodita ora si dice transgender con entrambi i sessi che la resero un’icona degli anni ottanta. Tra bellezza, intelligenza, simpatia e bravura, debutta come cantante, si afferma come attrice, in cinema con grandi registi, in teatro in ruoli impegnati e drammatici. In tv la scopre Gianni Boncompagni e Irene Greco. Il suo rapporto con l’amore tra uomini e donne. Vittorio Sgarbi rivela a Non è la D’Urso, una storia a tre di molto tempo fa riportandola alla ribalta. Non ama i reality e ora poteva entrare nel GFVIP. L’incontro al Grand Hotel et de Milan, tra lusso ed eleganza nella sua stanza e iniziamo dal bagno specchiandoci e confrontando i segni del tempo e quali creme sono le migliori. Erano gli anni ottanta, al tempo di Belle al Bar quando la vidi la prima volta a Roma, la conobbi con Atina Cenci, era bellissima e anche adesso tiene il passo. Preferiamo poi la stanza da letto tanto che le ho scattato una foto nell’armadio. Sempre simpatica e imprevedibile.

Da bambina, anzi da bambino com’eri? Con cosa giocavi?

«Diciamo i classici: soldatini, le bambole…non giocavo con i maschi ma con le femmine».

Pensavi di fare l’attrice fin da allora?

«Sono cresciuta e allevata in due collegi il primo di suore e l’altro di preti quando già ero alle medie e diciamo che sono stata addestrata al ballo e alla recitazione fin da bambino, nel collegio dove mi trovavo, c’erano i saggi e già interpretavo ruoli femminili».

Eri un maschietto fino a che età?

«Verso i tredici quattordici anni, ho fatto la transizione».

Sei stata sempre molto riservata, un contrasto con il periodo che viviamo dove trash e confessioni mirabolanti impazzano o mi sbaglio?

«Sì forse da una parte, ma per esempio nelle interviste mi lascio andare come se facessi una seduta psicoanalitica, facendo il punto della situazione, e dicendo anche cose a volte inaudite».

Tornando indietro al collegio, che ricordi hai, ora si chiama bullismo… tu lo hai subito?

«Mi isolavo, scappavo, io non sono molto un animale da gruppo ecco perché non ho mai fatto i reality. Facevo delle escursioni in questa soffitta enorme, ci potevi girare in bicicletta, piena di cose, arredi, scenografie, tessuti, costumi, sentivo e respiravo il profumo del palcoscenico, scaffali immensi, lì era il mio mondo privato, il mio posto incantato. Io ero sempre molto delicata, non mi aggregavo ai giochi così detti maschili, mi comportavo come una principessa, va da sé che ero sempre presa dal più forte del gruppo…non sessualmente naturalmente, ma c’erano già questi ruoli predestinati».  

A proposito di sesso, c’è sempre l’età, dove ci scopre e si osserva il nostro corpo, com’è stata per te la prima volta che hai preso confidenza con te stessa/o?

«La differenza intendi dire? La prima volta che vedevo il pisello che s’induriva, pensavo di avere una qualche forma di malattia, sai le suore non ci educavano sessualmente, poi cercando e verificando il confronto con i miei compagni capii, che avevano anche loro quella malattia lì!»

I tuoi genitori, la tua famiglia? Parlami di loro.

«Avevo solo mia madre, quando mi ha partorito, mio padre se ne era già andato, e lei era felice di averlo abbandonato, dato che non lo voleva più; lo aveva trovato a letto con la sua migliore amica proprio mentre era incinta di me.  Lei aveva un albergo a Lugo di Romagna che gestiva, i miei fratelli, un maschio e due femmine, figli di altro padre, erano invece gestiti dalla nonna. Con loro un rapporto però nullo, sparpagliati e con strade diverse. Da adulta ho rivisto e frequentato mio padre, era un playboy, un bellissimo uomo, soprannominato faccia d’angelo».

Diciamo che per discesa (alchimia) le assomigli un po’?

«Diciamo più ascesa…! Sì il carattere è molto simile, anche le fattezze del viso, mia madre era sicuramente più maschile, erano una bellissima coppia. Mia madre però è stata il genitore fantastico, la figura più importante una spalla vera per me. Lei mi ha sempre accettato».

Questo tuo convivere con le tue due parti, l’equilibrio che dici di avere, un tuo bilancio?

«Due parti incedibili: una era la vanità e Robertino era la testa che governava la parte quella più frivola…vanitosa. Insieme facevano la forza».

A distanza nel tempo pensi sia stato un privilegio, o un ostacolo avere le due possibilità di vivere sesso e sentimenti? Ripensamenti?

«Alcuni durante la transizione spesso hanno crisi e bisogno di sostegno psicologico, non è stato il mio caso, io no, la crisi lo avuta più nei momenti di défaillance amorosa, perdevo il centro di me stessa, solo se qualcuno interferiva in campo affettivo, altrimenti sono sempre stata molto solida».

Parliamo allora d’amore come lo hai vissuto o vivi. Ricordo durante i famosi anni 80 i ragazzi soprattutto per te impazzivano, ma tu come hai vissuto l’amore nelle diversità tra uomo e donna?

«Passando da esaltazione a distruzione nello stesso tempo. Le ustioni d’amore le ho avute con gli uomini, con le donne mi sono accompagnata, fortificata, confrontata e sono stata sostenuta dalle donne; gli uomini mi hanno sempre fatto perdere il senno, per cui io li vivo male, come una catastrofe nella mia fase interiore».  

Perché cosa ti fanno scattare?

«La paura per esempio di essere abbandonata per qualcun altro, invece con le donne non mi sentivo così, ero più temprata più sicura, meno esposta, l’uomo è il mio punto debole. Poi oltremodo ora con la maturità non sono interessata all’uomo figura intera, ma solo la zona genitale in caso, quella scoperta lì, per il resto non sono coinvolta; con le donne avevo un universo da scoprire e su cui appoggiare così da crescere; con gli uomini invece mai non mi hanno mai fatto crescere ma scivolare verso l’abisso».

L’opposto delle donne che solitamente vogliono mettere su famiglia con un uomo, forse sapevi non poterlo fare ed eri così più vulnerabile?

«Dimentichi che io sai sono sempre stata educata da maschietto, quindi ho la testa di un uomo…con un corpo da donna…non sono di testa una donna!»

Chiaro! Della fedeltà che ne pensi?

«La vedo non nelle azioni, la fedeltà per me è intesa nel non tradire il rapporto con gli amici, nell’uomo, per carità ho sbagliato tante volte perché confessavo le mie trasgressioni con altri e il rischio era o perdere il rapporto o prendere dei gran ceffoni! Mi sono fatta furba. Io sono infedele nel lato sessuale ma fedele nei sentimenti, ora ho diverse relazioni, con ognuna taccio dell’altro».

Come persona come ti definisci in generale?

«Una con molti entusiasmi e molte passioni, che vive alla giornata e il momento che sto calpestando, con qualche ombra su come procederà il resto dell’esistenza …ma diciamo non è il mio tema psicanalitico questo».

Una delle tue passioni è dipingere quando non fai teatro e i tuoi quadri hanno uno imprinting personalissimo, spiegami la tua arte?

«Faccio tre tipologie di quadri: i rifatti che sono delle vecchie foto o oleografie dove io intervengo e stravolgo il soggetto, gli intrusi che sono quadri di maniera nei quale io inserisco un elemento che passeggia nel quadro, poi altri quadri veri e propri. Amo artisti come Becon, Pizzicanella, Dalì, in questo periodo Nicola Samorì. Il mio sogno è diventare sempre più brava e presente anche in quest’altro linguaggio oltre al cinema e la tv».

Hai mai avuto il famoso momento che se scegliendo qualcosa o altro tutto sarebbe cambiato?

«Nei sentimenti no, forse se proprio penso a quando mandai all’aria il mio contratto Fininvest con il programma che conducevo di Gianni Boncompagni, Primadonna sarei potuta diventare, molto ma molto ricca e popolare, ma avevo capito che non era la mia storia o quello che volevo. Dovevo vendere delle cose al telefono in un gioco alle 19.30, dove chiamavano in diretta. L’idea, era quella di trasformare un transessuale in un soggetto del quotidiano.  Dopo un mese di repliche feci di tutto per far saltare il contratto; e stato per me il periodo più faticoso che ricordo, forse per la gente la popolarità è un vantaggio, io invece non la vivevo proprio così. Credo che da allora, non feci più televisione di un certo tipo, reputata inaffidabile».

So che sei stata provinata anche per entrare nella casa del GFVIP.

«Si sono stata visionata e qui quando ti fanno l’interrogatorio, sono delle frasi alle quali rispondi di preliminare al provino, io ho detto delle cose che evidentemente hanno fatto capire che non ero la persona adatta…»

Perché?

«C’erano degli scrutinatori tra i quali Irene Greco che già mi conosceva dai tempi famosi di Boncompagni e per la Repubblica delle Donne con Chiambretti, e credo mi hanno trovato non adatta. Io sono libera, ma anche prigioniera di certe abitudini mie. Stare rinchiusa in una sorta di carcerazione non fa per me. Ti dicevo che non sono da reality non sono da vita da gruppo…»

Debutti come cantante, nel cinema hai lavorato con grandi registi come Damiano Damiani, Maurizio Nichetti, Simona Izzo e Dario Argento una definizione per ognuno di loro?

«Damiano Damiani uomo eccezionale e tosto, dai modi burberi, ricordo in una scena che dovevo girare con Elliott Gould e Tomas Milian, per i primi piani avevo finito le lacrime e Damiani mi tirò un ceffone con le sue mani grandi e così ho ricominciato a piangere!»

Sei stata accettata molto come attrice nel cinema e anche nel teatro da registi, colleghi, insomma da un ambiente che sappiamo molto capace del contrario, anche in questo sei stata diversa.

«Sono stata antesignana in effetti, ho sdoganato una certa sessualità legata al costume, per fortuna che hanno assecondato la mia inclinazione alla recitazione che avevo già da bambina. Maurizio Nichetti è uno spiritello, che saltella nel mondo dell’arte con sindrome di Peter Pan, Dario Argento è un uomo pieno di paure stranamente lui che te le fa venire le paure, è un uomo con tante sindromi».

Nel tuo maggior periodo di successo, lavorando anche con attori internazionali, non ti è venuto di varcare i confini e andare all’estero?

«Io sono una nostrana, ne ho fatto uno, con Charlotte Ramplin s’intitola Mascara, me ne proposero altri ma ho temuto l’emigrazione».

Se tu dovessi uscire a cena con chi? Hai qualche preferenza o desiderio?

«Con Michela Brambilla la parlamentare! Mi piacerebbe molto, abbiamo molte cose in comune come gli animali, che trovo siano la scelta più grossa che abbiamo alla situazione affettiva».

Chi ha sofferto per te?

«Tutte le donne, perché non sono mai coinvolta a 360 gradi e come fare il bagno con gli stivali, non ti bagni mai i piedi!»

C’è qualcosa che vuoi dire a qualcuno o qualcosa? A Sgarbi ad esempio che ti ha tirato alla ribalta e con un fatto molto privato ti ha avvisato prima? Ti ha dato fastidio la cosa?

«No ma non figurati se lui ti avvisa, lui è molto estemporaneo, fastidio…l’ho trovato impavido e di solito gli uomini non lo sono. Se proprio devo, ecco magari poteva risparmiare i dettagli di dire chi faceva cosa nel ring del letto».

La tua prima volta che hai fatto l’amore come è stata da uomo, da donna?

«Da ragazzino…avevo undici anni con un archeologo che mi aveva incantato mostrandomi tutti i minerali».

Quanto era grande?

«Diciamo un pochino di più …lui mi ha iniziata, nessuna violenza niente di ciò. All’epoca non era considerata una molestia se poi eri consenziente, era solo, in effetti, la differenza di età. Se pensi che nell’antica Grecia, fossero i filosofi che iniziavano alle pratiche sessuali i ragazzini. Io ho avuto una sorta di accompagnamento nella direzione sessuale da una persona adulta, nessune cose brutte».

Fu solo tempo dopo il tuo passaggio a donna.

«Sì assolutamente, un giorno andai a Riccione feci delle mege, due colpi di sole, tornai a Bologna e già mi chiamavano signorina! Avevo quattordici anni. Con l’aiuto del tuo vicino di casa che lavorando in ospedale, ti forniva gli ormoni, così tu non ha avuto bisogno d’interventi chirurgici, il seno era tutto naturale, ricordo le tue foto bellissime di Roberto Granata per Play Man che fecero grande scalpore. Che rapporto hai con il social e con tutto questo mondo che espone immagini. Allergia, infatti, non curo né la mia pagina FB ma Chiara un’amica giornalista, su instagram mi hanno scippato il profilo. Quello che c’è non sono io non è curato da nessuno per me».

Hai dichiarato che ti sposerai, o pensi di farlo raccontami? Com’è la tua compagna?

«Ho una persona da molti anni, e anche lei lo voleva fortemente il matrimonio, poi ho deciso di no per proteggerla dai media, dal fango mediatico essendo lei di una famiglia molto in vista bolognese.  Per me lei è una persona indispensabile per il mio percorso umano e affettivo».

Figli?

«Io ho animali, ho delegato tutto a loro, io mi addormento con la mia bimba, e anche la mia compagna è piena di cani e un gatto che le ho regalato io…e come un figlio!»

Avevi fatto la modella per Chiara Boni e con Eva Henger, lei scelse la strada del porno e tu quella di attrice. Non ti hanno mai proposto film hard? Pornografia?

«Come no, ma non avevo i genitali! Cinque film porno da girare in dieci giorni. Una quantità esagerata di denaro e c’era ancora la lira. Le ho risposto che non avevo i genitali così… da esporre in quaranta metri di schermo!»

Il tuo rapporto con il denaro.

«Quando c’è né poco, m’ingegno per sopravvivere e mi diverto moltissimo, ma quando ci sono, sono una spendacciona. Ora però so fare la formichina».

Qualcosa che porti nel cuore.

«Non esser stata vicino fino all’ultimo a una mia compagna Monica che se l’è portata via il mostro del cancro, ho dei sensi di colpa a volte per questo. Lo psicologo me lo sconsiglio!»

Un sogno da realizzare?

«Non essere ossessionata dalla faccia che casca dal gluteo che non mi risponde, insomma da tutte queste faccende fisiche. Mantenere la testa e gestire con la lucidità che ho sempre avuto, la vecchiaia che fa parte della globalità di tutti e questo già mi fa sentire in compagnia. Poi come diceva la mitica Anna Mazzamauro: “ La bellezza passa è la bruttezza che resta”!»

Il teatro è molto importante per te, hai fatto un tuo percorso e ne hai fatto tanto com’è capitato, dato che poi ti cimenti in ruoli drammatici e impegnati? Lo hai scelto?

«Mi ha preso per il “colletto” Andrea Adriatico, un regista abruzzese e mi ha fatto debuttare con uno dei testi più impervi che credo ci sia e che aveva fatto Roberto Rossellini in cinema: La voce umana di Jean Cocteau. Da lì è stato un susseguirsi di bellissime esperienze e testi importanti».

Sei passata da ruoli come in Belle al Bar, per la regia di Alessandro Benvenuti candidata nastro d’argento come attrice miglior attrice protagonista, a ruoli super impegnati in teatro, da Goldoni, a Shakespeare, a testi di Almodovar, a quello che mi dicevi il tuo preferito Giorni Felici di Samuel Beckett.  Il futuro?

«Diverse proposte teatrali, come L'abbraccio del serpente, per la regia Roberto Piana con attori come Marcello Spinetta e Gianluca Ferrato, tre protagonisti e un serpente vero. Un altro soggetto per la regia di Andrea Adriatico molto speciale di cui non posso dire nulla perché finché non vai in scena il copione non ti è consegnato».

Sei  credente?

«Ho una mia spiritualità, vado in chiesa ma più per guardare i decori, l’arte, perché è Dio che crede in Dio, se no, non c’è. Io prego. Prego per chi è scomparso o per chi ha bisogno, anche per casi di persone che non conosco; la preghiera ci fa bene!»

Non ti abbiamo più visto da Chiambretti perché?

«Non mi ha chiamato… lui è sempre a caccia di macchiette nuove…»

La politica come la vedi hai mai pensato di candidarti?

«Non ho preferenze politiche, girai uno spot radicale anni fa quello sui profilattici. Ho sempre pensato che i politici sono come i pannolini…vanno cambiati spesso!»

Di Greta Thunberg e del clima che ne pensi?

«Una grande coraggiosa, ancora piccola per rendersi conto cosa sta facendo. La copertina del Times!»

Chiudiamo con un messaggio al mondo a chi legge?

«Cito una frase di Ennio Flaiano: “ Coraggio il meglio è passato”».

Eva Robin's a Libero: "Sono diventata donna e sposerò una donna. Ammiro due uomini: Sgarbi e Feltri". Giovanni Terzi su Libero Quotidiano il 2 Febbraio 2020. Quando l'informazione si avvita su se stessa e inizia a collezionare notizie non vere diventa pericolosa. Nell' era dei social e di internet le notizie spesso escono anche senza controllo e spesso, erroneamente, confermano i pregiudizi. Così è stata la vita di Eva Robin's piena, come si direbbe in termini letterari, di refusi dati da una errata informazione.  

Parlando di informazione lei è sempre stata considerata un simbolo della trasgressione, come mai? 

«Mi considero una persona libera nell' esprimermi sia in amore che in ogni declinazione della mia vita. Tutto incominciò con delle foto di Roberto Granata che mi ritraevano nuda; probabilmente questa forma di libertà per molti ha significato essere trasgressiva. Trasgredire significa violare e non rispettare; io questo nella mia vita non l' ho mai fatto».

Forse perché la sua sessualità è sempre stata considerata "ambigua"? 

«Anche questo lo considero un errore. Uno è ambiguo se in qualche modo "gioca" con la sua immagine dicendo cose diverse di volta in volta; io questo non l' ho mai fatto. Ho sempre spifferato tutto con grande autenticità e lealtà».

Però possiamo dire che quando uscì alla fine degli anni Settanta che lei era un ermafrodito, la notizia non poteva passare inosservata... non pensa? 

«Io non sono un ermafrodito ed è il terzo errore nella comunicazione. Sono nato uomo e devo dire una cosa...».

Cosa?  

«Un uomo abbastanza ridicolo, piccolo, minuto, mani e piedi piccoli, un viso bello da donna. Come uomo sarei stato abbastanza sfigato».

Quando capì di sentirsi femmina? 

«Guardi mi ricordo una estate da adolescente quando andai a Riccione, capitale del divertimento italiano, e mi feci i colpi di sole nei capelli. Quando tornai a casa mi chiamavano tutti "signorina"».

E così lei seguì il suo sentire? 

«Certamente sì! Iniziai a prendere ormoni femminili per rendere possibile una mutazione che io profondamente avevo già fatto e che quindi mi apparteneva».

Nella sua vita come sono state le donne con lei? 

«Ho sempre avuto donne alleate, il genere femminile mi è sempre stato accanto anche nelle mie difficoltà. Le donne spesso sono risolte e sono state le mie stampelle nella vita».

E gli uomini? 

«Con le debite eccezioni, perché non è giusto fare di tutta un erba un fascio, gli uomini hanno una capacità straordinaria di passare dalla "pulsione" sessuale al "disprezzo" immediato. Sono fatti così, non accettano di essere attratti da una persona come me».

Per fortuna ha detto "con le debite eccezioni". A chi si riferisce? 

«Ammiro due uomini per motivi differenti; uno è Vittorio Sgarbi e l' altro Vittorio Feltri».

Sgarbi perché? 

«Con lui ho avuto quelli che chiamo "spuntini sessuali" ed è stato un incontro strepitoso. Lui mi esibiva, non si nascondeva; un uomo con una intelligenza superiore».

E Vittorio Feltri? 

«Lui è la figura di riferimento maschile familiare che avrei voluto avere. Coraggioso, mai scontato e sincero. Ultimamente adoro quando si alza ed esce dallo studio».

Visto che ha accennato alla figura di riferimento familiare, mi dica come è stato il suo rapporto con i genitori... 

«Mia mamma un gigante della e nella mia vita. Mio padre assente; si lasciarono appena nacqui perché mamma trovò a letto papà con la sua migliore amica. È sempre stata una guerriera mia mamma ed è stata sempre, anche da adulta, una persona fondamentale per me; poi nel 2004 mi ha lasciato».

E lei come si sente rispetto a questa assenza da sedici anni? 

«Ho altre persone vicino e noi siamo capaci di ricostruirci la vita ed anche la famiglia come desideriamo».

Parla della sua compagna da venticinque anni che ha detto che sposerà? 

«Certo anche di lei. Naturalmente è una persona eccezionale che cerco di proteggere dalla gogna del gossip».

Infatti di lei non si sa nulla... 

«Né voglio che si sappia...».

Però se vi sposerete come farete? 

«Infatti ci stiamo pensando perché non riesco a sopportare il fatto che lei venga maltrattata dalla informazione per colpa dell' amore con me».

Lei, se pensa al sesso, pensa a una donna o a un uomo? 

«Penso alla personalità di una persona, non al suo corpo. Vengo sedotta dalla personalità, non dalla bellezza».

Si dice di un suo "love affairs " con un membro del Grande Fratello Vip condotto da Alfonso Signorini. È vero? 

«Parla di Antonio Zequila? Si è vero abbiamo avuto una storia o almeno così la ricorda lui».

In che senso dice che lo ricorda lui? Lei invece non rammenta? 

«Ciò che io ricordo è di un servizio fatto da Roberto Granata e di noi che amoreggiavamo facendo la lotta in un letto.

Però non ho ricordo, come per Sgarbi, di un momento indimenticabile».

Ma come è nata questa storia? 

«Lui era un bel ragazzo dai modi gentili che mi veniva dietro e mi corteggiava assiduamente e poi...».

Poi? 

«Siamo stati assieme ma non ricordo molto, forse lo ricorda lui».

Ma per lei è importante il rapporto fisico? 

«Non molto, è abbastanza veloce ed insignificante».

Cosa sta facendo ora? 

«Dipingo e recito a teatro. Ho appena finito una mostra collettiva a Bologna dal titolo "ero-tic" a palazzo Isolani».

Cosa tratta la mostra? 

«È la rappresentazione pittorica dei miei fantasmi. Noi vediamo sempre la punta di un iceberg ma non ciò che c' è sotto. Dipingere mi serve per esorcizzare i miei demoni».

E il teatro? 

«Sto iniziando una serie di spettacoli con Andrea Adriatico dall' 8 febbraio dove il teatro è una forma di vita e l' improvvisazione rende possibile la manifestazione dell' Io più profondo».

C' è stato un momento professionale in cui ha sofferto? 

«Sì, quando fui chiamata da Buoncompagni ed Irene Ghergo (una mia amica oggi) a fare "Primadonna" su Italia 1. Fu un momento di bombardamento mediatico che non dimenticherò mai e che mi fece molto male e questo testimonia il fatto che io non riesco a "navigare" nelle acque dei gossip».

C' è qualche cosa che nella sua vita rimpiange e che non ha fatto? 

«No. La vita di me ha fatto tutto ciò che voleva».

·        Evan Seinfeld.

Da rockol.it il 16 novembre 2020. La sua uscita dal gruppo fu ufficializzata nell'estate del 2011, quando il management dei Biohazard diramò un comunicato stampa con le dichiarazioni del suo ormai ex compagno di band Bobby Hambel (insieme al quale nel 1988 aveva fondato la formazione - oltre ai due del nucleo originale facevano parte anche Billy Graziadei, Danny Schuler e Anthony Meo): "Abbiamo una lunga storia insieme, ma è tempo di cambiare. Vogliamo comunque bene a Evan, in ogni caso". Evan Seinfeld aveva lasciato i Biohazard già cinque anni prima, nel 2006 (salvo poi tornare ad esibirsi con la band nel 2008), dopo aver sposato nel 2004 l'attrice porno Tera Patrick. Ed essersi immerso nel mondo dei film a luci rosse (ma già in alcuni episodi della serie "Oz", nella quale aveva cominciato a recitare all'inizio degli anni Duemila, si era fatto filmare nudo). Con un nome d'arte: Spyder Jonez. Così è citato nei crediti di film - girati proprio insieme alla moglie - come "Reign of Tera" (la scena conclusiva lo vede protagonista di un'orgia insieme a dieci pornostar asiatiche), "Teradise island" (per il quale vestì anche i panni di regista), "Tera, Tera, Tera" e "Desperate". La passione per il porno, che lo portò pure a fondare una casa di produzione di film a luci rosse, la Ion Cross Entertainment e Teravision, gestita insieme alla Patrick, è durata più del matrimonio tra i due, finito nel 2009 (due anni più tardi l'ex cantante avrebbe sposato un'altra attrice pornografica Lupe Fuentes): "Ho guadagnato più soldi nel settore dei film per adulti in un mese che in anni di tour con i Biohazard", racconta oggi Seinfeld in un'intervista concessa al New Musical Express. Con i Biohazard non è più tornato a cantare. Ormai la band appartiene al passato di Seinfeld, mentre il presente è rappresentato dal porno (eppure la musica non l'ha abbandonata del tutto: l'anno scors ha pubblicato "Authentic", singolo di debutto di un progetto hip hop, gli SVG$). L'ex voce del gruppo newyorkese, tra i punti di riferimento della scena metal americana, ha appena lanciato una piattaforma chiamata IsMyGirl in cui modelle e pornostar possono caricare e vendere i propri contenuti. E gli affari procedono a gonfie vele, fa sapere Seinfeld. Anche grazie alla pandemia: "C'è stato un boom nella produzione di contenuti amatoriali per adulti: è diventato il più grande business del mondo. Se hai 18 anni e hai uno smartphone, puoi unirti alla nostra piattaforma". I Biohazard negli Anni '90 vendettero cinque milioni di copie ed ebbero modo di condividere i palchi con - tra gli altri - Metallica, David Bowie, Red Hot Chili Peppers e Wu-Tang Clan. Cos'altro chiedere alla vita? "Quando mi buttai nel porno le reazioni furono varie. Alcuni dissero: 'Ma ti droghi?'. Sono rimasto nei Biohazard per altri dieci anni, spinto dal mio amore per la musica e dal bene che volevo agli altri ragazzi, perché sapevo che se mi fossi fermato per loro sarebbe stato difficile andare avanti. Mi dicevano: “Fratello, non voglio vedere il tuo cazzo Voglio solo sentirti cantare”. Tanti artisti heavy metal e rap che conoscevo cominciarono a guardarmi male. Dicevo: 'Ma fate sul serio? Siete in band che cantano di Satana e dell'Olocausto e vi disturba sapere che scopo davanti alle telecamere?'".

·        Eveline Dellai.

Niccolò Fantini per mowmag.com il 10 ottobre 2020. Ha 27 anni, un sorriso contagioso e la sua professione è il porno: è una star dell'intrattenimento per adulti, nota e seguita in tutto il Pianeta. Si chiama Eveline Dellai, è bellissima e vive in Repubblica Ceca, paese di origine della mamma. Ma lei è nata a Villamontagna in provincia di Trento e da cinque anni è la protagonista di scene e lungometraggi in ricche e importanti produzioni pornografiche dell'Est Europa e degli Stati Uniti. Alle cronache e al pubblico tv è nota per aver anche lavorato, sotto lo pseudonimo di "Dellai Twins", in duo con la sorella gemella Silvia, che nel 2019 ha appeso il porno al chiodo per dedicarsi ai djset. L'intrigante Eveline Dellai è pure uno dei pochi nomi italiani che si leggono alle kermesse erotiche in tutto il Vecchio Continente: dalla famosa fiera Venus a Berlino, passando per l'Erofest di Praga, fino al lombardissimo Bergamosex.

Eveline come procede il tuo lavoro porno ai tempi del Covid?

«Per il lockdown e le restrizioni nei viaggi, mi sono fermata alcuni mesi. Ma avevo appena girato delle scene a inizio anno e ho ricominciato a lavorare sul set verso la fine di aprile. Nel Porno ci sono gli esami medici, che sono tanti e si fanno sempre: ora si è aggiunto uno nuovo. E durante il lockdown ho lavorato molto con l'online, con le piattaforme per adulti, come Onlyfans».

Anche tu sei lanciata col porno social, a colpi di follower e abbonati?

«A me online piace sì e no. Mi piace perché.... non faccio molto. Quasi niente: non è come fare porno davvero. Ai fan piace altro: è tutto soft, davvero nulla e si vede niente, poco più di Instagram... (ride e ci mostra un video sul suo smartphone). Vedi, non è niente: nulla proprio. Guarda: solo si vede il sederino, questa sono io, sorriso, un po' di "shaking", davvero è... niente. Però dell'online non mi piace che... devi essere sempre collegata, sempre. A me piace la realtà: la vita. Ad aprile ho ricominciato a girare sui set, anche perchè da noi in Repubblica Ceca le regole non sono state cosi restrittive come in Italia, era un po' diverso. Ho girato qui in Europa, ma per una produzione americana: Blacked, molto famosa. E le riprese sono state fatte qui Europa».

Cioè, hai girato un porno interracial statunitense, poco prima del movimento "black lives matter", ma allora posso scrivere: "Eveline Dellai: black cock matters"?

«Io non ho mai visto un ragazzo nero che ce l'ha piccolo. Davvero, mai».

Tu sei un'attrice che spazia da patinate foto erotiche, alle gangbang fino al bisex. Ma come è l'uomo, o la donna, che a te piace?

«A me piacciono tutti gli uomini, non ho dei gusti particolari o delle fissazioni: il mondo è bello colorato. Forse perché cerco e trovo sempre, qualcosa che mi piace e mi eccita in ogni persona. E professionalmente un partner deve essere passionale: uomo o donna, bianco, nero, giallo, uno o tanti, è uguale, ma deve farmi sentire la sua passione mentre stiamo lavorando e facciamo sesso davanti alla telecamera. E inoltre sono una ragazza naturale, credo che questo conta e piace nel porno. Le pornostar spesso sono rifatte: tette, naso, bocca, molta chirurgia. Invece io sono naturale: sono come sono sempre stata, non ho nemmeno un tatuaggio, solo un piccolo piercing».

E dalla tua esperienza internazionale, cosa suggerisci al Porno in Italia?

«In Italia non hanno capito come funziona il porno nel mondo. Qui infatti è un po' diverso: molte attrici italiane hanno girato poco tra le produzioni, devono girare di più all'estero, perché in Italia il porno è un po' chiuso e a molta gente non piace. Il porno non è facile: quando ho cominciato ero piccola e ho accettato quasi per caso, ma all'inizio non sapevo se in realtà mi piaceva davvero farlo per lavoro, solo dopo qualche anno ho capito cosa mi piace davvero fare e come posso lavorare bene. Molte donne che vogliono fare il porno, non sanno cosa vuol dire in verità: viaggi da sola, vai alle produzioni, fai sesso davanti a tutti e a casa c'è la famiglia. Non è facile all'inizio, non è sempre tutto bello, piangi anche. Devi fare piano con le performance e le scene, ci vuole tempo per imparare a farle e ti fai anche male. Non è tutto bello e non è facile girare per alcune produzioni, ci ho messo due anni, solo dopo che hanno visto che sono cambiata e che potevo farlo. Ad esempio in una delle ultime scene che ho girato, abbiamo iniziato sul set alle 5 del mattino per via della luce, ma abbiamo finito con le riprese alle 2 di notte... ero stanchissima. Il porno è un lavoro e molte donne non lo capiscono.»

Una delle più grandi leggende del settore è un super italiano: Rocco Siffredi. Che cosa mi dici dell'imperatore dell'hard?

«Rocco per me è "lo zio": si impara sempre tanto da lui. Ho lavorato in tante scene con attori più grandi di me. Non chiedo mai l'età, perché non è una cosa per me importante nel sesso: non c'è un'età per farlo bene. Rocco ha esperienza e condizione fisica: è come uno di vent'anni, non capisco come fa, ma lui è una persona gentile e speciale, una persona molto vera. Nel lavoro mi ha insegnato una cosa importante e molto intima, che non capivo: guardarsi negli occhi. Davvero è molto intimo, per me. So che può sembrare strano, ma è cosi: per me è molto personale guardarsi negli occhi mentre si fa sesso. Me l'ha insegnato Rocco: si parla anche con gli occhi. Lui mi diceva: "look at me!" e all'inzio non lo facevo, non sapevo come fare. Poi ho capito come usarli per fare sesso. E adesso lo faccio sempre».

Parliamo della ragazza che c'è dentro alla Pornostar: è occupato da qualcuno, il cuore di Eveline?

«Il mio cuore? Adesso è pieno di porno: penso molto al lavoro. Perché per me è la priorità ora».

Quindi, come capita a tante stelle del porno, sei single?

«Sono una persona difficile, forse per questo sono sola. No, scherzo, dai: il mio privato è il mio lavoro, my pornlife. E ovviamente la mia famiglia: mia sorella, gli amici, i genitori».

La famiglia è importante. E la tua parecchio, in Italia: ho letto che sei imparentata con il politico Lorenzo Dellai, ex sindaco di Trento ed ex presidente della Provincia Autonoma, nonché ex deputato di indirizzo cattolico. Ma è il cugino di tuo papà?

«Ah sì, ma non lo so preciso, aspetta che lo chiedo alla mia mamma (telefona alla madre e discorrono a lungo in lingua ceca): sì è il cugino di mio papà. Mio cugino secondo, non so come si dica».

Pensi di tornare a vivere in Italia in futuro?

«In Repubblica Ceca ho tutta la famiglia, gli amici, ma vorrei venire a vivere in italia. Ma non so ancora quando e come».

Magari ci vediamo a Milano?

«No, a Milano no: mi piace, ma voglio vivere tra i monti. Io sono come Heidi, voglio vivere con le caprette. Per questo amo il Trentino e torno a Villamontagna dove vivevo da bambina. Ma anche l'Austria mi piace, adoro la montagna».

·        Ezio Bosso.

Giuseppina Manin per il “Corriere della Sera” il 21 aprile 2020.

«La prima cosa che farò è mettermi al sole. La seconda sarà abbracciare un albero». Dalla sua casa di Bologna, Ezio Bosso stila i propositi per quando «si apriranno le gabbie».

Da quanti giorni non vede il sole?

«Sono ai domiciliari dal 24 febbraio. Se poi calcolo il periodo delle cure, dal 9 per le solite terapie, i mesi di clausura sono ormai più di due» considera il 48enne maestro torinese, da nove sofferente per una malattia degenerativa Una condizione che implica la massima prudenza.

«Se non metto il naso fuori non è per paura ma per sconforto. Bologna deserta, quattro pietre, due persone dall' aria triste Che esco a fare? C' è più vita a casa mia».

Una casa peraltro grande e bella.

«Con un solo difetto, non ci entra mai il sole Ma non mi lamento. Vivo bene la solitudine, la divido con la mia compagna Annamaria e i nostri cani, due basset hound e un bassotto. I più felici sono loro. Non gli par vero di averci vicini giorno e notte».

Come sono cambiati i suoi ritmi di vita?

«La malattia mi ha allenato a soste forzate ben peggiori. Stavolta però non è il mio corpo a trattenermi ma qualcosa di esterno, collettivo, misterioso. Sono giorni strani, il tempo e lo spazio si sono fatti elastici, a volte le ore sono eterne, a volte volano. A volte ti senti in prigione, a volte scopri la Dodicesima stanza , quella che ti libera. Era il titolo di un mio vecchio album».

Cosa l' aiuta a far fronte a questa nuova situazione?

«La disciplina della musica. Le note lunghe, le scale, ti educano all' ordine interiore.

Non ho cambiato le mie regole; anche se non esco, mi alzo presto, faccio la barba, mi vesto. E studio. Approfondisco e metto in dubbio ciò che ho fatto, affronto partiture che forse non dirigerò mai perché non me le faranno fare. E poi singole parti, processi tecnici e storici necessari Esercizi che praticavo all' aperto, per costringermi alla concentrazione. Ora ci provo in casa».

Le giornate sono tutte uguali?

«Solo in apparenza. Variano in funzione di come ci sentiamo. È un tempo senza scansione. A me manca il tempo della musica fatta. Ma si può approfittare di questa sospensione per provare a migliorarci pensando agli errori commessi. Cosa che non vedo molto in giro».

Sarà così?

«Diventare migliori è una scelta non una conseguenza, richiede un impegno forte con se stessi. Star chiusi in casa non basta. Questa retorica vuota che ci circonda è insopportabile. Così come tanta cattiveria sparsa nel web, l' ottuso complottismo di chi vuole un colpevole a ogni costo».

Cosa le manca di più?

«Fare musica. E ritrovarmi con i musicisti della mia Europe Philharmonic Orchestra, loro sono i miei fratelli, i miei figli. Ci sentiamo moltissimo ma non è lo stesso. Alcuni di loro stanno vivendo un periodo di grande sofferenza, non possono più suonare, non hanno più un reddito».

Come sarà la musica «dopo»?

«Ci stiamo ragionando insieme. Le nuove regole sulla distanza incideranno sul repertorio. Forse per un po' il mio amato Beethoven lo coltiveremo più nella parte cameristica che nelle Sinfonie, strumentalmente troppo affollate. Dobbiamo ridisegnare delle mappe, sto lavorando con tecnici del suono e architetti. Mi piacerebbe parlarne con Renzo Piano. Ripartiremo, ma in altro modo. La classica deve diventare un elemento di crescita del Paese, può insegnare a stare insieme con ordine e disciplina».

Cosa ascolta in questi giorni?

«Ascoltare solo per piacere per me è complicato, visto che sento ogni parte dell' orchestra separatamente. Mentre quello che studio mi risuona in testa con più forza. Adesso mi succede con la Quinta di Mahler».

Cosa legge?

«Testi di storia antica, su come si ascoltava la musica mille anni fa. Ho la fortuna di avere amici colti. Professori universitari con cui parlo di diritto canonico o storia medioevale».

Guarda la tv?

«Il meno possibile. E basta con questo lessico bellico, il virus non è un nemico, non c' è una guerra in corso. Non lo sconfiggeremo, come per altre malattie, da l' Aids al cancro, ci dovremo convivere».

Si trasmettono concerti e opere, mai così tanta musica in tv.

«Se esiste è perché l' abbiamo fatta, ma le teche si stanno esaurendo. E' un patrimonio che va alimentato. La musica in tv ci tiene compagnia, ci fa sperare di risentirla presto in sala. Come il teatro, la classica ha senso solo dal vivo».

La sua voglia matta?

«Abbracciare gli amici. Di natura sono timido, riservato, e con il corpo ho un approccio particolare. Non abbraccio chiunque, solo chi amo. Sempre avvolgendo l' altro totalmente. Questa astinenza forzata mi pesa. Sarà interessante ritrovare un rapporto fisico. Magari ci sarà un po' di imbarazzo, magari un po' di paura. Ci metteremo a ridere o ci spunteranno le lacrime. Non so come sarà. Ma qualsiasi cosa sia sorrideremo. Felici di essere vivi».

·        Ezio Greggio.

Ezio Greggio, tra cinema e Mediaset: "Le critiche su "Lockdown all'italiana" sono state fatte da 4 imbecilli". L’attore è protagonista in sala della commedia di Enrico Vanzina, in uscita il 15 ottobre. Siete già iscritti a The dreamers, la newsletter degli appassionati di cinema? In esclusiva per i nostri abbonati. Arianna Finos su La Repubblica il 13 ottobre 2020. Lockdown all’italiana, il debutto alla regia del 71enne Enrico Vanzina dopo la scomparsa del fratello Carlo, esce in sala in 350 copie con Medusa, giovedì 15 ottobre. Protagonista Ezio Greggio. È la storia di due coppie intrecciate da un adulterio e costrette a restare insieme per l’emergenza, preceduta da polemiche sollevate quando era uscita la locandina con i quattro in balcone. “Il mio film potrà piacere o meno, ma quando si vedrà si capirà subito che non è in alcun modo offensivo”. Aveva ragione Enrico Vanzina. Nel film le coppie sono Ezio Greggio e Paola Minaccioni, lui avvocato con la tendenza all’adulterio financo velleitaria, lei casalinga facoltosa malata di shopping. Lui ha per amante la cassiera (“periferica”, la chiama la moglie tradita) di un supermercato, Martina Stella, che continua a lavorare, mentre il marito Ricky Memphis è un tassista che rifiuta di uscire di casa per paura del contagio. Il giorno prima che venga dichiarato il lockdown i coniugi scoprono la tresca improvvidamente documentata dai cellulari. Buttano fuori di casa i fedifraghi che, valige in mano, si bloccano sulla soglia all’annuncio dei notiziari che certifica l’obbligo di stare in casa. Abbiamo raggiunto Ezio Greggio al telefono, mentre è sul treno di ritorno verso Milano dopo la conferenza romana.

Avete presentato in pubblico il primo film girato durante il lockdown, che è il primo a uscire in sala.

“Un’emozione grande, il film mi pare sia piaciuto, ci sono arrivati tanti complimenti. Ci ha fatto piacere che il nostro sforzo sia stato ripagato. E’ stato un film che abbiamo girato appena hanno di nuovo autorizzato le produzioni, Enrico lo aveva scritto da marzo in poi, ed è una gran bella storia. Una commedia divertente in linea con la tradizione italiana ma con qualche momento di commozione, perché sullo sfondo di questa crisi di coppia c’è un’Italia con tanti problemi, con tante persone che mancano e i protagonisti ne parlano. Ci sono momenti in cui ciascuno di noi dice delle cose. Poi sai l’abbiamo girato facendo tamponi, prove, controlli continui e in pochi giorni, pur di farlo abbiamo tutti aiutato Enrico, mettendoci a disposizione completamente e preparandoci in modo preciso. Sul set eravamo tutti stra-preparati”.

Com’è stato recitare in queste condizioni?

“Da professionista sul set ti concentri e dai il meglio. Abbiamo lavorato che il lockdown era finito, ma il problema si respirava. Roma era deserta non c’erano i turisti, si sentiva il riflesso di quel momento e questo ci ha portato ad essere ancora più concentrati”.

Il suo personaggio è egoista, donnaiolo ma anche fragile.

“E’ un personaggio fortissimo, ricorda certi caratteri incarnati da Sordi e Gassman nelle commedie all’italiana, personaggi un po’ cialtroni che vivono in modo libertino. Ma al di là delle bassezze - tutti i personaggi di questo sono i pronipoti dei mostri di Risi - il mio non perde mai il suo lato umano e nella disumanità generale di questa storia ha momenti di riflessione forte. Sul terrazzo faccio un discorso a mia moglie e alla ragazza con cui cerco di avere una storia che non si rendono conto di quel che succede fuori. Una pensa a fare i selfie, l’altra a comprare le creme su Amazon, e invece “fuori c’è gente che non riesce da dare l’ultimo saluto ai loro genitori, fidanzati che non riescono ad abbracciarsi e il mondo cambierà in modo irrimediabile”. Un discorso intenso, perché anche se il mio personaggio è negativo non ha perso di vista la drammaticità del momento. Enrico si è basato anche sul fatto che mentre fuori si consumava questo dramma in casa gli italiani pensavano al lievito per fare le pizze, a tenersi in forma, c’era uno scambio continuo di meme, alcuni terribili, altri divertenti, molti cercavano di non abbattersi, di tirarsi su. Credo che alla fine abbiamo raccontato veramente quella che è stata l’Italia del lockdown”.

Quanto l’hanno amareggiata le critiche preventive?

“Zero. Erano quattro gatti. Io non do retta a quel tipo di web, io posso dare retta magari discutere con un critico che parla di un film: è giusto fare una chiacchierata e rispondere. Ma quelli erano quattro imbecilli. Un suo collega li ha definiti una legione di imbecilli, credo che l’unico eccesso sia stato la parola legione, li abbiamo contati erano davvero pochi, alcuni copia incollavano per far vedere che erano in tanti. Ma i media hanno risposto loro e li hanno zittiti. Noi siamo tranquilli, abbiamo fatto un film cattivo, feroce, divertente e con quel tocco di melanconia che era giusta in una situazione come questa. Certamente non c’è un attimo di irriverenza nei confronti di chi è cambiato, anzi nel film abbiamo momenti in cui in maniera toccante parliamo di quel che ci accade intorno”.

A proposito di ciò di cui si parla sui media: in questo momento si parla moltissimo delle sue considerazioni sul cambiamento di qualità dei programmi Mediaset. Si aspettava questa reazione?

"E’ una mezza bufala, lo dico sinceramente. A una domanda in una intervista in cui si parlava di televisione ho detto a me non piacciono i reality e credo che Mediaset ne faccia troppi. Fine. Da lì i media hanno condito e scritto una marea di cazzate. Ma io ho semplicemente dato una opinione che non credo di essere il solo ad avere, dentro e fuori Mediaset. Ma l’azienda ovviamente fa quel che vuole. Credo solo che si possa fare anche dell’altra televisione. Ho un progetto con loro che è fermo da più di un anno e spero che lo prendano in considerazione. Non ne posso parlare finché non va in porto”.

Perché il progetto giace da un anno?

“Non so, a loro era piaciuto molto. Con Lucio Presta, abbiamo prodotto la puntata zero, aspettiamo che ci dicano se lo vogliono fare o no. Ripeto, io so fare quella televisione, non so farne un altro tipo e alla domanda se mi piacesse quell’altro tipo di televisione ho detto di no. Ma l’ho sempre detto, da anni”.

Le hanno anche offerto di condurre reality?

"Mi hanno sempre offerto di tutto, dai reality ai giochi a quiz. Ma io vengo dai varietà, sono nato con La sberla su Raiuno, nel '78, ho fatto Tutto compreso, Drive in, Striscia la notizia. Questa è la mia storia e questo è il mio mestiere. Non vado a fare una cosa in cui non credo. E come ho detto in quella intervista che poi come succede è stata gonfiata – i media prendono una frase e la fanno diventare una Bibbia - ho detto solo che non mi piacciono i reality. Ho letto "Greggio attacca Mediaset" ma quale attacco, quello che ho già detto a Pier Silvio (Berlusconi, ndr) nelle occasioni in cui abbiamo chiacchierato, ma è una opinione normalissima, tutto lì”.

Tiziana Leone per ''Il Secolo XIX'' il 6 ottobre 2020. «Al terzo tentativo speriamo di farcela, è stata un' impresa epica, abbiamo viaggiato verso l' incognito, con la paura che succedesse sempre qualcosa di nuovo». Ezio Greggio confessa che organizzare la diciassettesima edizione del Montecarlo Film Festival della Commedia, al via lunedì nel Principato di Monaco, non è stato affatto facile. «Ma ormai dovremmo esserci» aggiunge «Ci saranno i distanziamenti, in una sala di 600 persone ne avremo solo 250, però va bene così, perché vogliamo lanciare un segnale forte, di continuità, come ha fatto la Mostra di Venezia. In questo anno buio abbiamo in concorso tante commedie da diversi paesi del mondo e una giuria strepitosa, guidata dal mio amico Premio Oscar Nick Vallelonga con un tris di attrici come Sabrina Impacciatore, Maggie Civantos e Lotte Verbeek. Ci sarà anche l' anteprima internazionale del film "The Comeback Trail" con Robert De Niro, Morgan Freeman e Tommy Lee Jones».

Mai pensato di rinunciare al Festival?

«Non l' ho mai voluto pensare. Ad aprile era chiaramente impossibile, a luglio si era aperto uno spiraglio, ma molte star avevano ancora problemi a viaggiare, oltre al fatto che mancavano i film. Abbiamo aspettato, ora per fortuna ci siamo».

Si può ridere i tempi di pandemia?

«Credo che mai come ora la commedia sia importante per il pubblico. Me ne sono accorto durante il lockdown, quando c' erano i miei film in televisione, mi scrivevano in molti, felici di aver passato almeno due ore di serenità. In momenti bui la commedia è terapeutica. C' è sempre stata questa prevenzione nei confronti della commedia, a differenza del cinema drammatico, sempre libero di fare qualsiasi cosa. Mario Monicelli, che ha fondato con me il Festival di Montecarlo, lo diceva sempre».

La commedia è sempre stata guardata come il lato B del cinema.

«Eppure è il genere che ha dato più soddisfazioni al mondo produttivo, che grazie alla commedia ha finanziato tanti film d' autore che hanno incassato meno. Agli inizi del 2000 nei festival non inserivano nemmeno le commedie, a Venezia arrivai con un mega tapiro per Marco Müller, se lo fece consegnare con il sorriso, ma mi fece la promessa di cominciare a inserire il genere alla Mostra. L' ha mantenuta».

Il film di Enrico Vanzina "Lockdown all' italiana", di cui lei è uno dei protagonisti, è stato criticato per la locandina, prima ancora di uscire al cinema. Se lo immaginava?

«Nella locandina io sono in giacca e mutande, come tutti quelli che facevano smartworking in quel periodo. Martina Stella ha un pantaloncino corto come tutte le signore che facevano esercizi a casa o prendevano il sole in terrazzo. Bisogna essere cretini per pensare che si tratti di un film che offende i morti, anzi, parla di vivi e di chi ha avuto problemi, in maniera delicata e rispettosa. Il problema è che gli attacchi sono arrivati da quattro gatti via social, il nascondiglio di persone vili, che vivono coperte da pseudonimi. Da sempre la commedia ha toccato temi pesanti, il nostro film è feroce nei confronti di questi mostri alla Dino Risi, che Vanzina ha saputo tratteggiare con il suo stile da perfetto conoscitore della nostra società. Mi auguro che la gente metta la mascherina e torni al cinema».

A dicembre tornerà a "Striscia la notizia". Ha mai avuto la tentazione di lasciarla?

«Mai. Io e Antonio Ricci siamo i ministri di questa che ormai è un' istituzione. Mi diverto molto, da trentatré anni: l' affetto è sempre stato immenso e il pubblico non va mai tradito, va amato e rispettato».

Il primo amore resta la tv?

«Io amo la tv rispettosa, fatta con autori, conduttori e professionalità. Detesto i reality e lo schiacciamento al basso che sta facendo Mediaset non mi piace assolutamente. Quest' estate la replica della mia "La sai l' ultima?" ha ottenuto il 10% di share, offrendo due ore di divertimento sano e nobile e non con una manica di disgraziati buttati su un' isola o dentro a una casa. Credo sia una roba vergognosa e continuerò a dirlo: per forza poi il pubblico ti lascia e si cerca i film su Netflix. La mia è una critica costruttiva verso un' azienda a cui voglio molto bene».

·        Fabio Canino.

Federico Boni per "gay.it" il 4 luglio 2020. Un’intervista presto diventare virale su Twitter, quella rilasciata da Fabio Canino a Ilaria Ravarino su IlMessaggero di oggi. Complice la chiusura di Miracolo Italiano, storico programma di Radio 2, Canino ha parlato del proprio presente e futuro professionale, affrontando forzatamente anche il surreale tema di una Rai in mano ad una fantomatica lobby gay, come urlato ai quattro venti da Mario Adinolfi. E qui l’intervista si è fatta onestamente oltraggiosa, come se a viale Mazzini ci fosse una congrega di persone LGBT da stanare. “Scusi, ma proprio ora che la Rai si apre ai gay, lei lascia la Rai? Per Adinolfi Rai 1 è Gay Uno, davvero? Ma ci sono così tanti gay in Rai?”. Domande a raffica a cui Canino ha risposto con doverosa fermezza: “Dobbiamo scendere a questo squallore, e fare l’elenco degli eterosessuali in Rai? E allora quanti biondi ci sono, quanto portano gli occhiali? Affermazioni come quelle che ho letto in giro sono solo tristi commenti da bar di gente che non ha niente di meglio da fare che cercare 15 secondi di celebrità. Io non me li filo proprio”. Ma la giornalista ha insistito. “Qual è il problema?”. Prima il tiro al gay lo si faceva per religione. Ora restano sacche di ignoranza e frustrazione. Gay repressi, gente che vive l’omosessualità come un attacco al loro presunto machismo. Ma ormai le donne sono molto più macho degli uomini. Sarà bastato tutto ciò per fermare la collega? Ovviamente no. “Però donne gay non ce ne sono in Rai, o no?”. “Certo che sì. E sono tante”, ha replicato Fabio. Per esempio?”, ha incredibilmente domandato Ravarino, provando a tirar fuori con le cesoie nomi e cognomi dal povero Canino, costretto così a replicare: “Tocca a loro dirlo. Uno può aiutare la società a includere, ma poi è il singolo che deve fare i centro metri finali. I gay che vediamo in tv hanno fatto del loro modo di essere un manifesto. Prendere o lasciare. Oppure sono raccomandati. Ecco la vera differenza in Rai: prima a raccomandare erano solo gli etero. Ora lo fanno anche i gay“. Ma la disperata caccia all’outing della giornalista non è finita qui, tanto da chiedere a bruciapelo a Fabio, “Alberto Matano è gay?”. “Non lo posso certo dire io”, la secca replica di un Canino a lungo interrogato sull’orientamento sessuale dei colleghi Rai, neanche si trovasse al cospetto di un gendarme ceceno. Non contenta, nel finale la giornalista ha virato verso la nuova edizione di Ballando con le Stelle, domandando: “ci sarà la transessuale Vittoria Schisano, l’Italia è pronta?”. Peccato che in passato, a Ballando, si vide anche Lea T, bellissima modella transgender. Era il 2013.

·        Fabio Rovazzi.

ANDREA LAFFRANCHI per il Corriere della Sera l'8 giugno 2020. Chissà se questa estate avrà il tormentone musicale. Di sicuro non sarà firmato da Fabio Rovazzi, uno specialista della hit. Dal 2016 con «Andiamo a comandare» (5 dischi di platino e 185 milioni di views su YouTube) ogni estate Fabio ha piazzato un video e una canzone nelle nostre teste: «Volare», «Faccio quello che voglio» e «Senza pensieri».

Quest' estate passa?

«Sì. La quarantena è stata un periodo buio non solo per l'assenza di stimoli ma per altri eventi drammatici che mi sono accaduti. La mia musica e i miei video sono sempre frutto delle sensazioni che vivo e quindi non mi sarebbe venuto un pezzo allegro. La gente adesso ha bisogno di vibe positive. Se ci avessi provato sarebbe uscito qualcosa di finto e il pubblico se ne sarebbe accorto».

Visto che non partecipa alla corsa, che estate musicale si immagina? I tormentoni a base di mojito, strusciamenti e reggaeton funzioneranno o rischiano di essere fuori luogo?

«Spero che sia l'occasione per gli altri artisti di abbandonare i cliché delle canzoni estive. Siamo in una fase di stallo, c'è desiderio di festeggiare ma non c'è la festa. Spero che escano canzoni consone al momento. A meno che gli strusciamenti non siano quelli dei gilet arancioni».

Sta ridendo?

«Il caso dei gilet arancioni in piazza Duomo mi ha stupito. Non per le persone che ci sono andate ma per l'autorità che non si è fatta sentire. E quando qualcuno dice che il coronavirus non esiste lo prendo di petto. Impazzisco. Ho vissuto una tragedia da vicino».

Suo nonno è morto proprio per il Covid e lei lo ha ricordato con post commovente.

«La situazione nelle RSA era drammatica. Ho vissuto mesi brutti combattendo contro cose assurde. Avrei potuto fare un post di divisione e attacco. Non l'ho fatto per rispetto del nonno e per non sporcare il nostro rapporto. Con i giorni ho capito che cercare il colpevole per una cosa imprevedibile come questa non era utile».

Da un po' di tempo lei prende posizione sull'attualità...

«Lo faccio con attenzione e soprattutto informandomi prima. Non voglio fare disinformazione come fanno tanti personaggi del web che parlano senza arte né parte per seguire un trend senza credere in quello che dicono. Le mie sono opinioni e mi piace potermi confrontare anche con chi non le condivide».

Ha anche appoggiato le proteste antirazziste per la morte di George Floyd, il cittadino afroamericano ucciso da un poliziotto...

«Purtroppo in Italia siamo ancora indietro sul tema razzismo. Qualcuno mi ha scritto: "impedire gli sbarchi non è razzismo". È fondamentale far capire subito ai ragazzini quali sono i valori da sostenere, l'uguaglianza in tutti campi, il rispetto delle donne...».

Come sta approfittando della libertà riacquistata?

«Sto traslocando. Dopo due anni e mezzo di lavori la casa è pronta. Un concentrato di tecnologia: sala cinema con Dolby Atmos, studio di registrazione, rubinetti con asciugamani elettronico... la tecnologia stessa è stupita di quanta tecnologia ci abbia messo. È la mia prima casa di proprietà, la vivo come un conquista personale».

Il trasloco cosa sta facendo riaffiorare?

«Sto ripercorrendo gli ultimi anni, mi ricordo i momenti belli... Appendere i dischi di platino di "Andiamo a comandare" sarà un po' egocentrico, ma credo che lo farebbe chiunque. Come con la medaglia della corsa campestre».

Ha anche quella?

«Certo. Era l'unica cosa sportiva che facevo. In resistenza battevo tutti».

Ha trovato foto che non vorrebbe rivedere?

«Non se ne stampano più visto che c'è Instagram. Forse la mia generazione nel privato vuole essere ancora più segreta e meno esposta».

Durante il lockdown ha lanciato il suo profilo su Twitch, piattaforma social per il gaming.

«Mi spiace quando vedo che quel mondo viene minimizzato e ridicolizzato. I videogame per alcuni pro-player non sono più un divertimento ma un lavoro che richiede allenamento, tecnica Questo progetto per me è un modo per cercare occasioni di scambio con altre persone».

Ha fatto dirette con vari personaggi: da Briatore a Mentana, da Michelle Hunziker a Jovanotti... Chi l'ha sorpresa di più?

«Non è necessariamente positivo. Quando ho annunciato Renzi tutti i personaggi del web mi hanno sconsigliato di invitarlo perché ai ragazzini non interessa la politica. Ero preoccupato che facesse propaganda. Anche fare il simpatico in fondo lo è, ma poteva fare peggio».

Con Jack Black ha catturato un'altra star di Hollywood...

«Me lo avevano presentato alla Fashion Week e lui mi aveva fatto i complimenti per la gag con Will Smith. Mi aveva emozionato pensare che qualcuno gli avesse parlato di me. Per questa diretta l'ho contattato via Instagram e ne è nata una conversazione di un'ora. Amo il cinema, parlare con lui di Tarantino è stata una soddisfazione».

La vedremo presto tentare la strada americana al cinema?

«Hollywood è un mondo fantastico e sotto il glitter devi imparare a conoscerne i meccanismi. Ci sono possibilità interessanti e contatti, ma mi spaventa ancora».

·        Fabio Volo.

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 10 giugno 2020. Dovevamo parlare di quarantena e Coronavirus, e siamo finiti a parlare d’altro. Con Fabio Volo va così e non perché si sottragga ma, al contrario, per eccesso di generosità nel raccontarsi o forse per quel suo cercare di dire le cose il meglio possibile, di spiegarle anche un po’ a se stesso mentre te le spiega. Va in crisi solo quando gli chiedi della sfera più intima, cerca di dire con gentilezza che qualcosa nel suo rapporto con Johanna è andato in crisi, ma anche che sta lavorando su se stesso, sulla sua connessione con la sfera emotiva insieme a un analista. “Se mi chiedi come sto, io ti dico quello che penso, non quello che provo, è la parte di me su cui devo intervenire”, spiega.

Come è stata la tua quarantena?

«È successo che a fine febbraio mio figlio più grande era in vacanza perché la scuola d’inglese era chiusa per la settimana bianca. Johanna era con i nostri figli e con una coppia che ha un bambino che va in classe con Sebastian, in Liguria. Io li avevo raggiunti il giovedì, poi la domenica hanno annunciato il lockdown e siamo rimasti lì, in una casa in affitto per due famiglie».

Una specie di comune hippy.

«Sì. Senza le cose belle degli hippy».

Tipo?

«Senza le droghe. A parte gli scherzi, abbiamo vissuto in una dimensione molto bella, i bambini avevano gli amici e in più c’era un giardinetto. Siamo stati in una bolla».

Andavi a fare la spesa?

«Se potevo saltavo i miei turni. A me piace stare in casa, ci resto quasi sempre, che poi è anche uno dei motivi di noia della mia compagna».

Come tutti i misantropi quindi hai vissuto bene la quarantena.

«Io devo scrivere, leggere, pensare, la casa è la dimensione ideale. A Milano prima del virus mi concedevo giusto la palestra la mattina, quando non uscivo per lavoro».

In effetti notavo dalle foto su Instagram che da un po’ mostri un’inedita attenzione per il fisico. 

«È la crisi della terza età».

Volevo arrivare lì.

«Ne sono cosciente. Mi è arrivata quella roba lì che dici: cazzo, vedo il declino, rallentiamolo. Non è che ho un bel fisico, cerco di arginare. Sto diventando come L’Avana, a qualcuno può anche piacere quella decadenza, ma ci vuole l’occhio del turista».

Ma da quanto hai questa crisi?

«Da più o meno un anno.

Quale è stato l’evento scatenante?

«Una serie di cose. I miei figli sono un po’ più grandi, io inizio a voler lavorare meno e la mattina, fino a prima della quarantena, mi ero concesso il personal trainer che non avevo mai avuto. È il sentire i 50 che si avvicinano».

Non c’è stata una cosa che hai detto: eh no, questo è sintomo di vecchiaia incombente?

«Il primo sintomo è quando il cameriere ti chiede se l’acqua la vuoi temperatura ambiente o frigorifero».

Perché?

«Perché si preoccupa che non ti venga una congestione».

È il cambiamento fisico che ti ha spaventato?

«Le ginocchia sono una spia importante. L’età la vedi da lì. A una donna devi guardare il ginocchio, è come contare i cerchi sui tronchi. Quando io faccio yoga e mi metto nella posizione del cane che guarda in giù, mi vedo le ginocchia, ecco lì è un dramma. Comunque dentro in fondo sono sempre stato un anziano».

In cosa saresti un anziano da sempre?

«Mi piace fare le cose che fanno gli anziani: leggere, guardare i film, viaggiare come i pensionati, le calze bianche, le Birkenstock che mi ha fatto prendere Johanna».

Vuoi lottare contro la vecchiaia con le Birkenstock?

«Giravo per la California con le Birkenstock».

E allora è inutile che curi il fisico se metti le Birkenstock.

«Ma tanto non ho mercato. Lo faccio per me, poi se torno single sarò più attento».

Quindi non sei single?

«Non ancora».

A fine anno sono girate delle voci su una crisi della tua relazione, che dici?

«Ma sì, ci sono le crisi, poi si ritorna, dove vuoi che si vada».

È più bello tornare dopo una crisi?

«Cosa? Dici se è più bello il rapporto?»

Eh.

«Quando si supera una crisi, tu dici: ok, questa volta è andata, basta. Poi passa qualche mese, se sei fortunato un anno, e c’è un’altra crisi, un altro problema. È quella roba dei cancelli, non finiscono mai. Ma in fondo accade se sei vivo. A proposito. Stavo leggendo Marquez, “L’amore ai tempi del colera”, ti leggo un passo».

Vai.

«“Non ebbe mai la pretesa di amare e di essere amata pur avendo sempre la speranza di trovare qualcosa che fosse come l’amore ma senza i problemi dell’amore”».

Sei tu?

«Ma guarda che io sono molto serio. O meglio, prendo molto seriamente la famiglia, più che la relazione la famiglia, perché sono italiano, ho quell’idea radicata della sacralità della famiglia».

Sei un po’ sfuggente. Non si capisce come stai.

«Io devo lavorare sulla connessione, devo pensare meno e sentire di più. Il mio problema è che elaboro tanto con la testa. Se tu mi chiedi come sto, io ti dico quello che penso ma non quello che sento».

Nel 2016 hai detto che ci sono momenti della vita in cui non si perde e non si vince, ma si va a pari. Che momento è questo?

«Continuo con la mia insoddisfazione, con l’irrequietezza, quell’orizzonte lì per me non è mai finito: devo cercare, indagare, provare. Diciamo che sono a pari con la mia famiglia di provenienza, con gli amici, con quegli affetti. Mi sento a volte inadeguato come padre, anche nella relazione con Johanna, diciamo che ci sono sempre punti oscuri che fatico a decifrare, però sono abbastanza a pari con la mia esistenza».

Cosa fatichi a decifrare nella relazione?

«Una volta che raggiungo una sorta di consapevolezza e dico “ho capito”, poi non ho capito un cazzo».

Rimescoli le carte.

«Diciamo che appena ci metto il cappello sopra, dopo un po’ non c’è più niente sopra».

È colpa tua quindi.

«Sì. Non sono mai definito in una cosa».

Quanta vaghezza.

«Pensavo di aver faticato fino a 40 anni e poi di aver capito tutto, invece è sempre tutto più misterioso».

Anche l’aspetto professionale?

«Sì, lì è sempre tutto più impenetrabile. Mi sento un giocatore di calcio degli anni ‘80, uno che rispetto al mondo del lavoro di oggi ha un altro modo di giocare».

Quindi giochi meno?

«Mi sono un po’ sottratto ultimamente e non perché non ricevo proposte per la tv o il cinema. È che non ho più il mio campo da calcio dove esprimermi come mi piace. Quando ho fatto “Orchite Show” su Instagram durante la quarantena ho riscoperto il piacere di giocare con il mio lavoro».

Cosa è cambiato?

«Io sono della generazione degli imprenditori. Quando ho iniziato con Le Iene, Giorgio Gori ha avuto un approccio da imprenditore. Il programma andava male all’inizio, ci ha creduto, ha insistito. Ora c’è un approccio da manager, con una puntata che va male ti bruci. La tv ha bisogno di tempo. Io ora sono Fabio Volo, vendo milioni di libri, in tv devo fare per forza il 20 per cento. Se magari faccio il 5 perché sto sperimentando il giorno dopo non vedono l’ora di scrivere flop. Non c’è posto per la novità, per far crescere qualcosa in tv spesso ci vogliono anni e soldi, in questo momento storico non ci sono entrambi».

È normale avere aspettative alte nei confronti di Fabio Volo.

«Sì ma appena mostro il fianco, mi buttano giù, non vedono l’ora».

Mica avrai paura di fallire alla tua età, con la tua storia.

«No però in televisione mi sono scottato più di una volta».

Per esempio?

«Potrei citarti Untraditional. Gli addetti ai lavori, la gente, non lo capivano, dicevano: perché dovrei vedere un documentario sulla tua vita? Cercavo di spiegare che non era un documentario ma niente, non ci credevano, sembrava mi facessero un favore a farmelo fare. Poi ora lo sta facendo Verdone con Amazon, per dire».

Chi è che non ti capiva?

«Per dire, sono andato una volta in un programma tv che parla di tv».

Tv Talk?

«».

E?

«Questa è la parte dell’intervista in cui mi inguaio ma lo dico lo stesso».

Addirittura. E che sarà mai successo.

«Il presentatore, prima di iniziare, nei corridoi mi disse “Cavoli un po’ presuntuoso fare una serie su se stessi, un po’ egocentrico!”».

Parli di Bernardini.

«Sì. Gli risposi: “Ma è un genere, c’era “Casa Vianello”, però non è che poi la Mondaini davvero la sera nel letto agitava le gambe e diceva “Che barba che noia!”. Si tratta di mocumentary, realtà e fantasia mescolate, non la dire questa cosa in tv perché sei un critico televisivo, dovresti saperle queste cose. Non puoi sentirti figo solo perché vai a parlare male della D’Urso, devi conoscere cosa succede nel mondo!”».

E in onda poi come è andata?

«Ha ripetuto quella cosa lì e disse pure che io gli avevo detto di non dirlo, pensava che io mi vergognassi, che mi sentissi sgamato nel mio egocentrismo. Per quelli che lo guardano avrà pure fatto bella figura, per quelli come me no».

Cosa non ti piace di tutte le cose che fai?

«In ordine, la cosa che mi piace meno è la tv: troppi orpelli, troppi compromessi, troppe teste, troppe infrastrutture. L’ultimo programma che ho fatto su Rai 3 per dire: i primi tre giorni li consumavo risolvendo la burocrazia, e poi avevo due ore per la parte creativa. La radio accendi il microfono e parli. Il cinema è la seconda cosa che mi piace meno, è un lavoro statico, le scene da ripetere, le luci da sistemare, l’attesa. La radio e la scrittura invece sono sorelle».

Cosa non abbiamo capito di te fino ad oggi?

«Come personaggio sono spavaldo, arrogante, so tutto io. Ma è la timidezza che diventa spudoratezza. Nella vita privata sono l’opposto. Per dire, una cosa che mi fa sorridere è che c’ è la tendenza, anche sui social, a ridimensionarmi, mentre io sto facendo il lavoro opposto, quello di pensare finalmente di meritarmi quello che ho».

In che modo ti ridimensionano?

«Solite cose, mi scrivono: sei un panettiere che ha avuto fortuna».

È un messaggio recente?

«Di eri su Instagram».

Cos’altro ti dicono ancora?

«Ma tipo “Scrivi libri, ma non sei uno scrittore”».

E tu sei il primo a crederci.

«Nella vita privata il mio analista mi dice: è ora che ti prendi i tuoi meriti».

Pensi di doverti meritare ancora delle cose?

«Io per mia storia familiare ho sempre la sensazione di aver rubato qualcosa a qualcuno. O che… o che… quel qualcosa non me lo merito, non so. Vedi che mi incarto quando dico cose che mi toccano?»

Non ti incarti.

«Come se dietro i traguardi che ho raggiunto, ci fosse una specie di inganno, a quasi 50 anni questa sensazione me la porto ancora dietro, ecco».

Cioè tu pensi di aver fregato tutti?

«Di questo sono sicuro. Mi è chiaro. Scusa eh, eri figlio di, con 4 lauree e non sei riuscito a far niente. Arrivo io ignorante come pochi e mi prendo tutto, è chiaro che ho vinto».

Quindi cosa non è chiaro?

«Il rapporto con me stesso».

Basta darti del panettiere per toccare quella corda sensibile?

«Intanto io trovo che sia più dignitoso fare il panettiere che il deejay, se posso dire, almeno so fare una roba».

L’analista ti aiuta?

«Sono andato 5 o 6 volte poi c’è stato il lockdown. Ha lasciato l’operazione a cuore aperto. Per fortuna la scrittura è autoanalisi, io mi salvo perché scrivo. Tu non vai dall’analista?»

Sono andata una volta. Poi ho smesso perché sentivo che mi spingeva a dare la colpa di tutto ai miei genitori, agli altri e a deresponsabilizzarmi.

«Ecco io il contrario: do la colpa a me di tutto».

Ti capita di sentirti vecchio rispetto a tutto quello che vedi intorno a te? Penso ai social, alle generazioni che anche artisticamente nascono lì.

«Sì, il gioco è cambiato così tanto che faccio fatica».

Quando vedi TikTok, per dire, che pensi?

«Ecco, io già a stare su Instagram mi sforzo, non mi viene naturale. Ora se firmi un contratto ti chiedono quanti follower hai. È disarmante. Io mi sforzo perché so che è utile al mio lavoro e se decido di giocare gioco, ma non è il mio gioco fare foto a tutto quello che faccio, a quello che mangio, mi violento. Ci sono dei giorni che mi va, altri in cui dico: non faccio un post da tre giorni, cavolo, devo farlo».

Una specie di compito.

«Il punto è che il produttore e il prodotto lì sei te. Sei entrambe le cose. Invece io faccio film, libri, radio, su quello che faccio c’è un prezzo».

Tradotto?

«Oggi invece di comprare la Fiat la gente vuole sapere cosa fa Elkann, sono due cose diverse. Non vogliono più comprare macchine ma sapere che cazzo mangia a colazione Elkann».

Siamo vecchi.

«Certo. È anche giusto. Ma non è che essere giovani oggi sia più semplice».

In che senso?

«Io uscivo di casa, andavo ai giardinetti, c’erano i miei amici. All’altro angolo della piazza c’era un’altra compagnia e così via. Non c’erano i vecchi, i genitori. TikTok è come andare alla tua panchina e trovarci tua mamma. Non sai più dove andare per non vedere più ‘sti cinquantenni che si mettono a fare i balletti su TikTok. Le panchine erano roba nostra, pensa trovarci sopra tua mamma che fa le pose sexy e le devi dire, tu a 15 anni: ma’ ti metti una maglia per favore?»

Poi però ci sono anche i giovani che fanno i vecchi e arrivano a spiegarti la vita a 16 anni.

«Non sanno più in che panchina andare per trovare i coetanei, c’è da capirli».

Forse essere vecchi oggi è non saper gestire questo fatto che le generazioni si incontrino negli stessi luoghi.

«Le generazioni non si devono incontrare, si devono scontrare. La mamma non deve essere mai la migliore amica».

Prima hai detto che con i figli ti senti inadeguato. Perchè?

«Il problema è l’equilibrio tra la salvaguardia di ciò che sono io come persona e il ruolo di padre. Lavoro tutto il giorno, non vedo i figli, sono le sette di sera, me la meriterò una birra con gli amici per parlare di niente, no? Sì, vado. Poi però torno, mio figlio dorme, non l’ho visto tutto il giorno e penso di essere un egoista. Se resto a casa con lui penso: però non c’è mai posto per me. Insomma, so che devo conservare delle cose che sono solo mie, che mi danno la gioia di vivere, perché non sempre io riesco a estrarre la gioia di vivere stando con i miei figli, ho bisogno di andarla a prendere anche da altre parti».

Qual è lo strumento che ti sei imposto di dare ai tuoi figli, quello che non sai cosa ne faranno ma tu glielo dai comunque?

«Io dico sempre una cosa a loro e loro mi ripetono la risposta a memoria: “Qual è la cosa più importante? La gioia di vivere!”. Che non è nemmeno la felicità. Li voglio indipendenti, sono fortunato perché Johanna è islandese, ha la mentalità nordica».

Non hai paura che diventino qualcosa che non ti piace?

«Sì, ma la mia forbice delle aspettative è abbastanza larga. Se poi mi diventano juventini, lì le cose vanno in crisi».

Insomma sei preoccupato più per te che per loro.

«Sì, sto imparando a fare il padre facendo il padre».

Tu e Johanna vi scontrate mai nell’educazione?

«A volte si scontrano le due culture. Mi sento molto mamma italiana, lei è la mamma islandese. Se siamo a cena, lei si diverte. Io sono quello che chiama i nonni e chiede se va tutto bene, che va in vacanza in un posto e guarda quanto dista l’ospedale».

Chiudiamo con l’ultima polemica in ordine di tempo: quando hai detto che Ariana Grande va vestita in quel modo lì e ti preoccupa per le tue figlie.

«Spero non riparta il merdone, ma provo a spiegarmi. Io ritengo che se il pubblico a cui ti rivolgi è quello della pre-pubertà, gli ammiccamenti sessuali siano una cosa sbagliata. Secondo me eh. Pre-pubertà vuol dire che un bambino non capisce la malizia dell’adulto, non ha gli strumenti per interpretarla e per me una ragazzina di 9 anni che fa ammiccamenti erotici è qualcosa di sbagliato».

Se sentissimo le tue puntate radio di 20 anni fa chissà cosa ti direbbero oggi, con l’indignazione social sempre in agguato.

«Ammazza. Guarda, ti racconto questo: ero ancora a Radio Capital tipo 20 anni fa. Una volta ho fatto una battuta dopo due mesi che ero in onda. Esco dalla diretta, c’era ancora il fax, sai quello col rotolo che non si interrompeva mai come la carta igienica. Era tutto srotolato per gli insulti che mi erano arrivati».

La prima shitstorm via fax della storia.

«Uh. Faceva impressione».

Ma che avevi detto si può sapere?

«La sera prima ero andato a cena sui Navigli, c’era un amico gay che aveva fatto una di quelle battute che però possono fare solo i gay su loro stessi. Cioè, io posso parlar male dei bresciani perché sono bresciano, non posso parlar male di Napoli, ci sta. Beh, l’ho ripetuta in radio ma con innocenza. Non hai idea di cosa mi hanno scritto».

Me la dici questa battuta?

«Nel locale non c’erano abbastanza sedie. Il mio amico disse: per noi gay basta girarla e ci sono 4 posti. E io l’ho ripetuta senza pensarci».

Oggi saresti licenziato.

«Fortuna che non c’erano i social. Però te lo giuro: saranno stati almeno 7/8 metri di fax».

·        Fabri Fibra.

Chi è Fabri Fibra? La sua vita in 6 punti.  Claudio Biazzetti il 27.08.2020 su redbull.com. Da Uomini di Mare a quando tutti credevano fosse morto, riscopriamo la vita del rapper di Senigallia. L'estate 2020 è stata parecchio fruttuosa per Fabri Fibra: prima il featuring con Nerone nella granata da pista "Bataclan" e poi la collaborazione (storica, perché la prima) con J-Ax nel "Djomb Remix" del rapper francese Bosh. Insomma, a quasi 44 anni (di cui 26 da rapper) e 9 album in studio, il ragazzo non si sogna manco lontanamente di appendere il microfono al chiodo. Anzi, sappiamo per certo che sta passando questi mesi in segregazione nel suo studio di Milano a registrare il nuovo album, il decimo. Ma com'è nata una delle epopee più famose del rap italiano? Qual è stato il percorso di vita che l'ha portato fino a qui oggi? Ripercorriamo la vita di Fabri Fibra in 6 punti fondamentali. Non è facile selezionarne una manciata, essendo Maurizio Pisciottu il numero 1 dei punchliner italiani, però ci abbiamo provato.

Le origini e la scoperta del rap. Fabrizio Tarducci nasce a Senigallia (provincia di Ancona, Marche) il 17 ottobre 1976. Di norma, la famiglia rappresenta per tutti l'unica vera costante, l'unico appoggio che nel caso dei rapper non è mai un mistero, anche nelle canzoni. Ecco, per il piccolo Fabrizio è l'esatto opposto. «La famiglia è il nucleo più distruttivo che ci sia, basta vedere la storia di Sarah Scazzi» ha raccontato Fibra a Panorama nel 2010. «Vivere in famiglia non stimola a diventare migliori. I ragazzi rimangono a casa e poi si lamentano se hanno un lavoro che non amano». Guardando all'infanzia e all'adolescenza, il rapper vede in sé un ragazzo complessato e insicuro, tormentato dalla separazione dei genitori quando andava alle medie. Cioè in uno dei periodi più delicati nella vita di un individuo. «Il figlio maschio è sempre troppo protetto dalla madre, quasi tenuto in ostaggio con il ricatto. Ho capito che se mi fossi fatto coinvolgere da quel meccanismo sarei rimasto stritolato. E così sono andato il più lontano possibile da lei». Col fratello Nesli (Francesco) invece, più piccolo di lui di 4 anni, Fibra condivide la passione per l'hip hop e le sue 3 arti: graffiti, breakdance e rap. Faranno insieme i loro primi passi in quest'ultima, ma quando la popolarità del fratello maggiore sorpassa quella del minore, cominciano i primi screzi, che porteranno poi a un allontanamento quasi totale fra i due. Come avevamo già visto nell'articolo sui rapper prima di diventare famosi, le rime però non sono state la prima scelta di Fibra. Inizia con i graffiti e la breakdance, ma capisce subito che non sono la sua strada. Prova allora con la musica vera e propria, ma dalla parte del DJ. Anche qui, un mezzo disastro. Finché, un giorno, attorno ai 16 anni, Fabrizio assiste al suo primo concerto rap, quello del collettivo romano Assalti Frontali. «Ero andato a vederli nell’aula magna del liceo linguistico a Senigallia dove studiavano delle mie amiche» ha raccontato a Repubblica. «È stato il mio primo concerto rap: me lo ricordo benissimo perché cominciavi a vedere che c’erano dei tipi vestiti “larghi”, i primi B-Boy».

Uomini di Mare, Teste Mobili e i primi dischi. Dal momento della fondazione del suo primo progetto musicale, Uomini di Mare nel 1994, al primo demo registrato in studio, "Dei di mare quest'el gruv", passano due anni. Cosa che la dice lunga su come viene presa la faccenda dell'hip hop all'epoca, cioè quando Fibra ancora si firmava Fabri FIl. Prima la gavetta e i freestyle, solo dopo arriva il privilegio di incidere. Insieme al compaesano Nicola "Lato" Latini, beatmaker e DJ, mette in piedi il duo, che ben presto si trasforma anche in etichetta indipendente, la Teste Mobili Records. A questo punto, i nomi e i collettivi si sprecano e le tempolinee s'intrecciano fra di loro. Nel 1997, ai due si aggiunge anche Shezan il Ragio, una certezza nell'ambiente bolognese, e sotto il nome di Qustodi del tempo pubblicano un altro demo, "Rapimento dal Vulpla". Ma l'epopea Uomini di Mare continua con il primo e ultimo album, nel 1999: "Sindrome di fine millennio", capolavoro claustrofobico di allitterazioni, assonanze e un flow di Fibra secco e a denti stretti come non lo sarà mai più, men che meno dopo il successo. L'anno dopo vede la luce il collettivo Teste Mobili, cioè i Qustodi del Tempo insieme al fratello di Fibra, Nesli (Nesly Rice all'epoca), Chime Nadir e il DJ Rudy B. Seguirà poi un ultimo "Lato & Fabri Fibra EP" nel 2004 che chiuderà definitivamente il capitolo Uomini di Mare. Si deve aspettare il 2002 prima che Fibra adotti ufficialmente lo pseudonimo che conoscono tutti. "Turbe giovanili" è il primo album da solista, prodotto interamente da Neffa, che gli cede il suo tesoro di strumentali. Ha smesso infatti di rappare l'anno prima, tuffandosi nel soul e nell'RnB e riuscendoci anche bene (per capirci, "Io e la mia signorina" è del 2001). Rispetto a "Sindrome di fine millennio", Turbe è un disco molto più luminoso e aperto, con loop presi da pezzi funk/soul e un timbro di Fabri più incisivo, determinato a farsi apprezzare di più. Ma non è ancora abbastanza, e il successo non arriva come sperato.

La fuga in Inghilterra e Mr. Simpatia. La batosta di "Turbe Giovanili" spinge Fibra a uno stravolgimento radicale della sua vita. Nel 2003, a 27 anni, si trasferisce in Inghilterra, in quella che potremmo definire "la Riccione degli inglesi": Brighton. Qui lavora in una fabbrica di tende, ma sotto sotto conserva il sogno di poter sfondare nella musica, magari in una nazione che tiene un po' più in considerazione il rap. «Andai via dall’Italia, a Brighton, e lì mi è scattato qualcosa, ho calcato la mano sul fatto di essere andato giù di testa» ha detto a Repubblica. «Mi dicevo: perché gli Otr hanno fallito? Perché parlavano solo di rap. Perché i Sangue Misto hanno fallito? Perché non volevano fare i singoli. Perché i Colle der Fomento hanno fallito? Perché non volevano fare le interviste e andare in televisione. Ho fatto la lista dei motivi per cui le cose non avevano funzionato e ho anche capito che quello era un momento particolare perché era morto il vecchio e non stava nascendo il nuovo. E ha funzionato». Fabri si conosce, per questo ha imparato ad anticipare se stesso. «A volte vorrei trasferirmi, ma ovunque vada finisco per tornare nel mio piccolo posto in cui sono cresciuto dove siamo tutti dei coglioni qualunque». Il 1 settembre 2004 esce per l'indipendente Vibrarecords "Mr. Simpatia", il secondo album. Prodotto perlopiù dal fratello Nesli, dentro ci trovi tutto: dall'amaro in bocca dato da un rientro in Italia a testa bassa, alla nausea verso un ambiente rap (italiano) che ormai è perso nel nulla, ancorato ai vecchi valori puri ma incapace di evolversi e rinnovarsi, dalle parolacce al nichilismo e le allusioni alle droghe. È un disco crudo, esplicito, appuntito e sprezzante, un rullo compressore che nel suo cammino inesorabile non risparmia niente e nessuno, men che meno la società. A fare più scalpore è sicuramente "Non fare la puttana". A differenza di quanto si possa pensare, il titolo è una frase che Fibra si è sentito dire più volte al momento di fare i live, all'epoca concentrati unicamente nelle grandi città come Roma e Milano.

Tradimento, il successo e Bugiardo. La verità nuda e cruda di un'Italia a rotoli di "Mr. Simpatia" si rivela la carta vincente di Fibra, che dopo aver firmato un contratto con Universal pubblica il 6 giugno 2006 "Tradimento", il terzo album. Viene anticipato qualche mese prima dall'uscita del suo singolo più famoso, "Applausi per Fibra": un dipinto tragicomico, a tratti fantozziano, della sua vita fino a quel momento. «La data più bella della mia vita è il 6 giugno 2006, quando Paola (Zukar, la sua manager) mi ha telefonato per dirmi che il disco Tradimento era primo in classifica» ha raccontato a Panorama, facendo emergere dalla data 6/6/06 una numerologia quasi diabolica, a pensarci meglio. «Ero nel mio appartamento di Sesto San Giovanni, alla periferia di Milano, lo condividevo con due amici. Uscivo da un periodo difficile, avevo chiesto un prestito per l’affitto, la droga mi aveva depresso. I precedenti dischi non erano andati bene, avevo speso tutto per pubblicarli, la famiglia non credeva nella mia carriera musicale, nessuno aveva fiducia in me». Dopo la telefonata con Zukar, Fibra attacca il telefono, si stende sul letto e comincia a piangere. «Non riuscivo a fermarmi. Sfogavo la rabbia e la frustrazione che avevo accumulato fino a quel momento» .Il titolo del disco si riferisce senza mezzi termini al senso (ben presto dimenticato) di colpa per aver abbracciato il mainstream. Quel Tradimento ai danni del rap puro e senza macchia però si svela ben presto la migliore di tutte le idee. Segue un tour (Io odio Fabri Fibra) e una certificazione di platino al disco. Passa poco più di un anno prima che esca un nuovo album sulla scia del successo: "Bugiardo", in cui un Fibra sempre più sicuro di sé si toglie parecchi sassolini accumulati nelle scarpe in vari decenni. A emergere è soprattutto il singolo di punta insieme a Gianna Nannini, rework del brano contenuto nell'album, che esce ad aprile 2008 diventando il tormentone dell'estate.

Chi vuole essere Fabri Fibra?, Controcultura, le polemiche, Guerra e Pace. Da qui in poi la storia di Fibra e dei suoi dischi è nota un po' a tutti. Che sia "Chi Vuole Essere Fabri Fibra?", disco uscito nel 2009 e ricordato come uno dei meno "capiti" fra quelli major, o che sia il successivo "Controcultura" del 2010, uscito in un periodo post-crisi in cui in Italia cominciavano a formarsi sedicenti movimenti anti-sistemici (Fibra suona anche a un Woodstock 5 stelle il 26 settembre 2010), il fil rouge che collega tutti gli album è la parte da lingua scomoda che recita Fibra. Recita si fa per dire, perché è solo l'essere disilluso e il nichilismo tagliente di Fabrizio Tarducci che l'hanno portato dov'è oggi. Chiaramente si spingerà un po' troppo oltre, come quando scatenerà polemiche e accuse di omofobia nei confronti di Marco Mengoni o Valerio Scanu. Ma il contributo alla musica, quello è indubbio. «Oggi la musica italiana è in crisi e io piuttosto che portare un contributo, preferisco essere un danno, non mi sento una persona che si è integrata nel sistema, io mi sento un disadattato» racconta nel 2004 a HotMc. E poi, al netto di tutto, ci sono singoli che sbancano ogni tipo di classifica, da Tranne Te a Vip in trip, L'italiano balla, quest'ultima in collaborazione con i Crookers e vero inno di Guerra e Pace del 2013.

Squallor, Fenomeno e il presente. Parallelamente alle varie collaborazioni, dal più classico Gué Pequeno o Nitro al più inusuale Luca Carboni, Fibra si impelaga con Vacca in un dissing botta e risposta di vari brani che pare eterno, poi terminato quando quest'ultimo esagera offendendo l'intera cittadinanza di Senigallia nel brano "Ritarducci". Superato l'empasse, il rapper si butta a capofitto in un nuovo album, Squallor, anticipato dal singolo Come Vasco. Non avendo più tanto da dimostrare e potendosi godere senza troppe ansie la vita da major artist ormai affermato anche nel pop, Fibra si prende per la prima volta dopo tantissimo tempo una pausa di tre anni per costruire il nono e attualmente ultimo album, Fenomeno del 2017. Dal punto di vista discografico, il successo dei singoli Pamplona (coi Thegiornalisti) e Stavo Pensando a te costituisce una riaffermazione sulla scena rap e trap, che in pochissimi anni è mutata radicalmente e con tempi da record. Al giorno d'oggi, collaborare con un nome come quello di Fibra per chiunque faccia musica pop, rap, trap in Italia è una consacrazione da tutti i punti di vista, una specie di benedizione, che finora è toccata a Carl Brave, Francesca Michielin, Mahmood e solo ultimamente, come abbiamo visto, Nerone e J-Ax. Le ultime notizie che ci giungono parlano di un Fibra al lavoro sul decimo album, un numero importante, che il ragazzo saprà onorare come si deve. Magari con una bella polemica e una sfilza di querele. Non sarebbe Fabri Fibra altrimenti.

·        Fabrizio Corona.

Corona torna in tv da "guerriero stanco". Corona non nasconde il suo essere provato per i tanti anni di reclusione, ma l'amore di suo figlio lo tiene vivo. Roberta Damiata, Lunedì 14/09/2020 su Il Giornale.  Prima intervista per Fabrizio Corona dopo un anno e mezzo di silenzio. Ieri sera in collegamento a Live non è la D’Urso appare sottotono in confronto ad un parterre agguerritissimo pronto a “testare” il suo cambiamento. Tutti personaggi, da Antonella Boralevi ad Alda D'Eusanio fino a Barbara D’Urso compresa, che con lui hanno avuto scontri molto accesi. Fabrizio ascolta le parole della Boralevi, la prima a prendere la parola e che chiede all'ex re dei paparazzi di dire “la cocaina fa schifo”. Fabrizio, con le mani incrociate, si limita a dire che dopo tutto quello che ha passato non ripeterà mai le frasi che qualcuno gli dice di dire. "E' importante, quando si è in una trasmissione di prima serata, informarsi bene per evitare di dire cose inesatte", Corona riferendosi all’affermazione fatta dalla scrittrice sul suo aver trascorso poco tempo in carcere rispetto agli anni che doveva. Ringrazia poi la magistratura milanese che gli ha permesso di curarsi dandogli la possibilità dei domiciliari e tutti i detenuti oltre a mandare un messaggio a sua madre dicendole: “Ti voglio bene”. La prima a rendersi conto del cambiamento di Fabrizio è Alda D'Eusanio. “Penso che l’inferno in cui è stato gli abbia questa volta insegnato qualcosa perchè ha sottratto molti anni a se stesso, ma soprattutto a suo figlio. Io voglio fare una domanda al Fabrizio di oggi perché tu sei diventato personaggio non per i tuo talenti come quello di essere un grande imprenditore, se tu potessi ritornare indietro rifaresti quello che hai fatto?" “Ho finito di scrivere un libro molto bello che si chiama ‘come ho inventato l’Italia’, Io non credo di essere diventato personaggio, sono nato personaggio. Non sarò più quello di prima perché sono stanco, non ce la faccio più. Anche se sono abbronzato, fisicamente sto bene, vivo in una casa molto bella, ho l'amore di mio figlio, sono stanco, non ho la libertà: voglio tornare alla vita”, è la sua amara risposta. Ma si illumina quando parla di Carlos Maria, suo figlio, che ora dopo aver compiuto 18 anni è andato a vivere con lui: “Carlos è maggiorenne e ha deciso di vivere con il padre, Nina ci manca molto, la nostra porta è sempre aperta, non entro in polemiche perché al momento non è capace di dare giudizi seri. Nina non sta bene ha passato cose bruttissime, le vogliamo bene”. Ma il guerriero c’è sempre e viene fuori quando si parla di Asia Argento “con me ha visto le stelle” racconta o quando fa le "avances" a Barbara D’Urso, con cui ha da poco fatto pace: "Barbara volevo dire che sei splendida, è sapere che hai 65 anni è incredibile. Quando ti ho visto ero meravigliato. Io sono single Barbara se vuoi sono disponibile”. La D'Urso precisa, ridendo: “Grazie ma di anni ne ho 63”, poi prosegue: "Sono single anche io ma diciamo che per me sei troppo impegnativo”. 

·        Fasma.

Fasma: "A Sanremo non volevo vincere, sono stato felice di far vedere chi sono". Il ventiquattrenne rapper, arrivato in finale nella sezione Nuove Proposte, presenta l'album "Io sono Fasma" che esce venerdì. Mentre il singolo è già nella top ten. Ernesto Assante il 25 febbraio 2020 su La Repubblica. Ventiquattro anni, una grande passione per la musica e una visione dell’universo sonoro che non paga tributi a niente di quello che è stato nel passato. Tiberio Fazioli, ovvero Fasma, non è un rapper qualunque e la musica che propone non è facilmente liquidabile con l’hype che circonda molti dei “novissimi” della musica italiana di oggi. No, Fasma punta più in alto, guarda oltre e dal 2016, quando ha iniziato assieme a GG, il suo produttore, a percorrere in maniera costante le strade della musica, ha iniziato a fare di testa sua, seguendo i sentimenti e le ragioni del suo giovane cuore. Chi lo presenta dice che “la musica è il pennello senza regole di Fasma, il microfono è la fotocamera con la quale cerca di rievocare momenti passati e significativi della propria vita, empatia in note, scatti di emozioni”. E una volta tanto il comunicato stampa non ha torto perché se c’è una cosa che tutti hanno notato nelle settimane precedenti e poi nei giorni del Festival di Sanremo, è che Fasma non è come tutti gli altri, che l’emozione (la sua, visibilissima, in scena, ma anche quella che riesce a creare in chi ascolta), il sentimento, la passione sono le sue doti migliori, le sue carte vincenti. Non c’è mestiere, non c’è finzione, non c’è altro che Fasma, le sue parole, i beat che la sostengono, l'autotune usato come uno strumento espressivo e le note, sparse come gocce, sulla tela delle sue canzoni. Per sentirmi vivo è il brano che lo ha imposto all’attenzione del grandissimo pubblico televisivo, ma Fasma, dal 2016 appunto, era già noto a chi frequenta la nuova scena italiana, e una certa forma di successo “indie”, fatto di milioni di visualizzazioni su YouTube, di stream nei servizi digitali musicali, lo aveva già avuto. E ora, con il nuovo album che ha un titolo perentoriamente chiaro, Io sono Fasma, che esce il 28 febbraio, inizia una nuova fase del suo percorso nell’arte e nella musica. Il primo “test” con il mondo più ampio del mainstream pop lo ha superato con facilità: “Sono felicissimo, c’è poco da dire”, sostiene, “andare a Sanremo è stata un’esperienza bellissima”.

C’è mancato poco che arrivasse primo, la vera finale è stato il "duello" tra lei e Leo Gassman…

"Ma no, è andata benissimo così, io alla fine non volevo neanche essere il primo. Siamo arrivati a Sanremo per presentare quello che eravamo, non eravamo in gara con gli altri e nemmeno gli altri con noi, la competizione io non l’ho mai sentita. Canto un pezzo, sono lì, vedo quelli che mi danno calore e capiscono quello che ho in testa: è quella la vera vittoria".

Ed è stato anche un modo di far vedere al grande pubblico la realtà della nuova musica italiana.

"Anche questa è stata una cosa bellissima. Nel 2020 vediamo i frutti del passato, e il passato è finito, non c’è cosa migliore. L’Italia si sta evolvendo, cresce, cambia e questa cosa finalmente si vede. La musica è uno specchio della cultura delle nazioni, la nuova musica italiana rappresenta molto l’Italia di oggi".

L'Italia dei più giovani…

"Si, un’Italia giovane. Sono in tanti a pensare che i giovani non hanno niente da dire, o se ce l’hanno non hanno voglia di parlare, o ne hanno addirittura paura. Invece non è così, i giovani non si fermano e continuano a dire la loro. Con la mia musica voglio rappresentare come io vivo la vita, questo è il mio messaggio".

Com’è nato il pezzo che ha portato a Sanremo?

"È un pezzo nato in maniera naturale, come tutte le altre cose che facciamo con GG. Non abbiamo mai fatto pezzi pensando di fare un “bel pezzo”, o con altri scopi che non fossero quelli di esprimerci come volevamo. Il percorso di Sanremo è nato dopo, ci convinceva l’idea di poter portare Per sentirmi vivo a un pubblico più grande e l’abbiamo fatto. La strada per Sanremo è stata sempre una scoperta, un gioco, perciò è stato bello percorrerla. Anche perché abbiamo messo la musica davanti a tutto e io ho messo me stesso in gioco per quello che sono davvero. Anche quando ero con altri cantanti, che erano a un livello diverso dal mio, non mi sono mai fatto problemi, io questa consapevolezza dell’essere cantante non ce l’ho mai avuta. Siamo andati a Sanremo con quello che avevamo, è stato bello arrivare lì essendo se stessi".

Non ha mai pensato che il Festival, la televisione, il successo, potevano farle correre il rischio di cambiare in peggio?

"No, mai. Io penso che le persone che si fanno cambiare dalla fama o dal successo hanno lo stesso valore delle cose per cui cambiano. La mia persona non vale il successo quindi non credo che cambierò, lo vivrò a modo mio. Quello che conta è avere la possibilità di dire la mia e di farlo, e continuerò così. Se sono arrivato fin qua è perché sono quello che sono, non quello che gli altri si aspettano che io sia".

E da domani?

"Voglio uscire con il concerto e spaccare tutto, portare l’album in tutta Italia e magari anche fuori. Voglio proprio vedere come va".

·        Fausto Leali.

Da liberoquotidiano.it il 16 settembre 2020. Fausto Leali rischia la squalifica a tempo record. Il Grande Fratello Vip è iniziato con un discorso su Benito Mussolini che potrebbe costargli l’uscita dalla casa più spiata d’Italia già nelle prossime ore. Il cantautore 75enne si è infatti lanciato in alcune frasi piuttosto scivolose sul Duce: “Se fai nove cose giuste e una sbagliata, la gente ti ricorderà solo per quella sbagliata. Prendiamo ad esempio Mussolini, ha fatto delle cose per l’umanità, ma poi è andato con Hitler. Il quale nella storia era un fan di Mussolini”. Qui arriva il taglio della regia, che però ha censurato quando ormai il danno era fatto: addirittura in diretta si sono sentite anche le voci di un paio di concorrenti che davano ragione a Leali. Un episodio abbastanza sconcertante, ma non è il solo che ha caratterizzato le prime 24 ore di un GF Vip fuori controllo: prima la De Blanck è stata mostrata completamente nuda mentre si cambiava, poi la Vento ha lasciato la casa perché le mancavano i cani.

Da liberoquotidiano.it il 17 settembre 2020. Hanno fatto scalpore le parole di Fausto Leali su Benito Mussolini e Adolf Hitler al Grande Fratello Vip, il programma condotto da Alfonso Signorini su Canale 5. Ma in difesa del cantante ecco che si schiera Iva Zanicchi, ospite di Barbara D'Urso a Pomeriggio 5, sempre sulla rete ammiraglia Mediaset. "Si è espresso male. E poi quello che ha detto lui lo senti dire spesso e volentieri anche da tanta gente", ha minimizzato la Zanicchi. Per inciso, Leali aveva detto in buona sostanza che Hitler era un fan del Duce e che Mussolini inventò le pensioni e "fece tante cose buone". Contro Leali, però, si è schierata Vladimir Luxuria, ospite in collegamento: "Vero che la stazione di Milano è in stile fascista, ma da quella stazione partivano i treni che portavano gli ebrei dal campo di concentramento. Fausto Leali ha detto dei falsi storici che vanno chiariti. E mi preoccupano anche i concorrenti che hanno annuito", ha commentato. E di fatto anche la D'Urso ha preso le distanze da Leali: "Come ti viene in mente di parlare di Hitler e Mussolini dopo 24 ore?", ha tagliato corto la conduttrice.

Fausto Leali elogia Mussolini al Gf. L'Anpi: "Conoscere la storia può evitare figuracce". Dopo le esternazioni di Fausto Leali su Benito Mussolini al Grande Fratello Vip, che hanno indignato pare dell'opinione pubblica, è intervenuta l'Anpi. Francesca Galici, Giovedì 17/09/2020 su Il Giornale. Le dichiarazioni di Fausto Leali al Grande Fratello Vip sono quasi diventato un caso politico, dopo essere diventate uno dei principali argomenti di discussione mediatici nel corso delle scorse ore. A meno di 24 ore dal suo ingresso, infatti, il cantante si è lanciato in un paragone azzardato visto il contesto, disquisendo su quanto di giusto avrebbe fatto secondo lui Benito Mussolini per l'Italia durante la sua dittatura. Le parole di Fausto Leali sono rimbalzate velocemente dai social a tutti i media, con dibattiti anche in tv e sui quotidiani nazionali e anche l'Anpi in queste ore ha voluto esprimere il suo parere. Il discorso di Fausto Leali è avvenuto in un momento di grande relax nella Casa, durante il quale i concorrenti dialogavano sulla percezione del preconcetto e del giudizio verso il prossimo. "Se fai nove cose giuste e una sbagliata, la gente ti ricorderà solo per quella sbagliata. Prendiamo ad esempio Mussolini, ha fatto delle cose strepitose", ha detto il cantante a Enock Barwuah, Pierpaolo Pretelli, Massimiliano Morra e Patrizia De Blanck, che si trovavano con lui in giardino. Quali "cose strepitose" avrebbe fatto Benito Mussolini lo spiega lo stesso Leali: "Ha fatto delle cose per l’umanità, per le pensioni, le cose… Poi è andato con Hitler. Hitler nella storia era un fan di Mussolini". Fausto Leali ha eccessivamente semplificato un discorso troppo complesso da trattare con quella leggerezza in un contesto televisivo come quello del Grande Fratello. Le sue parole sono state immediatamente estrapolate e fatte oggetti di attacchi, spesso strumentali e poco argomentati, da parte degli utenti della rete. È bastato che Fausto Leali nominasse il duce per sconvolgere l'opinione pubblica e quello che, fino a quel momento, è apparso agli occhi di tutti come un uomo maturo placido e tranquillo, agli occhi di alcuni si è subito trasformato in una sorta di attivista dell'estrema destra. Non è mancato anche un commento dell'Associazione Nazionale Partigiani Italiani, l'Anpi, che raggiunta dall'Adnkronos non ha comunque speso molte parole per il cantante del Grande Fratello: "Non abbiamo nulla da dire, se non che conoscere la storia può evitare brutte figure". Domani andrà in onda la seconda puntata del Grande Fratello Vip 5 condotta da Alfonso Signorini e non è escluso che il giornalista e presentatore non affronti la tematica. Proprio Signorini, nel corso della prima puntata e a pochi minuti dall'inizio era stato paragonato al duce da Pupo, opinionista del programma.

Pomeriggio 5, impensabile Iva Zanicchi: "Hitler e Mussolini? Lo dicono in molti", la difesa di Fausto Leali. Libero Quotidiano il 17 settembre 2020. Hanno fatto scalpore le parole di Fausto Leali su Benito Mussolini e Adolf Hitler al Grande Fratello Vip, il programma condotto da Alfonso Signorini su Canale 5. Ma in difesa del cantante ecco che si schiera Iva Zanicchi, ospite di Barbara D'Urso a Pomeriggio 5, sempre sulla rete ammiraglia Mediaset. "Si è espresso male. E poi quello che ha detto lui lo senti dire spesso e volentieri anche da tanta gente", a minimizzato la Zanicchi. Per inciso, Leali aveva detto in buona sostanza che Hitler era un fan del Duce e che Mussolini inventò le pensioni e "fece tante cose buone". Contro Leali, però, si è schierata Vladimir Luxuria, ospite in collegamento: "Vero che la stazione di Milano è in stile fascista, ma da quella stazione partivano i treni che portavano gli ebrei dal campo di concentramento. Fausto Leali ha detto dei falsi storici che vanno chiariti. E mi preoccupano anche i concorrenti che hanno annuito", ha commentato. E di fatto anche la D'Urso ha preso le distanze da Leali: "Come ti viene in mente di parlare di Hitler e Mussolini dopo 24 ore?", ha tagliato corto la conduttrice.

Fausto Leali al Gf Vip: «Mussolini ha fatto cose buone per l’umanità». Rischia l’espulsione. Gabriele Alberti mercoledì 16 settembre 2020 su Il Secolo d'Italia. Fausto Leali a rischio espulsione.  Assurdo e ridicolo. L’amatissimo cantante che si è integrato benissimo con gli altri concorrenti del Grande Fratello Vip 2020 è un passo dall’essere buttato fuori dalla casa.  Il motivo è stato un ragionamento pienamente legittimo  pronunciato dall’artista nella casa del  reality condotto da Signorini  su Benito Mussolini e Adolf Hitler. Il programma sta raggiungendo vertici di conformismo degni di un “Di martedì” od “Otto e mezzo” della Gruber. Non è sfuggita una frase pronunciata da Fausto Leali. Il discorso è caduto su Benito  Mussolini e afferma: “Ha fatto delle cose per l’umanità, le pensioni. È andato poi con Hitler. Nella storia, Hitler era un fan di Mussolini”. In sottofondo si sono udite anche  voci di gieffini non inquadrati che commentavano: “È vero”. Questo era il succo del discorso: “Se fai nove cose giuste e una sbagliata, la gente ti ricorderà solo per quella sbagliata, prendiamo in esempio Mussolini…”. Ecco, per il solo fatto di avere pronunciato il nome del capo del fascismo la produzione è andata in tilt. Senza seguire il filo del discorso, visto che Fausto Leali non è certo un nostalgico, né è andato al Gf vip per fare propaganda politica. Rischiare la squalifica per questa frase è semplicemente ridicolo. “Se fai nove cose giuste e una sbagliata, la gente ti ricorderà solo per quella sbagliata. Prendiamo ad esempio Mussolini, ha fatto delle cose per l’umanità, ma poi è andato con Hitler. Il quale nella storia era un fan di Mussolini”. E’ vero che il capo del nazismo ammirasse il Duce, non sembra una grande verità scandalosa. Eppure a quel punto la regia ha cercato di mettere una pezza, tagliando anche il vociare di qualcuno che diceva : E’ vero”. Mandando la pubblicità. Che si arrivi a censurare un concorrente per un’opinione tutto sommato più volte ascoltata -tra l’altro condivisa da alcuni presenti- quando il programma ha già raggiunto vette di tresh indecoroso, è il colmo.

Da "liberoquotidiano.it" il 20 settembre 2020. Ora, per Fausto Leali, l'espulsione dalla casa del Grande Fratello Vip (il reality condotto da Alfonso Signorini su Canale 5) è davvero vicina. Dopo le polemiche a tempo record per le controverse frasi su Benito Mussolini ed Adolf Hitler, ecco il "bis" del cantante sulla parola "negro". Parlando con gli altri inquilini, infatti, ha usato in modo disinvolto la parola "negro", stigmatizzata però dagli altri concorrenti del Gf Vip. A quel punto, stizzito, Leali ha replicato: "Ma dai smettila... nero è il colore, negro è la razza". A quel punto è intervenuto Enock Barwuah, fratello minore di Mario Balotelli, che ha puntualizzato: "Però da casa ci guardano. Non deve passare 'sta cosa del negro, sennò diventa una cosa comune". A quel punto Leali fa una mezza retromarcia: "Assolutamente, gli uomini di colore sono i bianchi". Dunque rincara: "Allora cosa devo fare con la canzone Angeli negri, la cancello?", chiede. Così si inserisce Patrizia De Blanck: "Neri devi dire. Ora ti fanno la stessa cosa di Mussolini, mo so cazzi", ha chiosato come sempre in modo piuttosto genuino. Ma Fausto Leali non arretra: "La canzone è nata anni fa, che colpa ne ho io?". E ancora, il fratello di Balotelli: "Ho capito cosa vuoi dire, ma e una parola che non deve essere detta, sennò la gente pensa che è normale, ma è non è normale perché se a me la dicono per strada mi dice quella cosa lì...", lascia in sospeso la frase. Ma sui social sta già montando la polemica, feroce, contro Fausto Leali: in molti chiedono a gran voce la sua espulsione.

"Nero è il colore, negro è la razza". Fausto Leali ancora nella bufera. Ancora un discorso scivoloso per Fausto Leali, di nuovo al centro della polemica per le sue esternazioni all'interno della Casa: stavolta per lui l'accusa è di razzismo. Francesca Galici, Domenica 20/09/2020 su Il Giornale. È ancora polemica su Fausto Leali dopo le sue esternazioni sul fascismo e su Benito Mussolini. In serata, infatti, il cantante si è addentrato in un altro discorso sdrucciolevole che rischia di riportarlo al centro dell'attenzione mediatica. I social si sono già scagliati contro di lui, stavolta colpevole di aver utilizzato la cosiddetta n-word all'interno della casa del Grande Fratello. Il cantante si trovava in Casa a discutere con i suoi compagni di avventura, una situazione comune durante il reality. Nel gruppetto riunito nel grande soggiorno della Casa, oltre a Fausto Leali, c'erano anche Dennis Dosio, Patrizia de Blanck, Tommaso Zorzi, Adua Del Vesco ed Enock Barwuah. Proprio il fratello di Mario Balotelli è stato al centro della discussione, perché il fulcro del discorso è stato per diversi minuti il concetto di razza. Un argomento scivoloso che ha portato Fausto Leali a pronunciare la frase che è stata poi ripresa sui social con l'intento di attaccarlo: "Nero è il colore, negro è la razza". Poche parole, che sono bastate a scatenare un nuovo focolaio di accuse contro il cantante. I concorrenti all'interno della Casa si sono immediatamente resi conto di quanto detto da Fausto Leali, tanto che Tommaso Zorzi si è subito messo le mani nei capelli. L'influencer conosce molto bene le dinamiche dei social e ha capito che quella frase, detta in quel modo, avrebbe potuto far nascere un vespaio di polemiche, cosa che è puntualmente accaduta. Enock Barwuah ha ribattuto all'istante, invitando Fausto Leali a evitare l'utilizzo di certi termini all'interno della Casa per non lanciare messaggi fuorvianti ai giovanissimi in ascolto. Dal suo punto di vista, invece, Fausto Leali ha provato a difendere la sua scelta di utilizzare certi termini, spiegando alle giovani leve delle Casa, poco più che ventenni, che per tanti anni, e fino a poco tempo fa, in Italia quello era un termine come un altro, utilizzato tranquillamente nel dialogo quotidiano. A tal proposito, il cantante ha portato come esempio uno dei suoi successi del passato, Angeli negri, prodotto nel 1999. "Che nessuno mi venga a dire che sbaglio a incazzarmi, se le cose non le senti sulla tua pelle non lo puoi sapere. Io e la mia famiglia ci combattiamo su ‘ste cose qua, da sempre. Fuori avrei reagito malissimo, ho paura di come potrei reagire qua", ha sbottato Enock Barwuah, secondo il quale Fausto Leali è stato razzista, motivo per cui è probabile che domani sarà la sua nomination.

"Nero è il colore, negro è la razza", Fausto Leali squalificato dal Gf Vip. Fausto Leali espulso dal Grande Fratello per utilizzato la parola "negro" all'interno della Casa, riferito a Enock Barwuah in un contesto discorsivo. Francesca Galici, Lunedì 21/09/2020 su Il Giornale. La terza puntata del Grande Fratello Vip, la seconda del lunedì, deve affrontare lo spinoso caso di Fausto Leali. Il cantautore si sta mostrando senza filtri all'interno della Casa e il suo comportamento, però, sta causando alcuni malumori sui social a causa di alcune sue esternazioni.

Gogna mediatica per Leali. Già venerdì scorso, infatti, il cantante è stato ripreso da Alfonso Signorini per alcune frasi relative a Benito Mussolini e al fascismo. In queste ore, però, il cantante si è addentrato in un altro discorso spinoso e ha apostrofato con la n-word il fratello di Mario Balotelli, Enock Barwuah, scatenando feroci polemiche all'esterno della Casa. Se per il richiamo al fascismo, Fausto Leali è stato solamente ammonito, stavolta la produzione ha deciso di squalificare il concorrente. Essendo il Grande Fratello un programma popolare, con un pubblico spesso molto giovane, quindi sensibile, gli autori avrebbero deciso di allontanare dalla Casa il cantante, sia come gesto dimostrativo, sia per evitare in futuro ulteriori episodi di questo tipo. In una sola settimana, Fausto Leali ha toccato due temi sui quali gli italiani di oggi sono particolarmente suscettibili. Dure le parole di Alfonso Signorini contro il cantante. Il conduttore ha stigmatizzato il comportamento del concorrente e motivato la sua esclusione, senza però classificare Leali come fascista o razzista, come qualcuno sui social ha azzardato, ma etichettando le sue parole come "leggere". "Nero è il colore, negro è la razza", ha detto Fausto Leali sabato sera, giustificando così il suo apostrofare Enock come "negro". Il cantante ha provato a spiegare il suo punto di vista, ragionando sul significato che quella parola, da sempre, ha nella lingua italiana e ricordando che lui stesso, diversi anni fa, ha composto una canzone dal titolo Angelo negro. Primi minuti di puntata dedicati a un monologo di Signorini sull'etimologia della parola "negro", prima di entrare nella Casa per un recap e per parlare direttamente con Fausto Leali. "Non si può più utilizzare questa parola nel mondo", dice il conduttore al cantante. "Non possiamo permettere che un programma questo, certe parole, questa parola in particolare, possa essere usata con leggerezza", insiste Alfonso Signorini. Ovviamente, Fausto Leali si difende e spiega le sue ragioni: "Io con il razzismo non c'entro niente. C'era una bella amicizia con Enock, mi spiace si sia interrotta. Sono d'accordo con te che è stata una battuta del cavolo". Anche Enock dice la sua: "Dicendolo fai passare fuori che è normale dirlo, ma non è normale". Patrizia de Blanck ha stigmatizzato la parola detta da Leali ma ha spiegato che, secondo lei, sia necessario educare col tempo le persone più mature, che nella loro generazione sono state abituate a parlare in un certo modo, in un tempo in cui certe parole erano di utilizzo quotidiano. "Io ho memoria, di Ruggero Orlando che usava il termine negro. Ha perfettamente ragione Enock quando dice che oggi non è ieri ma da parte di Fausto c'è un piccolo ritardo culturale", ha dichiarato Fulvio Abbate. "Il pubblico ti conosce bene sia come grandissimo artista, che come grande uomo. Al di là delle tue reali intenzioni, però, il peso delle parole che hai pronunciato deve avere una sola conseguenza: Fausto sei ufficialmente squalificato dal Grande Fratello", ha comunicato Alfonso Signorini. Vibranti le proteste da parte di alcuni concorrenti della Casa, soprattutto Maria Teresa Ruta e la contessa Patrizia de Blanck, che ne ha chiesto il perdono e il reintegro.

Chiara Maffioletti per il "Corriere della Sera" il 22 settembre 2020. Fausto Leali è stato eliminato dal Grande Fratello Vip . Unico epilogo possibile dopo una sola, disastrosa settimana in cui il cantante - con lo stesso candore di chi proprio non afferra la gravità di quello che dice - si è prima inerpicato in una rivalutazione in diretta tv dell'operato del Duce (che, a suo dire, avrebbe fatto «cose per l'umanità», tra cui «le pensioni»), poi, a distanza di qualche ora, nella traballante spiegazione del perché il suo aver dato del «negro» a Enock Barwuah, fratello di Mario Balotelli, non sarebbe un'offesa: «Nero è un colore, negro una razza». A nulla è valso il gelo con cui gli altri concorrenti hanno accolto le sue motivazioni (tra cui la perdibile «gli uomini di colore siamo noi bianchi perché cambiamo colore continuamente») e nemmeno la più esplicita obiezione del calciatore, 27 anni, che ha ricordato a Leali, 75, di non «usare quella parola. Non devi. Se dici una cosa del genere vuol dire che sei abituato a dirlo: noi ci battiamo per i diritti e questo non lo tollero. Siamo in tv, ci guardano, certi messaggi non possono passare perché nessuno da casa deve sentirsi giustificato a utilizzare certi termini». Ma pur tra un «certo, certo» e l'altro, Leali non si è nemmeno avvicinato a un mea culpa, aggiungendo anche: «Allora cosa devo fare con la mia canzone Angeli negri la cancello? Che colpa ne ho io?». Quella canzone era del 1968 e da allora, per fortuna, qualcosina è cambiato. La legge sul Divorzio, per dire, sarebbe arrivata solo due anni dopo. Eppure già allora avrebbe dovuto essere abbastanza chiaro quello che dopo le frasi di Leali in tanti hanno iniziato a ribadire, indignati, sui social, e cioè che esiste una sola razza, quella umana. E dire che tutto è nato da un momento leggero, di divertimento. Il che rende i contorni della vicenda se possibile più inquietanti: non solo il cantante non voleva offendere nessuno, ma era certo di non farlo quando, per sostenere Barwuah che invocava un applauso per aver lavato i piatti, ha cercato di incitare gli altri urlando: «Perché è negro non lo applaudiamo?!». E giù a ridere. Leali, seriamente, pensava di essere spiritoso. Come ancora lo pensano in troppi, magari figli di epoche in cui cantare di «un povero negro» che prega per avere un angelo del suo colore era normale, accettato. Ma siamo nel 2020 e, come ha ricordato il calciatore, «nessuno deve sentirsi giustificato a utilizzare certi termini». Meno che mai in un reality show.

Grande Fratello Vip, il "negro" di Fausto Leali: "Massacrato dal politicamente corretto, tanto rumore per nulla". Daniela Mastromattei su Libero Quotidiano il 20 settembre 2020. Ci risiamo. Fausto Leali di nuovo nel tritacarne. Dopo le frasi su Benito Mussolini, ora viene ripreso dal mondo web per aver usato il termine "negro", durante una conversazione con gli altri concorrenti del Grande Fratello Vip. E c'è già chi fuori dalla Casa ne chiede l'espulsione. Insomma il cantante rivolgendosi a Enock Barwuah, lo ha chiamato “nero”. I ragazzi gli hanno fatto notare prontamente che non ci si rivolge così ma lui ha insistito: “Ma dai smettila nero è il colore, negro è la razza“. Il discorso è proseguito e Enock ha cercato di spiegare il suo punto di vista: “Però da casa ci guardano non deve passare sta cosa del negro, sennò diventa una cosa comune”. E Leali: “Assolutamente gli uomini di colore sono i bianchi – ha ironizzato - . Allora cosa devo fare con la canzone ‘Angeli negri’, la cancello?”. Il siparietto si è chiuso con l'intervento della scoppiettante contessa De Blanck: “Neri devi dire. Ora ti fanno la stessa cosa di Mussolini mo so cazzi tuoi“. Tanto rumore per nulla. Facciamo un po' di chiarezza: il termine negro indica una persona generalmente appartenente a una delle etnie originarie dell'Africa subsahariana e caratterizzate dalla pigmentazione scura della pelle. In senso più ampio, può applicarsi ad altri gruppi etnici con caratteristiche somatiche analoghe, come ad esempio i negritos delle Filippine o gli australiani aborigeni (da Wikipedia). Cito pure l'Accademia della Crusca: «Sull’uso di negro, nero e di colore per descrivere e caratterizzare una persona, o un gruppo di persone, in base al colore della sua (o della loro) pelle si è discusso non poco, negli ultimi decenni. E tuttora si continua a discutere, a voler scorrere, in Internet, i forum dedicati al tema. Non è un caso. Perché non vi è dubbio che l’argomento e le connesse scelte linguistiche presentino alcune incertezze e insidie sia sul piano squisitamente lessicale, sia su quello dell’accettabilità o dell’interdizione sociale. Molti lo ignorano, fino agli anni Settanta, negro, nero e di colore venivano usati quasi come sinonimi e con connotazioni di significato molto simili. Subito dopo,  in seguito alle lotte dei «neri» americani, alcuni traduttori hanno cominciato a bandire l’uso di negro in favore di nero, che pareva rendere più fedelmente l’anglo-americano black, simbolo e parola-chiave dei movimenti per i diritti delle minoranze negli Stati Uniti. Il resto lo hanno fatto negli anni Novanta i dibattiti sul «politicamente corretto», importato dai paesi anglosassoni. Prendiamocela con gli americani e gli inglesi invece di bacchettare Fausto Leali.

CHIARA MAFFIOLETTI per il Corriere della Sera il 23 settembre 2020.

Fausto Leali, come sta?

«L'altra sera, quando in diretta (al Grande Fratello Vip , ndr ) mi è arrivato addosso tutto, ho sentito una fucilata nello stomaco».

In una settimana ha parlato delle cose buone fatte dal Duce e chiamato «negro» Enock Barwuah. Non si aspettava l'eliminazione?

«Nessuno se lo aspettava. Il primo ad accompagnarmi alla porta è stato Enock, commosso. Forse avrà pensato: abbiamo esagerato. Sono stato espulso come un disertore. Lì han capito che sono una brava persona, non un razzista».

Ha parlato di «razza negra», però.

«Quella cosa non lo so come mi è venuta, so perfettamente che non esiste nessuna razza negra, è stato un errore, una parola uscita a vanvera. Mi hanno dato dell'ignorante ma mi sono espresso male».

In molti, in realtà, le hanno dato anche del razzista.

«Proprio, con le mie canzoni piene di riferimenti alla musica afroamericana. Quando mi sono rivolto così a Enock pensavo di fare una battuta: non volevo ferire nessuno. Credevo si facesse due risate e invece no».

Viverla come una battuta non è parte del problema?

«Fino all'altro giorno cantavo Angeli negri, è uno dei miei successi maggiori, ai miei concerti l'aspettano tutti. Parla di un uomo di colore che prega perché vorrebbe vedere un angelo nero, un concetto più anti-razzista di così... Era il linguaggio di allora».

Come si è sentito quando si è accorto dell'errore?

«Una me... Ho capito che avevo sbagliato non considerando le offese che aveva subito. Ma ora siamo d'accordo: andremo presto a mangiare assieme, anche con suo fratello Balotelli; voglio scusarmi e fargli capire che tipo di persona sono».

Perché non si è scusato subito?

«Sono timido. Dopo quell'episodio, quando ci incontravamo vedevo che lui non era più il ragazzo simpatico di prima, era cambiato. Avrei dovuto dirgli che non volevo offenderlo, ma la mia timidezza non mi ha aiutato. Però ho vissuto una vita in mezzo ai neri, Wilson Pickett è stato il padrino di mia figlia».

Quindi è solo una questione di parole sbagliate?

«Negli Usa si usa il termine afroamericani ma da noi?»

Afroitaliani?

«Non l'ho mai sentita questa parola, ero convinto di averla inventata io. Ma dire che sono razzista mi fa male. Le cose dette in tv hanno una risonanza diversa».

Ha anche parlato delle cose buone fatte dal Duce.

«Prima di entrare nella Casa avevo visto dei documentari storici che mostravano anche cose importanti fatte da Mussolini, non le ho inventate io. Ma si prende sempre il punto debole di un discorso».

Non pensa sia perché stoni di fronte all'enormità del male che Mussolini ha causato?

«Allora, io non avrei dovuto dire nemmeno "Mu" di Mussolini, o "ne" dell'altra parola. So che sui social è stato un disastro tanto che mia moglie mi ha suggerito di non aprirli per non soffrirci troppo. L'eliminazione è stata il colpo finale, ma molti mi hanno espresso solidarietà».

Chi bestemmia in un reality viene espulso: è giusto?

«Beh, la bestemmia offende Dio e chi ci crede. Non lo puoi fare, io non lo faccio».

Con la stessa logica, non le pare giusto eliminare chi dice «negro» in tv?

«So che tutti, Enock compreso, non lo trovavano giusto. Penso sia stata una punizione eccessiva ma la regole sono regole e vanno rispettate».

Potendo tornare indietro rifarebbe questa esperienza?

«No, non lo farei più. Credo non sarò ricordato per questo, ma, a prescindere da quanto è successo, mi sono sentito un po' fuori luogo. Non lo rifarei».

Marco Travaglio e Fausto Leali sono due razzisti, ma l’Odg sarà rigoroso come il GfVip? Redazione su Il Riformista il 23 Settembre 2020. Ieri Marco Travaglio, sul Fatto Quotidiano, ha polemizzato con Renato Brunetta definendolo mini-indovino. La parola “mini” è riferita alla statura fisica di Brunetta. “Mini” è un modo per insolentire il direttore del Riformista Economia. È come dire terrone a un meridionale, o negro a un africano, o frocio a un omosessuale. Ci si può anche passare sopra con un’alzata di spalle: che Travaglio sia razzista è indiscutibile e noto. Peggio per lui. Però c’è una coincidenza che ci ha colpito: sempre ieri, Il Grande Fratello ha deciso di espellere il mitico Fausto Leali perché ha definito negro il signor Balotelli. Il Grande Fratello ha stabilito che questo modo di esprimersi è un segno di razzismo e che il razzismo non deve entrare nella casa del Grande Fratello. L’Ordine dei giornalisti prenderà qualche misura analoga nei confronti di Travaglio? Se non lo farà, niente di male, per carità: non saremo mai noi a chiedere repressione. Solo dimostrerà di essere molto meno serio e rigoroso della giuria del Grande Fratello.

Francesco Fredella per liberoquotidiano.it il 3 febbraio 2020. Una vera rivelazione. Uno scoop di Eleonora Daniele e del suo Storie italiane, che ospita Fausto Leali in studio in diretta. Il cantante rivela: “Anna Oxa non la sento da un po’, mi manca ma non dipende da me”. Una frase choc che lascia tutti senza fiato. Leali è stato premiato a Sanremo proprio ieri. Lui conosce bene il palco dell’Ariston e l’adrenalina che si prova al Festival. Con Anna Oxa ha vinto nel 1989 il Festival di Sanremo con la canzone  “Ti lascerò”. “Era nata una grande amicizia fra di noi, era un periodo bello e felice ma non ci vediamo da un po’, l’ho solo vista in televisione qualche giorno fa”, dice Leali. Mi piacerebbe tantissimo sentirla ma si è dispersa un po’ Anna negli ultimi anni, la vediamo poco in giro, in televisione, ecc ecc… Ha scelto di fare una vita diversa, di non frequentare più gli amici – dice Leali – io e lei eravamo grandissimi amici. E’ un peccato. Anna, per cortesia, chiama Fausto che desidera tanto vederti”, parte l’appello in diretta nella super trasmissione del daytime di Rai1. “Oltre ad avere una splendida voce, Anna è una bellissima donna, ha un carisma particolare, e questo suo allontanarsi da tutti mi dispiace un po’…”

·        Federico Buffa.

Angelo Carotenuto per la Repubblica il 29 dicembre 2019. Federico Buffa non ha uno smartphone, non si rivede mai in tv e dice che la parola storytelling gli fa orrore. Ma questa, direbbe lui, è un' altra storia. I teatri con i suoi spettacoli - si tratti di Ali o di Kubrick - sono pieni di ragazzini, così come giovani sono i telespettatori che dai suoi lavori si fanno guidare nella conoscenza del passato: l' ultimo on demand su Sky è dedicato a Gigi Riva.

Com' è finito a raccontare lo sport?

«Sono stato salvato dalle acque. Sono un avvocato, ma non volevo esercitare. Sapendomi baskettaro, l' allora direttore di Tele+ Andrea Bassani mi chiamò a commentare delle partite. Vent' anni dopo mi ha confessato che l' ad di allora, alla prima telecronaca disse: non me lo fate sentire mai più. Volevo andare a vedere la finale olimpica di Londra tra Usa-Spagna e invece mi ritrovai due anni dopo ai Mondiali di calcio. Per dare un senso a quella mia presenza, sono nate Storie Mondiali ed è cominciata la slavina».

Che le pare della parola storytelling?

«Oscena. Tra narratore e storyteller è meglio narratore. Non capisco perché tante volte una bella parola italiana sia sopravanzata da un' altra meno bella. Ora pare che tutto sia storytelling ma le storie sono sempre esistite. Casomai esistono stili diversi di narrazione».

Il suo qual è?

«Quando ho iniziato presi a modello Philippe Daverio in Passepartout . Ho tutte le puntate registrate. Servizio pubblico puro».

Anche il suo obiettivo è divulgare?

«Avrei questa velleità. I ragazzi italiani non sono così passivi come vengono rappresentati. Ho il privilegio di avere un pubblico giovane. È una responsabilità che sento e che mi prendo».

Cosa pensa del giornalismo sportivo italiano?

«Non mi piace che tante volte costruisca storie prima che succedono. Quello che mi piace è che ci sono firme eccezionali con un timbro diverso».

Ne scelga una.

«Gianni Clerici. Dà l' idea di come si possa parlare di sport senza parlare di sport. Una roba per fuoriclasse. Quando facevo coppia con Flavio Tranquillo in telecronaca e ci dicevano che eravamo ispirati da Tommasi e Clerici, per me era il più grande complimento possibile».

Le mancano le telecronache di basket?

«Mi mancano le finali. Dove vedi tutti i migliori al mondo del tuo sport che giocano forte. La Nba è troppo lunga e in tanti momenti della stagione si gioca perché si deve. Ma quando spingono per davvero, non c' è niente che ci vada vicino. Forse solo Federer-Nadal dal vivo».

Le piace il tennis?

«Mi piace lo sport dei grandi atleti. Una storia che mi entusiasma è quella di Phelps. L'uomo che non sapeva vivere fuori dall' acqua. I due Phelps. Il disadattato che si muove all' asciutto e l' uomo pesce con una longevità agonistica inspiegabile».

Qual è lo sport più letterario oggi?

«È ancora il pugilato, benché non esista più, o forse proprio per quello. Quando Scorsese sale con la steady cam sul ring di Toro Scatenato , cambia la storia del cinema. Ti mette dentro il match. Da bambino andavo in bici sotto casa di Riva e aspettavo che uscisse sul balcone a fumare. Gli sportivi di oggi sono prigionieri di se stessi. Ancelotti mi ha detto: sono cresciuto zappando la terra, questi ci mettono 10 minuti per sistemarsi i capelli prima di giocare».

Non le danno mai del passatista?

«Sono abbastanza abile nell' anticipare l' obiezione. È un privilegio raccontare storie del passato anziché l' attualità. Ti salva. Non ho nessun problema ad ammettere che questo non è più il mio mondo. Non ho attrazione per i social media. Ho un' ossessione per la privacy. Vivo per conto mio con le persone che mi piacciono. Ammetto di essere un anziano».

Che cos' è la nostalgia?

«È la memoria con un altro nome. Ho una devozione forte verso il concetto di memoria. Ho perso mia madre per l' Alzheimer. La perdita della memoria genera la perdita di identità. Della memoria ho una visione muscolare. Faccio esercizi. La irroro. Amo l' Argentina perché lí ho la sensazione di tornare nell' Italia di una volta, dove le persone si aiutavano. È questa la parte di mondo di cui sono nostalgico. La condivisione dei problemi».

Questa fuga dall' attualità c' entra con il salotto calcistico abbandonato anni fa dopo una puntata?

«Quella è una storia bruttissima. I due giorni successivi ero frastornato. Ricevetti messaggi anonimi e telefonate che dicevano: attento a come parli, calcio uguale voti, sappiamo che hai aderito al partito radicale. Era vero. Sono cresciuto con le battaglie per i diritti civili negli anni 70. Mi chiedevo: come fanno a saperlo? Non era la mia tazza di tè. Io sono quello che racconta perché LeBron perde le finali».

Con quella domanda in spagnolo a Luis Enrique si presentò come un alieno. Imperdonabile.

«Io non do molta importanza a quel passaggio. Volevo fargli i complimenti ma fu una pessima esibizione da parte mia. Non dovevo fare la trasmissione e la feci male. Per stare seduto su quello sgabello bisogna avere spalle che non ho e non voglio avere. Trovo interessanti altri contesti. Per esempio: il calcio europeo che guarda al modello Nba».

Funzionerà?

«È evidente che vanno là, contro la cultura centenaria dello sport europeo. Non so come, ma ce la faranno».

Niente più storie alla Gigi Riva?

«Esatto. È noi contro voi. Prendi Barack Obama il giorno della rielezione e Steve Jobs il giorno in cui presenta il primo iPhone. Us e we.

Obama è inclusivo. Le frasi sono un tergicristallo che iniziano qua e finiscono là: we, noi. Steve Jobs parla dritto: noi che abbiamo questo strumento. Una idea di separazione dagli altri. Us. Il complemento oggetto. È proprio quello che farà il calcio: noi, voi. Us e we. Vinceranno e noi dovremo fare qualcosa per non essere cancellati dal mondo».

Raccontare gli sconfitti?

«Ho un' enorme attrazione per loro, ma il pubblico molto meno. Il mondo superominico che si continua a celebrare è dall' altra parte. Eppure ci saranno sempre sacche di narrazione nella tv che rallenta di un battito, come ci diciamo a Sky con Zappia, rispetto al ritmo cardio chiamato a mostrare quattro volte un filo d' erba che sfiora lo zigomo».

Non resterà che la memoria?

«In tutto il mondo buttano giù gli stadi e mettono targhe. Noi non sappiamo dove si è giocata la finale mondiale del 1934. A Montevideo, davanti a una tintoria, c' è la porta dello stadio dove un operaio della Peugeot segnò il primo gol in un Mondiale. Lo hanno demolito ma lo ricordano. A Vittorio Pozzo è dedicato solo lo stadio di Biella. Secondo me sbagliamo noi».

·        Federico Zampaglione.

Arianna Finos per “la Repubblica” il 16 dicembre 2020. Cappello da cowboy e scorte di bevanda energetica, Federico Zampaglione scruta dalla vetrata del salotto minimalista gli attori davanti alla piscina. Al ciak il giovane musicista chiede consigli al rocker famoso e un po' bollito, che sembra più interessato a dare indicazioni ai giardinieri. I tonfi dei vasi coprono le battute, il regista urla alle comparse, il tono è bonario: «Possiamo fare finta?». Una settimana alla fine delle riprese del primo film in cui il cineasta accantona l' horror per una storia musicale dal sapore autobiografico, dal romanzo Dove tutto è a metà , scritto con Giacomo Gensini. Il titolo del film, Morrison , si riferisce al locale romano in cui il ventenne Lodo (Lorenzo Zurzolo), una timidezza che lo frena e un amore non ricambiato per la coinquilina, si esibisce con i MOB. La sua strada s' incrocia con quella di Libero (Giovanni Calcagno), ex famoso dal rilancio inceppato e una moglie insofferente.

Com' è il set al tempo del Covid?

«Intenso. Ci siamo impegnati per avere un Covid manager, siamo stati attenti. Siamo alla fine e sono contento. La situazione è drammatica, il film mi aiuta a stare dentro a qualcosa di positivo. Per fortuna le scene e le immagini dei concerti erano in piccoli club, abbiamo fatto tamponi a tutti».

Che periodo è della sua vita?

«Sono preoccupato per i miei cari, per mia figlia, per mio padre. Ma sento che è anche il momento della maturità, in cui riesco a realizzare nel cinema e nella musica le cose proprio come le immagino».

Durante la clausura ha girato un corto horror con sua figlia.

«È stato un bel modo per sopravvivere a quel momento buio, creare qualcosa per non ripetere le stesse giornate. Faccio sempre quel che sento, anche il mio ultimo brano ( Finché ti va, ndr) è arrivato in un momento in cui va di moda tutt' altro, eppure è andato bene».

Quale film musicale l' ha ispirata?

«Walk the line su Johnny Cash è un capolavoro, Rocketman nelle parti non di musical, School of Rock , visto mille volte con mia figlia. Che non ha mai potuto vedere i miei film, horror con scene scioccanti. Non vedo l' ora che veda questo».

Che tipo di film è il suo?

«Parla di sogni, amicizia, fallimenti. Fa ridere e commuovere. Diverso dal cinema che ho fatto finora, si ricongiunge a quel che ho fatto con la musica. E a gennaio uscirà il singolo del film, Cerotti».

Nella scena girata poco fa, il rocker spiegava al giovane come portare l' energia al pubblico.

«È ciò che ho vissuto io con Lucio Dalla. Sul palco non cercava il pubblico, andava con gli occhi da un' altra parte, come se scaricasse energia verso il basso che poi risaliva più potente. E tu la prendevi , non era lui a tirarla addosso. Era come se stesse su un' astronave. Lui e Franco Califano sono stati i miei mentori. Da giovane pensavo che un brano di successo fosse l' arrivo, poi capisci che è solo l' inizio e impari a comunicare senza vergognarti di quel che senti veramente».

Il primo incontro con Dalla?

«In una trasmissione tv. Dovevamo cantare Com' è profondo il mare che avevo interpretato a distanza sul film di Paz. Subito prima chiedo "maestro, ma come vogliamo dividerci le battute?", lui dice "cazzo canta, non ti preoccupare". E io: "Come, canto io?", lui "Su, vai...canta".

Si è messo al piano e io ho iniziato. Mi sono accorto che faceva una serie di facce, mi sono terrorizzato, "mi prende per i fondelli?", pensavo. Era un mimo, io cantavo "babbo che eri un gran cacciatore, caccia via queste mosche" e lui fingeva di scacciarle. Pensai di uscirne distrutto. Rivedendo lo show in tv ho visto la sua potenza incredibile, rispetto a me che mi impegnavo così tanto a cantare. Lui il pezzo lo aveva sublimato, era una sorta di visione. Non gli serviva cantare».

Il primo incontro con Califano?

«Mi voleva incontrare, ci vediamo a Ciampino. Il Califfo si presenta in Jaguar, camicia bianca aperta sul petto abbronzato, catenone d' oro: "Vieni in macchina con me". Salgo, facciamo un tratto di strada. Era il tramonto. Franco parcheggia e dice "scusa un attimo". Si mette in piedi davanti al sole. Io in macchina, confuso. Dopo un po' scendo e mi avvicino. Vedo che piange. M' imbarazzo. "Tutto a posto?". Lui mi guarda: "Io piango sempre quando il sole more".

Qual è stato il suo momento più difficile quando aveva vent' anni?

«Ero timido ma anche incosciente. Il momento più basso fu un concerto a Torino. Arrivammo col furgoncino, montammo gli strumenti, ci mettemmo in camerino. Dopo un bel po' bussa il proprietario: "Ragazzi, smontate tutto, venite". Siamo usciti e nel locale non c'era neanche una persona. Siamo tornati a Roma. Uno dei momenti più belli, ai tempi di La descrizione di un attimo , quando eravamo ancora un gruppo indie: ci chiamano a suonare a Perugia, parte la canzone e la folla la canta a memoria, una bella botta».

Le appartiene anche la disillusione del rocker maturo?

«Ne condivido l' esperienza. Non sono disilluso, ho la mia malinconia, che è sempre lì. Ma anche una bella allegria interiore. Dall' insieme delle due cose nascono le mie canzoni, mi viene facile entrare nella profondità dei miei stati d' animo».

Rimpianti per cose non dette?

«Avrei voluto che mia madre condividesse con me questi ultimi anni belli, tante canzoni che avrei voluto farle sentire. Soprattutto non ha potuto veder crescere mia figlia».

Con suo fratello Francesco (sotto processo per una rapina fatta per protesta, ndr ) il rapporto è forte?

«Fortissimo, ci amiamo tanto. A tratti lavoriamo insieme, a tratti ognuno va per la sua strada. Tra fratelli, tra artisti, è un po' così. Lui è un grandissimo artista, un grande musicista. Abbiamo fatto delle cose meravigliose, di sicuro ne faremo delle altre».

·        Ferdinando Salzano.

Veronica Di Benedetto Montaccini per tpi.it l'11 febbraio 2020. “Una: perché ogni volta che una donna lotta per sé stessa, lotta per tutte le donne. Nessuna: perché nessuna donna deve più essere vittima. Centomila: il numero delle voci che si uniranno alle sette artiste”. Durante il 70esimo Festival di Sanremo è stato annunciato così, da Fiorella Mannoia, Emma, Alessandra Amoroso, Giorgia, Elisa, Gianna Nannini e Laura Pausini, il più importante evento musicale dell’anno contro la violenza sulle donne, che si svolgerà il 19 settembre 2020, a Campovolo (Reggio Emilia). Un concerto che raccoglierà fondi da destinare ai centri antiviolenza in tutta Italia. Non resta che comprare i biglietti. Ma entrando su TicketOne ci si rende conto che, rimanendo in tema musicale, c’è qualcosa di stonato. Questa lodevole iniziativa è stata infatti organizzata da Friends and Partners di Ferdinando Salzano. Il manager dei vip, il re dei live. Sì, proprio lui che è stato denunciato per abuso di potere e che ha sulle spalle un’indagine penale in corso per violenza privata aperta dalla Procura di Padova che riguarda anche e soprattutto una donna. Ma facciamo un passo indietro, in una vicenda iniziata un anno fa, in più atti.

Chi è Salzano. Salzano è una delle figure più potenti e influenti dello spettacolo italiano. Cura gli interessi, tra gli altri, di Venditti, Zucchero, Ligabue, Nannini, Pausini, D’Alessio, Emma Marrone, Elisa e Biagio Antonacci. Tutti personaggi presenti anche al suo matrimonio. Il ruolo di Salzano è stato spesso contestato. L’ultimo esempio? Nei due Festival di Sanremo 2018 e 2019, firmati Baglioni e Bisio, aveva generato numerose polemiche la sua presunta posizione dominante sull’organizzazione della kermesse. Salzano, già condannato a 1 anno e 6 mesi per omicidio colposo in seguito al crollo del palco della Pausini a Reggio, è attualmente accusato di violenza privata (che prevede fino a 4 anni di reclusione) insieme a due suoi collaboratori. E al di là di questa vicenda specifica, nell’ambiente musicale, il suo carattere che più di una persona contattata non esita a definire “irascibile” e “stizzoso”, è cosa nota. “Il mio assistito, al pari dei suoi collaboratori è completamente estraneo alle accuse riportate sui giornali”, ha detto a TPI il legale del manager, Luigi Isolabella.

La denuncia all’Antitrust. Quella in corso è una vera e propria guerra dei concerti, che ha come campo di battaglia le arene del Veneto e non solo e come armi querele, denunce e ripicche giudiziarie. A combattere contro il colosso della musica italiana Salzano è l’agenzia promoter Zed (di Diego Zabe, Daniele Cristofoli e Valeria Arzenton). Si comincia con un’indagine aperta dall’Agcm, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che riguardava la prevendita online dei biglietti per vari concerti in Italia.

Cosa dicono le carte dell’inchiesta. Noi di TPI abbiamo letto le carte dell’inchiesta aperta da Agcm e ci sono accuse di abuso di posizione dominante che coinvolgono anche Ticket One (collegata a Salzano), CTS Eventim (azienda socia di Salzano), F&Partners (di Salzano e della moglie), Vivo Concerti (che ha tra i soci la moglie di Salzano) e anche DI and Gi e Vertigo (partner in affari di Salzano). Tutti abusi avvenuti anche attraverso azioni di boicottaggio e ritorsione nei confronti di società concorrenti. L’agenzia Zed, invece, è un punto di riferimento per il Veneto e il nord Italia. Molto più piccola delle imprese di Salzano, si appoggiava ai suoi gruppi per organizzare concerti con i più famosi artisti del panorama nazionale. È la produzione di un concerto di Alessandra Amoroso il cuore dell’indagini su fatti risalenti a ottobre 2018. Secondo gli inquirenti, la società F&P di Salzano pretendeva di utilizzare la Kioene Arena di Padova, con cui Zed ha una convenzione, intestandosi la fiscalità dell’evento e obbligando di fatto gli imprenditori locali a sottostare alle sue condizioni, nonostante fossero loro gli ospiti. Il tutto con la minaccia di non pagare i debiti pregressi per una cifra di 313 mila euro. La società Zed voleva inoltre, essendo un suo diritto, vendere i biglietti anche nel circuito TicketMaster ma la società di Salzano non aveva arretrato: “Nessun biglietto può essere venduto online. Solo TicketOne ha questo diritto per i nostri concerti” e “L’artista è mio, le condizioni e detto io. I biglietti li vende solo TicketOne”. Lo scontro avrebbe portato alla cancellazione di tutte le date che aveva in calendario le sono state annullate da quando si è inserita nel procedimento, già in corso, dell’Antitrust. Cioè da quando ha iniziato a parlare, a far sentire la sua voce. “Una prova di forza, mi vogliono vedere fallire, ma io non mi arrenderò”, racconta a TPI Valeria Arzenton, una delle socie fondatrici di Zed.

Striscia e i problemi per Valeria. Fin qui siamo nell’ambito di un conflitto imprenditoriale, di mercato. Ma il passaggio alla sede penale è stato breve. La scorsa primavera il programma di Canale 5 “Striscia la notizia” mandò in onda un’intervista a una donna, che rimaneva anonima e che svelava una serie di condizionamenti, parlando apertamente di vessazioni e persecuzioni da parte di Salzano e soci. In una seconda intervista compariva Valeria Arzenton di Zed che ribadiva il suo punto di vista. A questo punto TicketOne e CTS Eventim hanno sporto denuncia per diffamazione. Al riguardo l’avvocato di Arzenton, Fabrizio Ventimiglia chiarisce a TPI: “La Dott.ssa Arzenton ha già fornito nelle sedi opportune tutti i chiarimenti in ordine a tale vicenda e siamo fiduciosi che la Magistratura rileverà al più presto l’infondatezza delle accuse dei querelanti, tra cui mi risulta esservi anche il Sig. Ferdinando Salzano”. L’avvocato Luigi Isolabella, che tutela Salzano, ha confermato l’esistenza delle querele e del procedimento per diffamazione.

“Violenza privata”: si muove anche la Procura di Padova. Tutto questo ha generato un nuovo capitolo giudiziario, in cui il boss dei live sarebbe indagato, anche se i suoi legali negano di aver ricevuto comunicazioni ufficiali. A chiarire qualcosa è invece l’avvocato della Arzenton: “In merito alla notizia della pendenza di un procedimento penale avanti alla Procura di Padova a carico del Sig. Salzano per il grave reato di violenza privata ai danni della dott.ssa Arzenton, si tratta di procedimento avviato d’ufficio dalla Procura della Repubblica, evidentemente a seguito delle inchieste della stampa”. La Arzenton “è parte lesa e si riserva ogni azione per ottenere il risarcimento dei danni ingenti che ha subito”, spiega il legale. Inizialmente l’imprenditrice musicale aveva paura a parlare con la stampa, temeva ritorsioni e gravi ripercussioni lavorative. E così è stato, purtroppo. “Subivo di quelle pressioni, di quelle minacce, che non ce la facevo più. A un certo punto ti devi difendere”, racconta Valeria.

Renato Zero si schiera con Valeria Arzenton. Un grande gesto di solidarietà nei confronti di Valeria è arrivato lo scorso 19 novembre. Dal palco del suo concerto, Renato Zero ha sostenuto la socia fondatrice di Zed: “Questa donna è soggetta a violenze verbali e non verbali solo perché sostiene l’integrità e la magnificenza dell’arte e della comunicazione, vi prego di fare in modo che lei possa ottenere lo scettro di grande amazzone della cultura presso la Regione e le istituzioni affinché questa struttura possa funzionare senza minacce e senza violenze”. Nei fan club sorcini la notizia non è passata inosservata e la situazione della società Zed che ha deciso d lottare contro “Golia” è diventata un caso nazionale. Un messaggio forte e a cuore aperto, che ha fatto commuovere Valeria. “Le parole di Renato Zero sono un supporto per me e per tutte le donne che vivono i disagi di un mondo spesso misogino”.

Una, nessuna, centomila. Ma torniamo alle donne. E al concerto di Campovolo. Quell’evento che ha come intento quello di diffondere empowerment nel mondo femminile, di denunciare il machismo nel nella musica e non solo, di incoraggiare e finanziare i centri antiviolenza. Secondo Valeria Arzenton “l’iniziativa contro la violenza sulle donne è lodevole, ma stona molto il fatto che ad organizzarla sia proprio questo soggetto”. L’ultimo anno di Valeria è piena di ostacoli, ma non si pente e non tornerebbe mai indietro: “Io ho scelto di dire NO ai soprusi (che qualcuno chiama libero mercato), NO alla precarietà, NO all’incertezza, NO alla svalutazione del valore del lavoro, NO all’impoverimento culturale ed etico”. Sul cartellone di Una, Nessuna, Centomila c’è scritto che “ognuna delle cantanti inviterà a cantare un collega, un uomo, perché il messaggio dal palco deve essere universale”. Ecco, forse anche il concetto di “violenza” dovrebbe essere allargato, perché sono violenza anche minacce, pressioni sul lavoro, l’abuso e la prevaricazione di chi si approfitta della sua posizione dominante. E forse, vista la delicatezza della vicenda che coinvolge anche e soprattutto una donna coraggiosa, che ha deciso di parlare in un mondo- quello musicale- dominato quasi completamente dagli uomini, l’idea di far organizzare quel concerto proprio a Ferdinando Salzano non è la migliore del secolo.

·        Ficarra e Picone.

Da leggo.it il 2 dicembre 2020. «È l’ultima settimana di conduzione di Striscia la Notizia. È l’ultimo anno». L’annuncio di Ficarra e Picone in diretta durante la puntata di lunedì scorso, ha suonato come news inaspettata. Al timone da 15 anni, il duo siciliano amato dai telespettatori del Tg satirico di Canale5, ha messo così la parola fine al programma di Antonio Ricci. 

Annuncio a sorpresa, ma voi lo sapevate già prima di iniziare l’edizione? 

F. Sì, pur avendo vissuto un’esperienza meravigliosa e appagante, umanamente e professionalmente. Sentivamo l’esigenza di provare a capire cosa c’è dietro l’angolo. 

P. E quindi solidarietà a Ficarra: l’unico progetto sicuro e dietro l’angolo che gli è rimasto adesso, sono io (ride, ndr).

E Ricci?

Ci ha fatto sentire importanti all’interno di Striscia. Fino all’ultimo si è rifiutato di pensare: “Fate pure l’annuncio in diretta, ma io non vedrò la puntata. Così per me non esiste”. 

Da Savino alla gente comune, vi hanno scritto dispiaciuti. Abbiamo fatto Striscia con sincerità. Come fossimo noi gli spettatori da casa, vivendo le stesse emozioni di chi guarda. Se un servizio indigna voi, indigna noi. Così se è divertente. Satira, provocazione, ironia e soprattutto tanta sana nostra autoironia. 

Avete fatto arrabbiare Sgarbi, ironizzato su Salvini, dato la notizia delle elezioni di Berlusconi, parlato di mafia. Il momento più difficile?

Quando si racconta l’umanità. Come nel periodo economico e storico che stiamo vivendo. Abbiamo la responsabilità di dare alla gente un po’ di divertimento. 

La politica sta facendo abbastanza?

P. Qui entro in modalità soldatino. Siamo in una situazione che nessuno avrebbe immaginato. Si stanno facendo errori, ci sono discussioni varie.

F. Sono tante le categorie che stanno soffrendo. Speriamo nel contributo di tutti, pure dell’opposizione, per uscire da questa terribile storia. 

Curiosità: a Grillo avete mai chiesto il diritto d’autore su “cittadini di striscia”?

Quello l’ha utilizzata senza permesso. Cittadini, cittadini, ma si è rubato il nostro cittadini… (ride, ndr).

Cosa succede dopo Striscia? Cinema, tv……O teatro, che speriamo di tornare a fare presto. Avevamo una tournée piena di date che ci è stata annullata.

Tour per i 26 anni insieme di “disistima reciproca”, scrivete su Twitter. 

F. E sui social non si mente (ride, ndr)

P. Siamo leoni da tastiera. 

Chi è il leone: Salvo o Valentino?

F. Non lo saprete mai.

P. Risposta ovvia: i post che non piacciono li scrive Salvo. I post che piacciono, invece, li scriviamo insieme.

50 anni l’anno prossimo, insieme fate un secolo. 

Ma che diviso per quattro, il nostro quoziente intellettivo, fa venticinque. Siamo ancora giovani. 

Festeggerete con un “secondo Natale”, magari bissando gli incassi (i migliori del 2019 con oltre 16 milioni) ai botteghini del vostro ultimo film? 

Chissà. Scomodiamo il cinema solo quando abbiamo un’idea. 

Nanni Moretti diceva che “La satira non ha padroni”: se la Rai vi chiama cosa rispondete? Dipende sempre dall’idea.

Il vostro motto? 

F. Non dare mai ragione a Picone. 

P. Nessuno. Dopo la risposta di Ficarra, sono rimasto senza. 

Stefano Bini per "Libero quotidiano" il 4 dicembre 2020. Per Striscia la notizia domani si chiuderà un' era e si aprirà al contempo una voragine. Ficarra e Picone, dopo quindici anni, lasciaranno il bancone del tg satirico per dedicarsi ad altri progetti che, per loro stessa ammissione, ancora non ci sono. In questo particolare momento storico in cui i contenuti soffrono, i budget pure, la pubblicità è in crisi e gli artisti fanno sempre più fatica a trovare spazio dovendo ripiegare sui reality per un accenno di visibilità, il fatto che una delle coppie più funzionali della tv abbandoni il secondo più programma più visto della televisione italiana è non poco sospetto. Antonio Ricci non ha voluto vedere la puntata del 30 novembre dove Ficarra e Picone annunciavano il loro addio, Ficarra è stato spesso insofferente nel lanciare i programmi di prima serata di Canale 5, prime time criticato anche dal veterano Ezio Greggio, Picone ultimamente è apparso spesso smarrito; in tutto questo, i risultati Auditel hanno premiato la coppia comica, che non aveva mai condotto nella fascia "di garanzia" settembre-dicembre. Anche se Piersilvio Berlusconi ha dichiarato che «Mediaset sarà sempre la loro casa», c' è mistero nella dipartita del duo siciliano; i ben informati parlano di una mal sopportazione della linea editoriale presa dal Biscione, tra talk show trash, urlati e reality come il Grande Fratello. Ficarra e Picone non hanno mai nascosto, dicendolo alla fine di ogni puntata e commentando i vari servizi, di non amare un certo genere di tv; nolente o dolente, quella è e sarà Mediaset, almeno fino a che lo share premierà i canali di Cologno. In tutti i casi, un po' di dispiacere rimane, visto che hanno fatto la storia di Striscia, sono maturati con essa e hanno ottenuto vera popolarità proprio all' interno del programma, dopo anni di gavetta tra Rai3 e Zelig. Archiviati i siciliani, restano solo quattro punti fermi: Gerry Scotti, Enzo Iacchetti, Ezio Greggio e Michelle Hunziker; di sicuro, per il mood dinamico che ha intrapreso Mediaset, questi conduttori non basteranno e presumibilmente si vedrà il ritorno di Francesca Manzini e Sergio Friscia che, seppur per poche puntate, sono stati a loro agio dietro al bancone e hanno regalato a Striscia ottimi ascolti. Antonio Ricci di certo starà già analizzando in tutta segretezza, tipica del suo stile, nuovi conduttori da affiancare ai veterani. Nuovi comici e vecchia guardia Mediaset saranno al vaglio dell' inventore di Striscia che, come al solito, saprà scavare tra i più incisivi e iconici personaggi dello spettacolo. Non ci sono risorse artistiche che tengano per Ricci, i conduttori li scegli lui poiché sa chi mandare al comando di una gioiosa macchina complessa come Striscia, tra inchieste, denunce, gossip, calcio e filmati dal web.

Ficarra e Picone contro il vicesindaco leghista: «Vive in case popolari con 3400 euro al mese. E ha un pass disabili, mentre va in bici». Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Matteo Cruccu. Durante la (lunghissima) campagna elettorale emiliano-romagnola si era distinto per uscite tipo «Vi faremo un c... così» con tanto di gesto esplicativo nei confronti dei rivali del centro-sinistra. Ma non era la prima uscita estemporanea di Naomo Lodi, vicesindaco leghista di Ferrara che in passato si era messo in testa alle barricate contro i rifugiati nella zona, oltre a sfoggiare magliette con slogan tipo «Più rum meno rom». Dopo che le elezioni sono andate come sono andate al ruspante vicesindaco è toccato incassare la replica, anzi la bordata di Ficarra e Picone: il duo comico l’ha lanciata su Twitter con queste parole : «Il vicesindaco leghista di Ferrara #NaomoLodi vive in una casa popolare nonostante un reddito netto di 3.400 euro al mese. Ha un contrassegno disabili tuttavia corre, va in bici e solleva pesi. Ma, purtroppo per noi, non è tunisino.#primagliitaliani». Il cinguettio è stato subito retwettato a oltranza , raccogliendo sdegno e altre stilettate ironiche un po’ ovunque. E Lodi? Sui social non reagisce (su Twitter non ha nemmeno l’account) e nemmeno con mezzi più tradizionali. E se Ficarra e Picone hanno amplificato le accuse, in realtà la vicenda è già nota. Sull’affitto il vicesindaco dice di poter aspettare il 2021 in cui andrà in vigore il suo nuovo Isee che non gli consentirebbe di poter accedere alle case popolari, mentre sul pass disabili in passato ha spiegato di aver subito uno schiacciamento alle vertebre che gli procurava una invalidità del 46%. Un malanno transitorio, ricordano in molti che non impedisce appunto al vicesindaco di andare in bici e «sollevare pesi». E che imporrebbe la restituzione del pass, una volta guarito.

·        Fiordaliso.

Fiordaliso: "Mia madre malata di coronavirus, mi ha chiamata per dirmi sto morendo". Fiordaliso racconta a Live! il dramma del coronavirus che le ha portato via l'amata mamma, e rivive il momento in cui la donna, per telefono, l'ha salutata per l'ultima volta. Luana Rosato, Lunedì 06/04/2020 Il Giornale. Il dramma della cantante Fiordaliso, che ha perso la madre a causa del coronavirus, raccontato ai microfoni di Live! Non è la d’Urso. L’artista, colpita come tutta la sua famiglia dal Covid-19, è riuscita a guarirne e lo ha annunciato via social qualche ora addietro. La felicità per aver superato, insieme al padre e alla sorella, il virus, però, è stata offuscata dal grave lutto familiare che li ha colpiti: l’amata mamma, infatti, non è riuscita a sopravvivere e si è spenta a 85 anni nell'ospedale di Piacenza. Fiordaliso, in collegamento con Barbara d’Urso durante l’appuntamento di Live! di ieri, 5 aprile, ha ripercorso tutti i momenti della malattia fino a rivivere il tragico momento in cui la madre, telefonicamente, le ha annunciato che stava per andarsene. “Non so chi si è ammalata per prima, se io o la mamma – ha iniziato a raccontare la cantante - . L'ho accudita per cinque giorni, poi è andata in ospedale e io non l'ho più vista”. Sottolineando come per lei fosse molto doloroso rivivere quei momenti, Fiordaliso ha continuato a riportare la sua esperienza: “Mia mamma per 11 giorni non l'ho sentita. Poi mi è arrivata una telefonata, era mia mamma che mi ha detto: ‘Sto morendo’”. Fiordaliso, quindi, è scoppiata in lacrime. “Scusa, mi ero promessa di non piangere ma non ce la faccio – ha detto a stento alla d’Urso - . Sono qui per dire di stare a casa. I tuoi cari non li puoi accompagnare negli ultimi istanti della loro vita, è terribile”. “Mia mamma stava bene, ma quello che fa più male è la modalità con cui ti portano via i tuoi cari – ha continuato lei - . Non puoi accompagnarli nell’ultimo viaggio della vita. Non puoi mettere la testa sulle ginocchia dei propri cari e dire: Ti voglio bene”. “Per questo vi ripeto che dovete stare a casa se avete amici, genitori, figli a cui volete bene. Io non riesco ancora a dire ‘era mia madre’, è una cosa crudele. Quando è successo l’abbiamo preso sottogamba, avevano detto che era simile a un’influenza e invece no”, ha aggiunto ancora Fiordaliso, raccontando poi quali siano stati i sintomi avvertiti da lei prima di scoprire di aver contratto il coronavirus. “Avevo sempre la febbre a 38, dovevo prendere la tachipirina tutti i giorni, avevo grandi dolori muscolari e mi andò via il tatto e il gusto – ha chiarito - . Ma dicevano che era poco più di un’influenza[...] Ho capito la gravità quando hanno portato via mamma e hanno detto che era positiva”. “Anche mio padre è stato ospedalizzato – ha aggiunto ancora - . Io non ho fatto il tampone, lo farò l’8 aprile per capire se sono negativa. È tremendo perché uno pensa: a me non capita. E invece io ora non ho più la mia mamma. Dovete stare a casa!”.

·        Fiorella Mannoia.

Fiorella Mannoia contro Trump: "Non sa quello che ha fatto e nemmeno gli idioti che lo seguono". Fiorella Mannoia si schiera contro Trump per il raid iracheno che ha ucciso il generale Soleimani e definisce "idioti" quelli che lo supportano. Francesca Galici, Lunedì 06/01/2020 su Il Giornale. L'azione di forza di Donald Trump che ha portato alla morte del generale Soleimani ha scatenato una pioggia di commenti da parte dell'opinione pubblica, anche nel nostro Paese. Non solo i politici, ma anche altri volti hanno voluto esprimere la loro opinione su quello che, a pochi giorni dall'inizio del 2020, sembra essere uno dei fatti più rilevanti del decennio appena iniziato. Tra loro c'è Fiorella Mannoia, che con un Tweet ha manifestato il suo disappunto per il raid il 3 gennaio a Baghdad. Solo pochi giorni fa, Paola Ferrari aveva fatto un tweet sullo stesso argomento, ma di tenore diametralmente opposto. La rossa cantante di Quello che le donne non dicono è da sempre impegnata sul fronte politico. Non ha mai nascosto le sue simpatie e le sue idee, come si può ampiamente dedurre scorrendo la timeline di suoi profili social. Sono diversi i tweet, e i retweet, che Fiorella Mannoia ha pubblicato dallo scoppio della crisi USA – Iran, l'ultimo risale a poche ore fa. La cantante romana ha voluto condividere sul suo profilo un video, pubblicato da Robert De Niro, che ritrae la marea umana che sta partecipando alle celebrazioni per i funerali del generale Soleimani. Le agenzie hanno parlato di milioni di persone che si sono riversate a Teheran, dove a guidare le preghiere ci sarà Ali Khamenei, guida Suprema dell'Iran. L'attore di Hollywood commenta così le immagini della marea umana: "Questo è il funerale di Soleimani ad Ahvaz, Iran. Trump non ha idea di quello che ha fatto." Fiorella Mannoia ha ripreso il tweet di Robert De Niro e, riportando il pensiero dell'attore tradotto in italiano, ha poi aggiunto: "E nemmeno gli idioti che gli vanno dietro, aggiungo io." Ovviamente, il tweet della cantante è diventato virale in pochissimo tempo e sono tanti i commenti, i like e le condivisioni per il suo post. Gran parte dei messaggi arrivati a Fiorella Mannoia sono in accordo con quanto scritto nel suo tweet ma non mancano anche commenti contrastanti, che sottolineano aspetti diversi da quelli messi in evidenza dalla cantante. "Sapete tutto voi invece, folle oceaniche tipiche dei regimi totalitari. Magari le cose fossero così semplici o banali, in un senso e nell'altro", scrive un utente che mette l'accento proprio sulla partecipazione massiva del popolo. Questo è l'aspetto su cui viene messo il focus anche in altri commenti: "Queste immagini dimostrano cosa vuol dire vivere sotto dittatura: chi non partecipa ai funerali di Stato rischia grosso, tantissimo. Per sé e per la sua famiglia." Non è mancata la polemica tra Fiorella Mannoia e un'utente che ha contestato il suo pensiero: "Te, invece, oltre a cantare hai studiato intelligence e sai anche la differenza tra sciiti e sunniti? Sai anche la differenza tra Isis e Daesh? Per mesi hai parlato di Assad come dittatore e ora parli di Soleimani che neanche conosci? Solo per stare contro Trump." Fiorella Mannoia ha replicato al commento con un laconico "Tienitelo", prima di respingere l'accusa di aver parlato di Assad in passato, rivendicando la sua indignazione per la guerra in Libia. Poche ore dopo il raid americano in Iraq, Fiorella Mannoia aveva condiviso un articolo che ne riportava i dettagli, aggiungendo un suo commento: "Prepariamoci a un'altra guerra, la prima in Iraq non è bastata. Le multinazionali delle armi brindano. Però Cuba ha l'embargo da 60 anni."

Fiorella Mannoia reporter: «Ho fotografato l’Africa che cambia». Pubblicato lunedì, 10 febbraio 2020 su Corriere.it da Michele Farina. Fiorella Mannoia con un gruppo di bambini, davanti alla jeep di Amref che l’ha accompagnata nel viaggio tra i villaggi dei Samburu, in Kenya La sua voce la conoscete: se una roccia potesse cantare, avrebbe la voce di Fiorella Mannoia. In questa conversazione, dove si parla di Africa, si incrina quasi impercettibilmente. In due momenti diversi, pronunciando due parole che con i cliché africani (belli e brutti) non sembrano avere nulla a che fare: libri, e assorbenti. Allora nella sua gola si sentono due piccole crepe, due grumi di commozione, quando racconta di ragazze sorridenti incontrate in una scuola nella regione di Samburo, nel nord del Kenya. Qualcuno forse conoscerà la zona per le magnifiche riserve naturali, un safari e via. Già i nomi delle città non suonano familiari: Maralal, Baragoi, Wamba. Figuriamoci i villaggi: invece l’obiettivo di Fiorella Mannoia erano proprio i villaggi. E l’obiettivo va inteso nel senso della fotografia: tele, grandangolo, contrasto. L’occhio e la luce (una volta tanto) al posto della voce: la cantante che ha raccolto in carriera sei Targhe Tenco (quante Ivano Fossati e Fabrizio De André) in questo viaggio ha fatto la fotografa, per piacere e per così dire su commissione. Ha accolto la proposta degli amici italiani di Amref, l’organizzazione internazionale che opera in Africa dal 1957. «Con loro in passato avevo seguito vari progetti, da quello sull’acqua alla formazione di ostetriche. Ma devo dire che questo sulle mutilazioni genitali femminili è il progetto che mi ha toccato di più, in quanto donna». Fiorella dice “toccato”, poi “segnato”, poi torna al primo verbo, quello più giusto. Perché nel suo racconto vibra sicuramente l’indignazione, ma anche molta energia, la speranza: «Le cose stanno cambiando». Le MGF (mutilazioni genitali femminili) sono un problema globale, che colpisce 200 milioni di bambine, ragazze e donne nel mondo. In Africa, Amref ci lavora da decenni coinvolgendo le comunità locali, con strategie ed approcci efficaci che oggi si rivelano preziosi anche al di qua del Mediterraneo, per affrontare un fenomeno che tocca (appunto) mezzo milione di ragazze in Europa e 80.000 solo in Italia. Due donne Samburu, madre e figlia. La donna ha deciso di evitare alla ragazzina le mutilazioni genitali. Il gruppo etnico kenyota è strettamente imparentato con i Masai: coincidono circa il 95 per cento dei vocaboli delle due lingue. Dalle savane di Samburu, Fiorella è tornata con mille scatti in bianco e nero (la sua scelta preferita quando fotografa) e una convinzione piena di colori e “generi” assortiti: «Mi ha colpito vedere quanti sforzi stanno facendo non solo le donne, ma anche gli uomini. È un lavoro capillare, villaggio per villaggio, per cercare di convincere soprattutto i capi e gli anziani a trasformare una pratica secolare e brutale come le mutilazioni genitali in un’altra cosa. Rispetto all’ultima volta che c’ero stata, sempre con Amref, otto anni fa, ho trovato un’Africa che sta mutando. È stata una piacevole scoperta. Nel progetto ostetriche avevo visto solo donne in azione, stavolta ho visto anche un grande impegno da parte degli uomini». Le mutilazioni sono qualcosa di complesso, che spesso noi occidentali vediamo soltanto applicando il filtro (pur necessario) della violenza: «Quello che non sapevo e che ho scoperto nei villaggi di Samburu», racconta Mannoia, «è che una ragazza può essere data in sposa soltanto quando è stata mutilata. In questo modo c’è anche un vantaggio economico per le famiglie»: legami che si saldano, denari o animali che vengono dati in cambio di una figlia. Le MGF sono dunque legate alla piaga dei matrimoni precoci. Fiorella Mannoia con la sua macchina fotografica durante il suo viaggio nei villaggi dei Samburu con Amref. La cantante, nata a Roma nel 1954, ha scoperto la passione per la fotografia durante un viaggio a New York. «L’obiettivo è far capire ai familiari che una ragazza non infibulata, dunque non pronta per il matrimonio, può costituire anche sul piano economico una risorsa ancora maggiore di una sposa bambina: perché può studiare, trovare un lavoro. Un percorso individuale che può essere utile al gruppo. Su questo messaggio si sta puntando. Una ragazza istruita può essere molto più utile di una ragazza data in sposa a vita». Nei villaggi della contea di Samburu (dal nome del sottogruppo di pastori Maasai che abitano nella zona a nord di Nairobi) i racconti delle cerimonie che riguardano le mutilazioni sessuali sono storie che rimangono impresse. «Vi partecipa tutta la comunità. È una cerimonia, che certo si risolve in un atto disumano quando le ragazze vengono “tagliate”, ma è comunque una cerimonia. La gente porta doni, un po’ come accade da noi quando i bambini fanno la comunione». Fiorella riporta con grande emozione quanto le hanno raccontato sulle cerimonie che in tanti casi vanno sostituendo le infibulazioni nelle aree rurali del Kenya e non solo. «La ragazza non viene mutilata. E i regali che riceve dai capi villaggio e dalla comunità sai quali sono? Libri». E a questa parola la voce di “Fiorella la roccia” si incrina per un momento. «Una cosa che mi ha molto commosso, devo dire la verità. La cosa che mi ha commesso forse di più. Ragazze che possono immaginare il loro futuro nelle pagine di un libro: “Io da grande voglio fare il medico, io l’infermiera, io l’avvocato”. Sogni finalmente espressi, nero su bianco, che possono realizzarsi: che emozione». Per questo le è piaciuto molto passare del tempo in una scuola femminile, con le ragazze. «Ho capito che c’è una generazione che sta studiando, cambiando le cose». Una scuola per ragazze kenyote: garantire loro un’educazione è fondamentale per combattere il fenomeno delle mutilazioni genitali, spingendo i loro genitori a evitare i matrimoni precoci. L’età media in Africa è 18 anni... «Mi sembra che stiamo assistendo a un cambiamento, c’è un’Africa che sta emergendo. Piccole cose, per noi scontate, che diventano realtà. A scuola una ragazza mi ha molto colpito. Avrà avuto 15 anni, stava al centro della classe. Ha detto di essere felice di poter studiare, di essere utile in questo modo alla sua comunità. E che ci ringraziava perché... gli mandavamo gli assorbenti». La voce della roccia si incrina per una seconda volta. «Capisci che non vanno a scuola perché si vergognano, perché non hanno quello che noi diamo per scontato. Un semplice assorbente». E allora giù ritratti anche nella scuola. «È stata una bellissima esperienza». Che la cantante-fotografa ha deciso di ritrarre in bianco e nero. Può sembrare uno spreco. Ma come: i Samburu sfoggiano abiti e gioielli dai colori sgargianti, perché farli sparire? Se guardate le foto di queste pagine scoprite che i volti e i corpi risaltano con una forza speciale: «È la cosa che mi piace di più. Ritrarre le persone. Non tanto in posa. Rubare le espressioni, meglio se di un solo volto. Quando c’è un ambiente con tanta gente, mi sono accorta che io punto, più che a fotografare l’insieme, a concentrarmi su una faccia che mi colpisce». Com’è nata la passione per la fotografia? «È nata da poco. Un paio d’anni fa ero a New York per un concerto. Un operatore doveva comperarsi una macchina fotografica. Ne ho presa una anch’io. Prima facevo tanti scatti con il telefonino. Ma ora è tutta un’altra cosa. Sto cercando di trovare la mia strada. Ma ho capito che mi piace molto il bianco e nero». Fotografare un viaggio del genere non è semplice. C’è in agguato l’effetto “pornografia dell’Africa”, tu bianco benefattore che vai a educare/immortalare i neri con i loro riti più o meno brutali. Fiorella ha ben presente il rischio del foto-safari. «Ho cercato di entrare in quel mondo in punta di piedi, con umiltà e voglia di capire. Fotografare quello che vedi. I volti di questa nuova Africa. Non solo i bambini. E i volti di chi lavora a questo progetto. Mi piacerebbe che, attraverso le foto, si vedesse l’impegno per il cambiamento. Certo la sensazione del bianco buonista che plana in Africa è sempre dolorosa. Mi fa male. Ho sempre appoggiato Amref anche per questo: in Africa Amref affianca, non si sostituisce. Non arriva l’uomo bianco che vi risolve il problema. Da una parte del mondo più fortunata arriva qualcuno che può aiutare i vostri progetti». E poi torna a casa: «Portando una lezione utile anche da noi». Da noi, in Italia? Esatto. La visita di Fiorella Mannoia in Samburu si inserisce in un progetto di Amref per contrastare le MGF nel nostro Paese. Finanziato dall’Otto per Mille della Chiesa Valdese, il progetto si realizza nel 2020 a Milano, in collaborazione con il Comune e il supporto di PEOPLE, una rete che comprende anche i Sentinelli di Milano guidati da Luca Paladini (che ha accompagnato Mannoia in Kenya). Da questa visita nascerà una mostra, con le foto di Fiorella e le parole di Luca. «Quello che ho visto in Samburu è un segnale positivo anche per il nostro Paese», dice lei, «per le comunità africane che ci vivono. Chi parte tende a mantenere nella nuova casa le proprie tradizioni con le unghie e con i denti. È successo anche agli italiani in America. Con le mutilazioni genitali femminili il rischio è che si mantengano». Un rischio che riguarda ottantamila ragazze in Italia. «Eliminarlo è doveroso. E si può. Con questo progetto ci proviamo. È quello che ho capito in questo viaggio. Con tutto il rispetto per i maschi volonterosi e necessari, in Africa sono le donne a mandare avanti le cose. L’Africa è femmina. Come Atlante: teniamo su il cielo. E ci basta poco per ribaltare il mondo». Libri, assorbenti. A proposito di donne in Africa: il primo pensiero di Fiorella Mannoia sul suolo africano? «È andato a Silvia Romano, cooperante rapita in Kenya e prigioniera non sappiamo dove. Una di noi».

·        Fiorella Pierobon.

Roberta Scorranese per corriere.it il 15 giugno 2020.

Non ci credo.

«Ma è vero, ho sessant’anni».

Sempre bellissima.

«Grazie ma è un sollievo, oggi, essere giudicata non per l’aspetto fisico o per la dizione, bensì per qualcosa che faccio con le mie mani».

Sculture e soprattutto quadri. Astratti, materici, dove lei lavora il colore spianandolo, rigandolo e curvandolo con le mani.

«Vede quello? Si intitola “E l’ali d’oro”, citazione dantesca. Lo sa che Dante mette i Cavalieri Templari in Paradiso, mentre tutto il resto del mondo li collocherebbe all’inferno? Guardi invece questa scultura: è dedicata alle donne che si mettevano in viaggio verso i luoghi sacri, spesso da sole: qualcuna non arrivava a destinazione».

Si ispira al Medioevo nella sua pittura.

«Pellegrini, cavalieri, santi. Troppe coincidenze: quando ho deciso di aprile l’atelier a Nizza ho scelto il 31 di Rue Droite, la via degli artisti. Ebbene, mi sono resa conto che sono a cinque metri dalla chiesa intitolata a San Giacomo, il santo dei pellegrini. Tutto questo era dentro di me».

Ma ben nascosto. Per anni. Fiorella Pierobon, di Somma Lombardo (Varese) — anzi per la precisione di Vergiate, paese ancora più piccolo —, gli stessi occhi chiari che dal 1983 al 2003 hanno scritto in lungo racconto televisivo, quello di Canale 5, la rete ammiraglia di Mediaset. Annunciatrice, presentatrice, cantante, «spalla» ora di Mike ora di Corrado, a volte sullo schermo da sola, come in «Rivediamoli».

Un programma che andava in onda al mattino, no?

«Ma lo sa che facevo 12 milioni di telespettatori?»

Caspita.

«Eppure le donne all’epoca erano sempre parte di un racconto maschile, come iscritte in una traiettoria pre definita. E sì che ce n’erano di bravissime: pensi a Milly Carlucci. Non è come oggi, quando anche le conduttrici possono esprimersi più liberamente, la loro testa viene fuori, anche usando i social».

Si andava delineando anche una precisa fisionomia femminile?

«Sì, ma di due tipi e sa come le riconoscevamo? Vedendo passare i facchini dei costumi. C’era il “modello Gino Landi”, dunque alto e giunonico, ma c’era anche il “modello Don Lurio”, minuto e esile».

Le donne cominciarono ad avere un po’ più di spazio con Costanzo.

«Marta Flavi, per dire, per non parlare della grandissima De Filippi».

All’epoca contavano i grandi showmen, dal potere senza fine.

«Poche volte in quegli anni le donne raggiungevano un’autonomia espressiva, molto più spesso ci dicevano che cosa fare, leggevamo copioni. Io sin dall’inizio non volevo fare la televisione: famiglia veneta, molto riservata, studi di ragioneria».

Ma ha cominciato con «TuttoUncinetto».

«Una delle primissime telepromozioni, era il 1977, su Telealtomilanese».

Poi l’approdo a Mediaset.

«Prima Telenord Italia e Canale 51, poi sì, quella che è diventata Mediaset».

C’era già tutto il gruppo che poi sarebbe sfociato in Forza Italia.

«Avevo a che fare con Paolo Romani, gli dissi che cosa non mi andava bene e me ne andai. Ci siamo rivisti dopo tanti anni, penso che ce l’avesse ancora con me».

Una Fiorella «di lotta» più che di governo.

«Dunque, eravamo già a Segrate, c’erano tre bagni per i maschi e uno solo per le femmine, vado a memoria. Ed erano aperti, nel senso che gli uomini potevano usare il nostro. Sai come lo lasciavano! Dissi che volevo le chiavi per permettere alle donne di prenderle all’occorrenza. Minacciai di andare a fare pipì ogni volta a casa mia. Tempo quattro ore e avevo le chiavi».

Tenne testa anche a Berlusconi?

«Certo. Una volta la Rai mi fece una proposta e io semplicemente andai a sentire che cosa volevano. All’uscita mi fotografarono e finii sui giornali, con il titolo: “Pierobon passa alla Rai”. Non era vero, ma il dottor Berlusconi mi incontrò quattro giorni dopo e disse: “Ah, ma allora lei è ambiziosa!”. Capito, lui che dice ambiziosa a me?!»

E, soprattutto, pronunciando questa parola come se fosse un’accusa.

«Poi aggiunse ironicamente: “Lo sa che i cimiteri sono pieni di persone indispensabili?” Io non feci una piega e risposi: “Mi dica adesso, chiaramente e in faccia che io non sono indispensabile”. Non rispose e andò via. Però lui ogni volta che mi ha incrociato, da quella volta, mi ha sempre chiesto pareri, perché sapeva che io dicevo le cose molto chiaramente. Ho sempre chiesto e ottenuto rispetto».

Ambientino.

«Sto raccontando gli eccessi, in realtà Berlusconi è stato un presidente molto abile e capace, interveniva su tutto e voleva scegliere persino i fiori degli studi. Senza contare che a Mediaset ho conosciuto persone importantissime. Però, vede, solo quando ho cominciato a lavorare il colore sulla tela mi sono resa conto che nella mia vita non avevo mai fatto qualcosa di veramente mio.

Usando le mani, la testa, il cuore. Quelli in tv sono stati anni intensi, frenetici, pieni di viaggi. Eppure ora sono felice. Lavoro a Nizza, non in Italia. Lì nessuno mi conosce, eppure i miei quadri vendono in tutto il mondo. Ho partecipato anche alla 54a Biennale di Venezia».

Sembrerebbe che la tv sia stata per lei una prigione.

«Sì, un meccanismo che ti lascia pochissimo tempo per pensare, riflettere, amare. In tanti ne sono rimasti stritolati, ricordo quanta polverina bianca girava. Io però ho radici provinciali, sono rimasta con i piedi per terra, lo ha già visto il mio orto?»

Fiorella Pierobon vive con il marito Alberto Pugnetti e tre cani in una villetta con orto e giardino a Imbersago, a due passi dal fiume Adda, dove c’è il (presunto) traghetto di Leonardo da Vinci. È una casa ordinata e piena di ricordi, con pochi suoi quadri, segno di apprezzabile modestia. Dipinti che hanno una reale forza materica, frutto di una disciplina d’altri tempi, coltivata con impegno e dedizione.

Una vita piena, la sua, quella di oggi. Eppure tutti le chiedono di quando, bionda e vaporosa, leggeva gli annunci in tv.

«Ma lo so, sono un personaggio. Vuole un aneddoto su un ammiratore? Una volta uno mi inseguì con la macchina e mi lanciò delle rose dal finestrino. Vuole un parere su Mike? Che vuole che le dica, un grandissimo professionista ma diomio, zero ironia. Una volta osai quello che nessuno osava in sua presenza: feci una battuta. Calò il gelo. Vuole che le racconti una delle tante avances che mi sono state fatte quando lavoravo in televisione? Una risposta su tutte: ma chi non ne faceva?»

Fiorella, sa che sembra più interessante la sua vita di adesso?

«Perché le vite interessanti sono quelle che hanno qualcosa da dire. In tv leggevo e basta».

Fa anche la radio, RadioFrancigena. Che cosa le manca?

«Non ho scritto libri. Per ora».

·        Fiorello Catena.

Catena Fiorello: «Rosario mi consigliava di cambiare cognome, mi sono rifiutata». Pubblicato domenica, 16 febbraio 2020 su Corriere.it da Valerio Cappelli. L’ «altra» Fiorello si chiama Catena e porta quel nome perché la nonna paterna si chiamava così. Nel film «Picciridda» (tratto dal suo romanzo, in uscita il 5 marzo) di cui lei è sceneggiatrice e Paolo Licata regista, rivive nel personaggio di Nonna Maria (l’attrice è Lucia Sardo).

«Era una donna modernissima, viveva in Sicilia ad Augusta, girava con la bandana, fumava il sigaro, nel 1931 rimase incinta di un uomo sposato e suo figlio, mio padre, non l’ha cresciuto nell’odio dell’uomo che la abbandonò. Ma la vera protagonista del film è un’altra».

Chi?

«Lucia (impersonata da Marta Castiglia), che vive un’emigrazione passiva, come la definisco io. I genitori alla fine degli anni Sessanta partono in cerca di fortuna, e ciò che rimane a lei, una bambina di undici anni, è di aspettare, non ha più il concetto del tempo. Sono bambini segnati, crescono molto timidi o diventano bulli, mai normali, marchiati dal distacco coi genitori. Vive (a parte la nonna) tra parenti porci, il compare che palpa, tocca, molesta, stupra. Ne conosco tanti di racconti così».

Ma è una storia vera?

«No, ma ne raccoglie tante ascoltate negli anni. Da ragazzina in estate vedevo gli emigranti che tornavano dalla Svizzera e dalla Germania con l’auto carica, gli sterzi foderati con pellicce di leopardo, i portafortuna che pendevano dagli specchietti. Avevano il loro mondo. E i figli spesso li lasciavano in Sicilia».

Ora parliamo di lei.

«Ho condotto dignitosamente programmi, ma non ho fatto niente per fare tv, consapevole che era pericoloso perché domani avrebbero detto che sono raccomandata dai due fratelli famosi. Rosario mi consigliò di usare lo pseudonimo, gli risposi: il nostro cognome ce l’ha dato papà. I libri mica me li scrive Fiorello, né lo porto alle presentazioni. In Italia si vive sulle raccomandazioni, non si può credere che uno possa andare per la sua strada. Ci ho messo otto anni a fare questo film, perché è cinema d’autore e non una commedia ridanciana. Oliver Stone al Festival di Taormina mi disse: mi porterò dietro l’intensità dello sguardo della Picciridda».

Lei cominciò accanto a Rosario.

«Vent’anni insieme. Si creò un vuoto, lui “lasciò” Cecchetto, mi chiese di dargli una mano come assistente. Andavo in banca per lui, gli facevo la spesa e da avvocato... Eravamo come una ditta. Mi sono divertita, ho imparato tutto da mio fratello. Ero specializzata nei “no”. Mike Bongiorno voleva fare un programma negli Stati Uniti con Rosario, che ha la fobia degli aerei, non sapevo come dirglielo. Mike fu comprensivo».

Cosa pensa di suo fratello a Sanremo?

«Ha partecipato a una festa per celebrare il suo amico Amadeus. Poi, la vera modernità sarà quando noi donne non saremo costrette a fare i monologhi per dire: guardate che ci siamo anche noi. Se Rula Jebreal deve raccontare quella bella storia drammatica per attirare l’attenzione, tutta questa parità non c’è. E se Diletta Leotta dice che la bellezza è un dono, non aggiunge qualcosa alla buona causa delle donne. Quanto al Festival, ci ricorderemo del look di Achille Lauro e amo il vincitore Diodato, ma le canzoni eterne sono quelle di De André e di Mina».

Lei è competitiva?

«No, non ce l’ho ‘sta cosa, lascio tutto al destino. Una cosa rimprovero a tanti critici: se i miei fratelli gli stanno antipatici, senza nemmeno sapere cosa c’è scritto stroncano i miei libri. Si fanno le recensioni tra di loro, si autocelebrano, non accettano che in famiglia tre persone facciano lavori diversi nello spettacolo. E allora i figli di Ugo Tognazzi? Io sono felice di essere una outsider».

Ha detto che i suoi fratelli sono maschilisti.

«No, hanno frainteso. Dico che la società è maschilista. Beppe si infastidisce se parliamo di noi tre e blocca in partenza le domande. Io rispondo: vuoi sapere cosa facevamo da ragazzi? Quello che facevi tu, con tuo fratello e tua sorella. Ma io sono quella di mezzo, poi c’è mia sorella Anna che ha un negozio di ceramiche siciliane a Roma, ed è una artista a suo modo».

·        Fiorello Rosario.

Novella Toloni per il Giornale il 13 febbraio 2020. Mentre Amadeus rimanda la risposta alla domanda su un suo possibile Sanremo bis, Rosario Fiorello mette la parola fine ai rumors: "Non lo farò mai da presentatore, mi snaturerei". A pochi giorni dalla chiusura del Festival di Sanremo più seguito e redditizio dell’ultimo decennio, i protagonisti della kermesse fanno i primi bilanci e tirano il fiato dopo il tour de force sanremese. Tra loro c’è Fiorello, il cui ruolo di ospite fisso si è spesso mischiato e confuso con quello di conduttore, che - intervistato da "La Repubblica" – ha spiegato: "Ho fatto di tutto: sono uscito come prete, come De Filippi, come coniglio e De Filippi insieme, ho inseguito Morgan che inseguiva Bugo che inseguiva Morgan. Un festival irripetibile. Anche se lo facessimo di nuovo io e Amadeus, replicare le stesse sensazioni sarebbe impossibile". Impossibile dunque replicare qualcosa che rimarrà unico come gli ascolti, i colpi di scena e le polemiche (tante, forse troppe) che hanno accompagnato la 70esima edizione del Festival dal mese di agosto fino alla chiusura. Fiorello, con la sua solita ironia, ipotizza un Sanremo bis solo in veste di cantante: "Non escludo di tornarci come cantante in gara per la libidine di fare tre minuti a sera e respirare l'atmosfera senza fare l'ospite. Canto e vado al ristorante a seguire il festival". Nell’intervista rilasciata da Fiorello al quotidiano c’è spazio non solo per parlare di Sanremo, che lo ha reso protagonista di un’edizione da record, ma anche per fare il punto sulla sua carriera professionale, a pochi mesi da un altro traguardo importante, i suoi 60 anni: "Ogni tanto penso: ho un'età ma è possibile che cambi solo il fisico? Qui non invecchia più nessuno. Una volta a Ibiza la signora delle pulizie entrò nella mia stanza e esclamò: 'Madre de Dios', perché non usavo l'armadio, buttavo le cose ovunque. Sono cambiato solo professionalmente, sono puntualissimo, controllo tutto: sono cresciuto nel lavoro, nella vita meno". Dal suo spettacolo "Viva Raiplay" in streaming al Festival di Sanremo, l'ultimo anno per Fiorello è stato ricco di successi ed emozioni. Lo showman siciliano, però, ha confessato di aver rifiutato anche una proposta importante a Hollywood: "Non m'interessa avere più successo di quello che ho. Sanremo mi va benissimo".

I 60 anni di Fiorello festeggiati da Claudio Cecchetto. Lo showman più amato, Fiorello, compie 60 anni, e viene festeggiato anche a Live Non è la D'Urso con la presenza del suo primo produttore e scopritore Claudio Cecchetto. Roberta Damiata, Lunedì 18/05/2020 su Il Giornale. Fiorello compie 60 anni e la sua grande carriera viene festeggiata da tutti perché è proprio da tutti, considerato uno dei più grandi mattatori italiani, degno erede, di Mike Bongiorno, proprio come Mike le aveva detto. A festeggiarlo in maniera molto particolare arriva a Live non è la D’Urso, Claudio Cecchetto, per anni il produttore di Fiorello e di tanti altri personaggi del mondo dello spettacolo come Jovanotti e Amadeus. Per lui un lungo video sul viale dei ricordi di tutta la vita di ‘Fiore’, ime viene chiamato da tutti. A cominciare proprio dalla sua nascita e da quel suo irrefrenabile desiderio di divertirsi e di far divertire che lo fa arrivare nei villaggi vacanze come animatore. Era il 1985 e in una vecchia intervista lui stesso racconta di essere addirittura partito come cuoco per poi diventare animatore. E poi ancora i primi passi nel mondo dello spettacolo, quando Claudio Cecchetto nel 1989 lo prende sotto la sua ala protettrice e lui comincia il suo percorso, insieme ad Amadeus che ritroverà poi quest'anno sul palco dell'Ariston. Con lui approda a Dee Jay Television che cominciano a farlo apprezzare dal grande pubblico come irresistibile mattatore. Ma nel lungo filmato, non ci sono solo momenti belli, ma anche tristi come quello della morte dell’amatissima padre che lascia un segno profondo nella sua anima. Arriva il ’92 e comincia il grande fenomeno del Karaoke che lo porta in giro per tutta l’Italia. Un successo davvero enorme che fa conoscere Fiorello tanto da portarlo a vincere il Telegatto, e lo fa diventare uno dei personaggi televisivi più amati. Presenta poi il Festivalbar insieme a Federica Panicucci e arriva a “Non è la Rai” ma soprattutto a Sanremo con il brano “Finalmente tu” che non vince la gara ma diventa una grande hit per tutta l’estate. La tv diventa quindi il suo regno e nel ’96 arriva a Buona Domenica presentata da Maurizio Costanzo. Diventa così uno dei più grandi showman italiani, e approdato in Rai con uno spettacolo “One man show”, riesce a fare ascolti stellari. Amatissimo da Pippo Baudo, Mike Bongiorno che vedono in lui un loro naturale erede, le sue imitazioni diventano dei veri tormentoni. Memorabili il suoi balletti con John Travolta e con Michael Bublé, e poi ancora premi fino ad arrivare ai programmi radiofonici di grandissimo successo e all’ultimo Sanremo che lo ha visto riunirsi sul palco insieme ad Amadeus. Insomma sessanta anni vissuti sempre sulla cresta riuscendo a fare forse la cosa più difficile per un personaggio del mondo dello spettacolo: quello di far sorridere e portare sempre il buonumore alla gente.

"Caro Fiorello, a 60 anni non vorrai mica ritirarti? La pensione non fa per te". Il produttore lo lanciò a Radio Deejay nel 1989 "È pigro, poteva essere famoso nel mondo". Laura Rio, Venerdì 15/05/2020 su Il Giornale. «Purtroppo non gli posso restituire il bellissimo regalo che mi ha fatto per i miei 60, 8 anni fa: una sorpresa a casa mia, si è fatto trovare con i vecchi amici, Jovanotti, Max Pezzali, Gerry Scotti Il virus ce l'ha impedito, ma ci rifaremo presto». Claudio Cecchetto, il fondatore di Radio Deejay e Radio Capital, che ha scoperto e lanciato Fiorello, che ha intuito la sua natura travolgente e l'ha incanalata nel mondo dello spettacolo, può festeggiare il mattatore solo a distanza. Domani Fiore spegne 60 candeline, le condivide virtualmente con i milioni di fan che lo adorano. E, ovviamente, ci scherza su: «Quand'ero piccolo pensavo che i sessantenni fossero quasi morti, adesso ce li ho io, ma mi sento ancora in forma».

Cecchetto, cosa augura al suo «ragazzo»?

«Spero smentisca una delle ultime cose che ha detto: ritirarsi e andare in pensione dopo il prossimo Sanremo (ancora con Amadeus). Lui non può lasciare, deve continuare a regalare allegria alle gente».

Che è la sua più grande qualità.

«Si, la sua mission è sempre stata cercare di rendere felici le persone, di mandarle a casa contente dopo averlo visto. Vive dell'entusiasmo degli altri».

Ed è il motivo per cui lo ingaggiò a Radio Deejay.

«L'avevo incontrato nell'82 in un villaggio vacanze a Brucoli, in Sicilia, dove faceva l'animatore, mi rimase impresso per quanto era divertente. Mi tenne compagnia per tre giorni mentre registravo una sigla del Telegattone. Anni dopo, nell'89, venne in visita da noi in radio, accompagnato da Bernardo Cherubini, fratello di Jovanotti, ma non cercava lavoro, gli avevano detto che giravano tante belle ragazze».

E invece.

«Mi ricordai di lui. Andammo a mangiare insieme, era spigliato, brillante. Dopo due minuti che eravamo nel locale già cantava con la band che stava suonando. Gli proposi di restare con noi. Lui era titubante perché non aveva un posto dove dormire a Milano, gli misi a disposizione una casa. Dovevo però trovare qualcosa di adatto a lui che non era un deejay».

E l'idea le venne con il disco Veramente falso.

«Lui saliva le scale della radio cantando, perché gli piaceva sentire l'eco. Allora ho pensato di sfruttare le sue doti, realizzando una compilation con le cover dei più grandi cantanti italiani era un taroccamento, come si faceva allora, ma dichiarato. È stato un successo tanto che poi abbiamo fatto anche Nuovamente falso».

Lo conosce da tre decenni, è cambiato?

«No. Non molto. È la stessa persona che ho incontrato da giovane, semmai un po' più esperta, più consapevole delle sue capacità. Un tempo era sì un'esplosione di energia, come ora, ma non sapeva quale fosse il suo talento. Adesso vedo che sa come comportarsi ed è anche buon manager di se stesso».

Invece da giovane era incontenibile.

«Aveva bisogno di essere seguito, di indicazioni per realizzare i suoi sogni. Era molto irruente, si buttava di prepotenza nelle situazioni. Gli dicevo: entra delicatamente nella vita delle persone e vedrai che poi ti capiscono. Se vai a un matrimonio e fai lo show, rubi la scena agli sposi».

Anche a Radio Deejay accadde così.

«Infatti nacquero forti competizioni con i colleghi. Mentre funzionò perfettamente la coppia con Marco Baldini, perché accettò di fare da spalla».

Una coppia storica.

«Ci credevo così tanto da chiamare il programma Viva Radio Deejay. Un rischio: pensate se non avesse avuto successo, che figuraccia con quel Viva E invece è stato un'apoteosi e poi Viva Fiore l'ha usato per tanti suoi show, da Radio 2 a RaiPlay. Tutto quello che ha realizzato dopo l'ha sperimentato nella mia radio».

Dopo è arrivato il karaoke, il bagno di pubblico, ma anche il periodo difficile, la follie, i programmi sbagliati, la dipendenza da lui rivelata anni dopo.

«Io non sono mai entrato nelle sue vicende private. Purtroppo sono venuto a sapere dei suoi problemi tardi: non ero il suo manager, ma il suo talent scout. Lo incasellarono in alcuni show non adatti a lui. È stata una sorpresa per me la sua decisione di lasciare Milano per Roma, fu un dispiacere perché era un tassello importante del nuovo network Radio Capital. Il tempo mette a posto ogni cosa».

E l'amicizia si è conservata. Com'è Fiore con lei nel privato?

«Come lo si vede in pubblico, davanti alle telecamere. Non finge. Una caratteristica di tutti i talenti che ho lanciato: Jovanotti Pezzali, Gerry Scotti».

Un difetto ce l'avrà.

«È apprensivo, perché vuole sempre rendere al meglio e fa fatica ad accettare le critiche come se ne bastasse una per rovinare il suo lavoro. E poi, si sa, è un po' pigro. Se avesse voluto, ora sarebbe famoso in tutto il mondo. Una volta eravamo a una convention di russi: li ha fatti sbellicare dalle risate pur non sapendo una parola di russo, usando solo il linguaggio di Fiorello».

Rivoluzione Fiorello. Pubblicato domenica, 29 dicembre 2019 su Corriere.it da Renato Franco. Lo showman e il successo di «VivaRaiPlay!»: «L’esperienza più bella della mia carriera. Vado a Sanremo per divertirmi: Amadeus generoso e affidabile, io stavo in discoteca a Ibiza. The show must go off. Il paletto della nuova frontiera televisiva lo ha piazzato Fiorello con il suo show live, ma anche on demand, perché il palinsesto è diventato liquido, guardi quando vuoi, in streaming o off line. Il suo VivaRaiPlay! è stata una maratona di 23 puntate, 30 ore di tv, in pratica il Telethon del varietà. Fiorello è stato anche celebrato da Variety, che nel mondo dello spettacolo vale come una menzione sulla Bibbia. «Bellissimo pezzo, l’ho letto tutto d’un fiato... Ma non c’ho capito niente, poi mia moglie me lo ha tradotto! Che figata, sono finito su Variety come Clooney».

A esperienza finita che voto si dà?

«Io mi darei sempre 2, non sono un tipo facile. Però so una cosa: è stata l’esperienza più bella della mia carriera. E adesso che è finita mi dico da solo che sono stato scemo ad accettare».

Perché scemo?

«Per il mio carattere: sono tremendamente pigro, sono un figlio del divano. Già fare 4 puntate su Rai1 una volta alla settimana per me era uno sforzo incredibile. È andata a finire che ho cucinato 3 puntate a settimana, di fila per giunta. Eravamo partiti da 50 minuti e siamo arrivati a 1 ora e 40. Per non farmi mancare niente ho proposto pure la striscia mattutina di VivaAsiago10! Un deficiente proprio...».

Ha detto sì a RaiPlay, ma avrebbe detto no a Rai1: perché?

«Quando Salini (l’amministratore delegato Rai) mi ha chiamato pensavo mi offrisse il “solito” varietà del sabato sera di Rai1. Invece mi ha parlato di RaiPlay e in 5 secondi ho accettato. È stata una spinta a cambiare, i tempi erano serrati, era tutto più veloce. È più bello avere meno tempo, ma fare più cose, tanti momenti di spettacolo che si possono tagliare in piccoli contributi da far girare sul web».

È economicamente sostenibile per la tv generalista un modello di business di questo tipo? Non rischia di diventare pericoloso fare uno show importante che poi viene cannibalizzato in pillole?

«Siamo nel 2020, le cose cambiano: abbiamo device, tablet, cellulari; la strada è questa».

Oltre 15 milioni di views per «VivaRaiPlay!», una crescita del 40% in termini di visualizzazioni dell’intera offerta on demand. E non c’era nemmeno l’ansia degli ascolti...

«Quell’ansia me la sono dimenticata proprio. E questo ha dimostrato che la preoccupazione per l’Auditel nuoce tantissimo alla qualità di un programma perché a volte fai delle scelte artistiche pensando solo agli ascolti. Magari non lo ammetti, ma è così: pensi che una cosa possa piacere solo a te, pensi che se inviti un certo tipo di ospite su Rai1 fa il 3% di share. Qui non ci ho mai pensato: erano tutti uguali, non c’erano ospiti di Seria A e di serie B».

Lei è riuscito a far cantare «Heidi» a Venditti e «Viva la pappa col pomodoro» a De Gregori. Come si convincono artisti con una storia importante a essere autoironici?

«Non si convincono... Io ho i miei sistemi, le mie tattiche anche psicologiche. Non chiedo mai niente prima e alle prove li prendo alla sprovvista, con il microfono in mano: quale sarebbe la canzone che non canteresti mai sotto tortura? Poi ci aggiungi un po’ di vinello e due sigarette... Del resto Venditti è così: se non gli dai un po’ di nicotina si blocca. Sono entrati in questo clima e avrebbero fatto qualunque cosa».

Una volta c’era chi mescolava alto e basso, ora bisogna contaminare gli adulti con i giovani, mettere insieme il fenomeno di TikTok con Piero Angela?

«Esatto. L’obiettivo era portare il pubblico della generalista sulla piattaforma di streaming, però questo ha contribuito a far arrivare anche i giovani, perché se invito Calcutta e Coez si incuriosiscono anche loro. Questa contaminazione tra classico e moderno ha funzionato. In una puntata c’erano Brunori Sas, Piero Angela e pure Gianluca Vacchi, che a molti non piace: io invece prendo tutto, senza nessuno snobismo. Penso al varietà nel vero senso della parola: uno spettacolo che mette in scena una varietà di cose».

Tra poco più di un mese c’è Sanremo: non è che ha cambiato idea e va a farsi un giro in bici in Perù con Jovanotti?

«Nooooo. Come ha detto Amadeus ce lo eravamo ripromessi 30 anni fa, quindi vado con assoluto piacere. Spero di avere ancora lo stesso atteggiamento che ho avuto con VivaRaiPlay!. Io mi preoccupo sempre, invece vorrei andarmi a divertire. Che paura dobbiamo avere? In fondo stiamo facendo solo spettacolo...».

Qual è la qualità umana di Amadeus che vi ha fatto diventare amici?

«Quella che potrebbe essere un piccolo difetto: è buono, buono, buono. Un bella persona, generosa. Se avessi fatto io Sanremo me ne sarei andato in un eremo; lui no, bello tranquillo ha fatto Sanremo giovani e Telethon, sarà in onda a Capodanno, continua a condurre i Soliti Ignoti, e poi andrà al Festival. È un grande professionista; ai tempi di Deejay era il solo di noi su cui Claudio Cecchetto potesse fare affidamento: il programma lo portava sempre a casa. Se lo dava in mano a me o a Jovanotti, capirai... io stavo fisso in discoteca a Ibiza».

E dopo Sanremo?

«Dal 17 febbraio torno a fare VivaAsiago10! su RaiPlay. È lo spirito di Edicola Fiore con un registro diverso. Lì c’erano gli avventori del bar, qui ci sono dei professionisti: Fabrizio Biggio, Mauro Casciari, Danti, Phaim Bhuiyan (il regista e attore di Bangla)».

Deve dire anche grazie a sua moglie Susanna...

«Non sono uno facile, se una cosa non è andata come volevo io, rimugino, sono nervoso. Io so che torno a casa e trovo una persona che mi capisce: non potrei fare quello che faccio senza questa serenità che dura da 24 anni. Dietro un grande ansioso c’è sempre una grande Susanna».

·        Flavio Briatore.

Arianna Ravelli per il “Corriere della Sera” l'8 aprile 2020. Compiere gli anni (70) ai tempi del virus. In un altro momento Flavio Briatore forse avrebbe organizzato una di quelle feste epocali amate dai giornali di gossip, oppure si sarebbe concentrato ancora di più sul lavoro, sul suo gruppo di mille dipendenti, e avrebbe fatto finta di niente. «Che traguardo è? Uno di quelli che non vorresti tagliare, se mi dicessero che c' è una strada per scartarlo la prenderei subito».  Oggi però assume tutto un altro significato, il momento giusto per fare un po' di ripasso («In F1 ho vinto 7 mondiali in 18 anni, non male») e per inquadrare un futuro complesso. «Oggi la sfida è restare vivo e salvare i posti di lavoro», ride ma solo un po'. «Ma forse io il virus l' ho già avuto, sono stato male a dicembre, il dottor Zangrillo mi ha detto che può essere».

Che fa chiuso in casa?

«Videoconferenze con i miei collaboratori. Sono a Montecarlo, sto molto di più con mio figlio Nathan Falco, che ha 10 anni. Anche Elisabetta (Gregoraci, ndr ) è qui, ce lo godiamo».

Cosa racconta a suo figlio?

«Che lui è molto fortunato, che non tutti hanno le sue possibilità, c' è chi vive in 40 metri quadrati. È importante spiegargli i valori: io ho fatto molta più fatica di lui, però lui dovrà comunque impegnarsi al massimo. A parte che se non sarà all' altezza, ci sarà chi lo controlla».

Il suo è uno dei settori più colpiti.

«Sì, tutti i Paesi in cui abbiamo ristoranti sono chiusi. In Italia stavamo per iniziare le assunzioni degli stagionali. Ma è una catastrofe per tutta l' economia. Così in qualche mese la Cina comprerà tutte le migliori aziende italiane. Il virus ci costringerà a cambiare ragionamenti».

In che senso?

«È necessario precedere il virus, non inseguirlo. Ora dobbiamo cominciare a ragionare col virus, conviverci. Dobbiamo minimizzarne l' impatto perché la nostra vita è cambiata per sempre».

Una cosa che le istituzioni dovrebbero fare subito.

«Parlare con una voce unica, politica e dottori. Non destabilizzare le persone. Abbiamo fatto molti errori, come far circolare il virus. C' era l' esempio della Cina, ci siamo fatti trovare impreparati».

Anche il suo amico Donald Trump ha sottovalutato, no?

«Non lo sento da mesi, ma certo anche lui, come noi, come Macron, come Johnson.

Se sarà rieletto? Penso di sì, non ha oppositori seri».

Ormai parla più di politica che di F1.

«La F1 è lontana».

Le manca?

«Mi manca gestire un team, avere continue decisioni da prendere, è una sfida continua. L' altro giorno con Alonso abbiamo ricordato il Gp del Brasile quando pioveva ma abbiamo deciso di partire con le gomme da asciutto, ho detto "se lo dico ad Alonso non parte". Lo ha scoperto che era in macchina, aveva due occhi spalancati: "Ma qualcun altro fa come noi?", "Il tuo compagno di squadra". Era ultimo, è arrivato terzo».

A chi è legato della F1?

«Veramente mi hanno fatto la guerra tutti. Io sono entrato con la Benetton, eravamo quelli che facevano i maglioni. Per me la F1 era un prodotto come un altro. Poi ho vinto Gp con tre team, Benetton, Ligier e Renault, e 7 Mondiali in 18 anni. Ma invece di dirci bravi, qualcuno mi ha odiato tutta la vita come Mosley, l' ex presidente della Fia. Poi mi ha aiutato Ecclestone, e abbiamo fatto cose buone con Montezemolo, quando con la Fota ci siamo opposti a Mosley: nel 2009, abbiamo riunito in fabbrica da noi tutti i team principal alle due del mattino».

Per l' incidente a Singapore di Piquet jr deciso a tavolino lei è stato fatto fuori.

«Mosley me l' aveva giurata. Mi hanno incolpato di tutto, ma poi sono stato riabilitato da un Tribunale di Parigi».

È stato vicino alla Ferrari?

«Qualche chiacchiera con Giraudo, ma no. La Ferrari è un po' il sogno di tutti, non penso sia complicato gestirla. Quando c' era Alonso c' è stato qualche contrasto con Mattiacci: la colpa era sempre di Fernando. Continuo a non capire come la Ferrari non vinca: ha i finanziamenti, ha la storia, ha meccanici bravissimi, credo che manchi un raccoglitore di tutto».

La carriera di Alonso non le lascia molti rammarichi?

«L' unica cazzata è stata andare in McLaren. Il grosso rimpianto è la Ferrari, ha perso due Mondiali non per colpa sua. Il primo, nel 2010, era già vinto e c' è stato l' errore del muretto. È stata una botta troppo dura, non avevo mai visto Fernando piangere. Sarebbe cambiata la storia della F1, l' anno dopo con una motivazione incredibile avrebbe vinto ancora, Domenicali e Montezemolo sarebbero rimasti. Dopo quell' episodio sono nate le incomprensioni. Ma io avevo capito...»

Che cosa?

«Si era cominciato a festeggiare troppo. Mi era successo anche con Schumi. Convinti che avrebbe vinto il Mondiale a Suzuka, avevano organizzato una festa con tre tonnellate di ostriche e gamberetti. Non vincemmo: ci siamo ritrovati in tre tra i gamberetti, io, Schumi che non parlava e il suo manager».

Il podio dei migliori piloti di adesso.

«Hamilton, poi Verstappen e Leclerc».

E dei suoi tempi?

«Senna e Schumi assieme, poi Fernando: avessi un team io lo prenderei, un rottweiler, fisicamente intatto».

La F1 di Briatore sarebbe più vicina a quella di Ecclestone o a quella di Liberty?

«50 e 50. Con Bernie ho fatto guerre sulla comunicazione, ma con lui un problema lo risolvevi in tre minuti. Ora manca un capo».

La F1 sta introducendo il budget cap, vecchia idea.

«Sempre detto, tutto quello che non si vede deve essere uguale. Più ci sono macchine simili, più emergono i piloti migliori, più i team medi possono concorrere, essere competitivi. Il budget cap lo fai non fissando una cifra, ma col regolamento: tot alettoni, tot ore di gallerie del vento. E le gare devono essere più brevi, due da 40 minuti».

Adesso che ha 70 anni...

«Ancora... Se penso a come mi sembrava vecchio mio nonno a questa età. Mi consola il mio amico Bernie che diventerà papà a 89 anni».

Gli ha fatto i complimenti?

«La gente giudica, ma ora Bernie sa che il figlio farà compagnia a sua moglie quando non ci sarà più».

Confessi il ricorso al chirurgo estetico.

«Ci sono andato solo una volta, 8 anni fa, per il doppio mento, ma nient' altro».

Che voto dà ai suoi 70 anni?

«Per dare un voto devi vedere da dove uno parte. Io sono partito da Verzuolo, un paesino sconosciuto, e da niente. Quindi mi do un bel voto, 7 e mezzo».

·        Francesca Brambilla: "Bonas".

Francesca Brambilla confessa: "Lavorare ​con Bonolis un privilegio ma ora sogno altro”. La showgirl bergamasca si è raccontata a tutto tondo in un’intervista esclusiva tra progetti futuri, amori e amicizie nate sul set di "Avanti un Altro". Poi ci ha svelato di aver vissuto momenti di terrore per una tentata rapina avvenuta poche settimane fa. Novella Toloni Venerdì 13/03/2020 su Il Giornale. Ogni sera, da ormai cinque anni, Francesca Brambilla entra nelle case degli italiani grazie al programma preserale di Paolo Bonolis "Avanti un Altro". Bella, ironica e solare, Francesca, classe 1992, è uno dei volti della televisione italiana, amata e apprezzata per le sue forme generose e per la sua simpatia. Come Bona Sorte ammalia e diverte nel quiz di Canale Cinque da diverse edizioni, ma nel suo futuro la showgirl bergamasca sogna un programma comico e, perché no, un reality dove mettersi alla prova. Amante della musica e dello sport, Francesca Brambilla si è raccontata in un’intervista esclusiva al IlGiornale.it (mentre si trova all'estero per difendere la madre malata dall'emergenza coronavirus) tra sogni e progetti, vecchi flirt (tra i quali anche il rapper e produttore Gue Pequeno) senza però mai rinunciare ai suoi principi perché, confessa: "Non mi spoglierò mai per nessuna cifra, non mi interessa questo tipo di popolarità preferisco averla in altri modi".

Sei la Bona Sorte di “Avanti un Altro”, com’è lavorare con Paolo Bonolis?

"Lavorare con Paolo è bellissimo, ormai sono cinque anni che lavoro con lui e il primo anno facevo l’aliena e poi l’anno dopo sono diventata la Bona Sorte. Lavorare con Paolo è sempre una novità. Quando esco in scena c’è sempre un po’ di agitazione perché lui è molto imprevedibile e non si sa mai cosa ti possa dire, ma questa cosa ti rende più pronta e ti prepara di più per altre situazioni televisive. É un ottimo insegnante, abbiamo creato una bellissima famiglia, andiamo tutti d’accordo, però la cosa che preferisco sono le gag che abbiamo creato io e Franco (Pistoni ndr), lo "Iettatore". Abbiamo la nostra pagina su Instagram, che si chiama i "Brambistoni", dove facciamo video divertenti, spontanei e non preparati. Questa è la parte più bella del programma perché con Franco abbiamo creato questo rapporto di amicizia fantastico che rende tutto più bello lì dentro".

Nel programma c’è anche Sara Croce, che veste i panni della “Bonas”, come sono i vostri rapporti? Siete amiche?

"Sara è molto giovane, siamo anche in camerino insieme quindi ho cercato un attimo di “darle qualche consiglio” essendo in un mondo di serpi e volpi. Lei è molto ingenua, passami il termine, come me ma ormai io ho capito come comportarmi e come trattare le persone nel nostro ambiente, che come tutti sappiamo, non è facile. Siamo amiche sì, anche fuori dal lavoro si è creato un bel rapporto e spero che faccia le scelte giuste e arrivi dove merita. Lei è bella fuori quanto dentro".

Sei stata anche coniglietta per Play Boy, ci racconti?

"Mi hanno proposto di fare la copertina di "Play Boy" e "Maxim" ma non ho mai accettato perché non ho mai voluto spogliarmi e non mi spoglierò mai per nessuna cifra e per nessuna rivista anche se, ripensandoci, se lo avessi fatto ora sarei diventata molto più famosa. Ma non mi interessa questo tipo di popolarità preferisco averla in altri modi, essendo comica, facendo ridere la gente, pubblicando cose simpatiche che rispecchiano di più la mia persona. Ho fatto diversi eventi da coniglietta di Play Boy sempre vestita con il vestito da coniglietta e ho posato anche per GQ ma sempre vestita e anche per Maxim; tutte cose in cui io non mi sono mai spogliata e sempre in presenza dei miei genitori. Bellissime esperienze e mi sono divertita ma non sono per il nudo".

Una ragazza all’antica insomma.

"Sì, mi sento così, credo nell’amore, nei principi, tutte cose un po’ dimenticate".

Progetti futuri in campo lavorativo? C’è qualcosa che ti piacerebbe fare nel mondo dello spettacolo?

"Mi piacerebbe tantissimo fare un programma comico come "Colorado" o "Love Bugs" che c’era anni fa, sempre insieme a Franco. Mi piace stare ad "Avanti un Altro" però ormai sono cinque anni e avrei voglia di cambiare un po’. Mi è servito e ringrazierò il programma e tutta la produzione per la visibilità che mi ha dato però sento che ora devo fare un cambiamento nel mio percorso professionale. Mi piacerebbe anche far "L’Isola dei Famosi" o il "Grande Fratello" non tanto per il reality in sé ma anche per una prova con me stessa, una sfida dove posso pensare, stare da sola, senza il telefono. Mi piacerebbe mettermi alla prova in questo modo".

Di recente, sui social, hai scritto di essere single ma sapevamo che eri fidanzata, cosa è successo?

"Sì, sono single da pochi mesi e ho avuto una relazione di un anno con un ragazzo del quale ero innamoratissima. Era tutto perfetto, lo avrei sposato domani però è finita male e ancora non mi sono ripresa. Ora voglio solo starmene sola e voglio dimenticare questa cosa anche se è difficile. Sono single però sono innamorata, quindi non ho la testa libera per avere altre conoscenze. Una storia che mi ha fatto male ma ora voglio pensare solo a me e al mio lavoro".

Alcune tue love story sono state molto chiacchierate. Tra i tuoi fidanzati si dice ci sia stato anche Gue Pequeno?

"Con Gue ho un bellissimo rapporto, siamo rimasti molto amici. Lui è una persona molto intelligente, ci siamo sentiamo spesso. Mi piace molto di lui il fatto che mi conosca da quando ho 17 anni, da prima che diventassi conosciuta, quindi non ha pregiudizi su nulla, anzi. Mi sento sempre molto tranquilla con lui ormai siamo davvero molto amici".

Hai avuto una storia d’amore anche con Max Colombo, l’attuale compagno di Karina Cascella….

"Di Max non voglio parlare, sono felice che sta con lei, li vedo bene insieme e questa è la cosa più importante di tutte, non provo rancore per nessuno, anzi".

Prima di partire per l’Egitto, hai subito un furto nella tua auto, un episodio di criminalità che non è rimasto isolato?

"Roma sta diventando invivibile, dopo il furto in macchina, cinque giorni dopo mi hanno rapinata. Mi hanno inseguita che rientravo da un ristorante. Alcuni rumeni mi hanno inseguita, pedinata, sono scesi dall’auto per venire da me e sono riuscita a scappare in hotel. Due ore dopo sono tornati, ho sentito l’allarme dell’auto suonare. Mi hanno spaccato ancora tutti i finestrini e hanno cercato di rubarmi l’auto. È stato terribile perché li ho visti pure in volto. Anche per questo sono subito partita, ho il terrore addosso. Il tutto sotto l’hotel dove vivo a Tivoli da 5 anni!! Sicurezza zero".

Sfondano l'auto della "Bonas" Francesca Brambilla e rubano tutto: "Sono sconvolta". Brutta disavventura per valletta di "Avanti un Altro" che, martedì sera, è stata vittima di un furto in pieno centro a Roma, documentato attraverso i social network. Novella Toloni, Giovedì 06/02/2020 su Il Giornale. "Sempre peggio l'Italia. Ma dove finiremo...dove!", è il duro sfogo della soubrette Francesca Brambilla che, nella serata di martedì, ha subito un furto in pieno centro a Roma. La "Bona Sorte" del programma di Canale Cinque "Avanti un altro" ha raccontato lo spiacevole episodio vissuto in prima persona nelle storie del suo account Instagram, pubblicando anche alcune fotografie dei danni riportati alla sua auto. Francesca Brambilla, 28 anni di origini bergamasche, da due anni affianca il conduttore Paolo Bonolis nella trasmissione preserale di Canale Cinque. Nel suo ruolo di "Bona Sorte" la Brambilla ha conquistato l'affetto del pubblico che la segue numeroso anche sui social network. Nelle scorse ore, però, la showgirl 28enne è stata vittima di un furto mentre si trovava in pieno centro a Roma per degli appuntamenti. A raccontare quanto accaduto è stata lei stessa attraverso il suo profilo Instagram con una serie di immagini di quanto accaduto. "Questa è la sicurezza del centro di Roma - ha polemizzato la Brambilla sul social network, pubblicando le foto del suo suv danneggiato dai ladri e dei vetri infranti - ero in centro e mi hanno rubato tutto quello che avevo in macchina. No comment". Secondo una prima ricostruzione, Francesca Brambilla si trovava nel centro cittadino capitolino intorno alle 20.30 quando, ignoti, hanno sfondato il finestrino posteriore del suo suv, rubando tutto ciò che si trovava al suo interno. Via uno zainetto personale con oggetti di valore e anche alcuni indumenti della bella showgirl che si trovavano all'interno del veicolo. L'episodio ha lasciato un senso di profonda impotenza in Francesca Brambilla, che su Instagram si è sfogata: "Comunque sono sconvolta, ore 20.30 in centro a Roma. E nessuno ha visto nulla? Mah....Questa è la sicurezza del centro di Roma". Dopo aver pubblicato le foto dei danni alla sua auto, la Bonas ha poi fatto un accorato appello ai suoi follower per cercare di ritrovare alcuni preziosi a cui lei era particolarmente legata. La showgirl bergamasca ha pubblicato le foto di alcuni bracciali di valore affettivo - che le erano stati regalati anni fa dai nonni - e dello zaino trafugato, chiedendo aiuto ai fan: "Offro un'enorme ricompensa a chi riesce a recuperarmi i miei effetti personali, che mi sono stati rubati ieri dalla macchina a Roma. Almeno gli oggetti che mi erano stati regalati dai miei nonni".

·        Francesca Calissoni.

È figlia di Anna e sorella di Giorgio, rapiti nel 1983. «Un giovanotto mi arruolò a casa di Clara Agnelli: era Gianni Versace». Sono la ribelle dei Bulgari fuggita da papà a 21 anni. Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 su Corriere.it da Stefano Lorenzetto. Alla costumista di Sotto il vestito niente, che ebbe come testimone di nozze il regista Carlo Vanzina, si solleva per sbaglio la manica della camicia: il polso sinistro reca tatuata una «v» maiuscola, quella che nel marchio di Bulgari rappresenta la «u». «Nessun legame: è il numero romano del mio giorno di nascita», si affretta a precisare Francesca Calissoni, eclettica pi erre. Non si può dire che la secondogenita di Anna Bulgari abbia mai approfittato del cognome di sua madre, l’erede della dinastia di gioiellieri che il 19 novembre 1983 fu rapita dall’anonima sarda con il figlio Giorgio, 17 anni, al quale i banditi recisero l’orecchio destro per affrettare il pagamento del riscatto. Non ne aveva bisogno. Nel suo moto perpetuo ha sempre incrociato le celebrità per caso, indipendentemente dal lignaggio. Come quella volta che nel 1988, incrodata con la stilista Chiara Boni a 4.000 metri di quota fra Kashmir e Ladakh, al Passo di Zoji, su una delle dieci strade più pericolose del pianeta, si vide venire incontro la regina della moda Gloria Vanderbilt, con il figlio del proprietario di Hermès, Xavier, «e un Rothschild di cui non ricordo il nome», e finirono a fare bisboccia per lo scampato pericolo. O come quando, giovanissima interior designer a Los Angeles, abbandonata una cena che Franco Zeffirelli dava in onore di Carla Fracci, restò in panne con due amiche sulla sua Datsun verde, abbassò il finestrino e urlò all’attore Jack Nicholson: «A Jack, dacce ’na spinta!».

Ma lei sapeva chi era?

«Be’, certo. Eravamo uscite apposta dal Dorothy Chandler Pavilion degli Oscar per vedere dove andava a infrattarsi con un’italiana che stava inseguendo. L’avevo conosciuto attraverso un amico produttore, Daniele Senatore. Da un anno stavo arredando una villa a mezzo chilometro da quella in cui fu massacrata Sharon Tate. Una casa straordinaria. Ci ha abitato Julio Iglesias, che le ha pure dedicato un album,1100 Bel Air Place. Poi passò a Quincy Jones. Una sera Nicholson ci telefonò: “Come here”. Andammo. Da quel momento ribattezzò me e le mie amiche The Musketeers, le tre moschettiere».

Perché si era trasferita a Hollywood?

«Avevo 21 anni, ero una ribelle. Mio padre, il generale Franco Calissoni, eroe di El Alamein, era un tipo all’antica, severissimo. In casa non si respirava».

E sua madre?

«Fa 93 anni questo mese (domani, ndr). Si occupava di orafi, gemme preziose, maestri argentieri. Sa a memoria la Divina Commedia. Con il padre Costantino, primogenito dei cinque figli di Sotirio Bulgari, giunto in Italia dall’Epiro nel 1879, parlava in greco. Non le dico delle due Pasque, cattolica e ortodossa, cerimonie che non finivano mai. Il 7 aprile 1977 me ne andai. In tasca avrò avuto 200 mila lire».

Quando ritornò in Italia?

«Nel 1979. Ero molto amica di Egon von Fürstenberg. Una sera di febbraio, a Cortina, sua madre Clara Agnelli m’invitò a cena: “Ci sarà uno stilista emergente”. Era Gianni Versace, che alla fine mi chiese: “Che fai nella vita?”. Niente, replicai. “Allora vieni a lavorare per me a Milano”. Ospite nella sua casa di via del Gesù, dopo che aveva superato una grave malattia, gli chiesi: come hai fatto a creare un simile impero? Rispose: “Controllo anche le 1.000 lire che escono dalla cassa”. Poi, rivolto a mio marito, disse: “Tienitela stretta questa donna. È l’unica che conosco capace di far ridere”».

Chi è suo marito?

«Alessandro Feroldi, giornalista. Da giovane dava lezioni di latino, greco e musica ai figli dei nobili, dai Colonna agli Orsini. Intervistò per primo Fabrizio De André, conquistandolo con una telefonata: “Scusi, perché nel Testamento di Titoin quel si bemolle non mette la settima diminuita?”. A Faber si aprì il cuore: “Vieni e porta la chitarra”. Il colloquio durò un giorno. Credo che Alessandro fosse l’unico assunto al Tg1 grazie a una lettera inviata al direttore. Albino Longhi lo convocò: “Voglio vederti in faccia”».

E dopo Versace che fece?

«Pubbliche relazioni e pianificazione pubblicitaria per Nicola Trussardi. Con lui non c’erano orari, né sabati o domeniche. Pilotava personalmente il suo aereo privato. Certe virate su Orio al Serio... Si voltava verso di me e mi vedeva con le mani giunte: “Dorme?”. E io: no, prego. La mia specialità erano le piantine delle sfilate: riuscivo a evitare che le grandi firme della moda si pestassero i piedi».

Non poteva seguire la maison Bulgari?

«Con mia sorella Laura e la figlia del famoso chirurgo Pietro Valdoni ho lavorato per la griffe Marina B, cioè mia zia Marina Bulgari, la migliore disegnatrice di gioielli moderni. Poi ho vissuto per 15 anni in simbiosi con Leonardo Mondadori. Fu padrino di battesimo della mia primogenita Anna. Mi diede da gestire la rinata libreria Einaudi in Galleria Manzoni a Milano. A ogni weekend eravamo in una capitale. Ricordo un incontro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. All’uscita dall’hotel King David di Gerusalemme ci additò le vicine alture: “Vedete? Ci sono cecchini che da lassù possono farmi fuori in questo istante”».

La passione per i libri le è rimasta?

«Non mi addormento senza averne uno in mano. Uno dei miei preferiti è La città dei ladri di David Benioff. Mi è capitato di far vincere un premio Strega».

Addirittura. A chi?

«A Domenico Rea con Ninfa plebea. Allora abitavo in una casa nel boschetto fra la Casina Valadier e l’hotel de Russie. Organizzai un party sul giardino pensile, con giurati e ospiti illustri, come Raffaele La Capria. Il colpo di scena finale fu una torta a forma di Vesuvio ordinata al pasticciere Natalizi: dalla bocca di panna del vulcano usciva il fuoco».

È nota anche per inventiva semantica.

«Solo perché una volta mi capitò di definire torpigna, da Torpignattara, una persona sgradevole. La parola è entrata nel lessico del generone romano».

Chi sarebbe un torpigna?

«Il compianto Carlo Vanzina, che per primo adottò il mio neologismo, lo individuava in chi deambula su e giù per il Corso, con jeans a sbracaloni, scarpone da tennis, felpa e orecchino, una specie di Maurizio Arena che sulla spiaggia di Ostia sfoggia il costume alla Tarzan. Un po’ macho e un po’ romantico. Latin lover e bello de’ mamma, squattrinato».

Dicono che sia un’imbattibile podista.

«Confermo. Mi hanno ribattezzata “il sindaco di Cortina”: non c’è sentiero di montagna che non conosca. Un anno fa, con mia figlia Diletta, mi sono fatta a piedi Perù, Bolivia e Cile, sempre in quota, tra i 4.000 e i 5.000. In Patagonia abbiamo incontrato Matthew McConaughey, con il quale ho attaccato bottone perché suo figlio stava giocando a Candy Crush, il mio gioco preferito sul telefonino. Siamo stati tutta la sera a cazzeggiare».

Mi pare in fuga perenne da un cognome che pesa quanto Tiffany e Cartier.

«Guardi, a parte due spille antiche, i miei unici gioielli sono gli 11.000 ulivi della tenuta Calissoni Bulgari di Aprilia. Mia sorella Laura, alla quale sono legatissima, mi ha chiesto di occuparmene. Erano 8 ettari che i nostri genitori, sgobbando giorno e notte, hanno bonificato e portato a 60. Oggi è un’oasi faunistica con aironi, falchi, poiane, istrici, volpi, cinghiali, protetta dalla Guardia forestale. È una gioia vederci arrivare le scolaresche. Ho fatto mio il motto di mamma: “In olea aurum”. L’oro è nell’ulivo».

Ospita anche un museo dedicato alla battaglia di Anzio.

«Ogni anno vi celebriamo lo Sbarco. Sulle nostre terre si attestarono gli inglesi. Roger Waters, il cofondatore dei Pink Floyd, ignorava che il padre Eric Fletcher cadde in battaglia a un chilometro dal cancello della tenuta, il 18 febbraio 1944, quando lui aveva solo 5 mesi. Ci è venuto in pellegrinaggio. È stato come abbattere The Wall, il muro della sua esistenza».

Non è stufa di fare vita di società?

«Sì. La società si è involgarita. Non è più come ai primi tempi di Porto Rotondo, quando da Luigino Donà dalle Rose trovavi Paul McCartney e Shirley Bassey e ci conoscevamo tutti. O come quando nella villa Godilonda di mio nonno Costantino, a Castiglioncello, venivano a pranzo Alberto Sordi, Marcello Mastroianni, Steno e Giovanni Spadolini. Oggi, ovunque vado, trovo solo torpigna».

Come seppe che sua madre Anna e suo fratello Giorgio erano stati rapiti?

«Dalla tv. Ero a Milano con Teo Teocoli. Da allora soffro l’inverno, le giornate corte, il freddo, il Natale. Non può capire che cosa significhi aspettare per settimane senza sapere se rivedrai i tuoi cari. Otto anni prima avevano sequestrato mio zio, Gianni Bulgari».

Chi vi fu più vicino in quella tragedia?

«Non certo i politici. Come presidente degli antiquari di via Condotti, mia madre ogni anno, l’8 dicembre, era solita regalare un’icona a Giovanni Paolo II che andava a deporre la corona di fiori ai piedi dell’Immacolata a piazza di Spagna. L’auto papale si fermò a largo Goldoni. Mio padre disse a Karol Wojtyla: “Mi spiace, Santità, sono qui da solo con Laura e Francesca, perché mia moglie e mio figlio non potevano venire”. Non dimenticherò mai più gli occhi azzurri, profondi, di quel sant’uomo mentre ci fissava e ci chiedeva: “Che cosa è successo?”. Due anni fa ho voluto ripercorrere la sua vita partendo da Cracovia. A Danzica correvo sotto un diluvio. Mi sono riparata nel museo di Solidarnosc: il soffitto è fatto con i caschi degli operai dei cantieri navali. Lì ho capito tutto di lui».

Giorgio Forattini disegnò una vignetta: la carta d’Italia con un orecchio amputato al posto della Sardegna.

«Fu triste. Allora non lo conoscevo, oggi è un caro amico. Non gliel’ho mai rimproverato. Vorrei la cattedra universitaria di pesce in barile. Campi meglio».

·        Francesca Cipriani.

Dagospia il 14 gennaio 2020. Da “Un Giorno da Pecora - Radio1”. Francesca Cipriani e l'amore. Ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, la showgirl protagonista de 'la Pupa e il Secchione', ha spiegato che da poco le è stato chiesto di sposarsi: “me lo ha chiesto un mio ex fidanzato". Lo aveva lasciato lei o era avvenuto il contrario? “Diciamo che avevamo insieme, ma forse un l'ho lasciato un po' più io”. Lei, dunque, lo ha rifiutato. “Si. Cerco una persona vera, di cui mi possa fidare, mentre ultimamente ho incontrato molte persone false. Esigo rispetto e sono stata trattata nel modo sbagliato da qualcuno negli ultimi tempi, ma con me hanno capito male”. Avrà molto corteggiatori però. “Si, ma nessuno adatto a me. Pensavo che uno di questi si potesse salvare ma poi ho scoperto che lui ha una doppia vita”. Come se ne è accorta? “Perché blocca o sblocca le storie di WhatsApp, mi fa vedere una vita ed invece lui ne ha un'altra, mi mostra quello che vuole”. Almeno ha avuto qualche liasion fugace? “Forse qualche bacio l'ho dato, ma non faccio sesso da più di un anno, non ricordo nemmeno più l'ultima volta che l'ho fatto”, ha concluso la Cipriani a Un Giorno da Pecora.

Francesca Cipriani confessa: “Sono stata arrestata”. Alice il 22/01/2020 su Notizie.it. L’ex Pupa Francesca Cipriani ha confessato che sarebbe stata arrestata: l’episodio risale a quando venne esclusa da La Pupa e il Secchione e la prorompente showgirl ha svelato anche tutti i dettagli sul motivo del suo arresto.

Francesca Cipriani arrestata. Nel 2010 Francesca Cipriani, con tanto di corona in testa e boa blu, si recò difronte alla Fontana di Trevi a Roma, dove iniziò a protestare per la sua esclusione da quell’edizione de La Pupa e Il secchione. La situazione è degenerata quando la showgirl ha iniziato a immergersi nell’acqua della fontana per emulare la celeberrima Rita Ekberg de La Dolce Vita. I vigili l’avrebbero dunque bloccata e tratta in arresto. Oggi lei e Paolo Ruffini conducono insieme la nuova edizione de La Pupa e Il secchione, ma la showgirl ha precisato che tra lei e il conduttore non ci sarebbe nulla di più che una semplice amicizia. Dopo il suo bagno nella Fontana di Trevi, in molte hanno tentato lo stesso: Aida Nizar, concorrente del Grande Fratello 15, si è immersa nella Fontana destando scalpore e finendo anche lei col dover pagare una salatissima multa. Valeria Marini ha fatto il bagno nella fontana di Piazza di Spagna, e anche lei è stata multata per la bellezza di 550 euro. Il comandante delle forze dell’ordine in quel caso condannò duramente il gesto, affermando che un noto personaggio pubblico dovrebbe fungere da buon esempio e non il contrario. La showgirl stellare in seguito alla vicenda chiese pubblicamente scusa, e sui social si sono scatenate numerose polemiche nei suoi confronti per via del bagno nella fontana della Barcaccia.

·        Francesca Sofia Novello.

Mario Manca per vanityfair.it l'1 febbraio 2020. Neanche il tempo di iniziare la conversazione che Francesca Sofia Novello sente il bisogno di scusarsi: «Ho un terribile mal di gola da ieri e parlo un po’ a fatica» spiega aggiungendo che sia fondamentale per lei preservarsi il più possibile in vista della settimana prossima, quando salirà sul palco del Teatro Ariston accompagnando Amadeus alla quarta e alla quinta serata del Festival di Sanremo. «C’è un’atmosfera stupenda, e già dalle prove riesco a percepire tutta l’emozione di quel palco e di quella platea. Non vedo l’ora di iniziare» insiste la ragazza ventiseienne, originaria di Arese, senza nascondere il dispiacere che da circa un mese la bracca senza lasciarle tregua: lo tsunami del «passo indietro» e la battaglia di diverse donne che credono che quelle parole abbiano messo in discussione il ruolo della donna all’interno di una relazione quando, in realtà, volevano dire tutto il contrario. «Sono stata io a spiegare ad Amadeus il rapporto che ho con il mio compagno Valentino Rossi e a insistere sul fatto che ho bisogno di brillare di luce mia e non di cavalcare la popolarità e il faro che da anni è acceso su di lui». Per Francesca, quel «passo indietro» pronunciato di Amadeus alla prima conferenza stampa del Festival era solo un riassunto di tutto quello che si erano detti al momento del loro incontro: «Quel concetto per me era chiarissimo. Finita la conferenza, mi sono avvicinata a lui e gli ho detto che è come se lo conoscessi da una vita perché è riuscito a capirmi». «È normale che stare con Valentino abbia portato il mio nome a uscire diverse volte sui giornali ma credo anche che, a 26 anni, non sia una cosa così scontata quella di non rubare parte della sua luce per prenderla per me. Io faccio il mio lavoro e lui fa il suo ed è importante intraprendere questa strada senza le interferenze dell’altro: è un discorso che non vale solo per noi, ma per qualsiasi coppia». A Sanremo, dopotutto, è stata scelta per portare un pezzetto del suo mondo sul palco: «Da quando ho deciso di fare il Festival mi sono sempre detta di essere me stessa perché, se sono qui, è perché ho qualcosa da dare e da trasmettere. Farò del mio meglio per riuscire bene, il resto si vedrà».

Lei non si è sentita offesa dal famigerato «passo indietro», ma molte altre donne sì: perché?

«Sono stanca che molte donne parlino per me: perché nessuna donna che era lì in conferenza si è sentita offesa e tutte quelle hanno ascoltato da fuori sì? La verità è che ho smesso di farmi domande quando sui social venivo insultata e criticata proprio dalle donne, le prime che esaltavano il femminismo e parlavano di solidarietà e del bisogno di essere tutte vicine in una battaglia. Leggere commenti così cattivi e così frustrati mi ha fatto male».

Un commento che le ha fatto più male?

«Mi fa male quando si limitano a giudicarmi solo esteriormente ignorando completamente che dentro di me c’è tanto altro. Se mi conoscessero scoprirebbero che ho qualcosa da dire, che ho un cervello e delle idee: le altre donne si sono limitate a vedermi seduta dietro al bancone senza pensare che, se qualcosa non mi fosse andata bene, non avrei certo sorriso, ma avrei detto la mia. Non ho sentito la loro fiducia in questo senso».

Anche il fatto di definirla «bellissima» non è stato perdonato ad Amadeus.

«Da quando dire che una donna è bella significa dire che è scema? Ci sono tante donne bellissime che hanno fatto la storia e ribadire questo concetto è un’offesa a tutto quello che hanno costruito e ai principi per cui si sono battute. Perché una frase porta a tutto questo putiferio e non si affronta con la stessa energia la questione delle donne che vengono picchiate e discriminate in Italia e nel mondo tutti i giorni?».

Lei si reputa femminista?

«Sono dalla parte delle donne da sempre. Quello che non si dice è che questo femminismo, in merito a questa faccenda, io l’ho sentito cattivo, completamente in contraddizione con quello che professa. In queste settimane sono stata bullizzata sui social dalle donne, molto spesso madri di famiglia, in un modo che neanche s’immagina. Allora mi chiedo: è questo il femminismo di cui andare fiere?».

I commenti sui social li legge tutti?

«Leggo sempre tutto perché mi piace sentire l’opinione di tutti: quando sono delle critiche costruttive me le segno e mi faccio un esame di coscienza, ma quando sono insulti gratuiti che hanno solo lo scopo di demolirmi allora alzo le mani».

Insieme a lei all’Ariston ci saranno altre 9 donne: si è confrontata con loro in merito alla questione?

«Ho parlato con tutte, specialmente con Laura Chimenti ed Emma D’Aquino del Tg1 perché, nei giorni del polverone, eravamo molto vicine: eravamo semplicemente allibite, facevamo fatica a credere che quelle tre parole fossero state travisate in quella maniera». 

Questa «discrezione» e questo bisogno di non brillare della luce del suo uomo le è mai pesata?

«Mai. Per me Valentino è il mio uomo, non l’ho mai visto come lo vede la maggior parte della gente. Lui ha la sua vita, la sua fama, le interviste, i servizi fotografici: certe volte gli sono stata vicino e altre volte no perché non ne sentivo il bisogno. Vale anche al contrario: quando sono impegnata nel mio lavoro di modella lui spesso si defila perché è giusto così. Lavorativamente parlando, ognuno brilla del suo faro».

Non le dispiace il fatto che Valentino non sarà in prima fila all’Ariston per vederla?

«Da una parte mi sarebbe piaciuto perché mi dà tanta forza e tanto coraggio ma forse, se anche fosse rimasto in Italia, gli avrei detto di non venire perché so che non gli avrebbero fatto vivere l’esperienza come avrebbe voluto: sarebbe stato braccato dai fotografi e dai giornalisti quando, banalmente, lui avrebbe semplicemente voluto vedere la sua fidanzata sul palco. Un po’ come faranno tutti i compagni delle mie colleghe. Mi seguirà da casa, tanto la Rai si vede ovunque, e farà il tifo per me anche da lì. In questi giorni ci sentiamo sempre su Facetime perché adesso sta iniziando il campionato ed è molto impegnato: lo sento vicino ed è quello di cui ho bisogno in questo momento».

Lei è una modella: all’Ariston come si vestirà?

«La stilista che mi vestirà rispecchia completamente la voglia di comunicare attraverso l’abito quello che sono: semplicità, eleganza e raffinatezza. Saranno abiti in lungo, made in Italy e realizzati da una donna: di più non posso dire anche se su qualche settimanale mi è capitato di leggere dei virgolettati che non ho mai detto, ma va bene».

Questa è la sua prima volta in tv: mai avuto delle proposte prima?

«Negli ultimi anni mi hanno proposto di tutto, soprattutto reality, ma ho sempre detto di no. Al mio manager dicevo che l’unico posto in cui mi avrebbero visto in tv sarebbe stato il Festival di Sanremo. Ovviamente non mi sarei mai aspettata che il sogno sarebbe diventato realtà: è un po’ quando dici che ti piace il calcio e che un domani giocherai nella Juve. Sono una persona molto energica e il messaggio che vorrei lanciare, sia alle donne che agli uomini, è che se c’è qualcosa in cui credi presto o tardi ci arriverai».

Torniamo a Sanremo: ha una canzone del cuore al Festival?

«La mia preferita è La Solitudine di Laura Pausini che è bellissima, la so a memoria. Laura, poi, è uno dei simboli più belli dell’ambito musicale femminile italiano e internazionale. La stimo molto».

Intanto le mancano 2 esami per laurearsi in Giurisprudenza: è nei suoi piani finire l’università?

«Assolutamente sì. Quando ho iniziato a lavorare come modella e a rendermi conto che questa professione mi rendeva felice ho scelto di concentrarmi su quello e di congelare gli esami per otto anni: sicuramente ci sarà un momento in cui mi fermerò un momento e prenderò la laurea, ma con calma. Non c’è mai un’età per laurearsi».

Nel suo futuro cosa vede?

«Dopo Sanremo non mi immagino in televisione: non è proprio il mio mondo ed essere ripresa dalle telecamere non è mai stato il mio sogno. Mi piacerebbe costruire una famiglia e brillare di luce mia indipendentemente da chi avrò accanto».

Chi è Francesca Sofia Novello, dalla moda a Sanremo. Pubblicato martedì, 14 gennaio 2020 da Corriere.it. Francesca Sofia Novello, 26 anni, è una modella e influencer tra le più amate e fotografate nell'ultima Milano Fashion Week femminile (settembre 2019). Nata ad Arese, in provincia di Milano, Francesca è un ex ombrellina e proprio lì ha incontrato Valentino Rossi, il campione di MotoGp amato e seguito in tutto il mondo. Abbandonata la pista da ombrellina, ha lavorato come modella di intimo e ha intrapreso con successo la carriera da influencer. Su Instagram è seguita da 271 mila persone, numero che è destinato a crescer con la sua presenza sul palco di Sanremo al fianco di Amadeus. La storia con Valentino Rossi è stata tenuta da Francesca e dallo stesso pilota avvolta nella privacy più assoluta: sono poche le foto pubblicate da entrambi sui social e quelle che ci sono hanno una data molto recente. Una scelta vincente che l'ha fatta avvicinare al cuore degli italiani (e dei tifosi). «Francesca è stata scelta da me per la sua capacità di stare di fianco a un grande uomo pur stando un passo dietro» ha detto di lei Amadeus in conferenza stampa. Eccola al photocall di presentazione di Sanremo in Alberta Ferretti.

Sanremo 2020, Francesca Sofia Novello: "Ora tocca a Valentino Rossi stare un passo indietro". E su Amadeus...Libero Quotidiano il 20 Gennaio 2020. Francesca Sofia Novello, 25 anni, fidanzata di Valentino Rossi, parla dopo le tante polemiche sul presunto sessismo scatenate dalla frase di Amadeus sul suo stare alle spalle del campione di motociclismo. Lei ci scherza su: "Io un passo indietro a Vale? Diciamo che anche lui sta un passo indietro rispetto ai miei impegni lavorativi esattamente come faccio io coi suoi...", spiega in una intervista rilasciata lunedì 20 gennaio al Giorno. "Amadeus ha soltanto voluto sottolineare il mio atteggiamento riservato. Atteggiamento che ho sempre tenuto in questi anni nei confronti della grande visibilità del mio fidanzato. Per mia scelta, infatti, ho voluto evitare accuratamente di trarne vantaggio". E le 29 deputate che hanno chiesto al conduttore e direttore artistico del Festival di scusarsi? "Nessuno ha il diritto di parlare a mio nome e non voglio essere difesa da persone e associazioni che cercano solo visibilità. Sono una donna e sono assolutamente consapevole di quello che faccio. Non mi sento assolutamente sminuita nel mio ruolo di donna. Ed essere la ragazza di Valentino mi ha dato visibilità. Per quanto riguarda le mie doti estetiche, beh sono quelle che semplicemente mi hanno consentito di diventare modella e salire sul palco di Sanremo".

Francesca Sofia Novello, dal «passo indietro» a dieci passi avanti. Pubblicato mercoledì, 29 gennaio 2020 da Corriere.it. Quando si dice il destino. Francesca Sofia Novello, la fidanzata di Valentino Rossi invitata da Amadeus a Sanremo «per la sua capacità di stare accanto a un grande uomo rimanendo un passo indietro», da semi sconosciuta ai più rischia di diventare la più amata dagli italiani sulla palco del Festival, se non altro per la curiosità scatenata dalla polemica… Insomma, si trasformerà forse in un assist mediatico quella che è stata un’indubbia e spiacevole gaffe per il presentatore «diligente e sgobbone» (parola di Fiorello) anche se armato di buone intenzioni, visto che ha scelto di co-condurre il Festival con ben dieci donne proprio per offrire uno spazio assortito alla quota rosa sul palco dell’Ariston. Insomma, tra giornaliste, conduttrici, modelle — Rula Jebreal, Mara Venier, Emma D’Aquino, Laura Chimenti, Diletta Leotta, Alketa Vejsiu e Georgina Rodriguez, la compagna di Cristiano Ronaldo, nonché le mattatrici Antonella Clerici e Sabrina Salerno — la ragazza presentata come «la fidanzata di Valentino» era la meno popolare. Fino all’infelice uscita di Amadeus in conferenza stampa. Appunto. Perché sono bastati pochi giorni, ed ecco che Francesca Sofia Novello nata ad Arese (Milano) il 14 ottobre 1994, diplomata al liceo scientifico, studi in Giurisprudenza e indossatrice per collezioni di lingerie, è già la più attesa, almeno a giudicare dall’interesse mediatico che le è stato dedicato. Miss «passo indietro» ha già fatto un bel passo avanti rispetto a tutte le altre co-conduttrici ed è molto ambita dagli stilisti (pare che alla fine la spunterà Alberta Ferretti). Del resto è già stata lei stessa a dichiarare senza scomporsi che «adesso tocca a Valentino stare un passo indietro». E sono dieci. Intanto, sul settimanale «Oggi», in edicola il 30 gennaio, Francesca Sofia Novello passa al contrattacco: «Amadeus non è maschilista, ha usato parole che mi rendono merito — spiega —. Il significato della sua metafora è chiaro: stare un passo indietro vuol dire che, nonostante la grande visibilità del mio fidanzato, ho sempre avuto cura di non approfittarne, ho sempre evitato di trarne vantaggio per il mio lavoro di modella. Negli anni ho sempre cercato di evitare la luce riflessa da Valentino, stando un passo indietro rispetto alla sua notorietà. Datemene atto, per favore». E già che c’è sottolinea la sua grinta: «Non ho bisogno di essere difesa da nessuno, tanto meno da chi è alla ricerca di visibilità o di un like in più». Infine, un augurio sulla sua partecipazione al Festival: «Spero di non passare alla storia come una gaffeur seriale!».

·        Francesco Baccini.

Dagospia il 18 febbraio 2020. Da I Lunatici Radio2. Francesco Baccini è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Il cantautore ha parlato della sua amicizia con Francesco De Andrè: "Quante notti passate con Fabrizio. Lui era un animale notturno come me. Anche più esagerato di me. Arrivavo a casa sua a cena e lui faceva colazione. Come reagirebbe alle celebrazioni postume che gli stanno attribuendo? Non ci crederebbe nemmeno lui. Era molto schivo, faceva le interviste via fax, era terrorizzato, e infatti ci sono pochissime interviste di Fabrizio. Passavamo la notte a parlare, sentire canzoni, scambiarci idee, opinioni. Diceva che assomigliavo tantissimo, proprio fisicamente, a Tenco. Qualche volta mi chiamava Luigi. Ricordo la notte in cui mi fece ascoltare in anteprima 'La domenica delle Palme'. Ci eravamo conosciuti alla presentazione del mio album. Lui venne perché mi vide una notte in tv in un programma di Vincenzo Mollica. De André di notte lasciava la tv accesa senza volume. Mi vede e mi scambiò per Luigi Tenco. Colpito dalla mia somiglianza su Tenco, prese appunti sul mio nome e qualche giorno dopo me lo trovai davanti in un locale di Milano mentre presentavo il mio disco. Arrivò con Dori. Mi invitarono a cena. Praticamente ci siamo conosciuti tramite Mollica. De Andrè chiamò Vincenzo e lui gli disse che ero forte, che mi avrebbe dovuto ascoltare". Sulla musica di oggi: "Prima di parlare di musica gli italiani dovrebbero imparare ad ascoltarla. E' da metà degli anni '90 che la musica è partita in un binario morto. I musicisti non fanno più musica. Siamo sostituiti dalla macchina, dal computer, dalle sequenze. E alla fine poi si sente. Io son cresciuto con i cantautori storici genovesi, il testo e la musica erano cose importanti. Io poi vengo dalla musica classica, il mio primo concerto da spettatore fu quello di Uto Ughi. Se la scuola genovese rinascesse oggi rischierebbe di rimanere fenomeno di nicchia. Ma non solo la scuola genovese. Oggi chi conoscerebbe Guccini o Battiato? Nessuno. Oggi si parla di musica solo come un'industria per far soldi. I ragazzi oggi hanno l'unico fine di diventare ricchi e famosi. Non gliene frega nulla di cosa rimanga. Pensano solo ai soldi. E allora davanti a questa argomentazione mi arrendo".

·        Francesco Facchinetti.

Roberto Alessi per Libero Quotidiano il 27 gennaio 2020. Incontro Francesco Facchinetti negli studi di Mediaset a Live non è la d' Urso, mi guarda capelli e mi dice: «Belli tuoi capelli». Rispondo con una battuta da pirla: «È un parrucchino». E lui: «Siamo tutti imparrucchinati». Lo guardo in testa e vedo che da che era pelato ora ha una chiorba di capelli leonina, che lo fa assomigliare a un tronista. È una parrucca. Penso: «Che figura di merda, perché, perché Dio mi ha dato la parola». Da sempre il parrucchino è tabù per chi lo porta. Lo era per Pippo Baudo, lo era per il mitico Lucio Dalla, lo è per Masini, che vedremo a Sanremo, e per una superstar del motociclismo mondiale come Max Biaggi. Ma non lo è per Francesco Facchinetti che dopo il nostro incontro lo ha pure spiegato: «Cosa mi sono messo in testa? No lozioni magiche, no polveri strane, no autotrapianto, no parrucchini. Io ho il primo trapianto di capelli non chirurgico. A 20 anni ho iniziato a perdere i capelli. Ho fatto l' autotrapianto, facendomi togliere seimila capelli per metterli dove mancavano. Finché un giorno, la vita vuole che incontro Fabrizio, ha ideato una patch cutanea che permette alla testa di traspirare e sotto i capelli possono crescere. Quindi eccomi, qua. Con i capelli folti, sembro il Re Leone». Contento lui.

Francesco Facchinetti con la nuova chioma folta e bionda: «Mia moglie è disperata». Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Paola Caruso. Facchinetti: «Mi sono messo nuovi capelli in testa, ora sembro il Re Leone». La folta chioma con mega ciuffo biondo di Francesco Facchinetti, alla Johnny Bravo (personaggio dei cartoni animati), ha incuriosito tutti, anche Milly che conduce il programma «Il cantante mascherato» nel quale Facchinetti ricopre il ruolo di giudice. La Carlucci non poteva non notare i capelli più folti e lunghi del figlio di Roby, che da stempiato adesso si presenta come un «Re Leone», come si definisce lui stesso in un video su Twitter. Parrucchino? Trapianto di capelli? Niente di tutto questo. A spiegarlo ci pensa il diretto interessato: si tratta di una «patch cutanea», di conseguenza zero presenza in sala operatoria, ma una seduta con uno specialista per un «intervento non chirurgico», dice il conduttore nel filmato social. «Ho iniziato a perdere i capelli a 20 anni e ho cercato le soluzioni possibili — spiega Facchinetti su Twitter —. Prima ho fatto un trapianto, 6 mila capelli dalla nuca sono passati sulla fronte, un forte dolore, ma dopo 4 o 5 anni avrei dovuto ripetere l’intervento e non me la sono sentita. Le ho provate tutte: con la polverina sporcavo dappertutto, dal cuscino al sedile dell’auto, poi le lozioni...». Nulla di funzionale. «Quindi sono passato alla patch cutanea», racconta promuovendo la persona che gli ha ridato le nuove ciocche. Ma in cosa consiste questo trattamento non chirurgico? È come mettere una sorta di protesi che rimane attaccata per circa un mese o poco più (dipende dal soggettivo) e va quindi sostituita periodicamente. «Mia moglie è disperata per come mi vesto, per i capelli e come tante mogli naturalmente non approva nulla di quello che faccio - ha dichiarato in una intervista recente a Diva e Donna —. Però come darle torto, visto che combino sempre qualche disastro? Qualche anno fa ho incendiato il giardino di casa con i fuochi pirotecnici a Capodanno, mentre di recente, nonostante le innumerevoli e ripetute raccomandazioni di mia moglie, mi sono quasi spaccato la schiena con lo snowboard». Oggi Facchinetti è contento della soluzione patch, passa le dita tra le ciocche e non ha più l’assillo della calvizie «ereditata da mio padre, come gli occhi azzurri». Sta molto attento a non rovinare la nuova capigliatura: basta guardare l’immagine postata alle Maldive in compagnia della moglie e dell’ex Alessia Marcuzzi, perché nello scatto lui tiene un fazzoletto in testa per proteggersi dal sole. Non si sa mai.

Così "Dj Francesco" Facchinetti guadagna facendo l’agente di Giulia De Lellis, Frank Matano e Selvaggia Lucarelli. Carlotta Scozzari su it.businessinsider.com l'11 gennaio 2020. In una intervista a Vanityfair del luglio 2018, Francesco Facchinetti spiegava che la Newco management, la società con cui cura l’immagine di tutto uno stuolo di vip effettivi e potenziali, “è nata nel 2014 e da allora ha triplicato il fatturato anno su anno, raggiungendo i 6 milioni di euro nel 2017. Una cifra davvero alta per il mondo manageriale”. In realtà, stando ai documenti della camera di commercio consultati da Business Insider, la Newco management srl ha chiuso il bilancio di esercizio del 2017 con ricavi della gestione caratteristica, e quindi legati all’attività principale di consulenza ai vip, pari a 3,46 milioni, che nel 2018 (ultimi dati disponibili) sono cresciuti a 5,68 milioni. Se poi ai 3,46 milioni del 2017 si aggiunge la voce residuale “altri ricavi e proventi” si arriva a 3,6 milioni, mentre per il 2018 si sale a 5,8 milioni. In nessuno dei casi si raggiungono i 6 milioni tondi tondi di cui parlava Facchinetti (tra l’altro con esplicito riferimento al 2017), ma, si sa, che colui che anni fa ci regalava tormentoni come “La canzone del capitano” e “La mia polka” e che oggi figura tra i giurati dello show della Rai “Il cantante mascherato” ama esagerare ed esprimersi per iperboli. A ogni modo, è innegabile che il bilancio del 2018 della Newco management mostri un trend di crescita rispetto all’anno precedente, sia per quanto riguarda i ricavi sia in termini di utili netti di esercizio, passati da poco più di 169 mila euro a 252 mila euro. A ben vedere, è in salita anche il debito, da 1,35 a 2,2 milioni, soprattutto quello nei confronti di fornitori, aumentato da 1,13 a 1,94 milioni. Lo stesso bilancio della società del figlio di Roby Facchinetti dei Pooh celebra i numeri in crescita: “Il 2018 – si legge nel documento – conferma la crescita registrata nei precedenti esercizi della società, sia a livello qualitativo che quantitativo”. Mentre, “per quanto riguarda l’esercizio 2019, tenuto anche conto degli accordi già sottoscritti e dei risultati conseguiti nei primi mesi dell’anno, la società mira a consolidare il proprio posizionamento competitivo sul mercato italiano come talent management company moderna”. Ma chi sono i clienti dell’agenzia? Il bilancio non li elenca e sul sito non si riesce più a trovare una lista completa ma si legge genericamente: “Oggi rappresentiamo oltre 40 talenti, tra cui attori e presentatori, autori e registi, cantanti e musicisti, attivi su ogni piattaforma utile per esprimere la propria arte, online e offline”. Tuttavia, da quel che si evince incrociando un po’ di dati e informazioni, dovrebbero far parte della “scuderia Facchinetti” le influencer e scrittrici Giulia De Lellis e Selvaggia Lucarelli così come l’influencer nonché ex di Fedez Giulia Valentina, il comico Frank Matano, i cantanti Riki e Stash dei Kolors. Tornando al bilancio della Newco management srl, i numeri del 2018 sono stati approvati dall’assemblea degli azionisti che si è riunita a Milano lo scorso 19 luglio e alla quale hanno partecipato Facchinetti, in rappresentanza della Goonies srl, e il suo socio Niccolò Vecchiotti, in rappresentanza della società anonima con sede in Svizzera Coinflip sa. In base a quanto se ne può dedurre, la Goonies srl, con sede a Mariano Comense – dove Facchinetti vive con Wilma Faissol – è azionista della Newco management insieme con la Coinflip sa. In quell’occasione, l’assemblea dei soci, presieduta dall’amministratore unico di Newco management Vecchiotti, ha deciso di destinare tutti gli utili, come visto pari a 252 mila euro, a riserva straordinaria. Per il momento, quindi, Facchinetti sembra restare a bocca asciutta di dividendi.

·        Francesco Gabbani.

"Ritorno a Sanremo dopo ben tre anni perché non ho rincorso il successo". Il cantautore: «Ingiusto escludere Junior Cally per un brano del passato». Paolo Giordano, Sabato 25/01/2020, su Il Giornale. Se l'è presa con calma, e ha fatto bene. Tre anni dopo il boom di Occidentali's karma, Francesco Gabbani torna a Sanremo con un brano, Viceversa, e un disco omonimo, in uscita il 14 febbraio, che sono un altro passo avanti. Sorridente, esplosivo, è uno dei pochi che riesca a tenersi lontano dai soliti luoghi comuni. Rarità, ormai.

Dopo il successo, per un po' si è tenuto fuori dal giro.

«Ho viaggiato, ho cercato me stesso invece di cercare il bis in classifica. Ho viaggiato, ho riflettuto».

Risultato?

«Ho capito di essere più affamato di normalità che di successo. Per carità, la musica è la mia vita. Ma continuo a ricercare il mio equilibrio, che per me sta nella mediazione. Come dico nel disco, si è dittatori nella testa e poi partigiani nel cuore».

E di che cosa parla Viceversa?

«Secondo me spiega che cos'è l'amore intenso non soltanto nella relazione di coppia ma più in generale. Non c'è una regola. Anche nella normalità, va a finire che l'amore diventa imprevedibile. In ogni caso l'album nel complesso è la negazione dell'individualismo e anche un'analisi della realtà social che tende alla realizzazione dell'ego, più che ad altro».

All'Ariston aveva sorpreso tutti con la «scimmia» sul palco. Altre novità in arrivo?

«Qualcuno si aspetta chissà cosa... In realtà posso solo dire che sarà tutto semplice e che la semplicità valorizzerà il brano. In ogni caso sono incuriosito da come potrà essere percepito dal pubblico».

Aveva pianificato di tornare a Sanremo?

«Tutt'altro. Il brano è nato a settembre e mi sono accorto che avrebbe potuto essere adatto a questa manifestazione».

Vocalmente sembra anche più impegnativo.

«In realtà mi viene più facile cantare quello che Occidentali's karma».

In certi punti del brano sanremese Gabbani ricorda qualche inflessione di Ramazzotti o di Adriano Celentano.

«Poi c'è quel ritornello che si apre e, a me, ricorda quello di Don't worry, be happy di Bobby McFerrin».

Gabbani lo sa di essere rimasto uno dei pochi a produrre musica che non sia piena zeppa di elettronica?

«In realtà ce n'è, ma la aggiungo soltanto dopo che è nato il brano. Io compongo alla vecchia maniera, ossia con la chitarra e voce o con pianoforte e voce. Non uso i beat, non sono loro all'origine delle mie canzoni. Insomma l'arrangiamento è soltanto un vestito».

A Sanremo nella serata delle «cover» canterà L'italiano di Toto Cutugno.

«Mi sembra perfetta per me adesso».

È stata annunciata anche la cover di Junior Cally, il rapper a rischio esclusione per la violenza dei suoi testi.

«Quello non è il mio modo di esprimermi, ma trovo assurdo giudicare la partecipazione di un artista per una sua canzone del passato».

·        Francesco Guccini.

Dagospia il 24 giugno 2020. Da Un Giorno Da Pecora. Io il maestro della musica italiana? "Fino ad un certo punto, ci sono leggende molto più meritorie della mia. Penso, ad esempio, ad uno come Claudio Lolli”. Ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, il cantautore Francesco Guccini ha toccato diversi temi: la musica, la politica e le riflessioni sulla società post lockdown. Claudio Lolli – hanno fatto notare i conduttori – non ha avuto il suo successo. “La sorte è andata in maniera diversa, per l'una e per l'altra persona”. Nel successo cosa conta oltre alle capacità artistiche? “Contano diverse cose, anche il modo di rapportarsi col pubblico, che Claudio non aveva molto. Ma era davvero molto bravo”. C'è una sua canzone che non le piace proprio? “No. Però "l'Avvelenata" mi ha stancato, nel senso che piace a tutti ma io la considero una canzone minore. Ho scritto delle canzone migliori”. Lei aveva detto, proprio a Un Giorno da Pecora, in pieno lockdown, che usciti da quel periodo non saremmo stati migliori. Oggi la pensa allo stesso modo? “Siamo quelli di prima, forse siamo un po' peggiori. Non era facile ma abbiamo una costanza nel peggiorare”. In cosa siamo peggiorati dopo le riaperture post quarantena? “La gente se ne frega e va in giro a branchi. Sabato sera ero a Bologna, in zona universitaria, ed era pieno, pieno di giovani...” Che non rispettavano le regole? “Assolutamente no”. Lei invece come si comporta? “Cerco di rispettarle”. Si è molto parlato della sua intervista in cui ha dichiarato di non esser mai stato comunista. “La gente si è sconvolta perché non sono mai stato comunista. Li sconvolgerò con un'altra rivelazione forsennata: non sono testimone di Geova...”, ha ironizzato Guccini a Un Giorno da Pecora. Cosa ha pensato nel vedere che tanti sono rimasti stupiti da quella sua frase? “Dipenda chi è rimasto stupito, non credo siano stati in molti”. Ora nel Pd c'è una discussione sulla leadership di Zingaretti. Lei cosa ne pensa? “Ogni tanto si cerca il pelo nell'uovo”. Zingaretti a lei piace? “Si, abbastanza”, ha concluso Guccini a Rai Radio1.

Francesco Guccini: «È vero, non sono mai stato comunista: però votavo Berlinguer». La passione per la parola. Lo sguardo severo sulla politica. Un libro noir in uscita. E un romanzo storico in cantiere. A 80 anni il cantautore modenese allinea ricordi e progetti. E fa ancora zingarate. Gigi Riva su L'espresso il 19 ottobre 2020. Francesco Guccini non canta da otto anni, la voce è quella che è. Si è ritirato dal Duemila a Pàvana, sull’Appennino tosco-emiliano, con la terza moglie Raffaella Zuccari. Beve con moderazione. Non legge, anche la vista è quella che è, ascolta audiolibri. Però scrive al computer perché può ingrandire i caratteri e il 21 ottobre manda in libreria l’ultimo giallo, “Che cosa sa Minosse” (Giunti editore), scritto a quattro mani con Loriano Macchiavelli. E, sarà perché è reduce da un compleanno tondo, ottanta, ma non è stato mai tanto celebrato. In questi giorni anche col secondo volume di “Note di viaggio” (non è escluso un terzo). Gli altri, i colleghi, che cantano le sue canzoni e in copertina lui davanti ai suoi interpreti in una riproduzione del “Quarto stato” di Pellizza da Volpedo. Quadro politico se ce n’è uno. Del resto la sua passione per la cosa pubblica non si è mai sopita, è «semmai cambiata attraverso il tempo», concede.

Guccini, una vita di libri, canzoni e undici gatti: la prefazione del libro in anteprima. Pubblicato venerdì, 12 giugno 2020 da Francesco Guccini su La Repubblica.it. Una mia biografia essenziale potrebbe suonare così: "Sono nato nella prima metà del secolo scorso; ho scritto e cantato canzoni; ho pubblicato romanzi e racconti e sono, fortunatamente per me, ancora vivo". Se si volesse però, da queste note stringate, ricostruire la storia della mia vita, bisognerebbe arricchire il tutto con aneddoti, episodi, ricordi più o meno vaghi, aggiunte di vario tipo (come e perché, ad esempio, nel marzo del 1970 ho deciso di tenermi la barba), descrizioni di personaggi umani e, perché no, animali. Ma una vera biografia risulta quasi impossibile da scrivere; troppi dettagli sfuggono dalla memoria, troppe vicende sembrano svuotate di senso e mancare di contenuti, troppi protagonisti appaiono ormai come un pallido fantasma, privi di quello che erano stati veramente, nell'essenza della loro vita quotidiana. Troppi fatti sarebbero raccontati in maniera fugace e superficiale. E quante riflessioni sul chi e sul come, sul pro e sul contro, sarebbero evitate. Prendiamo la prima affermazione: "Sono nato nella prima metà del secolo scorso". Detta così può sembrare una battuta, per segnare in maniera ironica una certa anzianità. Per l'esattezza però bisognerebbe dire: "Sono nato il 14 giugno dell'anno 1940". Perché questo? Perché non è una data come un'altra. Quel giorno, dopo aver sfondato in Belgio e in Olanda e superata la linea Maginot schiacciando l'esercito francese e il Corpo di Spedizione Inglese, le truppe tedesche sfilavano in parata attraversando una spettrale Parigi e ci sarebbero voluti quattro anni e centinaia di migliaia di morti  prima che la città fosse di nuovo libera dall'oppressione nazista. Eppure di questi anni, della sofferenza di un popolo e di questi morti, non c'è traccia nella mia biografia. Ma nel mio atto di nascita (recuperato in occasione del mio primo matrimonio) è riportato che Francesco Antonio Guccini, figlio di Ferruccio e di Prandi Ester, è di "razza ariana". Questo significa che quando Francesco Antonio è nato erano in vigore leggi razziali e si viveva sotto una dittatura; se non eri di "razza ariana" eri un cittadino di serie B, non avevi diritti civili, non potevi esercitare professioni liberali, insegnare nelle scuole pubbliche né tantomeno frequentare quelle stesse scuole. Il padre (sposato da poco più di un anno) di quel Francesco Antonio fu spedito a fare una guerra non voluta né desiderata, dalla quale sarebbe (fortunatamente) ritornato dopo cinque anni, due dei quali trascorsi in un campo di concentramento tedesco. E un padre che torna dalla prigionia non può essere un genitore come ce ne sono tanti adesso, in tempo di pace; è necessariamente amoroso ma anche molto severo, non può permettere che il figlio lasci il cibo nel piatto (lui che ha patito per anni la fame), non hai mai dato il bacio della buona notte, come si vede fare alla televisione, non ha mai festeggiato un compleanno, che passava del tutto inosservato, e via di questo genere. Per amore della completezza bisognerebbe raccontare non solo questo periodo, dal '40 al '45, ma anche gli anni del dopoguerra, dell'Italia in ginocchio, delle case rovinate al suolo, delle ferrovie saltate per aria, delle ristrettezze economiche, della lenta ricostruzione e del ritorno a una vita civile. Nella mia biografia si parla, anche e vagamente, di libri e biblioteche. Sì, si accenna a questo ma sarebbe impossibile rievocare l'emozione, il sottile piacere, quasi la frenesia, che ogni nuovo libro mi dava, fin dal primo in assoluto della mia vita, sul quale ho imparato a leggere, quel Pinocchio regalatomi da chissà chi, amato e tragicamente perduto in uno degli innumerevoli traslochi (che andrebbero raccontati, anche questi, a parte) a lungo rimpianto e poi finalmente riacquistato, riletto, e forse capito, da adulto. E il gusto per le letture infantili e adolescenziali, i Salgari, i Verne e poi, da studente, la religione dei libri, che altri ti suggerivano o che tu suggerivi ad altri: narrativa, con la predilezione per i romanzi umoristici, per i gialli e per la fantascienza, poesia, storia, linguistica. La scoperta di un autore faceva sì che andassi alla ricerca di tutto quello che quell'autore aveva scritto. E la mania per i fumetti, "letteratura disegnata" che mio padre, quando ero ragazzo, mi proibiva, perché mi avrebbe disabituato alla lettura, pensa te. E il leggere dappertutto, perché se leggi non ti annoi mai: alla scrivania, a letto, in bagno, in treno, da militare, con la pila sotto le coperte, aspettando l'autobus, dal medico, sulla spiaggia. Ovunque. E il piacere di possederli, i libri: dalla prima decina, accatastata nell'armadio assieme alla biancheria, alle centinaia impilati dentro a scaffali sempre troppo piccoli per contenerli tutti, ai tanti accumulati sui tavoli, per terra, quasi impossibili da trovare quando li cerchi perché ne avresti bisogno, e finisci per ricomprarli anche due, tre volte. Confesso di aver rubato dei libri, per necessità, o meglio, di non aver restituito dei prestiti;  quattro volte mi è successo, perché non avrei più saputo dove recuperare i volumi, ma altrettante volte è capitato a me. Poi le canzoni. Non parlo quasi delle canzoni, lascio che siano altri a farlo. Perché come si fa a raccontare di lampi improvvisi, di sensazioni fugaci, dell'affannosa e pure eccitante ricerca di parole, che siano quelle giuste, di rime che si incastrino nei versi, di donne che mi hanno amato e che io ho amato? Le canzoni si raccontano da sole, e basta. Un'ultima cosa: non bisognerebbe tacere della multiforme e variegata e agile esistenza degli undici gatti che si sono degnati di farmi compagnia, accondiscendendo a vivere per molti anni accanto a me, ognuno con il proprio carattere, ognuno con la propria storia gatta. Ma questo richiederebbe un'opera a parte, dedicata soltanto a loro, come, d'altra parte, la vita di ognuno di noi meriterebbe che accadesse. Francesco Guccini Non so che viso avesse - Quasi un'autobiografia (Giunti editore, 2020)

Aldo Cazzullo per il ''Corriere della Sera'' il 7 giugno 2020.

Francesco Guccini, qual è il suo primo ricordo?

«Un pacco di fichi secchi arrivato dalla Grecia. Me lo mandava mio padre Ferruccio, soldato della seconda guerra mondiale».

Lei è nato quattro giorni dopo la dichiarazione di guerra del Duce.

«Il babbo aveva già combattuto in Africa nel 1935. Fu subito richiamato. Dopo l’8 settembre venne fatto prigioniero a Corinto e portato in campo di concentramento: prima a Leopoli, poi ad Amburgo. Con lui c’erano Giovanni Guareschi e Gianrico Tedeschi, l’attore. Rifiutarono di combattere per i nazisti; ma della prigionia mio padre non parlava mai. Tornò nell’agosto del 1945».

Come fu il vostro incontro?

«Prima arrivò una cartolina da Milano, con la foto di una fontana. La ritagliai, mi diedero un sacco di botte. C’era scritto: “Sono un commilitone di Guccini, mi incarica di dirvi che sta rientrando a casa”. Era una domenica, ero con mia madre Ester alla messa delle 11, qui a Pavana, quando entrò in chiesa la prozia Rina, la moglie del prozio Enrico, con il grembiule, gridando: “Sta arrivando Ferruccio!”. Me lo vidi davanti con lo zaino e la divisa».

Cosa fece suo padre per prima cosa?

«Si spogliò e si gettò nel bottaccio, il serbatoio d’acqua del mulino. Gli chiesi: “Babbo, mi insegni a nuotare?”. Lui mi buttò in acqua. Rischiai di affogare».

Non la abbracciò?

«Mio padre non mi ha mai abbracciato in vita sua. Ogni tanto in tv vedo persone che si lamentano: “Ho avuto una famiglia anaffettiva, da bambino mi facevano pochi regali…”. Io non ho mai avuto regali. Non ho mai festeggiato il mio compleanno. Guai se lasciavo qualcosa nel piatto: il babbo era stato in campo di concentramento, il cibo era sacro».

Un regalo di Natale suo padre gliel’avrà pur fatto…

«Una volta mi regalò “Senza famiglia” di Hector Malot: libro di una tristezza allucinante. Un venditore ambulante l’aveva convinto a comprarlo. Un altro Natale mi passò un rasoio elettrico con cui non si trovava bene».

Un rasoio? A Guccini?

«Fino a trent’anni non portavo la barba. Mi feci crescere barba e capelli quando tornai dall’America, ma non per motivi politici. Non era la contestazione, era una delusione d’amore».

E sua mamma cosa le regalava?

«Mia mamma non mi ha mai regalato niente».

Il prozio è quello della canzone “Amerigo”, che andò negli Stati Uniti?

«Lui. In America si iscrisse al circolo socialista Giordano Bruno. Era il fratello giovane di mio nonno Pietro. Lo ricordo biascicare un po’ di inglese».

Portava “un cinto d’ernia che sembrava la fondina per la pistola…”.

«Si era rovinato la schiena in miniera, ma per me era un eroe del Far West, come quelli dei film. A Pavana c’era il cinema. E in pochi chilometri c’erano cinque sale da ballo: liscio, ma anche boogie-woogie e ritmi latini, samba e rumba. Erano passati gli americani, e pure i soldati brasiliani. Dopo la guerra c’era una voglia di ballare che faceva luce. Un po’ come adesso, che la gente sta esplodendo per uscire di casa e andare da tutte le parti».

Della guerra cosa ricorda?

«La linea gotica passava subito a Nord di Pavana. Gli americani avevano messo le tende attorno al mulino dei nonni. Avevano quattro carri armati: sparavano ogni giorno a orari regolari, pareva che i carristi andassero in ufficio. Io ero sempre in mezzo a loro: è evidente che mi mancava il padre. Canticchiavo le prime canzoni: Lay that pistol down, che pronunciavo leichepistoldà: l’ho risentita in un film di Woody Allen, Radio days. In cambio mi diedero i gradi da sergente e il cioccolato, che mangiavo di nascosto in riva al fiume, che era in realtà un torrente, il Limentra. E mi fecero assaggiare una bevanda scura, misteriosa, buonissima: la coca-cola. Un mondo radicalmente diverso da quello dei tedeschi».

Ricorda anche loro?

«Vagamente. Due dormivano nell’androne del mulino, sotto un tavolo. Avevano sempre una fame terribile, razziavano tutto, pretendevano frittate gigantesche da venti uova. In casa avevamo un maialino: riuscimmo a sottrarglielo e a nasconderlo in una casetta. Una mattina fummo svegliati da un’altra pattuglia tedesca. Tememmo per il maialino; invece cercavano i prigionieri russi che erano scappati. Uno era finito nel campo di granturco dei nonni: ferito a una gamba, fu caricato in una gorgola, enorme paniere per il trasporto del fieno, e condotto in una capanna, dove lo recuperarono i partigiani».

E il maialino?

«Fu sacrificato per nobili scopi».

Suo padre era toscano di Pavana, sua madre emiliana di Carpi. Come si incontrarono?

«Mio padre aveva vinto un concorso alle Poste di Modena. Mamma aveva tre fratelli e tre sorelle. Un suo collega, zio Walter, era fidanzato con una di loro, e disse al babbo: vieni a Carpi con me, ci sono un mucchio di donne. Arrivarono in bicicletta. Ricordo quando andavamo a trovare i nonni, che parlavano solo dialetto emiliano: mio padre restava in disparte. Tutti pensavano che fosse serio, severo; in realtà non capiva una parola. Un po’ serio però lo era. Dava del voi a sua mamma».

I partigiani come li ricorda?

«C’era di tutto. Un’amica mi mostrò il tavolo bucherellato dai proiettili con cui una banda di irregolari aveva ucciso suo padre, comandante partigiano: arrivarono, bloccarono il paese, Gaggio Montano, assediarono la caserma dei carabinieri, spararono. Fu una guerra civile, ne accaddero di tutti i colori. Intendiamoci: io ho sempre tifato per i partigiani, preferivo i libri di Bocca a quelli di Pansa; però ho sempre approfondito anche le testimonianze dell’altro fronte, ho letto i libri di Pisanò».

L’hanno criticata per la sua versione di Bella ciao, in cui si augura che i partigiani portino via Salvini, Berlusconi e la Meloni. Che le ha risposto: dove ci vorrebbe portare Guccini?

«Hanno la coda di paglia: subito hanno pensato a piazzale Loreto. Ma io non avevo intenzioni malevole. Mi basta mandare Salvini al mare con il mojito, e restituire Berlusconi alle sue tv e alle sue fidanzate. Nel frattempo la Meloni potrebbe spezzare le reni alla Grecia».

Lei cosa vota?

«Pd».

E prima?

«Partito socialista».

Non Pci?

«Non sono mai stato comunista. Tutti credono che lo sia; ma non è vero. Anche Igor Taruffi, il consigliere regionale di Liberi e Uguali cui ho dato due volte l’endorsement, era convinto che fossi comunista; quando gli ho rivelato la verità ci è rimasto malissimo. Mi viene da dire, come a quei razzisti che sostengono di avere molti amici di colore, che ho molti amici comunisti. Ma lo stalinismo non poteva piacere a uno come me: libertario, azionista. I miei eroi sono i fratelli Rosselli e Duccio Galimberti, che in realtà si chiamava Tancredi: Tancreduccio. Semmai, lo dico con grande ritegno, mi sentivo anarcoide. Avvertivo il fascino dell’anarchia, dal punto di vista romantico più che reale».

E scrisse la Locomotiva.

«Una suggestione letteraria, non politica».

Ma ha composto anche una ballata per Che Guevara.

«Appunto. Il ribelle che lascia la Cuba di Castro e il potere per continuare a combattere. In Mozambico, in Bolivia, dove lo ammazzarono. Ma se avessi discusso con il Che, non ci saremmo trovati d’accordo. Tra l’altro è nato il 14 giugno. Come me e come, purtroppo, anche Trump».

Mai un corteo, mai uno scontro con la polizia?

«Nel ’68 avevo 28 anni, ero già grande. Un corteo l’ho fatto ad Amsterdam. Partii con un amico per andare a conoscere i provos, che ci portarono a una manifestazione non autorizzata contro la guerra del Vietnam. Ci spiegarono che la polizia li avrebbe attaccati, e quindi sarebbe stato un grande successo. Avevo una chitarra, un giornalista mi chiese chi fossi, cominciai a suonare una canzone di Bob Dylan. Poi la polizia arrivò davvero. E ci caricò. Mi misi in salvo».

E adesso? Conte come lo trova?

«Non mi dispiace».

Con i 5 Stelle però lei è stato critico.

«Abbastanza. Mi sono sempre sembrati integralisti: troppo convinti delle proprie idee, troppo pronti a mandare gli altri sul rogo. Forse ora stanno cambiando. Io sono per il dubbio, non per la certezza. Tendo a farmi domande; diffido di chi coltiva sicurezze ferree, immarcescibili, a volte violente».

Ha conosciuto il Papa.

«Mi ha portato da lui il cardinale Zuppi, un grande personaggio. Francesco mi piace. Gli ho recitato la prima strofa di Martin Fierro, il poema nazionale argentino. Avrà pensato che fossi pazzo».

Quando comincia la musica?

«All’inizio dell’estate 1957. Il padre di un nostro amico, Pier Farri, possedeva due cinema a Modena e ogni tanto, preso da improvvisa generosità, ci invitava. Vedemmo un film dove una band suonava in un campo scout femminile: cinque ragazzi e tremila ragazze. All’uscita ci dicemmo: mettiamo su un complesso pure noi. Victor Sogliani, il futuro fondatore dell’Equipe 84, scelse il sax, che non aveva mai suonato in vita sua. Un altro affittò un contrabbasso. Pier, che era il più dovizioso di denaro, volle la batteria. Io comprai una chitarra con le 5 mila lire che mi passò mia nonna Amabilia».

La sapeva suonare?

«Imparai da solo. Me l’aveva costruita Celestino, un falegname di Porretta Terme, che mi aveva dato anche un quadernetto con i pallini che mostravano dove mettere le dita per gli accordi. Ero felicissimo: alla fine di quel pomeriggio sapevo già accompagnare due canzoni. Celestino poi emigrò in Olanda. Ora vive in Romagna, ogni tanto ci sentiamo».

Ha fatto il magistero per lo stesso motivo, le ragazze?

«Ma no. Era il liceo dei poveri. E durava un anno in meno: così avrei potuto lavorare prima. Purtroppo ho grandi lacune. Ho anche dato tutti gli esami all’università, ma non mi sono mai laureato: ho preferito suonare e gozzovigliare».

Quale fu il primo lavoro?

«Istitutore al collegio Villa Marina di Pesaro per orfani di post-telegrafonici. Un camerone enorme, un paravento, un letticciuolo. Una tristezza. E poi non amo il mare d’estate; figurarsi d’inverno. Per fortuna dopo due mesi e mezzo mi cacciarono».

E divenne giornalista.

«Due anni alla Gazzetta di Modena. Sognavo di fare lo scrittore. Un collega, un certo Cavicchioli, aveva pubblicato un romanzo, “Il volo del tacchino”: lo invidiavo moltissimo».

E’ vero che intervistò Modugno?

«Me ne vergogno ancora adesso. Ero giovane e saputello: lo attaccai; feci, come dicono a Bologna, lo sborone. Non pensavo affatto che la musica potesse essere il mio mestiere. Me ne andai perché mi pagavano poco: 20 mila lire al mese, lavorando tutti i giorni; e quando feci le prime due settimane di vacanze, mi dimezzarono lo stipendio. Guadagnavo molto di più sotto le armi».

Dove ha fatto il militare?

«Sottotenente a Trieste: 90 mila lire al mese, che mandavo per metà a casa, più 5 mila di indennità di frontiera. L’atmosfera era pesante. La notte gli sciavi, gli sloveni, scrivevano il nome di Tito sui muri della caserma».

Nel 1967 Caterina Caselli la fece esordire in tv.

«La Caselli era capitata a Porretta Terme subito dopo il successo di Sanremo. Qualcuno le disse che c’era un ragazzo che scriveva canzoni. Ascoltò Per fare un uomo, che poi ha cantato lei, e Auschwitz, che mi fece portare in tv. L’altro presentatore della trasmissione era Giorgio Gaber, che aveva invitato un ragazzo di Catania: Francesco Battiato. Non si chiamava ancora Franco».

Siete diventati amici?

«Con Gaber sì. Quando veniva a Bologna dopo lo spettacolo andavamo insieme da Vito. Non mi è piaciuto però che abbia scritto “la mia generazione ha perso”. Ha perso la generazione di mio padre, che si è fatto due guerre. Noi siamo figli del boom: abbiamo potuto studiare, siamo riusciti a fare quello che volevamo. Gaber era un ragioniere ed è diventato Gaber, io sono un maestro elementare…».

E Battiato?

Lo ritrovai al Club Tenco: era un barzellettaro formidabile. Come Bruno Lauzi. Io adoro le barzellette; ma ora non ce ne sono quasi più. Una delle migliori del mio repertorio me l’ha raccontata Baglioni. Anche se lui nega, perché si vergogna».

Quale barzelletta?

«E’ troppo lunga…».

Non può non raccontare la barzelletta di Baglioni.

«Sia; ma l’ha voluto lei. Va detta con l’accento toscano».

Vada per l’accento toscano.

«Favola morale di La Fontaine: la formica e la cicala. Tutte le formicoline lavorano nei campi, mentre le cicale cantano felici. Babbo formicolone ammonisce la su’ figliola: tu lascia che la canti; verrà l’inverno, la cicala ti chiederà il cibo, e tu niente: oh bischera, tu mangi quello che hai cantato! Viene l’inverno, e le formiche continuano a lavorare, tutte sudate, a riporre i fili d’erba, le molliche di pane. Finalmente ecco la cicala, di certo venuta a mendicare. La formicola si prepara la risposta – oh bischera, tu mangi quello che hai cantato! -; ma in realtà la cicala è venuta a salutare, tutta abbronzata e impellicciata. Con il canto ha fatto un mucchio di quattrini: il suo disco è primo in hit-parade, e lei è in partenza per le Hawaii; prima però farà tappa a Parigi. Al che la formicola le fa: oh cicala, se a Parigi trovi un certo La Fontaine, lo mandi affanculo a nome mio?».

Insospettabile Baglioni… Con De André invece che rapporto avevate?

Normale. Rispetto reciproco. Sono stato molto amico di Claudio Lolli, lui sì comunista convinto. Grande poeta, grandissimo autore di canzoni, meglio di me. Ha avuto la sfortuna di non riuscire ad accattivarsi il pubblico».

Anche con Dalla eravate amici?

«No, non sono mai stato veramente amico di Lucio. Vedevamo la vita in modo troppo diverso. Lui era molto cittadino, io abbastanza montanaro. Mi chiedeva: ma cosa fai tutto il giorno in montagna? E io gli rispondevo: niente. In realtà facevo un sacco di cose: camminavo, andavo a funghi… In città tiravo le 4 del mattino a giocare a carte. Mai d’azzardo, non si vinceva neppure un caffè. Briscola, tresette, scopone scientifico. E poi un gioco bellissimo e dimenticato, il tarocchino bolognese, che stiamo cercando di mantenere in vita, fondando una scuola… Però sulla barca di Dalla, a Capri, sono diventato amico di Zucchero».

Cosa ci faceva a Capri?

«Avevo cantato una canzone la sera prima. Andai sulla barca di Lucio a mangiare gli spaghetti, e c’era Zucchero, che componeva il suo disco. Lui ama comporre in luoghi esotici: Cuba, l’America. Io scrivevo a Bologna o a Pavana nel mulino dei nonni».

Ligabue?

«Non ci conoscevamo, mi chiamò lui per farmi recitare in Radiofreccia».

Vasco?

«Una sera capitò da Vito, per dirmi che era entusiasta dell’Avvelenata».

E lei?

«Io detesto l’Avvelenata. Una canzoncina. Non capisco perché abbia avuto tutto questo successo, mentre una canzone come Odysseus, che è ottocento volte meglio, ne ha avuto molto meno».

Odysseus è bellissima. Un Ulisse dantesco.

«Un mito letterario, un viaggio magico e misterioso, carico di simboli, di ritorni affascinanti, di personaggi incredibili. E’ una canzone sottovalutata. Composta in due giorni, anzi due pomeriggi».

In Gulliver invece lei scrive che “da tempo e mare non si impara niente”.

«Tutto quell’album, che si intitola Guccini, è dedicato all’inutilità di viaggiare. Ho un’amica che è stata in tutti i Paesi, ha anche piantato una bandierina sulla mappa; ma in ognuno è rimasta tre giorni. I veri viaggiatori erano i nobili inglesi del Grand Tour, o gli emigranti: gente che non sapeva quando e se tornava. Gli altri sono turisti continui».

Nello stesso album c’è un’altra canzone di culto, Argentina.

«Argentina è il racconto di un déjà-vu. Mi pareva di esserci già stato. Vedevo strade già conosciute, bar già frequentati. In qualcuno forse ero già entrato davvero. Non penso ad altre vite, ma a impressioni letterarie fugaci. Con Raffaella, mia moglie, abbiamo fatto anche un corso di tango».

La storia struggente di Scirocco è vera?

«Sì. E’ la storia di un amico poeta, da me soprannominato Baudelaire. Non riuscendo a decidere tra la sposa e la fidanzata, fu lasciato da entrambe. Se si fosse messo con quella nuova, forse sarebbe stato felice i primi tempi, ma poi avrebbe litigato. Meglio svanire nel ricordo. Meglio una cosa mai avvenuta, di una cosa che avviene e poi ti delude. Come Gozzano: le rose che non colsi. Le storie non finite, non concluse, conservano un sapore particolare. Se si fossero sviluppate magari sarebbero finite male; o in ogni caso sarebbero finite».

Qual è la delusione d’amore per cui si fece crescere la barba?

«Lasciai in Italia Roberta, la ragazza che sarebbe diventata la mia prima moglie, e fuggii in America con una mia allieva del Dickinson College di Bologna, Eloise».

E’ la vicenda di 100 Pennsylvania Avenue?

«Sì. Finì malissimo: l’italiano non era piaciuto. Fui processato dall’intera famiglia, con la madre che mi urlava: “I hate you”, ti odio!, ed Eloise che le rispondeva: “But I love him”, ma io lo amo!».

Anche “Il pensionato” è esistito davvero?

«Abitava accanto a me: io al 43 di via Paolo Fabbri, lui al 41. A casa sua, infilata in una vetrinetta, vidi una busta con la scritta: da aprire solo in caso di mia morte. La cosa mi colpì».

«E a poco a poco andrà via dalla nostra mente piena/ soltanto un’impressione che ricorderemo appena…».

«Un idraulico per scherzo fece la spia alla famiglia che abitava al numero 45. Una mattina presto vennero a bussare: “Sappiamo che farà una canzone sui vicini di casa. Noi preferiremmo non comparire…”».

Sul web c’è davvero la “foto sul pallaio” di lei e Cencio vicini: il nano con cui giocava a bocce.

«In realtà si chiamava Vincenzo, detto Cengio. Nella canzone divenne Cencio. Ci siamo persi di vista. Chissà se è ancora vivo. Lo spero, ma di solito i nani non vivono a lungo».

«In morte di S.F.» divenne «Canzone per un’amica». Chi è S.F.?

«Silvana Fontana, morta in un incidente stradale accanto al fidanzato, che si salvò: l’ho rivisto qualche anno fa. La notizia mi addolorò e scrissi la canzone in mezz’ora, con un errore di cui ancora mi vergogno: “Se presto hai dovuto partire”, invece di “sei dovuta partire”».

La ascolto da quarant’anni e non me n’ero mai accorto. Culodritto invece è la canzone dedicata a sua figlia, Teresa.

«Mi commuove cantarla. Ora con mia figlia il rapporto si è un po’ raffreddato».

Com’è la vita a ottant’anni?

«A volte non me li sento. Non sto male. Certo, ho perso agilità. Ma, a pensarci, quando mai sono stato agile? Purtroppo mi è andata via la vista, non riesco più a leggere libri. Li ascolto. Però l’audiolibro è un surrogato. Mi manca la carta: sottolineare, prendere appunti».

Come ha passato questi mesi?

«Come al solito: ho scritto, ho guardato la tv con Raffaella. Ci hanno fatto compagnia i nostri tre gatti, in particolare Bianchina, la trovatella cui avevano tagliato le orecchie. Mi è mancato uscire a cena con mia moglie, con gli amici. Ma ora si ricomincia».

In una canzone lei immagina di essere assunto in cielo con i suoi amici veri. Crede nell’aldilà?

«No. E’ un mio sogno panteistico. Ma i sogni non sono destinati tutti ad avverarsi; anche se mi piacerebbe tanto rivedere nonna Amabilia, nonno Pietro che morì quando avevo tredici anni, il prozio Enrico che morì quando ne avevo ventitré: ero militare e non mi diedero la licenza. E mio padre e mia madre».

La morte le fa paura?

«Adesso un po’ sì. L’uomo è l’unico animale che sa di dover morire; ma da giovane è convinto di essere immortale. A ottant’anni però comincia ad avere qualche dubbio».

·        Francesco Sarcina e le Vibrazioni.

Dagospia il 25 giugno 2020. Da I Lunatici Radio2. Francesco Sarcina è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format I Lunatici, condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino.

Sarcina ha raccontato alcuni aspetti della sua vita :"Io sono un romanzo vivente. Mio padre suonava, si è separato da mia madre, girava sempre, andava in giro a suonare. Non vengo da una famiglia benestante, anche se non mi è mai mancato niente. Vivevo in una casa molto piccola, a un certo punto mia madre ha sclerato e si è sperata. Quando ho iniziato a fare musica, lei voleva che continuassi a studiare, mio padre invece seguiva le mie orme. Io mi sbattevo, studiavo e lavoravo. Mio padre veniva spesso ai miei concertini, mio padre veniva, faceva anche un po' broccolone con le tipe, scherzando, in modo pacifico ovviamente, e qui capiamo tante cose, senza entrare troppo nel gossip, capiamo la mia dedizione a scrivere canzoni alle donne. Poi però quando sono riuscito a sfondare con "Le vibrazioni" mio padre ha avuto un ictus emorragico che lo ha lasciato paralizzato per dieci anni. Io sono figlio unico, ero da solo, della famiglia nessuno mi ha mai dato una mano, se non un cugino di mio padre di secondo grado, che è stato l'unico ad aiutarmi".

Sarcina ha aggiunto: "Il successo delle 'Vibrazioni", ma pensando a mio padre ero totalmente sbandato. Ho fatto tanta fatica, avevo una preoccupazione continua. E poi mi è dispiaciuto non potergli dire "ehy papà, hai visto che ce l'ho fatta?". L'ho portato a qualche concerto con la sedia a rotelle, dopo dieci anni è morto".

Sul rapporto con i social: "Io sono un po' sociopatico. Anzi, social patico. Ho un rapporto di odio amore con i social. Sono un'arma a doppio taglio. Si è creato tutto questo trip dell'avere seguaci. Io faccio musica, vorrei farti entrare nella mia musica, non per forza nei cavoli miei. Però alla gente sui social frega relativamente. Quindi ci dobbiamo adattare, ogni tanto mi piace far vedere i cavoli miei. A volte sì, a volte no. Proposte indecenti che arrivano sui social? Io l'ormone ce l'ho già scatenato di mio. I social sono una illusione della realtà. Io sono molto animale da questo punto di vista, ho bisogno di sentire l'odore, l'energia. Non è importante che una donna sia una fotomodella, l'importante è che la persona sia bella dentro. Di proposte indecenti ne arrivano tante, ma bisogna stare molto attenti, è anche pieno di fake. Ormai gli scheletri non sono più nell'armadio, ma negli smartphone. Questa è un'epoca narcisista, tendiamo ad apparire fighi, belli, quando poi hai i like ti senti figo. I like creano dipendenza. Io arrivo da una separazione dovuta in gran parte a questo. Vivevo una vita dove era tutto basato sui like, a un certo punto mi sono rotto le palle".

Sarcina ha parlato del suo ultimo singolo, "per fare l'amore": "E' nato in quarantena, non potevamo fare altro che connetterci, stare a casa e scrivere tanto. Mi sono connesso molto e ho scritto tanto, sono nate una marea di canzoni, è stato bello, divertente, anche arrangiarla con le vibrazioni in un lockdown in cui non ci potevamo vedere".

Sulla sua quarantena: "Il mio lockdown per i primi dieci giorni è stato di totale paranoia, non potevo vedere i miei figli, poi in realtà ho fatto di necessità virtù, ha trasformato quella mancanza in qualcosa, nel mio caso, in una canzone. I miei figli? Il grande sono riuscito a rivederlo, la piccola l'ho rivista solo da pochi giorni, non l'ho vista per tre mesi e mezzo, è angosciante non poter vedere la tua piccolina per così tanto tempo. Era in Sicilia con la madre, comunque circondata da amore. I ragazzini oggi sono molto più svegli di quello che crediamo, io vivo una situazione da separato come molti italiani, ma sono recidivo nei miei errori, ho dei figli meravigliosi e cerco sempre di fare il papà alla grande, anche facendo stare insieme i miei figli quando li ho. Anche Tobia ha avuto difficoltà nel non poter vedere la sorella. Però ad esempio è stato complicato il non andare a scuola. I ragazzini hanno sofferto molto, si sono resi conto di quanto la suola sia importante. Seguire le lezioni sul computer è devastante. Ora mi raccomando, non abbassiamo la guardia, è fondamentale".

"Le vibrazioni" hanno anche un tour estivo in arrivo: "Il 12 luglio siamo a Roma, quello che possiamo fare lo facciamo, ci sono anche molte complicazioni per chi vende i biglietti. C'è un sacco di scontentezza da parte del pubblico, lo capisco, ma noi della musica siamo quelli lasciati per ultimi, abbandonati a noi stessi, ci sono entità giganti che fanno cose e noi dietro un po' come babbei. Però intanto ricominciamo a suonare. Prendiamo date, siamo aperti a tutto, tutto quello che c'è da fare lo faremo, bisogna suonare il più possibile, la musica deve vincere, non dobbiamo avere paura".

Sarcina e Clizia Incorvaia: «Dopo le sofferenze personali un brano sulla capacità di resistere ai traumi». Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 su Corriere.it da Renato Franco. Le Vibrazioni sono tra i 22 big di Sanremo. Il leader della band: «Il tema del brano sanremese è la resilienza, il nuovo album è ispirato dal periodo che ho vissuto». Un successo folle e immediato, fulmineo e improvviso. Salite e discese, la pausa indeterminata che diventa invece una parentesi che prelude al ritorno. Il riassunto delle Vibrazioni è il riassunto della vita di molte band, tanto unica, quanto comune, perché l’altalena è un gioco da bambini che diventa una metafora dell’esistenza degli adulti.

Francesco Sarcina, sarete di nuovo a Sanremo. Perché?

«Il Festival rappresenta sempre un’occasione fantastica, un trampolino violento che concentra in una settimana un’esposizione mediatica incredibile. Visto che abbiamo anche una canzone adatta, perché no?».

Molti fanno gli snob su Sanremo...

«Di solito fa lo snob chi non viene preso... Ci sta che ci siano cantanti che non ne hanno bisogno e ci vanno solo come super-ospiti. Ma questo snobismo verso il Festival non l’ho mai capito: tutti lo criticano, tutti sputano sentenze, tutti sono grandi conduttori e grandi produttori discografici... ma poi tutti lo guardano e tutti ci vogliono essere».

Il titolo del brano verrà svelato lunedì in diretta su Rai1: di cosa parla la canzone?

«Ha per tema la resilienza, la capacità di affrontare e superare le durezze della vita senza farsi travolgere; questo brano è il frutto di un periodo di disagi e sofferenze personali. Ma nonostante tutto quello che mi è accaduto ho accusato bene il colpo. Sono esperienze che mi hanno colpito ma non abbattuto: nella vita bisogna anche essere un po’ pugili e saper incassare».

Dietro questa resilienza c’è anche la fine del matrimonio con sua moglie Clizia Incorvaia, un fatto privato che è diventato molto pubblico: è una sorta di Rock Therapy?

«I rapporti umani a volte prendono strade inaspettate, diventano meteore impazzite, arrivano colpi bassi contro qualunque aspettativa. Le crisi possono esserci, si possono superare o no, ma certe reazioni inattese ti colpiscono. È un’energia che ti può abbattere. Io ho cercato di volgerla in positivo: nella musica e nell’amore per i miei figli».

Il primo Sanremo era del 2005, con che occhi lo rivede?

Ride. «Non avremmo dovuto farlo, eravamo molto giovani e senza controllo, tutto era una scoperta e travolgente».

Poi siete tornati due anni fa.

«È stato un Sanremo più bello, più puro e intenso, eravamo più saggi e nel frattempo siamo diventati professionisti».

Il bello del Festival?

«È tutto concentrato, è un tuffo nella musica con tanti amici e colleghi nello stesso posto».

Il brutto?

«Si parla solo e sempre di una canzone, dalla mattina alla sera; si chiacchiera tanto ma poi l’esibizione dura solo 4 minuti».

«Dedicato a te» vi fece esplodere nel 2003.

«Fu un successo pieno di emozioni, fu tutto veloce. Con la saggezza di poi è più facile dirlo, ma avremmo dovuto fare le cose con calma. A un certo punto eravamo dei prezzemolini, eravamo ovunque, per questo non avremmo dovuto fare Sanremo. Ma eravamo inesperti e inconsapevoli».

Siete stati in pausa per cinque anni. Cosa ha rappresentato quella parentesi?

«Eravamo un po’ persi e avevamo smarrito il piacere di fare musica insieme, che è la linfa di un gruppo. È stata una pausa importante per fare esperienze personali e individuali che ci hanno arricchito: ci siamo ritrovati più diretti, immediati e anche metodici».

Perché il rock italiano fa fatica a imporsi?

«Ha sempre fatto fatica in Italia, siamo la nazione della melodia e dei cantautori e questo è parte della spiegazione. L’altro aspetto è che siamo molto esterofili, troppo. Anche le radio che si dedicano al rock ne passano pochissimo di italiano e preferiscono quello che viene da fuori».

Il 17 marzo prende il via da Palermo il vostro tour teatrale.

«I nostri pezzi saranno riarrangiati in chiave inedita, con nuove sonorità ideate e realizzate da Peppe Vessicchio, che è un nostro grande amico, oltre a essere un grande professionista: si è creata un’energia pazzesca».

Il singolo sanremese sarà il preludio all’album. Che mood ci sarà dentro?

«Il filo conduttore è il periodo che ho vissuto. Uno pensa a un cantante e immagina solo i concerti e la musica, ma la vita vera è anche altra: il privato, quello che vivi quotidianamente».

L'amante di Francesco Sarcina svela: "Mi ha presa in giro, mi ​diceva che con Clizia era un matrimonio di gossip". Ospite della trasmissione radiofonica "Non succederà più", Grazia Sepe ha svelato di aver avuto una relazione con lui dal 2016 – con foto e video che lo proverebbero – e ha confessato di essersi sentita presa in giro da lui. Novella Toloni, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. La presunta amante di Francesco Sarcina, Grazia Sepe, è tornata a parlare della relazione clandestina con il cantante quando ancora era sposato con Clizia Incorvaia. In un’intervista telefonica con Giada Di Miceli per Radio Radio, la modella curvy ha parlato apertamente della sua relazione extraconiugale con il frontman delle Vibrazioni, reduce dalla partecipazione al Festival di Sanremo. A fare maggiormente scalpore è la dichiarazione fatta dalla Sepe sul "matrimonio di gossip", come lo avrebbe definito Sarcina. "Il nostro primo approccio è stato telefonico – ha raccontato Grazia Sepe la cui relazione clandestina con il cantante sarebbe cominciata nel 2016 - poi a 18 anni mi sono trasferita a Milano e lui mi diceva che era sposato ma di essere separato in casa e così ci siamo iniziato a vedere. Lui mi diceva che il loro era un matrimonio di gossip. Noi ci frequentavamo alla luce del sole, fuori da un locale ci vedevano tutti, lo staff ci conosceva. Ho foto e video, insomma ci sono i fatti". Grazia, 22 anni, giorni fa aveva rilasciato un'intervista al settimanale Novella2000, svelando quando e come era nata la frequentazione con Francesco Sarcina. Non la prima, visto che anche un'altra donna dichiara di esser stata l'amante del cantante. Ai microfoni di Radio Radio ha ribadito di esser stata l’amante del cantante per quattro anni, periodo nel quale lui gli diceva di amarla e di essersi fatta addirittura un tattoo dedicato alla loro intensa storia. "Se ero innamorata di lui? Sì, ho anche un tatuaggio per lui, la scritta ‘baby’ come mi chiamava lui. La relazione si è conclusa da poco, non lo sento da un po' ma gli voglio bene comunque. Però non siamo rimasti in cattivi rapporti", ha spiegato la modella. Grazia Sepe si è però voluta togliere anche un sassolino dalla scarpa nei confronti di Clizia Incorvaia, che oggi sta vivendo una relazione con Paolo Ciavarro all’interno della casa del Grande Fratello Vip (alla quale la Pepe non crede molto): "Io non sono pazza, mi sono illusa certo, ma dai suoi comportamenti mi diceva che mi amava. Ma come dice lui, il loro è stato un matrimonio di gossip. Non li ho mai visti presi, troppo diversi. Quando li ho visti fuori da un locale, una situazione imbarazzante, lei l’ho vista indifferente a lui. Io rifarei tutto ma a prescindere da me credo che loro non potrebbero tornare insieme". Poi il messaggio finale che Grazia ha voluto mandare proprio a Sarcina: "Per me è stata una storia importante, gli voglio bene, tutto questo non l’ho fatto per cattiveria ma perché mi sono sentita presa in giro".

Ora si fa avanti l'amante di Sarcina: "Tradiva Clizia Incorvaia con me". Grazia Sepe sarebbe la presunta amante di Francesco Sarcina, colei con cui il leader de Le Vibrazioni avrebbe intrattenuto una relazione extraconiugale alle spalle di Clizia Incorvaia. Luana Rosato, Venerdì 31/01/2020, su Il Giornale.  All’intricato matrimonio tra Francesco Sarcina e Clizia Incorvaia, finito la scorsa estate per un presunto tradimento di lei con Riccardo Scamarcio, si aggiunge un nuovo tassello: la donna con cui il leader de Le Vibrazioni avrebbe tradito la moglie. La Incorvaia, oggi reclusa nella casa del Grande Fratello Vip, ha più volte raccontato di aver scoperto messaggi e chat tra Sarcina e alcune donne che lui avrebbe adescato sui social durante il loro matrimonio. In alcune interviste, inoltre, Clizia ha rivelato anche di aver trovato lui in casa con una donna in un periodi di crisi del loro matrimonio. Il cantante, però, ha sempre scelto di non commentare più le dichiarazioni pubbliche della ex moglie sostenendo che la sua vita privata fosse stata data in pasto ai giornali in modo immotivato, nonostante sia stato proprio lui, il primo, a rivelare pubblicamente che la storia si era conclusa per un tradimento della moglie con il testimone di nozze. Nelle ultime ore, però, Novella 2000 ha rintracciato la presunta amante di Francesco Sarcina, Grazia Sepe, che ha raccontato come sarebbe iniziata la sua relazione clandestina con il cantante. “(Ci siamo conosciuti, ndr) a un suo concerto a Napoli, mi sono avvicinata, ci siamo fatti un selfie. Ci siamo piaciuti subito – ha spiegato la 22enne di origini campane - .Poi su Facebook gli ho scritto: ‘Ti ricordi?’ e lui: ‘Come potrei dimenticare?’. Ha aggiunto: ‘Scrivimi sulla mail che è più sicura’”. Tutto, dunque, sarebbe iniziato nel 2016 quando lui era ancora legato alla Incorvaia, ma alla Sepe avrebbe detto che “erano separati in casa”. Per un periodo, il legame tra i due sarebbe andato avanti telefonicamente, poi Grazia, trasferitasi a Milano, ha iniziato a frequentare il locale di proprietà di Sarcina, sui Navigli, e qui ci sarebbe stato il primo bacio. “Il primo bacio ce lo siamo dati lì, nel locale, davanti a tutti, clienti e gli altri che lavoravano – ha rivelato la ragazza - . Ci incontravamo tutti i giovedì e i venerdì sera, ci vedevamo al suo locale, poi andavamo a ballare. Ci vedevamo la sera, non di giorno però, perché lui stava con la famiglia”. Tutto sarebbe accaduto, quindi, durante la storia tra Francesco Sarcina e Clizia Incorvaia ma, pare, lui giustificasse la sua doppia vita asserendo che il loro fosse un “matrimonio da gossip”. “Lui diceva che nei fatti lui e Clizia vivevano da separati in casa. Comunque con Clizia ho avuto un confronto – ha fatto sapere Grazie Sepe - .A un certo punto mi hanno rubato l’account dei social, lei ha scoperto che io e Francesco stavamo insieme, siamo arrivate a sentirci. In realtà ho avuto uno scontro con Clizia e in quel momento ho negato la relazione con Francesco. Era il 21 dicembre 2017”. Da quel momento, i rapporti con il cantante de Le Vibrazioni si sarebbero interrotti, salvo poi riprendere a dicembre del 2018. “Gli ho scritto un messaggio il 31 dicembre 2018. A Capodanno lui lavorava, di certo non stava con la famiglia. Aveva un concerto a Pozzuoli – ha aggiunto ancora la donna - . Mi ha risposto subito: ‘Vieni in albergo da me’. Ma non sono andata. Abbiamo ripreso a sentirci e ci siamo rivisti a settembre quando lui è venuto nel casertano per un concerto. Anche in quell’occasione mi ha invitata in albergo e quella volta ci sono andata. Da lì abbiamo ripreso a sentirci e vederci”. Oggi, però, Sarcina si dichiara single e, a tal proposito, la Sepe ha confessato di sentirsi “presa in giro”.

Gisella Desiderato per Novella 2000 il 30 gennaio 2020. Clizia Incorvaia è al Grande fratello Vip. Francesco Sarcina, ex marito e padre di sua figlia Nina, è a Sanremo con il suo gruppo, Le Vibrazioni. Entrambi protagonisti, entrambi con addosso un carico di dolore enorme per la fine del loro amore e per tutto il fango che è uscito poi. Clizia che ha accusato più volte Sarcina di tradimenti plurimi e “violenza psicologica”. Lui che s’è difeso e ha incassato un bacio (vero?, presunto? chissà) tra Clizia e Riccardo Scamarcio, (ex?) grande amico e testimone di nozze di Sarcina. Ora si apre un nuovo capitolo: spunta Grazia Sepe, seducente 22enne campana, che sostiene di essere stata l’amante di Sarcina dal 2016. 

Lui stava con Clizia Incorvaia.

«Mi diceva che erano separati in casa. Posso provare tutto ciò che dico, perché ho i messaggi WhatsApp che ci scambiavamo».

Come ha conosciuto Sarcina?

«A un suo concerto a Napoli, mi sono avvicinata, ci siamo fatti un selfie. Ci siamo piaciuti subito. Poi su Facebook gli ho scritto: “Ti ricordi?” e lui: “Come potrei dimenticare?”. Ha aggiunto: “Scrivimi sulla mail che è più sicura”». 

Per parlare più riservato.

«Credo di sì. Quando ero a Napoli ci sentivamo non dico tutti i giorni, ma quasi. Poi nel 2016 sono venuta a Milano, ci siamo incontrati al suo locale sui Navigli ed è scattato subito qualcosa. Il primo bacio ce lo siamo dati lì, nel locale, davanti a tutti, clienti e gli altri che lavoravano».

Così avreste iniziato una relazione. 

«Sì. Ci incontravamo tutti i giovedì e i venerdì sera, ci vedevamo al suo locale, poi andavamo a ballare. Ci vedevamo la sera, non di giorno però, perché lui stava con la famiglia».

Lui era sposato con Clizia. 

«Sì, ma lui mi diceva che era solo un matrimonio da gossip». 

Matrimonio da gossip? Con Clizia aveva già una figlia, Nina. 

«Lui diceva che nei fatti lui e Clizia vivevano da separati in casa. Comunque con Clizia ho avuto un confronto. A un certo punto mi hanno rubato l’account dei social, lei ha scoperto che io e Francesco stavamo insieme, siamo arrivate a sentirci. In realtà ho avuto uno scontro con Clizia e in quel momento ho negato la relazione con Francesco. Era il 21 dicembre 2017». 

Sarcina come ha reagito? 

«Si è allontanato. Mi ha detto: “Hai combinato un casino”».

Poi quando ha risentito Sarcina?

«Gli ho scritto un messaggio il 31 dicembre 2018. A Capodanno lui lavorava, di certo non stava con la famiglia. Aveva un concerto a Pozzuoli. Mi ha risposto subito: “Vieni in albergo da me”. Ma non sono andata. Abbiamo ripreso a sentirci e ci siamo rivisti a settembre quando lui è venuto nel casertano per un concerto. Anche in quell’occasione mi ha invitata in albergo e quella volta ci sono andata. Da lì abbiamo ripreso a sentirci e vederci». 

Ora però lui dice di essere single. 

«Infatti, ora mi sento presa in giro». 

Fabio Fabbretti per "davidemaggio.it" il 31 gennaio 2020. Nella Casa del Grande Fratello Vip 2020 c’è qualcuno che mente ’spudoratamente’ sulla propria età. Per carità, guai chiedere gli anni ad una donna (il galateo parla chiaro), ma come mai tutte le informazioni che riguardano la tua età sono palesemente inesatte? Avete mai provato a cercare in rete la biografia di Clizia Incorvaia? La modella e influencer, nata a Pordenone, si legge da più parti essere una bella 33enne, che dopo Pechino Express 2016 prova a sbarcare il lunario’con il GF Vip. Proprio il reality di Canale 5, però, ha pensato ‘bene’ di aggiornare l’età della ragazza; sulla sua scheda di presentazione (presente su DavideMaggio.it ma anche sul sito del programma), Clizia risulta essere nata il 10 ottobre 1984. Dunque, sarebbe prossima ai 36 anni. E invece anche questa informazione è palesemente sbagliata. Sarà stata la stessa Incorvaia ad aggiustare il tiro di due/tre anni e comunicare una nuova età? Così fosse, ha soltanto compiuto un piccolo passo verso una realtà comunque ancora lontana, perché -stando a quanto ci risulta- alla voce “data di nascita” la carta d’identità della (ex) signora Sarcina parla chiaro quanto e più del galateo: 10/10/1980. Clizia, quindi, tra meno di nove mesi raggiungerà la soglia dei 40 anni. Altro che il triangolo con Francesco Sarcina e Riccardo Scamarcio, ciò che nasconde la Incorvaia è qualche candelina che evidentemente considera di troppo. Chissà, magari il suo è un modo per superare la crisi dei 40. Come? Rinnegandoli.

Ida Di Grazia per leggo.it il 21 gennaio 2020. Grande Fratello Vip 2020, Clizia Incorvaia replica all'intervista di Sarcina rilasciata a Leggo: «Rifarei tutto». Mercoledì scorso sulle pagine di Leggo, Francesco Sarcina ha rilasciato un'intervista in cui non solo ha parlato della sua partecipazione a Sanremo 2020, ma anche della sua ex moglie Clizia. «Francesco Sarcina - spiega Signorini a Clizia durante la quinta puntata del Grande Fratello Vip - ha rilasciato nei giorni scorsi un'intervista a Leggo» . Viene mostrato l'articolo ed evidenziati alcuni passaggi come ad esempio un'accusa ben precisa del frontman delle Vibrazioni nei confronti della moglie «Non faccio gossip - si legge - Dico che siamo nell'era narcisista: facile dedicarsi ai figli sui social, il difficile è starci. E degenerato è chi mette i figli sui social perché non ha altro da dire. La felicità sta nelle piccole cose. Non nei milioni di like. In Dov'è si parla del doversi perdere prima di ritrovare la via».  «Sta giocando sull'ovvietà - replica Clizia - ma non può dire nulla di me, non sono mai stata fedifraga, l'ho sempre supportato. Mia figlia sui social è sempre di profilo e di spalle, non la uso per lavorare. Ho fatto la geisha, l'ho fatto tutto col cuore. Vengo da una famiglia dove la donna porta i pantaloni con grande dignità. Lo farei altre mille volte».

Rita Vecchio per leggo.it il 21 gennaio 2020. «La canzone sa di vero, di vissuto. Dopo un colpo duro e inaspettato, la musica è la forza che ti fa andare avanti». Francesco Sarcina, 43 anni, parla di Dov'è, in gara al Festival insieme a Le Vibrazioni, la band con Stefano Verderi, Marco Castellani e Alessandro Deidda. Il brano - scritto con Roberto Casalino e Davide Simonetta - è una ballad romantica e nichilista dove lampante è l'allusione al suo recente privato (il tradimento di Clizia Incorvaia, madre della sua secondogenita e una delle concorrenti del Grande Fratello Vip, con il suo amico Riccardo Scamarcio). Dove i figli e la sua band da 20 anni - dagli inizi nelle cantine a successi come Dedicato a te, Vieni da me o Dimmi, passando per il periodo solista - sono stati la sua tana di salvezza.

Sarcina, come sta?

«Bene, mi dedico alla mie creature, Tobia e Nina». Chiosa ridendo mentre è ai fornelli a preparare polpette per i suoi bambini. «Sono la cosa più bella che ho, per loro darei tutto me stesso».

"Dov'è". Chi? Cosa?

«L'energia e la gioia ritrovate dopo un brutto colpo. La bellezza del fare musica sta nel fatto che, quando ti succede qualcosa, ti salva».

Il colpo è quello della sua ex?

«Sicuramente un po' di autobiografia c'è. Ma bisogna andare avanti, per i figli e per chi ama la tua musica. È difficile, certo. Ma quando superi, sei più forte di prima».

La sua vita è cambiata?

«È stata resa vergognosamente pubblica e in modo diffamatorio. Cambia, ma in meglio. Ed è una figata».

Diffamazione?

«Non faccio gossip. Dico che siamo nell'era narcisista: facile dedicarsi ai figli sui social, il difficile è starci. E degenerato è chi mette i figli sui social perché non ha altro da dire. La felicità sta nelle piccole cose. Non nei milioni di like. In Dov'è si parla del doversi perdere prima di ritrovare la via».

Come è il brano?

«Una super ballad in 4/4. Romantica, cruda, riflessiva. Andremo contro tempo rispetto agli altri brani (tanti in gara) in up-tempo. Un incrocio tra John Lennon e Coldplay, così confondo le idee (ride, ndr)».

Amadeus l'ha sentito?

«Quando mi ha chiamato per dirmi che c'eravamo, mi pareva uno scherzo».

Tre volte con Le Vibrazioni, e una come Francesco Sarcina. A Sanremo, meglio con la band o da solo?

«Con la band (tutta la vita)».

Dirigerà Peppe Vessicchio?

«Potrebbe, ma scaramanticamente non confermo. Con lui faremo il tour Le Vibrazioni in orchestra di e con Peppe Vessicchio, dal 17 marzo, dove il rock incontrerà la classica. Sarà bello. Perché la musica non è solo su Spotify e YouTube».

·        Franco Nero.

Luca Pallanch per “la Verità” il 18 ottobre 2020. Il più famoso attore italiano all' estero: Franco Nero. Un nome che è diventato quasi un marchio di fabbrica, pronunciato sempre con un unico suono, inconfondibile ovunque, anche quando viene storpiato dagli americani, un volto ormai scolpito nella memoria collettiva, lo sguardo che lo ha reso famoso ai tempi del western, quando abbondavano i primi piani, il baffo che lo ha contraddistinto negli anni Settanta, una fama cresciuta nel tempo, alimentata da scelte oculate e dalla capacità ogni giorno di rimettersi in gioco.

Chi ha scelto il nome d' arte Franco Nero?

«Giovanissimo, sono stato scelto per interpretare Abele ne La Bibbia di John Huston. Dino De Laurentiis, che produceva il film, continuava a dire: "Dobbiamo cambiare nome. Dato che i miei studi sono in questa strada chiamata Castel Romano, ti chiamerai così!". Mi sono messo a urlare: "No, no, neanche morto!"».

Era un nome orribile!

«Orribile! Luigi Luraschi, che ha sempre lavorato per la Paramount e collaborava con Dino De Laurentiis, mi ha detto: "Adesso ci pensiamo noi a trovare un nome". Abbiamo provato Francesco Spano, poi il cognome di mia madre, Francesco Fraticelli, alla fine siamo arrivati alla soluzione di tagliare Francesco Sparanero in Franco Nero».

È un nome efficacissimo.

«È un nome semplice, è facile ricordarlo, anche all' estero».

Lei è parmigiano.

«Per caso! Mio padre, pugliese di nascita, era maresciallo dei carabinieri ed è stato trasferito a Parma, dove ho passato tutta la mia infanzia. Sono nato a San Lazzaro Parmense, un paese di contadini, poi abbiamo vissuto a Fidenza, Bedonia e poi a Parma».

Quando ha deciso di fare l' attore?

«È una storia un po' lunga perché sono andato a Milano per lavorare alla Edisonvolta e studiare, di sera, economia e commercio all' università Cattolica, però frequentavo anche la scuola del Piccolo Teatro di Giorgio Strehler, che credeva molto in me. Un giorno dei ragazzi hanno detto: "Stasera girano un film alla metropolitana. Andiamo tutti lì!". Il film era Pelle viva di Giuseppe Fina, con Elsa Martinelli. Dovevamo fare le comparse, però Fina ha detto: "Ragazzi, chi di voi può dirmi una bella battuta sulla metro?". Io ho subito alzato le mani. È la mia prima battuta davanti alla macchina da presa. Da ragazzo a Parma organizzavo sempre spettacoli per ragazzi e per studenti, però mi prendevano in giro: "Dove vuoi andare?!". Io rispondevo: "Vedrete un giorno, vedrete..."».

A quel punto ha deciso di andare a Roma a fare l' attore?

«Prima ho fatto il militare. Mio padre naturalmente voleva che facessi la carriera da ufficiale, invece sono partito come militare semplice, a San Giorgio a Cremano. Finalmente sono arrivato a Roma, dove, non avendo una lira, aiutavo un fotografo a via Margutta, Claudio Abate, che fotografava i quadri dei pittori, come Mario Schifano, che ogni tanto ci regalava un quadro. Mi sono ritrovato due sue opere, ma quando le ho fatte valutare qualche anno fa mi hanno detto che erano false! Un giorno è venuto un fotografo di De Laurentiis e mi ha chiesto: "Ti posso fare dei primi piani?". "Come no". Mi ha fatto dei primi piani che sono finiti sulla scrivania di John Huston, il quale ha detto: "Voglio incontrare questo". Sono stato lanciato da lui».

Qual è il film che le ha dato la fama?

«Django, nel 1966. Il secondo che mi ha dato notorietà in America e nel mondo è Camelot».

Com' è nato Django?

«Sergio Corbucci doveva fare questo western e i due produttori, Franco Rossellini e Manolo Bolognini, non erano d' accordo tra di loro, uno voleva Mark Damon, l' altro un attore spagnolo. Invece Corbucci diceva: "A me piace questo: Franco Nero". Allora Bolognini ha detto: "Prendiamo le foto di questi tre attori, andiamo da Fulvio Frizzi della Euro International Films e vediamo chi preferisce". Sono andati da Frizzi e lui ha puntato il dito sulla mia faccia. Mi ricordo che ero in macchina con Elio Petri e con sua moglie e mi lamentavo: "Io sono un attore serio... un western...". "Chi ti conosce?". "Nessuno". "Allora non hai niente da perdere". Così Petri mi ha convinto a farlo. Abbiamo girato una scena alla Elios prima di Natale e Corbucci ha detto: "Vediamo dopo le feste come va avanti". Non c' era una sceneggiatura! Il fratello di Sergio, Bruno, ha preparato una scaletta, però questa scaletta era fatta così bene che sono riusciti durante le feste a fare una coproduzione con la Spagna. Così siamo andati in Spagna a girare qualche scena, mentre il resto del film l' abbiamo fatto alla Elios in un villaggio pieno di fango. A maggio dovevamo iniziare, a New Orleans, Django lives!, Django vive ancora, su una sceneggiatore stupenda di John Sayles, ma a causa del Covid il film è stato rinviato».

Nel 2012 c' è stato il grande omaggio di Quentin Tarantino che si è ispirato a Django per il suo Django Unchained. Ricorda quando l' ha incontrato la prima volta?

«Io giravo Talk of Angels a Oviedo, con Frances McDormand e le attrici di Almodóvar: Penélope Cruz, che interpretava mia figlia, e Marisa Paredes, che faceva mia moglie. Un giorno Penélope mi ha detto: "Io domani vado a un festival a San Sebastián". "Bene, dimmi com' è andata quando torni". Al suo ritorno mi ha detto: "Ho incontrato un giovane regista che si chiama Quentin Tarantino. Quando gli ho detto che sto girando un film con te, è impazzito". Qualche anno dopo, Harvey Weinstein, è venuto a Roma a presentare Kill Bill, è salito sul palcoscenico e ha detto: "Purtroppo Tarantino sta a Londra, ha la febbre e non è riuscito a venire, però mi ha detto, se per caso Franco Nero è in sala, di portargli tutti i suoi saluti!". Tutti sono rimasti un po' stupiti. Poi Tarantino ha fatto Inglourious Basterds, è venuto a Roma a presentarlo e ha detto: "Io non me ne vado se non incontro Franco Nero". Enzo Castellari, che aveva diretto il film, Quel maledetto treno blindato, di cui Tarantino aveva fatto il remake, ha organizzato un incontro a Roma in un ristorante. Quentin mi ha abbracciato e mi ha raccontato la sua storia, quando lavorava in un negozio di videocassette e ha scoperto i miei film. Li ha visti tutti: quelli che non sono usciti in America li ha trovati in giro per il mondo. Si è messo a dire le battute dei miei film e a suonare la musica... una cosa impressionante!».

Le ha fatto fare un cameo in Django Unchained.

«Sono andato a girare un episodio di Law & Order a New York e lo sceneggiatore di quell' episodio mi ha detto: "Franco, mi è capitato tra le mani un copione di Tarantino. Si chiama Django Unchained". "Fammelo leggere". Leggendolo, mi sono detto: "Peccato, non c' è una parte per me!". L' unica parte adatta era quella del dentista tedesco, sicuramente scritta per Christoph Waltz, che aveva vinto l' Oscar per Inglourious Basterds". Quando sono tornato in Italia, dopo circa due o tre settimane, mi ha chiamato Tarantino: "Voglio fare un omaggio a Corbucci e a te, una specie di remake di Django, fatto a mio modo". Infatti nel Django di Corbucci gli oppressi erano i peones messicani, nel Django di Tarantino sono i neri. "Mi farebbe tanto piacere che tu facessi un bel cameo". "Non so, non conosco la sceneggiatura", invece la conoscevo benissimo! "Ho in mente una bella scena con Di Caprio". E io: "In questo momento mi viene in mente un' idea. Il Django nero, ogni quindici minuti ha un flash nella mente e vede un cavaliere con un cappotto e un cappello nero che galoppa verso la macchina da presa in slow motion e questa visione c' è l' ha quattro-cinque volte nel corso del film. Alla fine questo cavaliere si ferma e di fronte a lui c' è una donna nera con un bambino e la donna dice al bambino: "Questo è tuo padre". Io potrei dirgli una battuta: "Combatti per la libertà" o qualcosa del genere". C' è stato un silenzio di qualche minuto. Io dicevo: "Ci sei?". "Sì, sto pensando". Poi: "Ti richiamo io". Naturalmente non ha più chiamato. Ho pensato che non gli fosse piaciuta l' idea e stavo prendendo altri impegni, quando, dopo un mese, mi ha richiamato: "Ho pensato a quella tua idea: non funziona!", urlando. "Nella vita un uomo bianco può avere un figlio nero, ma non sullo schermo: non funziona!". "Vabbè, pazienza". "No, no, non posso fare il film se tu non ci sei". Io dovevo andare a Los Angeles, allora lui, che stava girando a New Orleans, è venuto a Los Angeles a trovarmi e abbiamo fatto una lunga colazione al Beverly Hills hotel, che non scorderò mai: deve essere durata tre ore! Continuava a dirmi: "Trust me...abbi fede!". Alla fine mi ha convinto e ho fatto questo cameo, però per girarlo mi ha tenuto un mese. Faceva sempre vedere in una sala il Django originale a tutta la troupe e continuava a dire, di fronte a Di Caprio e agli altri giovani attori: "Voi non sapete chi è lui! È stato uno delle più grandi star al mondo insieme a Clint Eastwood e Charles Bronson!". Purtroppo la mia scena, un lungo combattimento tra due schiavi, è stata tagliata molto. Quentin ha avuto l' idea dell' incontro dei due Django, io e Jamie Foxx, seduti al saloon ed è stata una delle foto più viste nel mondo quell' anno!».

Nella sua carriera spicca Querelle di Rainer Werner Fassbinder.

«Anche lì una lunga storia: Fassbinder era come Tarantino con me. Già l' anno prima mi aveva offerto Lili Marleen, ma non ho potuto farlo. Mi ha mandato il copione di Querelle e io ero incerto se farlo. Il suo aiutante mi ha chiamato: "Il signor Fassbinder le vorrebbe parlare". Sono rimasto in linea e Fassbinder non è mai venuto al telefono. Ho deciso comunque di farlo, poi quando sono andato a Berlino - sul set c' era sempre Andy Warhol che ha fatto il manifesto del film - ho chiesto cosa fosse successo: "È andato al telefono, ha cominciato a sudare e non è riuscito a parlare!". Era molto timido. Sono andato a casa sua e ho visto che aveva 40 videocassette dei miei film. Una sera sono andato a mangiare al Paris Bar di Berlino, dove Werner andava sempre, e lui si avvicinato al mio tavolo: "Cameriere, mi può portare un tovagliolo bianco con un pennarello". Si è messo a scrivere: "Io, Werner Fassbinder, e Franco Nero decidiamo di fare altri tre film assieme". Uno era Rosa Luxemburg, l' altro Cocaina e l' altro ancora Le Bleu du Ciel dal libro di Georges Bataille. "Firma". Ho firmato sul tovagliolo e lui se l' è messo in tasca. Poco dopo è morto».

Ha lavorato anche con Luis Buñuel in Tristana.

«Non mi ha mai chiamato Franco perché era contro Francisco Franco! Mi chiamava sempre Nero. Ho fatto un altro film scritto da lui, Il monaco, che doveva girare in Spagna, non glielo hanno fatto fare, allora ha ceduto la sceneggiatura ai francesi, loro volevano Peter O' Toole o Omar Sharif, ma lui ha detto: «No, cari, io vi do la sceneggiatura a una condizione: che Nero faccia il protagonista». Mi ha imposto lui. Ho lavorato anche con Claude Chabrol in Profezia di un delitto. Giocava a scacchi e diceva sempre: "Dove andiamo a mangiare stasera?". Pensava sempre alla cena!».

·        Franco Simone.

Franco Simone: «A Sanremo 2020 premio alla carriera a Don Backy». La proposta del cantante salentino nei confronti del collega, autore di brani memorabili. La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Gennaio 2020. «L’immensità», «Casa bianca», «Canzone», «Poesia», «Un sorriso», «Frasi d’amore», «Sognando» sono solo alcune delle canzoni composte da Don Backy e consegnate all’albo d’oro della nostra migliore musica pop. Del cantautore toscano non si può dire che sia un presenzialista. Lo si vede pochissimo in televisione e sulla stampa, ma le sue canzoni hanno lasciato tracce indelebili nella sensibilità e nel gusto di tutto il pubblico. Aldo Caponi (il suo vero nome) non ha mai rincorso il successo facile. Da fiero «toscanaccio» (nato a Santa Croce sull’Arno) consapevole del suo enorme talento, non si è mai piegato alle leggi di mercato. E l’ambiente discografico e televisivo non gli ha perdonato il suo non volersi allineare al conformismo imperante. Il 21 agosto scorso il «mitico Don» (come viene chiamato dai suoi fans) ha compiuto 80 anni. Un suo collega, il salentino Franco Simone, che resta uno dei nostri cantautori più amati a livello internazionale, mentre cresce l’attesa del Megafestival di Sanremo 2020 firmato da Amadeus, ha sentito il dovere di lanciare una proposta a favore dell’artista che considera una specie di fratello maggiore in arte. Senza stare lì a misurare le parole, ha scritto di getto un messaggio affidato ai social: «Sanremo 2020. Premio alla carriera a Don Backy. I giganti della musica hanno interpretato le sue canzoni (Mina, Ornella Vanoni, Adriano Celentano, Milva, Negramaro…) Una carriera ricca di qualità senza ombra di compromessi. Sarebbe bello che il Festival di Sanremo rendesse omaggio al grande Don Backy, perché… i grandi artisti è giusto omaggiarli da vivi!». Nel giro di poche ore è arrivata anche la reazione del diretto interessato, Don Backy, che ha sentito il dovere di ringraziare il collega per l’inusuale, generosa iniziativa: «Voglio ringraziare pubblicamente Franco Simone per liiniziativa intrapresa, ovvero di sollecitare gli organizzatori del Festival di Sanremo, affinché prendano in considerazione un premio alla carriera per il sottoscritto, da consegnare nell'ambito della manifestazione. Sono molto scettico che la proposta venga presa in considerazione, ciononostante, ringrazio il mio amico e collega per l’iniziativa, che mi fa capire di quanta considerazione io goda nell’ambiente musicale e nell’opinione pubblica, tranne in quello che potrebbe determinare la positività della richiesta».

·        Franco Trentalance.

Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 29 aprile 2020. Scrittore, mental coach, ex pornodivo, personaggio tv. Franco Trentalance dona il suo sapere in fatto di sesso e seduzione al sito Escort Advisor, lo spazio di recensioni di escort più visitato in Europa con oltre 2 milioni di utenti. Attraverso quattro video, uno alla settimana, Franco dà consigli su come vivere l' intimità in periodo di quarantena. E ovviamente noi lo interroghiamo su questo.

Ci dica la verità. La quarantena uccide la libido o la favorisce?

«È soggettivo, come in tutte le cose. Questo istinto può essere messo in freezer e lasciato lì.Oppure no. Sappiamo che, a furia di non fare una cosa, si perde la voglia. Faccio spesso parallelismi tra il sesso e lo sport: se inizi a giocare a tennis e ti alleni, senti che non ne puoi fare a meno. Il sesso vive di stimoli. Se rimani allenato, ritorni a fare il tuo match».

Nei suoi video tratta il tema dell' autoerotismo. Perchè è importante?

«Conosce uno sportivo al mondo che fa solo partite? No. Io l' autoerotismo l' ho sempre vissuto così. E vale anche per le donne. Una delle ossessioni maschili è la durata. Vogliamo tutti arrivare a un minutaggio dignitoso e il metodo per raggiungerlo è l' allenamento quotidiano».

Una volta? O di più?

«Arrivo anche a tre, ma devo avere la giornata libera. Se uno vuole arrivare a un' ora, o 45 minuti, deve applicarsi. Se se la sbriga in cinque minuti diventa uno sfogo, un ripiego. Io invece lo vivo come una disciplina, una scienza. La mia gloriosa carriera di pornoattore è stata una conseguenza del mio approccio».

Capitolo coppie. Come fare a mantenere la passione?

«Ho notato che, proprio con chi si ama, di solito si tende ad agire con il freno a mano tirato a livello sessuale. Si è meno inibiti con un partner occasionale o sconosciuto, e questa è una follia. Motivo: timidezza, pudore di base».

E quindi?

«Nel sesso, come nella vita in generale, bisogna accorciare la forbice tra ciò che vorresti fare e ciò che fai. Più la forbice è stretta più sei felice. Non bisogna avere paura del giudizio. Ed ecco dunque il fenomeno delle escort: la donna disinibita, libera. Molti uomini a livello inconscio vogliono la donna così, ma poi se la hanno davvero la reputano impegnativa. Meglio lasciare tutto a livello onirico, pensano. Questo a livello generale, poi c' è la mia esperienza personale».

Non sia timido: la racconti.

«Ho avuto tre storie importanti negli ultimi tempi, ero innamoratissimo ma sono tutte finite dopo un anno e mezzo. Dopo tale data, il desiderio scompariva, interruttore spento. Viceversa, ho amanti storiche da dieci anni con cui pratico ancora. Qualcosa non tornava. Dunque ho fatto un calcolo».

Quale?

«Ne parla anche un film di Francois Truffaut. Con una donna ho 400 prestazioni sessuali a disposizione».

Prego?

«Sì, finite quelle, si spegne la luce. Si esaurisce il desiderio. Con tutte loro è finita a quel punto, magari la storia si è trascinata un po', ma non credo nelle coppie bianche. E dunque una persona dovrebbe chiedersi: quanti colpi ho a disposizione? Quante frecce ho?».

Bella domanda. Uno dei temi dei video di Escort Advisor è la seduzione. Consigli per lui e per lei?

«La donna è avvantaggiata, perchè la sessualità maschile è molto visiva. Si trucca, va dall' estetista: l' uomo da questo punto di vista è molto recettivo. Siamo già 1 a 0. L' uomo alle prime battute si deve impegnare di più. La parola magica non c' è, ma da questo punto di vista mi sento di dare due consigli che erano anche contenuti nel manuale Seduzione magnetica (Ultra edizioni). Primo: raccogliere più informazioni possibili su di lei. Due: gli uomini con più interessi sono più appetibili. Come il menù di un ristorante: se ha solo un piatto è meno invitante rispetto al locale che ha tante pietanze tutte diverse».

Alle donne, invece, cosa consiglia?

«Di avere meno paura del rifiuto. Credo che le donne siano terrorizzate da un "no" e per colpa di questo perdano tante occasioni. Dovrebbero essere più sportive. Spesso più sono belle più sono bloccate. Anche a letto. Aspettano che sia lui a gestire tutto: deve essere bravo, potente, perverso, fantasioso, duraturo. A volte le cose non funzionano perché lei non ha dato le dritte giuste. Non si può sempre capire tutto».

Secondo lei dopo la quarantena ci saranno tanti divorzi?

«Temo di sì. A meno che la crisi economica sia talmente potente che ti fa restare in un matrimonio anche se vorresti chiudere, e dunque imponga di stare uniti».

Lei come passa l' isolamento, solo o in compagnia?

«Solo. Dunque mi "alleno" molto. Ma lo faccio anche quando sono accompagnato, non è un ripiego, ma un' attività parallela, come le dicevo».

E poi cosa fa?

«Sistemo casa. Sono mentalmente ordinato e bravo a lavorare il legno, faccio mensolette. Guardo i film western: grandi paesaggi, praterie. Tenga presente che, da giovane, dopo un incidente in moto, avevo le gambe maciullate e sono stato nove mesi chiuso in casa. E che avevo anche fatto il reality La Talpa: due mesi senza pc e telefono. Quindi la quarantena mi vola. Sto anche scrivendo il mio nuovo libro».

Sul sesso?

«No. Con il professore Attilio Cavezzi parleremo di "ormesi", come vivere il più a lungo possibile in salute, e sottolineo in salute. Parleremo di come vivere qualitativamente bene, di alimentazione, corpo e mente che non sono entità separate. Io sono anche mental coach e mi occuperò dell' aspetto psicologico».

Ma cos' è l' ormesi?

«Negli Usa se ne parla dagli anni Settanta. Deriva dal greco ormeo, stimolare. È una filosofia che insegna ad essere un po' più scomodi. Mi spiego: lo stress prolungato fa invecchiare prima e male. Tanti stress brevi e acuti fanno reagire meglio. Esempi: se sei rancoroso da mattino a sera, male; se ti arrabbi cinque minuti, urli e sbotti, bene. Un po' di digiuno, il caldo, il freddo: a piccole dosi vanno bene. A grandi dosi sono deleterie».

Dagospia il 26 aprile 2020. Da “Radio Cusano Campus”. Franco Trentalance, ex porno attore, coach e scrittore interviene su Radio Cusano ai microfoni di Arianna Caramanti per parlare di sesso in solitaria e di tanto altro.

Sul sesso fai da te. “Sto dando alcuni suggerimenti sul sito Escort Advisor attraverso dei video in cui spiego l’importanza della sessualità anche in questo periodo di quarantena. Ho sempre considerato la masturbazione come parte integrante anche del rapporto sessuale tradizionale infatti non è un’attività di ripiego ma complementare al sesso: conoscete un campione sportivo che gioca solo le partite? No, i campioni si allenano anche perché devono arrivare preparati al match. Le donne sono avvantaggiate nella masturbazione perché hanno più sex toys da utilizzare da sole anche se questi non sono indispensabili per essere appagati! Io ad esempio mi alleno da tutta la vita e ho sei buoni risultati! Il sesso a due invece deve essere destabilizzante anche in questi giorni e di qualità altrimenti c’è qualcosa che non va nella coppia, troppa rilassatezza: di questo e di tante altre tematiche serie sulla tensione positiva ne parlo nel mio nuovo libro che sto scrivendo proprio in questo periodo! Dopo questo periodo di emergenza ci sarà un grande incremento di richieste di escort perché i single avranno più difficoltà nell’approccio!”

Sulla politica. “Se non fosse per la classe politica che mi fa innervosire ogni giorno, passerei delle ottime giornate chiuso in casa in questi giorni, leggo, studio… Mi fanno arrabbiare gli esponenti della politica odierna perché l’opposizione non è una vera opposizione e il Governo mi sembra abbia poche idee e confuse, c’è poco da stare allegri. Se le attività sono in crisi profonda dopo due mesi di chiusura probabilmente c’è qualcosa che non va a monte: attività che sono aperte da anni e che vanno in crisi per due mesi di chiusura evidenzia che tutto il sistema burocratico e di tassazione a monte non va poiché il sistema non ti consente nemmeno di mettere da parte due soldi, si lavora solo per pagare le spese.”

Sulla televisione. “Non farei mai il Grande Fratello Vip perché mi sembra una gabbia di galline e di tacchini. Fabio Testi ad esempio mi sembra un uomo di spessore ma allora mi chiedo perché abbia partecipato al Gf Vip, che bisogno ne aveva?! Un attore che ha settantanni e ha lavorato tutta una vita ha bisogno davvero dei soldi del Gf Vip? Non credo sia un reality che ti insegni qualcosa anzi credo sia un programma che aggiunga tristezza alla vita, senza alcun tipo di stimolo mentale!”

Laura Carcano per LaPresse il 26 aprile 2020. Arrivano i consigli dell'ex pornostar Franco Trentalance sulla sessualità ai tempi del coronavirus. Il contributo dell'ex divo a luci rosse è pubblicato sul web, su "Le Cronache di Escort Advisor", il nuovo spazio di condivisione di racconti di sesso e di vita ai tempi del Covid 19 Escort Advisor, il sito di recensioni di escort attivo a livello europeo, con oltre 2 milioni di utenti mensili solo in Italia. L'expornodivo internazionale, attore, coach e scrittore, ha deciso di dare dei suggerimenti nella rubrica settimanale di Escort Advisor, su come vivere la sessualità a coloro che sono chiusi in casa in questo periodo di lockdown e anche per quello subito dopo l'atteso "sblocco". Il capitolo che lancia l'iniziativa, riguarda il "Sesso Fai da Te". Ma si proseguirà con un contenuto a settimana per analizzare anche altri temi come il "Sesso tra coppie", la "Seduzione" e "Quella sbagliata", una raccolta di esempi di incontri non proprio ben riusciti.  "Gli utenti possono interagire con i contenuti e gli ospiti su ogni singola "cronaca" come in un forum , o meglio ancora, un social network, in un momento in cui non c'è la possibilità di incontrare le sex workers e ci sono meno opportunità di esprimersi come sempre tramite le recensioni (oltre 80.000 raccolte solo nel 2019)", spiega Escort Advisor.  Nelle "Cronache di Escort Advisor", accanto ai volti più noti, anche le professioniste del sesso a pagamento, i loro clienti e gli utenti del sito dicono la loro su come si sono adattati a questa situazione. Una sorta di Playboy moderno che offre anche contenuti diversificati, come negli anni '60 in cui nella rivista vicino a sensuali modelle, erano affiancati scritti di Truman Capote o Arthur Miller. Mike Morra, il fondatore di Escort Advisor, diventa così un novello Hugh Hefner e ancora una volta "sfida i benpensanti creando uno spazio di libertà creativa". Per Mike Morra, Ceo di Escort Advisor il progetto "sottolinea la natura stessa del sito: provocare e andare controcorrente. Per distinguerci ancora di più dalle bacheche di annunci che anche ora si limitano a stare lì immobili a offrire una vetrina di visibilità per ragazze che non possono lavorare e clienti che non possono uscire, come se nulla fosse cambiato". "Noi invece - dichiara - vogliamo stare vicino a escort e utenti, fornendo uno spazio per esprimersi. In più, in un momento come questo, di forte limitazione della libertà personale e di incertezza legata al virus, serve proprio un luogo dove dire la propria senza censure". "Le Cronache di Escort Advisor sono un contenitore che accoglie tutti e a cui tutti possono partecipare per condividere esperienze, sensazioni e commenti, e confrontarsi senza censura e sotto i dettami del politicamente corretto. Non solo intrattenimento, ma anche cultura e informazione, grazie ai contributi esterni di esperti dal mondo della letteratura e della scienza", sottolineano da Escort Advisor, annunciando che il migliore racconto scritto dagli utenti riceverà un "pacco delle meraviglie".

·        Fred De Palma.

L'intervista a Fred De Palma: “Sono bravo a scrivere canzoni”. Le Iene News il 28 febbraio 2020. Fred De Palma, rapper italiano, si racconta nella nostra intervista. Parla della sua hit estiva “Una volta ancora”, di musica, di ragazze e risponde anche alle nostre domande più spinte. Fred De Palma, classe 1989, è un rapper di Torino. La sua ultima hit estiva “Una volta ancora” ha scalato le classifiche e ha tagliato l’incredibile traguardo delle 100 milioni di views su YouTube. Ha studiato fino alla quinta superiore ma ha mollato prima dell’esame di maturità. Perché? “Volevo fare musica”. Parla poco inglese e un po’ più  a vanvera! In che cosa si sente davvero competente? “Mi ritengo bravo a scrivere canzoni”. Difetti? “Ho tanti tatuaggi”. Quali di quelli sbagliati? “Due stelle sulla pancia”. Ma il problema sono le ragazze? A quanto pare no perché tanto “guardano altro”. Si sente un rapper e proprio per questo lo mettiamo subito alla prova: come se la caverà quando lo sfidiamo a farci un freestyle sulla parola Iene?  

L'intervista al rapper Fred De Palma tra musica e confessioni hot. Le Iene News il 27 febbraio 2020. Il rapper Fred De Palma, che la scorsa estate ha scalato le classifiche con la sua hit “Una volta sola”, si racconta nell’intervista de Le Iene. Ci confessa tutto del suo passato da latin lover e parla di musica, amore, difetti e improvvisa anche due freestyle. La scorsa estate Fred De Palma ha scalato le classifiche e ha tagliato il traguardo delle 100 milioni di views su YouTube con il suo singolo “Una volta sola”. Gli chiediamo di cantarci un pezzettino, ma non riconosciamo proprio la canzone e ci rimane di stucco: “Ma dove vivete su Marte?”. Si sente un rapper? “Sì”. E allora lo mettiamo subito alla prova con un freestyle, parola da rimare? “Iene”. “Un po’ come mi viene, tu mi insulti cazzo mene, cazzo non si può dire, perché non conviene ma spacco in freestyle in diretta a Le Iene”. Passiamo ad altro. Ha studiato? "Fino alla quinta superiore ma poi ho mollato prima dell’esame di maturità”. Perché? “Volevo fare musica”. Parla poco inglese e un po’ più a vanvera. In che cosa si sente davvero competente? “Mi ritengo bravo a scrivere canzoni”. È molto sicuro di sé, gli chiediamo con che bell’uomo scambierebbe il suo corpo e ci risponde diretto: “Con nessuno, mi piace il mio”. Ci mostra la sua faccia da selfie per la mamma e per la fidanzata, quando però gli chiediamo quella che manderebbe alla prossima conquista ci risponde senza mezzi termini: “Eh, non le mando un selfie…”. Difetti? “Ho tanti tatuaggi”. Quali di quelli sbagliati? “Due stelle sulla pancia”. Problemi con le ragazze? A quanto pare no perché tanto “guardano altro, sono molto dotato”. E lì, è rasato? “Tutto”. Culo o tette? Non ci sono dubbi: “Culo”. Ma se per il 90% della sua vita ha fatto sesso con sconosciute, talvolta anche con due ragazze al giorno, oggi è felicemente fidanzato da un anno: “Monogamo”. Prima di lei, aveva tradito? “Sì, ma mi sono pentito”. Torniamo un po’ indietro con il tempo. Mai fatto un orgia? “Sì”. Mai stato con un uomo? “No”. Mai stato con una groupie? “Sì”. Mai usato Viagra o simili? “No, però devo dire la verità: ho avuto la curiosità però non mi è mai capitato”. Mai fatto sesso con due ragazze nello stesso giorno? “Sì”. E con tre? “Sì”. E ci invita tutti a fare sesso protetto, anche se lui non è un buon esempio. Gli chiediamo di chiedere a due suoi amici di rispondere alla chiamata rappando. Il primo è Shade: “Fred De Palma sta sempre al cellulare, ci sta talmente tanto che è Fred Palmare”. E Boro Boro? “Sto pappando signorino, son con zone vado a fare il pranzo da signor vino…”. Poco fa è uscito anche un nuovo singolo, “Il tuo profumo”, fatto in collaborazione con la cantante messicana Sofía Reyes, “un artista del mondo Latin, molto reggaeton”, ma lo spagnolo lo conosce? “Siamo al livello della ’s’ finale dopo ogni parola”.

·        Gabriel Garko.

Eva Carducci per ilmessaggero.it il 12/10/2020. Ingresso trionfale in mascherina negli studi Mediaset, Gabriel Garko è intervenuto durante la trasmissione Live Non è la D’Urso per raccontare ancora una volta del suo coming out, arrivato due settimane fa in diretta a Il Grande Fratello Vip: «Che cosa ho combinato?» spezza il ghiaccio l’attore al centro del polverone mediatico, ospite della trasmissione di Barbara D'Urso proprio nella giornata mondiale del coming out. «C’è chi ha alluso che questo coming out sia stato fatto perché avevo bisogno di popolarità. Allora dico che sono etero» sdrammatizza l’attore per rompere il ghiaccio con la D’Urso: «Barbara per me è un’amica, e ha sempre saputo la verità. E ha sempre mantenuto riservatezza a riguardo». Molto più rilassato Gabriel Garko può finalmente essere se stesso: «Ero sempre trattenuto e impostato, dovevo mantenere il rigore che mi ero imposto da solo, ora mi sento più tranquillo. Negli ultimi tempi volevo essere più libero. Ma le cose cambieranno davvero nel giorno in cui nessuno dovrà più fare coming out, perché non ci saranno discriminazioni a riguardo. Se dovessimo parlare di tutto quello che la gente fa in camera da letto succederebbe un finimondo». Le cose però potrebbero cambiare nella sua carriera: «Ho ceduto al compromesso, raccontando una menzogna per anni, perché altrimenti non avrei potuto soddisfare il mio sogno nel cassetto. Se continuerò a lavorare negli stessi ruoli di prima allora ci sarò riuscito, nonostante il coming out. Se le cose non cambieranno sarà un altro discorso». La D’Urso si è poi sincerata sul compagno attuale di Garko: «Gaetano sta bene, anche se a Milano ci hanno beccato i paparazzi. Mi ha destabilizzato l’incontro con i paparazzi a Roma. Lui l’ha presa bene, non gli interessano queste cose, ci sta seguendo in tv adesso». L’attore ha poi affrontato le sfere, ovvero critiche e attacchi da parte di personaggi pubblici, intervenuti in trasmissione. Il primo attacco è stato sferrato da Platinette:  «Non apprezzo la serialità delle sue dichiarazioni. Molti anni fa abbiamo avuto una telefonata su una sua prestazione lavorativa, di cui avevo ben parlato in un mio articolo. Mi ha ringraziato per non averla identificata, come gli altri, uno sciupafemmine. Come poteva non dirlo che eterosessuale non è, visto che non c’è nulla di male? La vedo poi fare quella dichiarazione ben recitata, poi dalla Toffanin a Verissimo, e ora qui, terza puntata. Quanto andrà avanti questo outing? Chi ha una necessità urgente di raccontare la sua vita non lo fa a rate. Sta diventando un po’ troppo televisivo» la risposta secca di Garko: «Non l’ho fatto per pubblicità. Da stasera non mi vedrete più in televisione. Avevo una necessità mia di dirlo, sono andata al GF per bloccare la manfrina portata avanti da Adua». Risposta spedita anche quando Garko viene accusato di aver preso in giro tante ragazze, che avevano i suoi poster in camera: «Non sarei arrivato ai poster appesi in camera se non lo avessi fatto. Non a fine anni ’80. È vero ho giocato a interpretare ruoli, ma a questo punto va denunciato anche Spielberg che ha fatto vedere i dinosauri. Non preso in giro le mie fans, questo è cinema. Se continuerò a recitare negli stessi ruoli allora avrò, forse, rotto un sistema. E quanto ero riservato prima vorrei continuare a esserlo». Gabriel Garko ha poi messo in chiaro il rapporto con le due ex storiche:  «Eva Grimaldi e io eravamo d’accordo, abbiamo vissuto insieme per otto anni, abbiamo avuto un rapporto diverso. Io e Adua neanche ci vedevamo, c’erano solo le copertine, ed eravamo d’accordo così. Esistono tutt’oggi i matrimoni finti tra milionari. È tutto finto per il sistema, e perché il sistema funzioni. Un sistema che nega la libertà, ma prima non potevo fare diversamente, ho iniziato a lavorare a sedici anni».

Gabriel Garko, la verità sul coming out: "Al Gf Vip non volevo farlo". L'attore, ospite di Live, ha svelato il retroscena legato al suo coming out. Nella Casa era entrato per mettere a tacere Adua Del Vesco che da giorni parlava della loro finta relazione. Novella Toloni, Lunedì 12/10/2020 su Il Giornale.  "Non l'ho studiato a tavolino e non volevo pubblicità", Gabriel Garko ha messo la parola fine al suo coming out. Ospite di Barbara d'Urso a Live l'attore è tornato a parlare della sua rivelazione fatta poche settimane fa all'interno della casa del Grande Fratello Vip, chiudendo di fatto un cerchio aperto da anni. Negli studi del programma domenicale di Barbara d'Urso Gabriel Garko ha salutato il suo pubblico, svelando: "Da stasera non mi vedrete più in televisione". Ma si è tolto anche gli ultimi sassolini dalla scarpe su una vicenda che tiene banco da ormai diverse settimane. A sorpresa l'attore di origini torinesi ha confessato che l'idea di fare coming out nella Casa non era stata neanche presa in considerazione. Garko non era andato al Grande Fratello Vip per rendere pubblica la sua omosessualità, ma per invitare Adua Del Vesco a non parlare più della loro finta relazione. "Sono entrato al Grande Fratello Vip non per fare outing - ha svelato a Barbara d'Urso - ma perché Adua stava parlando della nostra relazione, di cose che non mi piacevano, e sono andato lì per dirle di non portare avanti questa manfrina". A scoperchiare il vaso di pandora è stato invece Alfonso Signorini che, durante la lettura della lettera scritta da Gabriel Garko per Adua al Grande Fratello, ha portato l'attenzione sul fantomatico "segreto di Pulcinella", facendo capire che dietro ci fosse ben altro: "Quella sera non ho affatto rivelato il mio orientamento, è stato Signorini, ho parlato del "segreto di Pulcinella" perché sono stato sempre molto riservato sulla mia vita. Non è una cosa facile da fare e neanche necessaria, ma non ce la facevo più a sentire che ero fidanzato con qualcuno". La solidarietà mostrata da Alfonso Signorini nei confronti di Gabriel Garko e quelle parole di empatia hanno invece fatto intuire il resto. Lo stesso Signorini, in un editoriale sul settimanale Chi, ha svelato ancora sull'attore: "All'inizio tra me e Gabriel Garko non correva buon sangue. A me non piacevano le sue storie d'amore inventate con le colleghe: il mio istinto mi diceva che non ci fosse niente di vero in tutte quelle pose e quegli ammiccamenti da fotoromanzo degli Anni '50. Invece ora Gabriel Garko ha capito molte cose, una su tutte: che nella vita quello che conta di più è potersi guardare allo specchio e piacersi. Si è liberato del peso di un'immagine che per lui era diventata insopportabile, quella dello sciupa femmine, facendo intuire senza troppi misteri la sua omosessualità. Ho trovato un nuovo amico".

Dagospia il 19 gennaio 2020. INTERVISTA DI PIERLUIGI DIACO A GABRIEL GARKO – IO E TE DI NOTTE – RAI UNO

DIACO: Tu se ti concedi hai bisogno di avere fiducia nel tuo interlocutore e di riconoscere la buona fede no?

GARKO: Non è questione di avere fiducia o di aver paura di qualcosa, più che altro devo avere un minimo di stima. Come sappiamo oggi è molto facile arrivare in televisione e fare qualsiasi cosa, sia stando dietro che davanti alle telecamere quindi preferisco dedicarmi a quegli spazi che stimo e in cui mi fa piacere esserci.

DIACO: Immagino che molte volte ti sei trovato a sottrarti dal raccontarti sinceramente, è una sensazione che ho solo io o sbaglio?

GARKO: È una sensazione verissima. Quando vai in televisione vieni visto solo per ciò che appari esteriormente e qualsiasi cosa tu dica non viene ascoltata. Quando si ragiona troppo prima di andare in onda sulle cose da dire, su quello che può far colpo si sbaglia sempre. Ad un certo punto della mia carriera ho capito che era giusto fregarsene del giudizio della gente e che in ogni caso avrei detto quello che penso veramente.

DIACO: Tu hai avuto un team di lavoro che ti ha seguito durante tutta la tua carriera. Negli ultimi due anni, però, hai cambiato le persone con cui collabori e ti sei liberato di questo gruppo di persone, che ti hanno portato al successo… Non si va incontro ad un rischio?

GARKO: Relativamente. Nei rapporti di lavoro c’è sempre un inizio, un apice e una discesa:   una parabola che deve fare il suo corso. Secondo me eravamo arrivati alla fine e penso che con quel linguaggio io non avessi più nulla da dire. Per fare crescere il personaggio Garko tante cose mi sono state strette.

DIACO: Qual è la cosa che ti è stata più stretta?

GARKO: Beh sicuramente il fatto di non poter vivere a pieno, a 360 gradi, la propria libertà. Se decidi di essere un personaggio pubblico devi stare attento a tutto e far sì che tutto venga misurato nel modo giusto.

DIACO: Il tuo team di lavoro aveva un metodo  che era quello di tenerti lontano dalla vita quotidiana… Immagino che non deve essere stato facile per te accettare tutto questo.

GARKO: L’analisi mi ha aiutato, però come ha detto il mio stesso analista, per una mia dote personale, mi sono sempre auto analizzato tantissimo: sia per rimanere con i piedi per terra che per non perdere la brocca nei momenti di solitudine.

DIACO: Cosa ti ha aiutato?

GARKO: Sicuramente il senso del dovere. Quando giri una fiction dura circa sei mesi, quindi quando ne fai una dietro l’altra sono sei mesi più sei mesi e avanti così ogni anno. Quindi la mia era una forma di rispetto per tutti quelli che lavoravano al film. Un film è fatto da tutte le persone che compongono quel mondo, se ne manca uno ne manca un pezzo. Non sono uno di quegli attori che va sul set e si atteggia da star del film.

DIACO: Ma ti è mai capitato di odiare te stesso o meglio l’immagine di te che viene rappresentata sui giornali e sui media in generale?

GARKO: Odiare è un parolone… Mi comporto come ho fatto a Sanremo: in quell’occasione ho vietato tutte le persone che lavoravano con me e ovviamente a me stesso di leggere qualsiasi commento sui social e di leggere commenti sui giornali per non farmi influenzare e quindi andare avanti secondo un mio metodo. Se avessi iniziato a leggere i commenti che scrivevano sui social e sui giornali mi sarei fatto trascinare da un fiume in piena a destra e a sinistra.

DIACO: La bellezza maschile è sempre stata oggetto di lusinghe al limite della volgarità, nel tuo caso hai incontrato una persona che non è stata molto “gentile” nei tuoi confronti.   

GARKO: Non ne ho incontrata solo una, ne ho raccontata solo una. La differenza sostanziale tra un uomo e una donna è che alla donna mettere la mano addosso o fare un complimento volgare, vai fuori dai binari. Quando viene fatto su una donna avviene in maniera brutale. E io non amo questo. Su un uomo invece è molto più facile mettere una mano addosso e farlo come scherzo, quando invece dà fastidio lo stesso.

DIACO: Ma ci sei stato male?

GARKO: Io quell’episodio non l’ho voluto raccontare per fare la vittima perché immagino sia successo un po’ a tutti… Sono andato avanti per la mia strada. Io all’epoca avevo 16 anni, lui aveva 40 anni, era sposato con figli. Io nel libro l’ho voluto scrivere perché si tende a mettere un po’ al sicuro le persone sposate con figli perché improvvisamente sono diventati “normali”. Volevo denunciare il fatto che la normalità, che è una parola che odio, è soggettiva non oggettiva.    

DIACO: Non ho voluto farti domande personali e credo che il modo migliore per arrivare a quella normalità a cui ti riferisci sia proprio non parlarne. Francamente nel 2020 non se ne può più di dover chiedere ad un personaggio da che parte sta: una persona non è la sua identità sessuale, una persona ha innanzitutto la sua identità di essere umano.

GARKO: Parliamo di cibo così diventa più facile… Se a me piace la crostata con le pere e il salame piccante… (!!!!)

DIACO: Però mi hai dato un suggerimento su cosa ti piace… Ti piacciono le cose forti!

GARKO: Era per fare un accostamento che non sta né in cielo né in terra… E il salame comunque si metterebbe a fette.

DIACO: Qui voliamo altissimo!

GARKO: Se io ho dei gusti particolari e a te questa cosa fa  vomitare o non ti piace, in ogni caso per me è la “normalità” e per te no.

DIACO: Prima o poi andiamo a mangiare insieme e capiamo se i gusti sono gli stessi. Al ristorante ovviamente.

DIACO: Commenta questo capolavoro.

GARKO: Io pensavo ritoccaste la foto mettendoci delle fiamme dietro. Perché ci stavano da Dio.

DIACO: In che stato stavi in questo momento della tua vita?

GARKO: Io a quell’età odiavo essere fotografato…

DIACO: Questa era la prima comunione? Che ragazzino eri?

GARKO: Sì era la prima comunione. Ho avuto diverse fasi: una in cui ero parecchio discolo e amavo il fuoco. Giocavo spesso col fuoco bruciavo i giocattoli e più di una volta ho rischiato di dar fuoco alla casa. Poi c’è stato un periodo in cui mia mamma mi metteva la pettorina col guinzaglio. Questo perché quando andavo al mercato con lei, io iniziavo a correre e tiravo giù le gonne alla signore. Mi divertiva. Poi ho avuto un periodo di totale tranquillità e lì ho iniziato a pregare.

DIACO: A proposito il tuo rapporto con Dio com’è?

GARKO: Non amo parlare di religione né di politica.

DIACO: Pensi di avere una tua dimensione spirituale?

GARKO: Assolutamente sì.

DIACO: Con il senno del poi cosa diresti a quel ragazzino?

GARKO: Gli direi che avevo dei sogni e che in parte sono riuscito a realizzarli e quindi sono contento.

DIACO: Qual è un sogno che avevi a quell’et à e ancora hai nel cassetto e vorresti realizzare in futuro?

GARKO: A quell’età forse avrei voluto fare il pilota di aerei militari poi mi sono allungato troppo in altezza e non ho avuto l’occasione. Però sto prendendo il brevetto per pilotare gli aerei.

DIACO: E quante volte alla settimana vai?

GARKO: Puoi farlo una volta a settimana o tutti i giorni, decidi tu.

DIACO: Hai mai sognato nella tua attività onirica di volare?

GARKO: Sì e mi ricordo ancora oggi di aver sognato di volare sopra casa mia a Settimo Torinese e poi mi sono allontanato e sono andato verso un portone che si stava per chiudere e sono riuscito a passare. Poco dopo sono venuto ad abitare a Roma.

DIACO: L’hai raccontato all’analista questo sogno?

GARKO: Mi pare di sì.

DIACO: Bella questa cosa che racconti apertamente dell’analisi…

GARKO: Tanta gente pensa che andare dall’analista voglia dire avere dei problemi. Quando invece li risolvi. Parlare con l’analista è un po’ come parlare allo specchio ma senza filtri. Tanti dicono: se hai un migliore amico parla con lui. Non è la stessa cosa perché gli racconti un sacco di palle.

DIACO: Ce l’hai tu un migliore amico?

GARKO: La definizione “migliore amico” la trovo un po’ infantile. Comunque sì ho degli amici e amiche con cui mi confido, tra l’altro ho un bellissimo rapporto con le mie sorelle e con mia mamma.

DIACO: E Dario, che è il tuo nome vero, è amico, nemico, avversario complice? Cos’è?

GARKO: Siccome Torino io l’ho vissuta fino ai 18 anni la identifico con Dario. Per me Torino è quella città vergine dove ho fatto tutto con la massima spensieratezza: lì ho i più bei ricordi. Ed è una città che mi mette gioia, felicità ma allo stesso tempo malinconia e un senso di nostalgia.

DIACO: Quindi Torino è paterna e Roma è materna.

GARKO: Sì Roma mi ha accolto, la amo molto… Se adesso pensa a casa, penso a Roma. Ma era più bella prima. 

DIACO: Tu hai un bellissima confidenza con gli animali, soprattutto con i cani.

GARKO: Grandissima confidenza e grandissimo rispetto. Chiedo sempre prima di accarezzare un cane, ci sono cani che non amano essere accarezzati.

DIACO: Lui era Bacco quanti anni è stato con te? Com’è entrato nella tua vita?

GARKO: Sette anni. Io ho sempre avuto la passione per gli alani ma abitando in centro a Roma diventava difficile; anche se poi ho scoperto che gli alani non hanno bisogno di spazi aperti, è un cane per lo più da appartamento. Vuole sempre stare vicino al padrone. Con lui abbiamo avuto un rapporto particolare che tendo sempre a instaurare con i miei cani ma con lui soprattutto: me lo portavo ovunque. In camerino quando giravo, ha viaggiato tutta l’Italia tranne le isole. Quindi siamo stati veramente sempre insieme. Era bravissimo l’unico problema che avevo in albergo era quando dovevano entrare per fare le pulizie. Una volta una signora è entrata in camera e lui era sul letto: la signora si è chiusa dentro il bagno e l’ho ritrovata io dopo circa 20 minuti. Perché Bacco non la faceva più uscire.

DIACO: A proposito di bagni, prima accennavi  parlando delle tue tre sorelle al problema che si può creare rispetto al bagno…

GARKO: Io avevo due o tre problemi. Mia mamma non voleva le chiavi nei bagni e quindi quando entravo io da una certa età in poi volevo la mia privacy. Quindi avevo trovato un metodo: prendevo una scopa e avevo capito che potevo incastrarla tra il muro e la base del lavandino, bloccando la porta, così da rimanere tranquillo.

DIACO: Sei sempre stato molto protettivo con loro?

GARKO: Io avevo due sorelle più grandi e una più piccola, Laura. Io sono sempre stato protettivo con lei e le altre automaticamente con me.

DIACO: In ognuno di noi coabita una componente femminile...La dimensione genitoriale l’hai mai sentita dentro di te negli anni.

GARKO: Sì però più ci pensi meno ci vai incontro. Mi sono reso conto di non essere mai arrivato al quid finale… Per quanto riguarda invece la parte femminile dentro ognuno di noi purtroppo c’è tanta gente che ha paura di affrontarla e questo è un problema perché poi sfocia in aggressività. Chi non fa pace con se stesso…

DIACO: Prima parlavi di quegli uomini che mettono su famiglia avendo abitudini diverse e spesso sono gli stessi che poi tirano fuori quel tipo di atteggiamento.

GARKO: Quello purtroppo fa parte di una cultura che è tutta sbagliata… Io ci convivo anche molto bene (con la parte femminile ndr) perché con il lavoro che faccio mi serve. Quando sei sul set e devi riuscire ad emozionarti e a piangere è una cosa su cui all’inizio fai fatica e se hai una insicurezza in quello, perché non vuoi farti vedere in un momento di debolezza, allora meglio cambiare mestiere.

GARKO: È una persona con cui ho avuto l’onore di lavorare e non solo, perché poi siamo diventati amici. Era una persona che adoravo sentire parlare per la sua cultura elevata e faceva racconti meravigliosi.

DIACO: Come tutte le persone colte era molto curioso e non si atteggiava mai a chi sapeva più di te.

GARKO: Questa è una delle cose che apprezzo di più. Perché spesso le persone colte amano contornarsi di persone meno colte così primeggiano, ecco lui non era così. Lui amava contornarsi di qualsiasi tipo di persona per dare e per prendere.

DIACO: Sei d’accordo che la bellezza non equivale a eros?

GARKO: Anzi tendenzialmente una persona non bella rischia di essere più erotica…

DIACO: Com’è stato lavorare con lui?

GARKO: Io interpretavo una simpatica canaglia, lui è una simpatica canaglia. Uomo coltissimo, molto più di quello che la gente si aspetta. Perché lui vende un prodotto fatto di tutte e culi ma lui è molto oltre quello, ma si diverte a sfregio a fare tutto il contrario…

DIACO: Tu quel Sanremo l’hai fatto molto bene perché hai tirato fuori una dote che non tutti conoscevano di te: tu sei molto autoironico.

GARKO: A Sanremo c’erano le persone che volevano che io fossi impeccabile e perfetto, tipo robot. Mi ero un po’ stufato di questa cosa. Motivo per cui le prime 4 puntate le ho fatte spettinato. Era un po’ una ribellione nei confronti di tutte quelle imposizioni. Difatti a Sanremo ho deciso di essere completamente me stesso. Un conto è recitare quando hai un copione, reciti e ti dicono stop. Ma lì sei su un palcoscenico e può succedere di tutto, se non hai la spontaneità di sbagliare di fare le gaffe non va bene.

GARKO: Lei la adoro perché è questa donna che si mette seduta e tira fuori questa voce meravigliosa che ti entra dentro e se sei nel momento sbagliato ti squarta e inoltre è la canzone che c’era nelle fate ignoranti.

·        Gabriele e Silvio Muccino.

Muccino attacca Salvini. Ma il leghista lo zittisce: "Quanti errori in italiano". Il leader della Lega, Matteo Salvini, ha risposto con sarcasmo ad un messaggio con diversi errori grammaticali del regista Gabriele Muccino. Gabriele Laganà, Venerdì 12/06/2020 su Il Giornale. Cambiano i tempi e le persone ma non i metodi. Se ieri il nemico del mondo progressista, buonista e benpensante era Silvio Berlusconi, oggi ad essere nel mirino della sinistra è Matteo Salvini. Attaccare il leader della Lega sembra essere divenuto uno sport praticato con piacere dai radical chic. Lungo è l’elenco dei personaggi più o meno famosi che si stanno dedicando a questa attività. Ora è Gabriele Muccino a scendere in campo contro Salvini. Il regista e sceneggiatore italiano ha espresso il suo astio contro il leader della Lega con un post su Twitter. "Non parli a nome degli italiani perchè milioni di essi non sono nè suoi Amici, nè condividono nulla di quello che lei ha realizzato e vorrebbe realizzare. Lei, totalmente incurante della Res Pubblica, lascia la scene, non ci chiami suoi Amici e smetta di parlare a nome degli italiani", è il messaggio scritto da Muccino come risposta ad un post con il quale il leader della Lega ha rilanciato una vecchia, e per certi versi romantica, pubblicità della Barilla. Salvini ormai a questo genere di attacchi è abituato e forse non ci fa quasi più caso. Però, nonostante i suoi impegni, il leader della Lega ha voluto spendere del tempo per rispondere direttamente allo sceneggiatore. E il suo contrattacco è all’insegna del sarcasmo:"Il regista (che in passato mi ha accusato di riportare l'Italia nella "melma dell'ignoranza"...) non gradisce che vi chiami "amici" e vi dia la buonanotte! Ma chi lo obbliga a seguirmi? La rete è libera e bella! Con buona pace sua, buonanotte Amici!". L’ex ministro dell’Interno, però, non si limita a questa battuta ma dà lezioni di italiano a Muccino mettendo i diversi errori grammaticali presenti nelle frasi del regista: "P.s. A questo coltissimo intellettuale di sinistra che mi dà dell'ignorante ricordiamo che si scrive: "né", "perché" e "res publica". Subito a ripetizione dalla Azzolina (senza plexiglas)! #MuccinoBocciato". Non è tutto. Nel tweet, infatti, Salvini sottolinea un altro errore presente nel post di Muccino (“lascia la scene”, ndr). Quello del regista non è il primo affondo contro il leader della Lega: basta scorrere la sua pagina Twitter per imbattersi in diversi post contro l’ex ministro pubblicati solo negli ultimi. Eppure quello datato 11 giugno, che è finito all’attenzione dello stesso Salvini, pare non sia stato gradito dagli utenti del social. Numerose persone, infatti, hanno risposto allo sceneggiatore arrivando anche a criticarlo pesantemente. Un autogol inaspettato per il regista che, forse, era convito di raccogliere consensi con quel suo post contro il leader leghista.

Stefania Ulivi per il “Corriere della Sera” il 7 aprile 2020. «Siamo in un limbo, tra color che stan sospesi, la vita di prima è un ricordo remoto». Non è una novità per Gabriele Muccino trovarsi in campagna: ci abita da sempre, alle porte di Roma. L' esperienza inedita, da qualche settimana, come tutti, è non poter uscire, non incontrare altri se non gli stretti familiari.

«Non esco dall' 8 marzo, è una sensazione strana anche se faccio quello che farei comunque: scrivere il nuovo film. Ho la fortuna di vivere in campagna, la mia claustrofobia sarebbe stata molto forte in un appartamento in città in convivenza coatta. In casa abbiamo trovato un equilibrio inaspettato, una grande armonia che ci sorprende, devo dire che è una famiglia completamente non mucciniana. Secondo la legge della meccanica avrebbe dovuto portare a una pulp fiction Invece stiamo benissimo».

Di cosa sente la mancanza?

«Mi manca un po' di energia vitale, nonostante mi goda tramonti, albe e fiori della primavera. Mi spaventa, mi sento un po' sedato come mi sentivo ultimi anni a Los Angeles, dove la vita non c' era, c' era il business, una chiacchierata sintetica e poi in casa come un pensionato di Miami. È una sorta di apnea, che si interrompe per i pranzi e le cene. Momenti mai così conviviali, i più belli della giornata, quasi ottocenteschi. Ci si sveglia con la luce, si va a dormire con il buio, la fisicità che pensavamo di aver sostituito con la bolla social si è ripresa la rivincita. Sentiamo tutti di più la mancanza dei contatti. Soprattutto i giovanissimi che a differenza di noi, ne hanno poca esperienza diretta».

In quanti siete a casa?

«In tre, io, mia moglie Angelica e nostra figlia Penelope. Fare i padri è difficile, essere figli non lo è di meno. Ho tre figli, ognuno diverso dall' altro, con ognuno un rapporto diverso. Ora con la piccola sperimento la presenza fisica continua del padre sempre accessibile, abbracciabile. Prima lei tornava da scuola alle tre e mezzo, io lavoravo, la famiglia si diradava. Ora la cadenza puntuale dei pasti aiuta, mi ricorda gli anni in cui non c' era altro che questo».

La aiuta nei compiti?

«Mia figlia è brava a scuola, se le cava anche con la didattica online a distanza, la segue mia moglie. Io lavoro, sono impiegato di me stesso, se non sforno idee mi trovo senza film da realizzare. Sto in un isolamento nell' isolamento, fatto di tante cose, compresi sguardi verso il cielo. Mi imbottisco di film, due o tre al giorno. E sento molta musica, come sempre quando scrivo, onnivoro, da Brahms a Simple Minds a Lou Reed».

A cosa sta lavorando?

«Ho in ballo tre progetti. Uno che cerco di portare alla luce da vent' anni, che parla di divorzio. Molto difficile per me che ne ho esperienza diretta: l' oggetto è troppo vicino alla macchina da presa per metterla bene a fuoco. Poi c' è un vecchio sogno di un film ispirata a un classico. E Il grande caos, un film sul tempo folle che viviamo, spero di essere in grado di raccontarlo. In ogni nazione il virus è stato prima sottovalutato per poi correre ai ripari estremi. È stato come rivedere lo stesso film ogni giorno, come Il giorno della marmotta . Eppure le immagini dello tsunami erano davanti ai nostri occhi. Ma non ci si è voluto credere. Ho chiesto alle persone di mandarmi contributi».

Stanno rispondendo?

«Ricevo una mail ogni 5/10 minuti, materiale umano potentissimo. Mondi molto diversi, dal profondo Nord al Sud, tutte le età, tipologie sociali e culturali. I giovanissimi si sentono scippati del futuro. Non uscire di casa a 16 anni vuole dire anche sospensione delle relazioni amorose e sessuali, un inedito assoluto, come un castigo divino. I più adulti riflettono sulle proprie esistenze, le donne capiscono che sono sole da tanto all' interno della coppia, una solitudine così ossidata che non sanno più gestire il rapporto. Alcune famiglie trovano una rinnovata armonia, altre credo scoppieranno. E poi c' è il grande tema della morte. Vicina ma lontana con l' impossibilità dei funerali, di cerimonie dell' addio. Quelle morti dietro agli scafandri, con i saluti dei familiari via iPad, una delle cose più desolanti».

«A casa tutti bene», «Gli anni più belli». Sono i titoli dei suoi ultimi film .

«Attuali, eh. L' ultimo stava andando benissimo in sala, aveva superato i 5 milioni e mezzo di euro. Quando i cinema riapriranno (chissà quando e come) dovrebbe riprendere la sua corsa».

Quale sarà la prima cosa che farà a fine quarantena?

«Nulla sarà esplosivo e liberatorio come le grandi fini delle tragedie umane, ma progressivo e pieno di diffidenze. All' inizio la reazione è stata esorcizzare cantando, cucinando, ora viviamo una fase più tesa. La transizione alla nuova normalità lascerà segni profondi: il divario tra ricchi e poveri aumenta, molte famiglie stanno finendo i soldi. Enorme perdita di lavoro e Pil. Ci saranno macerie non di mattoni ma molto simili a quelle sulle quali fu ricostruita l' Italia del dopoguerra. Non ho paura per me ma per il futuro di tutti. Servono scelte rassicuranti, temo deragliamenti verso tensioni sociali forti. Se non facciamo in fretta sarà un buco nero».

Gabriele Muccino ritira la denuncia contro il fratello Silvio. Pubblicato martedì, 14 gennaio 2020 da Corriere.it. Gabriele Muccino, regista de «L’ultimo bacio», ha ritirato la querela nei confronti del fratello minore Silvio. Il giudice monocratico del tribunale di Roma ha dichiarato così concluso il processo. L’attore Silvio Muccino era stato rinviato a giudizio per aver diffamato il fratello nel 2016, durante un’intervista: aveva definito il regista un uomo violento e lo aveva accusato di aver aggredito la ex moglie Elena Majoni, perforandole il timpano con uno schiaffo. La vicenda giudiziaria era nata in seguito delle parole pronunciate da Silvio Muccino il 3 aprile del 2016, quando era ospite di una trasmissione televisiva. L’attore aveva definito il fratello «persona violenta» per «avere colpito nel 2012 con uno schiaffo la moglie Elena Majoni perforandole il timpano». Espressioni poi ribadite anche in alcune interviste, ma considerate dalla procura offensive della reputazione e dell’onore di Gabriele, che di conseguenza aveva sporto querela. L’avvocato di parte civile Carlo Longari, che rappresentava gli interessi di Gabriele Muccino, ha spiegato: «Il mio assistito ha deciso di ritirare la querela. Si è comportato da fratello maggiore chiudendo una vicenda che lo aveva molto ferito». L’avvocato Michele Montesoro, che tutelava Silvio Muccino, ha aggiunto: «La brutta lite tra fratelli è stata composta. Adesso potranno continuare la loro professione senza dover comparire in tribunale».

Da Oggi.it il 22 gennaio 2020. In un’intervista a OGGI, in edicola da domani, Gabriele Muccino spiega le ragioni della remissione della querela per diffamazione ai danni del fratello Silvio, dopo il rinvio a giudizio dello stesso per aver detto in tv nel 2016 che il regista aveva dato una sberla all’allora moglie Elena Majoni causandole la rottura del timpano. «Non penso di aver fatto nulla di straordinario. Semplicemente non volevo che mio fratello fosse condannato. Quando le cose rischiano di superare certi limiti, è bene che chi sente una responsabilità faccia un passo indietro. Mi sono comportato da fratello maggiore. Tutto qua», dice. E aggiunge: «Se Silvio torna, sa dove trovarmi. Io sono qui e l’aspetto. In questi anni ho fatto molti passi verso di lui: per esempio, gli avevo offerto di recitare nel mio penultimo film, A casa tutti bene. Quello che è successo non è partito da me, ma mi rendo conto che noi siamo vittime della nostra stessa popolarità: fossimo stati persone comuni non ci sarebbe stata questa micidiale risonanza». Alla domanda «C’è qualcosa che non rifarebbe», il regista risponde: «Certamente quei messaggi su Twitter in cui accusavo Silvio di essersi fatto plagiare (dalla scrittrice Carla Vangelista, ndr). Ero a Los Angeles, da solo. Da anni avevo perso completamente le tracce di mio fratello e mi venne di lanciare un Sos come si fa coi messaggi in bottiglia, affidati al mare. Ora lo so, quella fu una terribile sciocchezza».

Gloria Satta per “il Messaggero” il 15 Gennaio 2020. Gabriele Muccino ritira la querela per diffamazione contro il fratello minore Silvio e tra i due protagonisti del cinema, in freddo da anni e in lite giudiziaria dal 2016, torna la pace. Per ora soltanto in tribunale dove il processo contro l' attore, 37 anni, si è chiuso ieri con il colpo di scena nel giro di pochi minuti, il tempo sufficiente al giudice monocratico per prendere atto della decisione del regista 52enne. «Ho ritirato la querela contro mio fratello Silvio. Mi interessava che un giudice, con tutti i documenti alla mano, lo rinviasse a giudizio. E questo è accaduto. Non mi interessa la sua condanna. Chiudo così questa parentesi triste e insensata», ha twittato poi Gabriele, lasciando intuire che la serenità tra i due Muccino, un tempo legatissimi tanto nella vita quanto sul set, non si sia ripristinata totalmente. La vicenda, innescata da Silvio che in tv aveva accusato il fratello di comportamenti violenti, e sia pure archiviata dal punto di vista legale, sembra lasciarsi dietro uno strascico di amarezza. Dai successi condivisi alle carte giudiziarie: dopo aver girato insieme film di successo (Come te nessuno mai, L' ultimo bacio, Ricordati di me), i Muccino Brothers continuano dunque a camminare ciascuno per la propria strada. Gabriele ha diretto Gli anni più belli, in sala il 13 febbraio, mentre Silvio, assente dagli schermi dal 2017 (ma nel frattempo ha scitto dei libri), si prepara a tornare in pista malgrado la voce che si fosse ritirato in Umbria a fare il falegname: girerà invece un film con il regista inglese Peter Chelsom. Fratelli coltelli, una storia degna di una sceneggiatura cinematografica. La rottura tra Gabriele e Silvio risale a diversi anni fa, molto prima che lo scontro tra i due arrivasse in tribunale, in tv, sulle prime pagine. Nel mondo del cinema un po' tutti ne erano a conoscenza, mentre Muccino junior, già popolare protagonista dei film di Carlo Verdone (Il mio miglior nemico) e Giovanni Veronesi (Manuale d' amore) si lanciava anche nella regia con un discreto successo e Muccino senior sfondava a Hollywood dirigendo star come Russel Crowe, Will Smith, Uma Thurman. Ma per quale motivo i due avevano smesso di parlarsi? Rivalità professionale, ragioni familiari, gelosia? Il primo ad uscire allo scoperto è stato Gabriele, che nel 2013 su facebook ha accusato la scrittrice e sceneggiatrice Carla Vangelista, intima di Silvio, di aver «plagiato» il fratello allontanandolo dalla famiglia. Lei aveva risposto con una querela per diffamazione. Il regista aveva allora ritrattato, chiedendole scusa. Ma la scintilla che ha innescato il processo è scoppiata il 3 aprile 2016 quando l' attore, ospite del programma domenicale di Massimo Giletti L' arena su Rai1, attaccò il regista (non presente in studio), gli occhi chiari fissi alla telecamera e un fiume di parole degno di una seduta psicoanalitica. «Gabriele è un uomo violento», dichiarò, «ha picchiato l' ex moglie, la violinista Elena Majoni, e nel 2012 con uno schiaffo le ha perforato un timpano. Ma io, per difendere mio fratello, ho negato quell' episodio giurando il falso in tribunale. E me ne pento». Di lì la querela di Gabriele, il rinvio a giudizio di Silvio e, ieri, l' epilogo processuale della vicenda. La lite è ufficialmente chiusa. Ma per assistere all' abbraccio tra i due fratelli che un tempo facevano sognare il pubblico e sono poi finiti protagonisti delle cronache giudiziarie, forse bisognerà aspettare ancora.

·        Gegè Telesforo.

«Il ritmo mi guida ogni giorno»: Gegè Telesforo, lo show con Arbore e il nuovo disco jazz. «La mia vita è tutta un ritmo, timing, orari che si incasellano». Alberto Selvaggi l'11 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Tùuu…Tùuu… Buongiorno, ho appuntamento con Eugenio Roberto Antonio Telesforo, nato a Foggia il 14 ottobre del 1961.

«Veramente, così mi chiama soltanto il direttore della banca o l’esattore delle tasse. Sono io, sono qua, Gegè».

Mio Dio, ore 10.30 spaccate di mercoledì 10 giugno, ha risposto all’istante nell’orario concordato.

«Come vede, da bravi meridionali, siamo più precisi dei cronometri di Ginevra. La mia vita è tutta un ritmo, timing, orari che si incasellano. La trasmissione Sound Check su Radio 24, dove propongo musica, qua da casa mia, dove ho sgobbato anche su Il mondo in testa, il mio disco nuovo. Poi alle 15 raggiungo lo studio a casa di Renzo Arbore a Roma per lo Striminzitic Show, su Rai2 in seconda serata, 120 chilometri ogni giorno».

Come sarebbe, va a Roma? So che ci vive, in una villona.

«Sì magari avessi quei soldi. Vivo a Sutri nel Viterbese».

Vede quando uno si affida ai giornalisti per avere primizie? Un collega mi aveva assicurato così. I Servizi deviati sono meno ingannevoli.

«Sto qua, ci campo tranquillo. Poi ho il giardino, che ti cambia la vita e la prospettiva. Ho gli animali, ho il cane Bianca, meticcia buonissima, perché amo le diversità che sono elementi di crescita. Tra l’altro pure io ho un gatto come lei, l’ho visto».

Ah, fesso uguale?

«No, è un trovatello diventato una fiera assassina di topolini, lucertole, serpentelli. Lo trovai con mia figlia Joana, 15 anni, detta “JoJo”, mezza brasiliana, che vive un po’ con me e un po’ con la madre. Lo scorgemmo scostando le frasche con un bastone mentre camminavamo, un esserino».

Tra l’altro i gatti appartengono alla storia del jazz nel cinema. Ricorda gli «Aristogatti» Disney e la loro band?

«Come no, cantavano “Tutti quanti voglion fare il jazz – Alleluia…”. Però il mio Gattuso, come lo battezzammo, all’epoca era solo soletto, non in compagnia come quelli del cartoon».

Solo come lei che, soffrendo della sindrome Arbore, non mette la testa a partito.

«Magari non ho presenze qua in villa, ma ho una compagna architetto, Francesca, che opera come me, che sono Goodwill Ambassador Unicef, per le organizzazioni umanitarie ed è di stanza ad Amman. Sono diventato un po’ giordano facendo su e giù dall’Italia. Non riusciamo a vederci da quattro mesi, a causa di ‘sto casino del coronavirus».

Chissà come ha passato la quarantena. Droghe nulla perché, cosa assurda nel suo ambiente, non ne assume.

«Infatti mantengo in forma i muscoli, peccato per le articolazioni».

E film porno neppure.

«Beh, di questo non sarei così sicuro, dato che lei per primo mi dà titolo di uomo sano e ancora capace di pulsioni. Ho lavorato tanto durante la clausura, contrastando pure i blitz del gatto pianista che mi zompa sulla tastiera mentre sono in diretta radio: buuùm! La musica non la vedo bene. È tutto ancora fermo, la pandemia ha sabotato pure la promozione del mio disco Il mondo in testa. Le popstar hanno ancora un certo ritorno con la vendita dei dischi, noi jazzisti, al pari di altri, avevamo i concerti: fine».

Disco ricco, tra l’altro, nove brani di manifesto esistenziale, con, fra i tanti, Ainé, ossia Arnaldo Santoro, classe ’91, figlio di sua sorella Roberta, voce soul educata e godibile.

«Sì, un talento, ha studiato con me a Los Angeles, poi al Berkeley Institute. Ed è un erede di tradizione. Mio padre Roberto, architetto, alterna il pianoforte al sax tenore. Mia madre Clara in casa ha ascoltato più squilli di trombe che strilli di bambini. I miei ci hanno cresciuto in una casa piena di dischi e tale culto musicale a Foggia è stato celebrato pubblicamente anche durante la pandemia».

In che senso?

«Papà ha approfittato del rito di suonare o cantare dai balconi per scatenarsi con il suo ottone dal sesto piano, Roberta l’ha immortalato in un video e me l’ha mandato. Il jazz univa lui a Renzo, al gruppo foggiano di professionisti e musicisti per hobby. A casa, via Fraccacreta, mi rinchiudevo e studiavo i grandi, gli strumenti, incominciando dalla batteria. Ho avuto una vita non sempre facile in città. Dominava un ambiente funky, se uscivi con 500 lire in tasca non sapevi se e come ti ritiravi. Frequentavo poche persone: mio cugino Roberto, Roberto Cicolella, dell’albergo omonimo, l’oggi comandante Luigi Ippolito, sono cresciuto con un genio come Felice Limosani, celebre artista multidisciplinare. Registravamo improvvisate assurde. Nella Taverna del Gufo ho avuto il battesimo sul palco, con il chitarrista Franco Cerri, ero alla batteria a manco 14 anni. E nello stesso locale festeggiai i diciott’anni, con finale di rissa tra due fratelli che avevo invitato».

La musica è il collante della vostra banda.

«Io vedevo Renzo da bambino con il mio genitore ogni tanto quando tornava a Foggia per fare visita ai suoi. Ma l’intesa che mi vede, assieme a Ugo Porcelli, suo collaboratore principale da 35 anni, avvenne nella Capitale. Mi ero iscritto a economia e commercio».

E so che si fece onore come aspirante traghettatore di clienti nel guado dell’evasione fiscale.

«Sì, eccome. E quanto resi fieri i miei che mi volevano dottore. Non diedi manco un esame bucato, sfasciai pure la Fiat 126 di mia madre in un incidente e mi tuffai nella scena musicale romana, bacchette in mano, e poi nel doppio ruolo, cantando pure. Là io e Renzo ci rincontrammo».

Tanto che ancora oggi duettate su Rai2, con o senza scat.

«L’idea della trasmissione Striminzitic Show che sta andando in onda mi venne in mente al telefono con Arbore dopo il terribile 8 marzo della pandemia. Ma realizzare le puntate è complicato. Infilare, sfilare mascherine e guanti, sanificazione e disinfettanti. Ci destreggiamo con due telecamere, commentando i filmati d’epoca di Renzo, improvvisiamo, è la contemporary old school, tradizione e tecnologia. Tanta tivù assieme, ma anche tanta Orchestra Italiana».

«C’è sempre una pena per il Camminatore, è costretto a separarsi da tutto»: una frase che ci ha dedicato lei dalla penna di Tagore.

«Questo poeta indiano io lo adoro».

Scommetto che fa yoga.

«Azzeccato: dopo colazione, tutti i giorni un’ora, con prosieguo di cacca gigante».

Gulp.

«Beh, è la partenza positiva per completare ogni percorso quotidiano. Comunque ho letto tutto anche di Gibran, Sepùlveda buonanima che ho conosciuto. Durante il Salone del libro di Torino, quando curavo la sezione musica, aspettavamo il taxi ambedue vicino a un grande albergo. Lo riconobbi, per me era come vedere Miles Davis in persona: maestro - gli dissi - sono un cantante jazz, suo ammiratore. E lui: mio figlio si occupa di musica, può telefonarle?».

E un’altra visione la colse anni prima a Minneapolis.

«Prince, mentre registravo nei suoi studi a Paisley Park. Allora vietava a chiunque di chiamarlo col suo nome, per cui non sapevo bene come nominare The Artist. Ti piace ballare?, mi domandò. Così io e Ben Sidran, produttore e musicista, ci ritrovammo nel privè del suo locale Glam Slam, circondati da bellezze nere sensuali mai più viste in natura».

Bene, abbiamo finito, signor Eugenio.

«Eh: e guardi un po’ che ora è».

Le 11.14: trenta secondi all’orario concordato per la chiusura del colloquio.

«Non ci batte nessuno a noi due, vada dagli svizzeri e glielo racconti».

·        Gemma Galgani.

Gemma Galgani riparte: "Sono anni importanti. Non si sprecano". Nella nuova puntata del trono over, Gemma Galgani ha fatto sapere di aver voltato pagina nella sua vita. Serena Granato, Martedì 14/01/2020, su Il Giornale. Anno nuovo, vita nuova. La dama più chiacchierata del trono over ha fatto sapere pubblicamente di aver voltato pagina, nel suo privato. Il 13 gennaio è stata trasmessa la nuova puntata del trono over 35, che ha visto indiscussa protagonista Gemma Galgani. E nel nuovo appuntamento tv del dating-show di Maria De Filippi, la regia ha mandato in onda un video contenente le esclusive immagini di uno sfogo, che la dama torinese ha avuto di recente, dopo aver chiuso i rapporti con il corteggiatore Juan Luis Ciano. L'italo-venezuelano aveva dichiarato in studio che non ci fosse chimica, nel suo rapporto instaurato con Gemma. Inoltre, sempre in studio, Juan era stato accusato da Armando Incarnato di avere frequentazioni parallele alla sua conoscenza avviata al trono over con la Galgani. Tutti motivi per i quali Gemma ha deciso di buttarsi alle spalle la sua conoscenza avuta con il venezuelano naturalizzato italiano. "Non so da che parte cominciare- sono le parole che Gemma ha speso nell'ultimo sfogo registrato nel backstage di Uomini e donne, dopo aver chiuso con Juan-. La cosa che mi dispiace di più è che mi abbia tolto l'entusiasmo, questa cosa me l'ha tolta. E non la ricostruisci subito così, in un attimo". Poi, passa a silurare l'opinionista veterana della trasmissione, Tina Cipollari: "Lei è stata di una cattiveria infinita, proprio. Lei è un'opinionista, ma deve anche avere una certa sensibilità. Anzi dovrebbe dire 'complimenti Gemma, brava, perché tu ci metti sempre l'anima, lo spirito e sei d'esempio a tutte. Per tutto quello che fai'". Nello sfogo, inoltre, Gemma ha espresso in lacrime il suo buon proposito maturato per il nuovo anno: "L'unica cosa che voglio è ritrovare il mio entusiasmo. Questo sì, fa parte di me, è una parte fondamentale della mia vita. Soprattutto a quest'età. L'ho detto, sono anni importanti. Sono anni preziosi. Non si sprecano così. Vedremo come andrà". Dopo aver assistito con attenzione alle immagini dell'ultimo filmato, registrato da Gemma Galgani nel backstage del format, Tina ha sentenziato duramente sulla dama torinese: "Lei ha detto che si sente derubata di tempo e sogni, che ha perso l'entusiasmo, ma nel giro di poche ore si innamorerà di un altro".

Gemma Galgani e i due nuovi corteggiatori. In puntata è emerso che Gemma abbia fatto già la conoscenza di due uomini: Walter e Marcello. Con il primo la Galgani aveva di recente avuto un incontro presso il posto in cui lavora, a teatro, al termine del quale l'uomo aveva però riservato un due di picche alla torinese dichiarando di essere intenzionato ad avere solo un'amicizia con lei, per poi ripensarci nella nuova puntata. Con Marcello, invece, Gemma ha ad oggi instaurato una conoscenza di tipo telefonica. Ma anche altre due donne del parterre femminile di Uomini e donne, oltre a Gemma, sono in possesso del numero del cavaliere: Anna e Antonella.

·        Gene Gnocchi.

Francesca D'Angelo per Libero Quotidiano il 24 agosto 2020. Gene Gnocchi cambia casa e formula. Passa a Quarta Repubblica, Mediaset. Non gli basta più uno spazio circoscritto nel programma, vuole interagire sempre con il conduttore. Da lunedì 31 sarà ospite fisso nel talk show di Nicola Porro. «Trovo che la copertina satirica sia un po' superata, il contributo ironico funziona meglio se è integrato all'interno della trasmissione. Circoscriverlo a una cartolina, piazzata lì, è un po' come dire: "Facci ridere, poi quando hai finito andiamo avanti noi". Una volta scaduto il contratto con La7, ho accettato di passare a Quarta Repubblica proprio perché Porro mi ha offerto la possibilità di sperimentare un approccio nuovo, muovendomi da battitore libero».

Sarà più pungente, visto il differente ruolo...

«Già, ma proprio per questo i miei interventi saranno più arricchenti».

Una volta i comici dovevano fare i conti con la censura, oggi devono vedersela con il politicamente corretto. Qual è peggio?

«Il politicamente corretto. La censura è un rischio calcolato: puoi immaginare che venga applicata e, quando accade, l'avevi prevista. Il politicamente corretto è molto più subdolo, perché cambia, ti irretisce, è mellifluo. Ti spinge ad auto-censurarti».

Le battute su donne, minoranze e gay sono diventate più rischiose della satira?

«Durante il lockdown ho guardato su Netflix gli stand up di molti comedians americani e loro fanno battute molto pesanti su donne, gay, minoranze. Da noi sarebbe impensabile: si scatenerebbe una polemica senza fine. Un altro terreno delicatissimo è il calcio: una volta potevi dire che la Juve ha giocato peggio del Canicattì, ora se lo fai arriva il sindaco e gli abitanti di Canicattì e ti fanno una intemerata».

Invece i politici ora sanno incassare?

«Alcuni se la prendono ancora ma fingono di ridere perché sanno che fare buon viso a cattivo gioco li fa apparire superiori».

Anche lei condivide la difficoltà, espressa da alcuni suoi colleghi, di ideare parodie o battute politiche che superino l'originale?

«È un problema che avverto. Spesso basta la pura imitazione per far ridere: non occorre aggiungere nulla di più né calcare la mano. In uno spettacolo che porto in giro da anni, chiudo sempre con la seguente gag: chiamo sul palco il sindaco che mi propone una data perché "Toninelli non può più venire". Immancabilmente c'è il boato di risate. Ormai ci sono alcune dichiarazioni, di certi politici, che sono considerate repertorio comico. Toninelli, così come la Castelli, sono personaggi che potresti portare a Zelig».

O a Quarta Repubblica?

«Mi piacerebbe fare Ferruccio De Bortoli, o lo stesso Toninelli, ma solo se è funzionale al programma. Credo sia più pagante punteggiare la puntata ironicamente, intervenendo nel dibattito in studio».

Tra i temi caldi di settembre c'è il referendum: lei è favorevole o contrario?

«Sarei favorevole se il taglio fosse associato a una riforma costituzionale. Così com' è non credo possa portare un gran beneficio».

Passiamo alla pandemia: ci ha resi davvero migliori?

«Ne siamo usciti uguali, se non peggiori».

Il mondo si divide tra allarmisti e negazionisti...

«A causa del Covid ho perso quattro amici: erano sani, giocavamo a calcetto. Non prendo il negazionismo nemmeno in considerazione. Chi dice cose del genere mi fa ribrezzo...».

Durante il lockdown ha scritto il suo nuovo spettacolo Se non ci pensa Dio, ci penso io. Di cosa si tratta?

«È un dialogo tra me e il Signore, molto ironico, dove gli chiedo ragione di alcune cose per me inspiegabili. Per esempio: come hai fatto a tollerare l'arrivo dei cantanti spagnoli? O l'invenzione degli ausiliari della sosta? Così decido di risolvere a modo questi problemi. La tournée inizia il 19 settembre, a Salsomaggiore».

Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 4 marzo 2020. Gene Gnocchi ha compiuto 65 anni proprio il primo marzo scorso, dunque rientra nella categoria di coloro a cui viene consigliato di tapparsi in casa a causa del coronavirus.

Auguri.

«Grazie. Sì, siccome ho 65 anni sono "costretto" a stare in casa. Il problema è che vedo Burioni ovunque. L' altro giorno ho aperto il forno è invece delle melanzane alla parmigiana è spuntato lui, Burioni».

Non è bello.

«No. Ormai vige l' incertezza. Essendo diventati tutti virologi, come ben sa, non so più se credere a Burioni o a Dj Francesco. Ma in questo delirio una bella notizia c' è».

Ce la dica.

«A Palermo ho letto che sono stati arrestati due consiglieri comunali per mazzette: segno che si sta tornando alla normalità, meno male».

Il turismo è stato colpito, però.

«Sì, stanno annullando tutte le prenotazioni. L' unico che vuole venire in Italia è Di Battista».

Contatti con qualcuno di Codogno ne ha avuti?

«Sono stato varie volte, giocando a pallone ho diversi amici. Ormai sono visti come gli untori, per essere considerati si disegnano gli occhi a mandorla».

Lei è di Fidenza e vive a Faenza, in Emilia Romagna, dove hanno chiuso le scuole.

«Sì, le dico una cosa tenera su mia figlia piccola. Ha sette anni. A lei, stranamente, piace molto andare a scuola quindi è triste. Allora si è messa in testa di creare il vaccino per il coronavirus. Ci ha messo vari ingredienti: aranciata, acqua, liquirizia, un chilo di sale. La cavia sono io, e non posso sputarlo».

Anche lei è uno di quei genitori «disperati» per la chiusura delle scuole?

«No, io non riesco a stare spesso con i miei cari. Le date in giro per spettacoli sono state annullate, come noto, quindi passo più tempo con la mia famiglia.

Me la sto godendo».

Seriamente, lei cosa pensa dell' allarme in Italia?

«Io non so cosa pensare, perché noto delle incongruenze. Vorrei che qualcuno dicesse le cose come stanno. Prendiamo il calcio. È vero, la scorsa settimana la Serie A è stata sospesa, ma la B no. La Cremonese ha giocato, per esempio. Ecco dunque il senso di smarrimento, uno stato di insicurezza generale».

Avverte la paura?

«Sì. L' altro giorno ero in un treno che partiva da Roma: era vuoto. Il primo marzo ero al ristorante a festeggiare il mio compleanno, in un locale dove di solito ci sono cento persone. Eravamo sette o otto. La gente sta in casa. Non solo noi sessantacinquenni. Ci dicono di stare tranquilli. Di avere speranza. Appunto, il guaio è che abbiamo Speranza».

·        Georgina Rodriguez.

Georgina Rodriguez: “Voglio essere autonoma”. Alice il 31/01/2020 su Notizie.it. Si era vociferato che Georgina Rodriguez non avrebbe preso parte a Sanremo 2020, ma lei ha smentito la notizia e si è confessata a tal proposito. Georgina Rodriguez ha parlato per la prima volta della sua partecipazione al Festival di Sanremo, confermata per la serata del 6 febbraio accanto al direttore artistico della 70edizione, Amadeus.

Georgina Rodriguez a Sanremo. Nonostante i rumors sul suo presunto cachet da capogiro, Georgina Rodriguez ci ha tenuto a mettere i “puntini sulle i” a proposito della sua partecipazione al Festival di Sanremo, chiarendo che per lei si tratterebbe di un onore e che sarebbe una grande occasione per la sua carriera. “Anche se per me i miei figli sono la cosa più importante, sono comunque una donna e desidero lavorare ed essere autonoma. Non devo trascurare la mia sfera professionale e mi piace lavorare in campo artistico”, ha dichiarato. Lei e Cristiano Ronaldo hanno avuto una figlia insieme, Alana Martina, ma la modella si prende cura come una madre anche dei figli che il calciatore ha avuto da single (i gemelli e Cristiano Jr). Dopo il clamore suscitato dalla frase pronunciata da Amadeus in conferenza stampa su Francesca Sofia Novello si era vociferato che Georgina Rodriguez potesse decidere di rinunciare a prendere parte al Festival (nelle stesse ore avevano rinunciato già Salmo e Monica Bellucci), ma dalle sue ultime dichiarazioni sembra invece che la top model sia impaziente di essere alla kermesse. “Desidero veramente è mostrarmi per quella che sono”, ha confessato, e in tanti sono impazienti di sapere se anche CR7 sarà in platea a guardarla. Tra i due sembra che il colpo di fulmine sia scattato quando lei era una comune commessa in un negozio di Gucci, e da allora sarebbero inseparabili. Si vocifera che presto potrebbero anche convolare a nozze, ma per il momento non ci sono state conferme in merito.

Cristiano Ronaldo sposa Georgina Rodriguez, scrive dr. apocalypse venerdì 16 novembre 2018 su gossipblog.it. Nozze in arrivo per Cristiano Ronaldo e Georgina Rodriguez? Cristiano Ronaldo sarebbe pronto a giurare amore eterno a Georgina Rodriguez. Accusato di stupro dall'ex modella Kathryn Mayorga, l'asso portoghese della Juventus avrebbe chiesto la mano all'amata compagna, come riportato dalla solitamente informata stampa di casa. «Cristiano ha già chiesto a Gio di sposarlo e il matrimonio si farà. Soltanto poche persone conoscono i dettagli». «Tutto quello che si sa al momento è che Gio ha già provato alcuni abiti da sposa». Questo è quel che ha spifferato una fonte al tabloid Correio da Manha, con i due piccioncini scappati dall'Italia causa pausa nazionali per staccare e volare a Londra. Qui, dicono i bene informati, Georgina e Cristiano avrebbero provato anelli Cartier da mille e una notte. Proprio la Rodriguez, su Instagram, ne avrebbe ostentato uno, durante una 'storia'. Insieme da quasi 3 anni, i due hanno avuto una figlia Alana Martina, la 4° di Ronaldo dopo i primi tre avuti tramite gestazione per altri. Da parte della coppia, per ora, non sono arrivate conferme nè smentite.

Maurizio Crosetti per “la Repubblica” il 21 novembre 2019. Tra un matrimonio che continua dopo un lieve calo di passione (lui e la Juve) e un altro matrimonio misterioso (lui e Georgina, anche se per ora la lieta novella si limita a Novella 2000), Cristiano Ronaldo è alle prese con almeno tre signore: ancora la Juve, ancora Georgina e infine mamma Dolores, che ovviamente le altre due signore se le mangia in insalata come ogni vera mamma che si rispetti. Stanno succedendo cose, nella vita di questo ragazzo infinito. Cominciando dalla signora con la esse maiuscola, cioè la Juve, va data per ricomposta ogni frizione interna: ieri l' orgoglioso campione ha incontrato al centro d' allenamento tutti i compagni, mancava solo Cuadrado, ha detto "mi dispiace" sforzandosi come Fonzie però l'ha detto. Si è sentito rispondere che è tutto a posto e insomma la vita continua a Bergamo, dopodomani, dove Cristiano sarà titolare a dispetto della quota piuttosto interessante, 15 volte la posta, che verrà pagata dai bookmaker se il portoghese partirà in panchina contro l'Atalanta. Per gli scommettitori che invece puntassero sulla sostituzione di Ronaldo, come accaduto nelle ultime due occasioni bianconere, la vincita sarebbe di tre volte e mezzo. La cosiddetta cena del perdono è in programma stasera e offrirà lui, lauta mancia compresa. Venendo poi alla seconda signora di Cristiano, ovvero Georgina Rodriguez, ieri è stato un giorno di notevole fibrillazione nel flipper del web, dove un' indiscrezione di Novella 2000 ha parlato di matrimonio misterioso in Marocco. Secondo il vivace settimanale, Cristiano e Georgina avrebbero regolarizzato la loro unione qualche settimana fa in gran segreto. Non ci sono foto, niente paparazzate, unico indizio un "mio marito" che Georgina si sarebbe fatta scappare indicando lui, il padre di Alana Martina che ha appena compiuto due anni ed è la quarta figlia del fuoriclasse. La terza signora Ronaldo si chiama Dolores Aveiro e di mestiere fa la mamma. La coda del gossip di cui sopra vorrebbe che Cristiano l' abbia un po' spostata di lato nell' asse ereditario, levandole - notai e avvocati alla mano - il totale controllo del patrimonio. Dalla fine di agosto, prima dunque dell' ipotizzato matrimonio, Ronaldo avrebbe fatto una capatina a Madeira per modificare il testamento e tutelare anche la madre di sua figlia. Dolores non l' avrebbe presa benissimo. Di tutto questo, alla Juventus e ai suoi tifosi interessa relativamente poco: l' unica eredità che aspettano da Ronaldo è la Champions, fatto salvo il vitalizio dello scudetto. A questo proposito, la trasferta di sabato a Bergamo è uno snodo non banale anche in memoria della scorsa stagione, quando l' Atalanta eliminò senza pietà la Juve dalla Coppa Italia ai quarti di finale rischiando di batterla anche in campionato: il 2-2 venne preso per la coda proprio da Ronaldo, che Allegri aveva lasciato inizialmente in panchina. Fu una partita bislacca, non disastrosa come quella di Coppa Italia ma quasi. Oggi l' Atalanta sembra persino più forte di un anno fa, nonostante il recente rallentamento. Ha segnato addirittura dieci gol più dei bianconeri, ma dieci sono anche i punti in meno in classifica. La Juventus la affronterà con Ronaldo titolare probabilmente accanto ad Higuain, con Pjanic di nuovo nel cuore delle geometrie ma senza Alex Sandro, bloccato da un problema muscolare con la nazionale brasiliana. Al suo posto, sulla fascia sinistra giocherà De Sciglio. Ed è ovvio che sarà ancora Cristiano Ronaldo la stella fissa al centro del planetario juventino, dopo i quattro gol con il Portogallo e dopo l' ammissione che ha giustificato le scelte di Sarri (non ce n' era bisogno): «Non sono al massimo, non stavo bene ma presto tornerà la forma migliore: quando c' è da sacrificarsi, io lo faccio». Vale per il matrimonio vero e per quello probabilmente finto.

Georgina Rodriguez: età, altezza e peso. La fidanzata di Cristiano Ronaldo, scrive sabato 1 dicembre 2018 Antonella Cariello su Termometro Politico. Georgina Rodriguez: età, altezza e peso. Chi è la danzata di Ronaldo Scopriamo chi è la danzata, madre dei bambini (e forse futura moglie!) dell’attaccante della Juventus Cristiano Ronaldo. Lei è Georgina Rodriguez, modella originaria della città di Jaca, nella comunità di Aragona, ha un prolo Instagram seguito da almeno 7 milioni di follower e si è meritata anche una copertina su Women’s Health di tutto rispetto. Sarà davvero così breve il passo all’altare con Ronaldo? Georgina Rodriguez: quando è nata, peso, altezza e carriera Georgina è nata a gennaio del 1994. Ha 24 anni, 9 in meno del suo ragazzo (e molto probabilmente futuro consorte) Cristiano Ronaldo. È alta 1 metro e 68 e pesa poco meno di 60 chili. Pur essendo un personaggio pubblico, il suo prolo Instagram appare a prima vista tutt’altro che “artefatto” e innaturale ma anzi, scorrere la sua galleria è quasi quella di una ragazza comune, corredata da qualche scatto in collaborazione con brand di cui è testimonial e foto che la immortalano come tifosa allo stadi, sugli spalti. Georgina ha studiato danza in Inghilterra, paese dove ha vissuto n da ragazza, acquisendo grande padronanza della lingua inglese. A Bristol, la città che l’ha ospitata, è stata contemporaneamente cameriera e modella. L’incontro con il capitano della nazionale portoghese è avvenuto grazie al suo lavoro, che le ha assicurato l’invito ad un evento Dolce e Gabbana a Madrid, nel 2018. Dopo il party, i due piccioncini sono stati paparazzati insieme a Disneyland Paris e da lì la relazione è stata resa ormai uciale. A novembre 2017 Georgina Rodriguez e Cristiano Ronaldo sono diventati genitori, lei per la prima volta: è nata infatti la piccola Alana Martina. Ma il calciatore aveva già altri tre gli, nati da una madre surrogata: si tratta di due gemelli, Eva Maria e Mateo, pressappoco coetanei di Alana Martina, nati però nel mese di giugno, e il primogenito che porta il nome del papà, Cristiano Ronaldo Junior, che è nato nel 2010. Georgina è diventata quindi madre a tempo pieno, prendendosi cura di tutti loro.

Georgina e Cristiano Rondaldo: matrimonio in arrivo? Di recente, la coppia è volata a Londra a festeggiare il primo compleanno di Alana Martina. In questa occasione, secondo il quotidiano Correio da Manha, l’ex super campione del Real Madrid avrebbe proposto alla sua lei di sposarlo: riesce confermato dalle foto di Instagram che avrebbe ricevuto in risposta un bel “sì”, come dimostra l’anello che avvolge il dito della modella portoghese. Inoltre, ulteriori conferme delle nozze in programma ci giungono dalla rivista “Gente”, che mostra la coppia paparazzata all’uscita dalla chiesa torinese Gran Madre di Dio il 17 novembre. Sarà questo il santuario designato dalla coppia per la celebrazione?

Filippo Conticello per la Gazzetta dello Sport il 26 agosto 2019. Da quel primo sguardo galeotto tra le vetrine di Gucci alle fatiche da mamma sprint nella «piccola» dimora sui morbidi colli torinesi. Georgina Rodriguez è la seconda donna più importante della vita di Cristiano: inarrivabile mamma Dolores, matrona e consigliera, poi ecco lei, l' ex commessa spagnola di 10 anni più giovane che ha rapito il cuore del 34enne portoghese. Discreta e di rare parole, la signora CR7 per una volta non ha parlato solo con pose sinuose via Instagram. In una intervista agli inglesi del Sun on Sunday ha aperto una fessura sul suo mondo dorato: «Avere un compagno tanto famoso non è facile, ma non lo cambierei per nulla al mondo, quello che provo è più forte di qualunque altra cosa e di qualunque tipo di pressione. Insieme siamo più forti e c'è ammirazione reciproca». Chi sente odor di fiori d' arancio può aver ragione: Ronaldo non ha mai escluso l' eventualità. Intanto, per mamma Geo c' è un bel da fare in casa: quattro pargoli impegnano parecchio. Il grande, Cristianinho, ha nove anni e cresce a immagine e somiglianza del papà. L'ultima arrivata, Alana, ha suggellato l'amore, un anno e mezzo dopo il colpo di fulmine nel 2016 a Madrid. In mezzo i gemellini Eva e Mateo, nati da mamma surrogata. Una famigliola felice a sentire la Rodriguez: «Cerco di trascorrere più tempo in casa che fuori e con i miei figli ne passo più della maggior parte delle madri. Ci sono lavori che rendono più semplice lo stare a casa e l' aspetto positivo del mio è che le campagne pubblicitarie durano al massimo due giorni e che posso organizzare la mia agenda per stare in famiglia. Loro vengono prima di tutto». Da bimba tra i Pirenei aragonesi, Geo stava spesso sulle punte. Sognava il balletto, le passerelle, una vita dorata. Mai l' avrebbe immaginato, però, così tanto oro: «I soldi sono sì importanti, perché ti permettono di comprare le cose, ma non sono tutto e non ti danno la felicità. La morte di mio padre mi ha insegnato che la ricchezza più grande è la salute: senza, non siamo niente. Ciò che mi dà più felicità è sapere di avere una famiglia sana e felice, questo è il mio vero lusso». Il resto, invece, è nelle segrete stanze del castello nella precollina torinese: «Sedurre e sognare è importante. Dormo sempre in lingerie e preferisco quella sexy. È comoda e rende felice anche il tuo uomo...», ha ammiccato. Intimo a parte, quel mammone di Cristiano pare davvero felice: da tre anni ha trovato pace anche in amore.

Cristiano Ronaldo avrebbe tradito Georgina? Cristiano Ronaldo avrebbe tradito Georgina Rodriguez? Questo è il gossip che circola a Milano e che è stato riportato dal settimanale Oggi ma CR7 e la sua compagna appaiono sereni e sicuri del loro rapporto. Francesca Galici, Sabato 02/11/2019 su Il Giornale. Molte persone hanno notato le facce tese di Cristiano Ronaldo e della sua compagna Georgina Rodriguez pochi giorni fa allo stadio. I due sembravano distanti, sicuramente poco sorridenti al contrario di quanto avvenuto in altre occasioni. Secondo il settimanale Oggi ci sarebbe un motivo dietro questo incupimento della coppia e sarebbe un presunto tradimento del calciatore ai danni della bella Rodriguez. L'autorevole magazine diretto da Umberto Brindani avrebbe saputo di un incontro galante che sarebbe avvenuto in una casa alla periferia di Milano tra Cristiano Ronaldo e una bellissima modella. Qui i due avrebbero trascorso qualche ora insieme e il tempo in reciproca compagnia pare sia stato talmente piacevole, che il calciatore avrebbe anche voluto regalare alla statuaria modella un orologio di grande valore. Pare che però la ragazza abbia rifiutato lo slancio di generosità di Cristiano Ronaldo, perché già felicemente impegnata con un altro uomo. Il settimanale Oggi non ha rivelato altri dettagli di questa vicenda, né tanto meno ha svelato l'identità della modella per la quale CR7 avrebbe preso una sbandata. Nessuno dei protagonisti ha replicato a questo gossip pruriginoso ma Georgina Rodriguez ha risposto con i fatti all'insinuazione fatta dal settimanale. La bella influencer ha condiviso sul suo profilo alcune immagini della loro bellissima famiglia riunita, con tanto di sorrisi smaglianti. Il campione della Juventus non sembra preoccuparsi troppo di queste voci, dimostrando in campo di essere al pieno della sua forma, fisica e mentale. Le sue prestazioni in campo sono sempre ad altissimo livello, sintomo di un perfetto equilibrio. Se Cristiano fosse distratto da qualcosa, probabilmente le sue perfomance sono sarebbero a così alto livello. Non resta che attendere se verranno diramati altri, eventuali, sviluppi o se la vicenda è destinata a essere solamente un gossip mormorato negli ambienti della movida milanese.

Cristiano Ronaldo, baci e abbracci all’ex fiamma davanti a Georgina (che non la prende bene). Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 da Corriere.it. Imbattersi in una delle ex del tuo fidanzato (che, oltretutto, si dice sia in ottimi rapporti con la mamma di lui, con la quale invece non si ha magari lo stesso feeling) non è mai un’esperienza piacevole. A maggior ragione se, come nel caso di Georgina Rodriguez, sei alla serata degli MTV Europe Music Awards e tutti gli occhi sono quindi puntati su di te e sulla tua dolce metà, che nel caso specifico si chiama Cristiano Ronaldo. Per la verità, stando almeno a quanto scrive il magazine spagnolo online Look, ripreso dal Daily Star, lo stesso campione della Juventus è rimasto sorpreso dalle effusioni che gli ha riservato la connazionale Rita Pereira quando lo ha visto alla cerimonia di Siviglia ma, da gentiluomo qual è, non poteva di certo tirare dritto e ignorare la 37enne modella portoghese con cui pare abbia avuto un flirt fra il 2008 e il 2010 (peraltro mai confermato dai diretti interessati). Così, dopo i baci e abbracci di rito, CR7 si è fermato qualche minuto a chiacchierare con la donna, mentre la fidanzata Georgina rimaneva in disparte ad assistere alla scena, con la sua faccia che era tutto un programma. «È stata una scena davvero spiacevole, anche per lui, che non si aspettava una tale dimostrazione di affetto dalla sua amica — ha raccontato infatti un testimone alla rivista — e quando Ronaldo ha poi realizzato che la sua fidanzata era rimasta esclusa dal quadretto, l’ha chiamata per presentarla alla Pereira che, però, si è limitata a guardarla, salutandola con un timido "ciao", per poi continuare a parlare con Cristiano senza fermarsi e il viso di Georgina diceva tutto, era furiosa». Vista la mal parata, Ronaldo ha quindi accelerato il congedo da Rita con la scusa di dover fare un’intervista a un giornale portoghese, ma al momento dei saluti, Pereira avrebbe volutamente ignorato Rodriguez che, una volta lontana dall’esuberante modella, avrebbe rimproverato aspramente CR7 per l’accaduto. «È stato un momento molto imbarazzante per tutti quelli che erano lì — ha concluso l’anonima fonte — perché si percepiva la rabbia di Georgina. Rita è una brava ragazza, solo molto espansiva, ma non aveva cattive intenzioni, anche se è comprensibile che Georgina non fosse felice di averla incontrata». In effetti, a giudicare dal volto tirato della Rodriguez in molte delle foto scattate sul red carpet, qualche nube in paradiso sembra esserci stata, anche se su Instagram la fidanzata di Ronaldo ha poi definito la serata «una notte fantastica da ricordare». In fondo, accanto al campione della Juventus c’è lei, non la Pereira.

Da golssip.it il 30 gennaio 2020. Il giorno da segnare in agenda è il 6 febbraio: quella sera Georgina Rodríguez sarà la co-conduttrice, accanto ad Amadeus, della terza serata del Festival di Sanremo. Per la fidanzata di Cristiano Ronaldo la musica è un elemento importante: «Mia madre ci faceva sempre ascoltare Laura Pausini. Anche Eros Ramazzotti e Tiziano Ferro hanno fatto parte del panorama musicale in cui sono cresciuta. Amo la cultura italiana. Sanremo una vetrina importante? Sono una persona nota, ma quello che desidero veramente è mostrarmi per quella che sono, farmi scoprire dalla gente e non c’è posto migliore del festival. Per me è un piacere e un orgoglio essere stata scelta tra le protagoniste femminili. Perché ho accettato? Anche se per me i miei figli sono la cosa più importante, sono comunque una donna e desidero lavorare ed essere autonoma. Non devo trascurare la mia sfera professionale e mi piace lavorare in campo artistico. Sanremo è molto famoso in Spagna ed è uno dei più meravigliosi del mondo. L’anno scorso mi è piaciuta molto la canzone che ha vinto, Soldi di Mahmood». La passione per il ballo: «Ho fatto danza classica dai 3 ai 17 anni. Infonde rigore, richiede sacrificio quotidiano e questo mi ha aiutata a tenere la testa sulle spalle, a sviluppare la volontà di progredire in ogni ambito della vita. Non desideravo diventare una ballerina professionista, il mio sogno era dedicarmi alla moda, fare la modella e diventare imprenditrice con mia sorella. Io e lei volevamo andare a Madrid a studiare e a lavorare, e così è stato. Perché ho smesso? È una disciplina costosa, che richiede tempo e denaro. I miei genitori hanno fatto molti sacrifici per me e mia sorella. Fin da piccola ero una figlia responsabile e, a un certo punto, ho sentito il desiderio di essere di aiuto in casa. Così ho iniziato a dare lezioni di danza ad alcune bambine per pagarmi il corso. Nel frattempo il mio corpo è cambiato e ho capito che non sarei mai diventata una ballerina professionista. Ho deciso allora di perseguire altri obiettivi».

Madrid: «In realtà, durante un viaggio in quella città mi avevano fermata nella Gran Vía, una delle principali strade della città, per offrirmi un lavoro in un’agenzia di modelle. Ho lavorato un po’ lì e poi in un negozio. Ho avuto fortuna, ma mi sono data anche molto da fare. L’incontro con Ronaldo quando lavoravo nella boutique di Gucci?  Mi colpirono l’altezza, il fisico, la bellezza. Davanti a lui tremavo, ma è scattata una scintilla. Sono molto timida e forse questo mi ha reso più agitata di fronte a una persona che, con un solo sguardo, mi aveva toccato nel profondo. Poi il modo in cui Cristiano mi tratta, si prende cura di me e mi ama ha fatto il resto».

Il primo viaggio: «È stato il nostro primo viaggio. Cerchiamo sempre di passare inosservati, ma con Cristiano a fianco è impossibile: anche se cerca di camuffare il suo aspetto, la sua andatura lo tradisce. A riconoscerlo sono soprattutto i bambini: è incredibile». Dopo essere stati fotografati, ha dovuto davvero cambiare lavoro? «La situazione era diventata insopportabile. La gente mi perseguitava. Mi chiamavano al telefono, i giornalisti venivano nella boutique spacciandosi per clienti. Gradualmente ho iniziato a lavorare dietro le quinte per frenare la curiosità aggressiva della stampa. A un certo punto era insostenibile: ho cambiato, ma mi stavano comunque addosso. Se faccio shopping da sola? Non posso uscire tranquillamente per strada, perché c’è sempre qualcuno che mi vuole fotografare. Per questo mi devo sempre preoccupare della mia sicurezza».

Da brutto anatroccolo a cigno: «C’è stato un periodo in cui mi sentivo un brutto anatroccolo: magra, timida, paurosa. Ma durante l’adolescenza il mio corpo si è trasformato e ho iniziato ad attirare l’attenzione. Mia sorella dice che non si poteva camminare accanto a me: tutti ci guardavano. Alla fine il brutto anatroccolo è diventato cigno». Amore per il calcio? «No, ora mi piace vederlo giocare. Cristiano è l’unico che riesca a farmi entusiasmare durante una partita. Ho la fortuna di essere la compagna del migliore calciatore di tutti i tempi. Quando è in campo fa provare un’infinità di emozioni. Non ha rivali».

Famiglie umili: «Conduciamo una vita privilegiata, ma proveniamo da famiglie umili. Ci siamo impegnati molto per ottenere ciò che abbiamo e questo è l’insegnamento che vogliamo trasmettere ai nostri figli (Alana Martina, 2 anni, e gli altri figli di Cristiano Ronaldo: Cristiano Jr, 9, Mateo ed Eva, 2, ndr). Vogliamo che loro siano combattenti come lo siamo noi. Il sacrificio, la disciplina, il senso di responsabilità, i sogni, la perseveranza e la gratitudine sono valori che desideriamo trasmettere loro ogni giorno».

Disciplina: «La nostra vita si basa sulla dedizione e sulla concentrazione totale verso tutto quello che facciamo. Conducendo un’esistenza sana e ordinata proviamo una sensazione di felicità e benessere. Raramente accendiamo la televisione: gli unici programmi che guardiamo sono i cartoni animati con i bambini».

Georgina versione mamma: «Molto presente e appassionata. Desidero rendere i miei figli protagonisti di una vita speciale. Li porto a cavalcare pony, sulla neve, al mare, balliamo, cantiamo, giochiamo insieme. Io e Cristiano vogliamo dare loro la migliore educazione possibile e costruire una famiglia stupenda. Non vogliamo chiuderli in una campana di vetro. Io e Cristiano insegniamo loro a non dare per scontato ciò che hanno e a impegnarsi in tutto ciò che fanno. Devono essere umili e non perdere mai la percezione della realtà».

Social: «La nostra famiglia genera molta curiosità e con i social riusciamo a ringraziare tutte le persone per l’affetto che ci danno ogni giorno. Mi piace anche condividere i progetti solidali a cui partecipiamo. Non solo le donazioni, ma anche le visite ai malati negli ospedali, perché vediamo la speranza riflessa sui loro volti. Questo ci rende migliori, ci fa bene e ci mantiene con i piedi per terra. Gli haters? All’inizio me la prendevo di più, ora mi sono abituata. Ci sono persone che provano invidia e che desiderano danneggiarci con attacchi, bugie, insulti, però mi sono abituata all’idea di non poter piacere a tutti. Ma se oltrepassano i limiti, non rimane che denunciare il loro profilo e bloccarli. A volte riceviamo minacce: questo è davvero intollerabile. Io religiosa? Lo sono sempre stata. Nei momenti più difficili ho chiesto aiuto a Dio, che mi ha sempre ascoltato, e nei momenti più felici l’ho ringraziato. Il Signore è sempre accanto a me e alla mia famiglia».

·        Gerardina Trovato.

Gerardina Trovato senza soldi per Sanremo: "Vivo con 80 euro al mese della Caritas". A "Live Non è la d'Urso" la cantante ha svelato di essere in gravi difficoltà economiche e proprio per questo di non aver potuto partecipare al Festival dove era stata scelta per gareggiare: "Non ho i soldi per le spese". Novella Toloni, Lunedì 27/01/2020, su Il Giornale. A undici anni dall'ultima apparizione televisiva Gerardina Trovato è tornata sul piccolo schermo per raccontare il dramma della povertà negli studi di "Live Non è la d'Urso". Con il volto provato e il fisico esile, Gerardina Trovato ha svelato le difficoltà incontrate negli ultimi anni dall'abuso di psicofarmaci alla povertà, che l'hanno portata a chiedere aiuto alla Caritas fino al rifiuto della madre di aiutarla. Sono lontani i tempi dei suoi successi musicali, primo tra tutti "Ma non ho più la mia città" brano del 1993, oggi la cantautrice italiana vive un'esistenza difficile segnata dalle difficoltà economiche e dai problemi di salute che la affliggono da tempo. "Qui mi sento al sicuro, non mi vengono a prendere gli assistenti sociali per rinchiudermi", ha esordito la cantautrice catanese dopo aver fatto il suo ingresso in studio. Dopo la partecipazione all'ultimo Sanremo 2000, la Trovato ha svelato di aver avuto un crollo psicofisico, di aver perso peso e anche i soldi (per i quali ci sarebbe una battaglia legale in corso) e di esser stata costretta non solo a curarsi con gli psicofarmaci, ma anche di aver dovuto vendere la sua casa di Roma per trasferirsi di nuovo in Sicilia: "Da dodici mesi io sono viva grazie alle persone di Portopalo di Capopassero dove mi stanno aiutando. Ho debiti con il farmacista, ci sono persone meravigliose che quando vedono che crollo a terra mi riempiono di cose da mangiare, io ho la mia dignità e non chiedo". La cantautrice siciliana, intervistata da Barbara d'Urso, ha raccontato anche alcuni episodi choc del difficile rapporto con la madre, dalle violenze alle denunce fino ai macabri auguri di morte; non per ultime le difficoltà economiche per rialzarsi e cercare di guardare con fiducia al futuro. Lei oggi vive grazie all'aiuto economico della Caritas, 80 euro mensili, poco per poter sopravvivere figuriamoci per ricominciare con la musica. A Sanremo 2020, infatti, la sua canzone era stata scelta ma senza una casa di produzione e i soldi per promuoversi la cantante è stata scartata: "Da quando mi sono disintossicata ho scritto 24 canzoni, le ho presentate tutte a Sanremo 2020, tutte, una l’avevano pure scelta ma non avevo soldi. Non potevo produrmi, non ho dietro multinazionali e non potevo sostenere le spese. Finché avevo il conto in banca mi potevo permettere provini, mi finiscono i soldi, mi si blocca la vita".

Live non è la D’Urso, lo sfogo di Gerardina Trovato. Ma la mamma la smentisce. Redazione Tvzap il 27 gennaio 2020. Dopo aver rivelato lo stato di disagio in cui si trova a vivere, e l’esclusione da Sanremo, la cantante Gerardina Trovato ha raccontato il suo dramma a Live – Non è la D’Urso accusando, tra l’altro, la madre Agata Russo. “Qui sono al sicuro? Non è che vengono gli assistenti sociali con l’ambulanza per rinchiudermi nelle “strutture protette”, non le chiamano più manicomi? – ha detto la Trovato, sconvolgendo la D’Urso -. Ti interdicono, ti mettono un tutore che decide anche con che cosa ti devi lavare, cosa devi mangiare, non puoi più dire che stai bene nel mio caso sarebbe la mia dolce mammina, che tanto ha fatto che si assicura che anche dopo la sua morte, io non sia libera di usare il mio patrimonio, quello che mio padre ha lasciato a me”. “Da dodici mesi sono viva grazie alle persone di Portopalo di Capopassero dove mi sono trasferita, a quelle persone devo la vita. Al primo posto metto il farmacista, che sa che da sempre ho problemi alla pelle. Ci sono delle persone meravigliose che quando vedono che crollo a terra mi riempiono di cose da mangiare, io ho la mia dignità e non chiedo, sono loro che mi invitano.” “Io a Sanremo 2000 avevo un equilibrio psicofisico perfetto, ora sono magra ma sto bene, era prima che non stavo bene. Vogliono riportarmi a essere un pachiderma con gli psicofarmaci, che danno una ritenzione idrica pazzesca.” “Perché i miei soldi sono finiti in banca non posso dirlo perché se ne stanno occupano gli avvocati. Ero risorta dalle macerie da sola. Da quando mi sono disintossicata ho scritto 24 canzoni, le ho presentate tutte a Sanremo 2020, tutte, una l’avevano pure scelta ma non avevo soldi. Non potevo produrmi, non ho dietro multinazionali e non potevo sostenere le spese. Finché avevo il conto in banca mi potevo permettere provini, mi finiscono i soldi, mi si riblocca la vita”. “Quando ho detto a mia mamma che non avevo più soldi, mia madre ha detto ammazzati, sparati. Lei è andata dagli assistenti sociali a dire delle cose di me false”. Immediata la smentita della mamma, per tramite del suo legale ha fatto sapere: “Gerardina ha sempre goduto del continuo e pronto supporto morale ed economico da parte della sua famiglia ed in particolare della madre, la quale ha sostenuto negli anni ingentissime spese. Non è mai stata lasciata da sola, ma è sempre stata aiutata e sostenuta nella realizzazione dei propri obiettivi di vita e professionali”. 

Mattia Marzi per ''Il Messaggero'' il 6 gennaio 2020. Tra i tanti cantanti che speravano di vedere il proprio nome nella lista dei big in gara al Festival di Sanremo 2020, e che sono stati esclusi, ce ne sono alcuni che - per un motivo o per l' altro - hanno legato in modo indissolubile le loro carriere alla manifestazione. Come Gerardina Trovato. Proprio a Sanremo nel 1993 la cantautrice siciliana - oggi 52enne - si fece conoscere dal grande pubblico, dopo aver firmato un contratto con la Sugar di Caterina Caselli, partecipando tra le Nuove proposte con Ma non ho più la mia città (seconda classificata dietro Laura Pausini). Al Festival tornò nel 1994 (quarto posto con Non è un film - quell'anno incise il duetto Vivere con Andrea Bocelli, poi reso popolare in tutto il mondo dal tenore) e nel 2000 con Gechi e vampiri. Lontana dalle scene da anni (l'ultimo disco risale al 2008), Gerardina Trovato sognava di tornare all' Ariston per rilanciarsi dopo anni difficili e tormentati: «Ci sono rimasta male, anche perché era stata la Rai a cercarmi. Da lì sarebbe ripartita la mia carriera. Il problema è che sono sola, senza una casa discografica. E non ho soldi nemmeno per registrare le mie canzoni», si sfoga lei.

Cosa ha fatto ascoltare alla commissione?

«Ventiquattro canzoni. Tutte quelle che ho scritto durante questo periodo difficile della mia vita. Ma non ne è stata scelta nemmeno una».

Di cosa parlavano?

«Di quello che mi è successo negli ultimi anni. Ho vissuto cose terribili. E ancora non ne sono uscita».

Che problemi ha avuto?

«Ho avuto una nevrosi ossessiva depressiva, ho perso chili e capelli e ho riportato danni fisici, compresa una citolisi epatica. Sono stata per diverso tempo paralizzata nel mio letto.

Anche dal punto di vista economico me la passo malissimo».

Che cosa è successo?

«Ho finito tutti i soldi che avevo e sono costretta a chiedere aiuto a mia madre. Lei però non vuole aiutarmi, perché dice che ho bruciato tutto in droga e altri vizi».

È vero?

«No. La maggior parte dei miei colleghi fa uso di sostanze, io invece mi sono salvata dal fatto di essere figlia di un medico».

E allora cosa è successo con sua mamma?

«Non ho mai avuto un bel rapporto con lei, mi ha creato sempre problemi. Quando è morto mio papà, nel 2006, io già non me la passavo bene. Mi liquidò con 50 mila euro, facendomi credere che l' eredità fosse tutta lì. Quei soldi erano la mia unica fonte di sostentamento e, non guadagnando più, con gli anni sono finiti. Ora che lei non vuole aiutarmi devo chiedere aiuto agli estranei, ma chi presta del denaro poi lo rivuole».

Dove vive ora?

«Sono tornata nella mia Sicilia, a Portopalo di Capo Passero, in provincia di Siracusa. Sono stata costretta a vendere la mia casa a Roma, non avendo soldi. Qui vivo in affitto, ma i debiti si accumulano. La Caritas mi dà 80 euro al mese: troppo pochi per mangiare, pagare l' affitto e affrontare le varie spese».

Dal mondo dello spettacolo si è fatto avanti qualcuno per aiutarla?

«Caterina Caselli mi ha dato i soldi per pagare l' affitto di casa, altrimenti sarei finita per strada. Adesso sono finiti anche quelli».

Fu proprio la Caselli a lanciarla, all' inizio degli Anni 90.

«Nel 2000 raggiunsi l' apice del successo, a Sanremo con Gechi e vampiri. Per la prima volta Caterina mi guardò e mi disse: Sei stata perfetta. Poi dopo alcune incomprensioni ho sciolto il contratto con la Sugar e nessuno mi ha più voluta. E nel giro di poco tempo mi sono ritrovata senza un centesimo».

Nel 2005, però, per lei arrivò la seconda occasione, con la partecipazione al reality Music Farm di Simona Ventura.

«Era un modo per guadagnare qualcosa. Mi presentai in condizioni non ottimali, con un edema alle corde vocali: eliminata alla seconda puntata. E sui giornali e sulle riviste cominciarono ad uscire foto che mi ritraevano con qualche chilo in più e poco curata: Ecco come si è ridotta, dicevano».

La fecero soffrire?

«Molto. Finii per diventare una cavia da laboratorio per gli psichiatri».

Ha affrontato percorsi terapeutici?

«Avevo l' ansia e loro non facevano altro che darmi calmanti e pillole. Uno mi prescrisse anche il litio, un elemento chimico che se assunto male provoca grandi danni. Mi hanno ridotta malissimo».

Adesso come sta?

«Non sono serena. Prendo sonniferi. E la notte mi sveglio come se qualcuno mi stesse soffocando».

Nel 2008 uscì un nuovo disco e nel 2011 fece un duetto con il rapper napoletano Lucariello: qualcuno che ha creduto in lei c' è stato.

«Piccoli tentativi di provare a investire su di me, ma senza l' aiuto di case discografiche, radio e televisioni sono andati male. Cosa devo fare, spararmi?, dicevo».

Cosa ha sbagliato?

«Nessuno è perfetto, di errori ne facciamo tutti».

E il suo qual è stato?

«Forse sono stata ingenua: mi sono fidata di chi era pronto a pugnalarmi alle spalle».

Il rapporto con sua madre può essere recuperato?

«Difficile. Mi ha denunciato, ora in questa storiaccia sono entrati anche i servizi sociali. L' intera famiglia è contro di me. Pur di non aiutarmi economicamente, vogliono farmi interdire».

Cosa farà?

«Ho incontrato gli assistenti e gli ho raccontato la mia versione. Mi hanno consigliato di cercarmi un avvocato».

Con la commissione di Sanremo come è rimasta?

«Avevo chiesto certezze sulla mia eventuale partecipazione per rivolgermi alle case discografiche e cercare un supporto economico. Forse ho fatto male a parlare della mia situazione, che è critica: li ho spaventati.

Mi hanno fatto sapere che ero stata esclusa con un messaggio: Ci dispiace».

Adesso cosa ha intenzione di fare?

«Parlare della mia storia e far ascoltare le mie canzoni. Ma ho bisogno di soldi per arrangiarle e registrarle. Da quando mi sono disintossicata, buttando i calmanti e le pillole, ho riscoperto la mia creatività. I nuovi brani raccontano tutto quello che ho passato, parlano di come mi sento oggi. E voglio che chi è stato cattivo con me paghi per le umiliazioni che ho dovuto sopportare e per i danni psicologici che mi ha provocato».

Marianna D'Onghia per fanpage.it del 23 maggio 2012. Se l'outing di un "comune mortale" rappresenta un biglietto da visita ancora scomodo ai giorni nostri, diversa diventa la questione per vip e artisti, la cui presunta o vera sessualità potrebbe rappresentare una spinta al successo fondamentale. A rendere plausibile questa osservazione ci pensano le dichiarazioni della cantautrice catanese Gerardina Trovato, assente dalle scene dal 2010 e scomparsa al grande pubblico dal 2005, con la partecipazione a Music Farm. Dopo l'esordio nel 1993 grazie a Caterina Caselli e una serie di alti e bassi di carriera, l'artista ha scritto un libro e pensa a un docufilm sulla sua vita: un aneddoto interessante? Si è finta lesbica/bisex per vendere di più!

Colpa del dio Denaro – Gerardina Trovato, cantautrice catanese scoperta da Caterina Caselli, nel 1993 gareggia nelle Nuove Proposte di Sanremo, dove figura una certa Laura Pausini: esile, bella e con un look di tendenza, all'Ariston c'è chi la scambia per lesbica. Il suo entourage nota che la diceria fa parlare di Gerardina e la spinge a stare al gioco e lei, giovane artista alle prime armi e con voglia di fare strada, decide di accettare quell'etichetta e di cucirsela addosso, con le conseguenze del caso che segneranno profondamente il suo vissuto. Non è la sua finta sessualità a darle problemi, bensì il gioco di ruoli, pericoloso, nel quale si è andata a cacciare. L'amore malato di una donna, la mia assistente, mi ha rovinato la vita. Mi sentivo in trappola e non riuscivo a liberarmi. Mi auguravo che quella donna morisse per poter tornare a vivere.Lei, lesbica dichiarata, si mise in testa di voler cambiare la mia sessualità. Ero in trappola. Cambiavo un uomo al mese, ma per il pubblico tacevo e glissavo sulla mia presunta bisessualità.

Una bugia da migliaia di copie – La prima Gerardina Trovato, quella delle Nuove Proposte sanremesi, arriva seconda al Festival di Sanremo dietro e vende 200.000 copie con l'album di esordio. L'anno successivo è l'anno della grande collaborazione, quella con Andrea Bocelli per il brano Vivere contenuto nell'album Romanza, venduto in 25 milioni di copie nel mondo: un battesimo artistico con i fiocchi per la Trovato, che negli anni successivi colleziona dischi di platino, ultimo quello post Sanremo 2000 con Gechi e Vampiri. L'inizio secolo, però, vede sbiadirsi  l'immagine della Trovato che nel 2003 duetta con i Verba Volant nel brano "M'ama non m'ama" e nel 2005 partecipa a Music Farm, dietro costrizione. Prima suonavo con un'orchestra di 47 elementi, avevo un'organizzazione perfetta, poi mi ritrovai con gente incapace, che pensava soltanto a svendermi e a rubarmi i soldi. Mi obbligarono nel 2005 a partecipare a Music Farm. Io non stavo bene. Ma loro, forti del contratto che avevano in mano, volevano spremermi come un limone. Accettai, ma la mia voce non funzionava, ero sovrappeso, insomma di Gerardina non c'era più nulla.

Un uomo, la svolta – Le persone di cui Gerardina si attornia nella sua carriera segnano il suo percorso professionale: gli inizi la vedono scendere al compromesso della sessualità per il successo, quel compromesso le rovina la vita con l'assistente che si innamora di lei e la maschera del ruolo che è costretta a giocare diventa pesante, portandola a vivere di nascosto le sue storie. Inizialmente la accompagnano orchestrali professionali e poi pian piano il successo si assopisce e i collaboratori non son più quelli di un tempo: il reality potrebbe risollevarla, ma è solo un ulteriore sfruttamento del suo personaggio e non dell'artista che fu fino a quando arriva nella vita della Trovato Alessandro Casadei: Sì, Alessandro, nonché mio manager e produttore. Insomma, è il mio tutto. Ci siamo innamorati subito. Ho preso i miei vestiti e mi sono trasferita a Verona, da lui. Oggi sono passati quattro anni, stiamo ancora insieme e abbiamo un progetto: fare un docufilm sulla mia vita. Alessandro è la certezza che fa crollare le incertezze e Gerardina riprende a girare l'Italia con i suoi concerti riscontrando un buon successo di pubblico, nel 2009 intraprende la scrittura della sua autobiografia e nasce l'idea di un film sulla sua vita, sulla sua carriera e sulle tappe più significative di questo percorso tutto in salita che vede ora la cantautrice respirare e ripartire da sè stessa, la "ritrovata" Gerardina Trovato, senza appellativi, senza etichette e senza compromessi. 

·        Gerry Scotti.

Anticipazione da “Oggi” il 2 settembre 2020. In un’intervista a OGGI, in edicola da domani, Gerry Scotti annuncia la sua disponibilità a partecipare al Festival di Sanremo: «Lo scorso febbraio era praticamente fatta. Amadeus mi disse che voleva confezionare una serata con me e Fiorello, e ricomporre il trio di Radio Deejay, ma stavo registrando “Chi vuol essere milionario?” a Varsavia e avrei dovuto fermare tutto, prendere un aereo per Nizza, poi il taxi per Sanremo: troppo complicato. Ora, se Amadeus e Fiorello rinnovano l’invito, parteciperò con immenso piacere». A OGGI il presentatore dice anche di non sentirsi frustrato per essere “solo” il re del quiz: «Noi sappiamo tutti fare bene solo una cosa. E vive in pace colui che si accontenta di fare quella cosa. Vedo tanti colleghi che si tormentano perché vorrebbero fare altro, io sto bene così». Ma confessa un paio di desideri: « In un futuro non lontano mi piacerebbe fare divulgazione scientifica, alla Angela, padre e figlio; e avere un mio salotto tv, stile Maurizio Costanzo show». Su un possibile approdo in Rai dice: «A Mediaset sono stati bravi a farmi questa gabbia dorata, con un contratto che ogni due o tre anni si auto-rinnova. Scade l’anno prossimo. Dalla Rai, per convincermi, dovrebbero propormi una “cosona”: il problema è che lì per ragioni politiche i dirigenti cambiano ogni tre mesi e una “cosona” ha bisogno di tempo per decantare e realizzarsi. Coi miei dirigenti di Cologno vado d’accordo e bisticcio, ma c’è un grande vantaggio: sono gli stessi da 30 anni».

Giuseppe Candela per ilfattoquotidiano.it il 25 febbraio 2020. “Ho detto tre e mezza, sono le tre e trentasei“, Gerry Scotti quando parla tiene il ritmo, i tempi sono perfetti, quasi televisivi. Scandisce le parole, cambia tono per valorizzare un concetto. Rallenta quando il discorso si sposta sul privato, accelera quando parla del suo lavoro. Il mestiere si sente, un signore della tv che argomenta, racconta, analizza.

Quasi quarant’anni fa il suo esordio a Mediaset, più di cento programmi condotti. Tanta gavetta, tanti successi. Se guarda indietro cosa pensa?

“Questi numeri non mi sembrano veri. Se devo guardare indietro, non tanto agli inizi della mia carriera ma a me da ragazzo, mi sembra un miracolo. Come uno studente di periferia che sogna di fare il cantante e vince Sanremo, tutto quello che mi è capitato è andato oltre l’immaginabile.”

Da ragazzo non era certamente ricco.

“La mia infanzia è stata all’insegna della normalità, mio papà faceva l’operaio, lavorava come rotativista al Corriere della sera, mia madre era una casalinga. Non mi hanno fatto mancare nulla.”

Il successo come forma di riscatto?

“Se penso al percorso fatto, se penso alla nascita contadina e alla gioventù operaia non penso a una forma di rivincita, forse solo di soddisfazione.”

Suo figlio Edaordo le somiglia?

“Si fa sempre fatica a trovare le somiglianze con i figli, io mi accorgo adesso di assomigliare a mio padre. Edoardo mi somiglia in alcune cose ma non può somigliarmi in altre, non ha vissuto il percorso che ho vissuto io. Non ha masticato il duro com’è capitato alla mia generazione.”

Per un periodo ha lavorato con lei a Lo Show dei Record, perché ha smesso?

“Lui non vuole stare in onda, si occupa di produzione. Non vuole essere un personaggio televisivo e ha resistito a tutte le proposte che nel corso degli anni gli hanno fatto, dalle ospitate alle interviste ai reality vari dove lo avrebbero classificato solamente come il figlio di Gerry Scotti. E’ stato molto bravo a dire no senza che io dovessi intervenire, so che sarà al mio fianco nelle cose che andrò nei prossimi anni a produrre o fare. E’ molto più sereno così.”

Con la sua compagna Garbriella guarda in loop le puntate de La signora in giallo.

“Lei le guarda, mangiamo insieme e quindi tocca anche a me. So benissimo chi è l’assassino, so anche quando andrà in onda la pubblicità.”

I vostri figli hanno favorito l’incontro tra voi.

“Ci conoscevamo anche prima ma ci siamo rincontrati, galeotta è stata la scuola dei nostri figli. Con tutte le variabili che ha avuto la mia vita Gabriella è il mio punto fermo.”

E’ in onda con Chi vuol essere milionario? che ha festeggiato i suoi vent’anni con gli speciali in prime time. E’ invecchiato bene?

“Direi di sì, è invecchiato bene. Non ha dimostrato i suoi anni, ha una freschezza di lettura ancora molto attuale. Viene da dire con il senno di poi che era un programma molto avanti vent’anni fa.”

Avrebbe preferito un ritorno seriale nel preserale?

“Sarò sincero, per la celebrazione è giusto che sia andato in prime time. La sua collocazione sarebbe il preserale anche se in Italia ne abbiamo abusato troppo, nel mondo fanno serie di 10 o 20 puntate io sono arrivato anche a 250 in un anno. Mi lasci sognare, la nuova vera collocazione sarebbe in un prime time di massimo 100 minuti. Non è il mio lavoro, non sono un direttore di rete ma sarebbe un modo per non finire a notte fonda, magari non partendo alle 22.”

Il quiz viene registrato in Polonia per ridurre i costi, il pubblico polacco capisce qualcosa di quello che succede?

“(ride, ndr) In realtà il pubblico è composto da ragazzi italiani che vivono in Polonia o ragazzi polacchi i cui genitori hanno vissuto in Italia e li hanno cresciuti parlando le due lingue. Abbiamo tanti studenti, tanta gente che lavora nel settore del turismo. Sono 150 persone e tutte capiscono l’italiano. Le svelo che è la ragione per cui ho inserito lo swicth e ho tolto l’aiuto del pubblico in studio proprio per non creare loro imbarazzo. E’ vero che capiscono l’italiano ma non vivendo in Italia potrebbero non essere totalmente di aiuto al concorrente e mi dispiacerebbe.”

Caduta Libera avrà speciali in prime time in tarda primavera e andrà in onda nel preserale per tutta l’estate come avvenuto con successo lo scorso anno. E’ vero che è stato lei a insistere per non spegnere questa fascia nei mesi più caldi?

“Erano anni che nelle interviste dicevo sempre che il nostro problema era spegnersi d’estate. Mi hanno accontentato, si sono trovati bene. Il mercato pubblicitario ha reagito bene facendo partire prima il volano dell’autunno e quindi replichiamo. Approfitto per fare un’altra richiesta: non basta tenere acceso Gerry Scotti, bisogna tenere acceso qualche altro programma. Vediamo se mi accontentano anche questa volta.”

Il quiz era stato testato dalla Rai con Amadeus, poi scartato e proposto a Mediaset. Qual è il segreto di questo programma?

“Il fatto che io lo possa raccontare in dieci parole, ne parleremo tra vent’anni: ‘Ti ricordi il programma dove la gente cadeva nella botola?’. Quando un programma lo si può spiegare e raccontare così ha fatto la sua fortuna.”

Ci sono molti infortuni per quelli che cadono nella botola?

“Ci sono stati inizialmente nella prima edizione perché avevamo dei materassi di gomma piuma che poi abbiamo sostituto su suggerimento dei nostri stuntman. E’ un bel volo ma il farsi male è scongiurato. Tanta gente non capisce che non possiamo prendere concorrenti oltre i 55 anni e i 100 kg di peso perché la nostra assicurazione non ce lo consente. Mi piacerebbe avere nei miei quiz concorrenti diversamente abili, ho cominciato a battermi per farlo anche perché c’è una richiesta fortissima.

Perché a Chi vuol essere milionario, magari non a Caduta Libera, non posso avere un concorrente diversamente abile?

Quelli che finora mi hanno fatto ragionare portano come argomento che potrebbe essere vista come spettacolarizzazione di una situazione, se riusciamo a uscire da questo preconcetto a me piacerebbe molto. In venticinque anni non ci sono mai riuscito, un cruccio.”

Ha testato Conto alla rovescia, format tutto italiano, lo considera un esperimento riuscito?

“Dai dati del marketing interno come affluenza di pubblico e tipologia è andato fuori dal cerchio sia di Caduta Libera che di Avanti un altro, è andato a prendere un pubblico diverso. Forse con una storia più raccontata, con un po’ più di puntate e con qualche difficoltà in meno dal punto di vista della narrazione potrebbe essere considerata una esperienza da proseguire.”

Aveva convinto e ottenuto ottimi ascolti anche The Wall. La sua mancata riproposizione in questa stagione è dovuta a un problema di budget?

“Ha già dato la risposta. E’ una americanata, so che dopo il successo iniziale ha avuto i suoi problemi. Qui ha funzionato ma o troviamo il megasponsor, per esempio una compagnia telefonica, che accetta di assumersi in toto o in parte l’ammontare dei premi o con i conti che devono fare le nostre aziende, parlo di Mediaset o Rai, è difficile proporre un programma così.”

Dal 2 marzo tornerà dietro il bancone di Striscia la notizia, che rapporto ha con Antonio Ricci?

“Ricci da anni mi definisce un suo sodale, c’è una stima e una amicizia che dura da tantissimi anni. I suoi autori storici sono miei amici, posso anche dirle che io non ho amici intellettuali, Ricci è l’unico mio amico intellettuale. Mi fido ciecamente di quello che mi dice e mi fa fare dai tempi di Paperissima. Striscia per me è qualcosa di diverso rispetto alla mia routine ma è talmente coinvolgente e divertente che è l’esperienza frullatore che consiglio a tutti. Non a caso il bancone di Striscia è molto ambito e io l’ho anche sfondato. (ride, ndr)”

E’ vero che il tapiro esiste per colpa di una sua querela al critico Aldo Grasso?

“Avevo avuto la malaugurata idea di fare causa ad Aldo Grasso che mi aveva dato del tapiro, dopo due anni ho bellamente perso. Ero nei corridoi di Milano 2 quando Staffelli mi ha messo in mano un tapiro dicendomi ‘adesso sarai attapirato visto che dandoti del tapiro hai anche perso la causa?’. Non vorrei millantare il credito ma se non era successo a altri il tapiro nasce per questo motivo e per colpa mia.”

Non è di certo attapirato per gli ascolti record di Tu si que vales.

“Numeri bulgari, è il nuovo varietà della famiglia italiana. Una scommessa di tanti anni fa insieme a Maria, imporre un linguaggio diverso non proprio da sabato sera ai tempi, un linguaggio fatto di immediatezza, scherzi, montaggio. Al di là della chimica tra di noi, oltre il ruolo di Rudy e Mammucari l’arrivo in questi anni delle signore Venier, Zanicchi e Ferilli ha dato una larghezza, una familiarità a questo programma. Me lo faccia dire siamo il Real Madrid della televisione italiana e del sabato sera.”

Le è dispiaciuto che Mediaset abbia lasciato andare via La Corrida o facendo Tu si que vales temeva l’effetto doppione?

“Sinceramente avevo già dato, ricordo con grandissimo piacere l’epopea della Corrida, il tempo che ci ho messo per accettare, l’emozione della prima puntata, l’enorme successo. Dopo averla lasciata non sarei più tornato indietro. Per conservare il titolo è stato inevitabile un passaggio in Rai, non sono dispiaciuto che a farla sia Carlo Conti che è un amico ed è una persona che stimo.”

A Tu si que vales spopola la scuderia Scotti, lei invece un agente potente non ce l’ha.

“Forse sono l’unico battitore libero della televisione, forse mi ha avvantaggiato. Non sono mai stato rappresentato da un agente, cosa strana e curiosa. E’ anche vero che sono cresciuto all’interno di questo cortile e che le persone con le quali faccio i contratti sono cresciuti insieme a me. Ci conosciamo bene, sappiamo i nostri limiti, i nostri pregi, i nostri difetti.”

Riesce a immaginare un futuro lontano da Mediaset?

“(ride, ndr) Non lo so, forse lontano dalla televisione.”

Le è piaciuto il Sanremo di Amadeus?

“Ero in Polonia a registrare il Milionario ho visto solo poche cose, so che lui e Fiorello si sono molto divertiti. Questo mi fa molto piacere perché è quello che è arrivato nelle case degli italiani. Le dico una cosa che non sa nessuno, Amadeus mi aveva invitato per fare con lui e Fiorello una serata, un modo per ricreare l’atmosfera che avevamo vissuto alla radio negli anni più belli. Non ho potuto andarci da Varsavia e mi è dispiaciuto perché me lo aveva chiesto con grande stima e rispetto.”

Nella sua carriera manca la conduzione di Sanremo, le piacerebbe o con una carriera così chi se ne frega?

“Per come mi sono andate le cose direi chi se ne frega, se è vero che lo rifà Amadeus l’anno prossimo gli rivolgo un messaggio: cerca di farmelo sapere così mi organizzo e vengo da te.”

Perché Barbara D’Urso non lancia i suoi programmi?

“Tramite lei possiamo chiederglielo, ma pare non lo faccia con nessuno e non solo con me.”

Sembra autoironico, le battute sui suoi chili in più la infastidiscono?

“No, assolutamente altrimenti la mia autoironia sarebbe finta. Visto che me le faccio io, le possono fare anche gli altri.”

Piace questa sua immagine da zio degli italiani.

“Ci sono gli zii buoni, cattivi, io sono quello che si commuove. Mi capita.”

Si è commosso anche quando Mattarella lo ha nominato Commendatore?

“Commosso no, mi sono stupito quando mi è arrivata la lettera a casa. Negli anni 60 avevo anche il fisico del Cumenda (ride, ndr). E’ una importante onoroficenza, forse qualcosa di buono ho fatto o comunque non ho fatto nulla di male.”

Mike Bongiorno l’ha incoronata come suo erede, è vero che sogna di portare in tv La Ruota della Fortuna per omaggiarlo?

“Ogni volta che mi parlano di Mike cito sempre La Ruota della Fortuna che è un grande formato, va in onda ancora in America. Secondo me sarebbe molto riproponibile.”

Nel 1987 è stato eletto alla Camera con il Partito Socialista, Berlusconi le ha mai chiesto di candidarsi?

“Mi sono arrivate delle voci, l’ho letto sui giornali ma lui personalmente alzando il telefono mai. Sapeva già che gli avrei detto di no. Quando ha deciso di scendere in campo mi ha chiamato ad Arcore chiedendomi come avevo vissuto quella esperienza in politica, ha parlato solo lui perché io ero abbastanza pietrificato. ‘Secondo te mi devo candidare o no?’, mi ha chiesto. Io ho risposto di no, sappiamo com’è andata.”

Chi è l’erede di Gerry Scotti?

“Forse ancora non c’è uno con le mie caratteristiche fisiche e con il mio percorso. Ci sono diversi giovani, ce ne sono di veloci, alcuni più preparati in certe cose. Al momento un mio erede non lo vedo, mi piacerebbe avere un erede femmina di Gerry Scotti. Perché no?”

Ha lavorato con delle donne bellissime, possibile che non ci sia stata una che ci abbia provato con Scotti?

“Ci hanno provato tutte (ride,ndr).”

E Scotti cosa ha fatto?

“Ovviamente scherzo. Sono un bravo ragazzo, di quelli di una volta. Ho vissuto di più con Maria Amelia Monti che con mia moglie quando registravo le sitcom.”

Le piacerebbe tornare alla recitazione?

“Sì ma porta via troppo tempo e con l’azienda abbiamo deciso di lasciar perdere. Nell’ultimo incontro che ho fatto con Alessandro Salem (Direttore generale contenuti Mediaset, ndr) ricordavamo insieme gli esperimenti sia con la sitcom che con la fiction e mi ha detto che prima o poi un commissario deve farmelo fare. Altri commensali hanno frenato l’entusiamo: E poi 250 puntate di preserale chi ce le fa?.”

Fa viaggi in moto, guida la barca. Ha un lato avventuroso.

“Forse è quello che mi manca di trasmettere alla gente. Mi piacerebbe raccontare il Mediterraneo navigandolo, raccontare l’Italia girandola in moto. Mi piacerebbe unire la passione per il viaggio e l’avventura al mio lavoro.”

E’ vero che in Costa Azzurra i suoi vicini di casa sono Bill Gates e Robert De Niro?

“E’ vero ma hanno la casa più bella e più grande di me (ride, ndr)”.

C’è qualcosa che le fa paura?

“Forse nemmeno la morte ma le malattie, paura che una malattia possa portarti a essere ciò che non sei stato. Quella la cosa più brutta.”

E un sogno da realizzare Gerry Scotti ce l’ha?

“Godermi la vita con le persone che amo. Mi accorgo che ho ancora gli amici che avevo, frequento ancora i posti che frequentavo, ho gli hobby che avevo. Al di là degli accessori da persona ricca che possono essere l’orologio più bello o la macchina lussuosa i metri della mia vita non sono mai cambiati. Questo lo auguro a tutti.”

·        Ghali.

Dal profilo Instagram di Carmelo Abbate – Storie degli altri il 12 febbraio 2020. Lui è Ghali. Nasce a Milano nel 1993. I genitori hanno pochi mezzi, si arrangiano come possono. Ghali ha 2 anni. Il padre finisce in carcere. La madre è sola con un bambino da crescere. Si spezza la schiena ogni santo giorno per portare il pane a casa. Una volta alla settimana, prende il figlio e gli mette il suo vestito migliore. Andiamo a trovare papà. Camminano mano nella mano, Ghali ha il lettore cd. Una cuffia a testa, la musica di Michael Jackson, un passo dietro l’altro, in silenzio, fino al portone della prigione. Entrano, si siedono, aspettano. Papà, papà. Ghali gli corre incontro, strofina la guancia sulla sua felpa, sente il suo odore, il profumo del gel. I genitori si baciano, Ghali finge di non vedere, disegna. Il padre gli dà degli album. Eminem, Snoop Dogg, Nelly. Ghali li consuma. Passa qualche anno. La sua mamma è malata. Ghali ha il terrore di perderla, ma lei lo rassicura, lotterà con tutte le sue forze, non lo lascerà solo. È il 2003. La battaglia è vinta. Iniziano una nuova vita nel quartiere di Baggio. La casa è vuota, dormono sul tappeto, cucinano con i fornelli da campeggio. Niente frigo, mettono il latte fuori dalla finestra per tenerlo al fresco. L’appartamento è piccolo, ma la porta è sempre aperta. Ghali cresce ascoltando le storie dei grandi. Favole tristi, di dolore, solitudine. Decide di farne tesoro. Un giorno, in qualche modo, le racconterà al mondo. Dopo scuola si chiude in camera. Canta, dice le parolacce, ma a bassa voce, se no mamma lo sgrida. Ha 18 anni. Registra la sua musica con un microfono e una webcam. Pubblica le sue canzoni sul web. È il 2016. Debutta con Ninna Nanna, batte ogni record e vince il disco d’oro. La sua carriera decolla. Ghali ha 26 anni. È un rapper famoso, ha conquistato tutto, ma non dimentica. Mamma, ti ho messo sulla copertina del mio singolo più importante, come mi ero ripromesso da bambino. Abbiamo dormito nello stesso letto fino ai miei 23 anni, e non me ne vergogno. Ti devo tutto. Ti amo.

Michela Proietti per corriere.it il 13 luglio 2020. «Perché ti comporti cosi? Cosa ti ho fatto?», le ha ripetuto più volte Ghali nel tentativo di calmarla. E lei: «Lo sai benissimo, lo sai benissimo...». Un sabato sera di paura e follia per Ghali Amdouni, il rapper milanese di origini tunisine che, rientrando alle 21.30 nella sua villetta di Buccinasco, è stato aggredito da una fan fuori controllo, una 22enne arrivata in treno da Moiano, paese in provincia di Benevento, proprio con l’intenzione di avvicinare il suo idolo. Agli agenti della polizia locale di Buccinasco e ai carabinieri della compagnia di Corsico che hanno immobilizzato la ragazza e chiamato il 118 ha detto che voleva solo conoscerlo. Ma in realtà prima ha preso a calci la sua Bmw X2 parcheggiata sul vialetto, poi una volta scavalcato il cancello ha preso di mira tutto quello che si è trovata davanti, distruggendo i vasi e gli oggetti in giardino. Ma il vero bersaglio era ovviamente Ghali: quando è comparso è stato aggredito dalla fan, che ha cominciato a insultarlo e ha tentato di colpirlo con una bottiglietta. Le forze dell’ordine intervenute per sedare l’aggressione si sono trovate davanti il rapper in stato di choc — incapace di dare una spiegazione dell’accaduto — e la fan definita «esagitata», subito trasportata all’ospedale San Carlo Borromeo per accertamenti di tipo psichiatrico.

Una possibile stalker. Dalle fonti investigative si apprendono altri dettagli che tracciano un profilo sopra le righe: anche davanti alle pattuglie la ragazza avrebbe manifestato un acceso rancore nei confronti dell’artista, rancore per il quale è giunta appositamente a Buccinasco. Qualcuno ha ipotizzato che la 22enne possa essere una stalker: ma anche vittima di una psicosi passionale, conosciuta in ambito scientifico come sindrome di Clérambault, che prevede il passaggio da una fase di speranza di poter essere ricambiati, a una di profonda delusione e infine di rancore aggressivo, proprio come quello manifestato dalla giovane campana nei confronti di Ghali. Non è chiaro se alla base ci sia una infatuazione irrazionale o un motivo legato a qualche dichiarazione fatta dal cantante: la ragazza è stata poi rilasciata ed è stata solo denunciata (a piede libero) per danneggiamento e violazione di domicilio. Un episodio che riporta alla mente ossessioni del passato finite tragicamente, come quella per John Lennon ucciso da Mark David Chapman, ma anche fatti più vicini e recenti che hanno visto protagonista Michelle Hunziker, minacciata di una aggressione con l’acido. Ghali, nato nel ‘93 da genitori tunisini e cresciuto a Baggio, periferia milanese, ha visto aumentare la sua popolarità negli ultimi anni, dopo una serie di brani postati su YouTube e poi raccolti nell’album «Lunga vita a Sto»: il suo singolo di debutto «Ninna Nanna», uscito nel 2016 su Spotify, ha stabilito il record del più alto numero di ascolti e il nuovo album «Dna» ha conquistato il primo posto in classifica. Un successo figlio del suo tempo, denso di messaggi di integrazione, in cui i social e la Rete hanno giocato un ruolo importante: in un’intervista esclusiva rilasciata a 7, proprio alla vigilia del debutto di «Dna», Ghali ha svelato gli alti e bassi con il popolo della Rete, fatto di follower ma anche di haters. Icona della musica e della moda, grazie a un gusto spiccato ereditato dalla madre e alimentato da frequentazioni come quella con la top model Mariacarla Boscono, l’artista è stato attaccato per il suo modo di vestirsi. «Provo un forte senso di dispiacere quando leggo quei commenti — ha confidato Ghali —. A volte però clicco sul profilo degli haters per capire chi sono: vedo i loro interessi e capisco che siamo diversi. La mia moda, come la mia musica, non è mai stata una cosa facile da digerire».

Il traguardo della casa. Potrebbe forse essere stata una delle sue canzoni a scatenare l’ira della fan, così inferocita da mettersi in viaggio solo per poter avere un confronto con il trapper, simbolo di una generazione che ha fatto dell’inclusione e della multiculturalità valori fondamentali. Un percorso avvenuto non senza sacrifici, sostenuto dall’appoggio della madre, ma non da quello del padre, detenuto a San Vittore. Anche quella villetta a Buccinasco vandalizzata dalla fan campana è il simbolo di un riscatto sociale dopo anni difficili: «Io e mia madre abbiamo dormito nella stessa stanza, uno di fianco all’altra, fino allo scorso anno — ha detto Ghali —: solo da quando ho comperato la casa abbiamo due stanze diverse». Ora quel sogno di integrazione e accoglienza scricchiola sotto il peso dell’aggressione di una fan fuori controllo: «Non so che dire — queste le uniche parole che affida all’ufficio stampa —, sono ancora molto scosso». 

Ghali rivela: “Ho dormito con la mamma fino a 23 anni e non mi vergogno”. Redazione Notizie.it il 07/02/2020. Ghali ha sempre vissuto con la madre e il loro legame è molto forte: le parole del rapper sul rapporto intimo che lo lega a lei. In un’intervista, Ghali ha confessato il suo rapporto stretto e intimo con la mamma. Il rapper lo ha dimostrato più volte e lo ha confermato postando sul suo profilo social screenshot della chat Whatsapp con la mamma. Ghali è presente come ospite nella quarta puntata del Festival di Sanremo 2020 con i suoi più grandi successi. Non tutti sanno però che gran parte dei suoi brani sono dedicati alla mamma, con cui ha un bellissimo rapporto fin da quand’era piccolo. Il legame con la mamma Ghali lo ha dimostrato più volte senza vergognarsi minimamente del giudizio della gente. Di recente l’artista ha pubblicato sui social lo screenshot di una loro chiacchierata su WhatsApp, in cui le chiedeva di lasciare il lavoro per stargli vicino in questo periodo di avvicinamento alla pubblicazione del nuovo album. “Ho bisogno di te vicino a me“, scrive Ghali, una frase che ha fatto sciogliere il cuore di tutti i suoi fan. Cresciuto a Milano, nel quartiere Baggio, Ghali ha sempre vissuto con la madre e il loro rapporto si è stretto ancora di più dopo la reclusione del padre. La mamma è diventata per questo protagonista di molti suoi testi: a lei è ad esempio dedicato il brano Ninna nanna, uscito nel 2017 e diventato subito la hit che lo ha reso famoso. In brano vede la signora protagonista anche sulla cover: nella foto Ghali dorme amorevolmente sulle sue ginocchia. Alcune strofe del testo racchiudono spezzoni della sua vita: “Sono uscito dalla melma – Da una stalla a una stella – Compro una villa alla mamma – E poi penserò all’Africa – Figlio di una bidella – Con papà in una cella”. La mamma di Ghali è descritta come una donna semplice, che ha fatto lavori umili. Ha combattuto il cancro, diagnosticatole quando il piccolo Ghali aveva solo 8 anni, e lo ha vinto. All’apice del successo, durante un concerto dell’estate del 2017, il trapper l’ha voluta sul palco con lui, l’ha abbracciata forte e si è rivolto al pubblico così: “Auguro a tutte le mamme di vedere i propri figli toccare le stelle e ai figli di vedere i propri genitori toccare le stelle della felicità“. Il più lieto dei finali. L’artista ha dedicato queste parole alla mamma: “Abbiamo dormito nella stessa stanza, sullo stesso letto, uno a fianco all’altra fino ai miei 23 anni, fino a quest’estate, e questa musica mi aiuta a non vergognarmene. Ti ho messo nella copertina del mio singolo più importante perché me lo ero promesso da quando ero piccolo, da quando andavamo a trovare papà ai colloqui e vi baciavate mentre io disegnavo”.

Ghali: «Ecco chi sono io, radici arabe e italiane. Milano è la mia casa». Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 su Corriere.it da Andrea Laffranchi e Michela Proietti.

Per la copertina del singolo Ninna Nanna, aveva scelto una foto d’autore in cui riposava sulle ginocchia della madre.

«C’è molto di vero in quella immagine, io e lei abbiamo dormito nella stessa stanza, uno di fianco all’altra, fino allo scorso anno. Solo da quando ho comperato la casa abbiamo due stanze diverse: ma non c’era disagio in quella situazione, anzi, era molto intima. Eravamo due compagni di stanza felici, non ci disturbavamo se rientravamo tardi o uscivamo presto, siamo persone che non si lamentano per i rumori, per la musica o la televisione accesa».

Ghali Amdouni, per tutti Ghali, 26 anni, nato da genitori tunisini e cresciuto nell’hinterland milanese, tra una settimana uscirà con il suo nuovo album, presentato in veste di superospite a Sanremo vestito Dior («per me la moda è un linguaggio»), che ha un nome non casuale: DNA.

«Non poteva chiamarsi diversamente, perché per la prima volta tiro fuori me stesso in modo profondo. Ancora di più si capisce quali sono le miei radici, quelle italiane e quelle arabe, e i viaggi fatti in questi mesi: scendiamo in Africa e poi saliamo in Nord Europa, verso quella musica con la cassa dritta da ballare che ascoltavo quando avevo 13 anni. E per la prima volta c’è una canzone d’amore scritta per una donna che non sia mia madre: per me amare è importantissimo».

A proposito di Dna e origini: da dove viene Ghali?

«Da una storia di immigrazione abbastanza classica: sono cresciuto nella periferia milanese da solo con mia madre, perché mio padre era in prigione. E siccome lui non c’era, le regole in casa le stabiliva lei. Ce n’erano parecchie, era severa, ma nonostante questo non riuscivo ad andare bene a scuola: di questo mia madre soffriva molto».

Un ricordo della scuola?

«Lei non è stata uno di quei genitori che se ne fregano: veniva a parlare con gli insegnanti e li ascoltava attentissima, loro iniziavano ogni volta a dire che c’erano problemi e lei cominciava a piangere durante i colloqui. Mi dava anche qualche schiaffo in loro presenza. Tutte le volte finiva così e io pensavo: ma perché questi qui non trovano un modo meno duro per parlare di me, lo sanno che mamma ci sta male. Davvero, non capivo».

Pensava che gli insegnanti fossero ingiusti?

«Sognavo una scuola diversa, in cui gli insegnanti non impartivano le stesse nozioni a tutti: desideravo che scolpissero su ogni alunno una lezione su misura. Oggi se passo un paio di giorni con il mio nipotino so esattamente cosa può attrarlo e motivarlo: mancava l’ascolto».

Una punizione esemplare?

«Dopo l’ennesimo colloquio andato male, mia madre mi ha proibito di uscire di casa per una settimana: mi ricordo questi pomeriggi di sole forte e io affacciato per ore alla finestra a parlare con i miei amici. Ecco, della mia infanzia ricordo tanto sole, la strada, le ginocchia sbucciate e i muretti da scavalcare per recuperare il pallone».

In Turbococco , uno dei brani che ha anticipato l’album, canta “tu che facevi tanto il bullo ora dove sei?”. Ha mai vissuto un’esperienza di bullismo?

«Credo che tutti noi ci siamo passati anche senza accorgercene, è un incrocio inevitabile nella vita di un essere umano: è come nella giungla, lo devi attraversare per crescere. Non sono mai stato bullo e non sono mai stato vittima: conoscevo dei bulli, questo sì, e provavo tanta pena per loro. Volevano essere protagonisti in un momento in cui non c’era bisogno di esserlo: stavamo crescendo insieme, che fretta c’era di sgomitare. Poi si sono autodissolti».

Oggi i bulli sono anche gli haters del web. A volte su Instagram criticano il suo modo di vestirsi, definito troppo eccentrico.

«Provo un forte senso di dispiacere quando leggo quei commenti. Mi domando: come fanno a capire quella mia rima se non riescono ad apprezzare questo vestito?».

Risponde a tono?

«No però clicco sul loro profilo e cerco di capire chi sono queste persone: vedo i loro interessi e capisco che siamo diversi. Oggi il profilo Instagram è una biografia: dice subito chi sei e chi vorresti essere. Mi rendo conto in quel momento di essere molto distante da chi mi critica: la mia moda, come la mia musica, non è mai stata una cosa facile da digerire».

Non le interessa piacere a tutti?

«Comprendo che chi è cresciuto in un contesto tradizionale e senza contaminazioni possa avere delle resistenze: in Italia abbiamo cominciato a mischiarci adesso. Quando penso a chi mi attacca mi vengono in mente quelle tribù dell’Amazzonia che vedono un drone volare e cominciano a scagliare le frecce in cielo».

Quando è nata la sua passione per la moda?

«In casa siamo sempre stati fissati con la moda e mia madre ci teneva molto che io fossi sempre impeccabile: quando ero piccolo gli immigrati venivano visti in un certo modo, essere in ordine era una garanzia in più per essere integrati. Mi ricordo che mi cambiava anche più volte al giorno: la mia famiglia non aveva titoli di studio e la mentalità era quella del presentarsi bene, anche se i soldi in casa scarseggiavano».

Si è mai lamentato di come sua madre vestiva?

«No no, mai, casomai erano gli altri che avevano da ridire. Una volta gli insegnanti l’hanno convocata per chiederle come mai io indossavo capi così lussuosi. Pensavano probabilmente che ci fosse qualcosa di losco dietro. Ho sempre amato lo stile di mia madre e il suo modo di abbinare le cose: spesso ci scambiamo gli abiti, indosso i suoi maglioni, i cappelli e gli occhiali. C’è una tuta Jordan in velluto degli anni Novanta che porto sempre».

Ha pubblicato lo scambio di messaggi WhatsApp in cui dice a sua madre di smettere di lavorare e le chiede di occuparsi a tempo pieno di lei.

«Far smettere di far lavorare i propri genitori e prendersene cura è il sogno di tutti, è una fortuna. Appena ho capito di avere la forza economica per poterlo fare ho detto basta: ha sempre lavorato troppo, qualche volta faceva anche quattro mestieri insieme. Ora bisognerà capire se è più difficile stare vicino a me o continuare con il lavoro che faceva prima!».

“Quando mi dicon vai a casa, rispondo e dico son qua” cantava di Cara Italia ... Cosa è cambiato da allora?

«Che oggi mi sento ancora più a casa, in Italia e nella mia Milano. Ho girato ovunque con la mia musica, questa volta mi piacerebbe che gli altri venissero loro da me: il tour sarà solo di tre date, tutte al Fabrique».

Per quella canzone e per la sua storia è stato tirato dentro al dibattito politico.... Che ne pensa?

«Ho il mio punto di vista, il mio modo di parlare di politica ingenuo e umano. Non sono cresciuto in una famiglia dove a tavola si parlava di politica. In casa mia, come in tutto il quartiere, la tv era più grande della libreria. Bella questa, quasi quasi la tengo via per una canzone...».

Molti suoi coetanei, anche artisti, se la cavano con un « non me ne frega nulla della politica».

«Il problema allora non era dove finivano i nostri soldi, era come arrivare a fine mese e pagare l’affitto. Non ero io a non voler parlare di politica, ma la politica che non arrivava a noi e ai nostri problemi. Uscito da quella bolla ho iniziato a fare ragionamenti diversi. Ma a modo mio».

Come in Jennifer, una delle nuove canzoni, in cui ripropone la trama di Indovina chi viene a cena: la famiglia di lei che non accetta lui perché in qualche modo diverso dalle loro origini.

«E ci sarà un artista di origini algerine sbarcato in Sicilia da ragazzino e arrivato poi in Francia».

Salvini, e non sarebbe la prima volta che parla di lei, avrà da ridire?

«Quell’artista sta portando qualcosa di bello sia con la musica che con dei progetti sociali di aggregazione. Non vedo nulla a cui potersi aggrappare per criticarlo».

Anche le rime di Combo parlano di Oceano e di qualcuno rispedito in Africa...

«Se questo album fosse uscito prima, una canzone come Combo avrebbe potuto essere la colonna sonora perfetta per Tolo Tolo. L’ho visto il primo giorno che è uscito nelle sale. L’ho trovato bellissimo: una storia semplice e romanzata per far capir il percorso di queste persone. Un film che accontenta tutti: il razzista che pensa che Checco sia serio quando usa la sua ironia intelligente. E tutti gli altri che pensano come sia ridicolo essere razzisti».

Non ha paura di perdere consensi?

«All’inizio non avevo nulla da perdere quindi ne parlavo. Adesso ancor più di prima: ho i miei soldi, una squadra che lavora per me, mamma al mio fianco, una casa mia, una grandissima figa che mi ama e mi vuole bene anche se domani la mia carriera finisce. Cosa potrebbe togliermi dire la mia... io manco mi aspettavo di comperarmi una casa».

A lei è mai capitata una situazione come quella della canzone?

«Con il mio primo amore. Avevo 16 anni e i genitori di lei, mamma bionda e occhi azzurri, erano una coppia di sordomuti. All’inizio disapprovavano la nostra storia, poi quando mi hanno conosciuto hanno cambiato idea. Mi spiaceva non potergli far sentire la mia musica e per fargli capire certe cose di me stampavo i testi delle mie canzoni».

Barcellona è una canzone d’amore. Che fa, abbandona il rap?

«Ho ancora strofe rap che mandano a casa tutti gli altri, ma durante la scrittura del disco questa volta mi è uscito anche altro. Non avevo mai scritto una canzone d’amore prima di questa, non di amore verso mia madre, ma verso una donna intendo. A un certo punto ho anche pensato a un duetto, ma non c’era più tempo, ho fatto tutto all’ultimo minuto, perché “funziono” ancora come a scuola: andavo male tutto l’anno ma l’ultimo mese studiavo e riuscivo a cavarmela. Credo sia l’ansia da prestazione che mi riduce a fare tutto all’ultimo: è un prendere la rincorsa».

I testi del rap sono spesso sotto accusa per i riferimenti a droga, soldi e atteggiamenti machisti...

«Bisognerebbe anche vedere da chi arrivano le polemiche per capire se vale la penna affrontarle. Da bambino giocavo con GTA, ma non per questo andavo poi a rubare macchine e sparare. Ascoltavo gli Uomini di Mare dove c’era Fabri Fibra: sapevo che certe cose che dicevano non si fanno. Ma l’arte non si può censurare».

Cos’era Sanremo prima di andarci?

«Mai visto. Come non ho mai visto X Factor perché non avevamo Sky. Seguivo Amici, la De Filippi era per noi la tv italiana e quello mi sembrava il posto per realizzare i sogni».

Anche quelli di un rapper?

«A 17 anni ero in una specie di boyband rap, i Troupe d’Elite. Avevamo un contratto con la Sony, ma le cose andarono male e il nostro album venne congelato. Provammo con Amici ma non passammo il provino. Peccato perché ogni tanto ascolto ancora quel brano... funzionava. Per la delusione ho smesso con la musica per un paio d’anni. Poi YouTube mi ha fatto capire che lì funzionava la meritocrazia e sono ripartito».

Adesso che è arrivato il successo, si sente invidiato?

«Chi mi invidia lo fa perché vede solo il mio privilegio presente. Ma quelli che conoscono il mio percorso dall’inizio non mi invidiano: si sentono vincitori insieme a me».

Lo sa di essere un sex symbol?

«Non credo di esserlo, però ho capito che questo è il mio momento».

E chi erano per lei i sex symbol da copiare nell’adolescenza?

«Anzitutto Michael Jackson, che è anche il mio modello musicale. Poi Van Damme, Pacino, De Niro, Stallone e Travolta»».

Van Damme è ben diverso da Al Pacino...

«Mi sento simile a lui: le prendeva per tutto il film e alla fine si svegliava».

Il rapper GhaliLa vita — Ghali, pseudonimo di Ghali Amdouni, è un rapper italiano: è nato il 21 maggio del 1993 da genitori tunisini ed è cresciuto a Baggio, quartiere della periferia milanese. Nel 2011 fonda il gruppo «Troupe D’Elite», ma la popolarità arriva con una serie di brani postati su YouTube e che vengono poi raccolti nell’album Lunga vita a Sto

La carriera — Il singolo di debutto Ninna nanna, uscito il 14 ottobre 2016 su Spotify, stabilisce il record del più alto numero di ascolti nel primo giorno in streaming e raggiunge la vetta della top singoli, ottenendo il triplo disco di platino dalla FIMI per le oltre 150.000 copie vendute. Il secondo singolo Pizza kebab è stato certificato disco d’oro dalla FIMI. Il nuovo album DNA uscirà il prossimo 20 febbraio ; in Dior Homme alla sfilata dello scorso gennaio a Parigi; ancora in Gucci, a gennaio a MIlano Ghali nel febbraio dello scorso anno a Roma all’evento di Bulgari all’Auditorium Parco Della Musica; con i calzoni corti al Radio Deejay party, a Milano; ancora da Gucci, alla sfilata primavera/estate 2020. la copertina del disco DNA, in uscita il 20 febbraio a Qui sopra, a Milano nel febbraio dello stesso anno.

Mattia Marzi per il Messaggero il 22 febbraio 2020. Nel 2017 Ghali piombò sulla scena hip hop italiana come un asteroide. Il suo primo disco, Album, spalancò le porte della discografia a una nuova generazione di artisti partiti dal basso e arrivati a tagliare traguardi importanti grazie al web. Cresciuto solo con la madre (per via dei problemi con la giustizia del padre, finito in prigione quando lui era solo un bambino) tra le case popolari di Baggio, periferia milanese, Ghali (vero nome Ghali Amdouni, 27 anni a maggio) in questi tre anni ha visto la sua vita cambiare, tra Dischi d'oro e di platino, collaborazioni internazionali e un tour nei palasport. Ora il rapper di origini tunisine torna con Dna, il nuovo album (nei negozi da oggi). Per dimostrare di non essere più solo un fenomeno.

Quanto è stato difficile adattarsi a questa nuova vita?

«Non ho ancora realizzato quanto sia cambiata. E come me anche chi mi sta accanto, a partire da mia madre. È tutto così grande».

Cosa le piace del successo?

«Il fatto che ora posso dedicarmi completamente alla musica: sono riuscito a trasformare quella che era la mia passione in un lavoro».

E il lato negativo?

«Purtroppo non posso occuparmi solo di questo. Fare il cantante, oggi, significa essere anche imprenditore di se stesso».

La sua etichetta, Sto Records, è stata acquisita dalla multinazionale Warner: Ghali è anche un talent scout?

«Mi diverte scoprire emergenti. Voglio fare quello che non i grandi artisti non hanno fatto con me».

Bussò a molte porte prima del successo della sua hit Ninna nanna?

«Sì, ma nessuno apriva. Erano troppo presi dalle loro carriere».

Il primo a credere in lei?

«Fedez. Lo accompagnai in tour nel 2012. Poi chi non mi ha aiutato è venuto a chiedermi duetti. In questo ambiente c'è molto opportunismo».

Nella canzone che dà il titolo all'album dice: Ricordo quando mi dicevano non farai mai nulla e resterai per sempre nel buio in un angolo. Oggi come risponde?

«Con i successi. Voglio dirlo, perché è giusto che la gente lo sappia: fu proprio Fedez a dirmi quelle cose, quando eravamo in tour insieme. Io mi esibivo insieme al mio primo gruppo, i Troupe d'Elite, ma il successo tardava ad arrivare e venivamo costantemente attaccati. Fedez mi diceva: Guarda quali sono i riscontri... Cosa potresti mai fare? Quale potrebbe essere il tuo messaggio? Cosa potresti raccontare agli italiani? Fatti odiare».

Oggi i rapporti come sono?

«Non ci sono rapporti. Ogni tanto prova ad avvicinarsi, ma io cerco di evitarlo».

Tra di voi non sono mancate frecciatine. L'anno scorso, commentando il suo disco Paranoia airlines, scrisse sui social: Che noia airlines. Se ne è pentito?

«No. Era ciò che pensavo. Forse ho sbagliato, perché nessuno sa quanto tempo e quanta dedizione ci sia dietro un disco. Se la prossima volta farà un disco brutto, eviterò di commentarlo».

Anche lei è spesso attaccato e lo racconta nelle canzoni, come in Fallito. Il successo è stata la sua rivincita?

«È così. Mi ricordo i bellocci della scuola, che poi nella vita non hanno concluso niente. Io, invece, ho preso sempre tanta merda».

Cuore a destra è un titolo fraintendibile per una canzone, non trova?

«Ma in realtà il pezzo parla di tutt'altro: nel testo dico che il mio cuore si sposta a destra quando provano a colpirmi».

E a livello politico il suo cuore dov'è?

«Non me ne intendo di politica, so solo che l'odio non mi piace. È giusto che un politico faccia il suo lavoro e che cerchi di applicare il suo programma, ma senza cavalcare l'odio. La comunicazione va cambiata».

A Sanremo ha fatto parlare di sé soprattutto per la trovata della caduta dalla scalinata.

«Era la metafora della mia caduta personale dopo il successo del disco. Una volta raggiunti gli obiettivi che mi ero prefissato, mi sono bloccato. È stata la scrittura a farmi rialzare».

Quest'anno ci sono state polemiche legate ai testi dei rapper al Festival. Qualcuno le ha chiesto di leggere quelli delle sue canzoni prima dell'esibizione?

«No. Ma se ti piace un artista non lo devi chiamare solo per i numeri che può generare e poi fare polemica sui testi: meglio non chiamarlo per niente».

Il nuovo album sarà presentato nei club: i palasport arrivarono troppo presto?

«Diciamo che il tempismo non fu perfetto: quel tour partì quasi due anni dopo l'uscita del disco. Oggi non voglio più fermarmi».

·        Gialappa’s Band.

Massimo Falcioni per tvblog.it l'8 maggio 2020. Sono le voci più inconfondibili della tv. Voci che però mancano dal piccolo schermo da oltre due mesi. Un’assenza pesante quella della Gialappa’s Band che, a causa dell’emergenza coronavirus, è stata costretta a tirare il freno. “Non so quando torneremo a Le Iene, non ne ho la più pallida idea”, confida a TvBlog Marco Santin. “Abbiamo un contratto, in teoria scadrebbe a giugno, ma non avendo realizzato delle puntate potrebbe esserci una proroga. Non lo sappiamo davvero”. Prima la sparizione del pubblico in studio, poi la sospensione dello show. Infine il ritorno, con la formula della conduzione al tavolo affidata ai tre inviati. L’allontanamento momentaneo di Santin, Taranto e Gherarducci è stato tanto graduale quanto inevitabile, all’interno di un universo televisivo che in brevissimo tempo ha stravolto toni, palinsesti e scalette. “Cazzeggiare in questo periodo? Dipende da come lo fai – spiega Santin – provare a ridere di tutto è indispensabile per vivere, ma pure il cinismo divertente a volte è stridente. Capisco che non sempre la missione riesca. Se si oltrepassa il confine, una battuta può diventare fuori luogo. E quel confine è molto sottile”.

Trentatré virgola tre per cento del gruppo, Marco racconta i mesi del lockdown svelando sentimenti inediti di paura ed angoscia.

“Ho vissuto momenti tosti, difficili. Ebbi una leggera febbre, proprio agli inizi dell’emergenza. Mi sono isolato da tutti per quindici giorni. Poi la febbre è sparita, ma persone che conoscevo bene si sono ammalate e miei parenti del Veneto sono morti. Non ho potuto né salutarli, né omaggiarli. Non erano nemmeno anziani, volendo dirla tutta. In quel frangente vedevo l’epilogo molto lontano. Finiremo nei libri di storia, non credo ci fosse persona al mondo che potesse immaginare una situazione del genere”.

In questa fase di restrizioni a livello produttivo, sarebbe stato interessante e vantaggioso mettere in piedi un programma di semplice commento al ricco materiale sfornato dai social.

“Mi fa piacere che tu dica questo. Gli spunti per le prese in giro ci sono. Personalmente, ho provato a costruire qualcosa su Instagram raccogliendo le robe più buffe che c’erano in giro, ma non è stato possibile. Il mondo dei social è un territorio che la televisione ha toccato pochissimo, mentre i social spesso toccano la televisione. E’ un peccato. Tanto tempo fa preparammo un programma dedicato al web, avrebbe dovuto condurlo Claudio Bisio. Alla fine non vide la luce, ma ai tempi di Rai dire news – ad esempio - usavamo a piene mani il materiale proveniente dalla rete”.

E’ dunque una tv che rischia poco.

“Purtroppo ha poca voglia di mettersi in gioco. Io, Giorgio e Carlo siamo figli di Italia 1 e c’è stato un periodo in cui quel canale era la fucina di nuove idee. C’era il desiderio di provare, di proporre un canale giovane. E’ rimasto poco di quel mondo. C’è poca voglia, forse anche meno soldi, allora si va sul sicuro e si sperimenta poco. La tv ha più fretta di una volta. Tanti programmi datati sono ancora in onda perché hanno avuto la forza di resistere alle fatiche iniziali. Si ebbe il coraggio di non stopparli, di insistere e i risultati si videro. In questo senso, la tv attuale fatica. Noi l’anno scorso lanciammo Mai dire talk, un programma nuovo che andava corretto, aggiustato, testato. Purtroppo dopo sei puntate è stato interrotto”.

A proposito dei vostri programmi, qual è stato il periodo più complicato vissuto in questi trent’anni?

“Quando cinque anni fa passammo in Rai. Mediaset in quel momento non credeva molto in noi, eravamo presenti solo con Le Iene, come quest’anno peraltro. Capimmo che era il caso di provare altro e le due stagioni successive furono ricche di soddisfazioni”.

La fase più esaltante?

“Ce ne sono state tante. Potrei citarti le prime stagioni di Mai dire gol. L’anno in cui se ne andò Teo (Teocoli, ndr) vincemmo il Telegatto. Tutti diedero qualcosa in più. Senza dimenticare il 1990, anno in cui diventammo famosi in tutta Italia per le nostre cronache dei Mondiali”.

Alle vostre sigle prendevano parte calciatori ed allenatori. Oggi sarebbe improponibile.

“Sarebbe improponibile rifare Mai dire gol, più che altro. Scoppierebbero dei casini sui social con offese e contro offese. All’epoca era tutto più semplice, Mandi Mandi e Frengo giocavano sugli stereotipi friulani e pugliesi, ma erano in realtà degli omaggi. Quel mondo è un po’ permaloso, anzi ci stupì l’entusiasmo dei calciatori. Erano i primi a divertirsi, addirittura facevano delle delazioni per prendere in giro altri giocatori. A non digerire le nostre gag erano al contrario i presidenti e qualche mister. Trapattoni si arrabbiò tantissimo, ma noi l’abbiamo sempre amato”.

C’è qualche personaggio che non ha funzionato?

“Sicuramente e più di uno. Ricordo la fatica degli inizi di Aldo, Giovanni e Giacomo. Avevano i loro pezzi e infilare le nostre voci era complicato. In effetti hanno iniziato a funzionare quando sono emersi i personaggi singoli, con gli altri due sullo sfondo. Nel caso del sardo Nico noi parlavamo solo con Giovanni”.

I bulgari però facevano eccezione.

“Erano sketch di movimento, i bulgari non parlavano. Mi vengono in mente gli arbitri rinchiusi nello spogliatoio, era un pezzo bellissimo ma probabilmente doveva essere concepito senza le nostre voci. Infatti lo abbandonammo. La Tv Svizzera, viceversa, prevedeva il nostro commento in un pezzo chiuso, dove non interagivamo. Anche Ale e Franz, attori bravissimi e di talento, con noi hanno reso meno di quanto meritassero”.

Scopriste Paola Cortellesi grazie alla visione di un vhs. Con Virginia Raffaele invece come iniziò la collaborazione?

“Se non ricordo male ce la segnalarono Gigi e Ross. Virginia partecipava ad un programma radiofonico con Lillo e Greg e ci consigliarono di monitorarla. In seguito guardammo dei filmati su Youtube, la chiamammo subito. Venne a trovarci il 22 dicembre e la prendemmo immediatamente. Passò il Natale a Milano per provare i trucchi dei personaggi che avrebbe dovuto interpretare. Una grandissima, se la gente è valida è normale che venga richiesta altrove. La bravura scatena inevitabili dinamiche”.

In questi casi prevale l’orgoglio o un comprensibile fastidio?

“Personalmente, non ho mai pensato di nessuno ‘l’ho inventato io’. Quando una persona ha talento viene chiamata in giro. Anche Mai dire talk, che non è stato capito e non ha avuto una continuazione, ha rappresentato un trampolino per Francesca Manzini. Più complicato il discorso de Le Coliche, ma stavamo lavorando su di loro per renderli più televisivi. Avrebbero avuto bisogno di qualche uscita in più. Spesso non si capisce che se piazzi un fenomeno social paro paro in televisione, non è affatto detto che funzioni automaticamente”.

Per tre anni lavoraste con Daniele Luttazzi. Che tipo era?

“Era particolare, divideva molto, ma a me piaceva tantissimo. Da noi fece grandi stagioni. Combattemmo per togliergli quella patina di freddezza che mostrava in video. Il personaggio di Panfilo Maria Lippi, il giornalista di Tabloid, non era altro che un Luttazzi addolcito dal trucco. Quell’escamotage lo rendeva più simpatico e il pubblico lo accettò”.

Da decenni ospitate in radio le innumerevoli voci di Gianfranco Butinar. Perché non lo abbiamo mai visto nei vostri programmi televisivi?

“Ci abbiamo provato. Secondo me è straordinario, ma le performance in video forse erano troppo complesse. Ha una conformazione del viso particolare, non era facile da truccare, nonostante avessimo uno staff di truccatori mostruoso. La colpa fu pure nostra, dato che uno dei primi personaggi che tentammo fu Ronaldo, il Fenomeno. L’esperimento non andò bene, ma in radio a lui non abbiamo mai rinunciato”.

Nell'estate del 2006 approdaste a Sky per commentare i Mondiali. Come mai la collaborazione con la pay-tv non proseguì?

“Fu un’esperienza bellissima. Avevamo un canale dedicato e, esclusi i match dell’Italia, facevamo ascolti più alti della partita col commento originale. L’azienda rimase talmente contenta che l’anno seguente avremmo dovuto realizzare una specie di Quelli che il calcio. Avevamo definito tutto, c’era già la redazione pronta. Ma quell’estate coincise con la retrocessione della Juventus, scenario che spinse Sky ad acquistare i diritti della serie B. Ci comunicarono che avevano esaurito il budget e il progetto saltò. Quattro anni dopo, nel 2010, ci fu un nuovo contatto alla vigilia del sorteggio dei gironi del Mondiale in Sudafrica. Avremmo dovuto commentare di nuovo le partite, raggiungemmo un accordo economico con stretta di mano finale, ma alla fine non se ne fece nulla”.

Tra i progetti saltati all’ultimo segnalo anche un Eurofestival, nel 2012.

“Vero, ma non ero presente alla riunione decisiva. Mi venne riferito che c’erano dei vincoli, non ricordo precisamente quali. Probabilmente non era consentito il nostro commento sopra le esibizioni dei cantanti”.

Negli ultimi anni avete regalato delle incursioni all’interno del Gf Vip e dell’Isola. Interventi considerati però brevi, circoscritti e in alcuni frangenti registrati.

“Inizialmente i nostri ingressi erano tutti in diretta. Poi decidemmo di registrare gli ultimi. Era soprattutto un problema di tempi. Eravamo chiusi negli studi di Milano e poteva capitare di essere spostati; non dipendeva da noi. I nostri interventi andavano sempre forte, ma nei reality eravamo la ciliegina e non la torta. A rimetterci fu la ciliegina”.

All’attivo vantate anche un film, Tutti gli uomini del deficiente. Il successo televisivo non si spostò al cinema.

“Quel film non era male, era quindici anni avanti. Dentro c’erano i videogiochi, le interazioni. Oggi sarebbe campione d’incassi. Credo che ci fosse troppa roba all’interno, proposta in maniera troppo veloce. Riempivamo i cinema al pomeriggio, ci andavano i ragazzini, ma la sera le sale si svuotavano, gli spettatori preferivano altri titoli. Non era un film adatto al periodo natalizio. Incassò quasi 6 miliardi”.

Riusciste persino a convincere Arnoldo Foà.

“Sì, Arnoldo lo ricordo con gioia. Parlare con lui negli intervalli era davvero emozionante. Un gigante”.

·        Giancarlo Giannini.

(Da Anteprima di Giorgio Dell’Arti) Giancarlo Giannini, nato a La Spezia il 1° agosto 1942 (78 anni). Attore. Doppiatore • Sei David di Donatello. Cinque Nastri d’Argento. Due candidature all’Oscar. Cinque Golden Globe. Una stella sulla Walk of Fame di Hollywood

• Ha doppiato, tra gli altri, Al Pacino, Jack Nicholson, Michael Douglas, Malcom McDowell, Gérard Depardieu, Jeremy Irons, Kevin Spacey, Mel Gibson, Richard Gere, Dustin Hoffman e Harvey Keitel

• «Nella sua carriera c’è di tutto. Il cinema d’autore e quello di genere, la fama in Italia e anche all’estero, la recitazione, il doppiaggio, l’insegnamento» (La Stampa) • «Con quella bellezza sorniona, il sorriso ironico, lo sguardo azzurro a cui non sfugge nulla, è l’ambasciatore dell’uomo italiano nel mondo» (Raffaella Silipo, La Stampa, 29/6/2020)

• Grazie al suo mestiere ha girato tutto il mondo, dall’Australia alla Russia: «Mi sono trovato in Canada a girare a 40 gradi sottozero e il giorno seguente ero nello Zimbabwe, a più 40» • «Per lei cosa significa recitare? “Continuare il gioco di quando si è bambini, ricostruire un mondo non realistico, dare spazio alla fantasia”» (Fulvia Caprara, La Stampa, 21/1/2018). Titoli di testa «Ieri ho letto che a Giancarlo Giannini è stata dedicata una stella sulla Hollywood Walk of Fame, la seconda volta per un attore italiano uomo, dopo Rodolfo Valentino. Nell’occasione, ho letto un’intervista a lui, su Repubblica, intelligente e spiritosa. Mi ha fatto piacere. Infatti io seguo Giancarlo Giannini. Come tutti, direte: no, di più. Perché Giannini è la sola persona di cui sappia che nacque nello stesso giorno in cui nacqui io, giorno mese e anno, intendo. Dell’ora, nemmeno della mia, non so. Benché non mi ritenga superstizioso, e non legga mai un oroscopo, provo per lui una benevolenza augurale e per le sue riuscite una specie di soddisfazione abusiva, come un socio di minoranza. Guardo come il tempo lavora su lui, tanto meglio che su me» (Adriano Sofri, Il Foglio, 7/7/2020). Vita - Nato in tempo di guerra. Suo padre lavora alla Pirelli, nella divisione che si occupa di cavi sottomarini

• «A due anni, una volta viaggiavo su un camion di patate, mia madre mi teneva, e c’era uno Stukas che mitragliava la strada. Per fortuna io e mia madre ci buttammo nel fossato a lato della strada» (a Silvia Bizio, la Repubblica, 16/2/2019)

• «Da piccolo costruivo modellini, a sei anni avevo già fatto una scuola di aeromodellismo, dovevo disegnare e costruire tutto, lì ho imparato la pazienza e il rigore che mi porto dietro da tutta la vita». Impara a lavorare il legno. Si costruisce da solo le ali, poi le attacca con della colla preparata a mano. «Passava la notte, e la mattina correvo a vedere se l’ala stava su dritta»

• «Avevo otto anni, mio padre venne trasferito da La Spezia a Napoli e portò giù la famiglia: mia madre, mia sorella e me. Abitavamo a Pozzuoli, vicino alla casa di Sofia Loren, poi ci spostammo a Fuorigrotta. A Napoli presi il diploma di perito elettronico, finiti gli studi potevo andare in Brasile a lavorare sui primi satelliti artificiali. Avevo ottimi voti, non era come adesso, se eri bravo le aziende ti chiamavano. Ma prima dovevo fare il militare e rinviai il Brasile di un anno» (a Maria Pia Fusco, la Repubblica 22/7/2012)

• Vista la sua passione per gli aeroplanini pensa di entrare in aviazione. «Andai a fare la visita medica, e mentre aspettavo lessi un manifesto appeso al muro con i vari articoli per l’esonero. Uno riguardava il primo nipote maschio di una nonna con figli sposati e marito morto in guerra. Rientravo nell’articolo, anche se mia nonna stava a La Spezia e non aveva bisogno di me. Vergognandomi lo dissi al medico, dopo un mese arrivò il congedo. Illimitato»

• Il suo destino è andare in Brasile a occuparsi di satelliti artificiali. Un suo amico, però, gli dà un’idea: «Perché non ti iscrivi all’Accademia d’Arte Drammatica a Roma?» • «“Mi presero. Non solo, mi diedero una borsa di studio di quarantamila lire. Mi potevo mantenere. A diciott’anni Beppe Menegatti mi fece fare Puck nel Sogno di una notte di mezza estate. A me pareva di fare una stronzata, ma la gente rideva. E mi pagavano”. C’era Volonté nel cast: “Con me si divertiva, ero sempre in movimento, dal palco alla platea, Puck è un folletto invisibile e lui mi inseguiva, “Eccolo, l’ho preso!”, e il pubblico rideva”» (Fusco)

• Decide di tentare la strada del palcoscenico. «Mi ero dato tre anni di tempo e le cose sono successe» • Giancarlo interpreta ruoli in spettacoli importanti, come In memoria di una signora amica, di Giuseppe Patroni Griffi. Poi lavora con Franco Zeffirelli: Romeo e Giulietta e La lupa, dove recita con Anna Magnani. Lavora con dedizione, come un monaco. «La perfezione è una dannazione, ma anche un’etica» • «So di essere il rompicoglioni di me stesso»

• «Lina Wertmuller? Mi ha creato. Se non ci fosse stata lei, io non sarei qui e non avrei mai fatto quello che ho fatto nella mia carriera. È riuscita a trasformare ogni idea che aveva in un grande divertimento ed è sempre stato un piacere lavorarci insieme e confrontarsi sugli argomenti più disparati. Per me è stata tutto» (a Giuseppe Fantasia, HuffPost, 3/6/2019)

• «Una sera, uscendo dal teatro, Lina mi fece letteralmente prelevare dal suo produttore, mi trovai sul set di un musicarello con Rita Pavone» (alla Morvillo) • «Ho lavorato molto con lei, 24 ore su 24. Allora non c’era questa fretta, questa ansia. Ero anche il produttore di alcuni dei sui film. Pasqualino Settebellezze era un film che non voleva far nessuno, perché parla di un campo di concentramento. È una storia vera. Sono riuscito a convincere Lina a farlo e ha avuto quattro candidature all’Oscar. Ne sono molto orgoglioso. Poi Roberto Benigni fece La vita è bella...» (alla Bizio)

• «Ho avuto fortuna, io. Anche quella di cogliere l’ultima onda della grande commedia all’italiana, di studiare da vicino i miei cinque pilastri: Gassman, Mastroianni, Tognazzi, Sordi e Manfredi. Dovessi distruggere tutto tengo l’anarchico di Film d’amore e d’anarchia. Quella storia l’avevo trovata io, ne andavo fiero, pensavo di aver raccontato non un anarchico ma un poeta. Partendo da tre elementi: quercia, mucca, gatto. Doveva avere la stabilità di una quercia, l’occhio fesso della mucca, l’astuzia di un gatto. Ci misi l’anima e i critici lo presero come un cretino. Pensavo di smettere, sul serio»

• «Ho imparato a dormire anche solo venti minuti per notte, perché più stai sveglio, più vivi. Quando giravo Film d’amore e d’anarchia di Lina Wertmüller, Tunin il contadino richiedeva otto ore di trucco e non mi restava tempo per il sonno. Al che, pur non essendo un figlio dei fiori, provai una tecnica yoga usata dai cammellieri del deserto: fai meditazione facendo partire il rilassamento dai piedi e, quando arrivi alle ginocchia, già cadi in un sonno profondo, ti svegli subito e sei riposatissimo» (Morvillo)

• «Spesso mi chiedono: “Come sei entrato nel personaggio?” Ma come si fa ad entrare in un personaggio? Con la porta? Non si entra nei personaggi, si raccontano come quando si legge un romanzo. Li rappresenti. Chi entra nel personaggio è lo spettatore, tu devi solo fornire la chiave. Altrimenti dovrei soffrire sul serio ogni volta che interpreto qualcuno in difficoltà. Casomai è lo spettatore che piange o ride» (D’Alessandro)

• «Rispetto il metodo Stanislavskij, ma non certe declinazioni violente, quelle per cui ti devi immedesimare e per fare il malato terminale stai sei mesi in ospedale tra i moribondi, poi però non sai più uscire dal personaggio. Io finisco un film e già voglio farne un altro. La volta in cui mi sono divertito di più è stato in Sessomatto di Dino Risi: dieci personaggi in un solo film. Io sul set mi diverto come un bambino che si mette il vestito di Zorro ed è Zorro» (alla Morvillo)

• «Devi innanzitutto divertirti. Per il resto, basta fingere, usare la fantasia» • «“Agli studenti del Centro Sperimentale insegno non a dire la battuta, ma insegno la gioia di vivere” E che cos’è la gioia di vivere? “Conservare il fanciullino infantile. Se no, come fai a raccontare, a giocare? Gli attori che s’immedesimano troppo cadono depressi, bevono, si drogano”». Amore - «Che posto ha avuto l’amore nella sua vita? “Le donne mi sono sempre piaciute, da quando m’innamorai la prima volta, non ricambiato, a sette anni. Ora, porto in teatro Le Parole note, dove con un accompagnamento musicale recito poesie sulle donne dal Duecento a oggi, dal “tanto gentile tanto onesta pare” ai versi più carnali di Pablo Neruda, “corpo di donna, bianche colline, cosce bianche”. E lei con le donne è dantesco o nerudiano? “Metto insieme tutto, la donna è talmente complicata che non puoi semplificarla”» (Morvillo)

• «Dalla prima moglie ha avuto Adriano, che ha girato con Madonna il remake di Travolti da un insolito destino, e Lorenzo, che è mancato a 19 anni, per un aneurisma. Con la seconda moglie, Eurilla del Bono, sposata nell’83, ha due figli, Emanuele e Francesco, entrambi musicisti» (ibidem). Dolore - «Com’è stato perdere un figlio ventenne? “Terribile. L’unica cosa che ricordo era che guardavo il resto della famiglia e mi dicevo: se credi in Dio, devi aiutare loro”» (alla Morvillo). Religione «La fede mi è entrata dentro intorno ai 30 anni, come un mistero, un piedistallo per affrontare tutte le cose della vita. Vittorio Gassman, quand’era depresso, mi chiedeva sempre com’era entrata e non glielo sapevo spiegare. E lui: sono geloso perché hai questo piedistallo, ne vorrei uno pure io, anche piccolino» (alla Morvillo). Curiosità - «Un metro e 72 di altezza e taglia 52» (D’Alessandro) • È cavaliere di gran croce della repubblica • Ha doppiato il personaggio di Raul Menedez in Call of Duty: Black Ops II, un videogioco di guerra • Fu lui a scoprire Julia Roberts in America: «È andata così: lei, ancora sconosciuta, era stata chiamata per una particina in Blood Red, perché ci recitava suo fratello Eric. Nel film lei era mia figlia e io, dopo averla vista davanti alla cinepresa, ho detto ai produttori che dovevano farle un contratto perché era bravissima. Non mi hanno presso sul serio, ma un anno dopo faceva Pretty Woman»

• Rimane ancora sveglio la notte per progettare diavolerie elettroniche, tutte brevettate. «Ho inventato di tutto... Un portachiavi che risponde ai comandi vocali, guanti per la realtà aumentata, un giubbotto interattivo finito in Toys di Barry Levinson. Robin Williams mi chiamava di continuo per sapere come farlo suonare o vibrare. Se lo voleva tenere, non gliel’ho dato» (alla Morvillo)

• «Recitare non mi costa alcuna fatica, per questo faccio un film dietro l’altro: mi chiamano e vado. Inventare congegni elettronici, invece, mi impegna di più, e forse per questo ne sono più fiero»

• Nella sua autobiografia dedica trenta pagine alla pasta al pesto. «Io quando cucino gli spaghetti li faccio bene. Anche quello è questione di metodo. Perché se li devi far male meglio non farli»

• «Oggi si affronta tutto in modo superficiale, ma non si può pretendere che i ragazzi sappiano tutto. Anzi, forse è meglio che non sappiano nulla. Anche se è un peccato che non siano interessati al passato e restino convinti che tutto quello che serve è nei computer. Non è così, la nostra mente è molto più bella, il computer è scemo, ti informa e basta, noi sappiamo fare altro» (alla Caprara)

• «Gli ultimi dati parlano di un cinema italiano in forte crisi, che cosa ne pensa? “Il cinema ha un ricorso storico verso il basso, probabilmente perché è un’arte che sta sparendo”» (ibidem)

• «Il mondo è cambiato, e molto. Trenta o quaranta anni fa Fellini, sul set, mi diceva: “Giancarlino, il cinema è morto”. “Come, è morto?” gli chiedevo io. E lui: “Andremo al cinema come a un museo, a malapena vedremo quel raggio di fumo che attraversa quel raggio di luce”. Aveva ragione. Il linguaggio sta cambiando. Non sappiamo cosa succederà. Siamo ai primi passi. Non so se sarà sostituito dallo schermo del telefonino, ma è certo che il grande schermo sta finendo. In Italia tutti stanno vendendo i cinema, e anche nel resto del mondo. Ma sono sempre curioso del futuro: io sono nato come perito elettronico industriale, quindi queste cose le studiavo a scuola: cos’è l’immagine attraverso l’etere. Il digitale ha stravolto tutto, forse è andato troppo veloce, nel bene e nel male, ma le grosse sorprese non mancheranno mai» (alla Bizio).

• «Il più grande attore italiano, pieno di fascino e ironia» (Francesca Archibugi) • «Un superperito della tecnica recitativa» (Pierfrancesco Favino) • «Uno dei pochi attori italiani in grado di interpretare parti da buono e da cattivo a distanza ravvicinata» (Michela Tamburrino) • «Ma è troppo caro, chiede più della Kidman» (Harvey Weinstein) • «Quando mi lasciò per un’altra, non ebbe il coraggio di dirmi la verità, mi disse la solita frase “ho bisogno di una pausa di riflessione”» (Monica Guerritore) • Tra i suoi film: Rita la zanzara (Lina Wertmüller, 1966), Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) (Ettore Scola, 1970), Mimì metallurgico ferito nell’onore (Lina Wertmüller, 1972), La prima notte di quiete (Valerio Zurlini, 1972), Film d’amore e d’anarchia (Lina Wertmüller, 1973), Sessomatto (Dino Risi, 1973), Fatti di gente perbene (Mauro Bolognini, 1974), Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (Lina Wertmüller, 1974), Pasqualino Settebellezze (Lina Wertmüller, 1975), L’innocente (Luchino Visconti, 1976), Lili Marleen (Rainer Werner Fassbinder, 1981), Mi manda Picone (Nanni Loy, 1984), Snack Bar Budapest (Tinto Brass, 1988), New York Stories (Francis Ford Coppola, 1989), Il male oscuro (Mario Monicelli, 1990), I divertimenti della vita privata (Cristina Comencini, 1992), Mimic (Guillermo del Toro, 1997), Hannibal (Ridley Scott, 2001), I banchieri di Dio (Giuseppe Ferrara, 2002), Il cuore altrove (Pupi Avati, 2003), Agente 007 - Casino Royale Martin Campbell, 2006), Agente 007 – Quantum of Solace (Marc Forster, 2008), Notti magiche (Paolo Virzì, 2018)

Ivan Scinardo per fondazioneleonardo-cdm.com il 24 luglio 2020. L’attore e l’inventore hanno molte affinità, innanzitutto la sperimentazione. Sperimentano, fanno tesoro dell’esperimento, appunto. E s’ingegnano. Civiltà delle macchine incontra Giancarlo Giannini in una calda mattina di luglio, la sua – dopo quella di Rodolfo Valentino – è la seconda stella d’Italia a Hollywood, agli inizi di questa estate il suo nome è stato inciso sulla Walk of fame e lui ne ha realizzato un’altra per la propria casa di campagna: “La mia grande passione è costruire; mi piace fare il muratore e così ho realizzato il calco e incastonato sull’uscio di casa la stella nella pietra arenaria”. A noi interessa Giancarlo Giannini inventore, e il racconto della sua vita da Archimede comincia da quando aveva cinque anni; gli occhi si bagnano di emozione quando ricorda il corso di aeromodellismo: “Si parte dal disegno per costruire un modello di aeroplano, assemblando con una pazienza fuori dal comune, ogni pezzo. Ed è così che s’impara ad averne tanta di pazienza e adottare così "il metodo", ed una tecnicalità che non si abbandona più”.

Le superiori all’Istituto tecnico e il diploma di perito elettronico industriale. “La svolta è a diciannove anni quando, come succede spesso nei provini, un amico mi coinvolge per caso e mi ritrovo selezionato in un corso di recitazione. Questa novità non mi fa abbandonare la passione per le invenzioni. Per tentativi ed errori riesco a brevettare giubbotti e guanti interattivi, anticipando i percorsi della realtà virtuale. È una mia invenzione la giacca elettronica indossata da Robin Williams nel film Toys di Barry Levinson. Emetteva suoni di sei lingue diverse, compreso il giapponese e, attraverso i microchip, reagiva a tutti i movimenti del corpo”.

A questo proposito Giannini cita Jean-Louis Barrault regista e mimo francese di inizio secolo, quando dice – “L’attore con il suo corpo incide lo spazio, con la voce il silenzio” – e la sua invenzione assolve a tutte e due i compiti di cui si fa carico l’attore: “A fine lavorazione Robin Williams volle tenere la giacca per sé, per pensare e realizzare questo prototipo ho dormito pochissimo, ma di sonno”, rivela Giannini, “ne godo davvero poco, faccio mie le tecniche di yoga di Mircea Eliade, sono gli stessi metodi dei predoni del deserto che, in luogo della nanna, usano le ore della notte per viaggiare”.

Oltre al giubbotto intelligente, quale altra invenzione?

“Ho progettato anche un portachiavi sensibile al tocco delle dita. S’illumina e indica quale chiave selezionare al buio. Il progetto naufragò in Cina, perché i primi campioni di serie erano troppo grandi e i cinesi li rifiutarono. Ancora adesso acquisto materiali elettronici per smontarli, è rilassante, ma aiuta a capire il futuro nella tecnologia”.

L’immaginazione è il suo punto di forza; nel mestiere di doppiatore questa componente lo rende unico; pochi riuscirebbero a doppiare delle voci senza immagini, solo con testo davanti. Ci parla con orgoglio di Call of Duty: Balck Ops II un videogioco creato dal fumettista David Goyer, che in tutto il mondo ha incassato un miliardo di dollari. La voce, nella versione italiana, del terrorista piscopatico Raul Menendez, è sua.

Goyer lo ricordiamo è lo sceneggiatore di Batmann, per la regia di quel genio di Christopher Nolan. Come si fa a interpretare un personaggio senza vederlo?

“Non si entra nei personaggi, un personaggio si può solo raccontare, come in un romanzo; chi deve interpretarlo è lo spettatore a cui spetta la restituzione di emozioni positive o negative”.

Come il polo positivo e negativo in un magnete, come lo yin e lo yang del cosmo, come – appunto – il mistero dell’invenzione, in prossimità della creazione, la qualità propria dell’homo faber. Con Giancarlo Giannini condividiamo un ricordo, quello della presentazione in Sicilia del suo primo film da produttore e regista (il suo esordio fu nel 1987 con Terno secco), dal titolo: Ti ho cercata in tutti i necrologi, uscito in sala nel 2012, con questo riconoscimento hollywoodiano il ruolo di attore adesso lo fa assurgere al rango dei più grandi nel mondo e ci piace inorgoglirci di più sullo stato di salute del cinema italiano. Ivan Scinardo è direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia, sede di Sicilia.

Arianna Finos per repubblica.it il 6 luglio 2020. In attesa di inaugurare a inizio 2021 la stella che Hollywood gli dedica sulla Walk of fame, Giancarlo Giannini, 78 anni ad agosto, se n'è costruita una da solo: "Mi piace fare il muratore, ne ho incassata una sulla pietra serena del marciapiede della casa di campagna - spiega ridendo - sono il secondo attore italiano a riceverlo dopo Rodolfo Valentino, con Anna Magnani, Sophia Loren e Gina Lollobrigida".

La stella suggella il suo lungo rapporto con Hollywood.

"In America a volte mi hanno amato più che in Italia. I primi film hollywoodiani li ho girati da noi. Nel '68 Lo sbarco di Anzio, con Robert Mitchum e Peter Falk, ero l'unico italiano, il marine Cellini, piccoletto rispetto agli altri, imbracciavo un fucile sproporzionato, per fortuna a un certo punto lo barattavo col mitra di un caduto. Lo girammo a Taranto, la sera la troupe giocava a poker tra decine di bottiglie di birra, Mitchum non beveva e ce ne andavamo in giro. Mi raccontava di quando aveva convinto un giornalista che andava a raccogliere farfalle nei boschi, o quando aveva radunato cento invitati in smoking obbligatorio a una festa e si era presentato nudo con le parti intime coperte di panna. Era un grande consumatore di marijuana, si faceva le sigarette spacciandole per Marlboro. Io avevo studiato inglese a Londra per il ruolo, con un maestro che mi metteva lo stuzzicadenti per pronunciare "th", sul set ridevano tutti, Mitchum e gli altri mi dovettero insegnare lo slang americano. Quando lo rividi a Todi, tantissimi anni dopo, si ricordava ancora le battute che mi aveva insegnato".

In American dreamer era un assassino francese, in Saving Grace un prete, poi Febbre di gioco.

"Per Fever Pitch (Febbre di gioco, ndr) mi chiamò il regista Richard Brooks mentre ero in vacanza nel deserto dell'Arizona, in un motel a forma di ferro di cavallo con un palo e il telefono al centro. Non volevo andare, mi stavo per sposare. Un aereo privato mi portò agli studios, con le pareti di mogano e i premi, lui mi accolse 'my friend'. Il mio personaggio era un capo mafioso col pallino del golf. Io prendevo lezioni e nella prima scena centrai subito una buca a dodici metri. Nel film non si potè mettere ma il regista mi convocò con una scusa a Los Angeles per consegnarmi il pezzo di pellicola, 'la prova dell'impresa'".

Nel 1989 New York Stories con Francis Ford Coppola.

"Lo conobbi a una cena anni prima, aveva visto Amore e anarchia, mi voleva per Apocalypse Now nel ruolo con cui Duvall ha vinto l'Oscar, ma ero impegnato con Visconti. Mi disse 'ma fai spostare il film', come se io avessi quel potere. Un anno prima me lo aveva detto anche Spielberg, mi aveva chiamato per l'antagonista di I predatori dell'arca perduta ma slittò per uno sciopero e poi io ero impegnato con Fassbinder. 'Chi è? Ma sposta quel film', disse Spielberg. Gli americani sono strani, bisogna saperli prendere. Comunque poi Coppola mi richiama, 'devi interpretare mio padre', che era stato primo flauto di Toscanini. Avevo in ballo Il male oscuro con Monicelli, che ebbe un incidente con molte fratture. Coppola mi chiamò il giorno stesso, "allora il film lo puoi fare"".

Mai pensato di trasferirsi?

"No, mi piace il mio paese e a Hollywood ti offrono ruoli da italiano. La Columbia mi offrì un contratto da sei mesi all'anno come protagonista di una serie, un detective italiano rompiscatole spedito in America: 'Sistemi economicamente figli e nipoti'. Non volevo essere legato per anni".

Ha lavorato con una sconosciuta Julia Roberts.

"Legami di sangue, 1989, western poco interessante in cui ero un patriarca viticoltore, mio figlio era Eric Roberts e avevano chiamato la sorellina. Nella scena in cui un gruppo di cattivi assaltava il ranch e mi aggrediva, Julia aveva un primo piano disperato ed era intensissima, la segnalai ai produttori, 'ma figurati, è solo la sorella di Eric'. Poco tempo dopo era una stella".

Le è capitato altre volte di intuire il talento?

"Con Daniel Craig, Bond, all'inizio tutti scettici, io sapevo che grande attore fosse, di una simpatia devastante e capace di farsi da solo gli stunt. Stavamo talmente bene che dopo Casino Royale ho fatto Quantum of solace".

Incontri folgoranti?

"Con Billy Wilder. Ero a Los Angeles per un film italiano, mi portano da Spago e lui mi fa invitare dal cameriere al suo tavolo, con Diana Ross, Sidney Poitier, Michael Caine. Mi presenta e si mette a citare, col suo accento anglotedesco, battute di Mimì metallurgico. Con Andy Warhol passeggiavamo, lui aveva sempre una polaroid e un registratore. Mi portò nella sua Factory e mi fece un servizio fotografico". (…)

Man on fire con l'altro Scott, Tony. E Denzel Washington.

"Washington bravo, severo, grand'attore. Il mio ruolo bellissimo fu tagliato nel finale, non è simpatico spiegare perché. Le dico solo che gli attori americani hanno un potere enorme, un italiano che cazzo fa? Se Ridley era silenzioso, Tony era esuberante. I due fratelli erano in competizione. Ricordo una scena faraonica di incendio in un locale, 'mio fratello in Black Hawk Down ha avuto 16 macchine, io ne ho 36!'. Era geloso perché Ridley era più famoso. Mi faceva arrivare in Messico bottiglie di Brunello di Montalcino, ed ero astemio, mi regalava piante a cui ero allergico. La mattina alle 4 andava a scalare montagne. Non credo che si sia buttato dal ponte perché malato, penso che abbia sbagliato una di quelle grosse operazioni finanziarie che facevano lui e il fratello e non ha retto alla vergogna".

Di recente cosa le è piaciuto fare?

"Con Clooney la serie Catch 22. George mi ha mandato il testo con la sua voce registrata, sul set mi ha preparato bellissimi cartelli con le frasi. Ho invece rifiutato il film Dubbing De Niro, un doppiatore che perdeva la voce e andava in America a incontrare De Niro, ci riusciva nelle ultime scene. Conosco De Niro, ma il progetto non mi ha convinto".

Nella casa di campagna conserva gli oggetti della sua carriera?

"Qualcosa, la lettera dispiaciuta di Spielberg quando ho detto no, i complimenti di Ridley Scott e i fumetti che Tony mi mandava la sera sulle riprese, le foto di Warhol. Ma le conservo senza enfasi, le cose si fanno e si dimenticano".

·        Giancarlo Magalli.

Massimo Falcioni per tvblog.it il 9 ottobre 2020. Salvagente in caso di mare mosso, supplente quando i conduttori ‘titolari’ mollavano o finivano addirittura all’ospedale. La vita professionale di Giancarlo Magalli è stata legata per molti anni all’incertezza, all’ingresso in corsa, alla necessità di mettersi alla guida di auto progettate per altri piloti. Pronto chi gioca?, Fantastico, Giorno dopo Giorno, Bye Bye Baby, Luna Park, I Cervelloni. Una lista lunghissima che alimenta nel conduttore romano il senso di orgoglio: “Proverei disappunto se avessi fatto solo quello, invece ho alternato – afferma Magalli a Tv Blog – fare il tappabuchi non fa piacere, ma mi hai nominato cinque-sei titoli, alcuni nemmeno li ricordavo. Ad ogni modo nell’elenco c’è pure roba prestigiosa come Fantastico”.

Padrone di casa per fatalità, autore per passione. Tra le menti di Pronto, Raffaella? e in seguito di Pronto, chi gioca?, Magalli si ritrovò a sostituire da un giorno all’altro Enrica Bonaccorti, ricoverata per un aborto spontaneo. “Essendo l’autore della trasmissione ero l’unico che potesse farlo. Conoscevo testi e tempi, mi buttai e andò bene. Da allora sono rimasto sempre in video”. Una volta compiuto il grande passo, tornare indietro è difficile, anzi impossibile: “Certamente condurre dà più soddisfazione, per un fatto economico e di popolarità. Ho sempre pensato che il lavoro di autore ci sarebbe comunque stato, sarei potuto tornare alle origini. Purtroppo oggi non è più così”.

In che senso?

“Nel senso che gli autori come lo ero io all’epoca non esistono più, non sono più richiesti. I programmi si comprano, si acquistano i format e poi si adattano. Non è il mio lavoro. Immagina di avere tra le mani un foglio di carta con su scritta un’idea e di portarla al dirigente di turno, è un iter che non c’è più. Negli anni settanta funzionava così. Meglio allora tenersi da conto il ruolo di presentatore”.

Se fosse un allenatore di calcio potremmo accostarla a Claudio Ranieri, "aggiustatore" di situazioni complesse. Le piace come paragone?

“Più che un campionato, noi conduttori disputiamo un Giro d’Italia. Il nostro è un percorso composto da tante tappe e, come mi disse il mio amico Pippo Baudo, il Giro se lo aggiudica non chi vince tutte le tappe ma chi realizza la media migliore. Questo è stato sempre il mio obiettivo, poi senza dubbio qualche errore si compie. Se realizzi quattro programmi in carriera non sbagli, se ne fai cinquanta c’è la possibilità che due-tre ti vengano male”.

Un altro suo amico era Alighiero Noschese. E’ vero che il primissimo videoregistratore lo vide a casa sua?

“Verissimo, nella sua abitazione all’Eur aveva attrezzature super professionali che non possedevano nemmeno alla Rai. Le usava per migliorare le sue imitazioni. In un registratore memorizzava la voce dell’imitato,  su un altro metteva la sua e le paragonava in diretta. A questi si aggiungeva un videoregistratore a nastro con monitor in bianco e nero e qui ci registrava i vari programmi per raccogliere le caratteristiche e i tic dei personaggi. Era un perfezionista assoluto”.

Torniamo alla tv. La più grossa scommessa?

“Fantastico, nel 1997. Accettai l’incarico il mercoledì e il sabato sera ero al Teatro delle Vittorie. Decisi di condurre uno show che era stato creato su misura per Enrico Montesano. Rinnovammo completamente il programma, dalla prima all’ultima parola. Fu una bella sfida vinta”.

Alla vigilia dichiarò: “E’ un intervento a cuore aperto su un paziente con 60 di pressione. E’ dura anche per me che sono abituato a interventi delicati”. Se lei è Ranieri, Fantastico fu il suo Leicester.

“Forse sì. Fu una sfida difficilissima per una serie di problemi. Il motivo che generò la fuga di Montesano rimase, ossia La Corrida come rivale. Corrado era riuscito a portare il pubblico su Canale 5 e Montesano non resse l’impatto. Non accettava di soccombere a dilettanti che facevano le pernacchie. Non volli cambiare gli autori, ci mettemmo subito a lavorare. Al mio fianco avevo Milly Carlucci, bravissima e disponibilissima”.

Nella prima puntata arrivò in studio in ambulanza.

“Esatto, con Milly che mi aspettava all’ingresso. Mi piacciono le sfide. Il terrore della Rai non era tanto sul fronte del varietà e dei suoi contenuti, ma nella necessità di ottemperare agli obblighi con il Ministero delle Finanze. Fantastico era abbinato alla Lotteria Italia, era un appuntamento importante che verteva su accordi e contratti precisi. Riuscimmo nell’impresa e arrivammo al 6 gennaio”.

Un programma di cui invece si pente?

“Mi gioco la nonna, me ne pento e me ne dolgo. Non andò bene, però ho delle attenuanti. Il format era tedesco, credevo di poterlo modificare, ma mi comunicarono solo successivamente che non si poteva. Era vincolato, c’erano giochi orribili, la concezione era macchinosa. Per montare e smontare i giochi si arrivava anche a pause di due ore. Senza contare che durante il programma la produzione litigò con la Rai. Un caos, e noi ci finimmo in mezzo”.

Per quell’esperienza rinunciò a Tale e Quale Show.

“Avrei dovuto formare la giuria con Claudio Lippi e Loretta Goggi. Era la prima edizione e dissi a Carlo (Conti, ndr) che avevo questo programma e che si registrava a Milano. Rifiutai una trasmissione bella per farne una brutta. Negli anni non sono più riuscire a rientrare”.

E’ noto per essere un amante di battute, anche ciniche. Percepisce il rischio di essere soffocati dal politicamente corretto?

“E’ una grande rottura di scatole, non si può dire una cosa che ti viene subito l’ansia. In questi giorni ho Edoardo Vianello ospite a I Fatti Vostri, l’ho preso in giro per il testo dei Watussi: ‘Guarda che se dici ancora altissimi negri rischi di fare la fine di Fausto Leali’. Quando fu scritta non era scorretto come termine, non è che adesso puoi cambiare ‘negri’ in ‘popolo di colore’. Occorre distinguere il politicamente corretto dal ridicolo”.

Ci sono categorie su cui non è possibile fare ironia?

“Ci sono categorie sulle quali non si scherza a cuor leggero: la Chiesa, la religione. Ma ad esempio anche la parola “zingaro” viene considerata offensiva. Vanno valutati contesto e intenzioni. La mania del politicamente corretto fa sì che persino alcune espressioni innocenti vengano guardate con sospetto. Io mi adeguo, per quanto posso. Nessuno mi ha mai tacciato di offendere le minoranze, però c’è sempre qualcuno pronto ad inalberarsi a nome di qualcun altro”.

Si parla tanto di body shaming sui social e della derisione del corpo altrui. Il suo fisico è stato oggetto di scherno per anni, eppure è sopravvissuto.

“Sono stato preso di mira non solo per la mia altezza, ma anche per la mia pinguedine. La verità è che non me ne è mai fregato niente. Spesso in trasmissione racconto di ragazzi bullizzati. Non sono storie di giovani picchiati, bensì di persone che si sentono dire ‘brutto ciccione’ dai compagni di classe. Io mi sarei dovuto suicidare a otto anni. Ero ciccione e me lo dicevano. In quei casi o ci ridevo o li mandavo a fanculo, e si andava avanti. Non ricordo nessuno della mia generazione andato dallo psicologo per questo motivo. O al giorno d’oggi i ragazzi sono più sensibili, o chi offende è diventato più mascalzone”.

Nei confronti di un uomo è tutto concesso?

“E’ chiaro che dare ad una donna della cicciona è da maleducati, ma si è arrivati al punto che ci si arrabbia pure se dici a una che starebbe bene con qualche taglia in meno o con dei chili in più. Ti querelano”.

A I Fatti Vostri l’oroscopo gode ancora di ampio spazio. Ha senso nel 2020?

“L’oroscopo, almeno dal mio punto di vista, è sempre stato accolto come un gioco. Gli astrologi sostengono di leggere le stelle, danno indicazioni sul futuro. Ricordo che tanti anni fa si spingevano su previsioni specifiche. Io per tutta risposta facevo un programma per verificare e rinfacciare le loro cavolate. Ora le loro previsioni sono molto più generiche”.

Quest’anno al fianco di Paolo Fox non appare nessuno. Come mai?

“Il covid influisce su certe dinamiche. Un conto è essere in cinque seduti uno di fianco all’altro, un altro è disporre una fila lunghissima con un metro di distanza tra singole persone. Non sarebbe inquadrabile. E’ già brutto in tre…”.

L’assenza del pubblico si fa sentire?

“Manca molto, abbiamo tre-quattro figuranti, più l’orchestra. Durante il lockdown non c’era proprio nessuno, adesso qualche cristiano si vede, ogni tanto si sentono risate e applausi. Va un po’ meglio”.

Tra le novità proposte quest’anno ci sono le lezioni di ballo di Samanta Togni. Su Blob sono diventate un appuntamento fisso.

“Non lo sapevo! E’ un blocco che va molto bene, lo notiamo anche dagli ascolti. E’ un momento breve, la scuola di ballo funziona, si insegna qualche passo a chi è a casa. Le donne ovviamente sono più degli uomini. Samanta poi quando balla è uno spettacolo della natura, la ammiro molto”.

A proposito di ascolti, da qualche stagione I Fatti Vostri è diviso in due parti. Una mossa inevitabile?

“Non dipende da me. Credo che la decisione sia dovuta al fatto che la seconda parte fa di più perché a ridosso del Tg2 delle 13, mentre la prima ha un traino più debole. Quindi si cerca di evidenziare la parte migliore”.

I battibecchi in diretta con Michele Guardì non passano inosservati.

“Siamo come due suocere conviventi (ride, ndr). Capita che faccia cose che mi sorprendono, non riesco a non fargliele notare. Ci sono stati anche confronti seri, ma è da molto tempo che non si verificano più. In regia ha una serie di bottoni, a volte preme tasti che non dovrebbe premere, lancia stacchi inutili, sbaglia, fa confusione. Dopo trent’anni il nostro è un matrimonio. Se si è ancora insieme dopo tutto questo tempo non si litiga più”.

Il 27 ottobre ripartirà Il Collegio. Ridarà la voce al reality dopo aver saltato la quarta edizione.

“Il 9 ottobre comincio a registrare gli episodi. Sono molto felice di esserci, i ragazzini riconoscono la mia voce, mi approccio ad un pubblico diverso”.

L’anno scorso cedette il testimone a Simona Ventura spiegando che non sarebbe stato adatto a raccontare gli anni ottanta. Stavolta però il programma sarà ambientato nel 1992.

“Il motivo del mio ritorno è che, bontà loro, ci tenevano a riavermi come voce narrante nonostante in quegli anni non andassi più a scuola da un pezzo”.

Anche la Carlucci ci terrebbe tanto ad averla nel cast di Ballando con le stelle. La corteggia ancora?

“No, ha smesso cinque anni fa. Ha capito che invecchiare è un’aggravante. Risposi di no a 60 anni, come potrei accettare a 70? E’ una questione di mancanza di agilità e di entusiasmo per una cosa che non so fare. Non è snobismo, ma di andare là a fare la figura dello scemo non me la sento. Voglio bene a Milly, non è per cattiveria. Semplicemente, non fa per me”.

Ida Di Grazia per ilmessaggero.it il 25 luglio 2020. Giancarlo Magalli ha querelato Marcello Cirillo: «Quelli che hanno bisogno di visibilità...». L'annuncio sui social. Il conduttore dei Fatti Vostri dopo essere stato già denunciato da Adriana Volpe, passa all'attacco e dalla sua pagina Facebook annuncia di aver querelato il suo ex compagno di viaggio. Ma andiamo con ordine. In una recente intervista Marcello Cirillo, ex collega e musicista de I Fatti Vostri, aveva definito Giancarlo Magalli come una persona "cattiva" e si è sin da subito schierato dalla parte di Adriana Volpe. Questa volta però Magalli ha deciso di passare alle vie legali e lo ha fatto annunciandolo sulla sua pagina Facebook: «Perché non è che tutti quelli che hanno bisogno di visibilità debbono per forza cercarla parlando male di me, mentendo, per finire sui giornali». Inoltre sempre su Facebook Magalli ha detto di aver letto solo menzogne sul suo conto: «A parte che sono cattivo - spiega il conduttore - ha scritto che ho cacciato Adriana (e non è vero) e che ho cacciato lui (e non è vero). Io non ho mai cacciato nessuno in vita mia e non ho nemmeno il potere di farlo. Se avessi avuto quel potere, che attiene solo alla direzione artistica (autori, regista, capo struttura, direttore di rete), se potessi cacciare chiunque a mio piacimento quattro e quattr’otto, Adriana, con la quale non sono andato d’accordo da subito, sarebbe restata otto anni? E in più si permette di dire che ironizzavo sul Parkinson di mia madre dicendole che poteva suonare le maracas, Dipingendomi come un figlio cinico e spietato. Allora, intanto mia madre non ha mai avuto il Parkinson, e poi la battuta delle maracas la fece da noi in studio Bruno Lauzi, che il Parkinson lo aveva purtroppo, ironizzando su se stesso. E lui lo sa bene».

Ora Magalli querela pure Cirillo: "Cerca visibilità parlando male di me". Ancora uno scontro il tribunale per Magalli con un suo ex collega e stavolta è lui a querelare Marcello Cirillo dopo un'intervista in cui non fa certo i complimenti al conduttore de I fatti vostri. Francesca Galici, Sabato 25/07/2020 su Il Giornale. Giancarlo Magalli continua a far discutere per le liti con i suoi colleghi. Quella con Adriana Volpe è ormai nota, i due sono già passati alle vie legali e non mancano di lanciarsi frecciatine velenose in ogni intervista, nonostante i fatti risalgano ormai a molti anni fa. La partecipazione di Adriana Volpe al Grande Fratello Vip e la sua successiva conduzione di un programma quotidiano su Tv8 hanno senz'altro acuito questa querelle, alla quale col tempo si sono aggiunti anche altri protagonisti, solidali con la bionda conduttrice. Tra loro c'è anche Marcello Cirillo, che ora subisce le ire di Giancarlo Magalli. Il conduttore di Rai2, infatti, ha dichiarato di aver querelato il comico che per tanti anni è stato una sua spalla a I fatti vostri. "Perché non è che tutti quelli che hanno bisogno di visibilità debbono per forza cercarla parlando male di me, mentendo, per finire sui giornali", ha scritto Giancarlo Magalli sul suo profilo Facebook, condividendo lo stralcio di un articolo nel quale si riportano le parole che Marcello Cirillo avrebbe detto in un'intervista al settimanale Nuovo. Il comico, nella sua intervista, ha raccontato alcuni episodi relativi a quando partecipava a I fatti vostri, dipingendo Magalli quasi come un despota all'interno della produzione: "È cattivo non solo nei nostri confronti ma anche con se stesso. [...] Per amore della battuta è capace di fare male anche a sua madre". Parole che non potevano passare inosservate, anche perché Cirillo ha raccontato di quella volta in cui andò ospite in studio la madre del conduttore: "Visto che le tremavano le mani, senza farsi problemi ha detto in diretta: 'La mia mamma può suonare le maracas'". Quello fatto da Cirillo è un dipinto che non piace a Magalli, che in un commento successivo nel suo stesso post ha voluto dare la sua versione dei fatti: "A parte che sono cattivo, ha scritto che ho cacciato Adriana (e non è vero) e che ho cacciato lui (e non è vero). Io non ho mai cacciato nessuno in vita mia e non ho nemmeno il potere di farlo. Se avessi avuto quel potere, che attiene solo alla direzione artistica (autori, regista, capo struttura, direttore di rete), se potessi cacciare chiunque a mio piacimento in quattro e quattr’otto, Adriana, con la quale non sono andato d’accordo da subito, sarebbe restata otto anni?" Ma la parte che ha forse maggiormente ferito il conduttore è quella riguardante la madre: "Si permette di dire che ironizzavo sul Parkinson di mia madre dicendole che poteva suonare le maracas, dipingendomi come un figlio cinico e spietato. Allora, intanto mia madre non ha mai avuto il Parkinson, e poi la battuta delle maracas la fece da noi in studio Bruno Lauzi, che il Parkinson lo aveva purtroppo, ironizzando su se stesso. E lui lo sa bene".

Dagospia il 27 luglio 2020.

marcello_cirillo: SE HAI CORAGGIO QUERELA ANCHE GUARDI’. Caro Magalli, Utilizzare tua mamma per mettermi in difficoltà e farmi apparire per quello che non sono è stata la cosa più triste che tu potessi fare, con tua madre ci volevamo molto bene, mi veniva spesso ad ascoltare nei piano bar prima che io avessi la “fortuna” di conoscere te e se ben ti ricordi sono stato al tuo fianco nel suo ultimo viaggio. Quello che ho detto riguardo tua madre è una cosa realmente successa in un “Fatti vostri” serale dove lei era ospite, episodio riportato anche da te in alcuni dei tuoi simpatici racconti da bar, e come noterai da questa copia di TV sorrisi e canzoni del settembre 2019, la storia è anche riportata dal tuo regista Michele Guardi. Visto che hai querelato me,se hai le palle, querela anche lui. Sai cosa penso, che quell’emoticon con il quale consigliavi ad ADRIANA VOLPE di stare zitta, (post che coraggiosamente hai levato da Facebook )forse lo dovresti dedicare a te stesso caro il mio “querelator cortese”, anche questa volta hai perso un’altra occasione per stare zitto. 

Estratto dell’articolo di Antonella Silvestri per “TV Sorrisi e Canzoni” del 13 settembre 2019.

Cosa può dirci di Giancarlo Magalli e dei suoi attriti con alcune colleghe?

«Magalli ha fatto una battuta anche sulla madre che soffriva del morbo di Parkinson. Una volta la ospitò in trasmissione e durante un gioco se ne uscì dicendo: “Mia madre trema, non perché è emozionata, ma perché ha una malattia che le consentirebbe di suonare le maracas”. Per ora sembra vada d’accordo con Roberta Morise».

Fabio Fabbretti per davidemaggio.it il 27 luglio 2020. Il botta e risposta a distanza tra Giancarlo Magalli e Marcello Cirillo prende le vie legali. E’ il conduttore de I Fatti Vostri ad annunciare di aver deciso di querelare il cantante: “Perché non è che tutti quelli che hanno bisogno di visibilità debbono per forza cercarla parlando male di me, mentendo, per finire sui giornali”, scrive Magalli su Facebook, con tanto di foto di Cirillo con su scritto ‘querelato’. Il riferimento è all’intervista che Marcello ha rilasciato al settimanale Nuovo, in cui ha definito il conduttore di Rai 2 “cattivo“ e responsabile della cacciata sua e di Adriana Volpe da I Fatti Vostri. “A parte che sono cattivo, ha scritto che ho cacciato Adriana (e non è vero) e che ho cacciato lui (e non è vero). Io non ho mai cacciato nessuno in vita mia e non ho nemmeno il potere di farlo. Se avessi avuto quel potere, che attiene solo alla direzione artistica (autori, regista, capo struttura, direttore di rete), se potessi cacciare chiunque a mio piacimento in quattro e quattr’otto, Adriana, con la quale non sono andato d’accordo da subito, sarebbe restata otto anni?” aggiunge Giancarlo, commentando il suo stesso post social. A farlo ’sobbalzare’, probabilmente, le parole con le quali Cirillo ha parlato di lui come figlio, raccontando l’episodio di quando la madre fu ospite della trasmissione di Rai 2: “Era impossibile non notare come le tremassero le mani e lui senza farsi alcun problema le ha detto in diretta che poteva suonare le maracas” ha dichiarato il cantante. Magalli è una furia: “E in più si permette di dire che ironizzavo sul Parkinson di mia madre dicendole che poteva suonare le maracas, dipingendomi come un figlio cinico e spietato. Allora, intanto mia madre non ha mai avuto il Parkinson, e poi la battuta delle maracas la fece da noi in studio Bruno Lauzi, che il Parkinson lo aveva purtroppo, ironizzando su se stesso. E lui lo sa bene”.

Alessandra Menzani per ''Libero Quotidiano'' il 9 luglio 2020. Hanno tutti ragione, scriveva Paolo Sorrentino in uno dei suoi libri più brillanti. In questa vicenda, invece, hanno tutti torto, perché da parte di due conduttori di primo piano, che entrano nelle case degli italiani, sarebbe apprezzabile un minimo di contegno e professionalità in più. Non le risse da Grande Fratello e Temptation Island. I protagonisti della telenovela dell'estate sono Giancarlo Magalli e Adriana Volpe, volti amati della tv, che riescono a litigare anche se non lavorano più insieme, si odiano tanto che alla fine forse si amano. odio o amore? I due, che anni fa conducevano insieme i Fatti Vostri, bisticciano ancora perché Adriana, durante la diretta della nuova trasmissione che presenta su Tv8, con il neo partner Alessio Viola ha fatto una gag sull'età degli uomini. La stessa gag che era stata al centro dell'antica lite con Magalli. Giancarlo, che non le manda certo a dire (spesso rifiuta le interviste per "paura" di spararla grossa contro i colleghi), ha risposto in modo discutibile, ovviamente sui social. Ha postato una faccina «stai zitta» e la scritta «0.9», che altro non è che una frecciata sugli ascolti non entusiasmanti di Ogni mattina, la nuova trasmissione della Volpe. In aggiunta al post, nei commenti, la frase: «Chi vuole capire, capisce». Il tutto è stato eliminato ma troppo tardi; insomma, robe che da un signore maturo magari non ci si aspetta. Adriana Volpe non ci sta, ieri in diretta si è presa uno spazio tutto per sè per rispondere a Magalli. Dire che non vedesse l'ora è riduttivo. «Hai provato per tanti anni a farmi stare zitta: non ci sei mai riuscito e non ci riuscirai neanche oggi». «Caro Giancarlo, questo gesto, "shhh", non me lo fai () Io sto vivendo questa bellissima avventura insieme a una squadra e a una rete che stimo. E tu, caro Giancarlo, con questo gesto, sempre a voler zittire, dimostri di non avere rispetto delle persone e delle donne. Questo non te lo permetto». Sui social, poi, Adriana parla degli ascolti. «Sai quando sono stata in silenzio? Quando una trasmissione come i Fatti Vostri, condotta anche da me e da Marcello (Cirillo, ndr), dal 9-10% è passata, con la tua conduzione in solitaria, al 5-6% di share. Da 3 anni in caduta libera. Sono stata in silenzio senza paragonare una rete come Raidue, abituata a ben altri numeri rispetto ad una rete giovane come Tv8. Mi offende questo gesto. Oggi rappresento una squadra di persone che sta lavorando e difendo una rete che si sta costruendo un futuro e va rispettata. I giovani vanno incoraggiati. Peccato che tu i giovani li temi». Poteva mancare la controreplica di Magalli? No. Su Davide Maggio: «Potrei, se volessi polemizzare, rispondere che prima che arrivassero loro gli ascolti erano vicini al 20. E quindi è colpa loro? No, perché l'arrivo del digitale e delle tv satellitari ha molto modificato gli ascolti di tutti i programmi. Un varietà di prima serata quando era un successo superava il 30%, oggi al 16% già festeggiano». controreplica al veleno «Poi», aggiunge il veterano della Rai, «non è vero che sono rimasto solo al comando. Ci sono stati dei cambiamenti, nemmeno voluti da me. Al posto di Adriana prima Laura Lena Forgia e poi Roberta Morise (bravissime) e al posto di Marcello prima Jo' di Tonno e poi Graziano Galatone (bravissimi). Talmente non sono stato in solitaria che è stato aggiunto anche Broccoli».

Infine: «Casomai c'è da chiedersi se Volpe e Cirillo sono così fenomenali e acchiappa ascolti come mai lei sia finita su una rete minore a fare ascolti con lo zero davanti e lui stia a casa da tre anni». Il prossimo capitolo? Di certo non mancherà.

Marcello Cirillo su Instagram: Allora se proprio la vogliamo mettere su questo piano, ti ricordo che prima di esserci tu nella trasmissione i fatti vostri io l'ho fatta, insieme al mio socio Antonio, con Fabrizio Frizzi ed Alberto castagna, due veri signori della televisione molto amati, a differenza di te, da tutti, con i quali abbiamo fatto anche piu del 50% di share a mezzogiorno e con il serale, abbiamo toccato anche 9 milioni di spettatori poi dopo, sei arrivato tu, con il tuo bagaglio di gran simpatia e la trasmissione è calata, a memoria non mi pare ci fossero satellitari e digitali terrestri. Hai detto beandoti “sei da tre anni a casa” (a parte che nel 2017/18 sono stato inviato di “quelli che il calcio” per poi insieme alla tua “amata” Adriana partecipare a Pechino express), questo e il tuo unico hobby rimasto, rimarcare, qualora ce ne fossero, i problemi altrui; vedi Giancarlo eri una persona spiritosa, ed eri il mio migliore amico, tempo evidentemente sprecato, adesso la linea di demarcazione tra essere spiritoso ed essere cattivo è diventata molto sottile, sei un “piccolo uomo” che non vive ma va in onda, godendo dei problemi altrui. Buona estate! 

Giancarlo Magalli risponde alle critiche: “Mi sono battuto”. Notizie.it l'11/07/2020. Giancarlo Magalli ha risposto alle critiche parlando delle sostituzioni nelle sue trasmissioni. Giancarlo Magalli risponde a tutte le critiche ricevute, portando avanti questo continuo confronto a distanza tra lui e gli ex colleghi de I Fatti Vostri. Il conduttore continua ad essere al centro della polemica a causa del suo comportamento con i colleghi, in particolare modo con le colleghe, e per il fatto che in molti credano che diversi protagonisti del programma siano stati mandati via e sostituiti a causa sua. Dopo lo scontro continuo con Adriana Volpe, Magalli è stato attaccato da Marcello Cirillo. Marcello Cirillo ha accusato Giancarlo Magalli di essere la causa dell’allontanamento di diversi volti noti de I Fatti Vostri, come ad esempio Roberta Morise e il maestro Demo Morselli. Magalli ha utilizzato il suo profilo Facebook per rispondere a questa accusa e per fare chiarezza una volta per tutte. “Il solito astioso, di cui non voglio nemmeno fare il nome, ha dichiarato ai giornali che il prossimo anno a "I Fatti Vostri" il maestro Demo Morselli non ci sarà per colpa mia e la fitta schiera dei giornalastri si è precipitata a diffondere la notizia senza prendersi la briga di verificare” ha scritto il conduttore. Magalli ha spiegato che bastava telefonare a Demo Morselli, che considera una persona sincera e perbene, e lui stesso avrebbe confermato che il conduttore non c’entra nulla con la sua sostituzione. Anzi, Magalli spiega di essersi battuto moltissimo per evitarla e per evitare la sostituzione di Roberta Morise.

“Per amore di polemica si diffondono notizie false e diffamatorie alle quali potrei anche cominciare a rispondere con gli avvocati” ha aggiunto Magalli. Marcello Cirillo ha rilasciato queste dichiarazioni a RTL 102.5, dopo aver a lungo sostenuto Adriana Volpe nei continui scontri con Magalli.

Alessandro Ferrucci per il “Fatto quotidiano” il 4 aprile 2020. C' è chi sostiene di aver visto Giancarlo Magalli, all' uscita della sua trasmissione, I Fatti Vostri, accanto ai vigili e durante i controlli: "Ma no, mi sono solo fermato per vedere come andava".

E come va?

«Più si va avanti e più e dura, ora c' è anche il sole; (cambia tono) sono anni che a Pasquetta piove, anzi diluvia e adesso è previsto bel tempo».

Molte persone escono.

«E per trovare una giustificazione si sono inventati di tutto, tra un po' vanno a scippare i bimbi negli orfanotrofi, o li strappano alle balie».

Gli anziani no.

«Ieri in trasmissione c' era una signora di 102 anni, guarita».

A "I Fatti Vostri" niente pubblico.

«Per fortuna resistono gli spettatori, ma la situazione non è allegra, sembra di vivere nel libro Dieci piccoli indiani (di Agatha Christie): un po' alla volta sono andati via tutti».

L'hanno rimasta solo.

«Prima Paolo Fox, poi l' orchestra e Morselli; a seguire trucco, parrucco e costumi».

E lei?

«Ho tre giacche nel camerino; (ride) chi va in crisi sono le donne».

Che succede?

«Non sono capaci di truccarsi da sole, sono improvvisamente invecchiate di vent' anni».

Mentre lei.

«Al massimo mi devo tagliare i capelli».

In generale, è preoccupato?

«Adesso dobbiamo affrontare le questioni grosse, ma con il successivo rimbalzo economico saranno altri guai».

Le chiedono prestiti?

«Non hanno mai smesso, e in tanti! C' è Marco Baldini che ricorda sempre quanto sono stato carino a dargli 5.000 euro, ma non li ho mai rivisti».

Difficile.

«Ha creditori peggiori di me».

Giudizio sul governo.

«All'inizio sembrava incerto, poi è diventato un modello internazionale, e quelli che prima ridevano, ora stanno a casa con il virus».

Quindi.

«Abbiamo dimostrato che tanto stupidi non siamo».

Un "però".

«Dovrebbero imparare a prendere uguali decisioni nello stesso momento».

L'opposizione?

«In Italia è sempre quella che grida "avete sbagliato" o "non siete capaci"; mi piacerebbe avere un ruolo alla Casalino e suggerire».

Cosa?

«Ammettere una volta che l' altro ha presentato una buona idea. Sarebbe da ovazione».

Le mancano gli applausi?

«Insomma (un secondo di silenzio); mi mancano le reazioni, le risate, il brusio o il silenzio durante le interviste. Così mi sento in ghiacciaia».

I collegamenti?

«La linea cade in continuazione, poi quando rallenta e parlano sembrano balbuzienti».

Dolore.

«E spesso gli ospiti non sono abituati al fai-da-te: ieri un ricercatore è riuscito a far cadere per tre volte il cellulare».

La D'Urso ha pregato con Salvini. Lei?

«Prego che cessino queste preghiere».

Malena ha denunciato al Fatto un crollo maschile nell'eros.

«La vicinanza può risultare pericolosa, e poi c'è un vecchio detto sempre valido: l' uccello non vuole problemi».

Comunque, prosegue in tv.

«È consolatoria, specialmente in questo momento, solo che un giorno mi dicono "sei troppo allegro, ci sono i morti", e quello dopo "troppo triste, va tirato su il morale"».

Difficile.

«In alcune situazioni non ci capisco niente; però vogliamo essere di conforto, offrire compagnia».

Cosa sta imparando?

«È come avere il cancro e guarire: metti in ordine i valori, capisci quali sono le priorità».

Una fregatura inedita?

«Prima potevi bluffare con il telefono: "Non ci sono!"; oggi no, niente bugie e ti beccano con le video-chiamate pure quando sei al bagno».

Magalli e l’incidente stradale a Roma «Giancarlo è stato miracolato». Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 da Corriere.it. Grande paura per Giancarlo Magalli, che ieri pomeriggio a Roma è stato protagonista di un incidente stradale a bordo della sua Smart bianca, uscendone fortunatamente illeso. La notizia è stata riportata dal quotidiano il Tempo: «Il conduttore dei Fatti Vostri nel pomeriggio si trovava sulla Cassia bis, prima dell’uscita per Formello. Improvvisamente la vettura ha perso il controllo e si è schiantata contro il guard rail. Coinvolto nell’incidente anche un Suv con una famiglia a bordo, per fortuna rimasta illesa». Il conduttore indossava la cintura di sicurezza e l’attivazione dell’airbag ha attutito la forza dello schianto. Pochi minuti dopo, è arrivato sul posto Marcello Cirillo, anche lui volto storico dei Fatti Vostri: «È stato un miracolo — ha raccontato Cirillo a Dagospia — l’auto era un cartoccio. Nessuno poteva credere che da quelle lamiere qualcuno potesse uscire vivo. Giancarlo è stato miracolato».

Da iltempo.it il 24 gennaio 2020. La macchina distrutta, lui miracolosamente illeso. Il conduttore televisivo Giancarlo Magalli, ieri pomeriggio si trovava a bordo della sua Smart bianca sulla Cassia bis, a Roma, prima dell'uscita per Formello. Improvvisamente la vettura ha perso il controllo e si è schiantata contro il guard rail. Coinvolto nell'incidente anche un Suv con una famiglia a bordo. Per fortuna rimasta illesa. Magalli, che è sempre al timone de "I fatti vostri", la striscia quotidiana della mattina su Raidue, è uscito dall'abitacolo da solo e non ha voluto che gli automobilisti accorsi per aiutarlo chiamassero l'ambulanza. Il conduttore indossava la cintura di sicurezza e l'air-bag ha attutito il terribile impatto che ha distrutto la sua auto.

Silvia Natella per leggo.it il 25 gennaio 2020. Giancarlo Magalli è rimasto coinvolto in un brutto incidente stradale a bordo della sua Smart bianca, che è andata distrutta dopo lo schianto sulla Cassia ieri a Roma.  Il conduttore sarebbe rimasto illeso, "miracolato", come dicono le persone a lui più vicine. Ed ecco che anche la figlia Michela informa i followers sul suo stato di salute. La ragazza rompe il silenzio sulle Instagram Stories con una foto insieme al papà e la didascalia «Qui tutti bene». Il celebre conduttore de "I Fatti Vostri" era a bordo della sua Smart bianca e stava percorrendo la Cassia, a Roma, quando ha perso il controllo dell’auto, schiantandosi contro il guard rail. La vettura è irriconoscibile, ma Magalli sta bene perché sembra che la cintura di sicurezza e l'airbag abbiano attutito l'impatto. Nell'incidente è rimasta coinvolta anche una famiglia a bordo di un suv. Nessuno degli occupanti sarebbe rimasto ferito. Sul luogo in seguito è arrivato anche Marcello Cirillo, collega e volto storico de "I Fatti Vostri": «È stato un miracolo -ha spiegato - l’auto era un cartoccio. Nessuno poteva credere che da quelle lamiere qualcuno potesse uscire vivo. Giancarlo è stato miracolato». Dopo che si è sparsa la notizia, i fan hanno chiesto a Michela Magalli di essere aggiornati sulle condizioni del conduttore. La ragazza, classe 1994, è una giovane influncer su Instagram ed è chiamata in modo affettuoso "magallina". Conta oltre 30mila followers e in una recente intervista al Maurizio Costanzo Show aveva rivelato il sogno di diventare fashion blogger. In una delle stories sorride accanto al papà e in un post che mostra due piatti di pasta scrive: «Uno spaghetto e passa la paura».

Dagospia l'8 gennaio 2020. Da “Un giorno da pecora - Radio1”. Giancarlo Magalli e la cena di natale con, tra gli altri, Alessandro Di Battista. Il conduttore ne ha parlato oggi a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, dove ha spiegato innanzitutto il perché di questa presenza singolare al suo cenone natalizio, la sera della vigilia. “Il 24 tradizionalmente facciamo una cena coi pochi parenti residui: le mie figlie, principalmente, mio cugino e le mie mogli”. Quante sono le sue mogli? “Quelle passate due, e poi ce n'era una, diciamo, in rodaggio”. Si è fidanzato alle porte del natale? “Non lo dico perché sennò si parla solo di quello e invece vorrei si parlasse di cose più serie”. E a questa tavola c'era anche Alessandro di Battista...”Conosco Alessandro perché sua sorella, Titti, è molto amica della mia figlia maggiore, si conoscono da bambine. Tanto che anni fa quando Di Battista non era conosciuto e mi incontrava mi diceva: signor Magalli sono il fratello di Titti”. Avete cenato a casa Magalli? “Si”. Che regalo vi siete scambiati? “Abbiamo fatto un regalo al suo bambino”. Avete parlato anche di politica? “No, abbiamo fatto solo un natale tra amici”. Di Battista ha portato qualcosa da mangiare? “Ha portato il baccalà mantecato - ha detto Magalli a Un Giorno da Pecora - fatto con le sue mani”. E com'era? “Buonissimo, delizioso, lo abbiamo spalmato sulle tartine. Ne è avanzata anche una vaschetta che abbiamo ancora in frigo”. Cosa ne penso del caso Rula Jebreal a Sanremo? "Non credo che canti così bene da invitarla...” A rispondere alla domanda è Giancarlo Magalli, che oggi è stato ospite di Un Giorno da Pecora, la trasmissione di Rai Radio1 condotta da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro. Si è detto che con la Jebreal potrebbe venire ospite Michelle Obama. “Magari, è una donna bella e intelligente. Il problema è chi parla dopo Michelle Obama, se poi arriva una di queste squinzie...” L'idea, pare, fosse di affiancarla proprio alla Jebreal. “Allora sarebbe una bella accoppiata”. Quali sarebbero queste 'squinzie a cui si riferisce? “A volte diciamo che ci sono donne che curano più l'esterno che l'interno. Se le metti vicino a Michelle Obama ne amplifichi la differenza”, ha spiegato a Radio1 Magalli.

Giancarlo Magalli su Adriana Volpe: “Spero che un giorno faremo pace”. In un intervento concesso a Settimana Ventura, Giancarlo Magalli ha rilasciato alcune dichiarazioni sul turbolento rapporto maturato con Adriana Volpe. Serena Granato, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. Una dei concorrenti più chiacchierati del Grande fratello vip, giunto quest'anno alla sua quarta edizione consecutiva, è Adriana Volpe. L'ex conduttrice de I fatti vostri è in queste ore tornata al centro dell'attenzione mediatica, e non solo per via della sua partecipazione al reality targato Mediaset e condotto da Alfonso Signorini. A far parlare di lei, ora, sono anche delle nuove dichiarazioni rilasciate in tv dal conduttore Giancarlo Magalli. Il noto volto Rai ha rotto il silenzio sul rapporto turbolento avuto in passato con l'ex collega, che ha visto i due conduttori diventare protagonisti di una guerra legale. “Abbiamo lavorato insieme otto anni -ha fatto, infatti, sapere Magalli nel suo nuovo intervento televisivo, concesso a Settimana Ventura (format condotto da Simona Ventura su Rai 2, ndr)-, sono stati un po’ faticosi, perché quando non vai d’accordo con qualcuno, certamente un po’ si fa fatica. Ma anche non per motivi gravi. C’è gente che ammazza il marito perché russa… Anche un piccolo difetto, prolungato nel tempo, diventa insopportabile. Noi alla fine abbiamo preso strade diverse, quindi credo che anche lei si senta più sollevata“. Nel corso dell'ultimo intervento, non ha, poi, nascosto che spera di poter giungere ad una riappacificazione con la Volpe:“Io ho anche mandato messaggi di pace, però lei ha le sue posizioni. Per carità, io la giustifico, la capisco, capisco tutto, non ce l’ho con lei, spero che un giorno faremo pace. L’unica cosa era riuscire a separarsi, perché insieme non stavamo bene, e ci siamo riusciti. Questo dovrebbe dare serenità a tutti e due“. Le ultime dichiarazioni rilasciate da Magalli in casa Rai potrebbero, molto presto, essere comunicate ad Adriana, in occasione di una delle prossime dirette del Gf vip 4. "Io ero un po’ più intollerante -ha, infine, confidato l'ospite a Settimana Ventura-. Lo ammetto, nel senso che c’erano delle cose che mi davano abbastanza fastidio”. In una recente intervista concessa a Verissimo, la gieffina trentina aveva rilasciato la sua versione dei fatti, circa la lite avuta con Magalli in passato. “Sono cresciuta guardando Magalli in tv e pensavo fosse una persona meravigliosa con cui lavorare -aveva, quindi, fatto sapere dal suo canto, Adriana Volpe-. In realtà la mia esperienza non ha cavalcato quell’onda. Io non gli sono mai stata simpatica, ma il rispetto credo sia dovuto a tutti. Abbiamo lavorato insieme per sette, otto anni. Sono la collega che è durata più anni accanto a lui, ma dal terzo anno in poi tentava sempre di cambiare il team. Soffriva il fatto di dover condividere gli spazi”.

·        Gianfranco D' Angelo.

Alessandra Menzani per Libero Quotidiano il 9 marzo 2020. Gianfranco D' Angelo, mitico volto di Drive In e conduttore di Striscia la notizia, a 80 anni è ancora in grande forma e attivissimo a teatro, coronavirus permettendo. Romano, 86 anni, nella sua vita ha fatto tutto: venditore di giornali, rappresentante di commercio, scrutatore del Totocalcio, manovale, commesso di supermercati. Il teatro oggi è la sua casa ma in questi giorni il suo umore è a terra. «Dovevamo andare in scena il 24 marzo a Roma dopo essere stati a Torino. Ma è saltato tutto: Toscana, Calabria. I teatri chiudono a causa del virus», dice il simpatico attore.

Un grande danno economico?

«Sì, i biglietti sono andati persi e noi non lavoriamo. Nessun tg ci calcola, nessun programma. Tutti parlano delle scuole e dei cinema, giustamente, ma anche noi siamo al collasso. E facciamo cultura. L' indotto teatrale è enorme e noi stiamo perdendo migliaia di euro. Giriamo tutta l' Italia, abbiamo un pulmino, venti persone che lavorano con noi, prenotazioni di hotel, ristoranti, autostrade, noleggio luci ecc. Tutti a casa. Ma l' esigenza della salute è in primo piano, giustamente».

Quando recuperate?

«Se ne parla verso la fine di aprile, poi c' è l' estate e si va ad ottobre».

Ci racconti Sul lago dorato, tratto da un testo di Ernest Thompson e portato al cinema da Henry Fonda e Katherine Hepburn.

«Sono Norman, un docente di filosofia di 80 anni. Con sua moglie, coetanea (interpretata da Corinne Clery, ndr), Norman passa le vacanze nella casa sul lago, come tutti gli anni. Stavolta arriva anche la figlia che non vede da anni. La donna arriva perché si è separata dal marito e ha un nuovo compagno con un figlio adolescente: non sanno dove piazzarlo per le vacanze. Nasce uno scontro generazionale tra Norman e il ragazzo, ma alla fine diventano amici. E anche con la figlia prevale il buonsenso».

C' è qualcosa di autobiografico?

«Io non sono burbero come lui. Sono sposato da 50 anni, felicemente. A differenza del film con Fonda, che era un po' triste - diciamolo - il linguaggio qui è più moderno e divertente. Si sorride, ce n' è bisogno».

Lo spettacolo tratta il tema dell' anzianità. Cosa pensa del fatto che in questa epoca di coronavirus si sente spesso la frase «vabbé ma erano vecchi...»?

«Il mio approccio è cauto ma non smetto di vivere. Il consiglio di Burioni di stare in casa è buono, ma io scelgo di continuare a vivere prendendo qualche rischio. Difendersi significa isolarsi, l' isolamento totale secondo me è esagerato».

Ha qualche altro progetto dopo lo spettacolo Il lago dorato?

«Sì, uno a cui tengo molto. Eravamo quattro amici al bar, una pièce divertente su quattro amici che parlano di tutto. Ci sono bellissime canzoni. In scena ci sono Sergio Vastano, Fiordaliso, le musiche sono di Tonino Scala».

Un anno fa dichiarò che a 80 anni è «costretto a lavorare» perché la pensione che prende è bassa.

«Sì, ma non volevo lamentarmi. Mi pento di essere andato in televisione da Barbara d' Urso a parlare di questo argomento».

E cosa voleva dire in realtà?

«Che lavoro da 55 anni, ho sempre lavorato, e rispetto ad altre persone la pensione che prendo non è alta. Mi hanno pregato di andare in tv, allora ci sono andato. Ma mi sono pentito, perché poi sono nati equivoci, gli opinionisti scatenano polemiche per fare ascolti».

Tipo?

«Mi sono trovato in mezzo ad accuse assurde: che mi lamentavo, che ci sono persone che percepiscono il minimo. Lo so bene anche io. Dico che non posso godermi quello che ho costruito. E basta».

·        Gianfranco Vissani.

Dagospia il 16 gennaio 2020. Da I Lunatici Radio2. Gianfranco Vissani è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Vissani ha raccontato un po' di cose: "Il mio 2020? E' iniziato bene. Ora sono in vacanza, ma resto sempre nel mio locale, ci vuole il guardiano. Da bambino ero discolo. Mia madre aveva dodici ragazzini da dover guardare, tutti a casa mia. Io dovevo controllarli, ma ero il più discolo di tutti e lei per punizione mi legava sotto un tavolo di marmo. Ma anche da legato riuscivo a comandarli tutti. Io maschilista? Ma quando mai! Io alle donne non ho fatto nulla di male! Lavorano più donne da me che in tutti i ristoranti d'Italia. Lavorare in cucina non è una cosa facile". Sul comportamento dei bambini nei ristoranti: "Quarant'anni fa, quando venivano da me i bambini, mi tiravano giù le tende. Io litigavo con i genitori. Quando arrivano al ristorante li lasciano sciolti perché pensano che il ristorante sia un parco giochi. Oggi i bambini da me non vengono più. La gente ti rompe il lavandino in camera, ti spacca il rubinetto, i bicchieri. Noi non mettiamo in conto nulla, ma non siamo Babbo Natale. I bambini fanno parte della vita, dei giochi, poi diventeranno grandi. La colpa è dei genitori".

Sulle recensioni online: "Ormai dobbiamo stare dietro a quattro blogger che non sanno fare nulla e scrivono le recensioni. Adesso la Michelin si è accoppiata con TripdAdvisor. TripAdvisor ha 350 milioni di utenti, è un problema grossissimo. Se ti vogliono far male, basta che si mettono d'accordo dieci persone e ti fanno male. Sono tutte faide, bisogna stare muti come pesci, nessuno deve dire niente. Bisogna accettare tutto".

Sulle sardine: "Io tifo per Salvini, le sardine le mangio e sono buonissime. In Italia siamo comandati male e siamo dei pecoroni. Ci mettono solo tasse".

Sulla sua astinenza sessuale: "A febbraio finirà. A febbraio ricomincerò l'attività. Ormai sono rimaste solo cose scarse".

Da “la Zanzara - Radio24” il 23 dicembre 2019. “Ho denunciato Vissani perché ha raccontato in diretta come si ammazzano gli agnelli, è vietato dalla legge e non si può fare. Gli agnelli non possono esser ammazzati nel modo in cui li ammazza lui, ma vanno storditi per non provare dolore. Vissani è un troglodita, poveretto, è rimasto indietro. Un cavernicolo”. Ma se è uno dei più grandi chef italiani?: “Non me ne può fregare di meno. Non mi interessa, qui parliamo di evoluzione. Lui è un primitivo. Non sa parlare l’italiano, non riesce a coniugare i verbi. E’ un assassino di animali”. Così Daniela Martani a La Zanzara su Radio 24. A quel punto interviene Gianfranco Vissani e inizia uno scontro epocale. Vissani: “Ma avete sentito cosa mi ha detto questa qua? Non dovete farla parlare, ammazzatela”. Martani: “Adesso lo denuncio di nuovo”. Vissani: “Denunciami”. Martani: “Ammazzatela? Avete sentito?”

Vissani: “Non hai ascoltato la trasmissione. Io un troglodita?”

Martani: “Tu devi portare rispetto a una donna”.

Vissani: “Fai schifo, fai schifo”.

Martani: “Fai schifo tu”. 

Vissani: “Eri una vergogna dell’Alitalia. Ma ti rendi conto? Sei schifosa. Vergognati”.

Ma tu gli hai detto le peggio cose, dicono i conduttori alla Martani.

Martani: : “Gli ho detto le peggio cose, troglodita ignorante? Lui mi ha detto schifosa, ti ammazzo”.

Vissani: “Come ti permetti?”

Martani: “Come ti permetti tu?”

Vissani: “Io ho detto come mio padre cucinava gli agnelli...”

Martani: “No, no, tu hai detto come li uccido io. Gli metto il coltello alla gola, il sangue deve scorrere lentamente. Stai zitto, vergognati”.

Vissani: “Devi sapere che il mondo ebraico...”

MARTANI: “Non me ne frega niente del mondo ebraico, capito?”

VISSANI: “Tu non sai un cazzo. Ho imparato da mio padre come le carni diventano pulite, pirla”.

MARTANI: “Ma evolviti, invece di pensare ancora alle tradizioni, stai zitto...”

VISSANI: “Vergognati, vergognati...”

MARTANI: “Ma io non ho capito, fate parlare uno che offende una donna? Io gli ho dato del troglodita? Eh, si. Gli ho dato dell’ignorante”.

VISSANI: “Non devi permetterti”.

MARTANI: “Ma non ti permettere tu. Non si può accettare una roba del genere. Ma che, si permette di dire che mi devono ammazzare?”

VISSANI: “Con chi cazzo stai parlando?”

MARTANI: “Con un troglodita”.

VISSANI: “Troglodita sei tu, non sai neanche che gli agnelli li ha portati il mondo ebraico. Ma come cazzo si fa?”

MARTANI: “Lo vedi? Che cazzo stai dicendo?”

VISSANI: “Pirla, pirla, pirla...”

MARTANI: “Questa cosa è inaccettabile, basta”.

VISSANI: “Hai mangiato il pane col miglioratore del maiale per tutta una vita...”

MARTANI: “Ma cosa stai dicendo, ma smettila, sono viva e vegeta. Ma vai a dimagrire, vai, che sei obeso...”

VISSANI: “Ah, si? Tu invece te la vai a prendere nel culo…Io non ti ho chiesto niente”.

MARTANI: “Vissani dice sempre in tutte le trasmissioni che tutti i vegani devono essere ammazzati. I cacciatori mi hanno denunciato perché ho utilizzato questa parola. Allora a lui cosa bisognerebbe fare? Non lo deve dire”.

VISSANI: “Devi solo vergognarti”.

MARTANI: “Ma vergognati tu”.

VISSANI: “Voi comprate il pane che c’ha il miglioratore...”

MARTANI: “E che cos’è?”

VISSANI: “E’ un estratto del pancreas del maiale”.

MARTANI: “Io non mangio pane, ma che stai dicendo? Stai zitto, che sono tutti obesi i bambini italiani…”.

·        Gianluca Grignani.

Gianmarco Aimi per mowmag.com il 21 luglio 2020. Un giorno eravamo a pranzo e parlando, dal nulla, se ne uscì con questa frase: «Nella storia ci sono state tre rivoluzioni: di Gesù, dei Beatles e di Internet». Grignani è Grignani, nonostante Grignani. Potrà sembrare un ossimoro, ma l’autore di Destinazione Paradiso è sempre stato una contraddizione vivente. Talento da vendere, che piuttosto di vendersi al mercato ha mandato tutti a quel paese dopo il primo e fortunatissimo album, sfornando Fabbrica di Plastica, un disco epocale per la discografia italiana che vendette un decimo dell’esordio. In grado in ogni brano di far scorrere testi romantici perfetti nell’imperfezione delle storie descritte su armonie agrodolci alla Battisti e di uscirsene con Ti rasero l’aiuola, su un riff di chitarre “alla Vasco” senza scimmiottare la rockstar di Zocca, come omaggio al lato più guascone e amante del gentil sesso. Non a caso lo stesso Rossi lo definì “il John Lennon italiano”. In più, dotato da madre natura di una bellezza folgorante in grado di far cadere ai suoi piedi frotte di ragazze adoranti, si è permesso il lusso di autodistruggersi riuscendo comunque ad arrivare a 48 anni con un aspetto più intrigante (chiedete alle donne) di tanti suoi colleghi astemi, che seguono diete vegane o praticano pilates. A volte esagero, non è solo il titolo di uno dei suoi album. Gianluca ha nell’eccesso – anche di sensibilità – un tratto caratteristico del carattere. È un rocker di quelli autentici, che pratica uno strano equilibrismo tra successo e fallimento che soltanto i veri artisti sanno percorrere. Eppure, ci sono momenti in cui, anche per chi è baciato dal “sacro fuoco”, arriva il momento di fermarsi e chiedere aiuto. Alcuni ci riescono, come recentemente Morgan (consigliamo il suo libro La casa gialla) con il quale sembra condividere ben più del genio e della sregolatezza. Altri no, e sappiamo come va a finire. Forse quella soglia è stata varcata. In particolare, dopo le dichiarazioni che ha rilasciato a Rtl durante una ospitata nella quale ha presentato il triplo album in uscita Verde smeraldo: «Parte dalla morte di una mia amica, Stefania, quando aveva 10 o 12 anni, eravamo coetanei. È morta dove io vivo adesso. Andavo a trovare i miei zii, frequentavo anche lei ed ero innamorato di questa bambina… io abito lì, per assurdo la mia casa è lì, anche se adesso la dovrò vendere per ovvi motivi…». E uno si chiede: mette in vendita la villa di San Colombano al Lambro, dove da anni vive recluso (tutte le foto sui social vengono da lì) e nella quale ha appena costruito uno studio di registrazione investendo un patrimonio? Strano, benché sia libero di cambiare abitazione senza dover rendere conto a nessuno. Solo che in un altro passaggio appare tutto più chiaro e desolante. «Non dirò il tuo nome – terzo singolo pubblicato in queste settimane - è nato in un periodo storico, in un momento mio particolare dal punto di vista sentimentale molto forte. Diciamo che c’è un muro. Un muro e da qui la mia vita cambierà. Anzitutto per i miei figli, che saluto tantissimo. L’ho scritta in una notte con quella sensazione che provavo, ma non l’ho scritta per la persona con cui sto, o stavo, ma per la persona che mi dava quello che lei non mi dà più». Insomma, a quanto pare, il cantautore ha confermato tra le righe la rottura con la moglie Francesca Dall’Olio, che evidentemente se ne è andata ha portando con sé i quattro figli avuti in oltre 20 anni di relazione. A questo punto, sarebbe facile speculare sulla vicenda costruendo un articolo infarcito di vecchie dichiarazioni d’amore tra i due coniugi e per i figli, considerati – a ragione - “quattro diamanti splendidi”. Il nostro intento, però, non è fare gossip dei loro affari di coppia, ma lanciare un appello con l’hashtag #SaveGrignani. Se lo merita Britney Spears, perché non lui che artisticamente è diverse spanne sopra? In fin dei conti, se non se la passa bene, non è per mancanza di ispirazione - ascoltate i suoi pezzi, ancora di gran lunga superiori alla media - ma per aver totalmente sbagliato la scelta di chi avrebbe dovuto gestirne l’immagine e la promozione. Non è un mistero nell’ambiente, che da qualche anno (almeno il 2014) abbia azzerato il precedente staff per decidere di affidarsi, di volta in volta, a persone con poca o nessuna esperienza nell’ambito della musica e della comunicazione. Basta seguire i social per accorgersene, con le foto che via via diventano meno professionali, i video decisamente sbilenchi, le grafiche simili a quelle prodotte artigianalmente per una festa della birra e abbondano gli errori grammaticali nei post non proprio da social media manager e ancor meno qualificanti per un cantautore del suo livello. Parallelamente, le esibizioni live si diradano, così come le ospitate in tv o in radio, finché un giorno non hanno cominciato a circolare i video mentre si aggira per le vie di San Colombano al Lambro in accappatoio e ciabatte in stato confusionale. Viene fermato, caricato a forza su una ambulanza e portato in ospedale. È il 2016 e ciò avviene il giorno dopo la presentazione dell’album per il ventennale di carriera Una strada in mezzo al cielo (in realtà già arrivato in ritardo, visto che Destinazione Paradiso è del 1995) infarcito di collaborazioni importanti tra le quali Ligabue, Elisa, Carmen Consoli, Max Pezzali, Luca Carboni, Fabrizio Moro e Federico Zampaglione. Sfumerà l’intero lancio, così come il tour (a parte due concerti recuperati a Milano e Roma). Ne seguirà qualche giorno di riabilitazione, la giustificazione alla stampa in cui spiega che è colpa di una «ansia cattiva che non passa mai» e che lui quelle «crisi di panico prova a quietarle e vincerle con i tranquillanti, il bere e altri rimedi deboli e provvisori». Nel 2014 gli era già successo e andò peggio: a Rimini diede in escandescenza e venne arrestato per resistenza e lesioni nei confronti di due carabinieri (a processo patteggerà, risarcendo le parti lese). Nello stesso anno, farà discutere l’ospitata durante il concerto di Omar Pedrini, dove si presentò decisamente alterato e si distinse, scrive il Corriere “per una performance vocal-canora che ha sfiorato il teatro dell’assurdo”. Lo stesso Pedrini, riporterà nella sua biografia Cane sciolto, che nei camerini venne sfiorata la rissa tra Gianluca e il batterista dei Timoria, reo di averlo invitato a scendere dal palco. Tornando al 2016, ma prima del ricovero in ospedale per l’attacco di panico, divenne virale con i meme circolati sul web tratti dalla partecipazione al Capodanno di Bari in cui apparve con un atteggiamento sopra le righe – per usare un eufemismo – e mise in imbarazzo Gigi D’Alessio, che comunque lo difese: “Era solo un po’ euforico”. I giornali e i siti, però, scriveranno che era ubriaco. Un dettaglio, che gli precluderà in seguito, nel 2017, il concerto già annunciato a Montefiascone (Viterbo) organizzato in occasione della Fiera del Vino, dopo i tanti post ironici degli utenti sostenuti da quello velenosissimo di Selvaggia Lucarelli, che commenterà così l’accostamento tra il rocker e la rassegna: “A occhio, non mi sembra una buona idea”. La giustificazione per la cancellazione della data apparì la classica toppa peggio del buco: “Mi vedo costretto ad annullare il concerto a Montefiascone, perché c'è stata una disinformazione generale sull'evento stesso, sulla location cambiata quasi all'ultimo minuto, dettagli dei quali io sono venuto a conoscenza poche ore fa!!!”. Da quel momento si susseguono le date annullate con poche ore di preavviso o che per la natura stessa dell’evento non sembrano all’altezza della sua fama e lo portano a gesti di insofferenza. Come quando definì “una pagliacciata” l’allestimento a Borgetto (Palermo), dove gli diedero uno sgabello instabile che scagliò a terra con un calcio, per poi lasciare il palco a causa della ballerina spuntata alle sue spalle che, in abiti discinti, cercava di raffigurare con movenze sensuali Una donna così e lui la interpretò come “una presa per il culo”. Potremmo andare avanti a lungo nel ricordare gli incidenti di percorso e le intemperanze e se siete curiosi di conoscere quelle dei vent’anni antecedenti (alcune davvero spassose) potete leggere la biografia non autorizzata Rockstar a metà scritta dal precedente manager Massimiliano Longo, ora direttore di All Music Italia. Il punto, però, non sta nel voler stigmatizzare il suo stile di vita – la storia della musica si è nutrita di questa mitologia -, ma che nonostante ciò riesca a mettere a frutto il suo talento e nel contempo capitalizzare il proprio lavoro. E questo aspetto risulta in saldo palesemente negativo, non tanto a causa delle brutte canzoni, quanto di uno staff non all’altezza di un personaggio così complesso, ma ancora in grado di scaldare i cuori di milioni di persone. Mentre avvenivano gli episodi descritti – che già danno l’idea della disorganizzazione e della poca tutela della sua figura – coloro che sono stati arruolati sulla fiducia dal cantautore, invece di ricercare un contatto con il pubblico, hanno compiuto una rapida demolizione del rapporto artista-supporters. Un lungo periodo di inattività sui social, da un giorno all’altro, si interruppe con la chiusura dello storico Fun club, cancellato dall’ultima manager. Fuori quelli che si azzardavano a chiedere che fine avesse fatto, così come coloro che facevano notare le comunicazioni contraddittorie, le promesse disattese di lancio di singoli, dischi e progetti poi spariti nel nulla. E in un battibaleno, le decine di pagine che celebravano “The Joker”, così viene soprannominato dagli estimatori più fedeli, vengono bandite attraverso un post dal profilo ufficiale che gli intima di non ficcare il naso nei suoi affari personali. Come se chiedere come sta il proprio beniamino o il rispetto di un annuncio – da chi paga dischi, biglietti dei concerti, merchandising e sostanzialmente contribuisce alle sue fortune - fosse un delitto di lesa maestà. A seguire, anche i live vengono trasformati. Dopo i due ottimi concerti all’Alcatraz di Milano e all’Atlantico di Roma, via la band di supporto e viene scelto un Acoustic tour, dove si esibisce in giro per l’Italia – spesso in situazioni poco consone a chi ha venduto 5 milioni di dischi - da solo e con la propria chitarra a tracolla. Una decisione che, se inizialmente ha esaltato i fan, si è rivelata un boomerang. Perché se è vero che il compositore non si discute, è altrettanto innegabile che è necessario essere corazzati, tecnicamente e psicologicamente, per affrontare in solitaria ogni sera un pubblico diverso per ore e senza sfigurare. Basta guardare su YouTube i numerosi video amatoriali caricati per farsi un’idea di come in generale è andata a finire. In una delle ultime date, al festival Suoni di Marca a Treviso del 2018, la performance è stata interrotta bruscamente, nessun bis, le facce attonite del backstage e i fischi da parte del pubblico. Nello stesso tempo, rispetto al passato, dopo gli spettacoli cercare di avvicinarlo per selfie o autografi è diventata una impresa riservati soltanto a coloro che, attraverso il Fun Club ripulito di ogni voce discordante, aveva rigato dritto. Nel mentre, viene annunciato un po’ in sordina che era entrato in studio per registrare un nuovo album di inediti. Un evento, visto che da sei anni mancava dalle classifiche. E qui arriviamo a Verde smeraldo. Un album mastodontico pensando alla discografia attuale. Un triplo disco, che si configura come concept, che dovrebbe contenere 60 canzoni. Per realizzarlo, siccome oltre alla diffidenza nei confronti dello staff è andata crescendo anche quella verso gli addetti ai lavori, decide di costruirsi uno studio di registrazione in casa. Proprio nell’abitazione che (ma speriamo di no) ha detto di dover mettere in vendita. Per riuscirci investe parecchio, lo ha dichiarato più volte ai giornali. Per un motivo o per l’altro, il lavoro va per le lunghe nonostante l’autogestione, o forse a causa di essa. Nel panorama odierno, già appare una follia pensare a un triplo disco, in un mercato dominato da singoli e mixtape sostenuti da campagne social martellanti rivolte a un seguito costruito sulla base di milioni di followers. Ma lui prosegue, incurante di tutto e non certo ben consigliato, finché un giorno si viene a sapere che l’album non sarà prodotto dalla Sony, ma soltanto aiutato nella distribuzione. In estrema sintesi, le spese saranno a carico suo e di volta in volta la major si riserverà la libertà di sostenerlo o meno. E così è costretto a fondare la Falco a metà, l’etichetta personale creata appositamente per concludere il progetto. A gennaio di quest’anno, finalmente, esce il primo singolo Tu che ne sai di me e a seguire gli altri due Dimmi cos’hai e Non dirò il tuo nome, sui quali le aspettative erano altissime. Purtroppo, nonostante la qualità delle canzoni e l’exploit iniziale che lo porta fra i dieci brani più scaricati di iTunes, i successivi passano in sordina. Anche la vociferata partecipazione a Sanremo sfuma e la rarefatta promozione è affidata a partecipazioni in programmi tv che certo non sono rivolti a un pubblico di giovani né di appassionati alla musica (da Mara Venier e Pierluigi Diaco), con le uniche eccezioni di Rtl, radio che passa con continuità i suoi brani e all’amico Max Brigante che lo ospita a 105 Mi Casa. Ben poco, per uno del suo calibro e che avrebbe bisogno di una presenza costante su più fronti, da Sanremo ai social, dai concerti organizzati in grandi strutture se non addirittura negli stadi (ne avrebbe ancora le potenzialità) a un tour all’estero, magari in quel Sudamerica dove La mia storia tra le dite è uno standard - è stato premiato all’Avana unico tra gli italiani - per recuperare fiducia e risorse utili a risollevare una carriera lasciata andare alla deriva troppo a lungo. A questo punto, sembra non fare nemmeno più notizia. Dichiara in una radio nazionale che l’amore con la moglie è finito (ma gli auguriamo che sia un momento di pausa) e che è costretto a mettere in vendita la casa e nessuno se ne accorge. Noi sì, perché lo stimiamo e avremmo tanto voluto intervistarlo per parlare della situazione con lui direttamente. Ma nonostante le richieste, evidentemente non siamo tra i giornalisti graditi dall’attuale entourage. Poco male, perché i manager passano e i veri artisti restano. E nel lanciargli questo messaggio a cambiare direzione, affinché capisca che è il momento di chiedere aiuto a livello professionale – nel privato saranno fatti suoi – vogliamo ricordargli che la creatività trova il suo apice nell’attimo in cui la normalità e la follia raggiungono il “punto di sella”. È spiegato in fisica, cioè quando due sistemi contrapposti sono in equilibrio. Ecco, gli auguriamo di ritrovare il proprio bilanciamento. Lo ha spiegato anche un poeta persiano in una quartina: “Quando sono sobrio, la gioia mi è velata e nascosta, quando sono ubriaco non ha più coscienza la mia mente. Ma c’è un momento, in mezzo, fra sobrietà ed ebbrezza: per quello darei ogni cosa, quello è la vita vera”. Tutto molto suggestivo, solo che Omar Khayyâm la scrisse nel XII secolo e nel 2020 per vivere di creatività non basta più essere soltanto artisti, ma è necessario che l’ispirazione viaggi sui giusti canali. A ognuno il suo mestiere: a Grignani il cantautore, a chi gli sta a fianco il compito di valorizzarne lo straordinario talento.

 “Mi definisco un Nerd dell'acustica”, Grignani fa sognare con un nuovo brano. E spunta una donna misteriosa. Libero Quotidiano il Francesco Fredella è nato nel 1984. Pugliese d'origine, ma romano d'adozione. Laureato in Lettere e filosofia a pieni voti, è giornalista professionista. Si occupa di gossip da sempre diventando un punto di riferimento nel jet-set televisivo. Collabora con Libero, Il Tempo, Nuovo (Cairo editore). E' uno degli speaker della famiglia RTL102.5, dove conduce un programma di gossip sul digital space. E' opinionista fisso di Raiuno e Pomeriggio5. L’ultimo brano di Gianluca Grignani - che s’intitola Non dirò il tuo nome - è già un tormentone. Piace a tutti. Incanta il pubblico per quella musicalità ricercata che fa l’occhino ad una dolcezza rispolverata dalla ceneri di un altro suo successone: “La mia storia tra le dita”. Che ha portato il cantante milanese a scalare le classifiche. Ora con questa canzone Grignani segna il terzo gol. E cambia pelle ancora una volta. Per lui il 2020 è iniziato all’insegna della musica (prima con “Tu che ne sai di me” - uscita il 1° gennaio - poi con “Dimmi cos’hai” e ora quest’ultimo lavoro). “Il nome della donna in questione non lo dirò mai. Nemmeno sotto tortura”, racconta a Libero Grignani. Ma il brano l’ho scritto di getto - come accade spesso - ed ha un legame profondo con “La mia storia tra le dita”. Anche questa canzone è dedicata a quella ragazza che avrei dovuto sposare tanti anni fa, quella ragazza che mi donava una dolcezza unica che mi faceva paura. Oggi lei ha un’altra vita, ha una famiglia e un marito. Ma io non l’ho dimenticata”.  Il cantante ci rivela di aver contatto questa ragazza misteriosa con la quale ha avuto in passato una storia.  “Quando mi ha risposto, tramite i social, ha detto: “Mi prenderà un colpo quando la sentirò”. C’è affetto. Stima, nel senso più puro del termine. Dissi no alla sua dolcezza che oggi mi manca in senso generale. E’ quello di cui avrei bisogno oggi. Ma all’epoca ero giovane, volevo fare musica. Non pensavo ad altro”, assicura Grignani. Che oggi dice di essere “sentimentalmente sul mercato”: non perde la voglia di scherzare. E di sorprendere il pubblico. Nella sua casa ci sono più di 30 chitarre. Poi i premi, i giornali con le sue interviste storiche, i vinili. “Quando sono salito sul palco la prima volta mi tremavano le gambe. Venivo dalla pizzeria. Lavoravo lì, sognavo di fare musica”, svela Gianluca. Oggi è uno degli artisti più amati nel panorama musicale. “Sicuramente sono Grignani più maturo. Non sono più quello di tanti anni fa.  Ho studiato tanto l’acustica ispirandomi a Eric Clapton. Mi definisco un “nerd dell’acustica”. E ne vado fiero”, continua il cantautore. Da Destinazione Paradiso (che definisce un “grande layout”) a Falco a metà. Passando per altri ottanta brani. Un repertorio bellissimo, che strizza l’occhio all’amore. Sempre. Oggi, Grignani, assicura: “Riesco a esprimersi meglio rispetto al passato. Sono maturo abbastanza con la musica e testi. Quello che mi mancava molti anni fa”. 

Dagospia il 6 gennaio 2020. INTERVISTA DI PIERLUIGI DIACO A GIANLUCA GRIGNANI  -IO E TE DI NOTTE – RAI UNO. Gianluca Grignani canta e Pierluigi Diaco lo accompagna con la chitarra.

DIACO: fatti dare un abbraccio vero… Grazie di cuore. È la prima volta che sono seriamente in imbarazzo.

GRIGNANI: Ci siamo frequentati per tantissimo tempo, sei stato a casa mia io a casa tua…

DIACO: Però è qualche anno che non ci vediamo.

GRIGNANI: Sì saranno due o tre anni.

DIACO: Tu mi hai insegnato una cosa quando ero una testa calda e cioè che essere sinceri e leali paga sempre.

GRIGANI: ti guardi meglio allo specchio e poi comunque è la strada più veloce per non sbagliare. Perché a dire una balla è sempre difficile rincorrerla, quindi è sempre meglio dire le cose come stanno a se stessi e con gli altri bisogna mediare. Ma questa è l’età prima non mediavo, adesso medio.

DIACO: Noi ci siamo incontrati in questa azienda a Radio Rai, io avevo in braccio una chitarra venne questo ragazzo pieno di talento con un disco dal titolo “La fabbrica di plastica” e mi sono riconosciuto in lui perché per la mia generazione e per molti altri hai rappresentato la libertà autoriale, la libertà intellettuale e allora eri talmente giovane che non avevi il carattere per difendere la tua libertà.

GRIGNANI: No ed ero solo. L’immaturità stava nel non rendersi conto di quanta forza avevo anche se ero solo. Quindi poi la forza l’ho trovata nel tempo e ho capito che la strada giusta l’avevo già presa però non ero in grado di capirlo perché gli altri tendono a non fartela vedere quando tu sei da solo e quando hai fatto qualcosa che loro non hanno ancora fatto.

DIACO: Non hai mai avuto tanta paura della solitudine tu…

GRIGNANI: Non lo so, secondo me esistono tre tipi di uomini: quelli che nascono e sanno stare da soli e spesso muoiono da soli ed è bruttissimo; quelli che imparano a stare da soli e quelli che non impareranno mai. Noi italiani viviamo sotto un matriarcato, siamo mammoni e io, nonostante avessi un rapporto distaccato con mia madre (siamo un po’ freddi l’uno con l’altra) le voglio un gran bene e ho dovuto imparare ad essere un uomo che sa stare da solo.

GRIGNANI: Sì ero piccolissimo, avrò avuto un anno o due… Non ne ho idea.

DIACO: C’è una parte bambinesca che secondo te negli esseri umani si conserva nel tempo.

GRIGNANI: La sincerità in primis, almeno nel mio caso, e l’integrità. Da bambino ti senti libero di pensare quello che vuoi. Crescendo il sistema tende a toglierti questo tipo di attenzione a te stesso. Io credo di conservarla, magari anche in maniera abbastanza ribelle ma credo che sia una ribellione sincera e giusta. Anche perché se uno non si ribella le cose non cambiano mai, per crescere bisogna ribellarsi altrimenti si rimane statici.

DIACO: Secondo te ci si può ribellare rimanendo innocenti?

GRIGNANI: Sì basta non vincere, basta fare una rivoluzione che non funziona mai.

DIACO: Con il senno del poi cosa diresti al ragazzino che sei stato?

GRIGNANI: Direi che siamo diversi, non c’è niente da fare. Tu ci credevi troppo e io ci credo ancora di più.

Siccome sono sempre in conflitto con quello che ho fatto e quello che farò non mi sento mai arrivato quindi non riesco a darmi un giudizio. È un divenire per me, non riesco a vedere un punto fermo nella mia vita. Mi vedo sempre in movimento, mi auguro in crescita e migliorato. Se riesco, a migliorarmi nel bene, perché si può migliorare anche nel male, basta scegliere. Io mi sono barcamenato tra i due fronti e credo di potergli dire (a quel ragazzino ndr) vai avanti così però vai, non ti fermare, credici.

DIACO: Ti posso chiedere come nasce e dove il testo di questa canzone?

GRIGNANI: Questo testo è nato nella cucina della casa di mia madre. Dovevo scrivere una canzone che funzionasse subito ed ero combattuto come sempre tra lo scrivere appunto una canzone che funzionasse subito e dire le cose che mi sentivo dentro. Non avevo ancora capito come funzionasse il mondo dello spettacolo e della musica, cosa volesse dire varcare quella soglia del successo, e ovviamente non sapevo neanche che l’avrei mai avuto. La gran parte dell’attenzione era dedicata a fare una canzone che funziona. Quindi per non farmi del male ho pensato bene di fare la musica in maniera tale che fosse molto precisa, che convincesse: mi sono ispirato ad “Acqua azzurra acqua chiara” di Battisti.

DIACO: In questo ultimo disco a cui hai lavorato sei passato in termini di stesura del disco dal tuo primo strumento che è la chitarra al piano.

GRIGNANI: Sì io il piano lo suonavo male, lo suono ancora male, rimarrò sempre un neofita di qualsiasi strumento che non sia la chitarra che coltivo e studio. Però ho capito che sono bravo a  creare armonie, come compositore al piano, perché il piano è un’orchestra: ha tutte le possibilità che vuoi. La chitarra è limitata dal punto di vista armonico, mentre il piano ti permette di fare soluzioni armoniche diverse. Io amo molto come scrive Elton John e quando ho cominciato a suonarlo - lui è molto particolare, alcuni accordi vengono addirittura dalla guerra di secessione - ho scoperto che mi funzionavano, mi venivano bene. Allora mi sono detto “vai avanti” e ho cominciato a scrivere in maniera diversa…

DIACO: Che cosa provi quando riascolti le tue canzoni?

GRIGNANI: Devo stare attento quando passano le cose in radio perché se è appena uscito il singolo mi preoccupa, perché devo sentire come suona in radio. Sono tecnico, divento matto. Infatti nell’ultimo lavoro che ho fatto, siccome l’ho fatto nel mio studio, sono stato talmente attento a tutti gli ascolti possibili che so che suona bene e infatti la prima volta che l’ho sentito, ho detto: “cavolo funziona” (“tu che ne sai di me” il nuovo singolo ndr)

DIACO: Mi hanno detto che sei diventato un po’ nerd.

GRIGNANI: Ho perso due diottrie dall’occhio destro, Pierluigi.

DIACO: Hai passato due anni davanti ad un computer, sei passato dal pro tools ad altre forme di programmi. Tu a differenza di molti tuoi colleghi hai cercato un suono contemporaneo avvalendoti della collaborazione di ragazzi ventenni.

GRIGNANI: Sì ho lavorato con questi ragazzi che sono giovanissimi, Michele Zocca, Enrico Magnanini, Andrea Fagiuoli che adesso lavora con me a stretto contatto.

DIACO: Sono testardi come lo eri tu a vent’anni?

GRIGNANI: Sì, uno soprattutto, non dico chi e mi ci sono scontrato. Ora sono distribuito da una major e ho mantenuto i contatti i più amichevoli possibili, è un interesse mio, però ora sono libero. Sono libero come lo sono stato prima di firmare un contratto. Ho fatto un’etichetta che è la “Falco a metà” e il primo pezzo che è uscito è prodotto dalla mia etichetta, dal mio studio. Quindi ho dovuto studiare quello che non avevo fatto in analogico, quello che ho imparato in America, Abbey Road, con la quale sto lavorando.

DIACO: Ho avuto la sensazione che è come se si chiudesse un cerchio, che la fabbrica di plastica sia stata l’anticamera di quello che sarebbe accaduto molti anni più tardi attraverso questa etichetta.

GRIGNANI: La fabbrica di plastica secondo me è diventata realtà. Tu devi considerare una cosa: io ho una visione di me stesso distaccata rispetto a quando ero ragazzo però comincio ad avere 47 anni.

DIACO: Come ti guardi?

GRIGNANI: Cerco di guardarmi dall’esterno. È un po’ come fare una dieta: tu dici “mangi un po’ di meno, poi un po’ di meno e a furia di mangiare un po’ di meno riesci a dimagrire qualche chilo”, la stessa cosa quando hai un sogno, ti avvicini un passo dopo l’altro e se molli sei fregato. Come leggere un libro, una pagina dopo l’altra. Una volta tu mi dicesti una frase bellissima a proposito dei libri, che ancora oggi uso io: “Gianluca io li ho lisi i libri”.

DIACO: Bella questa cosa che “falco a metà” e “la fabbrica di plastica” sono diventati i leitmotiv della tua nuova sfida professionale. Ma lo studio, questi spazi sono nella tua casa?

GRIGNANI: Questo singolo è il primo di 60 brani che ho scritto, dovrà uscire una trilogia che si chiamerà verde smeraldo. Quindi ci sarà verde smeraldo uno, verde smeraldo due e verde smeraldo tre. Prima dello studio c’era soltanto un letto, una chitarra e un rods e adesso al posto di quel letto, chitarra e rods c’è uno studio.

DIACO: In questo nuovo lavoro, che è un modo un po’ inusuale di uscire con un disco perché uscirà un secondo singolo poi un terzo singolo, poi uscirà l’album ed è la prima tappa della trilogia… Possiamo dire che è la rivoluzione che pensavi quando eri ragazzo? Che cosa si intende per rivoluzione?

GRIGNANI: Penso che la rivoluzione è un modo di essere capaci di seguire quello che succede ed adattarsi, però non fare quello che ti dicono ma fare quello che tu ritieni sia la tua personalità, nel mio caso specifico è la musica. Parto da un concetto, ascoltare quello che mi succede intorno e cercare di trasformare la musica che faccio nel momento che vivo.

DIACO: Quando senti usare la parola “cambiamento” che pensi? ti convince?

GRIGNANI: È una domanda ostica. Penso che ci sia un disincanto totale per quel che riguarda la politica, ogni atteggiamento di un cittadino, di un italiano in questo momento specifico è un atteggiamento di chi non sa cosa succederà. Perché la politica tende ad essere masochista, è fagocitata da se stessa: non è possibile che io apro un giornale di gossip e vedo in prima pagina il presidente del consiglio di oggi, pensano che la gente non se ne accorge. Siamo abituati a farci i selfie ormai. È diventato ridicolo.

DIACO: Io sono avverso all’era digitale.

GRIGNANI: Il problema è quando viene usata dalla politica in maniera così poco ortodossa.

DIACO: Ho visto che tu usi in maniera molto parsimoniosa i social…

GRIGNANI: Sai chi è stato il primo a farsi un selfie? Il Parmigianino che si fece un autoritratto allo specchio. I pittori però dipingevano la propria anima, noi ci facciamo un selfie e guardiamo alla nostra apparenza.

DIACO: Ma è un surrogato della felicità per tentare un riscatto dalla vita reale?

GRIGNANI: Ma è bruttissimo se fosse così. Nessuno dovrebbe considerare il fatto di vivere una vita in maniera meno appagante rispetto a chi vive sotto i riflettori. Io faccio questo lavoro perché sono un musicista e sono costretto a farlo…

DIACO: Ma tu guardi la tv?

GRIGNANI: Guardo le serie. La tv la guardo di meno, dipende dai programmi… Tu mi piaci se no non sarei qui. Non credo nel monopolio.

DIACO: Dove hai registrato quel disco?

GRIGNANI: Quel disco l’ho fatto dove John Lennon ha registrato “double fantasy” a NY. L’abbiamo sentito insieme diverse volte, Pierluigi. Siamo amici noi…giravamo ore in macchina a Milano cercando sushi…

DIACO: Hai imparato a cucinare? Ti piace mangiare?

GRIGNANI: Sono sempre a dieta ultimamente.

DIACO: Hai visto che in tv spadellano tutti? 

GRIGNANI: Sembra che gli chef siano diventati dei religiosi ormai.

GRIGNANI: Quello che ha detto è emozionante. Sentire il suono della sua voce ferma… lui osservava gli altri vedendo in loro quello che essi stessi non vedevano. Così fece con me. Un’estate mi chiamò per fare una cosa su un suo disco e io dissi: “devo venire a cantare?” e lui disse: “no devi venire a suonare”. Andai da lui suonai e mi disse non sanno ancora che grande chitarrista sei, questo prima del grande riconoscimento della fabbrica di plastica. Era un visionario, devo molto a lui: mi ricordo che una volta stavamo registrando un programma con lui, dissi una cosa fuori dalle righe e per questo tutti mi attaccarono. Lui disse “no va bene così, solo lui fa così”.

Lui ha parlato di libertà, è difficile difendere la libertà  bisogna avere la dignità e la dignità è difficile da sostenere perché devi scegliere.

DIACO: Si può avere libertà senza temperamento? senza carattere?

GRIGNANI: Si può seguire la libertà. Ecco perché è servo colui che segue chi prende le decisioni  per te, ecco perché esistono le bandiere, ecco perché esiste la politica ecco perché ti frega la politica.

DIACO: Te lo ricordavi questo passaggio?

GRIGNANI: mi ricordo perfettamente quello che ha detto e mi è rimasto impresso nella memoria e non me lo dimenticherò mai. Così come il modo in cui l’ha detto… che dice tutto.

·        Gianluca Fubelli: in arte Scintilla.

Scintilla: "Ecco perché io ed Elena ci siamo lasciati". Gianluca Fubelli - in arte Scintilla - scrive un lungo post su Instagram in cui racconta la sua verità sulla fine della relazione con Elena Morali, svelando dei retroscena drammatici, Luana Rosato, Lunedì 09/03/2020, su Il Giornale. Gianluca Fubelli – in arte Scintilla – ha deciso di raccontare sui social la sua versione dei fatti in merito alla fine della relazione con Elena Morali, lanciando pesanti accuse nei confronti di Daniele Di Lorenzo, ex amante della showgirl ai tempi della sua storia d’amore con il comico. Dopo un lungo periodo di silenzio e le dichiarazioni rilasciate da Di Lorenzo a Pomeriggio Cinque, Scintilla ha deciso di prendere la parola e, in un lungo post pubblicato su Instagram, ha parlato della relazione vissuta con la Morali e di alcuni drammatici episodi che si sono susseguiti negli ultimi tempi, arrivando ad accusare Daniele di aver ricattato Elena mettendo a repentaglio anche la sua vita. “E poi dice che non sono romantico... Questa che sto pubblicando è la prima foto della nostra storia, stampata e incorniciata, da mettere sul comodino. Scattata 4 o 5 o 6 anni fa. Ha ragione a dire che non ricordo mai le date. In effetti l’ha stampata ed incorniciata lei... ca... Non sono romantico... – inizia così il lungo post del comico Scintilla, che allega un selfie che lo ritrae insieme alla Morali - . Vi dirò un altro segreto.. le foto di me e lei pubblicate su questa pagina, sono sempre state caricate da lei, di nascosto. Io siccome non guardo praticamente mai i social, me ne accorgevo dopo un giorno o due. Poi che fai? Le togli?”. Dopo un preambolo apparentemente ironico, poi, Fubelli si è fatto serio: “Facciamo così, ora vi aggiorno e faccio un po’ chiarezza sulla mia situazione con Elena. Leggete con attenzione, perché non solo non succederà mai più, ma questo post si autodistruggerà in 24/48 h”. “Io ed Elena ci siamo lasciati da qualche mese. Dispiaciuto? Sì, Molto. Non tanto per un sentimento che alla fine cambia, ma perché quando finisce una storia lunga, ti sembra di non aver costruito niente per anni – ha iniziato a raccontare - . E prendi, leva i cocci di una storia vecchia, impegnati a ricostruirne una nuova... Io sono vecchio per queste cose. Perché è finita? Beh...”. Gianluca Fubelli, quindi, ammette che la relazione con Elena Morali si è conclusa per un tradimento da parte della showgirl verso la quale, tuttavia, lui non nutre nessun sentimento pari all’odio. “Perché mi ha tradito! Ci sono stato male? Tantissimo! La odio? No. Non la odio non perché sono un santo, ma semplicemente perché prima di buttare me..a ti devi fare un esame di coscienza e dire, ho colpe? Sì – ha scritto lui - . Ho mai sbagliato io? Sì. Nella mia vita ho mai tradito? Sì. Sono andato oppure ho corteggiato donne impegnate? Sì. Quindi, coerente e razionale, che tipo di odio o di giudizio posso portare? E poi ci siete voi che siete bravissimi a giudicare e buttare me..a con una semplicità ed una superficialità invidiabile”. Dopo aver difeso la ex fidanzata dei giudizi implacabili di chi non conosce nel dettaglio la loro relazione, Scintilla ha iniziato a raccontare cosa è accaduto con Daniele Di Lorenzo. Con lui, secondo quanto riportato, ha avuto un primo contatto nel settembre 2019, quando l’uomo lo contattò per informarlo che la Morali lo tradiva ripetutamente con lui. Informato dei fatti, Fubelli si è scontrato con Elena che, dopo alcuni giorni, ha ammesso la relazione clandestina “nata in un momento particolarmente difficile” aggiungendo di essere stata ricattata. In quel momento, il comico decise di volare in Canada e, al ritorno, comunicò a Elena Morali di non voler più stare con lei. Ritenendola fragile, però, decise di permetterle di rimanere in casa sua e, fu in quel momento, che Di Lorenzo pare si sia rifatto vivo nella vita di Fubelli. “Probabilmente avvelenato perché io e Elena eravamo ancora sotto lo stesso tetto, e dice con tutta la cattiveria possibile che mentre io ero in Canada, lei ha dormito tutte le notti con lui”, ha continuato a raccontare l’ex della showgirl parlando di continui ricatti psichici vissuti dalla Morali. Gianluca Fubelli ha accennato anche ad un drammatico episodio riguardante la donna che, sotto pressione, “ha fatto una sciocchezza con delle medicine”. Chiamato da un’amica di Elena che lo informò sull'accaduto, il comico ha preso il primo volo per Milano e raggiunto la ex, scoprendo che tutto era avvenuto mentre era al telefono con Daniele Di Lorenzo. Infine, Scintilla ha fatto chiarezza sull’arresto che ha visto coinvolto lui, la Morali e Di Lorenzo. “Quella sera ero in mutande sul divano, mi chiama Elena e mi dice agitata: ‘Ti prego vieni a prendermi perché ho lo scemo in macchina che non vuole lasciarmi andare’. Mi dice di andare con la polizia. Chiamo il 112 e spiego dove si trova il posto – ha scritto ancora il comico, raccontando di essere giunto sul posto e di essersi ritrovato Di Lorenzo che chiacchierava con i poliziotti e la Morali in preda ad un brutto attacco di panico – [...]Non ci penso due volte, vado verso di lui. Tempo due secondi ed ero ammanettato sul cofano della macchina. Guardo lui e ghigna vincente. Quando lei mi ha visto bloccato si è spaventata perché pensava mi stessero facendo del male, la polizia mi ha lasciato subito e sono andato da lei”. “Ho parlato con i ragazzi della polizia. Lui era in macchina, sono arrivati e lei era già in panico. Lui ha dichiarato alla polizia che erano a cena con altre persone, ma siccome lei aveva bevuto tanto e si era drogata non voleva farla guidare – ha aggiunto ancora - . Devo dire la verità. I poliziotti hanno fatto inca...re anche me, non solo perché hanno fatto amicizia con lui, ma perché in questura abbiamo aspettato più di un’ora senza far niente”. Infine l’appunto di Fubelli sul flirt tra Elena Morali e Luigi Mario Favoloso, iniziato dopo il viaggio di lei insieme ad altre persone. Su questo, però, il comico di Colorado ha deciso di non esprimersi, aggiungendo che avrebbe potuto raccontare la sua verità in tv guadagnandoci, ma non è la visibilità ciò di cui ha bisogno.

·        Gianna Dior.

Barbara Costa per Dagospia il 7 giugno 2020. La vedi, è proprio lei, te la ricordi, è quella che veniva a scuola con te, la brunetta, la bassina, quella che tu chiamavi "troia", le ridevi dietro, e la bullizzavi. La prendevi in giro, la ferivi e te ne vantavi. Per te lei era una sfigata, una che non valeva niente. Ti farà piacere sapere che quella ragazza ha appena compiuto 23 anni, da carina che era al liceo ora è uno schianto, e non solo. È famosa in tutto il mondo, sui social la seguono a branchi, e se non sei ancora schiattato per l’invidia ti dico che guadagna un minimo di 1500 dollari per 2 ore di lavoro. Lavoro che è un po’ faticoso, sì, ma nel complesso un vero spasso, specie se te lo sei scelto. Lavoro in cui non servono lauree, né raccomandazioni. Lei fa tutto il sesso che vuole, con chi vuole, quando e come vuole, e per farla godere la pagano pure. La ricoprono d’oro. Quella che tu al liceo infastidivi, oggi è una pornostar. Lei oggi è Gianna Dior, e tu che la canzonavi, che farci: meda eri e merda rimani. Invece tu che mi leggi, rifatti gli occhi: guarda che meraviglia di femmina. Ma lo sai che questa dea è italiana? Al 50 per cento, il resto è indios, il resto è uno spettacolo, Gianna Dior è il presente e il futuro del porno il più caldo e osceno, e non mi dire che non l’hai notata, non sei mai caduto abbagliato su uno dei suoi video: non ti sei mai eccitato con lei che si fa sbattere da dietro?! La chiamano "la vagina d’acciaio", è nella top 5 delle pornostar più cercate sui siti porno, profetizzano sia la nuova Jenna Jameson: di sicuro Gianna Dior è una che pornamente sa fare e farsi fare, specie se a farle raggiungere orgasmi su orgasmi sono uomini molto più grandi di lei, che magari stanno nel porno da più anni di quanti Gianna conti all’anagrafe. Dai un’occhiata a quel che combina sui social, lei si fa i selfie con i due Oscar del Porno vinti quest’anno, selfie con il culo in primo piano, coi premi adagiati sulle natiche, e infatti è proprio grazie al suo magnifico lato B che Gianna Dior in soli 2 anni di pornate è ai vertici. C*lo che qui va inteso anche come fortuna. Sfacciata. Tu hai mai fatto un colpo di testa? Hai mai avuto la tentazione, la voglia, insana, di abbandonare tutto e tutti, e scappare via? Gianna l’ha fatto: dopo il college, con due lavori part-time di cameriera e receptionist, una sera Gianna va su Tinder, per rimorchiare, aveva voglia di sc*pare, e sai che le succede? Viene rimorchiata, ovvio, la sua bellezza attira, ma non rimorchiata per una botta e via, bensì da uno dei vari agenti porno che girano in queste app alla ricerca di nuovi talenti. Attenzione, il 90 per cento di questi non sono agenti, per carità, sono sozzoni malintenzionati che si spacciano per tali, MAI rispondere a un loro messaggio, e invece quella pazzerella di Gianna l’ha fatto: si è licenziata, è volata a Miami, negli studios di questo agente. Che nel suo fortunatissimo caso si è rivelato un agente vero e serio, e seppure la sua prima scena porno non le sia piaciuta affatto, Gianna indietro non è tornata, ha seguitato a pornare (12 scene in un mese!) capendo che lo sapeva fare e che le piaceva. Eccome. E i guadagni non erano male! Keiran Lee, uno dei più grandi attori porno in circolazione, le dice di trovarsi un agente che potesse aprirle più porte, e le passa il numero di uno tra i numeri uno, Mark Spiegler. Gianna l’ha chiamato, l’ha raggiunto a Los Angeles (in auto, ha guidato per 18 ore di fila!): dopo aver passato il selezionatissimo provino, è entrata nella scuderia di Spiegler, ovvero il top del porno USA. Le occasioni non te le devi far scappare, mai, ma se nel porno ce la vuoi fare, devi possedere un’ambizione pari alla maturità che questa 23enne dimostra di avere: ossia, non devi perdere tempo, e lascia stare i pettegolezzi, mettiti in competizione sì ma con te stessa, e abbatti ogni limite. Impara a stare da sola, a separare il tuo lavoro dalla vita privata, libera la testa e scrollati di dosso ogni timore, ogni condizionamento familiare, e sociale. Se sei un tipo sveglio, quello che il porno ti fa capire è che non hai bisogno di nessuno, men che meno di un uomo che ti protegga, per guadagnarti ciò che vuoi. Sei tu che conti, tu che puoi, tu che lo fai. Fallo e per te stessa, e fallo per la soddisfazione di segnare un abisso tra la vita ordinaria, noiosa, barbosamente coniugata e frignamente riprodotta che gli altri fanno e già odiano, e la tua: elettrizzante come un fuoco d’artificio. Enormemente invidiabile in libertà. Traguardi inaccessibili agli ipocriti che Gianna Dior la biasimano e la condannano, quando in realtà ci rosicano. Ma chi vogliono far fessi? Alla fine, è lei, Gianna Dior, che vanno a cercare, sul web. Per ingrossare il suo già consistente conto in banca, coi soldi del loro morale, onesto, probo sudore.

·        Gianna Nannini.

Da golssip.it l'1 giugno 2020. Gianna Nannini ha ricordato lo stadio di San Siro quando lei e Edoardo Bennato intonarono ‘Un’estate italiana’ prima della partita Argentina-Camerun, che avrebbe inaugurato il Mondiale di Italia ’90. Più di tutto ha ricordato l’abbraccio con Diego Armando Maradona e di quell’abbraccio ha parlato al quotidiano argentino La Nacion in una intervista telefonica dalla sua casa milanese: “Quello fu un giorno magico. L’abbraccio che ci demmo io e Diego Armando Maradona, sappiamo solo Diego e io come fu. E resterà nella storia. Quell’abbraccio di Maradona mi resto’ attaccato al corpo e al cuore. Era un mio fan ed e’ per questo che chiamò sua figlia Giannina”. La Nannini ha anche aggiunto: “Non lo vidi più da quando smise di giocare in Italia. Un giorno mi piacerebbe tornare a rivedere Diego per tornare ad abbracciarlo. Mi amava molto come cantante”.

Gianna Nannini: “Mia figlia mi ha stravolto la vita”. Redazione Notizie.it il 07/02/2020. Gianna Nannini da quando è diventata mamma ha cambiato totalmente la sua vita in funzione della piccola Penelope: le parole della cantante. Gianna Nannini, ospite a Sanremo 2020, canta alcuni brani tratti dal suo ultimo album La differenza, oltre ad un medley con alcuni dei suoi più grandi successi. Non tutti sanno però del suo rapporto con la figlia Penelope, alla quale ha dedicato una canzone. Gianna Nannini, nel corso di un intervista, ha parlato della figlia Penelope: “Penelope cresce, mi segue a volte ai concerti, e balla. Balla benissimo. Da quando sono diventata mamma, mi ha stravolto la vita. Viene sempre lei prima di me, anche nelle scelte che faccio. Io ho 2 o 3 motti su cui l’ho allenata, però lei è molto indipendente, l’ho abituata all’indipendenza”. Gianna Nannini ha raccontato anche dei suoi esordi: “I miei genitori volevano che lavorassi nella pasticceria di famiglia. Io al mio babbo devo molto perché quando ha capito quello che volevo davvero fare, mi trovò un’insegnante di canto. Feci queste lezioni con questa signora bulgara e mi faceva soprattutto lezioni di respirazione. Fu Mara Maionchi a scoprirmi, sono andata a fare dei provini e Mara pianse”. Tra gli idoli della giovane Nannini, Massimo Ranieri, infatti racconta lo aspettava sotto lo albergo e lo seguiva in camera.

·        Gianni Morandi.

ANDREA SCAGLIA per Libero Quotidiano il 27 agosto 2020. La dritta arriva direttamente dal figliolo tardo-adolescente, appassionato di trap e rap, la musica che - la si capisca o meno - dà voce alla nuova generazione. «Questo non è male - mi dice, lui in genere così selettivo, mostrandomi sul computer un video - e pensa che è figlio di quel cantante che piace a voi, quello dei vostri tempi». Ora, sorvolando sulle poco importanti differenze anagrafiche fra chi scrive e chi canta, definire Gianni Morandi «quel cantante» è un'eresia che si può perdonare solo agli under 18 - peraltro il «che piace a voi» fa trasalire l'animo rockettaro di uno che sempre ha mal sopportato la musica leggera italiana.  E però, insomma, questo Tredici Pietro - al secolo Pietro Morandi, anni 23, per l'appunto figlio di Gianni e della sua seconda moglie Anna Dan - davvero non è male. Il suo ultimo brano, "Dimmi come fare, lo faccio" - ci dicono pubblicato su YouTube dopo un lungo silenzio seguito all'uscita del suo album di debutto, "Assurdo" - è senza dubbio ben prodotto, suona come si deve, il ragazzo con le rime ci sa fare sia pur transitando da qualche ingenuità, e soprattutto non indugia sulle cupezze e sui luoghi comuni da gangster dell'asilo caratteristiche di molti artisti di secondo piano dell'ondata musicale montata negli ultimi anni. Niente di epocale, per ora, ma Pietro si diverte e fa divertire senza banalità. Ed è cosa non così frequente. Allora andiamo a capirne un poco di più. Un paio d'anni fa, come detto, era uscita la sua prima raccolta di brani, e il singolo "Pizza e fichi" aveva girato non poco. Come dire, l'operazione aveva suscitato interesse - è arrivato a superare le 4 milioni di visualizzazioni, è così che oggi si misura la popolarità di un musicista rispetto al mercato. Lui, con schiettezza e malcelato fastidio, aveva commentato che certo, ovvio che ritenesse la sua musica bella e godibile, «ma senza il mio cognome chi mi avrebbe cagato?», intendendo che cotanto clamore fosse più che altro di rimbalzo. Certo è che più volte Pietro è tornato a parlare del suo rapporto altalenante con il famoso e ingombrante papà. «Ho sempre vissuto la dimensione musicale di mio padre come qualcosa da cui discostarmi - ha dichiarato in passato -. Essere figlio d'arte porta più vantaggi che problemi. Non sono una vittima, ma la continua presenza del padre nella tua vita, emotivamente, è un peso». Tanto che «da adolescente sono stato da uno psicologo per un paio di anni, ero in confusione. Molti "figli di" scappano dai padri ingombranti, vivono con la voglia di sconfiggerli. Io invece con il mio ci ho fatto i conti». Interessante. Tredici Pietro dimostra dunque di essere personaggio di personalità. Basterebbe in effetti un featuring - così vengono in sostanza definiti quelli che un tempo si chiamavano duetti - con Gianni, e sai che botto... Ma Pietro no, non ne ha intenzione. Anzi, ha proprio rifiutato la proposta. «Lui vorrebbe, io no - aveva già ammesso a FanPage -. Me l'ha chiesto, però io non posso fare un featuring con mio padre, dai, mi ammazzo la carriera, mi distruggo, inizia e finisce. Troppo facile e allo stesso tempo difficile». E si è comportato di conseguenza. Via "Morandi" dal nome d'arte, una musica difficilmente accostabile a quella del papà. «Non mi vendo a un modico prezzo/Perché ho un patrimonio, sì, in testa» scandisce nell'ultimo pezzo. Una bella sfida.

·        Gianni Sperti.

Chi è Gianni Sperti: l’opinionista di Uomini e Donne. Ultimora.news il 5 agosto 2020.Gianni Sperti è una delle colonne di Uomini e Donne. Ballerino e uomo di gran classe, spesso pungente. Ecco alcune curiosità su di lui.

Gianni Sperti inizia la sua carriera da ballerino, ma molti lo conoscono per via di Uomini e Donne, dove commenta quello che avviene accanto a Tina. Ecco alcune curiosità su di lui e sulla sua vita privata.

Gianni Sperti: biografia e carriera. Gianni Sperti è nato a Manduria, in provincia di Taranto, il 12 aprile 1973. Quindi, è del segno dell’Ariete. Ha un’altezza di 1 metro e 75 centimetri.

I suoi genitori hanno compiuto i 50 anni di matrimonio. Gianni, quindi, cresce in una famiglia unita e presto insegue la sua passione: diventare un ballerino professionista. Non parte subito con la danza classica, però. Infatti, inizia dal ballo rock e a 16 anni prosegue la sua formazione con la danza classica e quella moderna. Comincia quindi a fare diversi provini per la Tv. Quindi, in un provino per il noto programma Mediaset La sai l’ultima? conosce Paola Barale.

I due si sposano, ma dopo 3 anni il matrimonio naufraga in un divorzio. Ancora oggi il ballerino ricorda questo matrimonio come l’errore più grande della sua vita.

Dopo essere stato preso a La sai l’ultima?, partecipa come ballerino a: Stelle Sull’Acqua; Grande Bluff; Buona Domenica. Arriva così al 2000. In questo periodo inizia il suo impegno a Uomini e Donne, affiancato a Tina Cipollari. Nei primi anni della sua carriera nel programma, è affiancato anche a Karina Cascella, che verrà poi sostituita da Jack Vanore.

Gianni ha partecipato anche ad alcuni reality. Infatti, ha partecipato a La Talpa, vincendo l’edizione 2005. Nel reality, un concorrente faceva da talpa: obiettivo della talpa era non farsi scoprire, mentre quello degli altri giocatori e del pubblico era capire chi era.

Gianni ha continuato a ballare fino al 2009. La sua ultima apparizione come ballerino è stata da Amici di Maria De Filippi. Ogni tanto, però, quando ne ha l’occasione, realizza strabilianti coreografie.

Nel 2017 si laurea in Economia. Gianni è anche molto impegnato nel sociale. Infatti, si occupa della lotta contro l’abbandono dei cani. Ha il vizio di fumare, ma ci tiene molto al fisico, tanto da fare fitness tutti i giorni.

Si tratta di un ottimo casalingo: sa stirare perfettamente le camicie e sa cavarsela da solo. Questa dote gli è stata molto utile quando ha fatto un viaggio in India. Il suo profilo Instagram ha 1 milione di followers. In più, ha diversi tatuaggi: ha dei caratteri giapponesi sulla nuca, un gatto sul polso e una S sul braccio opposto. Il suo nome vero è Ambrogio e non Gianni.

Gianni Sperti: vita privata. Per molto tempo, da quando si è concluso il matrimonio con la Barale, si vociferava che Gianni Sperti fosse gay. Sperti non ha mai confermato né smentito la cosa, ricordando però che essere gay per lui non sarebbe assolutamente un problema, anzi.

·        Gigi Proietti.

Silvia Fumarola per la Repubblica il 12/10/2020. Gigi Proietti se ne sta a casa «buono buono, perché questo non è il periodo per fare gli spiritosi e perché ormai c'ho un'età. Non la posso manco nascondere». Il 2 novembre compie 80 anni.

Proietti, allora sta davvero buono a casa?

«Buonissimo. Non è un periodo facile per nessuno. Deprime perché fanno a gara a chi te mette più paura ma fanno bene. Non sono un guascone, la situazione è seria e poi spuntano quelli come Trump, pericolosissimi. Ci si fa belli trasgredendo. Non sai come girarti, mi mette un po' d'ansia proprio la mancanza di sacralità della vita da parte dei vecchi citrulli e dei ragazzini, a prescindere dal Covid. La vita è una. So' diventato vecchio?».

No, saggio. Le danno sempre fastidio «le parole che nascondono il vuoto»?

«Ho avuto qualche problemino di salute e mi sono visto la tv di seguito. Quando parlano del coronavirus dicono tutto e il contrario di tutto. E lo dicono insieme, nello stesso programma. Nessuno obietta: ma che state a di'?».

La cosa peggiore è sempre «avere colleghi tristi»?

«Per amor di Dio, sono tremendi. Questo è un mestiere strano, ha tutti i difetti, ma il gusto della battuta me lo fa diventare simpatico. Se manca pure quella... Alcuni non fanno un sorriso neanche se gli spari».

Il rapporto con l'età?

«La vecchiaia c'è e non puoi farci niente. Non mi ricordo chi ha detto: "Alla mia età, la malattia è questa". È una malattia da logoramento, però non mi va di essere pessimista, ringrazio i miei genitori per il senso dell'ironia. Aiuta. Pensi ai capelli».

Ha una testa leonina.

«Mi sono liberato da quando non mi tingo più. Girando Il maresciallo Rocca cominciavo a imbiancare, bisognava ritoccare sempre: sembravo incatramato. Una volta venne uno a farmi la tinta a casa e uscì fuori un colore violaceo. Sul set erano disperati. Allora ho deciso di tagliarmi i capelli. Per abituarti al bianco ci metti tempo, passi davanti a una vetrina e ti domandi: chi è quel signore anziano?».

(…)

È sempre di sinistra?

«Uno che è di sinistra, specialmente della mia età, rimane di sinistra. Una volta significava un'appartenenza e mi auguro che si ritorni a un rapporto più intelligente, più aperto, perché poi la sinistra si è chiusa. Sono di sinistra in maniera naturale, non potrei essere altrimenti anche se non sono d'accordo quasi mai con quello che fanno. Quanto aveva ragione Nanni Moretti quando in Aprile diceva a D'Alema: "Dì qualcosa di sinistra". Non la dicono mai».

GLORIA SATTA per il Messaggero il 13 luglio 2020. Per ripartire dopo il lockdown, Gigi Proietti si regala un impegno e un sogno. Il primo, in programma il 29 luglio, è la riapertura (in sicurezza) del Globe Theatre, lo spazio incastonato nel verde di Villa Borghese e da 17 anni punto di riferimento nella vita culturale dei romani. «Ripartiremo con Venere e Adone, un poemetto che Shakespeare scrisse durante la peste di Londra mentre i teatri erano chiusi. La regia è di Daniele Salvo. Spero, visto il momento, che sia di buon auspicio», anticipa il grande attore romano.

Il sogno?

«Mettere in piedi Radio Raccordo Anulare, un progetto che mi frulla in testa da anni. Un'emittente gestita da giovani per tenere collegate e informate tutte le zone della città, specie le periferie: il problema, in una metropoli come la nostra, è la comunicazione. I romani devono conoscersi, non rimanere distanti come isole».

Tra i progetti di questo artista a 360 gradi che il 2 novembre compirà 80 anni senza contemplare la pensione, ci sono poi l'allestimento di Tosca e la riduzione teatrale di Casotto, il film di Sergio Citti (1977). Intanto, Gigi racconta sé stesso e il legame con Roma tra riflessioni, ricordi, la consueta ironia.

«Io un monumento? Ma se non so manco anda' a cavallo».

Come vive il ritorno alla normalità?

«Con un certo ottimismo. Sono abituato a vedere il bicchiere mezzo pieno anche se stavolta è un po' difficile: ci terrorizzano annunciando catastrofi sanitari ed economiche per settembre con la seconda ondata del virus. Speriamo di no! Mentre i virologi non si mettono ancora d'accordo, cerco di fare al meglio quello che so fare, per la mia città. Sto dando tutto me stesso al Globe».

La gente ha voglia di tornare a teatro?

«A giudicare dai social, c'è grande attesa per la riapertura del nostro spazio che ha sempre fatto il tutto esaurito e rappresenta il mio fiore all'occhiello dopo l'esperienza del Teatro Tenda, la riqualificazione del Brancaccio e il Brancaccino. Il nostro lavoro va difeso a spada tratta, è fragile. Il teatro è pochissimo considerato mentre, come predicava il grande Eduardo, non andrebbe tassato perché non è un business ma un servizio sociale. Quando si è deciso di chiudere i teatri per il virus, non mi è parso di udire l'urlo di dolore proveniente dagli uomini delle istituzioni. Se non fosse così, riaprirebbero il Valle».

Come ci siamo comportati, secondo lei, durante la pandemia?

«Molto bene, gli italiani hanno rispettato le restrizioni e lottato insieme contro il virus con grande senso civico».

E i romani? Si aspettava che la Capitale fosse così responsabile e disciplinata?

«Ma certo. Roma ha sempre risposto benissimo alle emergenze. Lo ha dimostrato anche nel lockdown pur essendo diventata una grande metropoli con le sue complessità».

Quali sono le magagne più grandi della città?

«Facile rispondere le solite buche e la solita immondizia, ma sono problemi antichi. Non a caso già Aldo Fabrizi cantava Buongiorno monnezza».

Le hanno mai proposto di entrare in politica?

«Sì, ma ho rifiutato. Meglio essere un discreto attore che un pessimo politico. Accetterei solo se ci fosse un dicastero per le formazioni professionali: vorrei riaprire il Laboratorio per giovani attori, ci penso seriamente e intanto ho proposto all'Accademia Silvio D'Amico di mandare i neo-diplomati a farsi le ossa al Globe».

È cambiata la romanità?

 «Un tempo avrei detto che la nostra prima qualità è la tolleranza, scambiata per pigrizia. Purtroppo siamo diventati troppo nervosi anche noi. Damose 'na calmata».

Come si sente in questa stagione della vita?

«Sereno: non mi sembra di aver fatto grossi danni né di aver perso tempo, soprattutto nei confronti della mia città. E voglio lavorare ancora».

Ha sassolini, sassi o macigni da togliersi?

«Qualcuno, ma ormai è diventato sabbia. Sono felice, mi sono divertito tanto e penso di aver divertito gli altri. Ho fatto teatro, cinema e avuto il grande successo popolare grazie a serie tv come Il Maresciallo Rocca».

Il momento in cui è stato più felice?

«Alla nascita delle mie figlie Carlotta e Susanna, nel periodo magico dello spettacolo A me gli occhi please».

Con l'età è diventato più tollerante?

«Per certi versi sì. Ma ci sono cose che non sopporto: lo squilibrio perdurante tra ricchi e poveri, le promesse dei politici che da 10 anni ripetono le stesse cose, l'evasione fiscale, la corruzione, la speculazione».

Memorabile il sonetto che lei compose nel 2003, al funerale di Alberto Sordi: vede un suo erede?

«Non può esistere. Sordi è una parte intrinseca del Paese che ha rappresentato in una fase storica irripetibile».

 L'incubo appena vissuto ci ha resi migliori?

«Ci ha fatto capire che bisogna ripensare il sistema Italia con responsabilità, onestà, consapevolezza. Spero che siamo diventati migliori: per rimanere quelli di sempre, non serviva la pandemia. In bocca al lupo a tutti noi».

Dagospia l'8 maggio 2020.Da I Lunatici Radio2. Gigi Proietti è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino.

Il popolare attore romano ha raccontato: "Come è andato il mio inizio di fase 2? Per me non è cambiato nulla, sono rimasto sempre a casa, ringraziando il cielo ho un po' di giardino, sono stato abbastanza fortunato. Poi con queste cose grazie alle quali ci si vede tramite uno schermo, viene tutto più comodo. Si può andare a trovare i parenti, i congiunti. Ma bisognerebbe andare a cercare anche i congiuntivi oltre che i congiunti. Non amo molto i talk show, sono praticamente assente, non vado mai, onestamente non ho nessun discorso da fare alla Nazione, invidio chi ci va ed è depositario di grandi verità. Io non ho grandi verità, ho dei dubbi, ma andare ad esternare i propri dubbi in televisione mi sembra assurdo".

Sul rispetto nei confronti degli anziani: "Questo momento ci ha fatto accorgere che in effetti normalmente gli anziani non vengono trattati bene. Non è una cosa che accade solo in questo momento. Accade da sempre. Il punto è che le grandi civiltà mettono al centro gli anziani e i bambini. Devono essere quasi ritenuti sacri. Altrimenti è barbarie. Non è possibile concepire un sostegno soltanto per le persone che producono. E' massacrante, è una cosa assolutamente barbara. Un tempo anche i neonati venivano trascurati, poi ci si è reso conto che potevano esserci business da fare con pannolini, pappette e pomate. Invece gli anziani non consumano e per questo non vengono considerati. E' terribile. Non ho mai amato quando si dice i nostri vecchietti. Ma vecchietto sarà lei. Credo veramente, da sempre, che nella civiltà contadina, dalla quale noi veniamo, l'anziano era importante, aveva un suo ruolo preciso. Invece adesso no. Il concetto dell'usa e getta non mi piace".

Sul futuro del teatro: "Il teatro non è che prima del virus conoscesse chissà quale sostegno. La cultura teatrale italiana aveva il minimo indispensabile. Quando si parla di cultura si arriva al massimo fino al cinema. Il teatro non viene nemmeno nominato. Quando sento politici che parlano di teatro, mi viene da rispondere io a te a teatro non ti ho mai visto. Qualche politico sì, ma pochissimi. Eppure sono quasi 50 anni che faccio questo mestiere. Se non altro approfittiamo di questo periodo per fare in modo che le istituzioni si accorgano di noi. Bisogna discutere con serenità ma anche razionalità e disponibilità. Con la voglia di aiutare. Un po' come il turismo. L'industria del turismo soffrirà tantissimo, però anche gli altri paesi turistici stanno peggio di noi, guardate la Francia o la Spagna. Come si suol dire, mal comune... . Quello che farei è una grossissima, enorme, campagna promozionale per il turismo in Italia. Per gli italiani stessi e anche per gli stranieri. Quando è esplosa la pandemia non abbiamo fatto altro che lamentarci che non saremmo stati capaci di gestirla. E invece alla fine in un modo nell'altro è stata gestita bene. Quindi mi chiedo perché non dovremmo andare sulla Costiera Amalfitana. Ma dobbiamo pubblicizzarci bene".

Su come usciremo da questo periodo: "Se saremo migliori? Dipende da noi. Saremo migliori se vorremo essere migliori. Serve un po' di riflessione e invece qui non si è vista l'ora di uscire, di andare fuori. Come se prima stavamo come scemi ad abbracciare le persone per strada. Sì, l'espressione congiunti è stata poco infelice, ma non è quello che toglie le libertà individuali".

Ancora Proietti: "Non vedo l'ora di avere una classe dirigente di cui fidarmi. Voglio poter dare la mia fiducia a chi se la merita. Sono consapevole che la perfezione non c'è, ma dovremmo tendere a questo, ad agire un po' più razionalmente. C'è confusione anche nella lettura di questa cosa qui. Sì, la comunità scientifica dice le cose, le studia, ma poi sono i politici che decidono. Ma se decidono sulla base di quello che gli dicono, non se ne può non tenere conto. E' inevitabile che accada questo. Qui sono diventati tutti virologi. Come sempre tutti diventano economisti o allenatori di calcio".

Sulle fake news: "Facendo il nostro mestiere più che altro possiamo essere vittime di qualche pettegolezzo, qualche volta ci fanno morire, si gioca con queste cose che sono cose brutte, non sono cose delle quali poi si possa sorridere. Un tempo però eravamo meno imbocconi. Se girano le fake news è perché un sacco di gente ci crede".

Sulla cosa che più gli manca: "Mi piacerebbe riaprire il mio vecchio laboratorio dopo tanti anni, stavo lavorando a un paio di idee che ho dovuto interrompere. Speriamo che prima o poi riesca a riaprirlo, almeno a metà estate. Ci sono molte persone che lo aspettano, credo".

Sulle mascherine: "Siamo un Paese d'eccellenza nell'attività tessile, possibile mai che non ci sia stato un accordo tra tutte le varie componenti in campo per fare milioni di mascherine? Boh, magari è facile dirlo e meno farlo. Però io mi ricordo che qualche mese prima che esplodesse la pandemia, le mascherine costavano 10 centesime. Le ho dovute prendere per il teatro. Ora invece le vendono a un euro e cinquanta. E allora inizio a sospettare. Perché il guadagno è sacrosanto, ma la speculazione su una pandemia non va bene".

Emilia Costantini per corriere.it il 30 marzo 2020. “Lo definirei lo Zorro dei virus. Perché? Bè, perché mi pare molto mascherato». Gigi Proietti vive la sua clausura da Covid-19 con il suo consueto spirito critico e particolarmente riflessivo. «Sì, in clausura, ma mi sento un privilegiato».

Perché?

«Rispetto a tanti altri concittadini che magari abitano in piccoli appartamenti, senza una terrazza, senza uno sfogo, io almeno ho un giardino, che in questo momento è a dir poco vitale. E pensare che, tempo fa, volevo cambiare casa».

Per andare dove?

«Io sono nato a via Giulia, ma ormai da molti anni abito un po’ fuori dal centro, quindi con Saghitta (la moglie di Proietti ndr), stavamo valutando l’idea di tornare a vivere nel centro storico. E meno male che non l’abbiamo fatto! Adesso me ne sarei pentito: qui dove siamo non ci sentiamo costretti».

Come trascorre le sue giornate agli arresti domiciliari?

«Francamente avevo preventivato, già prima di questa emergenza, un periodo di riposo, perché avevo appena finito di girare un nuovo film: “Io sono Babbo Natale” di Edoardo Falcone, insieme a Marco Giallini. L’ho fatto con grande piacere ma finite le riprese sentivo la necessità di staccare i telefoni per starmene un po’ tranquillo».

Insomma, il coronavirus ha esaudito i suoi desideri?

«In un certo senso sì, anche se non immaginavo mi prendesse così alla lettera...».

Comincia a mancarle in rapporto con l’esterno, il contatto con gli altri?

«Oddio! Io non sono un grande frequentatore di feste, banchetti, aperitivi... non sono abituato ad abbracciare o baciare tutti quelli che incontro. Adesso, men che meno. C’è poco da scherzare in questa situazione, l’umore generale è di grande attesa...».

E di grande ansia...

«Certo. Però non è il caso di fare a cazzotti mentre si sta in fila al supermercato. Non mi piace sapere di persone che compiono azioni contro le regole e che poi se ne vantano, dicendo “ho fregato il Governo”. Eh no, perché freghiamo noi stessi. Se invece cerchiamo di stare calmi e di rispettare le disposizioni, il virus finisce prima. Però ovviamente capisco anche che uscire di casa e poter andare dove ti pare è importante psicologicamente. La limitazione della libertà è pesante, ma necessaria».

La convivenza forzata di persone che non vanno d’accordo è un’aggravante.

«Moglie e marito che litigano in tempi normali, certamente possono aggravare i contrasti, e infatti pare che le violenze domestiche siano aumentate. Tuttavia, mi piace pensare che potrebbe essere il contrario: magari, in una condizione coatta, i coniugi litigiosi fanno pace. Insomma, credo fermamente che si verificherà un profondo cambiamento e mi auguro, che alla fine di questa pandemia, non saremo più quelli di prima, speriamo in meglio».

Ma se la clausura dovesse prolungarsi?

«Ah bè... finora è trascorso un mese, se diventassero cinque, sia pure con il conforto del giardino, mica lo so che mi succederebbe. Finora il mio ménage domestico regge bene. Non usciamo nemmeno per fare la spesa, perché ce la facciamo portare a casa e a me, che ogni giorno leggo tanti giornali, l’edicolante li lascia sul cancello. Diciamo una cosa positiva».

Quale?

«Abbiamo più tempo per pensare, per riflettere su come vivere bene in una comunità. È tropo facile scaricare sugli altri le responsabilità, che invece sono di tutti noi cittadini. È una buona occasione per ragionare su cosa abbiamo sbagliato. Con questo non voglio dire che il virus ci ha invaso per colpa nostra, dico solo che forse abbiamo sbagliato qualcosa a monte di tutta questa vicenda. Invece di litiga’ dobbiamo ragiona’. Le polemiche tra i politici sono assolutamente dannose. Io amo la politica, ma questa non è politica».

Che effetto le fa Roma, in questo periodo?

«Non sopporto di sentirla definire “spettrale”. Roma non è mai spettrale, è sempre bella, occorre evitare di usare certi termini inappropriati. Anzi, è ancora più bella perché è senza traffico, come a ferragosto. Il clima è migliorato... però nun ve preoccupate: il traffico ritornerà!».

Poeti come Belli o Trilussa, cosa avrebbero scritto in una simile emergenza?

«Sono vissuti in epoche distanti: Belli quando Roma faceva ancora parte dello Stato Pontificio, Trilussa quasi cento anni dopo. Il primo, secondo me, avrebbe giocato sulla faccenda in maniera apocalittica. Il secondo si sarebbe più divertito a fare satira. Ma il problema è che c’è poco da scherzare. Tutto quello che ho sentito sul coronavirus per far ridere, a me nun me fa’ ride pe’ gniente. Sarebbe come ridere sul colera. Però ora che ci penso sul famoso vibrione un po’ ci ridevamo, perché veniva dalle cozze... e si sa, sulle cozze, c’era sempre la battuta. Stavolta la faccenda è più misteriosa, è più lontana, sembra sconosciuta, sulle cozze eravamo più informati».

C’è poco da ridere anche sulla situazione dei teatri, dei cinema. La stagione del Globe Theater si farà?

«Spero di sì. Noi saremmo pronti ad aprire a giugno. E quest’anno nel programma, oltre a tanti Shakespeare, ho intenzione di inserire qualche altro grande autore classico. Sto pensando a un Molière e vorrei pure rifare, con una compagnia tutta di giovani attori, “L’Opera del mendicante” di John Gay».

In conclusione, cosa vuole dire ai romani?

«Continuiamo ad amare la nostra città e, come cittadini della Capitale, dobbiamo dare il buon esempio al resto degli italiani».

·        Gina Lollobrigida.

Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 17 luglio 2020. Rinviato a giudizio per circonvenzione d'incapace Andrea Piazzolla, il factotum di Gina Lollobrigida (93 anni), l'uomo con il quale la Bersagliera vive dal 2015, si dice tranquillo. Gli contestano di aver abusato della fragilità di un'anziana per intestarsi il suo patrimonio ma lui, nello studio del difensore, l'avvocato Filippo Morlacchini, dice di voler rispondere su tutto. Tira fuori memorie, registrazioni e documenti perché, da quando questa storia è iniziata, Piazzolla archivia conversazioni, ricordi, propositi.

Si dice manager, ma non è un semplice diplomato?

«A 24 anni lavoravo per una prestigiosa azienda automobilistica alla quale facevo gli "scarichi" delle merci. Nessuno poi parla mai del brevetto che ho realizzato per tracciare i diamanti (invenduto, ndr )».

Secondo i magistrati avrebbe sfruttato la suggestionabilità della Lollobrigida per impossessarsi del suo patrimonio...

«Gina non è suggestionabile: qualche anno fa Christian De Sica ha tentato di coinvolgerla nel film Poveri ma ricchi nel quale aveva previsto una parte anche per me. Non c'è stato modo di convincerla a recitare in quella produzione e, per inciso, ha avuto ragione perché non è stato certo un successo».

Oggi la diva è una donna sola.

«Falso. E quaranta testimoni, fra i quali Marisela Federici (regina dei salotti romani, ndr ), Paolo Arullani (presidente onorario del Campus Biomedico, ndr ), Andrea Cusumano (oculista, ndr ) e altri testimonieranno a processo e hanno già riferito nelle indagini difensive come la vita sociale della Bersagliera sia perfino più ricca che in passato».

Da quando è al suo fianco le persone a lei più affezionate sono andate via però.

«Si riferisce ad Alma, la sua cameriera fidata? Il marito aveva problemi di salute».

Milko e Dimitri Skofic, figlio e nipote della Lollo, sono stati cacciati dalla sua dépendance sull'Appia.

«Una decisione presa da Gina direttamente: era scaduto il comodato d'uso dell'abitazione».

 Vuol dire che la Lollobrigida si è liberata di loro spontaneamente?

«Dico solo che nessuno mi ha mai detto "grazie" ma va bene così perché io ho fatto tutto questo per amore di Gina. Per cinque volte in questi anni le ho salvato la vita portandola in ospedale quando era in condizioni difficilissime. In Sardegna una volta mi ha chiamato di notte e quando sono entrato nella sua camera l'ho trovata in un lago di sangue. Ho telefonato all'ambulanza perché sapevo che non c'era altro modo di fermare la crisi, non ho perso un secondo».

Farebbe tutto questo anche per un nullatenente?

«Sì, certo: sono un donatore di sangue, mi penso al servizio degli altri. Gina poi è speciale».

Se ha un simile affetto per lei forse avrebbe potuto rinunciare ai suoi soldi, insomma stare al suo fianco gratuitamente...

«È quello che ho fatto per anni prima che lei decidesse di fare un regalo ai miei genitori estinguendogli il mutuo sull'abitazione».

Un regalo importante. Secondo il perito del tribunale la Lollo è vulnerabile, la sua capacità critica è molto indebolita. È cosi?

(Cerca sull'iPhone un file e accende l'audio: «Insomma basta co' 'sta storia mi stanno diffamando...» sentenzia un'inviperita Lollobrigida )

«La perizia su Gina è stata acquisita violando ogni regola, chiudendola in una stanza al caldo, sottoponendola a un fuoco di fila di domande e stressandola in ogni maniera. Chiederemo un'altra perizia».

Gina Lollobrigida e l’ex manager a processo: «Nessun reato, vivo come voglio». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 10 luglio 2020. Andrea Piazzolla, 32 anni, è stato rinviato a giudizio per circonvenzione di incapace, la prima udienza a dicembre. L’attrice: «Quando uscirà una legge che proibirà agli anziani di vivere la propria vita come vogliono, si potrà parlare di reato». È stato rinviato a giudizio per circonvenzione di incapace continuata e aggravata. La prima udienza è già stata fissata per dicembre, e questo non si può cambiare. Quello che è cambiato, negli anni, è il ruolo di Andrea Piazzolla nella vita di Gina Lollobrigida: ormai è impossibile definirlo suo assistente o un manager. È uno di famiglia, un figlioccio, presente, da anni, più del figlio Milko e del nipote Dimitri Skofic, che hanno intentato la causa contro di lui assieme a Javier Rigau, l’imprenditore catalano che non possiamo chiamare ex marito della diva, visto che papa Francesco in persona ha dichiarato nullo il loro matrimonio il 19 gennaio del 2019 (peraltro, la stessa giudice che ha disposto il rinvio a giudizio di Piazzolla, lo ha escluso dalla costituzione di parte civile). La notizia, naturalmente, non poteva fare felice la Bersagliera, che per telefono con il Corriere si lascia andare alle solite intemerate quando si mette in dubbio la sua lucidità. Dice: «Quando uscirà una legge che proibirà agli anziani di vivere la propria vita come vogliono, allora si potrà parlare di reato. A oggi questa legge non esiste e vivere come voglio mi sembra un mio diritto. Al contrario, un figlio che non si è mai occupato e preoccupato della propria madre è giusto che denunci chi lo sta facendo al suo posto?».

Il sodalizio con Piazzolla. E allora torniamo ad Andrea Piazzolla, che Gina conosce al Cnel nel 2009, restandone subito colpita. Decide di dargli una possibilità facendolo collaborare con i suoi assistenti di fiducia. Dopo un paio d’anni gli affida il ruolo di amministratore unico della «Vissi d’Arte», la società che gestisce i suoi beni. Nel 2015 lo accoglie a casa sua. I rapporti con il figlio e il nipote sono già tesi: è del 2011 la richiesta di sfratto ai congiunti dalla dependance della villa dell’attrice che si trova sulla Appia Antica ed è del 2014 la causa intentata senza successo dal figlio per mettere la mamma sotto tutela con un amministratore di sostegno. Più i familiari si allontanano dalla madre, più Andrea si avvicina.

Rapporti di famiglia sempre più tesi. Gina in più interviste si lamenta di non essere mai riuscita a coinvolgere nelle sue attività il figlio, nonostante avesse voluto farlo. Andrea diventa per lei più di un collaboratore, conquista la sua fiducia, organizza le vacanze, i viaggi, gli appuntamenti di lavoro, assistendola nelle questioni mediche. È grazie a lui, per esempio, che parte la richiesta di annullamento alla Sacra Rota delle nozze con Rigau. Tre anni fa i rapporti familiari diventano ancora più tesi. Mentre Gina è ricoverata al Campus Biomedico di Roma con la polmonite, parte la querela di Milko, Dimitri e Rigau che ha portato al rinvio a giudizio di giovedì. A marzo del 2019 la pm Eleonora Fini aveva chiuso l’inchiesta per circonvenzione di incapace contestando a Piazzolla operazioni sospette tra il 2013 e il 2018, tra cui la vendita di tre appartamenti vicini a piazza di Spagna, l’acquisto di macchine di lusso, prelievi e bonifici sui conti del padre e della madre di Andrea.

La piccola Gina nata due mesi fa. Due mesi prima, a gennaio, il giudice tutelare aveva nominato un amministratore di sostegno per l’attrice, che non digerì bene neppure questa iniziativa, soprattutto quando quest’ultimo, a febbraio del 2020, decise senza interpellarla di scegliere un nuovo legale per rappresentarla nel processo penale contro Piazzolla. Quella volta la battagliera 93enne scrisse perfino al presidente della Repubblica per protestare. Ma il 15 maggio la stessa gip Emanuela Attura ha messo per iscritto, «richiamando i principi costituzionali e in particolare l’articolo 2 della Costituzione, di non ravvisare alcun ostacolo a che l’artista di fama internazionale possa seguire l’andamento del processo a mezzo di un difensore da lei nominato». Epilogo familiare: ora con Gina, oltre ad Andrea, vive la fidanzata Adriana, che due mesi fa ha dato alla luce la piccola Gina. La Gina grande ammette: «L’innocenza dei bambini è un balsamo di vita».

L’ex avvocato spagnolo della Lollobrigida: “Gina è stata isolata e plagiata”. Dopo Pilar la donna che ha sposato per procura Javier Rigau, arriva la testimonianza dell'ex avvocato spagnolo della Lollobrigida. Roberta Damiata, Lunedì 01/06/2020 su Il Giornale. Ennesima puntata dell’intricata vicenda che coinvolge Gina Lollobrigida l’amatissima diva la cui vita sembra sempre più assomigliare ad un giallo di cui si aspetta ad ogni puntata di scoprire il colpevole. Questa settimana però, a “Live non è la D’Urso” molti punti vengono chiariti rispetto all’intervento della scorsa settimana di Andrea Piazzolla ex amministratore della diva e suo factotum. In collegamento dalla villa di Barcellona, c’è Javier Rigau, l’uomo che Gina ha denunciato per averla sposata a sua insaputa, che settimana dopo settimana, con sentenze alla mano chiarisce invece la volontà di questo matrimonio per procura così come già dichiarato chiaramente dalla sentenza del giudice. Così dopo Pilar, la donna che Gina Lollobrigida aveva scelto per rappresentarla nel matrimonio per procura, ecco che parla la bellissima avvocatessa Teresa ex procuratrice di Gina Lollobrigida che sia in tribunale durante il processo, che stasera da Barbara D’Urso ribadisce che fu Gina Lollobrigida a voler organizzare il matrimonio. “Questo fu poi annullato perché in Spagna si stava diffondendo una notizia fatta uscire da una rivista scandalistica che Gina avesse una relazione con un ragazzo giovane attaccando sia l’onore di Gina che quello che Javier”. Ma non è l’unica cosa che si chiarisce. Anche le immagini portate da Piazzolla la scorsa settimana, vengono smentite perché riferite ad una vicenda di un ricatto ordito alle spalle di Javier per cui il colpevole è stato condannato, e che nulla c’entravano con la vicenda del matrimonio con la diva tanto amato. Barbara D’Urso chiedendo all'avvocato, che in Spagna è famosa per essere il procuratore di molti personaggi noti, perché i rapporti con la diva si sono interrotti e la risposta lascia a bocca aperta: “Io sono stata l’avvocato di Gina fino a quando Andrea Piazzola non è entrato nella sua vita e ha interrotto la relazione con me ma anche con tutte le altre persone vicine a lei. Gina è stata isolata, persuasa e convinta e persino davanti al giudice ha negato di conoscermi quando io avevo anche altri tipi di procure per rappresentarla in tribunale”. Alda D’Eusanio presente in studio, sostiene che per Javier Rigau, che è ormai acclarato essere molto più benestante della diva, si è trattato di amore, e si chiede se sono proprio i beni di Gina ad averla messa in questa intricata situazione. La risposta di Javier è lapidaria: “Se Gina fosse stata povera, i Piazzolla non avrebbero mai messo piede nella sua casa”. Arriva però il colpo di scena, perché già dall’inizio della puntata era stata preannunciata una busta choc con un contenuto che avrebbe lasciato tutti a bocca aperta. Dalla busta esce a sorpresa una copertina del prossimo numero di Chi, in cui c’è Andrea Piazzolla che racconta di essere diventato padre e mostra la neonata che ha deciso di chiamare Gina Jr. in braccio proprio a Gina Lollobrigida. Una notizia che di sicuro è uno scoop, ma che forse poco c'entra nel cercare di fare chiarezza su questa vicenda. Ci prova però lo stesso Javier che non commentando le immagini che riguardano solo la vita privata di Andrea Piazzolla dice “L’unica vittima è Gina Lollobrigida”, e anche Alda De Usanio è dello stesso parere e chiude il suo intervento con un’unico pensiero: “Gina un nipote già ce l’ha”.

Gina Lollobrigida sbrocca a ''Un giorno in pretura''. DAGO-RETROSCENA il 5 maggio 2020. - La scusa rifilata dall'ufficio stampa di Rai3 a TPI è una croccantissima bufala: l'episodio è stato rimosso da Raiplay perché Gina Lollobrigida e il suo giovane pupillo Andrea Piazzolla hanno fatto i diavoli a quattro minacciando cause e ricorsi contro la Rai, rea di aver mostrato un lato negativo della diva, e troppo spazio alla difesa del suo ex compagno Javier Rigau. Così i vertici di viale Mazzini, per evitare rogne, di nascosto hanno tolto il video, inventandosi la questione dei diritti. Ma quali diritti? Quella è un'udienza pubblica a cui chiunque poteva partecipare. ''Un giorno in pretura'' campa da oltre 30 anni grazie a questo principio giuridico, e i conti della Rai ringraziano visto che garantisce ore di programmazione a costi ridottissimi. L'unica cosa che uno può ottenere è l'oscuramento del volto e l'alterazione della voce, che infatti avviene in alcune puntate.

Clarissa Valia per tpi.it il 5 maggio 2020. Perché è sparito il processo Lollobrigida dal sito di Rai Play?

Il primo episodio della nuova stagione di Un Giorno in Pretura andato in onda domenica 3 maggio è stato dedicato al processo per la storia del matrimonio di Gina Lollobrigida con l’imprenditore spagnolo Francisco Javier Rigau, accusato di avere sposato l’attrice per il suo patrimonio. Per chi se lo fosse perso, Un Giorno in Pretura il giorno successivo alla messa in onda, carica sempre le puntate sulla piattaforma di Rai Play. Ma il processo che vede al centro la diva 92enne non c’è, è sparito dal sito. Sulla pagina Facebook ufficiale del programma di Rai 3 è stato pubblicato il post dell’episodio “Gina Lollobrigida: Una diva da sposare”. “La puntata è disponibile su RaiPlay. Ecco il link per rivederla”, recita il copy del post. Ma cliccando il link che conduce al sito di Rai Play l’episodio non appare. La schermata che appare (vedi foto) indica che il contenuto non è disponibile. Sotto il post sono tantissimi gli utenti che protestano e che si chiedono perché sia sparito proprio il processo di Gina Lollobrigida dal sito di Rai Play. “Perché è stata tagliata la parte relativa al processo della Lollobrigida?”, scrive un fan. “Sono cinque volte che provo a vedere la puntata ma di Gina Lollogrigida nulla”, lamenta un altro. E ancora: “Manca la prima parte sulla Lollobrigida!!! É rimasta solo la foto di copertina, poi inizia direttamente dalla seconda parte!!!”; “Avevo iniziato la riproduzione ma ho dovuto interrompere e ho visto che la puntata è stata tagliata! Come mai? La rimetterete intera?”.

Perché su Rai Play non c’è la puntata di Un Giorno in Pretura sul processo di Gina Lollobrigida? L’ufficio stampa di Rai 3 a noi di TPI chiarisce che l’autorizzazione per la messa in onda del processo di Gina Lollobrigida era valida solo per la trasmissione in tv e che i diritti non comprendevano la pubblicazione sui Rai Play. 

Michela Allegri per il Messaggero il 16 maggio 2020. «Vogliono farmi morire in modo ignobile», gridava solo due giorni fa la diva Gina Lollobrigida, quando ha scoperto che il suo amministratore di sostegno era stato autorizzato dal giudice a collocare in un deposito gioielli e suppellettili di sua proprietà. Ma ieri è arrivata una spiegazione: in tutta fretta, la Guardia di Finanza di Roma ha sequestrato opere d'arte, mobili e preziosi della Bersagliera che erano stati messi all'asta. Oggetti di pregio, se si considera che il valore di base d'asta è stato stimato in circa 300mila euro. E secondo gli esperti con la vendita si sarebbe potuto guadagnare un milione. La data d'asta era già stata fissata: 20 e 21 maggio. Il problema è che quei beni erano all'interno della villa della Lollo, posta sotto sequestro e sotto la tutela dell'amministratore, nell'ambito dell'inchiesta in cui il manager della donna, Andrea Piazzolla, classe 1987, è accusato di circonvenzione di incapace per avere - secondo la procura - depredato il patrimonio dell'attrice utilizzando il denaro per sé e per i suoi familiari. La pm Laura Condemi ha quindi deciso di disporre un sequestro preventivo d'urgenza, per evitare che i beni venissero venduti. Il fascicolo è ancora contro ignoti, ma è già indirizzato. Il sospetto degli inquirenti, si legge nel decreto, è che qualcuno abbia abusato «dello stato di deficienza psichica» della diva, «consistente in uno stato di vulnerabilità e suggestionabilità», e abbia indotto la donna a svendere il suo patrimonio, con un atto - l'ultimo di una lunga serie, secondo i pm - «da cui derivavano effetti pregiudizievoli». I beni affidati alla casa d'aste sono tantissimi: cimeli, oggetti d'arte, antichità, preziosi, mobili, soprammobili. Si tratta di più di 50 opere, che da anni erano custodite all'interno della villa della Lollo, in via Appia Antica, dove da tempo Piazzolla è di casa, mentre i familiari dell'attrice sono stati praticamente banditi. Proprio per questo motivo il figlio e il nipote della diva, Milko e Dimitri Skofic, assistiti dall'avvocato Michele Gentiloni Silveri, tre anni fa hanno denunciato il manager per circonvenzione di incapace. Una vicenda per la quale la pm Eleonora Fini ha chiesto il rinvio a giudizio del giovane, e sulla quale il gup deciderà in luglio.

LA DENUNCIAPer quanto riguarda le opere d'arte messe all'asta, è stato l'amministratore di sostegno della diva, l'avvocato Stefano Agamennone, l'11 maggio scorso, a denunciare la «distrazione di un'ingente quantità di beni» che erano all'interno della villa sequestrata dal 2018. L'amministratore sottolineava che nessuno poteva «operare in nome e per conto della Lollobrigida». Nel decreto il pm cita le indagini già svolte, che riguardano la presunta opera di circonvenzione della Lollo da parte di Piazzolla. «È stato possibile riscontrare come l'indagato abbia dal 2013 sottratto complessivamente disponibilità finanziarie per un valore di circa 3 milioni di euro - si legge nel documento - attraverso operazioni commerciali a vantaggio personale e dei propri familiari, come ad esempio l'acquisto di autovetture di lusso, o l'estinzione di mutui ipotecari riferiti a immobili di proprietà dei genitori». Piazzolla, che era diventato amministratore unico della società Vissi D'Arte, che gestiva tutti i beni della Bersagliera, avrebbe utilizzato anche i conti correnti della donna, «avvantaggiandosi della capacità di poter soggiogare e alterare le intenzioni di quest'ultima», si legge in un'informativa della Finanza del 12 maggio 2020. Nel decreto viene anche sottolineato che la villa dell'attrice è già stata depredata, un furto «stranamente mai denunciato», sottolinea la pm, e quindi avvenuto «in circostanze misteriose». Alcuni beni della Lollo, infatti, erano stati trovati a casa uno straniero denunciato per furto in un altro procedimento. Il sospetto della procura, quindi, è che «il complesso dei beni sottratti alla Lollobrigida e posti in vendita potrebbe essere più consistente». Vengono poi citate informazioni confidenziali rese alla pg: in febbraio sarebbero stati asportati dalla casa dell'artista «una pluralità di beni mobili con la giustificazione di eseguire dei lavori ristrutturazione».

Live-Non è la D'Urso, il figlio di Gina Lollobrigida travolge l'ex factotum della madre: accuse pesantissime. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 25 maggio 2020. Dopo la grande esclusiva di Maria Pilar (la donna che avrebbe sostituito Gina Lollobrigida nel matrimonio con Rigau), ne arriva un’altra a Live-Non è la D'Urso, il programma condotto da Barbara D'Urso la domenica sera su Canale 5. Parla Andrea Pizzolla, il giovane factotum della Lollo, indagato per circonvenzione di incapace. Il figlio della Lollo, Milko Skofic, racconta in una deposizione di spese folli del giovane Piazzolla: auto di lusso e moto. Piazzolla si difende e poi parla dello sfratto di Dimitri Skofic (nipote della diva) dalla depandance della villa sull’Appia. “Lo sfratto è iniziato nel 2010 quando io non ero arrivato. Ho portato avanti quello che era già iniziato”, esordisce Piazzolla.  Si torna sulle nozze con Rigau. Pilar, la donna che avrebbe sposato per procura lo spagnolo, al Live aveva detto: “Gina mi ha chiesto di sposarmi al suo posto”. La Lollo continua a negare. Piazzolla pure. Rigau, però, è stato assolto perché il fatto non sussiste. Ma poi Piazzolla racconta il suo punto di vista: “Trent'anni di amicizia e una sola foto?" L’ex amministratore della Vissi d’arte si riferisce a Maria Pilar. Intanto, Rigau - in un servizio esclusivo - aveva mostrato la sua grande e fastosa casa in Spagna. Piena di foto con la Lollo. “Sono ricco non mi servono i soldi di Gina”, aveva concluso Rigau. La d’Urso chiude chiedendo a Piazzolla: “Come sta Gina?” E arriva la secca risposta: “Bene”.

Continua l'affaire Lollobrigida, a parlare è l'ex amministratore che prende le distanze. A Live non è la D'Urso, l'ex amministratore di Gina Lollobrigida Andrea Piazzolla, che racconta la sua verità, ma sul rapporto tra la Lollobrigida e la famiglia prende le distanze. Roberta Damiata, Lunedì 25/05/2020 su Il Giornale. Continua a tenere banco l’intricata vicenda che vede protagonista la grande diva Gina Lollobrigida e che coinvolge il suo attuale manager Andrea Piazzolla, ospite questa settimana a Live non è la D’Urso, accusato di “circonvenzione di incapace”, così come ricordato dalla presentatrice, e Javier Rigau marito della diva, accusato dalla Lollobrigida di averla sposata per procura a sua insaputa, e prosciolto, come mostrato dalla trasmissione “Un giorno in Pretura” di cui a Live si parla ormai da settimane. Dopo le dichiarazioni di Javier Rigau sulle nozze con Gina Lollobrigida, questa settimana è in collegamento Andrea Piazzolla, il manager di Gina, che parla del suo rapporto con la Lollobrigida e dice la sua sulle accuse mosse nelle scorse settimane da Javier Rigau che aveva anche portato come testimoniare la Signora Pilar che aveva raccontato di essere stata proprio la Lollobrigida ad organizzare il matrimonio. Ma prima di questo Barbara D’Urso vuole capire se è stato proprio lui, Piazzolla, come ha dichiarato nel processo, a far allontanare dalla dépandance il figlio e il nipote Milko. “Io non sono nessuno per entrare nelle loro dinamiche famigliari - racconta tranquillo Piazzolla - Lo sfratto? Io ho portato avanti un discorso iniziato precedentemente. Il matrimonio di Rigau non c’entra con lo sfratto”, specifica riferendosi al processo. “Io ho portato avanti una cosa iniziata due anni prima. Se c’era l’intenzione di fare lo sfratto, cosa vogliono da me?”. Si arriva poi alla parte del matrimonio e del fatto che Pilar la donna che ha sposato per procura Javier Rigau, abbia dichiarato che con Gina erano amiche: “Mi fanno sorridere queste cose - commenta l'ex amministratore della diva Andrea Piazzolla - come è possibile che in trenta anni di amicizia non ci sia una foto insieme di loro due. Io conosco Gina da molto meno tempo ma ho molte più foto di lei”. Vladimir Luxuria presente in studio racconta però che la sentenza esiste e ha assolto Rigau e che la sensazione di tutti che intorno alla figura della grande diva sia stata fatta un po’ di terra bruciata: “Anche un avvocato che precedentemente aveva fatto quello che sta facendo lei, è stato allontanato, si ricorda perché, visto che lo ha dichiarato durante il processo?” Piazzolla non lo ricorda ed è Vladimir Luxuria che risponde: “Glielo ricordo io, perché era Lesbica e si era innamorata di Gina ”. La cosa viene fermamente negata da Piazzolla che chiede di mostrare le immagini “E’ impossibile che io abbia detto questo - sono le sue parole, e continua raccontando: Proprio nel procedimento che mi vede imputato, sono venuti a testimoniare a favore da parte mia, persone che conoscono il rapporto tra me e Gina. Se lei decide di revocare un avvocato cosa c’entro io?”.Ma Barbara insiste soprattutto su un punto, cioè l’allontanamento del nipote dalla vita della Lollobrigida: “Vorremo capire cosa abbia fatto di tanto grave da essere mandato via?” chiede a Piazzolla. E Piazzolla, che ribadisce che sono cose che non riguardano lui, racconta però che quando Maria Grazia Fantasia ex moglie del figlio di Gina Lollobrigida Milko, quando si è separata, c’è stato un litigio che ha coinvolto tutta la famiglia, e mettendosi nei passi di Gina pensa che lei abbia ritenuto necessario fare le sue scelte. E chiude anche anche rispondendo alle accuse di Rigau, dicendo che ha molte carte in mano, che mostra, ma che di lui non vuole parlare. Sarà vero? La sensazione è che cosa di sicuro non finisce qui.

Roma, sequestrati cinquanta quadri dell'attrice Lollobrigida. Pubblicato venerdì, 15 maggio 2020 su La Repubblica.it da Maria Elena Vincenzi. Un sequestro lampo, cinquanta opere d’arte di Gina Lollobrigida che erano pronte ad essere battute all’asta la prossima settimana. Il pubblico ministero Laura Condemi ha dato mandato ai finanzieri del nucleo di polizia economico finanziaria di sequestrare un patrimonio artistico del valore di circa 300 mila euro “essendo assai probabile che soggetti allo stato non compiutamente identificati abbiano, abusando di relazioni fiduciarie, amicali, di coabitazione e/o di altra natura e avvantaggiandosi dello stato di vulnerabilità della Lollobrigida, indotto quest’ultima a privarsi di beni immobili di valore tentando di metterli in vendita”. L’attrice, classe 1927, è stata dichiarata incapace ed è in corso il processo per Andrea Piazzolla, suo badante tuttofare, con l’accusa di circonvenzione di incapace: per la procura dal 2013 avrebbe sottratto alla star del cinema beni per circa 3 milioni di euro. Il patrimonio dell’artista viene gestito da un amministratore di sostegno, Stefano Agamennone. E’ stato proprio quest’ultimo, l’11 maggio, a denunciare che diversi pezzi erano spariti dalla casa della Lollo. Non è la prima volta. Scrive il pm nel decreto di sequestro, eseguito ieri pomeriggio, che “la villa della nota attrice risulta essere stata già oggetto di depredazione (e stranamente mai denunciata) e quindi avvenuta in circostanze misteriose, in quanto alcuni beni sono stati rinvenuti dalla polizia di Stato nella disponibilità di uno straniero, Mihai Cozma, denunciato per furto in abitazione nell’ambito di altro procedimento e che dunque il complesso dei bani sottratti alla Lollobrigida e posti in vendita presso la stessa o altra casa d’aste, potrebbe dunque essere più consistente, anche in considerazione del fatto che, secondo informazioni confidenziali rese alla polizia giudiziaria, “nel corso del mese di febbraio 2020, sarebbero stati asportati dalla casa dell’artista verso un magazzino non meglio identificato, una pluralità di beni mobili utilizzando quale giustificazione la necessità di eseguire dei lavori di ristrutturazione””. Insomma, questa volta, il patrimonio della Lollo è salvo. Cinquanta pezzi, tra opere d’arte, quadri, mobili e complementi di arredo sono finiti sotto chiave.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 15 maggio 2020. L'amministratore di sostegno di Gina Lollobrigida è stato autorizzato a prelevare dalla sua abitazione «gioielli, quadri, mobili, lampadari, affinché vengano riposti in un caveau». È un nuovo capitolo della battaglia giudiziaria che impegna il figlio della Lollobrigida contro il suo manager Andrea Piazzolla, quest'ultimo indagato per circonvenzione di incapace. «Hanno deciso di farmi morire in modo ignobile», ha affermato l'attrice. In realtà il giudice tutelare si è mosso perché, nei giorni scorsi, alcuni dei preziosi arredi della casa dell'ex attrice erano finiti misteriosamente all'asta. Insomma qualcuno, ad insaputa della Lollobrigida, li avrebbe sottratti e avrebbe cercato di piazzarli. «Il giudice ha agito per tutelare il patrimonio della Lollobrigida», ha spiegato l'avvocato Alessandro Gentiloni, legale dei familiari dell'ex stella del cinema. La notizia è stata diffusa ieri dall' ufficio stampa della Lollo: «La signora Gina Lollobrigida ha appreso che su richiesta dell'amministratore di sostegno ed a sua insaputa, è stato emesso tale provvedimento dal giudice. Si tratta di una iniziativa assurda che la priva della possibilità di godere dei beni che da sempre arredano la casa, costringendola a vivere nella sua abitazione, in una inevitabile condizione di precarietà e disagio. La priva dei suoi ricordi, degli oggetti che l'hanno accompagnata nel corso della sua vita». Il Tribunale aveva ufficialmente definito Gina Lollobrigida, nel dicembre scorso, «non più autonoma» e per questo il giudice aveva nominato un amministratore di sostegno che si occupasse della gestione societaria e del patrimonio immobiliare della diva immortale di Pane amore e fantasia. La lunga storia giudiziaria dell'attrice 92enne parte da lontano, dal mistero del matrimonio per procura (poi annullato dalla Sacra Rota, ndr) con Javier Rigau e dalla vicinanza del giovane 32enne assistente Andrea Piazzolla che la Lollo continua a volere al suo fianco anche dopo la decisione del tribunale di rinviarlo a giudizio per circonvenzione di incapace. Secondo la psichiatra intervenuta presso la Procura nel valutare il caso, «Gina Lollobrigida attraverserebbe momenti di autentico disorientamento spazio temporale per lo più innestati da tematiche persecutorie».

Da adnkronos.com il 6 maggio 2020. “Oggi viviamo  in una società dove l'importante è arrivare primi. Non ci interessa a chi si fa male, non ci interessa chi si distrugge, non ci interessa che sia vero. Fa vendere? Scrivi pure, chi se ne frega. Ma io a questi giochetti non ci sono mai stata e mai ci starò. La verità sempre". Lo dice all’Adnkronos Gina Lollobrigida smentendo “categoricamente”, assieme all’imprenditore e suo assistente personale Andrea Piazzolla, che la puntata Lollobrigida di Un giorno in pretura andata in onda domenica 3 maggio sia stata tolta dal sito di Raiplay per “presunte minacce all'azienda. Come ha anche dichiarato l'ufficio stampa di Rai 3 – sottolineano Lollobrigida e Piazzolla - l'azienda non ha i diritti per pubblicare la puntata sul sito Raiplay, sebbene lo abbia fatto erroneamente in un primo tempo”. “Non è nella mia indole minacciare nessuno – scandisce Gina Lollobrigida - figuriamoci la Rai con la quale ho un ottimo rapporto e tanto più per una trasmissione che mi ha visto protagonista".  

COMUNICATO STAMPA: Milko Skofic, Dimitri Skofic e Javier Rigau manifestano sorpresa ed indignazione per l’improvvisa scomparsa dal sito Raiplay, dopo un giorno e mezzo di fruibilità, della porzione di puntata della trasmissione ‘Un giorno in Pretura’ del 3 maggio 2020 dedicata al procedimento penale in cui il sig. Rigau era imputato di truffa in danno di Gina Lollobrigida, conclusosi con l’assoluzione dello stesso con formula piena, sentenza ora passata in giudicato. In relazione ad alcune indiscrezioni secondo cui Rai S.p.a. avrebbe giustificato tale rimozione con la mancanza di “diritti” di pubblicazione della puntata sul sito di Raiplay, gli stessi, che hanno partecipato al processo in questione né più né meno della sig.ra Lollobrigida, fanno presente di non essere mai stati nemmeno contattati per “cedere diritti” o altrimenti consentire alla pubblicazione della puntata sul sito, trattandosi peraltro di un pubblico dibattimento penale ripreso con la rituale autorizzazione del Tribunale. Inoltre, poiché la sig.ra Lollobrigida è assistita, come noto, da un amministratore di sostegno nominato dal Tribunale Civile di Roma già dal gennaio 2019, non si comprende come tali discussioni sui “diritti” di sfruttamento dell’immagine della signora possano essere state condotte direttamente con la stessa, o con terzi diversi dall’amministratore di sostegno. Poiché non risulta che Rai S.p.a., concessionaria del pubblico servizio radiotelevisivo, abbia sino ad oggi reso note le ragioni di tale comportamento, è stato conferito mandato agli avvocati dello Studio Gentiloni Silveri di adottare nei confronti di Rai S.p.a. ogni opportuna iniziativa per far luce sull’episodio – anche nell’ottica di verificare la ricostruzione giornalistica per cui la rimozione del filmato si debba ad iniziative della sig.ra Lollobrigida oppure del sig. Andrea Piazzolla – e, se del caso, tutelare i propri diritti.

Flavia Amabile per “la Stampa” il 3 febbraio 2020. L'uomo della mia vita? «Due fratelli, russi», risponde la donna più bella del mondo, una signora di 92 anni che ha vinto centinaia di premi, ha fatto innamorare un numero indefinito di potenti e meno potenti della Terra, vissuto amori con i grandi nomi del cinema mondiale come i due fratelli russi. La donna più bella del mondo è Gina Lollobrigida, attrice, fotografa, artista. Lo è stata davvero, non solo come protagonista di un film di successo con questo titolo, ma la sua bellezza non è stata un aiuto. «Il contrario. Mi dicevano sempre: sì, è bella, ma che altro vuole?», sorride. Nella sua villa sull'Appia Antica le luci di Natale sono ancora accese a illuminare il grande parco anche se è quasi fine gennaio. L' attrice racconta dello stupro subito a diciotto anni. Era il suo primo fidanzato, fu il primo a ingannarla. Ricorda la scelta di sposarsi per superare il trauma anche se non era innamorata, la lunga attesa fino al 1971 prima di poter divorziare, e dopo tanti amori: alcuni famosi, altri meno. E in una vita così piena forse è anche normale che l' uomo della sua vita non fosse uno soltanto. «L' uomo della vita? Curiosamente, sono stati due russi, fratelli. Ero innamorata del più anziano ma sono state due storie molto belle. Il fratello grande era anche scrittore». Solo a questo punto del racconto pronuncia il suo nome: Andrej Konchalovsky, regista, tre volte vincitore del Leone d' argento a Venezia dove è andato anche quest' anno per portare il suo ultimo film: Il peccato. Il furore di Michelangelo. Regista, sceneggiatore, scrittore, una lunga carriera tra cinema e teatro e una profonda cultura molto evidente in ogni sua opera, è stato proprio questo che ha affascinato Gina Lollobrigida. «Ho sempre scelto persone che avevano qualcosa nella zucca. Dovevamo sposarci poi ci ha ripensato, e che je vai a di? Gli puoi dire non lo fare? Ovviamente no, e allora sono andata con il fratellino per rabbia. E il fratellino era titubante perché pensava a una vendetta. Invece no, era un personaggio simpatico. Non aveva la testa del fratello ma quando andò negli Stati Uniti ebbe quasi più successo». L' incontro con Andrej Konchalovsky risale agli anni Novanta. «Un giorno era in Italia per lavoro - racconta l' attrice -. È venuto a casa, quasi non chiedeva nemmeno il permesso, era già entrato. Aveva già tutto in testa ed era un uomo molto affascinante». Con qualche stranezza, aggiunge Gina Lollobrigida: «Ogni tanto si sposava con una donna, poi arrivava qui per riprendere l' amore con me ma in viaggio portava anche la moglie. La lasciava in albergo e veniva da me. Questi sono gli uomini. Avremmo dovuto fare anche un film insieme. Per me era la cosa più importante, ma pure quello è andato per aria e allora ho detto: ma vai all' inferno!». E' stato a quel punto che ha pensato di consolarsi con quello che lei chiama «il fratellino» e che il mondo intero conosce come Nikita Mikhalkov, attore, regista, autore di capolavori come Oci Ciornie. «Io viaggiavo - racconta - e il fratellino era venuto in India dove mi aveva invitato Indira Gandhi. La troupe russa proteggeva la verginità di questo poveraccio in una maniera ridicola. Non ho avuto mai tanti nemici che mi rovinavano la mia normale vita sentimentale come i Russi». Lo stesso capitava in Russia durante gli incontri con Konchalovsky: «Negli alberghi a ogni piano c' era la donna messa di guardia per non far passare le persone. Chiaramente Konchalovsky se ne fregava: se voleva venire in camera mia ci veniva». Quanto è durata?« Diciamo che è stata una storia sentita. Molto. Sono state due belle storie e io non sono stata cattiva, non volevo creare problemi tra i due fratelli, non valeva la pena, erano due tipi diversi. Il grande aveva questo desiderio di sposarmi poi gli è capitato un film e si è dimenticato del matrimonio. E io non è che lasciavo il fratellino così...». E che film era? «Non mi ricordo ma fece un film che, tutto sommato... il film poteva pure aspettare»!

Javier Rigau: "Gina Lollobrigida mi chiese di sposarla. Siamo fidanzati da quando io avevo 15 anni". Si ritorna a parlare di Gina Lollobrigida e del suo matrimonio con l'imprenditore spagnolo Javier Rigau. Javier ci racconta la sua storia con la diva durata 40 anni e iniziata quando lui ne aveva solo 15. Roberta Damiata, Giovedì 07/05/2020 su Il Giornale. “I soldi sono miei e ci faccio quello che voglio”. queste le parole di Gina Lollobrigida con cui rispondeva alle domande di Mara Venier sulla gestione del suo patrimonio. Lei, una delle icone del cinema italiano nel mondo, è al centro tutt’oggi dell’intricata storia che mescola gossip a vicende giudiziarie e che ormai da anni la vede protagonista delle cronache. Ora però le carte vengono rimescolate di nuovo perché la sentenza della corte d’Appello di Roma ha respinto il ricorso che Gina Lollobrigida aveva presentato contro l’istituzione di un tutore, stabilita in precedenza dallo stesso tribunale su richiesta esplicita del figlio Milko Scofic e del nipote Dimitri Scofic. Questa decisione, presa dai giudici Gisella Dedato, Paolo Russo e Elisabetta Pierazzi della sezione della persona e della famiglia, si basa sulla consulenza di un’esperta che dopo vari colloqui privati con la Lollobrigida, seppur trovandola lucida per quanto riguarda la sua vita, presenta momenti di disorientamento spazio temporale innestati da tematiche persecutorie. Nella sentenza, viene spiegato molto chiaramente che l’attrice, che tra poco compirà 93 anni, "offre a se stessa e agli altri 'l’illusione' di avere il pieno dominio della sua vita e dei suoi affari, quando invece la percezione della realtà che la circonda è approssimata e i suoi giudizi superficiali. E’ risultata confusa soprattutto sulle domande che riguardano i suoi beni, non conoscendone né l’entità né chi ne sta curando la gestione". Questo viene scritto. In questa sentenza è stato inoltre chiesto l’allontanamento, sia dalla casa che dall’amministrazione del patrimonio, di Andrea Piazzolla, già imputato per circonvenzione d’incapace, suo assistente tuttofare da cui l’attrice risulta essere totalmente dipendente. Per capire come si è arrivati a questo punto, è però necessario fare un passo indietro e ricostruire tutta la vicenda che somiglia più ad un best seller internazionale che ad una storia reale. Per farlo, abbiamo incontrato il marito di Gina Lollobrigida, il ricco imprenditore spagnolo Javier Rigau, che con la diva ha condiviso gran parte della sua vita, “Almeno l’ottanta percento”, precisa lui durante la nostra intervista. Anche Javier è al centro dell’intricata vicenda soprattutto per quanto riportato recentemente dalla puntata di “Un giorno in pretura”, dove Gina Lollobrigida ha avuto un lungo interrogatorio, per stabilire se il matrimonio con Rigau (la loro storia insieme è durata oltre 40 anni) fosse stato concordato o meno con lei. Un nocciolo che vede Gina confermare che non c’è stata volontà di sposarlo, mentre carte alla mano, intervista e documenti da parte di Rigau, dicono esattamente il contrario. Ma, come dicevamo sopra, è importante capire sin dall’inizio tutta la vicenda.

Sig. Rigau, la sentenza sull’Amministrazione Controllata, non lascia dubbi: Gina Lollobrigida, pur essendo lucida, non è in grado di gestire il suo patrimonio...

“Sì, esattamente, e proprio per questo motivo il figlio Milko Scofic, con cui io sono costantemente in contatto, ha fatto richiesta di questa ‘Amministrazione di sostegno’, perché già da molto tempo a Gina è stata diagnosticato un quadro di personalità paranoide, dai tratti ossessivo-compulsivi, che non la rendono idonea a provvedere da sola alla gestione del suo patrimonio. Bisogna tenere conto anche dell’età avanzata e della difficoltà a fronteggiare le incombenze connaturate alle società costituite per la gestione dei suoi beni. Con questa sentenza, viene rigettato il reclamo fatto da Gina stessa a febbraio, di revocare l’amministrazione controlla. Questo è un fatto estremamente importante da comprendere, perché spesso quando la gente la vede nelle trasmissioni o la sente parlare pensa che lei sia presente a sé stessa, ma non è così. Gina non ha qualche patologia neurologica, ma è influenzabile, e da quando Andrea Piazzolla e la sua famiglia sono entrati nella sua vita, l’hanno plagiata tanto da farle allontanare tutte le persone a lei vicine con l’unico scopo di impossessarsi dei suoi beni”.

Quando ha conosciuto la Signora Lollobrigida?

“Durante una festa a Monaco insieme alla mia famiglia. Gina ha raccontato spesso del nostro incontro omettendo solo il particolare della mia età: io avevo 15 anni”.

Cosa è successo in quell’incontro?

“Abbiamo parlato a lungo, Gina era molto simpatica e quella notte tra noi due è successo qualcosa”.

Lei sta dicendo che Gina Lollobrigida ha avuto un rapporto con un minorenne?

“Certo, e nessuno mi ha mai denunciato per questa affermazione, che se non fosse vera sarebbe diffamante. Nessuno ha detto che la mia età non era quella. Questo è molto importante perché quando abbiamo spostato il nostro matrimonio da New York a Roma nella chiesa dell’Ara Coeli, lo abbiamo fatto, perché in Spagna alcuni giornali hanno cominciato a far uscire la notizia che Gina aveva sedotto un minorenne. La chiamai dicendole che dovevamo fermare le nozze, perché se questa notizia fosse uscita, avrebbe creato molto scalpore. Non volevo che la mia famiglia venisse a conoscenza della verità in quel modo. A sostegno di quello che sto dicendo c’è il comunicato del nostro avvocato dell’epoca, che diceva che ero stato io a cancellare il matrimonio senza aver rispettato il volere di Gina e questa notizia è stata riportata da tutti i giornali dell’epoca. Il Corriere della Sera dell’epoca fece un titolo ad effetto: 'La Lollo piantata all’altare dal baby fidanzato'. Ora, la famiglia Piazzolla sostiene, e fa dire a Gina, che è stata lei a cancellarlo, come si è potuto vedere anche nella puntata di ‘Un giorno in Pretura'".

In questo momento, però, è lei che lo sta rivelando e confermando, Gina non lo ha mai detto...

“C’è una motivazione importante sul perché lo sto facendo. Quando sono stato denunciato da Gina con l’accusa di averla sposata a sua insaputa, processo da cui, ci tengo a sottolinearlo, sono stato scagionato con formula piena sia in Italia che in Spagna, chiamai a testimoniare in mio favore Milko e l’avvocato spagnolo di Gina. Andrea Piazzolla, che era presente, mi ha minacciato di cose gravissime, dicendo che loro, e con questo ‘loro’ intendeva tutta la sua famiglia, avevano accesso a tutti i documenti riservati di Gina. In uno di questi del 2011, Gina mi aveva fatto firmare una carta in cui io mi ero impegnato a non rivelare mai, tranne per giusta causa, la vera età che avevo quando ho iniziato il rapporto con lei. Lo sto dicendo, per togliere anche questa possibilità dalle mani della famiglia Piazzola che voleva usarlo come ricatto. Quando Gina aveva rapporti con me, io ero minorenne, la legge spagnola lo permetteva. Entrambi eravamo consenzienti e consapevoli. Gina non ha fatto nessuna cosa illegale. Era un rapporto tra noi due. Piazzolla mi ha minacciato davanti a Milko di divulgare questo documento alla stampa, ma non può più farlo, perché sono io ora che sto raccontando la verità. Aggiungo inoltre che nella sentenza dove sono stato completamente assolto, viene sottolineato il fatto che Andrea Piazzolla non è una persona affidabile e che Gina essendo sotto il suo controllo ha mentito”.

Tornando alla vostra età, lei aveva 15 anni e la Signora Lollobrigida?

“Quarantotto. Da quel momento in poi non ci siamo più lasciati. Lei racconta spesso di questo incontro, parlando però solo di attrazione fisica, e questa è una cosa che da sempre mi ha fatto rimanere molto male”.

Perché?

“Tra noi fin dall’inizio c’è sempre stato un sentimento. Lei veniva spesso a trovarmi in Spagna. Un autista, che si chiamava Jaime, la prendeva all'aeroporto con una vecchissima Alfa Romeo grigia e la portava nella villa estiva di mio nonno a 30 chilometri da Barcellona. Una villa enorme in stile italiano dove c'erano Firenzio il giardiniere, Rosa la cameriera, e Giulia la mia tata che era al corrente di tutto. La mia famiglia, ovviamente, non sapeva niente. Mio padre e mia madre, che hanno avuto una vita sociale molto intensa, erano sempre in viaggio, e pensavano che Gina, che conoscevano bene, fosse semplicemente gentile con me. A volte mio padre mi chiedeva perché lei chiamasse così spesso a casa, visto che all’epoca non c’erano i cellulari, ma mia madre rispondeva che lei era solo molto carina e affezionata a me”.

Chi sapeva di voi oltre ai domestici della villa?

“Quando a 19 anni ho cominciato a viaggiare, andavo io a Roma a casa di Gina, dove c'era Maria la governante di fiducia che lavorava da lei ancora prima che io nascessi, quindi tutti sapevano che avevamo un rapporto sia sentimentale che sessuale. Su Maria vorrei soffermarmi, perché se fosse ancora viva, Piazzolla non sarebbe mai entrato nella vita di Gina. Lei la proteggeva come una sorella. E’ giusto che io faccia un ricordo di lei per tutto quello che ha fatto per Gina”.

Quando ha conosciuto la famiglia di Gina, ovvero il figlio Milko, e il nipote Dimitri?

“Con Milko abbiamo cominciato ad essere amici negli anni '80 lui era ancora uno studente. Sono stato testimone di tutta la sua vita e del rapporto che aveva con sua madre. Per questo posso dire con certezza che le dichiarazioni che Gina ha rilasciato circa il suo cattivo rapporto con il figlio non sono vere. Dimitri il nipote, l’ho conosciuto ancor prima che nascesse, ricordo che Gina mi metteva la mano sulla pancia della mamma quando era incinta”.

Che tipo di rapporto aveva Gina con il figlio?

“Un rapporto da mamma italiana, controllava tutto della sua vita. Le sue fidanzate, con chi usciva, addirittura aveva scelto per lui una ragazza spagnola che voleva che sposasse. Ma quando lui decise di sposarsi con la ragazza di cui lui era innamorato, e non con quella che le aveva scelto la madre, scoppiò una bomba, e questa è stata la vera ragione per cui Gina non è andata al matrimonio del figlio. Ci tengo a specificarlo, perché ora la famiglia Piazzola, utilizza queste informazioni per dimostrare che già negli anni ’90, Gina e Milko non andavano d'accordo, ma non è così”.

Milko sapeva che lei e sua mamma avevate una relazione?

"Sì, lui lo sapeva, ma è sempre stato un tipo molto discreto, e io lo ringrazierò per tutta la vita per il modo in cui mi ha trattato, e come mi ha accolta fin dalla prima volta che mi ha visto. Perché devo dire la verità, se mia madre mi avesse presentato un fidanzato di 34 anni più giovane, la mia reazione non sarebbe stata come quella che ha avuto Milko nei miei confronti”.

Da quando lei aveva 15 anni a quando ha iniziato a viaggiare a 19, avete avuto altre relazioni o la vostra era "esclusiva"?

“Quando io avevo 22 anni, Gina mi disse che voleva chiudere il rapporto con l'altro suo compagno, di cui non posso fare il nome. 'Sono sola, e sto soltanto con te', furono le sue parole. Lì ho capito che anche lei voleva che facessi la stessa cosa, così da quel momento siamo diventati una coppia ufficiale. Milko mi ha accettato perché Gina le diceva spesso che io la rendevo felice, e lui la vedeva felice”.

Come era Gina con lei?

“Ha sempre avuto un ego enorme, ma quando era a casa, in famiglia, era un'altra persona. Una donna tranquilla che si preoccupava del suo orto, delle galline, con una grande passione per il cucito. Era sempre nel tinello di casa a cucire insieme a Maria e a sua figlia Patrizia, sembrava un convento di religiose e io le prendevo spesso in giro per questo. Mangiavamo sempre nella piccola sala da pranzo, Maria cucinava spesso pasta e visto che Gina non voleva ingrassare, si alzava da tavola, apriva la finestra e la buttava fuori per i pavoni che vivevano nella villa. Eravamo così innamorati, mi mancava così tanto quando ero in Spagna e io mancavo tanto a lei. Stavamo sempre al telefono aspettando il momento di vederci a Roma. Quando ho compiuto 27 anni, e ho avuto i miei soldi, ho comprato una bellissima villa al mare. Lei veniva a trovarmi spessissimo, anche se non le piaceva il mare perché da piccola aveva avuto un incidente. Per questo motivo mi indigno quando vedo che Piazzolla la porta al mare e la fa stare su un lettino, mi sembra una crudeltà sapendo come è fatta lei”.

Perché non siete andati a vivere insieme?

"A quell'epoca io avevo finito gli studi da avvocato, ma avevo iniziato quelli per diventare notaio, anche se avendo una fidanzata come Gina era una cosa complicata, perché ero quasi sempre a Roma da lei e in viaggio per il mondo. Quando è morto mio nonno in un incidente di macchina, ho poi lasciato temporaneamente gli studi, ma avevo già 27 anni e Gina andò a vivere per un po’ a Firenze e in seguito a Pietrasanta in una casa modestissima, e quindi non ho più ripreso gli studi da notaio. Dico questo per far capire la sua personalità. Quando lei viaggiava da sola, era una molto parsimoniosa, non amava buttare i soldi. Non lo sto dicendo con cattiveria, perché Milko, suo figlio, dice lo stesso. Gina per dirla tutta, era tirchia da morire, non spendeva una lira, per questo quando vedo che la portano in vacanza in posti costosi, o comprano delle macchine, con la scusa di portarla in giro, so che non è la sua volontà, perché conosco bene il rapporto che Gina aveva con il denaro. Tornando alla domanda, abbiamo vissuto insieme ma non in maniera continuativa, lei veniva in estate a casa mia al mare e poi tornava a Roma. Andavamo insieme a Montecarlo e ritornava a Roma, era fatta così. Sia io che lei abbiamo due caratteri molto forti, e penso che se il nostro rapporto è durato più di quarant’anni, è stato proprio per questo, altrimenti la nostra storia sarebbe finita molto prima”.

Chi dei due ha cominciato a parlare di matrimonio e quando?

"Ricordo perfettamente quando, nel '98”.

Chi ha voluto sposarsi lei o Gina?

“Questa stessa domanda è stata fatta a Gina in tribunale quando mi denunciò per averla sposata a sua insaputa, (la puntata vista in Un giorno in Pretura) e lei rispose: Non mi ricordo. Io invece lo ricordo molto bene che fu lei a dirmi di sposarci e se ho detto di sì è perché l’ho voluto fortemente. Quindi, se sono arrivato a rimandare le nozze è stato solo perché non volevo che la stampa cominciasse ad attaccarla sul fatto che quando ci siamo conosciuti io ero minorenne. Gina per questo motivo non mi ha parlato per quattro mesi, anche se persone vicino a lei mi chiamavano dicendo che era tristissima, e subito dopo che le avevo detto che non l’avrei sposata lei ha avuto immediatamente problemi alle coronarie e fu ricoverata e operata. Così facemmo pace, mi sentivo responsabile di quello che era successo”.

Come siete arrivati poi a decidere di sposarvi per procura?

“Eravamo nella casa di Pietrasanta. Gina mi disse: ‘Javier, trovi normale che noi abbiamo annullato il nostro matrimonio per colpa di una piccola parte della stampa scandalistica?’ Pensai che aveva ragione ma le dissi che non avrei mai sopportato uno scandalo. Lei mi rispose che forse aveva trovato il modo per sposarci ed evitare tutto questo. Passarono un paio di mesi, e quando ci siamo rivisti, mi disse che aveva trovato il modo per farlo. Qui torno indietro, per spiegare. Gina non amava molto Sophia Loren, anzi, a volte diceva di lei cose un po' colorite che non sarebbe carino ripetere. In ogni caso mi disse: Lei si è sposata con Carlo Ponti, per procura nel '57- io ovviamente non avevo idea e non lo sapevo e lei continuò-. Possiamo sposarci anche noi per procura. Mi sembrò una buona idea, anche perché in questo modo la cosa poteva rimanere segreta”.

Dove si è svolto questo matrimonio per procura?

“E’ stato firmato a Barcellona, con una sentenza spagnola e italiana senza possibilità di appello e la cosa è stata preparata tutta da Gina nel 2010, insieme al suo avvocato italiano, un secondo avvocato spagnolo e il notaio. Lei si recò personalmente con il suo avvocato italiano per due giorni a Barcellona e il notaio andò nell’albergo dove alloggiavano, il “Principessa Sofia”, per farle firmare la procura speciale per sposarsi con me. Anche in quell’occasione, come la precedente a Monaco nel 2001 dove avevamo parlato anche con il Principe Ranieri, Gina voleva sposarsi il 29 di novembre una data molto importante per lei”.

Novembre è un mese insolito per sposarsi, cosa rappresentava quella data?

“Lei mi ha raccontato che quando aveva iniziato la relazione con me era rimasta incinta e che il 29 novembre era il giorno in cui il dottore le aveva dato la notizia. Io gli ho creduto, anche se molta gente a cui lei lo ha raccontato, e che può testimoniare, è sicura che lei lo abbia detto per tenermi vicino. A febbraio, mi disse poi di aver perso il bambino. Io non ho le prove, non so se sia vero o meno, ma lei lo ha comunque raccontato a molta gente”.

Gina Lollobrigida era rimasta incinta quando lei era ancora minorenne?

“Sì, sicuramente prima che io compissi i 18 anni”.

Ricapitoliamo un attimo: prima di esservi sposati per procura quante volte avevate organizzato il matrimonio?

“La prima volta a Monaco nel 2001, Gina mi disse di parlare con la mia famiglia, ma mia madre rimase talmente male che lei stessa stessa mi disse che era meglio rimandare. La seconda volta nel 2006 dovevamo sposarci a New York. Avevamo invitato Liz Taylor, Liza Minnelli e Lauren Bacaal doveva farci da testimone. Il ricevimento era stato organizzato da Cipriani al Rockfeller Center, ma fu rimandato per problemi di organizzazione. Infine la terza volta a Roma nel 2007 nella chiesa dell’Ara Coeli con ricevimento a Villa Miani. Quella volta, però, fui io a rimandare tutto perché, come ho già detto, erano iniziate a circolare voci del fatto che ci eravamo ‘conosciuti’ quando io ero minorenne. Su questa cosa vorrei fare un ulteriore chiarimento".

Prego...

“Nel 2014 Milko ha iniziato da solo un processo affinché si affiancasse a sua madre Gina Lollobrigida, un amministratore di sostegno. Lo ha fatto per proteggerla. A questo Gina ha risposto chiedendo che venisse revocata. C’è scritto: La signora Lollobrigida chiede a suo figlio, che è il demandante Milko Skofic, di ritirarsi dal processo a fronte dell'amministrazione della società. E la risposta è stata: Il figlio manifesta davanti al giudice la volontà di non dar seguito al processo. In poche parole se il figlio avesse revocato l’amministrazione di sostegno, lei avrebbe fatto lui amministratore, e il figlio accettò. Il giudice archiviò la pratica per questo non esiste sentenza. Quando Gina tornò a casa, sotto l’influenza del Piazzolla chiamò un quotidiano dicendo di aver vinto contro suo figlio e che il giudice aveva emesso una sentenza a suo totale favore, giudicandola totalmente capace di gestire il suo patrimonio. La notizia venne pubblicata e ripresa in tutto il mondo, e Milko a seguito di questo, entrò in depressione. Questo per dire che anche la storia del Vaticano che viene sbandierata come “annullamento del matrimonio” in realtà è un’altra frottola. A novembre 2019 io sono stato al Vaticano, mi ha ricevuto il Capo della Cancelleria, dott. Daniele Cancija, questa persona mi ha detto per ben due volte, 'lei deve stare tranquillo, perché la Sacra Rota ha respinto tutte le richieste di annullamento di Gina Lollobrigida, e non ha accolto nessuno dei suoi argomenti'. La stessa cosa che aveva già fatto la giustizia Spagnola e quella Italiana. Per cui il suo matrimonio è valido dal momento che è stato celebrato il 29 novembre del 2010 fino al 19 gennaio 2020 quando è stato sciolto con dispensa papale”.

Si ricorda la prima volta che ha incontrato Andrea Piazzolla?

a prima volta nel 2009 quando era appena arrivato nella villa. Era una persona molto magra che non camminava bene, era venuto per aiutare a montare una mostra al palazzo delle esposizioni. Nel piano inferiore c’era una mostra i gioielli di Bulgari, che questa gente ha poi venduto. Mi ricordo bene che quando parlava con Gina era talmente accondiscendente che sembrava quasi genuflettersi. Poi non l’ho più visto, se non nel 2010 ma sempre come aiutante che non viveva nella villa. Era nel parcheggio che si occupava di pulire gli escrementi dei pavoni. Non aveva un soldo, addirittura veniva alla villa a piedi perché non poteva permettersi neanche il biglietto dell’autobus. Era in miseria totale e questa non è una cosa che dico con disprezzo, perché io ammiro molto la gente umile che raggiunge il benessere, ma lavorando non rubando”.

Quando si è reso conto che Andrea Piazzolla, secondo quanto lei sta raccontando, stava diventando pericoloso?

“Sono stato informato da persone che frequentavano la villa perché quando andavo a trovare Gina lui non c’era. Ad esempio da Carlo Giusti, che le faceva da manager da più di trent’anni. Questo Carlo mi raccontava che secondo lui Andrea Piazzolla, quando c’eravamo noi, spariva perché sapeva bene che ci saremmo accorti dei suoi movimenti e quindi si defilava. Ovviamente anche lui è stato allontanato dalla vita di Gina, visto che attualmente Andrea Piazzolla si è nominato manager di Gina”.

Milko, il figlio di Gina Lollobrigida, si era invece accorto di questi "movimenti"? Aveva mai rivelato dei timori?

“Sì, anche se la prima ad accorgersene, che è poi diventata la prima vittima ad essere fatta fuori, è stata l’avvocato Giulia Citani, con l’accusa di essere omosessuale, e di essersi innamorata di Gina”.

Ma come è riuscito questo Andrea Piazzolla ad entrare nella mente di Gina e, secondo quanto rivelano le perizie mediche, a plagiarla?

“All’inizio paventava conoscenze importanti, sceicchi, ricchi imprenditori, che diceva volevano far fare affari a Gina, che in realtà non arrivavano mai e non si sono mai conclusi. Ma Gina si era stancata di queste cose, allora lui ha cominciato ad inventarsi delle malattie. Diceva che aveva problemi al cuore, che non riusciva a respirare, che aveva una malattia rara che le dava al massimo due anni di vita, e di questa cosa possono confermarlo tantissime persone. Gina spesso piangeva sentendolo raccontare dei suoi mali e proprio in quel momento, loro (Piazzolla e la sua famiglia, ndr) hanno cominciato ad insinuarsi nella sua casa e nella sua vita. Ovviamente lui di salute stava benissimo”.

Gina nella casa era circondata da molte persone, in quale modo sono state allontanate?

“Alcune di loro, come il giardiniere Roberto o Giulio Barbieri che era una persona di fiducia che spesso accompagnava Gina a Montecarlo per incontrarci, oppure Maria la sua fidata domestica dal 1958 al 2005 sono poi morte. Nel 2011 è stata mandata via l’avvocato Giulia Citani, accusata, come dicevo poco fa, di essere innamorata di lei, anche se la motivazione dell’allontanamento è stata quella che fosse una spia. Anche il nuovo giardiniere, che aveva sostituito Roberto, era stato licenziato con l’accusa di essere una spia e con la stessa accusa, anche la signora che faceva le scansioni per le foto di Gina. Una cosa interessante è che il figlio di questa signora ha introdotto Andrea Piazzolla in casa di Gina, e quando Piazzolla si è insediato a casa, ha mandato via la mamma e anche lui. In ultimo Giorgio Bonini che faceva parte di alcune società Italiane di Gina. Gina inoltre aveva sempre avuto in casa una donna che dormiva con lei, che le cucinava, perché odiava farlo, e che gestiva la casa. Dopo la morte di Maria avevamo provato con molte altre, fino a che non abbiamo trovato una signora che si chiamava Alma che è poi rimasta con lei per tanti anni. Questa signora mi chiamava spesso di nascosto dicendomi di tornare urgentemente a Roma: ‘La signora non è più la stessa, non comanda più a casa sua, è diventata come un cagnolino. Piazzolla fa paura, continua a chiedere alla signora soldi. Lei le dà banconote da 500 euro per mettere benzina alla macchina e non porta mai il resto. La signora è completamente passiva’. La stessa cosa me la diceva anche l’avvocato Giulia Citani, prima di essere allontanata, e anche Milko. Però quando io parlavo con Gina per chiederle spiegazioni mi diceva di stare tranquillo perché queste erano persone che la adoravano e vivevano per lei. L’ultima volta che sono stato a casa di Gina è stato pochi giorni prima di Natale del 2012, perché poi nel 2013 sono stato denunciato, in quel momento sia al figlio che al nipote era stato chiuso l’accesso alla casa”.

Allontanati dalla loro casa?

“Loro vivevano in una piccola dependance separata soltanto da un pezzo di giardino ed era stato montato un cancello dai Piazzolla che impediva questo passaggio. Io avevo detto a Milko di buttarlo giù ma lui non lo ha mai fatto, non ha questo tipo di carattere. In questo modo Gina è stata allontanata anche fisicamente dal figlio e dal nipote. Nonostante questo però nel 2009/10, Gina aveva fatto un trust (uno strumento di tutela del patrimonio familiare, ndr) per dimostrare che il rapporto con la famiglia era ancora buono. Nel 2011 con una scrittura privata firmai come marito affinché tutti i beni di Gina fossero spostati in questo trust fatto unicamente per essere usato da Gina in vita, e poi alla sua morte andare ai suoi eredi, quindi il figlio Milko, e alla sua discendenza, ovvero il nipote Dimitri. Tengo a precisare, che noi eravamo sposati in separazione dei beni, per tanto tutto tutte le speculazioni della denuncia a sua insaputa per impossessarsi dei suoi bene è una sciocchezza, perché con la separazione dei beni lei non poteva usufruire del mio patrimonio, e io del suo”.

Trust che invece poi fu revocato?

“Sì. Per legge ci sono sessanta giorni dalla creazione di un trust per poterlo revocare, e in quel lasso di tempo Gina fece un viaggio a New York per una causa che in realtà avrebbe tranquillamente potuto risolvere da Roma, e per la prima volta portò con lei Andrea Piazzolla. Non appena è tornata a Roma, questo trust è stato immediatamente revocato dal notaio Barbara Franceschini e tutto il patrimonio che era al sicuro per il figlio e il nipote di Gina è passato nelle mani di Piazzola che ne è diventato l’amministratore ordinario. Pochi mesi dopo, quando io nel 2013 sono stato allontanato, lui (Piazzolla, ndr) è diventato amministratore Straordinario delle società di Monaco che sono le proprietarie di tutto il patrimonio italiano di Gina quindi il patrimonio di Gina era a quell’epoca tutto nelle mani di Piazzolla, una persona senza esperienza e nessun titolo di studio, istuito a dovere dalla madre”.

In che senso?

“La madre è un’esperta di tecniche di persuasione della mente, è scritto nel suo curriculum, e il suo alunno più bravo è proprio suo figlio Andrea Piazzolla, una persona come scritto nella querela a suo carico fatta da Milko, che è un soggetto giovanissimo e privo di esperienza, diventato amministratore di tutte le società titolari dei beni dell’attrice, di cui lo stesso inizia a disporre a proprio vantaggio. Un soggetto che cerca di soddisfare ogni capriccio di Gina: le fa da autista, da tuttofare, ne osanna le capacità artistiche e le doti estetiche, si legge nella denuncia. E voglio aggiungere che dopo essere diventato il suo manager e amministratore degli averi di Gina, ha stipulato 15 contratti di acquisto o leasing di auto e moto di lusso, tra cui Ferrari, Mercedes e Ducati, per un valore complessivo che supera il milione. Ha venduto gioielli e appartamenti per più di 7 milioni euro”.

Lei, Javier, sapeva di tutto questo?

“Sono venuto a saperlo poi. A volte Gina mi chiamava dicendo che aveva bisogno di soldi, di liquidità: Javier devo vendere alcuni dei miei gioielli, e io le dicevo: Gina di quanto hai bisogno? Glieli davo io, glieli regalavo, le facevo un credito qualunque cosa fosse. Lei non ha mai dovuto vendere niente quando io sono stato il suo fidanzato e poi suo marito. Dopo che lei mi ha denunciato, a Sotheby’s a Ginevra ha venduto tutti i suoi gioielli. Ha messo in vendita anche la scultura del David di Donatello che è tutta d’oro, è ancora nel catalogo a 75.000 euro. Nessuno l’ha comprata però”.

Perché quando vi siete sposati non siete andati a vivere insieme?

“Io lavoro tantissimo, Gina mi ha sempre molto ammirato per questo. La ragione di cui parlavo prima è ancora valida, io ho la mia vita economica in Spagna anche se andavo a trovare Gina se non tutte le settimane ogni 15 giorni. Passavamo tutta l'estate insieme ed eravamo sempre al telefono. Anche per la chiesa un matrimonio come il nostro, dove ognuno vive nella sua casa, è comunque valido”.

Gina non aveva il desiderio di venire a stare con lei in Spagna?

"Se Gina avesse voluto trasferirsi in Spagna, io sarei stato felicissimo, ma lei non ha vissuto stabilmente da nessuna parte se non a Roma. Non riesce a stare lontana dalla sua casa in Via Appia, per più di 15 giorni. L’unica eccezione è stata negli anni ’70 quando ha fatto un viaggio di un anno nelle Filippine, ma a parte questo è romana e non vuole spostarsi dalla sua casa, per lei trasferirsi in Spagna, o io trasferirmi a Roma, era impossibile. Ed entrambi abbiamo avuto sempre un grande rispetto per queste scelte. Quando Gina parlava di questa cosa, diceva: 'Non abbiamo nessun problema di case, perché Javier ne ha tante, e anche io, ma io e lui non abbiamo mai vissuto un anno intero insieme, perché era impossibile, sia per la sua che per la mia carriera'".

Che rapporto aveva Gina con suo nipote Dimitri?

“Con lei abbiamo girato letteralmente tutto il mondo insieme, e quando vedeva una cosa interessante mi diceva che doveva portarla a far vedere a Dimitri. Questo per dire che come nonna aveva un grandissimo amore nei confronti del nipote. Lo ha allontanato da lei perché le hanno fatto credere che era un drogato e che faceva pornografia in rete”.

Prima che venisse chiuso il passaggio dalla dependance della villa, Gina si vedeva con Dimitri? Lui andava a trovarla?

“Dimitri andava spesso a fare merenda dalla nonna, a prendere la Coca Cola o veniva a trovarci per parlare, quando io c'ero l’ho sempre visto, ma anche quando io non c'ero, perché Gina ed io eravamo sempre al telefono e lei me lo raccontava. Voglio dira anche un’altra cosa, tutto il mondo sa l'antipatia che ha avuto sempre Gina per la nuora (la mamma di Dimitri, ndr), perché la nuora è stata una scelta del figlio come è normale che sia, ma prima che la famiglia Piazzolla entrasse nella vita di Gina e di tutti noi, ha voluto cercare lavoro per la nuora e lo dico perché ero presente. Gina non è andata al matrimonio del figlio solo perché lui si era sposato con qualcuna che non era stata scelta da lei”.

E del fatto che alcuni dicevano che lei fosse un playboy interessato al patrimonio di Gina?

“Se parla con il figlio Milko, io non soltanto non sono stato una minaccia per il patrimonio di Gina anzi, al contrario, io l'ho aiutata con il mio di patrimonio. C’è scritto anche sulla denuncia fatta da noi tre, il figlio, il nipote ed io, come marito di Gina, che con il mio patrimonio ho aiutato a mantenere e a ingrandire il patrimonio della signora Lollobrigida. Questa gente ha voluto diffamare tutti noi per avere la possibilità di non andarsene, è stato di una violenza enorme dirmi che io volevo approfittare del patrimonio di Gina, quando è provato e documentato che non è così e che quando io sono stato denunciato e quindi non sono più andato dal lei, ha cominciato a vendersi tutto. Ora con la sentenza dell’amministratore di sostegno, si proverà che quei soldi non sono andati alla ricerca sulle cellule staminali, come hanno fatto credere, ma è tutto andato alla famiglia Piazzolla e che sono serviti per comprare macchine di lusso, cancellare le ipoteche, mandare il fratello del Piazzolla a studiare negli Stati Uniti, viaggiare in elicottero e in aereo privato e affittare una villa pazzesca in Sardegna dove questa gente non aveva messo piede in tutta la sua vita. A Gina non è mai piaciuto il mare e loro ce l’hanno portata fregandosene”.

Attualmente il patrimonio di Gina di cosa consta?

“Il suo patrimonio non è mai stato una cosa esagerata, da quando io la conosco è formato da: la Villa della via Appia Antica che per fortuna è stata sequestrata poco prima che venisse venduta ad un conoscente del Piazzolla ”.

Quando è stata l'ultima volta che si è visto con Gina o quando l'ha sentita per l'ultima volta?

“Sentita tante volte, il figlio l'ha chiamata per il suo compleanno, anche se lei dice di no, come l'ha chiamata il nipote e lei gli ha attaccato il telefono in faccia”.

Attualmente Gina come vive nella casa dell’Appia?

“Vive sola e qualche volta Piazzolla sta lì con lei. Se si leggono le interviste dello scorso anno, il Piazzolla non vive nella villa, e Gina non ha nessuna governante nessuna persona che la aiuta, allora visto che il figlio è preoccupato così come sono preoccupato io e suo nipote, penso prima di tutto alla sua sicurezza. Una donna che non riesce a muoversi bene, che lui la prende in braccio che poveraccia sembra la mamma del film Psyco quando lui prende morta in braccio. E la povera Gina che si preoccupava tantissimo delle foto e della sua immagine, se ci fosse stata con la testa, mai avrebbe accettato di farsi prendere in braccio e fotografare”.

Voi avete denunciato Piazzolla?

“Sì una denuncia penale per circonvenzione di incapace, fatta da me, dal figlio e dal nipote, tutti e tre insieme. Nel fascicolo ci sono talmente tante perizie di dottori di medicina legale e psichiatri nominati dal giudice e dal pm che hanno scritto che è affetta da un disturbo della personalità: oscilla tra il divismo, narcisismo ed egocentrismo, e l’insicurezza, la diffidenza e la precarietà con cui affronta la quotidianità. La paura di essere ingannata la pervaderebbe in modo paranoide, al punto da indurla a ricercare figure di riferimento cui acriticamente affidare la gestione di ciò che ha. In questo quadro clinico fragilità e manovrabilità, si sarebbe insediato Piazzolla. La Lollobrigida sembra aver instaurato con lui un rapporto di sudditanza psichica, che l’avrebbe portata a relegarsi in uno stato di totale isolamento dagli affetti e a compiere atti giuridici assurdi. Inoltre Piazzolla ha anche un processo civile per aver ingannato Milko con il trust che poi è stato ratificato. Ma quella è una denuncia patrimoniale con cui io non c’entro niente. Invece io personalmente ho chiesto a Gentiloni che è il nostro avvocato, di fare un ampliamento contro i genitori di Andrea Piazzolla, perché anche loro fanno parte di questa specie di setta”.

Tutt’ora Gina partecipa a trasmissioni, rilascia interviste televisive, è stata presidente di giuria a Miss Italia, gli introiti di queste apparizioni a chi vanno?

“Io non lo so, ma è sicuro che passano tra le mani del Piazzolla che è anche l'agente, ma ora che è stato ratificato l’amministratore di sostegno tutto passerà per le sue mani e sarà finito il business della famiglia Piazzolla”.

Attualmente Piazzolla non è però più amministratore dei beni di Gina...

“No perché grazie al lavoro dello studio Acampora, e dell’avvocato Galetti e Tolomei, sono riusciti ad ottenere per Gina un amministratore di sostegno per amministrazione ordinaria e straordinaria del patrimonio di Gina. Questo significa che Piazzola non può più a suo piacimento usufruire dei beni di Gina. Anche se qualche tempo fa ho scoperto che su internet erano stati messi in vendita alcuni mobili della casa di Gina, il mio avvocato Gentiloni, ha fatto presente alla casa d'aste che la signora Lollobrigida deve passare attraverso l'amministratore di sostegno per questo genere di transazioni".

Se Piazzolla andasse via come finirà Gina?

“Gina io sono sicuro che è irrecuperabile, questa gente l'ha nutrita di un odio enorme per tutti noi, che penso che alla sua età e al suo stato mentale tutto questo è irrecuperabile, Gina avrà sempre l'amore di tutti noi e l'interesse affinché viva tranquilla. Se lei vede le foto con me prima di tutto questo scandalo, e le fotografie del dopo, Gina ha cambiato il viso: ha un viso pieno di odio”.

La sento ancora molto appassionato...

"Noi della famiglia perché questa è la mia famiglia italiana. Come ho già detto, vogliamo che Gina stia bene e continuerò questa battaglia fino a che non ci riuscirò".

Gina Lollobrigida scrive a Mattarella: «Io trattata da criminale, pronta a lasciare l’Italia». Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 su Corriere.it da Elvira Serra. La lettera dopo la richiesta del suo amministratore di inventariare i beni della sua villa romana. «Non farò entrare nessuno». La Bersagliera se ne va. O lo farà «se qualcuno di serio non prende in mano la situazione» (e se il suo cuore «dovesse ancora resistere a queste ingiustizie»). Lo sfogo è di Gina Lollobrigida — attrice, scultrice, pittrice, fotografa: l’ultima Diva che ci è rimasta — che in una lettera a Giovanni Grasso, consigliere per la stampa del capo dello Stato, chiede di informare Sergio Mattarella «di quanto sta accadendo». Scrive: «Ho lavorato e rappresentato l’Italia nel mondo per oltre 70 anni, per avere un trattamento ignobile. Oggi a 92 anni credo di meritare un po’ di tranquillità e non di essere trattata come una persona incapace, visto che non lo sono. Ho aspettato per anni perché credevo nella giustizia italiana. Mi sbagliavo e adesso hanno esagerato». A far perdere la pazienza e la voglia di restare nel nostro Paese alla Lollo, la studentessa delle Belle arti di Subiaco che ha conquistato Hollywood e fatto girare la testa a registi e attori di ogni età, è la decisione del suo amministratore di sostegno, Stefano Agamennone, di nominare senza averla consultata un nuovo legale che la rappresenti nel processo penale in cui è coinvolta come persona offesa per l’ipotesi di circonvenzione di incapace. Agamennone ha anche chiesto un inventario dei beni presenti nella sua villa romana sulla Appia Antica. Poiché quest’ultimo provvedimento è esecutivo, e poiché l’artista non si sogna di aprire la porta ad alcun delegato del Tribunale, Agamennone avrà facoltà di far intervenire polizia, carabinieri ed eventualmente un fabbro (per forzare il cancello). «Non ci sto a essere trattata come una criminale a casa mia», racconta al Corriere con toni tutt’altro che concilianti. «E non capisco perché questo signore voglia un inventario di beni sui quali non ha la gestione, visto che è stato nominato solo per la tutela del mio patrimonio immobiliare e societario». A procurarle l’amarezza maggiore, però, è il «licenziamento» del suo vecchio legale per il processo penale che ha al centro delle indagini Andrea Piazzolla, il 32enne che da più di 10 anni la assiste nella vita quotidiana e che forse è riduttivo definire assistente o manager, quanto piuttosto «figlioccio»: di fatto uno di famiglia. Così il 13 febbraio, alla prossima udienza in Tribunale, Gina si troverà rappresentata da un avvocato che non ha scelto e che non ha ancora avuto il piacere di conoscere. «L’amministratore di sostegno era stato nominato dal giudice tutelare a febbraio del 2019. La signora Lollobrigida poi ha presentato un reclamo, che è stato respinto dalla Corte d’Appello, e successivamente ha proposto ricorso in Cassazione. Quindi allo stato è legittimo che l’amministratore svolga l’incarico che gli compete: quello di gestire gli atti di straordinaria amministrazione concernenti la gestione societaria e il patrimonio immobiliare dell’attrice», spiega l’avvocato Filippo Maria Meschini, che da anni segue la Bersagliera nelle questioni civili. «Quello che non ci aspettavamo è che l’amministratore chiedesse un ampliamento dei suoi poteri e soprattutto che il giudice tutelare glielo concedesse. Un provvedimento profondamente ingiusto, perché lo stesso Tribunale ha giudicato Gina Lollobrigida nel pieno possesso delle sue capacità mentali». Agamennone, da noi cercato più volte per telefono (dove ha preso visione della richiesta di intervista), non ha mai risposto. E adesso la Lollo si affida a Mattarella: «Come mai nel mio caso gli articoli 2-3-4 della Costituzione Italiana vengono letteralmente calpestati? È per caso un ringraziamento di fine carriera? Se qualcuno non prende in mano la situazione sarò costretta a lasciare l’Italia». Ieri pomeriggio dalla segreteria di Grasso è arrivata una richiesta di approfondimenti.

·        Gino Paoli.

Marinella Venegoni per ''la Stampa'' il 31 luglio 2020. Vigilia dell' inaugurazione del Ponte San Giorgio, nella città dei naviganti e dei cantautori. Dori Ghezzi ha consegnato in Comune Creuza de Ma di Fabrizio De André in una nuova versione che sarà colonna sonora della festa: ma fra un Vasco e un Fossati e persino Mina, Gino Paoli non c' è. Non sono riusciti a combinare. Qui però si può garantire che non solo il decano degli artisti genovesi, con i suoi 85 anni, sta bene: al telefono dispiega una verve invidiabile e presto su quel ponte passerà. In fondo, mentre nel '18 infuriava il dibattito sulla ricostruzione, proprio lui aveva recensito in modo perentorio l' idea di Toninelli di un «ponte vivibile»: «Una stronzata. Bisogna essere cretino per entrare in competizione con Renzo Piano».

Alla fine di tanti patimenti, caro Gino, il nuovo Ponte c' è.

«Mi è piaciuto moltissimo come si sono comportati coloro che guidano la città, il sindaco Bucci ma anche Toti. Io ormai distinguo fra chi parla e chi fa. Per cominciare, bene il disimpegno dal ponte, per potersi muovere. Renzo Piano ha fatto, gratis, un disegno straordinario, con le carene come quelle delle navi, familiari ai genovesi. Lo verranno a vedere da fuori. Lavori fatti bene, importanti. Però chiamarlo ponte San Giorgio non mi va: Genova nel 1200 ha venduto la bandiera agli Inglesi, non dimentichiamolo. Volevo parlare con il sindaco poi non ci sono riuscito. Piano è il più grande architetto del mondo, dovevano intitolarlo a lui. Che mancanza di rispetto, per uno così importante. Genova è sempre un po' matrigna».

Anche con lei, Genova matrigna?

«Quando ho avuto successo, dicevano: "Ma come? Quello lì è sempre al bar". Poi quando sono diventato importante hanno cambiato musica: "E' uno dei nostri". Genova è una città che puoi amare e odiare contemporaneamente».

Che tipo è il suo amico Piano?

«Renzo? E' una persona straordinaria che non se la dà per niente. Lo conosco da quando era lupetto e io boyscout. Per gli 80 anni, gli ho regalato il cappello da boyscout, si lamentava di non esserci arrivato. E' una persona serena e molto umana. E' un artista, con una conoscenza tecnica enorme, e la capacità di interpretare il territorio; e in lui c' è sempre la componente artistica. Il ponte che ha fatto è genovese, interpreta lo spirito del ruolo. Sono contento di essere suo amico, siamo rimasti in pochi. Mi chiama per sentirci, da qualunque parte sia, e abbiamo un nostro rito: la cena dei sopravvissuti. Piano, il dentista Gaggero, molto buono, che si occupa degli altri, e io. Ci troviamo all' osteria di Don Gallo, e ce la raccontiamo».

La Liguria ha un sacco di problematiche sul suo territorio, violentato e gracile. Si tirerà mai su?

«La Liguria doveva essere il terzo punto del polo industriale, poi è rimasta indietro per amministrazioni sbagliate, è stata fatta morire poco per volta. Qui tutto è difficile. I Genovesi sono i peggiori ospiti che esistano. Vai in un negozio a Milano e ti dicono: "Cosa posso fare per lei?". A Genova invece pensano: "Ma cosa vuole questo?". Il carattere genovese è sempre stato rustico, ma di onore e onestà: tanto che gli inglesi si fidavano della parola dei liguri. Con la globalizzazione, tante caratteristiche si sono annacquate».

Lei è sempre in tournée, con Danilo Rea. 4 agosto Macerata, 10 Perugia, il 18 ad Alba per una «Collisioni» speciale, un ringraziamento a chi ha lavorato contro il Covid...

«Non faccio tour, vado dove mi chiedono. Ma faccio molte serate».

Come vive questo pandemia? Ha ancora paura?

«Per me non è cambiato quasi niente. Non esco mai e mia moglie si arrabbia. Vado via solo per lavorare. Ascolto e leggo le critiche al Governo e al resto e penso: se ci fossi stato io, cosa avrei fatto? Quindi capisco chi comanda, han fatto quello che potevano».

Cosa pensa della proroga fino ad ottobre dello stato di emergenza?

«Ma perché l' Italiano critica sempre? Abbiamo 60 milioni di super esperti di calcio, 60 milioni di geni della politica».

A proposito, il suo amico Grillo?

«Lo vedo. Gli voglio bene. Lui ha creduto in una cosa assurda, impossibile. Ci ha provato, in assoluta buona fede. Spesso non approvo quel che dice e come, soprattutto il "vaffanculo". Adesso non sarà così contento: la macchina della politica ti stritola, ci sono questi ragazzini che fanno gli uomini di potere senza avere nessuna pratica, nessuna capacità. La Dc ha inventato il Centro e facevano i corsi. I Greci avevano i Senatores, con l' esperienza. Abbiamo avuto politici che uscivano dalle galere e hanno scritto la migliore Costituzione al mondo. Almeno imparatela».

Conosce il gruppo musicale dei GiniPaoli? Hanno scritto «Gino Tienes una bala en tu corazon», con un video dove due bimbi si contendono un pistolone e sparano, e la pallottola vola e attraversa tutta Genova.

«Ormai me le hanno fatte tutte. Mi han dato dell' evasore fiscale per colpirmi quando ero presidente Siae, ed è finita in nulla. Mi han dato del pedofilo per "Pettirosso", e sono stato difeso dall' Osservatore Romano. Mi han preso sul serio quando sono stato dalla De Filippi e ho detto che ero andato lì per molestarla, perché mi piace».

E cos' ha detto Maria De Filippi?

«Lei era contentissima».

·        Giobbe Covatta.

Annamaria Piacentini per “Libero quotidiano” il 17 marzo 2020. Oltre 30 anni di carriera passati tra cinema, televisione e teatro. Giobbe Covatta, attore, scrittore e umanista, è sempre sulla cresta dell' onda, ma in tv non si fa vedere.

Covatta, come passa il tempo a causa del coronavirus?

«Ci hanno dato gli arresti domiciliari, bisogna stare a casa. Che devo fare? Sgranocchio patatine e mangio cioccolato».

Cosa le fa paura?

«L' idea di essere isolato per una ventina di giorni se va bene. Mi fa paura mia madre che ha 92 anni e che non posso andare a trovare perché potrei essere infetto. Seguo i consigli che ci ha dato il Governo».

È d' accordo?

«Si fanno le cose che ci hanno raccomandato, ma noi che non abbiamo vissuto la guerra abbiamo sempre pensato di essere inattaccabili.

Invece ora si può morire. E sa cosa faccio? Mi sveglio a mezzogiorno, scrivo e fumo le mie sigarette senza stress. Vivo i ritmi edoardiani».

Sembra quasi una vacanza, ringrazi i pipistrelli...

«Ho dei dubbi perché i pipistrelli i cinesi li mangiano da secoli, e allora mi chiedo: proprio adesso doveva succedere? Anche io ho sempre mangiato animali di un certo tipo, eppure sono qui sano e salvo».

Animali commestibili?

«Beh, in Africa il coccodrillo e l' iguana, in Amazzonia il tapiro. Certo il colesterolo, poi non andava bene. Però ho sempre evitato gli insetti, quelli mi fanno un po' schifo».

Si prepari, quello sarà il cibo del futuro...

dicono i cinesi!

«Allora sarà dura, che farò?».

Che ne dice se parliamo dal suo lavoro.? Perchè nonostante il successo ottenuto è sparito dalla tv?

«Mi sono allontanato in maniera decisa, non ne sento la mancanza, ma ne riconosco la popolarità che può dare ad un personaggio».

Confessi: una battuta di troppo e qualche rompiballe tv ha deciso di farla fuori, è così?

«Non ne ho nessuna prova diretta, ma anche da Costanzo non sto andando. Succede, ora la gente mi riconosce più dalla voce, che dall' aspetto. Sono un po' invecchiato sembro Babbo Natale».

Intanto "Babbo Natale" continua a fare cose importanti a teatro. A breve doveva andare a Milano, peccato!

«Tutto rimandato. A fine aprile sono in cartellone al Delfino con lo spettacolo 6 gradi, che parla dell' aumento della temperatura del nostro Paese. Il numero ha un forte significato simbolico. Ho altri due spettacoli teatrali: La commediola che parla della carta dei diritti dell' infanzia e il 3° che punta sul razzismo e la vera differenza che c' è tra maschi e femmine».

Per esempio?

«Gli uomini battono le donne con le bugie, ma le femmine sono più brave di loro in tanti altri campi. Se questo pianeta fosse governato dalle donne sarebbe migliore».

Le hanno dedicato un libro dal titolo Un bianco in nero, verrà presentato il 15 maggio all' Asylum Fantastc Fest di Valmontone. Contento?

«Mi ha fatto molto piacere, a scriverlo Claudio Miani e Lorenzo Masedu. Il narcisismo muove gli attori. Ho avuto la fortuna di girare il mondo e sono stato "negro" pure io. Da piccolo volevo fare l' esploratore. Il mio primo viaggio è stato in Ruanda, era il '94 ed era finita la guerra. Ora quando posso porto moglie e figlia. Una cosa che mi ha colpito è stata quella che ha osservato mia figlia di 12 anni in Nepal».

Ce la racconta?

«Eravamo andati a comperare libri per l' inizio della scuola. E lei mi ha detto: papà, in Nepal erano poveri, ma qui sono tristi».

Colpa di un Paese senza certezze. Anche lei è stato in politica, giusto?

«Ci sono passato un paio di volte, prima come Assessore alla Cooperazione Internazionale, poi come portavoce dei Verdi».

E poi ha mollato, perché?

«La politica è un mestiere difficilissimo, bisogna avere il senso dello Stato. Berlinguer e Moro non facevano i gommisti o i salumieri, erano degli Statisti. Oggi, si può accedere senza avere competenze. L' onestà intellettuale è importante. Con i congiuntivi si è fatto il profilo medio».

·        Giorgio J. Squarcia.

Laura Rio per “il Giornale” il 31 gennaio 2020. È arrivato addirittura a postare sue foto ai bordi di piscine dall' altra parte del mondo. Senza in realtà avere preso alcun volo. Per non spaventare le sue «prede», per allontanare i sospetti di essere in agguato. Giorgio J. Squarcia è uno degli uomini più temuti della televisione: divi, calciatori e personaggi hanno talmente paura di lui da controllare i suoi spostamenti. Perché Giorgio è l' autore degli scherzi più esilaranti e perfidi delle Iene. Nella sua rete sono cascati fior fiore di volti noti, che si sono fatti trascinare nelle situazioni più assurde e incredibili. Come quando fece bere a Cristina Chiabotto le ceneri di sua madre o fece credere ad Andrea Pirlo che avesse perso tutti i soldi in banca o a Linus che suo figlio si fosse fidanzato con la professoressa di matematica di 60 anni. Ormai finire in uno dei suoi tranelli è come uno status symbol. Una consacrazione.

Squarcia, le Iene torneranno in onda nella nuova edizione a metà febbraio su Italia 1. Lo scherzo più divertente che avete ideato?

«Quello che abbiamo fatto a Leonardo Bonucci. Da restare a bocca aperta. Lo abbiamo convinto che la casa da lui appena acquistata, una dimora dell' 800, fosse infestata da un fantasma. E che addirittura si fosse invaghito della moglie... alla fine lui era pure geloso».

Bonucci Ghostbuster? Difficile da credere...

«Vedrete. Leonardo è sempre stato attratto dalle tematiche del soprannaturale. Ce lo ha raccontato la moglie che è stata nostra complice. Lei lo ha convinto che c' erano strani rumori in casa... alla fine il calciatore girava proprio con uno strumento acchiappafantasmi: si è messo pure a parlare con le immagini dello spirito, false ovviamente».

Come riuscite a irretire in questo modo una persona sana di mente?

«Ci vuole molta pazienza, capacità psicologica e trovare i complici giusti, determinati. Ovviamente bisogna essere credibili. Ci aiuta anche la tecnologia: le telecamere di ultima generazione che abbiamo in dotazione sono invisibili, quasi impossibili da scoprire. Il trucco, poi, è instillare il dubbio, goccia dopo goccia, piano piano, far macerare nella testa della vittima la possibilità che sia vero. E aspettare il momento giusto per entrare in azione».

E lei come fa a partorire così tante cattiverie?

«Non so. Sono fatto così, il mio cervello ne sforna in continuazione. E sono anche in grado di modificare in corsa la sceneggiatura se qualcosa va storto, a volte trasformo il complice in vittima, a volte va male e buttiamo via tutto...».

Non le viene mai qualche scrupolo?

«Ma figuriamoci. Mi diverto come un matto. Ovviamente ci sono limiti che non possono essere superati. Bloccare lo scherzo se diventa pericoloso: come quando a Carlo Rossella stava per venire un infarto. Non mettere mai la vittima in condizione di sentirsi ridicola, anche perché altrimenti non ci firma la liberatoria per andare in onda. Mantenere sempre il lato comico».

I momenti più difficili?

«Per esempio quando convincemmo Cannavaro che sua figlia si era fidanzata con un giovane camorrista. A un certo punto gli facciamo sapere che dei ragazzi amici del delinquente gli stanno distruggendo casa e buttando la coppa del mondo in piscina. Lui si precipita a casa, dà in escandescenze con i suoi ospiti, noi ci riveliamo per calmarlo e lui ci spacca tutte le telecamere...Quella volta ho capito una cosa: le mogli non conoscono bene i mariti, lei mi aveva assicurato che Fabio è uno che non si arrabbia mai... Non possiamo mandare in onda lo scherzo perché lui non vuole e, comunque, ci ha distrutto tutto il girato...».

Una delle situazioni più divertenti?

«Quando Tinto Brass stava soffocando sotto un enorme sedere che gli avevamo fatto cadere sulla testa... Oppure quando abbiamo fatto credere a Fortunato Cerlino, il Pietro Savastano di Gomorra, che la ragazza che stava seduta di fronte a lui in treno era stata rapita da un pappone (che dormiva seduto accanto) per portarla in Svizzera a fare la prostituta e gli chiedeva aiuto perché desse un peluche a suo figlio rimasto in Italia...».

E lo scherzo al nostro direttore Sallusti, andato in onda in autunno, come lo avete congegnato?

«Be', in quel caso, la complice è stata la compagna Patrizia che gli ha fatto credere di essersi messa nelle mani di un santone per cambiare dieta e vita. Ci abbiamo messo mesi per prepararlo ed è durato settimane. Lui, comunque, ci è cascato perché è abituato alle stranezze di Patrizia. Divertente era vedere come, all' inizio, cercava di restare gentile e impassibile nonostante le follie che gli capitavano intorno. Poi anche lui si è scocciato di brutto...».

Molte vittime non firmano la liberatoria per la messa in onda.

«Per esempio Paolo Brosio, di cui si conosce la fervente fede. Quest' estate a Pontremoli, si trovava in un monastero: la sua (ora ex) amica Giorgia Venturini (l' opinionista di Tiki Taka) si è infilata nuda nel letto della sua celletta... poco dopo entra un frate, li scopre così e li costringe ad andare a pregare in una cappella lì vicino... lui si è arrabbiato veramente tanto e ha chiesto a Mediaset di sequestrare tutto il materiale...Lo stesso è accaduto con Carlo Rossella che ha telefonato addirittura a Berlusconi (che si è fatto una risata) per chiedere la mia testa: gli avevamo fatto credere che il tassista che lo aveva casualmente raccolto era il marito abbandonato dalla moglie su suo consiglio in una risposta a una lettera della posta del cuore... Il tassista lo aveva portato in una cascina abbandonata per costringerlo sotto minaccia a scrivere a sua moglie che si era sbagliato».

Lei si è formato in America come giornalista investigativo, firmando inchieste molto scottanti per il newsmagazine Inside Edition, poi è tornato in Italia: perché?

«Dopo l' inchiesta che ho fatto sotto copertura sui casinò illegali di New York, ormai il mio volto era diventato noto, così mi avevano messo in ufficio come direttore del dipartimento investigativo. Ma mi annoiavo. Così ho deciso di lasciare tutto, ricominciare da capo, e tornato in Italia, ho cominciato a lavorare a Scherzi a parte dove ho messo in pratica tanti trucchi imparati in quegli anni e firmato più di cento scherzi».

E due anni fa è passato alle Iene.

«Il programma è ancora più appagante perché posso costruire degli scherzi lunghi, anche di mezz' ora, praticamente dei film. Il pubblico quasi si ipnotizza, le curve di ascolto in quel momento si alzano moltissimo. Con Davide Parenti, il patron dello show, poi ci divertiamo un mondo: lui partorisce idee talmente folli, come quella di Bonucci, che fanno paura addirittura a me».

Lo scherzo a Bebe Vio e quel reality con striptease. Le Iene News il 18 dicembre 2019. Per Bebe Vio, la campionessa paralimpica mondiale di scherma, è arrivato il momento di affrontare una nuova sfida con Nicolò De Devitiis. Le proponiamo di partecipare con i colleghi atleti a un reality show a base di spogliarelli e lei non la prende esattamente bene…Abbiamo messo a dura prova Bebe Vio: siamo ad Abano Terme dove viene presentato il progetto “fly2tokyo”, progetto che segue il percorso sportivo di 10 ragazzi dell’art4sport team in vista delle prossime Paralimpiadi. Ci presentiamo alla conferenza stampa portando una “giornalista” molto provocatoria. Al termine, invitiamo Bebe e i suoi colleghi per un’intervista. “Ovunque va, fa strage, ci puoi raccontare come colpisci le ragazze?”, parte la giornalista con la prima domanda a uno degli atleti. Bebe è palesemente irritata, parecchio, dalla poca professionalità della giornalista (nostra complice) e finge un sorriso. Entra in campo “Tony Toscano”, sedicente manager di Mediaset che propone a Bebe Vio di gestire la sua immagine. “Grazie mille, ma c’ho papà che mi fa da manager. Non mi fido di nessuno”, risponde Bebe che dice ai colleghi di evitare quel Tony: “Non fidatevi di queste persone di merda. Hai visto chi segue? Questa mezza mignotta qua…”. I ragazzi però sono incuriositi e cercano di tranquillizzarla. Ci spostiamo ad Amsterdam dove Bebe e gli altri atleti si sfidano in pedana. Quando alla sera tornano in hotel per riposare, la campionessa riceve una chiamata dai colleghi Edoardo ed Emanuele che la chiamano per una cosa importante: il famoso Tony, il manager, hanno fatto firmare loro un contratto di 4 mesi per fare un reality show di nudisti. Bebe è allibita e chiede subito di vedere il contratto. I ragazzi naturalmente sono nostri complici e, mentre Edoardo dice di essersi pentito, Emanuele non ha dubbi: “Volevo fare qualcosa di nuovo”. Edoardo ha una soluzione: “Andiamo da quello e gli facciamo strappare il contratto, abbiamo firmato mezz’ora fa”. Bebe non sa che fare: prima chiama suo padre e racconta in quale casino si sono cacciati: “Il programma si chiama Nudi alla Meta, gli rinchiudono per 4 mesi prima delle Olimpiadi e gli danno 50.000 euro, figa e fama”, spiega arrabbiatissima al padre. Suo padre, che è anche lui nostro complice, le consiglia di andare a parlare di persona con il manager. Quando gli atleti si avvicinano alla stanza di Tony, lo trovano con due ragazze e droga sul tavolo. Appena entra, Bebe parte in quarta: “Potrei un attimo leggere il contratto dei ragazzi?”. C’è anche la spiegazione del reality: “È un programma tipo Grande Fratello dove chi passa si toglie un indumento, fino a che il vincitore rimane nudo”, dice il manager. Il manager sembra interessato anche alla campionessa, ma lei attacca subito: “Io non faccio programmi televisivi, non ho bisogno di fama”. Mentre Bebe prova a salvare i colleghi, Emanuele le rema contro: “A questo punto partecipa, Eduardo”. Bebe lo fulmina: “Come cazzo hai fatto a firmare questa roba? Ti pensavo molto più intelligente…”. Bebe Vio è delusa, arriva però Niccolò De Devitiis e strappa tutto dicendole soprattutto che è tutto uno scherzo: “Mamma mia, volevo veramente ucciderli! Però almeno ho fatto capire quanto ci tengo veramente a loro”, dice Bebe.

Lo scherzo: stylist svaligia la casa del portiere Pierluigi Gollini. Le Iene News il 04 gennaio 2020. Pierluigi Gollini trova la sua casa svaligiata. Vestiti, capelli e orologi di lusso sono solo alcuni dei capi rubati. Il portiere dell’Atalanta insomma non è riuscito a parare lo scherzo di Stefano Corti e Allessandro Onnis. Iniziamo portando da Gollini lo stylist Mattia, che ha una grande passione per il calcio, con la scusa di creare una linea di abbigliamento. Partiamo con le misure… eh sì! Prima la vita, poi il bacino, il “nostro” stilista scende sempre di più e Gollini si scandalizza: “Si, ma stai concentrato sulle misure però…”. Mentre il nostro complice si allontana, Gollini dice alla sua ragazza: “Strano che conosci soggetti particolari tu!”. L’esperto di moda non si ferma qua. Vuole conoscere i capi del calciatore, le scarpe, tutto. “Madonna, pazzesco!”: una pazzia per Gollini che si sente abbordato dallo stilista. Mattia vuole sapere sempre di più: “Pipi, dai, voglio vedere come ti stanno i jeans”. Gollini inizia ad agitarsi: “Ti ho già detto di non dirmi così”. Niente ferma il nostro complice che vuole vedere i capi del calciatore per “capire il suo stile”. Entusiasta, riempie di complimenti il portiere. Una volta andato via, Pierluigi sembra sollevato: “Non puoi capire se è un mezzo genio o se è un mezzo coglione!”. Genio si, dillo forte Gollini! Se sapessi la genialata di Corti e Onnis…Finita la partita, Gollini torna a casa e trova la sua cabina armadio vuota. E non solo: un quadro, capellini, scarpe e addirittura tutti i Rolex! Gli hanno svaligiato tutto, Pier è senza parole… Mentre la sua ragazza lo consola, arriva una chiamata meno consolante. Momo, il suo amico dice di aver visto un ragazzo che portava via i suoi vestiti. Ha chiamato pure i carabinieri: “Io l’ho seguito con la mia macchina, adesso ti mando la posizione”. Le sorprese non finiscono qua! La roba del calciatore adesso si trova in un negozio. “Io c’ho la mazza da baseball, entriamo e gli spacchiamo tutto”, Gollini ora è decisamente inc… Giulia trova anche il modo giusto per calmarlo: “Tu hai capito che la faccia del tipo è del tuo stylist?”. Apriti cielo! Tra urla e rabbia, Gollini si dispera: “Tu me l’hai presentato! Tu sei scema, non capisci proprio un cazzo”. Deluso, arrabbiato e scandalizzato, il portiere dà la colpa alla sua ragazza. La ragazza cerca di calmarlo: “Se ti ha rubato un orologio, lo si ricompra!”. Arrivati al negozio, Pierluigi vede tutti i suoi vestiti in una vetrina. Si lancia dalla macchina ed entra. Da calciatore a lottatore è un attimo. “Ti ammazzo di botte”, minaccia Gollini. Mentre cerca le sue cose più preziose, Mattia lo sfida ancora di più: “Ma è figa questa cosa, mi piaceva così tanto”. Ed ecco che arriva un carabiniere che dà un’occhiata alle cose rubate. Prima che finisca male, arrivano Corti e Onnis a dire che è stato tutto uno scherzo de Le Iene. 

Lo scherzo a Chiara Biasi: dal surf su un assorbente al prete avvinghiato. Gazzarrini su Le Iene News l''01 dicembre 2019. Chiara Biasi ha costruito la sua fortuna da due milioni e mezzo di follower su Instagram grazie alla sua immagine. Guardate come l'ha presa quando con Sebastian Gazzarrini gliel'abbiamo completamente rovinata!

·        Giorgio Moroder.

Roberto Croci per “Weekend - la Repubblica” il 6 aprile 2020. Le canzoni scritte per questi tre film gli hanno fatto vincere altrettanti Oscar. Poi ci sono decine di album, altre colonne sonore memorabili (come quella di Scarface e American Gigolò), collaborazioni prestigiose, da Donna Summer a David Bowie fino a Freddie Mercury. E l’ingresso nel 2004 nella Dance Music Hall of Fame. Ma a lui non basta. L’anno scorso con The Celebration of the 80’s ha portato in tour i suoi sessant’anni di carriera. Sì perché Giorgio Moroder, il compositore nato a Ortisei nel 1940 e ora di base a Los Angeles, il prossimo 26 aprile compie 80 anni ed è tornato a fare musica come dj. Raggiungiamo Moroder nella sua casa vicino a Sunset Boulevard: «Una volta arrivati, salite al 21esimo piano!», tuona con voce giovanile. Bussiamo. Ci viene ad aprire Francisca, la moglie, che ci porta direttamente da Giorgio sul balcone dell’appartamento. Elegante, gentile, in forma splendida, capelli bianchi, baffi a manubrio iconografici, e sorriso stampato su un volto segnato dallo sguardo di chi sa di averla combinata grossa nella vita. Lui e Francisca stanno insieme da trent’anni: «Ero a un pranzo al ristorante Le Dome di Los Angeles. L’ho vista e mi sono innamorato di lei immediatamente. Le ho chiesto di sedersi con me. Meno male che è stato un colpo di fulmine anche per lei, altrimenti sarebbe andata male: non sono mai stato bravo con le donne. Siamo sposati da trent’anni e abbiamo un figlio, Alessandro, artista. Forse buon sangue non mente visto che anch’io ho studiato pittura da ragazzo, poi sono passato alla musica».

Quando ha cominciato a suonare?

«A 15 anni, avevo capito che suonare la chitarra mi faceva avvicinare alle ragazze. La musica è un linguaggio universale, puoi strimpellare canzoni d’amore e dedicarle a chi ti piace senza farti scoprire. Amavo molto Paul Anka, Diana è stata la prima canzone che ho imparato».

Quando ha iniziato a fare sul serio?

«Ho iniziato nei caffè di Ortisei, e poi sono andato in Svizzera. Suonavo nei club con una piccola band, facevamo cover dei Beatles e rock’n’roll. A 26 anni ho deciso di partire per Berlino perché volevo comporre la mia musica e ho trovato lavoro come tecnico del suono».

Com’era la Berlino degli anni Sessanta?

«Era una città difficile, c’era il Muro ed era un problema muoversi liberamente. Gli ingegneri con cui lavoravo non apprezzavano la mia visione del futuro e mi proibivano di sperimentare. Mi annoiavo moltissimo e quindi nel tempo libero ho iniziato a comporre. Ho scritto il mio primo singolo, Ich sprenge alle Ketten , per Ricky Shayne, un ragazzo libanese di origini italiane famoso anche come attore. Con quel singolo ho venduto 100 mila copie, una cifra abbastanza importante per quegli anni. Poi nel ’69 è arrivato Looky Looky , il mio primo vero successo, un pezzo che mi piace ancora adesso, anche se io come cantante non mi sono mai piaciuto. Con quella canzone sono anche andato al Cantagiro del 1970. Poi mi sono trasferito a Monaco dove ho fondato il mio primo studio di registrazione, i MusicLand Studios».

Dove ha lavorato con musicisti leggendari...

«Si, ho prodotto i grandi artisti come David Bowie, Rolling Stones, Queen, Freddie Mercury, Elton John. In quel periodo molti musicisti abbandonavano l’Inghilterra per questioni di tasse, molti andavano in Francia, altri venivano in Germania. Grazie al compositore classico Eberhard Schoener, ho scoperto il sintetizzatore Moog e me ne sono innamorato. Nello stesso periodo ho conosciuto Donna Summer: mi colpì per la sua voce così calda. Insieme abbiamo registrato I Feel Love . E, come si dice da noi, "the rest is history"».

C’è qualcosa della sua carriera che ricorda con affetto?

«David Bowie, conosciuto attraverso Brian Eno. Fu lui a etichettare le mie composizioni come "la musica del futuro". Lui era un professionista eccezionale. Mentre tutti i musicisti non si presentavano mai prima delle tre del pomeriggio, Bowie alle 11 del mattino era in studio e un’ora dopo avevamo finito. Insieme abbiamo lavorato sul pezzo Cat People (Putting Out Fire) per la colonna sonora di Il bacio della pantera del 1982 e grazie alla nostra intesa siamo riusciti a finire il pezzo in meno di due ore. Mi ricordo che il regista Paul Schrader era senza parole, non poteva credere che all’ora di pranzo, invece di fare un’altra prova avevamo deciso di andare a mangiare!».

La sua passione come dj invece come è nata?

«Ho iniziato per caso. Nel 2012 Louis Vuitton mi chiese di fare una piccola performance con un set di 15 minuti per un fashion show a Parigi. Dopo lo show Elton John voleva che lo aiutassi per il gala di amfAR — la fondazione di Elizabeth Taylor per la ricerca sull’Aids — durante il festival di Cannes. Mi piace girare il mondo e far ballare la gente. Mi diverte e mi impegna creativamente, al punto da suonare spessissimo da Giorgio’s, un club dedicato a me che si trova all’interno dello Standard Hotel di Hollywood. I dj di oggi sono come i direttori di orchestra, puoi comandare e controllare il ritmo di 30 mila persone. Non si tratta di ispirazione, bensì di traspirazione!».

Di recente ha anche composto una "colonna sonora" per i motori elettrici del futuro. Ha una passione per le auto?

«La velocità ha sempre ispirato la mia musica. Call me, il pezzo dei Blondie per la colonna sonora di American Gigolò , è nato proprio pensando a Richard Gere che guida sulla Pacific Coast Highway a Malibu, in California. Mi affascina il rapporto tra uomo e macchina. Le confido un segreto: la musica l’ascolto solo in auto, a casa non ho nemmeno lo stereo».

Luca Valtorta per “Weekend - la Repubblica” il 6 aprile 2020. Per molti era il nemico. La disco music per i giovani "impegnati", attenti alla politica e alla "controcultura", era il simbolo del disimpegno, addirittura una strategia dell’America più retriva pensata per uccidere la scena musicale "alternativa" che nasceva da Bob Dylan e arrivava al punk che esplodeva proprio nello stesso periodo, il 1977. Un film ne era il simbolo, negativo: La febbre del sabato sera con John Travolta, che molti rifiutarono per anni di vedere, salvo poi scoprire che era uno straordinario racconto sul proletariato giovanile. Non solo: la stessa disco music era molto più "di sinistra" di buona parte del rock di quel periodo, machista e sopra le righe, incentrato sulla figura carismatica della rockstar a cui era concesso qualsiasi eccesso. La disco music invece fu il primo genere musicale ad abbattere le barriere di genere: assolutamente pro-gay e con le donne in prima linea, a partire da quella Donna Summer scoperta proprio da Giorgio Moroder. Nato a Ortisei, un paese di nemmeno 5.000 anime, per uno come lui non c’erano molte possibilità di diventare musicista. Ma Moroder ci crede: inizia andando nelle discoteche della vicina Germania, dormendo in macchina per risparmiare. Lo racconta nel brano Giorgio by Moroder , dei Daft Punk, i re dell’elettronica contemporanea che nel 2015 gli dona una seconda grande celebrità dopo i fasti degli anni 70. Lavora a Berlino e poi a Monaco, dove avviene l’incontro fatale: quello con Donna Summer. Voce straordinaria. Ma Donna era timida e veniva da una famiglia religiosa: tutto il contrario di quello che si potrebbe pensare vista la sensualità della voce e dei brani che ha cantato. Per Moroder non fu facile convincerla. Quando le chiese di interpretare un orgasmo in Love To Love You Baby lei rifiutò. Lui ebbe un’idea: buttò tutti fuori dallo studio, compreso il marito di Donna. C’erano solo loro e Donna alla fine ci riuscì. Love To Love You Baby vendette più di tre milioni di copie facendo di lei una superstar e creando un modello musicale: il singolo "apripista" di lunga durata, addirittura 17 minuti, altra grande intuizione di Moroder, che viene replicata nel successo ancora più grande di I Feel Love. Subito dopo, con il disco solista From Here To Eternity , entra nella storia della musica: è una pietra miliare dell’elettronica con la famosa frase sul retro del disco che recita "Only electronic keyboards were used on this recording". Poi i fasti della disco finiscono. Intanto Moroder si è messo a lavorare nel cinema realizzando colonne sonore iconiche come quella di Metropolis , The NeverEnding Story e Cat People , in cui collabora con David Bowie. Negli anni 90 è il silenzio, fino al ritorno grazie alla celebrazione dei Daft Punk nel 2015. Giorgio Moroder è l’artista italiano che più ha influenzato la musica. Non solo per il successo epocale delle canzoni. È stato l’unico ad aver creato un genere: la disco music.

·        Giorgio Panariello.

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 6 dicembre 2020.

Giorgio Panariello, chi era il Ba'?

«Il Babbo, mio nonno Raffaello, l' uomo che mi ha fatto da padre. Un napoletano dal carattere difficile, spigoloso, che aveva con me un rapporto di assoluto amore. Era un marinaio di stanza in Versilia quando conobbe la Ma'».

Chi era la Ma'?

«Mia nonna Bonaventura, la Mamma, quella che ancora adesso nella mia testa è mia madre. Era una donna piccola e gentile, la mia prima fan, quella che ha cucito i primi vestiti quando facevo le imitazioni di Renato Zero, quella che agli spettacolini diceva tronfia: "Quello è mio nipote"».

E invece chi era Raffaella?

«È la madre ufficiale, ma è solo un sostantivo. È stata una donna assente che ha abbandonato me e mio fratello dalla sera alla mattina. La vedevo per le feste quando veniva a portarci i regali accompagnata a un uomo sempre diverso, infatti come nel gioco delle tre carte ci ha nascosto i nostri veri padri. Non posso dire di non volerle bene, perché alla fine è sempre mia madre, ma non è nulla in confronto all' amore che porto per la Bona».

E chi era Franco?

«È difficile descrivere Franchino in poche parole. Per me è stato gioia e dolore. Nella prima parte dell' infanzia, era un fratello ogni tanto. Poi è venuto a vivere con noi ed è diventato un fratello a tutti gli effetti. Condividevamo la stanza da letto, mi rubava le camicie, quelle cose che si fanno tra fratelli. Dopo è diventato la mia zavorra. Lo considero un ragazzo sfortunato. Ha avuto anzitutto la sfortuna di nascere un anno dopo di me, per cui i miei nonni non hanno potuto tenere anche lui in casa ed è stato affidato a un istituto. Franchino è un' anima perduta che però alla fine si era ritrovata».

Oggi la sua famiglia sarebbe considerata disfunzionale. Ai suoi tempi poteva sembrare un po' bislacca.

«Bislacca è un eufemismo: era una famiglia strana veramente. Accorgersi quando avevo 8-9 anni che niente era come sembrava , nessuno al suo posto, quelli che pensavo fossero i miei fratelli in realtà erano i miei zii, i miei genitori i miei nonni, la signora che veniva ogni tanto mia madre, mio padre mai visto...Insomma bislacca mi sembra riduttivo. Era un Circo Barnum, che ha creato problemi al carattere debole di Franchino e a me ha dato questo spirito di riscatto che mi ha permesso di fare un mestiere che potesse sdrammatizzare».

Le è rimasta la curiosità di conoscere suo padre biologico?

«Sì, sono curioso, ne ho fatto anche un monologo televisivo. In realtà non sono uno che ha l' ansia di sapere, ormai ho 60 anni e lui non ci sarà neanche più. Ma ricordo che ai primi tempi in cui facevo tivù, ogni volta che Raffaella mi chiamava a Carràmba! Che sorpresa oppure Maria De Filippi a C' è posta per te , io avevo l' ansia che veramente avessero trovato mio padre».

Ma se un genio uscisse dalla lampada e le chiedesse di esprimere tre desideri, questo sarebbe uno?

«Sì, sarebbe uno dei desideri, ma proprio per togliermi la soddisfazione di capire perché non si è mai fatto vedere, magari non lo sa nemmeno. Credo che sia stato uno di quegli incidenti di percorso che capitano».

È attore, regista, comico, imitatore, scrittore. Dei suoi tanti successi, quale avrebbe voluto farlo vedere a Bonaventura?

«Lei si è persa tutto, mi ha visto solo agli esordi e già era orgogliosa. Quando trovai un piccolo ingaggio televisivo a Stasera mi butto e le dissi: "Nonna, mi hanno preso alla Rai", replicò: "Ho fatto un sugo buono, me lo porti un po' a Pippo Baudo?". Per lei la Rai era una grande famiglia, era convinta che andassi a vivere con Pippo e Raffaella Carrà».

Quello del sugo è uno dei «sapori» presenti nel suo libro «Io sono mio fratello» (Mondadori), dedicato a Franchino. Ma se le dico penne panna e prosciutto?

«Era il piatto preferito di Raffaello. Mia nonna cucinava in una maniera... Penso che tutti noi cerchiamo in giro per il mondo i sapori di cosa ci preparava nostra madre, e restiamo delusi quando mangiamo una lasagna perché non sarà mai come quella che faceva lei».

E l' odore della banana matura?

«Banana matura e cuoio. La dimenticavo nella cartella dei libri. Se potessi ricreare un profumo sceglierei quello, basta una spruzzatina e si torna indietro negli anni. Quando ho condotto Sanremo, nel 2006, mi vestì Armani e mi fece lui gli ultimi ritocchi con gli spilli in bocca. Ogni tanto tirava fuori questo profumo e se lo spruzzava, era molto incensato e gli chiesi come mai lo usasse in continuazione. Rispose: "Guarda, quando lavoro lo uso sempre perché mi ricorda mia mamma e l' odore dello scialle quando tornavamo dalla chiesa: l' incenso restava nel foulard"».

Visto che ha citato Sanremo del 2006, lo ricondurrebbe? Non fu un trionfo...

«È qualcosa che ricordo con sentimenti contrastanti. Secondo me quel Sanremo lì era un po' troppo avanti. L' eliminazione dei fiori, della scala..., probabilmente lo vedremo così tra molti anni, semplice, pochi fronzoli. Però lo rifarei, ovviamente con lo sguardo di oggi, la maturità e la scaltrezza di adesso. Ero andato lì pensando che fosse non dico una passeggiata, ma un lavoro d' unione tra la rete e i giornali, che fossimo tutti insieme...».

Tra tutte le cose che ha fatto, quale l' ha divertita di più?

«Oltre alla televisione, che è sempre da mettere come base nel discorso perché è quella che mi ha dato tutto, la cosa che ricordo con maggior divertimento e impegno è Il borghese gentiluomo di Molière. Quando il regista Giampiero Solari me lo propose lo guardai pensando scherzasse e invece ho ricevuto grandi complimenti da personaggi come il povero Gigi Proietti, Martone, i grandi del teatro che sono venuti a vederci».

E della tivù cosa le è rimasto nel cuore?

«I miei ricordi più belli sono legati al primo anno di Torno sabato, quello itinerante, perché ho capito che insieme con noi girava l' Italia. Avevo una compagnia che era veramente una famiglia, dove si sono sposati cameraman e ballerine. L' ultima grande soddisfazione, invece, è stata portare in tv lo spettacolo dei miei fratellini Leonardo Pieraccioni e Carlo Conti, dopo che avevamo fatto un botto di date nei Palasport. Ecco, queste due cose con Molière mi rimarranno per tutta la vita».

Cosa le piacerebbe fare, che non ha fatto?

«La commedia musicale, come quelle di Garinei e Giovannini, che in realtà ho sfiorato».

Racconti.

«Stavo lavorando al Parioli di Roma quando venne Garinei, mi chiamò e disse con la sua bella voce autoritaria: "Panariello, io vorrei che lei rappresentasse per noi in teatro al Sistina la commedia preferita di Giovannini Aggiungi un posto a tavola ". E io: "Magari! Dove c' è da firmare?". Ma poi uscì la terza edizione di Torno sabato e non ho potuto farlo. È un grande rammarico. Oggi la commedia musicale la farei ovviamente moderna. Ci sono tanti autori bravissimi, penso a Giuliano dei Negramaro, Biagio, Diodato, che potrebbero comporre delle canzoni per una commedia divertente».

L' ha gia scritta?

«Ci sto pensando, ho un' idea che mi frulla in testa».

È vero che ha preso il primo aereo a trent' anni?

«Sì, per andare in Sardegna. Quando atterrai a Elmas venne a prendermi l' impresario che stava andando a Iglesias per uno spettacolo di Benito Urgu. "Chi è?", chiesi. "È un comico bravissimo, qui in Sardegna impazziscono per lui". Quando gli vidi fare la signora Desolina Vacca, Giorgetto da Pirri, Tore Mitraglia, il maresciallo Serpis, decisi di tirare fuori dal cassetto i miei personaggi e scrivere i testi. Fino a quel momento avevo fatto solo imitazioni di personaggi famosi».

Torniamo a Franco. Come mai fu Carlo Conti ad avvisarla che suo fratello era morto? Per ipotermia, accertò l' autopsia.

«Quando hanno portato Franco all' obitorio, lì c' era una poliziotta che era la moglie di un nostro amico che fa il comico, Graziano Salvadori. Non avevano il mio numero e non erano sicuri che quel Francesco Panariello fosse mio fratello, lo conoscevano come Franco. Nel dubbio chiamarono Carlo e lui chiamò me».

E in quel momento?

«Fu un fulmine a ciel sereno. L' avevo visto pochi giorni prima, era a posto. Me lo avessero detto quei tempi là me lo potevo aspettare, ma così no. Andai di corsa pensando è lui?, non è lui? Non so descrivere la sensazione, un contrasto di sofferenza e rammarico. E se non l' avessi fatto andare via?».

Il senso di colpa attraversa tutto il libro che ha scritto per lui, ma Franco ha sempre scelto.

«Lo so, non voglio far passare me per un santo né Franco per una persona che dava sempre la colpa agli altri. Ma bisogna tenere conto che non era lucido, aveva vissuto in collegio reietto, poi in un garage... Se lo avessero adottato a 7 anni sarebbe stato diverso».

Abbiamo iniziato con un nome, chiudiamo con un altro. Chi è Claudia?

«È la mia fidanzata, una persona straordinaria. Ha 25 anni meno di me, ma è molto matura. Mi dà tranquillità, serenità, amore. La stimo e mi stima».

La sposa o no?

«Io e lei non ne parliamo mai. Ce lo chiedono solo gli altri».

Giorgio Panariello: il libro dedicato al fratello morto e l'amicizia con Carlo Conti. Le Iene News il 26 novembre 2020. Imitatore, comico, grande amico di Carlo Conti e Leonardo Pieraccioni. Abbiamo incontrato Giorgio Panariello che ci racconta del suo libro “Io sono mio fratello”. Ci racconta di chi era Franco e delle circostanze tragiche in cui è morto. Poi Giorgio ci saluta con l’imitazione che tutti gli chiedono: Renato Zero! “Mi chiamavano Giorgio Secchioncello” che faceva rima anche con “Panariello tutta pancia e poco…”. Abbiamo incontrato Giorgio Panariello. Segni particolari: secchione, mai bocciato. Età? “Qualcuno sparge voce che abbia 60 anni: me ne sento 32/33, me ne danno 74”. Ci racconta di come ha iniziato con le imitazioni e in particolare con quella che tutti gli chiedono: Renato Zero. “Quando ho iniziato mi hanno tirato una busta con dentro un gatto morto”, racconta. Con lui parliamo anche dei suoi più grandi amici: Carlo Conti e Leonardo Pieraccioni: “Non ho capito dove Carlo va a farsi le lampade”. Oltre alle battute e alle imitazioni, Giorgio ci parla di “Io sono mio fratello”, il suo libro in cui racconta la storia di suo fratello Franco “che ha avuto l’unica sfiga di aver incontrato l’eroina”. “Da quasi 10 anni lui non c’è più e questo libro è per lui. Le persone avevano un’opinione sbagliata per come è andata a finire questa storia”, dice Panariello. “L’eroina è molto democratica e non guarda in faccia nessuno. E anche a me l’hanno messa davanti per provarla, ma mi dava fastidio tutto quello che aveva attorno. Questa è stata la mia salvezza”. Giorgio è stato adottato dai nonni mentre suo fratello è finito in istituto: “Mio papà non ho idea di chi sia mentre mia mamma la si vedeva a Natale quando veniva accompagnata da qualche elfo che spesso cambiava…”. Giorgio ricorda l’ultima volta che ha visto suo fratello: era la vigilia di Natale. “La sera del 26 ha fatto una cena ed è stato Carlo Conti a telefonarmi per dirmi che lo avevano trovato abbandonato in un’aiuola a Viareggio. Per la vita che ha fatto c’è la percezione che sia stata overdose, ma non è così. Ha avuto un malore e chi era con lui anziché portarlo in ospedale, l’hanno lasciato in mezzo a un cespuglio e se ne sono andati”. Franco è morto per ipotermia e c’è chi ha pagato per questo. “Davanti alla legge hanno pagato poco, però l’ergastolo morale sarà quando sentiranno il mio nome o quello di Franco, gli verranno in mente quello che non hanno fatto”. Nessuno ha chiesto scusa a Giorgio e c’è chi sui social lo ha insultato: “Io li ho retwittati tutti perché così vi rendete conto di che cosa sono”. Anche a Franco piacevano i personaggi di Giorgio e lui ci saluta con l’imitazione che tutti gli chiedono: Renato Zero!

Malcom Pagani per “Vanity Fair” il 5 novembre 2020. Giorgio dice ritrovarono suo fratello in una notte d’inverno «buttato come fosse un materasso usato, tra i cespugli davanti al mare di Viareggio». Giorgio giura che il giorno del funerale a Montignoso, superati i cipressi all’ingresso: «piangevano tutti quelli che Franco aveva derubato, insultato, deluso e tradito. Persone che non avevano mai smesso di volergli bene perché a esclusione di se stesso, Franco non aveva mai fatto del male a nessuno». Giorgio ricorda che quando arrivava l’Ape piaggio del gelataio Eugenio e le premesse erano più dolci delle promesse non mantenute: «io e Franco, bambini, camminavamo con gli zoccoli, le magliette a righe e un cono più grande delle nostre stesse mani alzando passo dopo passo la polvere sulla ghiaia». Per non farne posare altra sulla memoria e lucidare un amore profondo raccontato fino a oggi con superficialità, Giorgio Panariello su Franco Panariello, morto nove anni fa al limitare di una strada dopo una vita ai margini, ha scritto un libro. «L’ho fatto per togliere dalla testa della gente che Franco fosse un ex tossicodipendente travolto dall’ultimo buco e far capire che la sua storia, una storia non troppo diversa da quella di tanti altri fantasmi che osserviamo distrattamente ogni giorno avvolti nei loro giacigli nelle nostre città, sarebbe potuta capitare a chiunque». Si disse che nel 2011 Franco fosse morto per overdose e si scoprì invece dopo un penoso processo che l’unica droga di quella sera era stato l’abbandono di un uomo «per vigliaccheria». Tre persone con le quali si era sentito male mentre era con loro a cena lo avevano scaricato da una macchina e il suo cuore, in una terra di mezzo in cui l’omissione di soccorso confina con l’omicidio, la scomparsa della pietà è stretta parente del pregiudizio e il passato determina il futuro, poi lo nega e infine lo cancella, aveva smesso di battere per ipotermia. Nel mettere insieme i frammenti e trasformare Io sono mio fratello in un mosaico incastonato tra il memoir e il romanzo, Panariello si è affidato al calore umano e non si è fatto sconti: «Volevo rendere giustizia a Franco e assumermi le mie responsabilità».

In che senso?

«Tra me e Franco la differenza l’ha fatta la fortuna. Ho avuto soltanto più culo di lui, ma Franco avrei potuto essere io. Nessuno dei due aveva mai saputo chi fosse nostro padre e mia madre, che ci aveva messi al mondo troppo in fretta, non era stata in grado di assolvere alla sua funzione. Io, nato un anno prima di lui, venni affidato ai nonni. Lui finì presto in collegio senza incontrare affetto e attenzioni. A Franco, nella vita, è mancato soprattutto l’amore».

Chi era Franco Panariello?

«Un ragazzo selvaggio. Un poeta. Uno spirito ribelle. Una persona buona. Un ossimoro vivente. Una contraddizione. Un bugiardo patologico e al tempo stesso un uomo di parola. Un generoso. Uno che se ti rubava ventimila lire dal portafogli, quindici, stia pur certo, le spendeva per offrirti da bere. Uno che l’amore di cui le parlavo lo cercava ossessivamente: nelle ragazze, nel calcio e negli amici. Lo ha profuso per anni nella fumosa speranza di incontrarlo senza mai riuscire a trovarlo davvero. O forse, quando è accaduto, era talmente confuso dall’eroina da non essere in grado di rendersene conto».

Nel suo libro la vostra storia apparentemente così diversa procede su binari che corrono uno accanto all’altro.

«Ho capito che volevo scrivere un percorso parallelo: la storia di due fratelli che si divide per poi riunirsi. Non un libro su di me o su di lui, ma su noi due. Non un apologo sul povero artista che ce l’ha fatta pur avendo un fratello matto e disgraziato, né un’autobiografia, ma un racconto utile a far capire che tra precipitare dalla scarpata o fermarsi sulla soglia del burrone, la differenza è minima».

Per scrivere ha dovuto affidarsi a ricordi a volte lontanissimi.

«Ed è stato difficile perché con la mia infanzia ho un rapporto stranissimo: non ho conservato foto e in generale ricordo poco. La prima volta che ho incontrato mio fratello però non l’ho dimenticata perché ancor prima di vederlo, l’ho sentito. Come un’onda, una presenza, un colpo di vento. L’immagine di questo bambino ben pettinato che spuntava da un groviglio di gambe adulte e a un tratto alzava la testa svelando il suo strabismo non l’ho dimenticata. Me lo presentarono fugacemente: “Questo è tuo fratello”. Io non capivo. Ma avevo avuto la sensazione di essere guardato da una presenza che in qualche modo mi apparteneva e che con il tempo avrei imparato a conoscere meglio».

Una sensazione giusta.

«Non ci volle molto perché la verità uscisse. Due mezze cattiverie dei compagni di scuola, i miei nonni molto più adulti dei genitori dei miei coetanei, il dubbio che si insinua e in breve tempo misi le cose nella giusta prospettiva: mi stavano crescendo i miei nonni perché io e Franco eravamo figli di una madre che ci aveva partoriti e poi lasciati apparendo soltanto a folate, durante le feste comandate. Nei suoi confronti comunque, non ho mai provato né rabbia né odio».

Ha provato amore?

«Solo indifferenza. Non l’ho mai amata perché lei non mi ha insegnato a farlo. I miei veri genitori, il babbo e la mamma, sono stati i miei nonni. Il Bà e la Mà, come li chiamavo non mi hanno mai fatto mancare niente. Non c’era una lira, ma c’era sentimento. La Mamma, quella vera, invece appariva ogni tanto, come Franco che mio nonno, un uomo di un’altra epoca, impiegato alla Dalmine, non potè adottare per questioni economiche. Erano gli anni del boom, ma il benessere evidentemente era arrivato ovunque tranne che da noi. Franco venne mandato a Marina di Massa, in collegio e la sua vita deragliò. Prima l’insofferenza verso le regole, la violenza e la disperazione, poi le notti insonni e il disordine, infine le droghe. Ma ci fu un tempo che ora mi appare lontanissimo in cui nella provvisorietà in cui il mio “fratello ogni tanto” andava e veniva, avevo sperato in un orizzonte diverso».

Quando?

«Verso i diciott’anni. Un pomeriggio arrivò in casa, butto uno zaino nell’armadio, prese possesso del mio lettino e per un periodo convivemmo nonostante le imprecazioni del Bà con il quale Franchino- non solo per il rifiuto originario- non avrebbe mai potuto trovare un punto d’incontro. Troppo diversi, troppo orgogliosi, troppo distanti».

Lei invece con Franco lo cercò.

«Cercavo di capire chi fosse, cosa volesse diventare, se dietro alla sua aggressività ci fosse affetto per me».

E c’era?

«C’era perché non mancava mai un’occasione in cui mi difendesse facendo scudo con il suo corpo ai pericoli e ai soprusi, ma quell’affetto pulsava nel quadro di un’ambivalenza di fondo. Franco, ed era difficile rinfacciarglielo, provava invidia per quello che avevo: una stabilità, una famiglia, un gruppo di amici. Tutto quello che lui in collegio non aveva potuto avere. Lo percepivo proprio come lui sentiva che ero suo fratello e doveva volermi bene. Gliene volevo anche io: ma eravamo agli antipodi. Io curioso, mite e distaccato, lui molto più carnale, rabbioso e inconsulto. Abbiamo attraversato tante fasi, ci siamo amati, odiati e anche dimenticati l’uno dell’altro. Franco in tempi diversi è stato la mia gioia, ma anche la mia amarezza, la mia incertezza e la mia zavorra. All’epoca comunque ognuno dei due inseguiva qualcosa di opaco, di indefinito, di informe».

Lei cosa inseguiva?

«Non lo so. A scuola me la facevo con i rivoluzionari al solo scopo di saltare un’ora di lezione, mentre cercavo un lavoro per poter dare una mano ai nonni. Mi ero iscritto alla scuola alberghiera che lasciai in fretta per trovare un posto come operaio elettricista ai cantieri di Viareggio mentre in casa la situazione peggiorava a vista d’occhio».

Come mai?

«Per potersi permettere un bicchiere in più, lasciato il collegio, Franco aveva iniziato a dedicarsi ai piccoli furti e quando mio nonno lo venne a sapere in men che non si dica lo mise alla porta. Con estenuanti mediazioni, io e la nonna lo convincemmo a farlo dormire nel box in lamiera che era accanto alla casa. Un tugurio che d’inverno gelava e d’estate infuocava. Ci perse letteralmente un polmone, Franco, in quella fredda scatola di ferro. In breve iniziò a staccarsi progressivamente dalla realtà, a covare rancore e a rifugiarsi in quella parallela».

Provò a scuoterlo?

«Se avessi avuto dieci anni di più, le palle e il carattere per attaccarlo al muro e spingerlo a un’ambizione di qualsiasi tipo, forse avrei potuto fare qualcosa. Oggi che ho una struttura mentale solida potrei, ma la verità è che all’epoca non stavo tanto meglio di lui. Lui aveva le sue dipendenze, io i miei abissi. Anche se le condizioni di partenza erano state diverse, l’orizzonte era simile: nessuno dei due vedeva un futuro».

Prima mi ha detto che Franco avrebbe potuto essere lei.

«Ci andai vicino, davvero vicino perché nel tentativo di stargli accanto mi stavo trasformando proprio in Franco. La realtà mi pesava. Stavo bene solo con il vino e la canna in bocca. Le cose stavano andando molto male. Mia nonna era morta, mio nonno si era lasciato andare e rincasava a casa ubriaco, il riscaldamento era stato staccato e in quell’umidità non solo metaforica, avevo iniziato a lavorare, ma i soldi non bastavano mai e disperavo di poter pagare le rate dell’utilitaria che per spostarmi tra sagre, piccole radio e spettacoli mi era assolutamente necessaria. Così per non perderlo di vista, in un certo periodo mi introdussi nel suo giro d’amici».

Come mai?

«Mi illusi che tentare di farlo smettere con la droga non sarebbe stato impossibile. Lui me lo permise perché mi vedeva a un passo dal crollo e forse pensava che se fossi diventato come lui avrebbe potuto dire: “avete visto che il bravo ragazzo che tutti stimate non è poi così diverso da me?”. Una sera mi misero davanti l’eroina. Avrei dovuto sniffarla e l’avrei sicuramente fatto, forse per sfida idiota o forse per dimostrargli che tra il diventare dipendenti o il non esserlo la differenza era soltanto nella forza di volontà. A un certo punto vidi spuntare un accendino, poi un cucchiaio, infine un cristallo e capii a cosa stavo andando incontro. Uscii di corsa da quella casa e probabilmente mi salvai la vita».

Cosa capì quella sera?

«Che avrei potuto dare una mano a Franco soltanto se avessi cambiato davvero vita e avessi provato a diventare un artista con tutto me stesso. Così iniziai a concentrarmi su di me, a lavorare più intensamente, a darmi da fare: in radio ad esempio facevo di tutto. Passavo le pubblicità, mettevo la musica, mandavo in onda le telefonate. Alle prime venti, un’imitazione. Cominciai a innamorarmi delle conseguenze dell’amore degli altri, dell’applauso, della notorietà».

Con grande onestà mi ha detto che Franco per lei ha rappresentato anche una zavorra.

«Lui aveva la sensazione di avere un fratello ingombrante e la stessa sensazione abbracciava anche me, ma è chiaro che un fratello in quelle condizioni era anche una zavorra: per fare il mio mestiere devi avere la testa libera. Non è un lavoro, il mio: è vita. E se nella tua vita tensioni, amarezze e delusioni divorano il quadro ed esistono solo quelle, finiscono per condizionare l’andamento della tua carriera. L’inizio fu quasi impossibile perché prima che mi riconoscessero un ruolo e un talento trascorsero stagioni in cui arrancavo con enorme fatica. Il lavoro era la mia distrazione, ma poi una volta a casa i problemi di tutti i giorni si ripresentavano. Partivo e poi ritornavo. Andavo a far lo spettacolo, salivo sul palco e per tre ore passava tutto. Quando non vedevo Franco l’ansia diminuiva, ma poi subentravano i sensi di colpa».

Ha scritto questo libro anche per espiarli?

«Non c’è niente che ti freghi come il senso di colpa: ho fatto molti sbagli nei confronti di Franco, anche e soprattutto per il senso di colpa. Chiunque abbia in casa una persona che fa uso di stupefacenti ha un senso di colpa perenne. Mi sentivo in colpa quando foraggiavo i suoi vizi, quando gli negavo il denaro e anche quando le malelingue sussurravano: “Ma come, con un fratello così quello pensa a far ridere?”. È difficile far ridere se hai la tragedia dentro, ma è tutta la vita che faccio i conti con il senso di colpa. Perché qualcuna e ce l’ho e anche quando sono innocente, tendo ad attribuirmele».

Per qualche tempo lavoraste insieme?

«Pensai che portarlo con me potesse aiutarlo, ma mi dovetti ricredere. Per alleviare l’astinenza si affidava ad alcool e pasticche e in certe occasioni, se non ci fosse stato da piangere, ci sarebbe persino venuto da ridere. Una sera sul palco mise tutte le canzoni sbagliate e in un’altra spese tutto il mio cachet per offrire da bere a mezzo paese. Rubava, mandava a fare in culo tutti, ma non so perché sapeva comunque farsi voler bene. Quella sera quando andai per farmi pagare l’impresario mi disse: “Ti dovrei dare 300.000 lire, ma purtroppo adesso sei tu che ne devi dare cento a me. Tuo fratello ha offerto da bere a tutti e nel bar non è rimasta neanche una bottiglia». Lo disse tutto d’un fiato, ma lo disse con simpatia».

Lei e Franco arrivaste però anche alle mani.

«Accadde perché eravamo entrambi disperati. Una notte al culmine dell’esasperazione mi aggredì perché secondo lui gli avevo nascosto le sue pasticche e non ci vidi più. Lui tentò di darmi un pugno, io evitai il colpo e lo picchiai, forte, per la prima e ultima volta della mia vita. Mentre era ancora steso tra le lenzuola da lavare a causa dei colpi ricevuti feci in fretta le valige e lasciai la casa non prima di aver scritto un biglietto: “mi dispiace di non essere riuscito a dimostrarti che vivere come me fosse meglio”. Quando molto tempo dopo mi diede ragione e mi chiese aiuto, il nostro rapporto migliorò definitivamente. Fino ad allora si era trattato di un’alternanza di momenti vissuti in maniera devastante: c’erano occasioni violente, istanti in cui temevo anche per stesso, sere in cui guardavo dietro la tenda con il timore di vederlo spuntare alla porta all’improvviso».

Cosa accadde subito dopo quella rissa?

«Avevo bisogno assoluto di una tregua. Così passai un paio di mesi felicemente allo sbando, uno sbando creativo, in un bungalow non riscaldato davanti al mare. Gli amici mi portavano le coperte e i pacchi di pasta, ma nonostante tutto quel periodo rappresentò un’oasi di paradiso dopo troppi gironi infernali».

Lei ha conosciuto il successo in ritardo, ma con Torno Sabato fermò davanti ai televisori mezza Italia.

«Quando mi chiedono cosa serva per farcela rispondo sempre: pazienza, determinazione e un po’ di culo. Fino a quarant’anni mi era mancato l’ultimo elemento che dopo tanto teatro e un po' di cinema si materializzò con la tv. Quella vera.  Il mio colpo di fortuna si chiama Agostino Saccà. Lo incontrai al termine di uno spettacolo, mi riempì di elogi e mi promise che se fosse arrivato in Rai mi avrebbe dato un programma. Trascorso un anno mantenne la promessa e mi ritrovai catapultato in prima serata, con gli occhi di tutti addosso. La prima stagione di Torno Sabato fu un trionfo e la seconda, sempre con Bibi Ballandi nel ruolo di deus ex-machina, quadruplicò i propri appuntamenti diventando un programma itinerante da Nord a Sud in 15 puntate. Ha idea di quanto fosse difficile andare in onda con quello che passavo in famiglia? Eppure dovevo essere sempre imperturbabile, perfetto, inappuntabile. Tra il comico e l’uomo la scissione era totale».

Che rapporti aveva con Franco all’epoca?

«Non lo vedevo da un po', ma sapevo che si era messo a spacciare. Puntualmente gli avvoltoi che volteggiavano su Franco e lo invitavano a presentarmi il conto si ripresentarono. Trovarmi non era difficile. Una sera lo vidi spuntare fuori da un camerino accompagnato da un ceffo. Lo invitai ad entrare e mi chiese subito il denaro. Fui fermo: “Franchino, soldi per far drogare te e i tuoi amici non te ne do più”. Lui ringhiò: “Non fare la merda”. “Non faccio la merda, sai che ho ragione”. La discussione degenerò, il suo volto trasfigurato emanava rabbia. Cedetti e gli diedi i pochi euro che avevo in tasca. Li prese con disprezzo prendendo a calci il tavolo delle parrucche. Mi ritrovai solo e guardandomi allo specchio mi diedi del coglione. Avrei dovuto prendere lui e l’altro a calci in culo e cacciarli. Avevo voglia solo di  tornarmene a casa, ma dovevo portare avanti le prove. Reggere alle pressioni. Dimostrare a chi mi aveva dato fiducia che la meritavo. Furono mesi impossibili in cui temevo sempre di vederlo spuntare finché una sera, tempo dopo, mi venne a trovare. Scorsi subito qualcosa di diverso. Scoppiò a piangere. Si disse disperato. Maledì l’eroina e la vita disperata che aveva condotto fino a quel momento. “Sono arrivato a picchiarmi con un barbone per mezza mela marcia trovata per terra”. Si mise a piangere e poi tirò fuori il biglietto che gli avevo lasciato quella sera in cui eravamo arrivati alle mani. Era tutto sgualcito. “Mi hai dimostrato che avevi ragione” disse “ora tocca a me”».

Per salvare suo fratello dall’inferno, lei e Franco dopo quella conversazione vi recaste anche insieme a San Patrignano.

«Andrea Muccioli se ne fregava di chi avesse davanti. Era difficile entrare a San Patrignano perché a tutti gli effetti San Patrignano brillava come l’ultima occasione per i dannati. Di quel giorno ricordo la sua faccia, un volto che metteva paura mentre Franco per contraltare faceva lo spavaldo. “Uscirò dalla droga” diceva tronfio: “ce la faccio”. Mentre Andrea, gelido, ribatteva: “tu non ce la farai, sei una merda, appena sei da solo ti fai un buco”. Un confronto durissimo che si concluse quando Franco a un certo punto iniziò a piangere come un bambino ammettendo di aver bisogno di aiuto. Era lo scopo di Andrea: valutare la forza di un desiderio. Per entrare in un regime marziale che davanti ai cancelli, ogni giorno, vedeva assembrarsi 1.500 persone, non servivano proclami, ma forza di volontà».

Ora Franco non c’è più.

«E non riesco a crederci. Dopo tre anni nella comunità di Don Mazzi, Franco era uscito dai suoi vizi. Aveva avuto l’ultima possibilità della sua vita e l’aveva colta. Non so se fosse veramente felice, ma stava bene. Aveva voglia di vivere e aveva compreso quanto fosse meraviglioso volare con i piedi per terra. Si era trasferito a Pietrasanta, aveva trovato un lavoro stabile e mi venne a trovare alla vigilia di Natale. Passammo una serata bellissima, a ricordare le follie fatte insieme e poi ci abbracciammo. Si sistemò la sciarpa, fece un’ultima risata delle sue, con la voce roca mi salutò e lo vidi sparire con la sua andatura sempre in pencolo sistemandosi il ciuffo. Fu l’ultima volta che lo vidi».

Il suo libro è sincero.

«Perché penso che in tempi come questi l’unica cosa che serva è la verità. Non mi importa più niente del giudizio altrui o di come gli altri pensano che tu dovresti essere o parlare. Non ho più paura di niente, oggi. L’unica cosa che mi spaventa è perdere la mia serenità».

Cosa le resta di lui?

«Mille ricordi, un libro di poesie con il suo nome in copertina, la sensazione che anche se troppo tardi, Franco che è morto ingiustamente, ha avuto la sua giustizia davanti al mondo. L’unica verità della sua triste vicenda è che non è morto per una dose eccessiva, ma per un’eccessiva dose di fiducia verso gli altri. Franco era stato più forte della droga e del destino. Era stato più forte di me e anche di se stesso. Inconsapevolmente, ci ha lasciato una grande lezione».

Quale?

«Che si può morire a testa alta, anche se hai un occhio storto e un polmone solo».

·        Giovanna Civitillo.

Giuseppe Candela per ilfattoquotidiano.it il 17 gennaio 2020. Giovanna Civitillo sbarca a Sanremo, le polemiche possono essere frenate sul nascere: non affiancherà Amadeus sul palco dell’Artiston, dove, come avvenuto per gli altri partner, potrebbe accomodarsi in prima fila durante le cinque serate. Per l’ex volto de L’Eredità ci sarà un altro impegno, sarà infatti inviata speciale de La Vita in Diretta. La notizia era stata anticipata nelle scorse settimane dal sito Dagospia e trova ora l’ufficialità. “Amadeus non mi ha invitata a Sanremo, avete visto le donne del Festival? Io gelosa? Noooo, assolutamente noooo“, ha scherzato in studio con i conduttori Lorella Cuccarini e Alberto Matano. Da qui l’invito come “agente all’Havana” e l’entusiasmo della moglie del direttore artistico del Festival: “Sono contentissima, vengo con voi… sarà una sfida.” La Civitillo è da qualche stagione nel cast fisso di Detto Fatto, il programma di tutorial condotto da Bianca Guaccero, e nei mesi scorsi ha recitato nella fiction di Rai1 “L’Allieva”. Una relazione nata nel 2003 durante L’Eredità: lei impegnata nel ruolo di ballerina, lui in quello di conduttore. Nel 2009 per la coppia l’arrivo del figlio Josè e nello stesso anno anche il matrimonio, nozze confermate dieci anni dopo in chiesa. Intanto sul profilo Instagram, dopo le polemiche delle scorse ora, la Civitillo si schiera al fianco di suo marito: “Io Giovanna Civitillo, a volte un passo avanti, a volte un passo indietro. Spesso accanto ma soprattutto la cosa più importante SEMPRE SEMPRE FELICE. Purtroppo o per fortuna mio marito è poco social , e a me diverte avere un profilo di coppia, fatto proprio così e che gestisco io.”

·        Giovanna Mezzogiorno.

Paola Piacenza per iodonna.it il 10 maggio 2020. I bambini dormono ancora. «Più tardi avranno scuola online, per fortuna le lezioni sono in orari un po’ più comodi». Il mattino presto è il momento ideale per un’intervista telefonica con Giovanna Mezzogiorno. Il suo ultimo film, Tornare, diretto da Cristina Comencini, è in streaming da qualche giorno. «Un film forte, cupo, che torna sui temi cari a Cristina, la famiglia, la violenza…» Una donna dal nome favolistico, Alice – rientrata a Napoli dopo anni di vita in America per il funerale del padre – reincontra se stessa bimba e adolescente. E dai capitoli archiviati e rimossi della vita passata emergono, attraverso il confronto con la ragazza scapestrata, sensuale e ribelle che era, brandelli di un trauma sepolto.

Un film sul tempo e sul potere straordinario della memoria. Che avrà sollecitato ricordi anche in lei.

«Lo fanno tutti i film, soprattutto quando sono intensi come questo. In Tornare io sono in scena sempre, non c’è mai stata pausa nella tensione emotiva sul set. E ci sono stati momenti molto intensi, anche duri. C’è una scena in cui io rivedo me stessa ragazza, bella e libera, a una festa. Sì, mi ha fatto ripensare a me stessa adolescente. Io ero una vera peste, tremenda, sempre arrabbiata, molto ribelle, ma non ribelle come Alice. Alice è un’adolescente indomabile, disubbidiente, ma gioiosa. Io no, ero arrabbiata coi miei genitori, e questo mi rendeva triste. Non ho avuto una bella adolescenza, Alice si divertiva, viveva la propria giovinezza felicemente. Mi ha fatto pensare a me, ma nella differenza».

Alice da adulta rivisita psicoanaliticamente il proprio vissuto e riconosce i “ruoli” che ognuno rivestiva in famiglia. Lei si guarda indietro? Reinterpreta?

«Mio padre è mancato che io non ero ancora un’adulta, avevo solo 17 anni. Tutto è cambiato nella mia famiglia in quel momento. Io ho dovuto rivestire il ruolo di madre di mia madre distrutta dal lutto, lo amava tantissimo… Mio padre era un padre severo, autoritario: anche se poteva fare il burlone, sapeva esattamente quello che voleva, anche da me. Mi obbligava, mi costringeva in tante cose… Era un padre anche difficile. Mia madre era semplicemente materna. Tutto sommato il nostro era un trio che funzionava, ma quando lui è uscito di scena, i ruoli di noi che restavamo si sono confusi e per mia madre è iniziata la discesa».

Tra gli obblighi che suo padre le proponeva, non c’è stato anche quello di seguire le sue orme, diventare attrice, studiare con Peter Brook, che era già stato suo maestro e per la cui regia lei poi esordì come Ofelia in Qui est là?

«Mio padre non ha mai voluto intromettersi nel mio futuro. È stato solo quando è mancato che ho deciso di partire per Parigi dove mi sono diplomata all’Accademia di arte drammatica e poi ho fatto quello spettacolo per tre anni. È stato da quel momento, da quel primo spettacolo, da quella messa alla prova vissuta sulla mia pelle, che ho capito quanto quella “cosa”, recitare, che era stata la vita di mio padre, di mia madre, poteva essere anche mia. Solo a quel punto mi sono autorizzata».

E ora sono venticinque anni di carriera, tra cinema e teatro.

«Non mi sono mai fermata, a parte la pausa per la maternità. È difficile tenere insieme tutto, ma è importante non mollare, non afflosciarsi su casa-figli-famiglia. Il lavoro è vitale, è carburante».

Al cuore del film, come già nella Bestia nel cuore sempre diretto da Cristina Comencini, cui Tornare in qualche modo si lega, c’è un trauma. Il trauma non è più rappresentato nelle sceneggiature di quanto lo sia nelle nostre vite?

«La famiglia è davvero un luogo traumatico, non è sicuramente un luogo pacificato, lì si svolgono vicende di grande intensità nel bene e nel male, ma temo più nel male… Io condivido questa lettura di Cristina. È stato bello e forte tornare a lavorare con lei. Sembra una donna dura, ma in realtà in lei c’è tanta tenerezza. È come un’adolescente, è piena di dolore, ma anche – o forse proprio per questo – di empatia. «Una famiglia è un’accolita di persone di età e di sesso diversi tese ad occultare rigorosamente imbarazzanti segreti comuni» scriveva Christa Wolf in Trama d’infanzia. Benché vi investiamo tante delle nostre energie, la famiglia è il teatro dove spesso tragicamente avvengono cose che ci segnano per il resto della vita. Lo vedo nelle cronache, lo registro nella grande letteratura, mi viene anche dall’esperienza personale… È oggettivamente un posto terribile, carico di drammi».

Leone e Zeno, i suoi figli, sono ancora lontani dall’età difficile…

«Per carità, non portiamoci avanti, non sono ancora pronta, hanno solo otto anni (ride). Sono due gemelli bellissimi e già so che faranno strage di cuori. Io sarò disperata e chiuderò a chiave tutte le porte! Ma non corriamo, fino a qui tutto bene. O meglio… più o meno bene, perché il loro carattere sta uscendo prepotentemente, non sono più piccoli, non puoi metterli lì a giocare con due bastoncini. Soprattutto in questa fase così difficile, capita che in loro esca la rabbia, e allora cominci a intravedere anche quegli aspetti che saranno parte della loro vita da adulti».

E, allargando lo sguardo, è più portata ad accreditare la tesi secondo cui cambierà tutto o quella secondo cui torneremo alla vita di prima, dopo questa crisi?

«Non tornerà tutto uguale a prima, ne sono abbastanza sicura. Per quanto riguarda il mio lavoro credo che molte saranno le cose che dovranno cambiare: il cinema, il teatro vivono di contatto, anche intenso, sono arti che non si possono praticare a distanza. E nemmeno si possono vivere a distanza… Non credo che gli spettatori – anche una volta finito il confinamento – vorranno tornare ad ammassarsi nei cinema. So che anche Daniele Luchetti, con cui ho lavorato in Lacci (film con Alba Rohrwacher, Luigi Lo Cascio, Laura Morante, dal romanzo di Domenico Starnone, ndr) , sta pensando di distribuire il film in streaming…»

Se prova a fare lo stesso esercizio che Alice fa in Tornare, recuperare brandelli di memoria, quali momenti cardine nella sua vita, nel suo lavoro, riemergono con chiarezza?

«Vincere di Marco Bellocchio è stato il mio podio (vi interpretava Ida Irene Dalser, Filippo Timi era Mussolini, ndr). Un film faticosissimo, Marco non è un regista facile, un giorno l’ho preso a botte, l’ho anche morso sulla spalla. Volevo che smettesse di tenere le distanze, di parlarmi attraverso gli assistenti. Gli stavo dando il sangue, dovevo trovare il modo di vincere la sua fiducia. Credo, alla fine, di esserci riuscita».

·        Giovanna Ralli.

Luca Pallanch per “la Verità” il 17 maggio 2020. Esistono nel cinema italiano le dive. Sono rimaste in poche e ci tengono a conservare lo status faticosamente conquistato. Accanto, anzi sotto di loro, ci sono decine di attrici bravissime in un universo di stelle e stelline sempre meno splendenti. Poi c'è Giovanna Ralli, unica nella sua semplicità, che se avesse voluto forse le avrebbe surclassate tutte, per bellezza e talento, ma avrebbe dovuto rinunciare ad essere sé stessa. «Non volevo fare l' attrice, lo facevo per lavorare. Ho vissuto durante la guerra, il dopoguerra è stato difficile, papà lavorava in un panificio, ma c' era poco lavoro, ho cominciato a fare la generica, come tante. Poi, piano piano».

Però esordì da piccola...

«Ero a scuola, cercavano bambine per fare delle comparse, in scene da girare nei giardinetti, e feci I bambini ci guardano di Vittorio De Sica, ma si vede solo che corro».

Compare ne La maestrina di Giorgio Bianchi.

«Anche quello un girotondo! Non sono parti, queste».

Il primo vero film è quindi Luci del varietà di Federico Fellini e Alberto Lattuada.

«Facevo teatro con Peppino De Filippo. Era il 1948. Avevo 13 anni. Mi vide Fellini: "Ti piacerebbe fare il cinema?". E io: "Dipende. Quanto date al giorno?". Mi interessava solo quello. E così feci il film».

Chi l' ha girato? Ci sono state polemiche tra i due registi.

«C' erano tutti e due quando si girava. Alberto era più esplosivo: "Disgraziata, devi uscire da quelle quinte!". Stavo in bikini, ero piccola, mi vergognavo. Fellini era più posato».

Poi non ha più avuto occasione di lavorare con Fellini.

«Mi diceva: "Ho sempre una cambiale con te!", ma non avrei potuto fare i suoi personaggi».

Teatro a 13 anni: i suoi genitori erano d' accordo?

«Certo. Dopo la guerra, non si mangiava... Mi pagavano e aiutavo la famiglia».

Qual è il film che le ha dato la prima notorietà?

«Villa Borghese di Gianni Franciolini. Lavoravo con Vittorio De Sica, ero protagonista con lui di un episodio. Filippo Sacchi su Epoca si domandò chi fosse quest' attrice sconosciuta così brava. Per strada mi fermavano. Succede ancora oggi: vado a fare la spesa e mi riconoscono tutti. Ho ricevuto una lettera qualche giorno fa dal Giappone. Dalla Germania non le dico quante, mi scrivono anche dagli Stati Uniti...».

Le ha dato notorietà tra le nuove generazioni il ruolo della madre di Ricky Memphis in Immaturi di Paolo Genovese.

«Anche se era un ruolo breve, ho capito subito che dovevo farlo. So leggere le sceneggiature, me lo hanno insegnato Sergio Amidei, Age e Scarpelli, capisco se i dialoghi sono belli o brutti. Avevo la fortuna di frequentarli e mi consigliavano i libri da leggere. Amidei mi regalò Guerra e pace... Ha presente quando Gassman in C' eravamo tanto amati mi diceva: "Hai letto I tre moschettieri?". E io commentavo: "Tosto!". In confronto Guerra e pace! Chiedevo ad Amidei: "Sergio, al principe Andrej cosa succede?". "Lo devi leggere tre-quattro volte e poi ne parliamo!"».

Amidei, Age e Scarpelli, con Alberto Moravia, erano gli sceneggiatori di Racconti romani, di Franciolini, del 1955.

«Il personaggio della ragazza romana impulsiva che ha caratterizzato l' inizio della mia carriera era scritto da sceneggiatori di quel livello. Poi ho fatto la monaca di Monza (nell' omonimo film di Carmine Gallone del 1962, ndr) e dicevano: "Sì, figurati, la romana che fa la monaca di Monza!"».

Così si vedeva che era in grado di uscire dal cliché della ragazza romana...

«Certo, ho fatto teatro anche per questo».

Altrimenti avrebbe fatto la popolana tutta la vita!

«Non mi sarebbe dispiaciuto perché l' Italia è un paese dialettale. Gli attori più grandi sono i napoletani perché danno la verità, non recitano. Questa è la cosa brutta: recitare. Io vivo il personaggio, Mastroianni sosteneva che fosse un gioco. È vero: noi ci divertiamo a interpretare i personaggi. Il recitare, con il birignao, è una delle cose più insopportabili che ci possano essere».

Ha lavorato con Totò in Racconti romani, ne I tre ladri di Lionello De Felice e ne I ladri, primo film di Lucio Fulci.

«Totò non ci vedeva, poverino. Era così avvilito! Ci davamo del tu perché ci conoscevamo da anni. Era un generoso, aiutava tante persone».

C' era nel film d' esordio di Valerio Zurlini, Le ragazze di San Frediano del 1956.

«Ci innamorammo, poi lui divorziò dalla moglie, ma purtroppo non ebbi il coraggio di lasciare la mia famiglia e di seguirlo. Un amore importante sia per lui che per me».

Lo stesso anno ha fatto Un eroe dei nostri tempi di Mario Monicelli.

«Abbiamo girato una scena divertentissima con Alberto Sordi in cui litigavamo».

Com' era Sordi?

«Siamo diventati molto amici. Abbiamo fatto Costa azzurra e dopo che mi sono sposata simpatizzò con mio marito (l' avvocato Ettore Boschi, ndr). Veniva a mangiare a casa.

"Non mi fare il pesce, non mi fare i funghi, il resto tutto". Mi diceva: "Come fai tu il sugo con la pasta non lo fa nessuno!"».

Tra gli anni '50 e '60 i film con Roberto Rossellini: Il generale Della Rovere, Era notte a Roma e Viva l' Italia.

«Rossellini era stupendo: un incantatore di serpenti!».

Nel 1966 ha vinto un Nastro d' argento come miglior attrice protagonista per La fuga, film purtroppo dimenticato, del regista Paolo Spinola.

«La fuga è bellissimo. Sono stata la prima omosessuale in Italia. Mi piaceva interpretare il personaggio di una donna sposata con un bambino che conosce un' arredatrice, fanno un viaggio e si innamorano. Negli anni Sessanta!».

Qualche settimana fa è morto Sergio Fantoni, al quale era legata da importanti esperienze professionali.

«Avevamo fatto insieme Era notte a Roma di Rossellini e poi ci ritrovammo a Los Angeles per il film di Blake Edwards Papà, ma che cosa hai fatto in guerra? Diventammo molto amici, era simpaticissimo. Blake Edwards mi aveva vista nel film di Ettore Scola Se permettete parliamo di donne. Mi chiamò la mia agente Carol Levi: "Edwards vorrebbe farti un provino". Siccome dovevo fare la madrina per il transatlantico Raffaello, andai in nave. Avevo una dialogue coach per imparare le battute... Dopo il provino, ritornai in albergo con la mia segretaria. Le dissi: "Prepariamo le valigie". Mi chiamarono la mattina: "Signora, torni in Italia, prepari i bauli da portare qui perché resterà in America sei mesi!"».

È andata in America solamente per un provino?

«Solamente?».

Com' era Blake Edwards?

«Persona straordinaria, sembrava un europeo, elegante, simpatico, carino».

È rimasta a Hollyood?

«Feci altri film: uno con Michael Caine e un altro con Stephen Boyd, ma io volevo tornare in Italia».

Doveva viveva in America?

«A Beverly Hills, in una villa con piscina, l' autista, una roulotte per i set di non so quanti metri, arredata da un costumista, tutta leopardata! Vicino abitavano Jack Lemmon, Rock Hudson, Billy Wilder. Ho conosciuto Omar Sharif, Barbra Streisand, Cary Grant e tanti altri. Sono stata ospite a Palm Springs di Frank Sinatra, che, suonando il piano, ha cantato una canzone bellissima. Ma anche in Italia sono sempre stata trattata benissimo. Il nostro era un cinema più artigianale, in America era un' industria».

Cosa l' ha colpita in modo particolare dell' America?

«I supermarket! Da noi non c' erano. Era la più grande evasione per me e Virna Lisi, che stava anche lei a Hollywood in quel periodo. Ci incontravamo ai cocktail, ai party e quando avevamo il giorno di libertà andavamo al supermarket!».

Tornata in Italia, ha fatto qualche film di genere (Il mercenario di Sergio Corbucci, Gli occhi freddi della paura di Enzo G. Castellari), un secondo film con Paolo Spinola (La donna invisibile) e nel 1974 ha interpretato Elide in C' eravamo tanto amati di Ettore Scola, per il quale ha vinto il Nastro d' argento per la miglior attrice non protagonista. «Ettore, che aveva quattro anni più di me, lo avevo conosciuto quando faceva lo sceneggiatore. Mi ricordo le risate che ci siamo fatti per Fermi tutti... arrivo io! di Sergio Grieco, uno di quei film che si fanno per campare. Con lui ho fatto tre cose meravigliose: Se permettete parliamo di donne, C' eravamo tanto amati e Una giornata particolare a teatro. Il personaggio di Elide in C' eravamo tanto amati è struggente. Io i personaggi, quando esco dal set, li lascio lì. Stranamente il personaggio di Elide me lo sono sentito fino a quando sono rientrata a casa. Ho una fotografia a inizio film: stavo con Aldo Fabrizi e mi avevano messo il sedere e i fianchi finti per sembrare più grossa».

Fabrizi interpretava suo padre.

«Era già stato mio padre nella serie de La famiglia Passaguai! Avevo quindici-sedici anni. Fabrizi è uno dei più grandi attori che abbiamo avuto, mi dispiace che se ne parli poco, è un po' dimenticato».

Cosa avete detto quando vi siete rivisti?

«Quando ci siamo rivisti al trucco, io mi dovevo mettere i denti finti, i ferretti dietro le orecchie, imbottirmi le gambe, il sedere, i fianchi, il seno, e lui la parrucca finta con pochi capelli, il naso tutto rovinato, allora mi disse: "Perché Scola ci ha fatti così brutti?". E io: "Perché questi sono i personaggi! Dobbiamo essere brutti perché chi mi sposa lo fa per interesse". Gassman nel film sposa una brutta per i soldi. E invece, man mano che passano gli anni, diventa bella. Elide si rimette a posto i denti, non riuscendo a comunicare con il marito, registrava i suoi pensieri e poi glieli faceva ascoltare. È uno dei più belli del cinema italiano».

Nel 1974 ha fatto anche Per amare Ofelia di Flavio Mogherini con Renato Pozzetto.

«Fece una barca di soldi. Con Pozzetto si rideva sempre. Subito dopo abbiamo fatto un episodio di Di che segno sei? di Sergio Corbucci».

Dopo Manolesta di Pasquale Festa Campanile del 1981 per quasi dieci anni ha smesso di fare cinema.

«Volevo fare teatro. Le tournée duravano sei mesi, prima c' erano due mesi di prove e così quando mi offrivano parti cinematografiche ero impegnata. Nel '57 avevo debuttato nella commedia musicale con Un paio di ali di Garinei e Giovannini. Recitavo con Renato Rascel e cantavo Domenica è sempre domenica».

Era emozionata?

«Non volevo uscire la prima sera a Milano! Giovannini mi diede una spinta!».

Nel 1990 è ritornata al cinema con Verso sera di Francesca Archibugi, con Marcello Mastroianni. Perché?

«A inizi carriera ero sempre la fidanzata o la moglie di Marcello. I primi figli nel cinema li ho fatti con lui! Ho vinto la Grolla d' oro, nel '57, per Il momento più bello di Luciano Emmer, nel quale eravamo i protagonisti».

Ha rimpianti per film che non ha fatto?

«Rifarei tutto quello che ho fatto».

Ha mai pensato di scrivere un libro di memorie?

«Così dovrei dire la verità e io la verità non la direi mai!».

·        Giovanni Allevi.

PER ALLEVI LA VITA NON È STATA LIEVE - AVETE SEMPRE IMMAGINATO IL PIANISTA DI SUCCESSO COME UN ETERNO RAGAZZONE ALLEGRO E SPENSIERATO? NON È COSÌ: NEI SUOI LIBRI RACCONTA IL BUIO, L'INFELICITÀ, LE PARANOIE. IL NUOVO SI CHIAMA ''REVOLUZIONE'' E INIZIA CON LE MANI CHE SI BLOCCANO SULLA TASTIERA DI UN PIANOFORTE E SI RIFIUTANO DI SUONARE, DURANTE UN CONCERTO IN GIAPPONE. UNA CRISI DI ANSIA, UNA PARALISI TOTALE. FINCHÉ NON TROVA UN MODO PER ROMPERE IL CIRCOLO VIZIOSO DELL'INFELICITÀ. Dagospia il 16 agosto 2020. Giovanni Allevi, REVOLUZIONE, casa editrice Solferino, dal 27 agosto. Le mani che si bloccano sulla tastiera di un pianoforte e si rifiutano di suonare, durante un concerto in Giappone. Una crisi di ansia, una contrattura di ogni muscolo, persino quelli della creatività. Che succede? Per venirne a capo, il protagonista di questo libro si rifugia in una casa di campagna. Solo, circondato da una natura brulla, tenta di sintonizzare di nuovo mente e corpo, per riprendere a comporre e suonare, ma gli incubi lo perseguitano e l’incertezza aumenta. Finché un giorno, nel silenzio di una radura, una voce lo prega: «Accudiscimi». Ed è l’inizio dell’amicizia tra lui e Maddalena, un «guru» che si manifesta dapprima come disincarnata voce filosofica e poi in una forma quanto mai inaspettata. Prendersi cura di questo «altro da sé» sarà il modo per rimettere ordine nel proprio universo interiore, arrivando a capire che la sua ansia è quella dell’innovazione, il fardello di chi decide di infrangere gli schemi e si sente esposto, privo di appoggi. Ma proprio dalla vulnerabilità e dall’imperfezione scaturisce il gesto artistico: uno slancio di compensazione, di superamento della nostra condizione di mortalità. Questo racconto filosofico di Giovanni Allevi, intriso di musica e bellezza, tra rigore analitico e volo d’immaginazione, intraprende una profonda ricognizione dell’ansia comune a tutti noi, la paura di cambiare. Perché è così difficile uscire da situazioni che ci rendono infelici? Da dove attingere la forza per rompere lo status quo? Le risposte possono essere molto diverse da ciò che il senso comune vorrebbe. Ma è solo abbracciando l’inatteso che possiamo abbracciare il futuro.

Dagospia il 16 agosto 2020. L'intervista di Raffaela Caretta per iodonna.it in occasione dell'uscita del libro precedente, ''L'equilibrio della lucertola''. Ci sono folate di vento lì in alto, appeso al cornicione di un palazzo e sotto, le luci pallide delle auto sull’asfalto: l’immagine con cui si apre L’equilibrio della lucertola (edizioni Solferino) di Giovanni Allevi è un incubo, o per dirla con l’autore, «la metafora di un suicidio possibile, perché la tentazione di cadere è più forte di tutto». Nonostante il successo di una musica che ha reiventato il classico nel contemporaneo, nonostante i dischi venduti, i concerti affollati e insomma la fama planetaria, a trovarsi davanti Allevi, in maglietta nera e riccioli sugli occhi, si fatica a chiamarlo maestro: a quasi 50 anni, ha la noncuranza vagamente arruffata degli adolescenti. E quella grazia impavida di certi artisti-bambini che raccontano di sé sfiorando la spudoratezza senza mai dilapidare i propri segreti: perché pur svelando tutto, disperazioni, angosce, paranoie, c’è qualcos’altro d’inaccessibile. L’equilibrio della lucertola («un animale che appartiene alla terra, capace di rigenerarsi») è la storia delicata di un’immersione nel buio, un viaggio nell’infelicità, la ricerca di un equilibrio che si può trovare solo perdendolo. È un libro molto intenso. E ambizioso. Perché sottilmente intrecciato con una certezza: là fuori, nel mondo, c’è una comunità di sofferenti, una silenziosa internazionale del tormento che si riconosce in lui. «Scrivo e sono a nudo, ma il punto di vista è universale: vado a toccare la follia che è in ognuno di noi».

L’infelicità perché?

«Perché ci si sente inadeguati. Io mi sento inadeguato, da sempre. Dipende dalla nostra condizione: un’esposizione costante allo sguardo altrui, il confronto perenne con i risultati degli altri. Oggi però internet, i social, l’aggressività della comunicazione, hanno travolto tutto, l’invasione degli altri dentro di sé è diventata massiccia. Siamo tutti spinti a diventare qualcosa. E finiamo per perdere pezzi della nostra anima. Almeno per me, c’è un unico modo per ritrovarmi: l’isolamento, il silenzio, il vuoto. Riuscire a farsi nulla, uscire da sé, per un attimo…»

C’è un paradosso: lei scrive d’isolamento ma in un libro che è destinato agli altri e rilancerà la sua immagine verso gli altri.

«Succede lo stesso con la musica. È il mio destino. Posso trovare la musica solo nella marginalità estrema. Che diventa mezzo per una condivisione comune. Vuoto e pieno: sul palco, l’unico posto in cui mi sento a casa, dopo la gioia arriva l’ansia. In questi giorni, inizio del nuovo tour, la notte sono tornati gli attacchi di panico… Eppure, il successo è uno specchio. Me l’ha spiegato una signora del pubblico: il tuo essere scombinato ci permette di fare pace con la nostra inadeguatezza».

Da quanto tempo ha capito di essere così?

«Sono sempre stato in disparte. Vivevo in una piccola città, Ascoli Piceno, ma in periferia, ai bordi della campagna…»

Aveva già i riccioli a cascata?

«Da bambino, ma con l’adolescenza sono cominciati i guai. “Questi capelli non sono seri”, diceva mio padre e mi trascinava a tagliarli. Lui insegnava clarinetto. Era fanatico della musica sinfonica e dell’opera. Mi sfidava a riconoscere gli accordi, era severo. Sa una cosa? La voce di mio padre è ancora dentro me. È quella dell’accademia, della conservazione, contro cui mi sono ribellato…»

Amici?

«Mancava il collante per fare amicizia, mi mancava il gergo. Se si parlava di musica loro citavano, chessò, Sabrina Salerno, io Mahler. Ero il secchione. Da bullizzare. Alle superiori una volta mi hanno fatto trovare la bici in alto sull’albero davanti alla scuola».

Sentiva di essere speciale?

«No, sentivo solo di essere sfigato. Però anni dopo, durante una pizzata con gli ex compagni, arrivano due ragazzine carine a chiedermi l’autografo. Loro di sasso: un momento di pura ebbrezza».

Ora lei è padre di due maschi.

«Sì. E qui finisce l’argomento».

Non voglio sapere dei figli. Piuttosto: che posto hanno gli affetti per una persona così concentrata sulla musica, e dunque, per alimentarla, su di sé?

«L’arte è un’idrovora. La paternità non c’entra. Purtroppo la musica per me può nascere solo in un luogo appartato. E quando vedo tanti ragazzi che vogliono diventare famosi, chiedo: siete sicuri? C’è un prezzo altissimo».

Trascurare gli equilibri familiari?

«Certamente. E questa domanda alimenta il senso di colpa».

Il contrario di trascurare è prendersi cura. Chi si è preso cura di lei?

«La signora Lalla, proprietaria di una società di catering: quando sono arrivato a Milano, ventottenne e senza un soldo, mi ha offerto un posto da cameriere. Non ero così bravo, versavo solo l’acqua nei bicchieri, lavoravo come un pazzo. Poi la sera nel mio disordinatissimo monolocale, componevo ossessivamente. È stato il periodo della maturazione».

Quando ha capito che ce l’aveva fatta?

«A Shanghai, nel 2007. Per la prima volta seicento cinesi erano accorsi a vedere solo me. Lì ho sentito che stavo incontrando l’anima dei miei simili. Allora pensavo ancora che il successo fosse la panacea…»

Che cosa manca perché lo diventi?

«Una volta a Verona ho visto una cantante lirica trionfare davanti a 12mila persone, poi tolti vestiti e parrucca, venire a passeggio con me. Nessuno sapeva chi fosse».

Con questi capelli, questi occhiali, lei è riconoscibilissimo.

«Ero così da piccolo. E forse tutta la vita è stata inseguire quel bambino, quel periodo. L’unico davvero felice della mia vita».

·        Giovanni Benincasa.

Simonetta Sciandivasci per ''Il Foglio'' l'11 ottobre 2020. Arrivo in anticipo all’appuntamento con Giovanni Benincasa, l’autore di “Una pezza di Lundini”, il programma che stiamo guardando tutti, inclusi gli infastiditi che sottolineano che loro la tv nemmeno la accendono, e infatti di UPDL ne hanno visti almeno venti pezzi su Twitter, e tutte le volte hanno riso e detto, per una volta non a sproposito, geniale. Benincasa ha lavorato a molti programmi che abbiamo visto tutti, Carramba! Che Sorpresa, Carramba! Che fortuna, Furore, Matrix, Quelli che il calcio, e ad altri che non abbiamo visto o ascoltato tutti, ma che sono storici (mi scuserà se uso una parola che lo invecchia, tanto è maschio), Libero, VivaRadio2, Bombay (con Gianni Boncompagni, capite?). Renato Zero una volta ha detto: Giovanni è uno che è passato dalle scuole medie alla Rai. In mezzo però c’è una laurea in giurisprudenza che ha preso perché così voleva suo padre –«ero troppo pavido per disobbedire» – e che per fortuna non ha mai usato. Non direttamente, almeno. Arriva, ha gli occhi azzurri e rossi, è basso, tra poco mi racconterà che Mike Bongiorno gli diceva sempre di non prendersela, per «questo fatto della statura minuta», sebbene lui gli rispondesse tutte le volte che a lui non importava. Dopo avermi dato il gomito come da DPCM introiettato, Benincasa mi chiede se fumo, e io certo che fumo, gli dico, e lui è contento così può respirare fumo passivo, ché lui è sempre in avida ricerca di fumo passivo, mi dice. E dire che sono arrivata in anticipo per fumare prima che lui mi raggiungesse, di modo da non dargli fastidio: so che è un tabagista non più praticante.

Com’è la vita senza sigarette?

«Libera».

Da cosa?

«Prima, quando qualcuno mi diceva qualcosa che non mi piaceva, anziché rispondere a tono e mandarlo al diavolo, fumavo una sigaretta e mi calmavo. Se un qualche tale mi diceva, per esempio, “Bella idea, ma dove lo metto questo programma?”, io invece di fare quello che desideravo e cioè piantargli un coltello nel dorso della mano come nel Padrino, fumavo una sigaretta e mi pacificavo. Le cattive intenzioni passavano, passava tutto. Non era uno sfogo, era proprio un altro cammino che intraprendevo, qualcosa che mi elevava. Ora non ce l'ho più e allora dico e faccio tutto quello che mi passa per la testa: ho perso i freni inibitori. Senza le mie sigarette sono un assassino a piede libero».

E allora perché ha smesso, con tutto il bisogno che c’è in giro di accoltellatori di mani?

«Lo avevo promesso alla mia compagna, Giorgia. Ci avevo già provato altre due volte senza riuscirci, forse senza volerlo davvero, ma poi mi sono deciso. Era l’anno scorso, e avevo pianificato di fumare la mia ultima sigaretta il 25 aprile. L’ultima sigaretta è un fatto serio, quindi avevo scelto una data simbolica, il giorno della  Liberazione. Una settimana prima però mi si gonfiò la gola in modo anomalo e impressionante, andai in ospedale, mi dissero che se non mi fossi operato nel giro di dieci ore sarei morto. Avevo un flemmone. È una cosa rara che però può capitare a chiunque». 

Non mi faccia googlare. Dipende dal fumo sì o no?

«No».

E allora perché ha smesso?

«Perché quando mi sono svegliato dopo l’operazione avevo un tubo in gola, mi avevano fatto una tracheotomia. Non potevo parlare, mi uscivano solo delle H. Il reparto sembrava un’officina meccanica, si sentivano rumori metallici terrificanti: erano le voci delle persone intubate che avevano imparato a parlare con quella roba in gola. Capii che non volevo mai più mettere piede in un posto così».

Allora è soddisfatto.

«Il mio problema è che avrei dovuto fumare la mia ultima sigaretta il 25 aprile. Ma il 25 aprile ero ancora in ospedale, e tutto il mio piano andò in fumo. Non ho mai fumato la mia ultima sigaretta e nemmeno ricordo quando è stata l’ultima volta che ho fumato. È una grave menomazione, capisce? Sono stato derubato».

Terribile.

«Sì, terribile. Allora ci ho scritto su un romanzo, esce tra poco, si chiama “L’ultima sigaretta”. Parla di una cosa di cui non so niente: l’ultima sigaretta».

Neanche Serge Gainsbourg era così ossessionato, sa?

«Come lui, ho avuto tutte le donne che volevo».

Tutte?

«Quasi tutte».

Giorgia lo sa?

«Certo, quando l'ho conosciuta e abbiamo cominciato a vederci, sono stato subito chiaro e le ho detto: fermiamoci ora o ti innamorerai di me, è matematico. E lei ha riso moltissimo».

Mi dica, come si fa a far innamorare le donne?

«Guardi, è semplice, direi elementare. Basta corteggiare quelle alle quali hai capito di piacere».

Ai programmi le hanno mai detto di no o va come con le donne?

«Ho ricevuto tanti no. Della ventina di idee che ho proposto negli ultimi quindici anni, almeno cinque erano molto buone ma non sono mai andate. Il mio programma preferito lo avevo chiamato Bancomat e lo avrei voluto fare con la Gialappa’s Band: mi ero immaginato che stessero dietro lo sportello di un bancomat e la gente che andava a prelevare dovesse spiegare cosa avrebbe fatto con i sodi che chiedeva: loro avrebbero poi deciso a chi darli». 

Ma è bellissimo, scusi, perché non lo ripropone?

«Perché ormai è invecchiato. Ne ho in mente un altro, lo racconto a lei così mi risparmio la fatica di registrarlo alla SIAE. Ci sono io in cattedra e parlo con delle persone di vecchi filmati RAI, che so, dal ritrovamento della macchina di Moro ai balletti delle Kessler, e parlo, e parliamo, conversiamo amabilmente, come si dice, e a un certo punto esco di scena, mi si sente borbottare, poi ritorno, e dico: “Può votare”, che poi è il titolo del programma. Non faccio il professore, il maestrino. Converso».

È un mestiere che le sarebbe piaciuto fare, il professore?

«Moltissimo. Mi sarebbe piaciuto mettere sotto torchio i miei studenti. Un po' lo faccio durante i provini ma non è la stessa cosa. Avrei voluto laurearmi in lettere e studiare letteratura per tutta la vita. Sa, io nasco poeta».

Prego?

«Nasco poeta. E sono stato un poeta professionista».

Che significa?

«Che lavoravo incessantemente alla costruzione del palazzo, all'impalcatura dei versi. A 21 anni andavo in giro per festival, parlavo con i poeti e gli scrittori, ma soprattutto con i poeti, li frequentavo e smaniavo per incontrarli. Una volta riuscii a parlare con Montale. Anche lui fumava. Gina, la sua governante, se ne lamentava. C'è una poesia bellissima di Montale, "Satura", che dice a un certo punto: «Quante volte t'ho atteso alla stazione nel freddo, nella nebbia. Passeggiavo rosicchiando, comprando giornali innominabili, fumando Giuba poi soppresse dal ministro dei tabacchi, il balordo!». Il vizio nasce là, in quelle ore, nelle vigilie, nelle attese. Ricordo quante sigarette fumai quando andai a incontrare Borges: una dopo l'altra, per ore, senza fermarmi. Avevo letto sul un giornale che sarebbe venuto a Roma e avrebbe alloggiato all'hotel Excelsior, e allora riuscii a mettermi in contatto con la sua assistente, le dissi che ero un giovane appassionato e il mio più grande sogno era incontrare il maestro. In quel momento della mia vita, Borges era effettivamente fondamentale: la mia fidanzata di allora lo adorava, passavamo molto del nostro tempo insieme a leggerlo. Comunque. Alcune ore più tardi, ore che io passai a consumare decine di pacchetti di sigarette, agitatissimo, l'assistente di Borges mi richiamò e mi disse a che ora raggiungerli: era fatta. Chiesi a mio padre dei soldi per comprare le rose alla signora e arrivai nella hall dell'albergo piena di moltissimi giornalisti. Riconobbi tra loro anche Alberto Moravia. Tutti aspettavano di andare da Borges, ma fecero passare me per primo. Quando arrivai sulla porta dell'alloggio e lo vidi, seduto su una poltrona in salotto, mi mancò il coraggio, diventai di sasso, mi sentii minuscolo.  Salutai e tornai a casa».

Per una donna ha mai fatto niente del genere? 

«Ho fatto le cose classiche, ma sempre con grande creatività. Di Giorgia mi sono innamorato perché è più divertente di Massimo Troisi, cosa avrei potuto fare, a parte amarla? Guardi che Giorgia è simpaticissima ed è anche la più bella donna del mondo. Devo a lei la seconda parte della mia vita». 

La prima com'è andata? 

«Non male. In tutto ho cinque figli, a lavoro sono una chioccia, mi sono divertito come un pazzo, mi diverto ancora». 

Più che una chioccia pensavo fosse un talent scout. 

«Una cosa non esclude l'altra ma mi creda: sono soprattutto una chioccia. Credo nell'educazione e nella formazione e penso che le famiglie forniscano entrambe nella maniera più incisiva. Percepisco poi la solitudine di molte persone con cui lavoro, e allora cerco di proteggerle».

Che brava persona. 

«Ho avuto un papà molto austero, una famiglia molto tradizionale. A pranzo e cena avevo un portatovagliolo su cui era inciso "bontà".  E così mi chiamavano, a casa: bontà». 

Ma la prendevano in giro! 

«E questo in quale modo rende la cosa meno seria?» 

Le faccio una domanda per prenderla in giro, ma mi risponda seriamente: scrive ancora poesie?

«Certo che sì. Ne scrivo e ne leggo. Ho cominciato da piccolo, devo tutto a Valerio Magrelli, per me uno dei più grandi poeti viventi italiani. Quando uscì il suo "Ora serrata retinae" avevo vent'anni: significò moltissimo per me, e non soltanto per me. Sa che Fellini girava quasi sempre con un libro di Magrelli sotto il braccio e diceva a tutti di leggerlo?»

Ha conosciuto Federico Fellini?

«Una volta sola. Lo chiamai per invitarlo a Carramba. Non venne».

E come mai?

«Forse perché era Federico Fellini? Una volta invitai anche Lelio Luttazzi. Ricordo che lo chiamai, parlai per parecchi minuti spiegandogli il programma, lui rimase zitto e alla fine disse soltanto: ma lei è pazzo?»

Invece sarebbe stato fantastico Luttazzi dalla Carrà. Mi sembra un'idea lucidissima.

«Certo che lo era. Non sempre ho idee lucide e infatti guardi dove cazzo lavoro!»

Meglio gli Studios di via Tiburtina che lo studio di un avvocato, suvvia.

«Di un notaio, per la precisione. Mio padre voleva che facessi il notaio. Mi diceva: ti metti tranquillo, firmi atti, guadagni, scrivi, visto che vuoi pure fare il poeta, e stai apposto. Non aveva torto. Adesso chissà quanti romanzi avrei pubblicato, e senza patire la fame».

Cos’è il talento?

«Qualcosa di meno rilevante rispetto all’innamoramento che alcuni riescono a suscitare. Teo Mammuccari aveva talento quando lo vidi per la prima volta in un localetto romano, ma se avesse avuto solo quello non mi sarei precipitato a dirgli chi era e cosa poteva fare, non lo avrei aiutato a diventare chi è. Aveva un qualcosa che non so spiegare, ma che poi ho saputo far lavorare. La parte più divertente del mio lavoro è quando aiuto qualcuno a essere chi è. Non è mai troppo difficile: di solito, un genio sa di essere un genio, ha solamente bisogno che chi se ne rende conto, lo aiuti a capire come tirare tutto fuori e illuminarlo. Quando andai da Mammuccari a parlargli la prima volta, avevo già tutto così chiaramente in mente che il mio entusiasmo sembrava equivoco e infatti lui per prima cosa mi disse: ma sei frocio? Anche con Valerio Lundini è andata così. Non che abbia pensato che lo stessi adescando: intendo che appena l'ho visto sul palco ho capito che forza aveva. Io stavo cercando un battutista per Battute ed ero molto in difficoltà perché non sapevo dove cercare: oggi non è più come anni fa, quando i comici e gli attori li stanavi in locali e localetti notturni. Lundini mi è stato segnalato dal mio amico Calcutta. E che fosse eccezionale l'ho capito al primo colpo. Del resto come Emanuela Fanelli, anche lei nel cast del programma: una fuoriclasse. Una volta ha detto che c'è troppo talento in giro e anche troppo perfezionismo: fa fatica a far capire ai suoi collaboratori che le riprese del programma devono essere anche imprecise, sporche.  Sono tutti bravi. Troppo bravi. A me interessa altro, io voglio innamorarmi, essere rapito, e non fissarmi sui dettagli del montaggio migliore del mondo. Chissenefrega». 

Che ne dice dei talent how?

«Sono finiti, esausti. Vivono in funzione dell’evento finale, come tutta la televisione, che oggi è tesa a fare l’ultimo episodio, l’ultima puntata di una serie che ha messo in scena per raccogliere tutto, esattamente come i talent che vivono per la finale». 

La televisione ha i giorni contati? 

«Non credo, ma senza il traino dei social network avrebbe vita molto breve. "Una pezza di Lundini" è tutto clippato - mi perdona la parola orrenda? - per andare su Facebook e nelle chat. Io ho capito che stava funzionando quando mio figlio mi ha chiesto se un tale sketch che aveva visto sulla bacheca di un suo amico fosse preso dal mio programma: ho capito che stava funzionando. In futuro, credo che la tv sarà un grande libro di storia. Pensi che meraviglia sarebbe se noi potessimo guardare dei video di Napoleone. Tra cent’anni studieranno Renzi dagli archivi Rai dei tg».

Come pensa al pubblico, quando scrive un programma?

«Non ci penso, ed è un grave errore. Faccio sempre le cose che io vorrei vedere. Minoli me lo ha detto molte volte: a te bisognerebbe mandarti in onda soltanto perché sei te».

Cos’ha trasmesso ai suoi figli?

«Il senso dell’umorismo».

Con quello ci si nasce oppure no.

«Allora la generosità».

Che significa?

«Aiutare gli altri. Sempre».

Mi dice un ricordo bello di Massimo Troisi?

«Massimo è stato il mio migliore amico, negli ultimi anni della sua vita andavo da lui tutte le sere. Una volta mi venne il colpo della strega. C’era anche Ettore Scola. Mi ritrovai sul divano, con Troisi e Scola che mi cospargevano la schiena di olio Tigre, che scottava. E io urlavo e avevo questi due geni addosso».

Crede in Dio?

«Non lo chiamo Dio. Ma qualcuno di superiore deve aver fatto spuntare la rosa che nel mio giardino è comparsa quest’anno dopo tre anni che non lo faceva».

Dice Francesco Piccolo che lavorare a Roma fa bene al contenimento dell'ego: i romani si stufano presto di te. 

«A me la sola cosa che davvero ha ridimensionato l'ego è stata la tracheotomia». 

Nella sua biografia, mi affascina "Ti parlerò di te", quel libro che ha scritto su Mario Azzoni, un veggente e bio-terapeuta.

«Sentii parlare di lui. Dicevano che era un uomo che capiva come stavi soltanto guardandoti. Troisi in quel periodo stava malissimo, presi appuntamento per lui. Ma la fila era molto lunga, quando mi chiamarono, Massimo era già morto, ma decisi di andare lo stesso. Appena entrai nel suo studio, Azzoni mi disse: ah, che bell'ipocondriaco! E poi mi disse moltissime cose del mio passato. Rimasi sbalordito. Cominciai ad andare spesso da lui e alla fine lo convinsi a farmi fare il libro. Lo sento ancora. Non sbaglia mai un colpo, per me è un mistero stupendo. Comunque sa una cosa?» 

Mi dica. 

«Darei qualsiasi cosa per mangiare il suo gelato». 

Ne ordini uno, il mio non posso darglielo, sa, per il Covid. 

«Purtroppo non posso, il mio nutrizionista potrebbe vedermi». 

Va anche dal nutrizionista! Non farà anche sport? 

«No. Però cammino cinque chilometri al giorno».

Una volta ha scritto che la Rai non produce più talenti. Teme più il suo nutrizionista dei dirigenti di viale Mazzini. 

«Perché è vero che non scommette, non cerca, non gioca, non sperimenta. E poi non sa nemmeno valorizzare quello che ha. Io quest'anno ho vinto il premio della Satira Politica per Battute, e il programma è irrintracciabile sulle piattaforme online dell'azienda. Come se non ci fosse mai stato. Si rende conto?» 

Lo faccia presente alla Rai. 

«Lo faccio presente a lei». 

Spera che leggano quest'articolo? Che ottimismo. 

«Magari non domani. Magari lo leggeranno tra otto anni altre persone. Gente nuova. E capiranno come si fa e come non si fa. Le ho detto che credo nella formazione. E la formazione è un progetto a lunga scadenza. Per questo bisogna sempre creare un precedente». 

Cosa manca alla Rai, oggi? 

«Quello che manca ai giornali: un editore vero che abbia una visione articolata e lucida di quello che l'azienda deve fare da qui a dieci anni». 

Cosa manca al nostro tempo? 

«L'importanza delle cose. Sembra sempre che non succeda mai niente perché tutto passa senza lasciare traccia, niente è mai cruciale, tutto si consuma. Di riflesso, nessuno sembra occuparsi di cose importanti. Eppure di gente capace e interessante in giro ce n'è tantissima. Io di mio sono completamente rapito da Chiara Ferragni, la trovo eccezionale». 

Qualcosa resterà? 

«Certo che sì. Resterà la sola cosa che è sempre restata: la letteratura». 

·        Giovanni Muciaccia.

Giovanni Muciaccia torna in tv: "Fiorello, i Me contro Te, gli Angela e naturalmente Art Attack'". Il conduttore è un mito per i giovani che sono cresciuti seguendo i suoi "attacchi d'arte" e le imitazioni di Fiorello: "Con lui 'Fatto?' è diventato un tormentone". Ora il ritorno con il nuovo programma di divulgazione culturale 'La porta segreta', da sabato 29 febbraio su Rai 2. Rita Celi il 26 febbraio 2020 su La Repubblica. Per quasi vent'anni ha insegnato ai più piccoli a usare carta, colori, forbici "con le punte arrotondate" e "colla vinilica" per realizzare i loro primi capolavori. Con i suoi occhiali e la felpa rossa, Giovanni Muciaccia è un mito per le generazioni che hanno tra i 20 e i 30 anni che hanno seguito prima su Disney Channel, poi su Rai 2 e infine su Rai Yoyo le varie edizioni di Art Attack in cui mostrava come disegnare, tagliare, incollare e costruire gli oggetti più svariati e fantasiosi. "La manualità era una mia prerogativa ma non era essenziale per la conduzione del programma" spiega l'idolo dei piccoli artisti, anche se le mani che usavano forbici e pennarelli non erano sempre le sue. "Era per esigenze produttive, perché andando in onda in tanti Paesi si giravano le stesse immagini per tutti e noi facevamo solo le riprese in studio, che però venivano personalizzate. La felpa rossa accomunava tutti i conduttori ma non era un programma stereotipato". L'ultima edizione risale al 2014, ma Art Attack ha continuato ad andare in onda ancora fino a pochi anni fa. Nel frattempo Mucciaccia, 50 anni, non ha mai smesso di giocare con carta, colori e colla, ma dal 29 febbraio torna su Rai 2 con La porta segreta, un nuovo programma di divulgazione culturale in onda il sabato alle 17.10 in cui viaggerà nel tempo e nello spazio alla scoperta dei luoghi più curiosi e misteriosi. Affiancato da esperti d'arte, scrittori, attori, esploratori urbani, seguirà percorsi inediti per raccontare, tra arte, architettura e storia, la ricchezza del nostro territorio attraverso un tema diverso in ogni puntata: dalle mummie ai fantasmi, dal cibo alla passione, dalle vie dell'acqua alla nascita del culto di Maria di Nazareth tra luoghi di culto e opere d'arte classica e urbana, come la Madonna con la pistola di Banksy a Napoli.

Muciaccia per molti è ancora l'animatore di "attacchi d'arte". "Ho iniziato nel 1998 e ho condotto undici edizioni di Art Attack. Il primo blocco è terminato nel 2005, ma la Rai lo ha replicato fino al 2010 quando è partita la nuova stagione. Erano passati cinque anni, il programma ha avuto un restyling, sono cambiati tutti i conduttori nel mondo e l'unico rimasto sono stato io. Abbiamo finito di girare nel 2014 ma Art Attack è andato ancora in onda su Rai 2 e su Rai Yoyo quindi, anche se ho fatto solo undici edizioni, il programma è andato in onda per quasi vent'anni tra Disney Channel e Rai". Ha tantissimi fan che la seguono ancora, come le star di YouTube Sofì & Luì (Me contro te) che dichiarano di essere cresciuti a "pane e Art Attack". "Lo so e mi fa piacere. Qualche tempo fa Sofì mi ha dedicato un video affettuoso e ho anche risposto, in rima".

Parte della popolarità la deve anche a Fiorello. Come è venuto fuori il tormentone "Fatto?"

"Io ogni tanto lo dicevo durante il programma, ma 'fatto?' è un tempo comico, un'idea di Fiorello che trasformato Art Attack in una parodia dell'impossibile, come quando dice: 'prendete un palo alto 30 metri e portatelo sullo stretto di Messina. Fatto?', è quello che fa ridere. Io spiegavo come fare le cose e le tiravo fuori già pronte da sotto il bancone, quindi dicevo: fatto? Fiorello ha esasperato questa cosa portandola al massimo, ma è stato molto carino. La prima volta stavo girando Art Attack quando mi ha chiamato un'amica dicendomi di accendere la radio perché Fiorello stava facendo la mia imitazione ma ero a Londra e non potevo. La domenica successiva ero al British Museum, mi squilla il telefono e vergognandomi per la suoneria alta rispondo e sento: Ciao, sono Giovanni Muciaccia. Stavo chiudendo ma lui carinamente mi ha spiegato che aveva fatto l'imitazione, e poi mi ha detto: 'Dove sei?' Al British, rispondo io. 'A fare che?' insiste lui. Veramente stavo guardando una mummia, dico io. Pausa, e lui: 'E come l'hai fatta, con la colla vinilica?'. Poi mi ha invitato in radio, sono andato, ma l'imitazione funzionava e dalla radio l'hanno poi portata in tv. Quindi non è solo il fatto che Fiorello mi abbia imitato, la grandissima fortuna è stata anche che la mia imitazione sia stata una di quelle che ha funzionato di più e che ricordano in molti".

Negli ultimi tempi la popolarità si è spostata sui social.

"Tutto è iniziato quando Di Maio ha fatto una lista delle cose che il suo governo aveva fatto e alla fine di ogni voce c'era scritto: Fatto. Allora ho pubblicato la lista su Facebook con il commento: Forse Di Maio ha visto troppe puntate di Art Attack. Questa cosa è diventata semivirale, lo stesso Di Maio ha risposto con un like. Quello che è diventato veramente virale è stato il video che ho fatto subito dopo, in cui leggo la lista, la trasformo in una barchetta che unita ad altre quattro barchette diventa una stella, simbolo del M5s ma, era il periodo di Natale, come stella di Natale. Poi ne ho fatto un altro il 31 agosto scorso sulla crisi di governo. Parlo con il linguaggio di Art Attack alle generazioni che nel frattempo sono cresciute, è una chiave simpatica per raccontare il mondo, quello che vedo, quello che è, senza aggiungere altro".

Ora torna su Rai 2 con La porta segreta.

"Sono contentissimo perché per me è il programma della maturazione, ho sempre sognato di fare programmi di divulgazione chiara e cristallina, in modo serio e rigoroso ma con la freschezza che gli altri mi riconoscono. L'idea nuova è che in ogni puntata attraverso tre città aprendo delle porte e da Roma mi ritrovo improvvisamente a Napoli. Queste città sono unite da un tema comune che è diverso per ogni puntata, in ogni passaggio da una porta all'altra aggiungo un tassello raccontando in prima persona una storia oppure intervistando qualcuno. Per esempio nella puntata dedicata alla passione parlo di Michelangelo, mi ritrovo davanti al Mosè e intervisto Antonio Forcellino che l'ha restaurato. A toccare quelle superfici ha scoperto delle cose straordinarie delle quali nessuno si era mai accorto prima, e spiega come Michelangelo sia riuscito a girare la testa di Mosè. Ma la porta diventa anche metafora, permette di far entrare una luce che illumina e ti fa scoprire qualcosa che non sapevi. Ecco perché La porta segreta".

Quando si parla di divulgazione culturale in tv si pensa subito a Piero e Alberto Angela.

"Stimo entrambi però, per un fatto generazionale, faccio parte del pubblico che ha seguito Piero Angela. Seguo anche Alberto, ma sono un po' cresciuto con il padre insieme ad altri grandi divulgatori della tv. Il mio però è un programma diverso, dal punto di vista dello stile narrativo non mi sento di assomigliare a nessuno e la cosa è corroborata dal fatto che un grande showman abbia fatto la mia imitazione. Non mi sono ispirato a nessuno, ho sempre raccontato le cose nel mio stile personale: prima parlavo degli oggetti e raccontavo come costruirli, sono stato scelto per questo, dovevo far venire voglia di rifarli. Oggi racconto una chiesa o una storia, ma il mio stile è sempre quello. Sono cresciuto, sono maturato e lo faccio in modo non troppo differente da come lo facevo in Art Attack".

I suoi figli oggi vedono Art Attack?

"Il grande, che ha nove anni, ha visto un po' delle ultime puntate, la piccola che ne ha quattro non le ha viste, ma loro maneggiano i magazine. Dopo un paio d'anni di messa in onda sulla Rai e prima dell'imitazione di Fiorello, l'Art Attack italiano è diventato capofila nel mondo, era il più visto, superando anche l'edizione originale britannica, quindi la Disney decise di testare in Italia il magazine, un mensile che è ancora in edicola e che dopo qualche mese vendeva 200mila copie. Molte di quelle copie le ho nel mio studio e i miei figli maneggiano, incollano e costruiscono ispirandosi a quello che vedono sfogliando le riviste".

·        Giovanni Veronesi.

Antonella Piperno per agi.it il 14 aprile 2020. “Scrivo con la penna, mi sembra di essere un vecchio abate medioevale e mi fa anche male  il muscolo della mano”. Senza computer e senza wifi, chiuso con la compagna Valeria Solarino  nella loro casa in Maremma, dove, prima delle misure governative anticoronavirus, pensava di fermarsi solo per il weekend, Giovanni Veronesi, regista e autore di commedie cult  racconta all’AGI di aver scritto da amanuense le ultime cento pagine dell’ultima missione  dei ‘Moschettieri del re”, sequel del suo fortunato film “Moschettieri del re - la penultima missione” e di averne appena finito la revisione.

Quando riusciremo a vederlo al cinema?

“Chissà. Avremmo dovuto cominciare a girare a giugno, adesso aspettiamo i protocolli governativi che dovranno stabilire , oltre ai tempi, anche i modi di stare sul set, come comportarci, come organizzare le cento persone della troupe…. Gli attori potranno abbracciarsi quando il copione lo prevede? Non credo che il virus possa e debba condizionare a tal punto le storie”.

È in coda anche “Si vive una volta sola” il film  di Carlo Verdone atteso in sala a fine febbraio e fermato dalla  chiusura dei cinema, di cui lei ha cofirmato la sceneggiatura…

“Sono convinto che anziché aspettare la riapertura dei cinema “Si vive una volta sola” avrebbe dovuto scegliere l’opzione piattaforma a pagamento. L’impatto del coronavirus sul settore condizionerà soprattutto il rapporto con la sala e penso che serva un bel reset, perché adesso urge tutelare le sale ma anche il prodotto cinematografico, che si protegge soltanto se viene visto. Se è vero che i cinema riapriranno a dicembre, i film in coda si faranno la guerra tra loro, e questo non va bene, così come mi lascia perplesso l’incertezza relativa alle modalità di andare al cinema: sarà obbligatoria la mascherina, dovremmo sedere lasciando una poltroncina di distanza? E come si farà con i bambini che, si sa, si alzano continuamente? Gli esercenti vedranno dimezzare i loro incassi…Se non si vogliono far morire le sale occorre far riacquistare forza al cinema rivalutando le piattaforme e riservando una quota agli esercenti, che oggi sono spaventati: temono che se la gente si abituerà alle piattaforme poi non andrà più al cinema, ma basta pensare al calcio e agli stadi per capire che non è così. L’alternativa alle sale già esisteva del resto, prima dell’emergenza coronavirus”.

Ma quale sarà invece l’impatto del coronavirus sui contenuti delle commedie, riuscirete ancora a far ridere?

“Proprio con Carlo Verdone stiamo ragionando sul soggetto di un nuovo film. Ma non è semplice adesso scrivere una commedia  che uscirà tra un anno e mezzo e che non potrà non tenere conto del dramma che stiamo vivendo. Finché c’è tanta morte così vicina a noi, non è semplice pensare a una commedia divertente,  il lato spregiudicato e irriverente ispirato dalla tragedia si potrà liberare tra qualche anno, anche se forse per Carlo i tempi per provare a far sorridere anche nel post pandemia saranno più brevi, a un’icona come lui sarà concesso così come è stato con Benigni per “La vita è bella”.  Comunque in questo momento di dramma globale, il processo creativo occupa una minima parte dei miei pensieri”.

E quindi come passa il suo tempo?

“Non ho tantissima voglia di scrivere né di leggere, tutto il mio impegno lo impiego nel fronteggiare psicologicamente la pandemia. ho un’indole pratica, che mi spinge a fare cose, mi dà fastidio essere inutilmente qui”.

Dove e chi vorrebbe essere adesso?

“Vorrei essere in trincea come medico o infermiere per aiutare davvero gli altri. Non potendo, per compensare mi immergo completamente nel racconto del coronavirus, davanti ai tg e alle trasmissioni dedicate: guardo tutto, ho deciso che non devo distrarmi da questo momento drammatico. Aspetto tutti i giorni la conferenza stampa della Protezione civile, alle 18 e mi sento anche un po’ vile a tifare che ci siano cento morti  in meno in un giorno. Davanti all’invasione dei virologi in tv, poi, mi chiedo quanti ce ne sono in Italia, io che pure conosco tanti medici, non ne avevo mai incontrato uno prima d’ora. Sento troppe analisi e informazioni spesso contraddittorie tra loro  e vorrei lanciare un appello per qualcosa che sia davvero utile: un tutorial”.

Che tipo di tutorial?

“Un tutorial per la fase 2, ma di quelli spiegati bene, con le figurine  che ci indichino come dovremo comportarci: quale sarà davvero la distanza da tenere, come, quando e per quanto tempo si deve portare la stessa mascherina, cosa toccare e cosa no, quando indossare i guanti e quando cambiarli…”.

Cosa pensa della decisione di riaprire le librerie?

“Non la considero un’urgenza, vedremo davvero quanta gente legge davvero tra quelli che dicono di farlo, e comunque la libreria è un luogo da vivere e non da acquisto frettoloso. I sedicenti lettori da pandemia, tra l’altro sono  anche al centro dei  videomessaggi che a metà tra ironia e rabbia mi concedo ogni sera, destinatari amici come Pierfrancesco Favino, Rocco Papaleo, Leonardo Pieraccioni”.

Crede che i vip neo bibliofili e lettori indefessi mentano?

“In troppi, vendendosi  come intellettuali, stanno solennemente dichiarando di aver riscoperto, nelle loro clausure obbligate, questo o quest’altro classico, o, come nel caso recente di un personaggio, assolutamente non credibile, addirittura la musica classica.  Mi piacerebbe a fine pandemia, sbugiardarli di brutto”.

Come?

“Mettere su una trasmissione culturale, invitarli a parlare delle loro passioni e poi, a trabocchetto, smascherarli, interrogandoli su trama, personaggi e momenti clou dei testi che dicono di aver letto, sai che risate. Un altro genere che non sopporto, e che trova spazio nei miei videomessaggi privati, è quello dei tanti vip che si stanno improvvisando cuochi e magnificano le loro creazioni”.

Non la convincono neanche torte e pizze esposte su social e trasmissioni varie?

“Molto poco… E poi abbiamo già i vari Masterchef che ci rompono le scatole, ci mancavano i vip che si mettono a fare i tortellini, tutti improvvisamente campioni. Ma, soprattutto, perché mai devono filmarli e propinarceli? Sono ipocriti che mentono, mentre in questo momento servirebbe la  verità, non solo la loro, ma anche quella dei politici e dei vari esperti. Ho un approccio un po’ rabbioso alla pandemia, lo ammetto, per fortuna a compensarlo c’è la dolcezza di Valeria”.

La quarantena di coppia va bene, quindi…

“Prima d’ora, viste le nostre professioni, non avevamo mai vissuto insieme ininterrottamente così a lungo. Lei è meravigliosa, e questo lo sapevo già visto che stiamo insieme da 17 anni. Ora fronteggia questa tragedia con una grande dolcezza, sopportando un rompipalle sintomatico come me: discuto su tutto, dalle carte alla tv alla cucina”.

Che cosa le manca di più adesso?

“Su tutto i miei genitori, li ho persi parecchi anni fa, ma in questo momento li penso ancora di più, perché in questa emergenza mi sarei occupato di loro”.

E il suo primo desiderio quando si uscirà da questo incubo?

“Voglio rimanere in casa, sapendo però di avere la libertà di poter uscire quando voglio”.

·        Giuliana De Sio.

Giuliana De Sio, lutto per l’attrice: morto il papà Alfonso. Laura Pellegrini il 22/01/2020 su Notizie.it.  Lunedì 21 gennaio 2020 è morto Alfonso De Sio, il padre dell’attrice Giuliana De Sio e della cantautrice Teresa: gravissimo lutto per la famiglia. L’uomo aveva 92 anni e soffriva da tempo di problemi cardiaci: è stato stroncato da un malore. La morte è avvenuta intorno alle ore 8 del mattino nella sua abitazione dove viveva con la terza moglie. Scrittore e avvocato, classe 1928, nato a Cava de’ Tirreni, vicino a Salerno. Era stato insignito della medaglia d’oro alla carriera nel 2015 per i suoi 50 anni di attività nell’Ordine degli Avvocati di Salerno. La figlia Giuliana lo ha ricordato con una foto tenera sui social scrivendo: “Ciao, papà”.

Lutto per Giuliana De Sio. La famiglia di Giuliana De Sio ha subito un gravissimo lutto: all’età di 92 anni è morto il padre dell’attrice e della cantautrice Teresa, Alfonso. Tutto lo conoscevano e lo chiamavano “Don Alfonso”: era nato a Cava de’ Tirreni, in provincia di Salerno. Dopo la laurea in Giurisprudenza e in Scienze Politiche, si era iscritto all’Ordine degli Avvocati; nel 2015, invece, aveva ottenuto la medaglia d’oro alla carriera per i 50 anni di attività. Ha conseguito un diploma in Diritto, economia e scienze finanziarie presso l’Istituto Nazionale Kirner ed era un grande appassionato di lingue, Aveva studiato lingua e letteratura cinese, poi il francese, il tedesco e l’inglese, il cinese, l’arabo e il russo. Nel corso della sua carriera professionale aveva raggiunto il ruolo di Coordinatore Generale responsabile per la Campania all’Inps. Nelle vesti di scrittore, invece, aveva pubblicato quattro volumi: Il viaggiatore felice nel 2016, L’onesto imbroglio nel 2017, Il male di scrivere e Storia di Marco e del suo gallo nel 2018.

 "Ho avuto paura di morire". Giuliana De Sio e il dramma del Covid. Nella sua prima apparizione tv dopo la malattia, Giuliana De Sio racconta a Verissimo la sua drammatica battaglia contro il Covid-19. Carlo Lanna, Domenica 27/09/2020 su Il Giornale. È stata una delle prime star della tv nostrana a combattere e, per fortuna, a sconfiggere il Covid. Giuliana De Sio, poco prima che l’Italia finisse nel regime da lockdown e nel bel mezzo del tour teatrale, è corsa in ospedale accusando tutti i sintomi tipici della malattia ed è finita in terapia intensiva per 16 lunghi giorni. Quel momento ha segnato nel profondo l’indole della celebre attrice che, a distanza di mesi, ancora non riesce a dimenticare. E le critiche non sono mancate, dato che, la De Sio sarebbe stata accusata di diffondere l’infezione proprio perché avrebbe continuato a recitare nonostante le sue condizioni di salute. Ora, dopo mesi di silenzio, l’attrice che in tv è famosa per i ruoli in diverse fiction Mediaset, viene ospitata nel salotto di Silvia Toffanin e ha raccontato con le lacrime agli occhi quell’esperienza che ha stravolto la sua vita. Giuliana De Sio è apparsa in forma anche se smagrita e con i segni di un virus che non lascia scampo. Questo però non ha impedito di raccontare al pubblico di Verissimo la sua drammatica esperienza. "Ho pensato di morire – esordisce l’attrice -. Non respiravo più. Mi sentivo in trappola – aggiunge-. Mi sono ammalata a febbraio mentre ero in giro per l’Italia con il mio spettacolo teatrale. Ora fisicamente sto bene ma psicologicamente sono fragile". Il racconto è dettagliato e l’attrice non sorvola di certo sui dettagli. "Pensavo che si trattasse di una semplice influenza. Tutte le mattine avevo una febbre che oscillava tra i 38 e 39 gradi –afferma-. Era stata prima a Cremona e poi a Roma, dove poi mi sono ricoverata". E quello è stato il momento più brutto. "Sono venuti a prendermi a casa due omaccioni vestiti di bianco. È come se mi fossi sentita in arresto. Io protestavo perché ero stupita e non capivo perché ero stata ricoverata per un’influenza. E quello sono stati i 16 giorni più lunghi della mia vita. Era entrata prima in terapia intensiva poi in quella sub intensiva. Mi hanno chiuso a chiave e per una soffre di claustrofobia non è stato facile – rivela-. Mi sembrava di impazzire. Il lockdown è stata la mia liberazione", conclude. La De Sio, infatti, è uscita dall’ospedale il 16 marzo, quanto tutta l’Italia stava affrontando l’emergenza. Ma l’intervista è anche un momento per raccontare un'altra drammatica situazione che l’attrice ha dovuto affrontare. "A gennaio ho dovuto dire addio a mio padre. Ero in tour e sono dovuta andare in scena lo stesso". Nonostante tutto, pare che il brutto momento è un lontano ricordo.

Coronavirus, contagiata Giuliana De Sio: "Paura, dolore e solitudine feroce ma l'ho sconfitto". L'attrice: "Sono in isolamento allo Spallanzani da due settimane, la prova più dura della mia vita. Vogliatemi bene perchè qui ti senti abbandonato più che mai". Anna Laura De Rosa e Conchita Sannino il 14 marzo 2020 su La Repubblica. Lo scrive sui social nel cuore della notte, accanto a una foto in cui sorride felice in riva al mare. Giuliana De Sio ha contratto il coronavirus a metà febbraio ma l'ha sconfitto. L'attrice partenopea da due settimane è in isolamento all'ospedale Spallanzani di Roma e racconta il dolore fisico della malattia, quello psicologico della solitudine, il senso di abbandono e la mancanza di respiro provati durante il ricovero. "Questa felicità non c è più - scrive in un post su Facebook accanto alla foto - Sono stata in silenzio anche perchè non avevo voce nè parole per la mia narrazione dell'orrore. Nemmeno adesso ce l'ho, spero che in un secondo tempo troverò le parole e l'energia per descrivere l'invivibile e l'impensabile che mi torturano da settimane... Sono in isolamento allo Spallanzani da due settimane per aver contratto il virus con annessa polmonite in tournè a meta febbraio. La solitudine feroce di questa situazione e il dolore fisico e mentale che ne derivano sono la prova più dura a cui io sia stata sottoposta in tutta la mia vita". L'attrice sente il bisogno di condividere questo momento: "Sentivo per ora, con le poche energie che mi sono rimaste di comunicarvi questo, anche un pò per spiegare la mia improvvisa scomparsa dal profilo e dalla pagina, ora spero che il mio telefono non si scatenerà più di quanto non abbia fatto in queste lunghe lunghissime giornate fatte di paura mancanza di respiro e solitudine siderale". Poi aggiunge: "Ma la buona notizia è che il virus è sconfitto, sono al terzo tampone negativo, anche se molto indebolita. Vogliatemi bene perchè qui, i metodi sono a dir poco sbrigativi e ti senti più abbandonato che mai, e non mi dilungo, anche se so cosa succede nel mondo, voglio uscire !!!". Migliaia di persone stanno commentando il post con messaggi d'affetto e vicinanza: "Ti vogliamo bene, tornerai più forte - scrivono i fan - Hai il sostegno di tutti gli italiani, questa è la battaglia di tutti". 

Coronavirus, positiva l’attrice Giuliana De Sio: «Paura e solitudine, ma ho sconfitto il virus». Pubblicato sabato, 14 marzo 2020 su Corriere.it da S. Mor. «Questa felicità non c è più. Sono stata in silenzio anche perché non avevo voce né parole per la mia narrazione dell’orrore. Nemmeno adesso ce l’ho, spero che in un secondo tempo troverò le parole e l’energia per descrivere l’invivibile e l’impensabile che mi torturano da settimane… Sono in isolamento allo Spallanzani da due settimane per aver contratto il virus con annessa polmonite in tournée a meta febbraio. La solitudine feroce di questa situazione e il dolore fisico e mentale che ne derivano sono la prova più dura a cui io sia stata sottoposta in tutta la mia vita». Con queste parole, scritte su Facebook, Giuliana De Sio ha confessato di essere stata contagiata. L’attrice classe 1956, originaria di Salerno, da due settimane è in isolamento a Roma e ha voluto condividere, anche con i fan, il dolore fisico della malattia, ma anche il profondo senso di solitudine e abbandono provato. De Sio — due volte David di Donatello come migliore attrice protagonista — ha aggiunto di essere praticamente guarita, come hanno dimostrato i tamponi: «Sentivo per ora, con le poche energie che mi sono rimaste di comunicarvi questo, anche un po' per spiegare la mia improvvisa scomparsa dal profilo e dalla pagina, ora spero che il mio telefono non si scatenerà più di quanto non abbia fatto in queste lunghe lunghissime giornate fatte di paura, mancanza di respiro e solitudine siderale. Ma la buona notizia è che il virus è sconfitto, sono al terzo tampone negativo, anche se molto indebolita.Vogliatemi bene perché qui, i metodi sono a dir poco sbrigativi e ti senti più abbandonato che mai, e non mi dilungo, anche se so cosa succede nel mondo, voglio uscire !!!».

Coronavirus, Giuliana De Sio: "Sono uno straccio ma sto guarendo". Positiva al Covid-19, l’attrice era stata ricoverata in ospedale per polmonite ma oggi, a pochi giorni dalle dimissioni, è tornata a parlare del suo stato di salute sui social. Novella Toloni, Giovedì 26/03/2020 su Il Giornale. Giuliana De Sio è tornata a parlare sui social a pochi giorni dal rientro a casa dopo una lunga degenza ospedaliera dovuta a una polmonite da coronavirus. L’attrice ha affidato a Facebook, il canale social che utilizza per comunicare con i suoi fan, alcuni messaggi per aggiornare tutti sulle sue condizioni di salute. La De Sio, 63 anni originaria di Salerno, ha risposto anche ad alcuni commenti dei suoi seguaci, fornendo ulteriori dettagli sull'esperienza vissuta. Il 13 marzo Giuliana De Sio pubblicava su Facebook il drammatico annuncio del suo ricovero per positività da Covid-19. Nella nota l’attrice spiegava di essere ricoverata all’ospedale Spallanzani per una polmonite causata dal coronavirus e di aver vissuto giorni di paura. Dopo tre tamponi negativi, la De Sio è tornata a casa dove sta osservando un periodo di riposo e cure. Attraverso i social è tornata ad aggiornare i suoi fan sulle sue condizioni. L’attrice sta migliorando ma è pur sempre debilitata: "Buongiorno da questo straccio di donna che però sta guarendo...". Il post è stato inondato di messaggi di affetto e di supporto e proprio nel rispondere ai suoi fan Giuliana De Sio ha fornito ulteriori dettagli sulle sue condizioni: "Sono tappata in casa e dimagrita di alcuni chili". Poi ha raccontato di aver vissuto un’esperienza traumatica simile pochi anni fa, un episodio che avrebbe potuto anche condurla alla morte: "Sei anni fa ho avuto una trombosi ed embolia polmonare, stavo proprio per andare, ma ce l’ho fatta anche allora". L’esperienza vissuta a causa del coronovirus ha provato fisicamente e psicologicamente l’attrice che, sempre sui social, ha spiegato: "In televisione mi chiedono di affacciarmi per un saluto, ma ora mi fa paura. Mi sento ancora affaticata. Spero di tornare più forte di prima". Poi un invito alla positività rivolto a sé stessa e a tutti gli italiani che vivono questa difficile ed estenuante quarantena: "Un sorriso, piccolo grande sforzo di volontà".

Le sue pessime condizioni di salute, durante il ricovero in ospedale, non l'avevano tenuta lontana dalle polemiche. Il sindaco di Santa Maria Capua a Vetere, attraverso i social, si era scagliato contro l'attrice, che secondo lui avrebbe portato il coronavirus nel suo comune. Giuliana De Sio era stata nel teatro cittadino per uno spettacolo a fine febbraio e nelle settimane successive nove residenti erano stati contagiati. Il sindaco aveva chiarito che sia il paziente 1 che il paziente 2 di Santa Maria Capua a Vetere erano al suo spettacolo.

Arianna Ascione per corriere.it il 3 aprile 2020. «Per lui ci sarà sempre spazio nel mio cuore. Senza Elio non sarei quella che sono: mi ha dato tanto»: ancora oggi Giuliana De Sio (che il 2 aprile compie 64 anni), quando guarda una foto di Elio Petri, si emoziona come accaduto nello studio del programma Io e Te. Il loro infatti - purtroppo interrotto prematuramente - è stato un amore appassionato, il rapporto più importante della vita dell’attrice: «Persone così non se ne incontrano più: è una generazione scomparsa. I grandi intellettuali di quell’epoca non ci sono più, io li ho frequentati tutti, ho avuto un grande privilegio». Giuliana ha mosso i suoi primi passi televisivi nel 1977 con lo sceneggiato televisivo ispirato alla vita della scrittrice femminista Sibilla Aleramo, «Una donna»: Petri si trovava in America quando la Rai lo mandò in onda e al suo ritorno si mise subito al lavoro per mettere in scena «Le mani sporche» di Jean-Paul Sartre con Marcello Mastroianni e Giovanni Visentin. L’attrice si presentò insieme a tante altre ragazze ai provini: «Qualcuno parlò a Elio Petri di me perché venivo da una stagione di grande successo con questo sceneggiato televisivo- ha raccontato De Sio in un’intervista a Il Giornale Off - ma lui non mi aveva visto e quindi mi misi in fila con tantissime altre persone per fare il provino. E niente, ne feci due, tre, e a lui piacqui molto». Il regista andò anche a vederla a Milano mentre stava recitando ne «La doppia incostanza» di Pierre de Marivaux, e si convise a sceglierla per il ruolo di Jessica: era rimasto colpito dal suo talento nonostante la giovane età (Giuliana era appena ventenne). «Io non ho mai capito perché lui abbia scelto me per fare quel film. Lui ha captato dentro di me qualcosa che gli assomigliava, ho sempre pensato che sì la differenza era abissale (d’età, ai tempi Petri aveva 49 anni ndr) ma c’erano quei tre punti di contatto che tenevano insieme il rapporto», ha rivelato Giuliana al programma di Rai 3 «Grande amore». Uno di questi punti fermi - oltre al perfezionismo sul lavoro, cosa che alimentava numerosi scontri anche molto accesi - era sicuramente l’ascolto: «Non era un rapporto padre/figlia - ha raccontato l’attrice a Vanity Fair - anche se con il padre che ho avuto io...È che Elio mi ascoltava con attenzione e rispondeva alle mie domande. Io parlavo, parlavo e lui era lì, attento, interessato». Negli amori che Giuliana ha avuto in seguito non ha mai più ritrovato questo interesse: «Io ho bisogno di essere ascoltata, e adesso non lo chiedo agli altri: mi ascolto da sola».

Le lettere. Terminate le riprese di «Le mani sporche» Elio e Giuliana continuarono a sentirsi telefonicamente («Mi chiedeva come stavo, mi invitava a cena a casa sua - sempre con altre persone - e poi iniziò ad invitarmi a fare scampagnate. Una volta, troppo presi a camminare e parlare, ci perdemmo nella pineta di Castel Fusano»). Con il tempo entrambi si lasciarono travolgere dall’amore, e lui si trasferì da lei. Quando non stavano insieme per via degli impegni di lavoro Petri le scriveva lettere struggenti, che l’attrice ancora oggi custodisce gelosamente: «Era come se non accettasse fisiologicamente di essere separati. Io conservo ancora queste lettere, che sono anche belle da vedersi, sono un oggetto parlante, vivente. Anche soltanto guardandole mi parlano di lui».

Un amore interrotto prematuramente. Giuliana ed Elio non hanno avuto a disposizione molto tempo per vivere la loro storia: il regista si ammalò di cancro e il 10 novembre 1982, poco prima di dare il via alle riprese del film «Chi illumina la grande notte», morì (aveva 53 anni). In quel periodo Giuliana era impegnata sul set di «Scusate il ritardo» con Massimo Troisi, che era a conoscenza della situazione («fu delizioso», ha ricordato nel 2014 a Famiglia Cristiana), e quando la ferale notizia la raggiunse trovò comunque la forza di continuare a lavorare: «Quando Elio morì stavamo girando l’ultima scena, quella in cui minaccio di partire e lui trova il coraggio per implorarmi di non farlo. Allora io tentenno: “Non so, se devo essere sincera...” E lui: “No, perché? Puoi pure dire una bugia”. Il film finisce con questa scena così tenera. Nella realtà ero così stravolta dal dolore che Massimo riprese il mio volto praticamente al buio».

L’eredità spirituale. Durante la sua dolorosa «vedovanza» Giuliana ha continuato a fare lo stesso sogno per anni: Elio non era morto ma si era nascosto, e lei lo incontrava per caso in un’altra città del mondo in cui stava facendo un’altra vita. Nella vita reale invece ha potuto ritrovare il regista nei numerosi insegnamenti che le ha lasciato, una sorta di eredità spirituale che l’ha sempre guidata in tutta la sua attività. Tra questi c’è la massima «L’unica linea di resistenza è fare bene le cose», citata spesso. Perché, come ha precisato a La Stampa, «fare bene le cose è qualcosa di rivoluzionario, perché richiede di lavorare contro il sistema. Ho sempre cercato di fare tutto al mio meglio, anche in contesti che purtroppo non mi assomigliavano».

·        Giulia Di Quilio.

Giulia Di Quilio, col burlesque al centro della scena. Tommaso Martinelli il 03/03/2020 su Il Giornale Off. In televisione, nella popolarissima soap-opera di Raitre Un posto al sole, l’abbiamo vista nei severi panni del pm, Clara Fiorito. A teatro, invece, Giulia Di Quilio racconta le grandi dive del burlesque nello spettacolo Un passato senza veli. In attesa dell’imminente debutto al Teatro Belli di Roma, l’attrice e performer si racconta a Off.

Giulia, dal 19 al 22 marzo sarai al Teatro Belli con lo spettacolo Un passato senza veli. Come nasce l’idea?

«Nel 2016 ho scritto un libro dal titolo Eros e Burlesque, per la Gremese editore. Durante lo studio preliminare su fonti prevalentemente americane, perché purtroppo le pubblicazioni italiane sul tema erano poche e generiche, mi sono imbattuta in personaggi straordinari. E più approfondivo la ricerca, più queste figure mi parlavano e si imponevano alla mia attenzione, collocandosi idealmente “al centro della scena”. Continuando a studiarle e a raccontarle sulla pagina, mi immedesimavo completamente in loro, ritrovando, tra le pieghe di quelle vite, le mie stesse difficoltà, gli stessi sogni, insomma: il passato non mi era mai sembrato così contemporaneo. Da qui, immediata, la voglia di portare in scena, in forma di monologo, alcuni degli “incontri” in cui mi ero imbattuta, tentando, grazie alla mia doppia esperienza di attrice e di performer burlesque, una sintesi tra i due linguaggi».

Lo spettacolo vuole raccontare le grandi dive del Burlesque. Quale aspetto ti piace del Burlesque?

«Di sicuro ne apprezzo l’aspetto “fai da te”. Mi spiego meglio: il burlesque è un’arte in cui la donna è autrice del proprio lavoro al 100%. Siamo noi artiste che ci occupiamo della messa in scena, e quindi della “regia” dei nostri numeri, in toto: dai costumi alle musiche fino ad arrivare al “messaggio” vero e proprio contenuto nella performance. Molte artiste infatti ne fanno una vera e propria arte concettuale. Io stessa non riesco più ad abbandonare questo modo di concepire il mio lavoro, e cioè in modo completamente indipendente. Da “attrice pura” questo processo è molto raro, perché il 90% delle volte vieni diretto da altri e quindi devi passare attraverso la sensibilità altrui o, quanto meno, farci i conti».

Sei mamma di due gemelli ma questo ti ha permesso di mostrare ancora di più la tua femminilità. La maternità ti ha dato una marcia in più?

«Questo è poco ma sicuro. La maternità ti mette a contatto con mille scelte quotidiane, grandi e piccole. Questo ti regala la giusta prospettiva sulle priorità della vita. Da quando ci sono loro, Riccardo e Jacopo, sono più organizzata e più a fuoco su quello che voglio e che mi interessa approfondire. Perdo meno tempo, sono più organizzata. Inoltre, vedo molte sfumature in più nei caratteri umani, che prima non percepivo. Ora è come se avessi un “super-potere”: quello di vedere nel passato delle persone. Osservando i bambini si imparano molte cose».

Come nasce la tua passione per il mondo dello spettacolo?

«Più o meno è nata con me! Ricordo che a 5 anni facevo delle piccole messe in scena per il mio pubblico di allora, composto dai miei fratelli, gemelli anche loro, e amavo interpretare la drammatica storia de “la piccola fiammiferaia”!»

Durante il tuo percorso professionale ti sei mai detta: “Ma chi me lo ha fatto fare?”

«Parecchie volte. E ancora mi capita. Fare l’artista è un percorso in continua evoluzione, che non assicura mai un “punto di arrivo”. I risultati conquistati passano velocemente e subito si sente il bisogno di diventare altro, perché nel frattempo, grazie alla vita e alle esperienze, sei già “diventato altro” e hai bisogno di comunicarlo. E’ un mestiere che ti impone un continuo lavoro su te stesso, essendo tu il prodotto del tuo lavoro. E questo comporta ovviamente momenti difficili, momenti di apparente stasi, molto faticosi da sopportare».

Nei momenti più complicati, chi o cosa ti ha dato la forza per andare avanti?

«Mio marito in primis. Mi incoraggia e mi sprona a darmi da fare, a non arrendermi, a non mollare. E poi quella forza sconosciuta che è dentro di me, che non molla mai e che ha sempre voglia di comunicarsi al mondo.

Il luogo comune che proprio non sopporti del mondo dello spettacolo?

«Ce ne sono talmente tanti… uno tra tutti: quello dei compartimenti stagni! Se fai la commedia, non puoi fare le cose “impegnate”, se fai la tv, non fai il cinema, se fai il cinema non fai teatro. Se poi ti spogli…»

Il prossimo step della tua carriera che ti piacerebbe raggiungere?

«E’ già in atto…vorrei sempre di più diventare indipendente ed essere io a creare e seguire i miei progetti, senza aspettare che il telefono squilli!»

L’episodio OFF della tua carriera?

«Quando ho girato La Grande Bellezza, la mia scena si svolgeva in una festa caotica, ed eravamo sulla terrazza di un lussuoso appartamento al Colosseo. Erano le 5 del mattino, quindi, per non disturbare, e per via delle varie ordinanze notturne, eravamo senza musica e tutto era svolto sottovoce, bisbigliato, e teatralizzato. Il risultato era davvero, davvero, surreale: vedere un “trenino” di gente che sembrava scatenata, nel silenzio più totale: quando si dice: “una scena da film”!»

·        Giulio Rapetti: Mogol.

Emilia Costantini per il Corriere della Sera il 29 luglio 2020. È stato bocciato all' esame di quinta elementare perché, secondo l'insegnante, era andato fuori tema. Poi, però, Mogol (al secolo Giulio Rapetti) è diventato uno dei più grandi autori di testi per canzoni che, ormai, appartengono alla storia della musica leggera, e non solo.

«A Carugo, dove ero sfollato con la mia famiglia, avevamo una maestrina deliziosa - racconta - aveva 70 anni, una donnina gentile, con il collettino di pizzo bianco, che a noi ragazzini ci raccomandava di stare buoni, mentre saltavamo da un banco all' altro. Poi, per l' esame di Stato, venne da Milano una maestra giovanissima, un po' antipatica...».

Qual era il titolo del tema?

«Come sarà la vita nelle città del Duemila. Io scrissi che ci sarebbero stati i grattacieli, le strade asfaltate, su cui sarebbe stato possibile andare tutti veloci sui pattini a rotelle... Chiudevo, scrivendo: "Però, andando sui pattini, bisogna stare attenti se si hanno in mano le uova, perché si rischia di fare un frittata". E quella cretina mi ha bocciato».

Non poteva immaginare che Giulio sarebbe diventato Mogol.

«Sì, lo ammetto con un pizzico di orgoglio e tanta ironia: non si rendeva conto di chi stava bocciando».

Perché ha scelto questo pseudonimo?

«Non l' ho scelto io, ma i funzionari della Siae. Non volevo utilizzare il cognome vero, per non passare da raccomandato di mio padre Mariano, che aveva un ruolo importante nella Ricordi. Avevo proposto una lista di oltre cento pseudonimi e, quando mi venne dato quello di Mogol, rimasi male, mi suonava cinese, temevo che sarebbe stato un flop. Ora fa parte del mio cognome e di quello dei miei figli».

È stato molto influenzato da suo padre?

«Sono nato in un ambiente fecondo sotto il profilo musicale. Lui era pianista: da giovane andava in giro con la sua orchestrina a suonare nelle sale da ballo. Poi ha fatto l' editore e non il compositore, ma è stato il motore di uno dei miei primi successi.

Un giorno mi dice: ho trovato un ragazzo molto bravo, ha un ciuffo sulla fronte, il colletto tirato su, canta come Elvis Presley, ha scritto una bella musica e tu scrivi il testo. Era Bobby Solo e la canzone, Una lacrima sul viso».

Qualche anno dopo, l' incontro con Lucio Battisti. Come vi siete conosciuti?

«Me lo portò a casa una mia cara amica parigina, che si occupava di edizioni musicali e stava cercando un musicista italiano da promuovere in Francia. Mi fece ascoltare le sue canzoni, che non erano un granché e io lo dissi chiaramente a quel ragazzo».

Rimase male?

«No. Mi fece un sorriso luminoso, dicendo: sono d' accordo. La mia amica invece rimase male e io, per metterci una pezza, invitai Lucio a venirmi a trovare, per lavorare a qualcosa insieme. Nacquero le prime tre canzoni, la terza era 29 settembre ».

Erano gli anni Settanta, gli Anni di Piombo, andavano di moda le canzoni impegnate, di protesta, le vostre erano considerate qualunquiste.

«Addirittura fasciste! L' impegno, a quel tempo, era essere di sinistra, fare testi sulla classe operaia, le contestazioni... io parlavo della sfera privata. Era il momento dei cantautori, tipo Francesco Guccini bravissimo per carità, ma le loro non erano canzoni vere e proprie. Scrivevano dei testi politici e poi li cantavano con una musica che non aveva un ruolo fondamentale. Però, poi, ho scoperto una cosa che mi ha fatto piacere: nel covo di via Gradoli delle Brigate rosse, trovarono la collezione completa di Mogol-Battisti. Ascoltavano le nostre canzoni e le nascondevano».

Che persona era Battisti?

«Il mio contrario. Era un matematico, andava in profondità, aveva un pensiero verticale, io orizzontale. Studiava molto, conosceva benissimo la musica internazionale, era molto preparato. Anche sul piano caratteriale eravamo diversi: io estroverso, lui riservato, non parlava mai di sé».

Difficile andare d' accordo tra uno nato a Milano e l' altro a Poggio Bustone?

«Mai una lite, anche se non ci frequentavamo spesso nel privato. Ci incontravamo quando dovevamo realizzare un nuovo album. Lui mi portava la musica, io scrivevo le parole».

E fu lei a convincerlo a esibirsi come cantante. Battisti era timido?

«Non era timidezza, lui si sentiva autore e basta. Però, quando faceva fare i provini ai cantanti, che avrebbero dovuto interpretare le canzoni, e lui gliele cantava, era più bravo di loro! Dovetti litigare con la Ricordi per accettarlo come interprete, ma ce l' ho fatta».

Come lo convinse a fare quella cavalcata da Milano a Roma?

«Io ero avvantaggiato, essendo appassionato di cavalli, lui all' inizio timoroso. Gli dissi prova! L' ha fatto e ci è riuscito».

Un sodalizio così fecondo perché è finito?

«Per una questione di principio, non per soldi, io al denaro do poca importanza. Tuttavia, era giusto che ricevessi i diritti al 50% e gli chiesi di concedermi la sua stessa quota. Lucio non accettò e ci separammo, ma senza rancore».

Le piacevano le canzoni che Battisti ha prodotto in seguito?

«Trovavo certi testi di Pasquale Panella molto ermetici e lo manifestai a Lucio. Mi rispose che voleva interpretare canzoni che non potessero essere minimamente paragonate a quelle fatte insieme».

Le dispiacque?

«No, era un modo per prendere le distanze dal passato e rinnovare il suo repertorio».

Poi lei scrisse Arcobaleno , la commovente canzone dedicata all'«amico caro» scomparso, con la musica di Gianni Bella e nell' interpretazione di Adriano Celentano.

«Non l' ho scritta io, l' ha scritta lui dall' aldilà e mi è arrivata in una circostanza stranissima, con una serie di coincidenze inspiegabili: i morti hanno potere sui vivi, li possono raggiungere nelle maniere più impensabili. L' ho verificato in prima persona: quando è morto, me l' ha dettata. Ho composto il testo in quindici minuti e non sarebbe mai venuto così preciso se non fosse stato lui a suggerirmi parola per parola. È la verità. La cosa davvero incredibile è che adesso ho un allievo, Gianmarco Carroccia, che è identico a lui, gli somiglia sia fisicamente, sia nel modo di cantare».

Un talento come Battisti?

«I geni sono uno su un milione. Tutti, invece, nasciamo con un talento che si arricchisce grazie all' ambiente in cui viviamo, i libri che leggiamo, gli esempi con cui ci confrontiamo... Gianmarco ha talento, ma deve coltivarsi applicandosi con metodo e con lo studio. Lucio studiava i più grandi rocker del mondo ed è diventato uno di loro».

Qual è stato, per lei, il brano più difficile da scrivere?

«Ho raccontato storie che mi riguardavano, che nascevano da esperienze personali o di persone vicine a me. Non ho mai fatto fiction, mi sono sempre legato a fatti e sentimenti vissuti, ecco il motivo per cui la gente si identifica. E in proposito ho un rammarico per Emozioni , perché poi mi sono sentito un po' responsabile della frase: "... e guidare come un pazzo a fari spenti nella notte...". Temo che qualcuno ci abbia provato, e spero vivamente che non gli si sia successo un incidente... Oggi quella frase non la scriverei più, per non mettere a rischio la vita di chi l' ascolta».

La più grande soddisfazione?

«Quando in una scuola elementare di Boston, un gruppo di scolaretti ha cantato in mio onore, in italiano perfetto, 7.40 . Non riuscivo a crederci! Non hanno sbagliato una parola!».

Dal 2018 lei è presidente della Siae e si sta battendo per il rispetto del diritto d' autore.

«Non avevo intenzione di candidarmi, però sono stato scelto all' unanimità e non potevo tirarmi indietro. La pirateria è attualmente il più grosso problema. Le piattaforme digitali non pagano, sono lobby molto potenti, con forti interessi, sono miliardarie e non cacciano un euro, nonostante esista una chiara direttiva europea in materia, che non viene però attuata dai governi dei singoli Paesi, compreso il nostro. Una vergogna».

L' 11 settembre sarà uno dei protagonisti del Festival della Bellezza all' Arena di Verona. Cos' è per lei la bellezza?

«È un concetto che abbraccia il corpo e la mente, il fisico e l' intelligenza. È tutto ciò che può generare emozione, guardando la natura, il quadro di un pittore, ascoltando una canzone...».

Il 17 agosto compirà 84 anni. Ha ancora voglia di scrivere canzoni?

«Certo! Anche a un' età avanzata come la mia, restiamo tutti ragazzi perché i nostri anni, in confronto all' eternità, sono infinitesimali, una roba di millimetri... La creatività non scade, non ha limiti di tempo».

Quali i progetti, dunque?

«Ora mi affascina la musica lirica. Due anni fa ho realizzato, al Teatro Bellini di Catania, il primo melodramma moderno con la musica di Gianni Bella, La capinera , tratto da Giovanni Verga. Ora vorrei portare in scena una storia d' amore molto particolare: quella tra San Francesco, Santa Chiara e Dio. Una relazione sentimentale a tre, sublimata dall' amore per il Padreterno. D' altronde, mi lasci concludere con una considerazione: sono stato molto fortunato, nella vita privata, nel lavoro e devo ringraziare il Signore che mi ha assistito. Non sarei onesto se non lo ammettessi».

·        Giuseppe Cionfoli.

Intervista di Mattia Pagliarulo per Dagospia il 26 gennaio 2020. Ve lo ricordate Frà Cionfoli? All’anagrafe Giuseppe Cionfoli, il frate francescano originario di Erchie, in provincia di Brindisi, oggi sessantasettenne, che nei primi anni 80’ diventò una Star della musica leggera italiana in seguito alla sua partecipazione al contenitore festivo Domenica In all’epoca condotto da Pippo Baudo in cui vinse un telegatto d’argento per il concorso “Vota la Voce”. La sua fama venne collaudata nel 1982 quando partecipò in gara alla trentaduesima edizione del Festival di Sanremo all’epoca condotto da Claudio Cecchetto con la partecipazione della debuttante Patrizia Rossetti. Poco dopo fu costretto dal Padre superiore dell’ordine mondiale dei cappuccini Flavio Carraro, poi anche vescovo di Verona, a fare una scelta: o il convento o la carriera di cantante; il giovane brindisino si tolse il saio e i sandali e si dedicò solo alla musica, si sposò e si dedicò di conseguenza anche alla sua famiglia. Oggi in questa intervista vuole svelare dei retroscena inediti choc sul Festival di Sanremo 82’ non perdendo l’occasione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa circa il Festival di Sanremo in partenza tra qualche settimana condotto e diretto da Amadeus.

Signor Cionfoli, ci racconti questo retroscena inedito sul Festival di Sanremo del 1982 a cui partecipó.

«Quell’edizione del Festival fu un’edizione veramente vip, oltre a me c’erano in gara anche Claudio Villa, Anna Oxa, Albano e Romina Power, Mia Martini, Zucchero e Vasco Rossi, quindi premetto che ho un bel ricordo. L’amaro in bocca mi è rimasto però nella nottata della finale, ora mi spiego meglio...dopo essermi esibito con il mio brano “Solo Grazie” io e il mio accompagnatore che poi diventó mio suocero ci siamo andati a coricare senza attendere che finisse la serata; nel bel mezzo della notte viene a svegliarci di soprassalto Amedeo, un collaboratore della CM di Bari, la piccola casa discografica con cui avevo il contratto per comunicarmi che proprio io avevo vinto il Festival di Sanremo. Mi disse di vestirmi veloce nello stesso identico modo in cui mi ero esibito sul palco e di correre in macchina al teatro Ariston perché c’era la mia proclamazione a breve. Poco prima di arrivare a destinazione mi comunicarono che il vincitore non sarei stato più io ma Riccardo Fogli, mi sono classificato al quarto posto, nemmeno sul podio...Poi però i numeri hanno parlato: due milioni e mezzo dischi venduti tra LP e 45 giri e in classifica fino ad agosto».

Perché dal primo posto slittò al quarto? Cosa è andato storto?

«Mi dissero che per le giurie avevo vinto io ma poi il mio discografico di allora tale Pasquale Cavalieri barattó la mia vittoria per spianarsi la strada per il Festival dell’anno successivo, nel senso che ha scambiato la mia vittoria declassandomi dal primo al quarto posto in cambio della garanzia da parte dell’organizzazione di portare dei cantanti suoi in gara l’anno successivo, mi dissero poi che fu quasi costretto Cavalieri a fare questa scelta, poi non lo so. L’organizzazione del Festival era di Gianni Ravera, che ricordo come una persona meravigliosa. Poi non ho mai voluto approfondire la vicenda o fare denunce, ripeto i dischi venduti mi hanno dato ragione poi!»

Perché ne parla solo ora dopo ben 38 anni di silenzio?

«Perché sono arrabbiato con Sanremo e con la mafia delle case discografiche e quindi ho voluto togliermi questo macigno dalla scarpa per far sì che la gente sappia cosa c’è dietro a questa kermesse canora».

Quest’anno ha presentato un brano per l’edizione condotta e diretta da Amadeus?

«Ne ho presentati ben due di brani: “oltre l’infinito” e “Cenerentola non c’è”, quest’ultimo brano era molto impegnato perché parlava di pedofilia e guarda caso sono stati scartati entrambi; ma ormai ci ho fatto il callo, quasi ogni anno io presento una o più canzoni e fatalità vengono sempre cestinate, non credo sia un caso...Ho presentato i due brani con un giorno di ritardo poiché il regolamento per i big quest’anno è uscito molto tardi e il tempo per mandare il materiale alla commissione era ridotto a pochi giorni».

Perché pensa che non sia un caso?

«Perché non è il Festival della canzone italiana, è un festival su invito. Una volta si inviavano i brani da far ascoltare tramite raccomandata con ricevuta di ritorno, e al momento in cui aprivano le buste c’erano le forze dell’ordine e tutto un iter da seguire molto preciso, ora è tutto all’acqua di rose, è solo business, solo accordi tra case discografiche ed addetti ai lavori».

Vuole mandare un messaggio al conduttore e direttore artistico Amadeus o alla Rai?

«La Rai fa o dovrebbe fare servizio pubblico; dato che i poteri forti della Chiesa hanno per la prima volta nella storia palesato la piaga della pedofilia in ambienti cattolici potevano prenderci dentro e farmi cantare la mia canzone “Cenerentola non c’è”, cantata da me che sono un ex frate avrebbe acquisito ancora più valore e spessore. Ad Amadeus dico che anche se non in gara avrebbe dovuto chiamarmi almeno come ospite per la celebrazione di questi 70 anni di storia del Festival della canzone italiana, io che sono stato uno dei cantanti più chiacchierati e riconoscibili della storia di Sanremo negli anni 80’, non nascondo la mia delusione e la mia rabbia! Per esempio Salmo che sarà ospite a Sanremo e non lo ritengo un ospite da Sanremo lo conoscono solo i giovani, io sono conosciuto da tutti, da più generazioni.. nulla contro la sua persona ma ciò che dico è un dato di fatto...non capisco perché mi venga fatta questa ingiustizia!»

Cosa proporrebbe Cionfoli per risolvere questa faccenda?

«Proporrei di fare “l’altro festival” in cui vengono proposte tutte le canzoni scartare, e poi sarà il pubblico a giudicare. Gli italiani in questo modo si accorgeranno di quante belle canzoni vengono scartate e quante canzoni brutte vengono ammesse alla gara solo per accordi contrattuali e favoritismi».

La sua canzone che la commissione di Sanremo ha scartato parlava del delicato tema della pedofilia, lei da ex frate francescano che visione ha della piaga della pedofilia della chiesa?

«Premetto che è una piaga che c’è sempre stata ma prima c’era molto più silenzio. Quando usciva una cosa del genere un tempo si taceva perché era uno scandalo per le famiglie quindi rimaneva tutto nascosto e si chiudevano le situazioni. Oggi invece grazie al coraggio e alla forza di Papa Francesco tutto ciò sta uscendo fuori. Comunque è una piaga da estirpare, spero che con il tempo cambi qualcosa, sopratutto nei nostri seminari».

Nel Festival a cui ha partecipato in gara c’era anche l’immensa Mia Martini, che ricordo ha della sua collega?

«Ricordo con piacere Mimì, in quel Festival nessuno si avvicinava a lei. Dico con chiarezza, con fede e con sincerità che l’unico che si avvicinava a Mia Martini era il sottoscritto perché non ho mai creduto a quelle dicerie o a quelle voci relative a lei che dicevano che portasse sfortuna, la Martini era molto isolata dai colleghi quell’anno. Sento tanti colleghi che si dicono dispiaciuti per la fine che ha fatto, beh, chi non si avvicinava a lei non ha fatto altro che alimentare queste chiacchiere cattive e diffamatorie. Mia Martini è, è stata e sarà sempre la numero uno della canzone italiana».

Cionfoli, per non farsi mancare nulla si è candidato anche in politica, o sbaglio?

«Non sbagli! Pierferdinando Casini é un amico e mi sono candidato con lui e per lui alle elezioni europee qualche anno fa. Mi sembrava una soluzione economica per poter ovviare a tutti i problemi che si sono creati poi, è inutile fare chiacchiere, era una situazione abbastanza “onorevole” per quanto mi riguardava, anche se poi non sono stato eletto».

Prima di concludere l’intervista le lascio togliersi ancora un ultimo sassolino dalla scarpa...

«Non capisco perché TV 2000, che è una televisione di vescovi con mi chiama. Chiamano tutti: separati, divorziati, gay, lesbiche ma Giuseppe Cionfoli non è mai stato inviato. Ho speso la mia vita a parlare di Gesù Cristo nonostante non sia più in convento, anche qui non ho una risposta per la non chiamata da parte loro».

Giuseppe Cionfoli oggi cosa fa e che progetti ha?

«Abito a Bari e faccio il papà, il marito e il nonno, e continuo ovviamente con la musica e dipingo quadri, sono anche un pittore.In questo periodo sto lavorando a un progetto che racchiude 30 anni di Medjugorje in 30 canzoni. Ho musicato il messaggio della Madonna da quando è cominciato il fenomeno fino al 2008 circa..stiamo mixando e spero di pubblicare il tutto al più presto!»

·        Giuseppe Povia.

Giuseppe Povia a Vieni da me e il "gay mancato", stilettata a Caterina Balivo e Rai: "Sono andati nel panico e non mi inviteranno più". Libero Quotidiano l'8 maggio 2020. Costerà cara a Giuseppe Povia la battuta sugli omosessuali a Vieni da me. "Sono un gay mancato perché amo le pulizie", aveva detto durante l'intervista con Caterina Balivo, che non l'aveva presa bene. "Stiamo calmi, è un ospite e vorrei finire l’intervista con il sorriso. Ha detto una cretinata, a casa gli avrei detto altro...", aveva commentato a caldo lei. Una "polemica inutile", la definisce ora l'autore di I bambini fanno oh, da qualche anno diventato il cantautore preferito dai complottisti italiani per le sue sparate polemiche contro il "potere mainstream". "Stavo facendo una bellissima intervista - si sfoga ora su Instagram - ma poi loro sono andati in panico perché ho detto: 'Sono un gay mancato perché amo le pulizie'". Una. "battuta innocua e in buonafede – sottolina Povia -. Il 90% dei messaggi sul web sono in mia difesa infatti (Grazie). Ora però, per sta stupidata, non mi inviteranno più e sono triste", conclude con ironia.

Povia: “Volevo aprire una bancarella di frutta e verdura..”. Il Giornale Off il 31/01/2020. E’ un artista controcorrente. E sappiamo quanto sia difficile essere controcorrente in Italia. Giuseppe Povia, classe 1972. Da Sanremo al Family Day ha cantato il suo dissenso, prendendo posizioni che altri non hanno avuto il coraggio di prendere. Contromano sulla strada del pensiero unico. Ho scelto di essere lontano dal pensiero unico, con conseguenze negative e positive. Ho 47 anni, sono papà di due bambine e sono un cantautore che si mette in discussione e trasforma in musica quei temi che considera importanti. Se i temi mi appassionano li studio, ma sono fondamentalmente un cantautore non intellettuale, cresciuto libero ma con due istituzioni importanti: la scuola e la famiglia. Se tornassi indietro nel tempo non rifarei il 90% delle cose che ho fatto, ma ci sono dei punti fermi e questi li ho affrontati con la mia musica. Ero un bravo ragazzo, ma… Non si può dire che abbia avuto una gioventù scapigliata: ero un bravo ragazzo, ma se mi bullizzavano io reagivo. Ma oggi credo che un bullo dovrebbe essere punito con cinque/sei ore in più di scuola! L’importanza di fare il cameriere. Avrei voluto gestire una bancarella di frutta e verdura, come mio padre: e infatti per un certo periodo ho lavorato con lui. Poi ho fatto il cameriere e lì ho capito tantissime cose, che possiamo riassumere così: “Non siamo al mondo solo per noi stessi”. Io servivo ai tavoli e mi pagavano, ma oltre a far stare le persone con la pancia piena offrivo un servizio che le faceva star bene. E se facciamo stare bene le persone, allora queste ci emanano energia positiva. E così succede sul palcoscenico: il mio approccio con il pubblico è sempre positivo, anche quando giù dal palco mi sembra che uno spettatore mi stia guardando male! Tutto nacque da mia mamma. Mia mamma faceva le pulizie di casa cantando. Erano canzoni della tradizione milanese e le cantava così bene da farmene innamorare. Quando uscivo di casa le fischiettavo. A scuola la maestra intuì questa mia nota intonata, ogni volta che cantavo una canzone storica milanese lei si commuoveva: avevo 7 anni e la mia prima apparizione in pubblico fu una diretta su Gazzettino Padano. L’adolescenza, questa età difficile e benedetta…La cosa più importante che ho insegnato alle mie figlie di 1 e 14 anni è: parlare. Non condanno il fatto che il figlio un certo giorno entri in casa quasi senza salutare e si chiuda in camera: è un momento benedetto, perché vuol dire che si sta costruendo il suo mondo, anche se con le regole della casa. Non è comunque facile fare gli adolescenti. E’ importante dialogare con i nostri figli. Se sentono che il genitore c’è, sono più propensi a raccontare cose che altrimenti non racconterebbero. Vorrei che le mie figlie crescessero con le canzoni di papà e, perché no, che ogni tanto andassero anche a un suo concerto!, anche se ora sono ancora piccole per i concerti. La famiglia, questa istituzione...anarchica. Sono sposato dal 2007 e ho sempre detto che la famiglia non nasce dagli Stati, dalle religioni, dal Parlamento: la famiglia è nata senza regole, è la prima istituzione anarchica, nata in un’epoca in cui non c’erano né religioni né Stati. Per questo mi hanno attaccato al Family Day, ma vedi oggi cosa sta succedendo? La Russia, proprio la Russia, si sta avvicinando a questo valore, mentre l’Occidente se ne sta allontanando sempre di più. I genitori, anche quelli separati, almeno su quattro, cinque punti dovrebbero stare uniti, perché oggi i nostri figli crescono bombardati da modelli sbagliati. L’ovvio ormai è diventata sperimentazione. Nessuno ha il mondo contro, a parte me. C’è un caos culturale: oltre alla troika finanziaria c’è la troika “razzista, fascista, omofobo”, con cui si accusa chi oggi dice l’ovvio. Ho scritto una canzone “Immigrazia”, tratta da un pensiero di Marx e sono stato etichettato come razzista e fascista! Ti faccio un esempio storico: 376 d. C. , crollo dell’Impero Romano d’Oriente, arrivano i barbari e succede una babilonia struggente. Io ho raccontato questo nella mia canzone, dove in un verso dico: “Con la scusa del razzismo vogliono far fuori gli italiani”. Alla Festa del PD, “Io non sono democratico”….Le vecchie sinistre dovevano ricostruire l’Italia, rilanciare la produzione interna, il lavoro, l’economia, cose che oggi sono invece riprese dalla nuova destra avanguardista. La parola sovranità era voluta più dalla sinistra che dalla destra. Io ho fatto parecchie uscite sul palcoscenico, anche della Lega; e alle feste del PD ho contato la canzone “Io non sono democratico”. Se l’artista è libero veramente, deve esprimersi ovunque. “Luca era gay” e oggi la rifarei. Pensa se avessi cantato oggi “Luca era gay”: mi avrebbero massacrato. Certo, dieci anni fa ha creato un certo scompiglio, ma io volevo solo raccontare una storia di libertà assoluta. Sono stato tacciato di omofobia, una cosa pericolosissima oggi: è passata al Senato una legge contro l’omofobia, ma non si è chiarito quale atto sia omofobico: dire che la famiglia è quella del modello cattolico è omofobia? leggere i vangeli ad alta voce è omofobia? Queste cose succedevano solo nei regimi totalitari. Nel pensiero giuridico vero, uno deve sapere cosa gli succede dopo aver commesso un atto. Ed io ho paura di essere giudicato: tutto ciò che legge non deve essere per forza giusto. Credo a Babbo Natale. Sono un po’ troppo arretrato, faccio il presepe e credo a Babbo Natale. Il Natale è un momento unico, in cui ti ritrovi con la tua famiglia; oggi è difficile unirsi, si tende a dividersi. Il Natale, per me, è un punto di aggregazione con le persone care.

·        Giuseppe Vetrano.

Da lanazione.it il 22 gennaio 2020. Un carro funebre (d'epoca), corone, manifesti, candele, una bara (vera) per un funerale (finto). Chi ha visto questa scena in zona Cascine sabato sera deve essersi chiesto che cosa fosse successo. Un funerale di sabato sera, molto tardi, con musica, scene di pianto finto e diverse risate? Sì, era una goliardata. Era il "funerale" che il 33enne Giuseppe Vetrano si è voluto... regalare. Il cantante pugliese vive a Firenze; è appassionato di auto d'epoca e di musica hard rock. Dovendo tornare momentaneamente nella sua regione di origine per ragioni familiari, ha pensato bene di congedarsi dai suoi amici non con la tradizionale serata in pizzeria o, tutt'al più, al pub, bensì con un corteo funebre. E tutto regolare: aveva chiesto e ottenuto da Palazzo Vecchio il permesso di inscenare l'ultimo saluto che poi ultimo, almeno per il momento, è stato, perché dopo essersi fatto vegliare disteso in una vera bara, Vetrano si è alzato sulle proprie gambe. E chissà se si è congedato dall'insolita e macabra serata citando Stan Laurel, che con la comicità surreale del suo Stanlio disse: "Se al mio funerale vedo qualcuno con il muso lungo non gli parlo più...".

Massimo Mugnaini per firenzetoday.it il 22 gennaio 2020. Un funerale da vivo, con tanto di carro d'epoca e corteo funebre pedonale a seguire. Se l'è organizzato Giuseppe Vetrano, 33 anni e andrà in scena sabato 18 gennaio, alle 23.30, al piazzale del Parco delle Cascine. "Partiremo dal piazzale del Re, attraverseremo il viale degli Olmi e termineremo il corteo a piazzale Jefferson - spiega Giuseppe tra il serio e il faceto - lì c'è tanto spazio per lasciare le auto e gli scooter".

Ma come ti è venuta in mente una cosa del genere?

"Vedi, io faccio il cantante e ho tre grandi passioni: la musica hard rock e metal, il vintage e le auto d'epoca. Così, qualche anno fa mi sono messo a cercare un vecchio carro funebre, un mezzo d'epoca, per utilizzarlo come mio mezzo privato, quotidianamente. L'ho trovato due anni dopo, in Basilicata. E adesso ci giro regolarmente a Firenze, dove abito ormai da anni. Ci ho montato sopra tutti gli accessori, lo tengo molto bene".

E quando passi, cosa succede?

(Ride) "Beh è chiaro, la gente si tocca ma devo dire che la maggior parte delle persone intuisce e sorride, senza abbassare le mani".

Torniamo al tuo funerale.

"Si, il funerale. Dicevo, io giro con questo carro funebre. L'anno scorso ho detto ai miei amici che a fine gennaio sarei dovuto tornare in Puglia, la mia regione di origine, a causa di alcuni problemi familiari. Gli amici mi hanno detto che non potevo andarmene così, dovevo fare una festa, o qualcosa del genere, per celebrare questo addio. Allora, visto che ho il carro funebre, ho pensato: perchè non farmi un bel funerale? Così mi sono messo a indagare per capire come fare, che documenti presentare eccetera".

Ma da Palazzo Vecchio che hanno detto? Hanno pensato a uno scherzo?

"No, no. Ho fatto la richiesta un mese fa, è semplice, sono stati molto carini. Hanno compreso lo spirito ironico dell'idea, conoscendo lo spirito dei fiorentini mi sarei meravigliato del contrario. Una cosa irriverente, non irrispettosa. Un modo per esorcizzare la morte. La mia richiesta è passata in commissione, la polizia municipale mi ha appoggiato e mi ha spiegato tutto, mi hanno anche fissato la data e specificato quale era l'orario stabilito per il funerale. E alla fine, la richiesta è stata approvata dalla direzione mobilità di Palazzo Vecchio”.

Come si svolgeranno le esequie?

"Ah, io sicuramente sarò nella cassa da morto, sono il festeggiato. Il carro lo guida un amico".

E quindi non assisterà al suo funerale?

"No, ma dalla cassa qualcosa vedrò pure. E poi metterò la musica".

La musica?

"Certo, come a ogni funerale. Ho già preparato la playlist, farò il dj dalla cassa. Tutta musica trash anni '90, tipo Eiffel 65 e simili. Roba ballabile, la gente si divertirà. La spariamo con le casse bluetooth".

Le esequie si svolgeranno in forma privata?

"Macché, io ho chiamato amici e conoscenti ma ho detto loro di portare chi vogliono. Tutti sono invitati".

Dress code?

"Non c'è, ovviamente: libera interpretazione, chiedo solo creatività. Ah, stasera metto qualche manifesto in centro, tipo necrologio di paese. L'avevo chiesto anche a un quotidiano, di mettermi nella pagina dei necrologi. Ma non l'hanno presa bene".

E a fine gennaio lasci Firenze?

"No no. Fortunatamente, ho risolto i miei problemi familiari. Resto qui. Ma ormai il funerale me lo faccio lo stesso".

·        Gue Pequeno.

Gué Pequeno: “Quando le veline hanno iniziato a scopare i rapper, il rap è diventato figo”. Le Iene News il 22 ottobre 2020. Cosimo all’anagrafe, per tutti Gué Pequeno. Segni particolari: “guercio” e allergico a chi ostenta e al “rap scaccia-fica”. Abbiamo fatto quattro chiacchiere insieme dopo i suoi 6 dischi da solista, oltre alla carriera con i Club Dogo. E lui certo non si è risparmiato nel rispondere a Le Iene. “Non sono felice né ora né quando avevo 20 anni”. Cosimo all’anagrafe, per tutti Gué Pequeno. Segni particolari: 6 dischi da solista, oltre alla carriera con i Club Dogo e l’occhio “guercio”. “Ho 39 anni ma non mi sento vecchio per fare il rapper. Sono tra i più pagati, ma non il più pagato”. Tradito, mollato, ma mai con il rap “scaccia-fica”, quello che ha allontanato le donne: “Per anni è stato scacciafica il rap, poi le varie veline hanno iniziato a capire che è anche figo e così hanno iniziato a scop… i rapper”, dice Gué. “Il vero king a un concerto deve essere lucido, io non ci sono sempre riuscito purtroppo”, racconta. In camerino ci porta la mamma, ma è stato anche nei centri massaggi cinese: “Sono stato truffato pensavo di andare con una giapponese e invece era cinese”. È allergico al rap che ostenta. “È bello ostentare e far vedere il proprio stile se lo si fa in modo figo”. Vive in Svizzera, “ma le tasse le pago sia qua che là”. “Il rap non è né omofobo né sessista. È una musica mega esplicita fatta storicamente da maschi, ma non più machista del rock”, ci dice. E a proposito del binomio gay-rapper ci dice: “Non ce ne sono di dichiarati, ma di non dichiarati sicuramente. Mi hanno accusato di essere omofobo per i miei testi ma non lo sono. Dico negro, frocio e terrone solo con amici con sui sono in confidenza per farlo e mi sento dire che sono un cesso”. Mascherina sì, negazionista no, ma favorevole ai concerti anche con il Covid. “Come vanno a vedere le partite distanziate, come fanno i comizi con 30mila persone, perché non si può fare un concerto?”. Fa valere le sue idee, ma non si definisce rissaiolo: “Ho assistito a risse ma alla pari. Non esiste come a Colleferro dove hanno ammazzato un 20enne”. 

Gue Pequeno si è preso una pausa? Sui social "scomparso" da Natale. Da circa un mese il rapper milanese non si fa vedere sui social network. Il motivo del gesto sarebbero da ricercare nel suo ultimo post Instagram. Novella Toloni, Martedì 21/01/2020, su Il Giornale. Che fine ha fatto Gue Pequeno? Il rapper milanese, da sempre molto attivo sui social network, da circa un mese non dà notizie di sé e sul web i fan iniziano a farsi delle domande. L'ultimo post social condiviso dal produttore discografico risale al 24 dicembre, vigilia non solo di Natale ma anche del suo compleanno. Secondo molti le motivazioni dell'addio ai social sarebbero proprio da ricercare nel messaggio pubblicato su Instagram quasi un mese fa. Dopo l'uscita del featuring con Marracash "Qualcosa in cui credere", Gue Pequeno è apparso sui social con numerosi video e post. Il rapper si divideva tra Miami e Milano ma niente faceva presupporre un suo imminente black out social. Nel giorno del suo compleanno scriveva su Instagram: "Caro Babbo Natale, vedo che tra i regali più richiesti quest’anno ci sono acquisti di stream, strategie di marketing per insabbiare la pochezza di molti artisti, gioielli finti e skinny jeans che sembrano fuseaux. Io come sempre invece ti ringrazio, sono a posto così, non ho bisogno di dover fare il personaggio perché sono già un personaggio, non devo farmi il film perché il mio rap è già un film e la mia vita pure". Parole che molti hanno interpretato come un messaggio rivolto ai giovani volti della musica trap e rap - e forse anche allo storico rivale Fedez - che si stanno facendo strada più che nella musica proprio sui social, corteggiati da brand e osannati dai follower. Dopo il concertone di fine anno ad Agrigento e lo show live a Rimini in occasione del "Riviera Pop Festival" di lui però si sono perse le tracce. Niente più post e storie su Instagram, niente più video per salutare i suoi follower. Il suo profilo è stato svuotato da tutte le foto lasciando solo i post principali. Mentre alcuni dicono che si trovi a Santo Domingo con il suo staff, appare sempre più chiaro che dietro alla sua momentanea assenza dal web ci sia una strategia per il lancio del suo nuovo album. In fin dei conti lo aveva annunciato nell'ultimo post Instagram: "Ci vediamo nel 2020, quando meno te l’aspetti".

·        Gwyneth Paltrow.

Ilaria Costabile per "fanpage.it" il 18 giugno 2020. C'è poco da fare, ormai Gwyneth Paltrow ha creato un vero e proprio business. Dopo la vendita strabiliante della sua prima candela, ideata appositamente con elementi naturali che ricordassero "l'odore della sua vagina", l'attrice si è cimentata in un'altra esperienza sensoriale. Se già la prima fragranza poteva sembrare piuttosto bislacca, la seconda non è decisamente da meno, dal momento che l'odore di questa nuova creazione dovrebbe rievocare quello del "suo orgasmo".

La nuova candela di Gwyneth Paltrow. In fatto d'estro non si può certo dire che l'attrice non ne sia provvista, anzi, la Paltrow mostra di avere una fervida immaginazione e creatività, che poi ha riversato nelle sue linee di prodotti. L'arrivo della nuova candela, che si chiama proprio "L'odore del mio orgasmo", è stato annunciato durante il Tonight Show di Jimmy Fallon di cui la diva è stata ospite. La trasmissione si svolge ancora a distanza, ognuno è in collegamento da casa sua, e tra una risata e l'altra l'ex moglie di Chris Martin mostra anche la confezione della sua nuova creatura con tanto di fuochi d'artificio e il commento di Fallon: "Ovviamente ci sono i fuochi", lasciando intendere che sia un momento sicuramente esplosivo.

Il successo della prima candela. Gli esperimenti di Gwyneth Paltrow, come è accaduto anche per la candela precedente, nascono quasi tutti per gioco, ma poi diventano dei progetti sui cui lavorare e che, alla fine, fruttano anche un bel po' di milioni a colei che li ha creati. "L'odore della mia vagina", infatti, nonostante le aspre critiche ricevute sui social è diventata in pochissimo tempo uno dei principali acquisti sul blog dell'attrice e la vendita del prodotto le ha fruttato davvero una fortuna, tanto da farle pensare di continuare la linea con questa nuova fragranza, convinta che potesse replicare se non superare il successo della precedente.

Alessandra Menzani per “Libero Quotidiano” l'1 febbraio 2020. L' attrice americana Gwyneth Paltrow è un genio. Del male, ma è un genio. Colei che settimane fa ha lanciato la candela che profuma di vagina (la sua) facendo palate di soldi perché ci sono state persone che l' hanno comprata, ha messo a segno un altro colpaccio dei suoi. La piattaforma televisiva Netflix manda in onda da qualche giorno il documentario The Goop Lab in cui si entra nel magico mondo del suo marchio, a metà tra la factory e la redazione pseudo giornalistica, specializzato in prodotti tra il medicamentoso e l' esoterico. Ricordiamo che era stato Goop a consigliare la sauna vaginale per aumentare il desiderio sessuale, pratica che però aveva mandato al pronto soccorso una sessantaduenne canadese per ustioni di secondo grado nell' agosto del 2019. La comunità scientifica è in guerra con Goop, ma loro dal 2008 macinano "successi" e dollaroni. Queste sei puntate sono il trionfo del Paltrow-pensiero. Nel primo episodio c' è lei che dal quartier generale dell' azienda (un' ottantina di dipendenti) spiega la filosofia del suo lavoro: «L' ottimizzazione dell' Io: la vita è una sola e noi cerchiamo di schivarne gli oltraggi, ovvero la merda». Gwyneth e il suo team vanno alla ricerca di «nuovi percorsi terapeutici». E anche se all' inizio il documentario avverte che lo scopo è quello di intrattenere e non di fornire consigli medici, The Goop Lab è pericoloso. La medesima prima puntata indaga sulle sostanze psichedeliche per uso curativo, rituale e spirituale, in pratica per guarire depressione e ansia. La squadra della Paltrow prova sulla propria pelle: un gruppo di collaboratori parte per la Giamaica, tutti volontari, con lo scopo di testare i "funghi magici" che nell' isola caraibica sono consumati come la Coca Cola. Chi per «superare il trauma della perdita del padre suicida», e chi, come Kevin, braccio destro dell' attrice da dieci anni, «per problemi di autostima e relazione». Ci sono due testimonianze di persone «guarite» con le sostanze psichedeliche: una donna con l' ansia che il cancro le tornasse e un ex soldato con sindrome da stress post-traumatico che ha tentato cinque volte il suicidio. La stessa attrice rivela di avere provato sostanze estreme in una vacanza in Messico con suo marito. Seconda puntata: la squadra di Goop scopre lo yoga nella neve e si tuffa nelle acque gelide del lago Tahoe. Ovviamente, tutto miracoloso. Il sesso è uno dei pilastri dell' attività della Paltrow: una puntata è dedicata al piacere femminile con la novantenne guru Betty Dodson che dà alle sue "cavie" addirittura una specchietto per guardarla meglio. Si scopre che alcune donne non se la sono mai vista mentre l' attrice non sa la differenza tra vulva e vagina. Bocciata in femminismo. Altre cose sparse: una redattrice "kamikaze" della Patrow si fa piantare in faccia un centinaio di aghi per sottoporsi a un trattamento di agopuntura per ringiovanire il viso. Si scopre che l' apiterapia, farsi pungere ripetutamente il viso dalle api «come facevano gli antichi egizi», è un formidabile rimedio alle rughe. La stessa attrice, ribattezzata da Linkiesta «la Wanna Marchi americana», tanto è ciarlatana, pratica digiuno intermezzato da pappette liofilizzate e si fa iniettare in faccia il proprio sangue centrifugato (metodo considerato inutile dai dermatologi mondiali). «Energia» è la parola più gettonata. Secondo la medium Lynne Jackson, siamo tutti dei medium, e dunque invita ad «aprirsi a livello enegetico». The Goop Lab è in qualche modo ipnotico anche se al limite della legalità. Sulla scienza e sulla salute c' è davvero poco su cui scherzare.

Gwyneth Paltrow, oggetti stravaganti e pubblicità ingannevole: tutte le «follie» dell’attrice. Pubblicato lunedì, 13 gennaio 2020 da Corriere.it. Dal chiacchierato divorzio con Chris Martin alla denuncia per aver dispensato consigli ingannevoli sulla salute. Gwyneth Paltrow — classe 1972 — torna a far parlare di sé: l’attrice di «Avengers: Endgame» ha lanciato sul proprio sito di e-commerce Goop un oggetto alquanto stravagante: una candela che odora come le sue parti intime. Il profumo del prodotto — venduto a 75 dollari — viene descritto come «divertente, stupendo, sexy e meravigliosamente inaspettato... È una miscela di geranio, bergamotto agrumato e cedro giustapposti a rosa damascena e ambra che riportano alla mente la fantasia, la seduzione e un calore sofisticato» («With a funny, gorgeous, sexy, and beautifully unexpected scent, this candle is made with geranium, citrusy bergamot, and cedar absolutes juxtaposed with Damask rose and ambrette seed to put us in mind of fantasy, seduction, and a sophisticated warmth», ndr). Inevitabili le polemiche in Rete, nonostante il prodotto sia andato sold-out: molti hanno criticato la «volgarità di questa candela degna di un sexy shop» e il fatto che la star di Hollywood «faccia di tutto in nome del denaro». L’attrice era già finita nei guai per pubblicità ingannevole sul suo sito internet per aver dispensato consigli equivoci su salute e benessere. Il risultato? Paltrow fu costretta a pagare una multa di 145mila dollari per aver venduto «uova vaginali di giada e quarzo», attribuendovi benefici infondati per la salute emotiva e sessuale. A denunciare la star di Hollywood era stato il comitato di controllo a favore dei consumatori (Tina) che aveva individuato sul sito della star «prodotti che senza supporto scientifico hanno la pretesa di curare disturbi come la depressione, l’ansia, l’insonnia o l’infertilità». Paltrow aveva scatenato le critiche dell’associazione ginecologi per aver lanciato anche la «moda» dei bagni di vapore per le parti intime per «riequilibrare gli ormoni femminili». «La signora Paltrow dovrebbe limitarsi a recitare sugli schermi e non sostituirsi a un medico — aveva detto all’Indipendent la ginecologa Jen Gunter —. I suoi consigli non sono né salutari né ipotizzabili... Non bisogna mai, sottolineo mai, fare una cosa del genere». Nemmeno la vita privata di Paltrow è stata immune dalle chiacchiere. Dopo il divorzio con Chris Martin, proprio il leader dei Coldplay aveva rivelato i motivi della separazione, confessando come la sua autostima fosse migliorata. Nel documentario «Coldplay: A Head Full Of Dreams» (realizzato nel 2018 per i 20 anni di carriera della band) Martin ha detto: «Non riuscivo a godermi tutte le cose belle che avevo intorno a me», sottolineando il ruolo dei figli Apple e Moses per superare la crisi. Oggi i due genitori — che sono stati sposati dal 2003 al 2014— sono molto amici e hanno una nuova vita: Paltrow si è risposata con il produttore Brad Falchuk, conosciuto sul set di Glee. Accesso dibattito in Rete anche per la critica di Apple Martin a sua madre Gwyneth, colpevole di aver postato su Instagram una sua foto senza permesso. La 14enne aveva chiesto pubblicamente all’attrice di non farlo più: «Mamma, ne abbiamo già discusso. Non puoi pubblicare nulla senza il mio consenso». Molti follower si sono chiesti se sia giusto che i genitori usino le immagini dei figli sui social senza il loro consenso.

·        Heather Parisi.

Anticipazione da “Oggi” il 19 febbraio 2020. «La mia vita ai tempi del Coronavirus si svolge tra il tinello e la cucina di casa. Trascorro il tempo a leggere, a cucinare e soprattutto a insegnare ai miei gemelli che fanno home-schooling dall’età di cinque anni», scrive Heather Parisi in un’ampia testimonianza pubblicata da «Oggi» in edicola da domani. La ballerina dal 2010 vive a Hong Kong con il marito e i due figli e racconta nei dettagli sulle pagine del settimanale come si vive vicino all’epicentro del virus che spaventa il mondo intero. «Gli  impiegati pubblici, quelli delle società finanziarie e degli studi legali lavorano da casa; in pratica chiunque abbia un lavoro di ufficio. E siccome la maggior parte dell’impiego a Hong Kong è nel terziario, di fatto è l’intera città a starsene a casa... Gli studenti frequentano le lezioni da casa in remoto, utilizzando il computer e rispettando l’obbligo, quando sono collegati, di vestirsi in maniera appropriata e, rigorosamente, senza indossare il pigiama. Così, oltre al diritto allo studio, sono salvi anche la disciplina e la forma, che da queste parti hanno una certa importanza. Ascensori e scale mobili vengono sterilizzati ogni due ore e tutti si disinfettano le mani prima di entrare in un edificio pubblico. Per chi è costretto a lavorare in ufficio, è previsto il controllo della temperatura prima di entrare. In realtà», scrive Heather su «Oggi», «la temperatura oramai viene misurata ovunque. È necessario farlo per accedere a qualsiasi club privato, così come per andare dal parrucchiere o al ristorante. Io la misuro anche a chi viene a trovarmi a casa, benché la mia vita sociale sia ridotta davvero ai minimi termini. Fino a oggi non ho ancora respinto nessuno sulla porta di casa e non sono stata respinta da nessuno, ma dovreste vedere la paura e l’imbarazzo negli occhi di ciascuno durante l’attesa del responso della misurazione». La Parisi spiega anche le regole sanitarie che tutti stanno adottando: «Non ci si bacia, non ci si abbraccia e non ci si stringe nemmeno la mano… La prevenzione e l’attenzione ai minimi dettagli è talmente invasiva da entrarti fin dentro agli aspetti più intimi e privati della vita quotidiana, fin dentro al bagno di casa. In questi giorni, ogni condominio ha fornito ai suoi inquilini un prontuario per l’uso nientepopodimeno che del WC. È stato infatti rilevato che il virus può trasmettersi anche attraverso la nebulizzazione delle acque utilizzate nel WC». Heather racconta inoltre che certi prodotti sono introvabili e razionati. «Ho supplicato il direttore del supermercato sotto casa di tenermi un po’ di carta igienica da parte, ma quando è stato il momento di ritirarla, non ce l’ho fatta a tenerla tutta per noi e, come fanno i bambini a scuola con le merendine, ho finito col dividerla con indiani, cinesi e filippini che ne avevano bisogno come e più di me. I prodotti per davvero razionati sono, oltre alle mascherine, i disinfettanti e l’alcool. Non se ne possono acquistare più di due confezioni a testa. Mio figlio Dylan Maria ha il fiuto nel trovare la fila giusta nei negozi giusti! A volte scompare di casa e, preoccupata, chiedo a sua sorella Elizabeth dove sia andato. Dopo un paio di ore se ne torna orgoglioso con qualche confezione di disinfettante: «Mummy, I bought two! Mamma, ne ho comprati due!». Io lo bacio commossa e felice, perché la felicità ai tempi del coronavirus è anche un bottiglia di disinfettante in più».

heather__parisi: Molti mi chiedono come e quanto sia diversa la nostra vita dopo l'esplosione del #coronavirus. Sarò sincera. Io ho sempre amato stare a casa, a leggere, a cucinare ad insegnare ai miei gemelli. E per questa ragione le nostre abitudini non sono assolutamente cambiate. In compenso, è lo stile di vita della gran parte dei cittadini di Hong Kong ad essere cambiato diventando molto più simile al mio. Infatti, la gente esce pochissimo e in gran parte lavora da casa. Questo accade per tutti gli impiegati pubblici, per la quasi totalità delle società finanziarie, per gli studi legali, per i commercialisti e per gli uffici amministrativi. Per coloro che sono costretti a lavorare in ufficio, è previsto il controllo della temperatura ogni volta che entrano dall'esterno. Gli studenti svolgono le loro lezioni da casa collegati via computer con gli insegnanti e i loro compagni in una sorta di classe virtuale. Tutti indossano la mascherina e si disinfettano le mani all'entrata di ogni edificio pubblico. Gli ascensori e le scale mobili vengono sterilizzate ogni due ore. Non c'è panico, nè isteria, ma la consapevolezza che solo con il contributo di tutti indistintamente, questa epidemia può essere sconfitta. Se c'è una città che è preparata ad affrontare una simile situazione, questa è senz'altro Hong Kong e il numero circoscritto di malati, nonostante la vicinanza con la Cina, è lì a dimostrarlo.

·        Helen Mirren.

Gloria Satta per "Il Messaggero" il 6 luglio 2020. Le cicale friniscono, sovrastando la sua voce, ed Helen Mirren esclama in perfetto italiano: «Che bella giornata!». Sbarcata a Pescara con il marito Taylor Hackford dallo stato americano del Nevada, la regina delle attrici, 74 anni gloriosi, ha ricevuto il Premio Flaiano alla carriera benedetta nel 2007 dall'Oscar per il ruolo di Elisabetta II nel film The Queen di Stephen Frears. Ironica, gentile, semplice e insieme glamour con il suo caschetto candido, Helen è pronta a ritrovare il pubblico: prossimamente vedremo su Disney + il film The One and Only Ivan, un mix tra live action e Cgi in cui ha doppiato una barbonicina, poi l'attrice britannica sarà in Fast & Furious 9 e The Duke. La pensione, ha spiegato, non è nei suoi pensieri.

Che rappresenta il Flaiano tra i mille premi che ha già ricevuto?

«È importantissimo perché il cinema e la cultura italiana mi sono profondamente cari. Adoro il vostro Paese al punto di aver comprato una masseria nel Salento dove mio marito e io passiamo diversi mesi all'anno».

 E cosa le piace, in particolare, dell'Italia?

«All'inizio, come qualsiasi turista, sono stata colpita dai paesaggi, dal cibo, dal vostro stile di vita. Poi ho imparato ad apprezzare il forte senso di comunità che si respira nei piccoli centri, soprattutto al sud».

Crede che dopo la pandemia il mondo sarà migliore?

«Taylor e io abbiamo trascorso il lockdown nella nostra casa nel Nevada prendendo lezioni d'italiano online e guardando i film di Fellini, immersi nella natura. Ed è proprio dalla natura che è venuto il Covid-19: la pandemia ci ha fatto capire che l'abbiamo sfruttata troppo e spero che d'ora in poi saremo più attenti. Ma l'uomo purtroppo tende a dimenticare le lezioni ricevute».

Dopo il film del 2017 Ella & John diretto da Paolo Virzì, lavorerebbe con un altro italiano?

«Senza dubbio. Adoro Checco Zalone, con lui mi faccio matte risate: è buffissimo ma ha un grande cuore. Con lui girerei subito un film. C'è un problema, però: è più bravo di me».

Come fa a tenersi in forma?

«Praticando uno stile di vita salutare. Durante il lockdown mio marito e io siamo dimagriti 10 chili mangiando sano, facendo yoga e pilates. Va fatto con costanza».

In The One and Only Ivan ha dato la voce a una barboncina, ma nella vita ha un cane?

«Lo vorrei tanto ma non posso permettermelo, viaggio troppo. E avere un animale comporta delle responsabilità».

Ha interpretato serie cult come Prime Suspect e Caterina la grande: quanto tiene alla tv?

«Molto, perché permette di approfondire i personaggi. Quando iniziai a recitare, negli anni '70, il cinema inglese era terribile e i migliori registi come Ken Loach e Mike Leigh lavoravano per la tv».

Da ambasciatrice del marchio L'Oréal, pensa che il concetto di bellezza sia cambiato?

 «Certo, e molto. Vent' anni fa non avrebbero ingaggiato una della mia età mentre oggi c'è molta più apertura verso i generi, le razze, le taglie. Si è finalmente capito che la vera bellezza viene da dentro, dalla salute».

È più a suo agio nella masseria o sul red carpet?

«Nella masseria! Ma amo l'adrenalina che si scatena sul red carpet, i bellissimi vestiti e i diamanti da favola che ti prestano per l'occasione. Come il diamante rosa da due milioni di dollari che mi diedero all'Oscar: io lo appoggiai sul fondoschiena e dopo la cerimonia gli uomini della sicurezza faticarono non poco per recuperarlo. Cose che succedono solo a Hollywood».

Sempre in prima linea per i diritti delle donne, pensa che le recenti battaglie per la parità abbiano dato dei frutti?

«Costume e cultura sono cambiati, per fortuna. Trent' anni fa non si poteva nemmeno parlare di parità salariale o di matrimoni gay. Ma non dobbiamo adagiarci sulle conquiste ottenute, c'è il rischio di tornare indietro. Mi preoccupa la recrudescenza delle destre estreme e dei nazionalismi, guardate che succede negli Usa. Bisogna rimanere vigili».

Lontana dai riflettori si sente una regina?

«Macché, quando non lavoro metto abiti comodi, magari con qualche buco. Mi sento una regina solo dopo un bicchiere di vodka».

·        Hitomi Tanaka.

Barbara Costa per Dagospia il 22 novembre 2020. Guardala bene, ma guardala tutta, e smettila di fissarli, togli la vista da "lì"! Sembri un maniaco, che c’è, non ce la fai, ti ha spiazzato, ipnotizzato, incantato? Alza quello sguardo, contieniti in qualche modo! Sappi che a Hitomi Tanaka non piace essere morbosamente ammirata per lo scherzo che la natura le ha fatto: quei suoi seni ti paiono irreali, ma sono reali, per nulla toccati da chirurghi plastici degenerati. Hitomi è un caso di "macromastia", fenomeno dal nome pauroso che indica la crescita spropositata delle mammelle. Hitomi sfoggia seni enormi, potenti, capaci di schiacciare lattine, seni grazie ai quali la ragazza ci campa, da anni, da star. E in quale ambito lavorativo puoi mettere a frutto una risorsa simile, se non il porno? Sono lontani i tempi in cui Hitomi sulle sue bocce lievitanti ci piangeva, se ne disperava: i piagnistei sono terminati il giorno in cui un produttore alla vista di tale zinnosa qualità ha pensato di metterla sotto contratto, e non per pose sozze, semplicemente come modella glamour, settore per cui i nipponici sembra vadano pazzamente in erezione. Da pose caste, vestite, Hitomi è virata maliziosamente a più audaci, nude, fino a firmare per produzioni porno, incassando yen su yen per quei seni abnormi, impiegati in porno lesbo soft, ma pure più particolari, in orge dove devi farti valere in porno-battaglie zinniche, tra colleghe zinnamente pari equipaggiate, e dove i capezzoli vanno schierati in prima linea. Dice Hitomi: “I miei capezzoli sono grossi, grassi, sensibili sopra la norma. Basta che li sfiori, e mi eccito subito. Non sai quando me li succhiano, e quando me li succhio io da sola…”. Se per le leggi giapponesi il suo sesso (pelosissimo!) nelle foto è pixellato, sfocato, è nei video che puoi gustarlo uncensored, come puoi allietartene nelle sue performance di porno USA. Vuoi che una bambola-anime vivente, resa ancora più tale da un abile uso di filtri social, dopo aver conquistato il pene dei suoi connazionali, non sia stata cercata, inseguita, presa da studios americani? Qui l’hanno messa alla prova con partner egualmente zinnute (cerca il suo "scontro" con la pettoruta Maserati!) in porno "Scoreland" provocanti irrefrenabili peniche manate. Bizzarramente, il corpo di Hitomi eccetto che di tette minuto (155 cm per 47 chili) la ergono tra le principesse di porno BDSM, specie nei video dove fa l’insegnante sadica, anche se è indubbio che i suoi fan sbavano quando è lei a subire le porno-angherie più spregevoli (da notare, in questo campo, i lavori di Hitomi per il regista Tameiki Goro). In privato, Hitomi Tanaka non è un tipetto facile: oltre all’amore folle per il suo barboncino (si chiama Baby Chacha, fa il cane-influencer, puoi seguirlo su Instagram), Hitomi si professa un po’ antisociale, timida, e esageratamente permalosa. Lo ammette lei per prima: la sua idiosincrasia alle battutine, di più ai malevoli mormorii altrui, è da imputare alle sue tettone: “Non voglio esser fissata, additata. Quindi, quando esco, sono costretta a indossare abiti non aderenti. E non vado mai in spiaggia né in piscina. In costume, i miei seni diventano distraenti per le persone. Che seccatura!”. Mi sa che è la stessa stizza che mostra nei porno in cui è ricoperta di sperma: “Scene che detesto di più girare! I miei seni sono così inzaccherati! Lì il mio malumore non è recitato”. Se la tira un po’ troppo, ti pare? In fondo, Hitomi è grazie al suo imponente davanzale che ha raggiunto il successo. Però, meglio starci zitti, meglio non infastidirla, al limite sfoghiamo la nostra bramosia via post. Mi sono dimenticata di dirti che la signorina è cintura nera di karate nonché una valevole kickboxer…

·        Hoara Borselli.

Dagospia il 7 gennaio 2020. Da I Lunatici Radio2. Hoara Borselli è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. La Borselli ha raccontato: "A fine 2019 tutti festeggiavano, io invece ho apprezzato il 2019, mi è piaciuto molto. Quasi mi dispiaceva lasciarlo andar via. Il 2020 è iniziato in modo normale, le feste dopo un po' mi annoiano. Sicuramente nel mio 2020 non ci sarà il 'Grande fratello vip'. Nulla contro, ma le voci che mi vogliono nella casa non sono vere. E' una cosa che non è nei miei obiettivi e che non ha nulla a che vedere col percorso che sto intraprendendo. Poi non riesco a stare ferma, non mi ci vedo tre mesi in una casa a fissare il soffitto. Guardo volentieri il GF ma non potrei partecipare. Addirittura un giornale ha scritto che scalpito per andare, ma è una classica fake news". Sul suo ruolo da opinionista politica: "Per una bella donna può essere più complicato, perché il pregiudizio c'è. Ma anche giustamente. Io ho avuto modo di ragionare anche sulle polemiche che mi sono state mosse riguardo a questa cosa. Capisco le persone che si chiedono in fin dei conti che titoli abbia per parlare di politica. Ci sono dei pregressi che magari la gente non conosce, non per colpe sue. Io da qualche anno ho deciso di staccarmi dal percorso televisivo che avevo sempre fatto per dedicarmi proprio a questo. Ho fatto radio, niente a livelli nazionale, impegnata costantemente in una diretta di tre ore da sola, in cui parlavo di politica e attualità. Sto per ottenere il tesserino da giornalista. Questo è quello che io voglio fare. Sicuramente pregiudizi ce ne sono tanti, ma non sono io a dover dire che posso ricoprire un certo ruolo. Lo dimostrerò. Lavorerò e dimostrerò di poter fare questa cosa". Sulle sardine e su Greta Thumberg: "La mia posizione è netta. Non parlo della singola persona Greta, ma del fenomeno. Secondo me viene strumentalizzata da lobby internazionali che se la muovono a proprio piacimento una povera ragazza. E' stata sollevata una problematica importante, quella dell'ambiente, ma io sono per la scienza, non per i proclami fatti in piazza. A proposito di piazza, ecco le sardine. Questa antipolitica che poi è politica a 360 gradi. Senza idee, senza nulla. Ne abbiamo visti tanti di movimenti così, con la stessa velocità con cui nascono poi sono destinati a sgretolarsi. E poi non si è mai visto un movimento che contesta l'opposizione". Su Tolo Tolo, ultimo film di Checco Zalone: "Zalone ha fatto un promo meraviglioso dove la sinistra si è subito scontentata. Così quelli di destra sono andati tutti al cinema e hanno visto una cosa diversa. Zalone è riuscito a dare un colpo al cerchio e uno alla botte. L'ho trovato geniale, ha trattato una tematica delicatissima come l'immigrazione, non ci si potevano aspettare le risate a crepapelle. Ha trovato una chiave che definirei paracula, nel senso buono del termine. Un colpo da una parte, un colpo dall'altra. A me tutto sommato è piaciuto".

·        Ilona Staller, per tutti Cicciolina.

Luca Beatrice per mowmag.com il 26 novembre 2020. Corso Giulio Cesare, periferia di Torino nei primi anni ‘80. La mia città stentava a sorridere e divertirsi persino negli anni del riflusso e del ludico, prigioniera della rigida divisione in classi e della cultura operaia, troppo seriosa e poco incline ad accettare che sì, le cose stavano davvero cambiando. Alla metà circa di questa lunga arteria c’era il cinema Ambra, riconvertito da teatro popolare in sala a luci rosse. Sarà stato certo prima del 1983, prima dell’incendio del cinema Statuto in cui morirono 64 persone la cui conseguenza fu la chiusura di tutti i locali fuori norma. Ilona Staller, già assurta alla celebrità ben oltre la nicchia dell’hardcore, si esibiva “live” a Torino. La sala strabordava di gente, oltre il 90% pubblico maschile, attratta dalle funamboliche imprese della biondina ungherese che “cantava” in playback e a un certo punto tirava fuori da una cesta il celebre partner Pito Pito, il lungo serpente forse un po’ stordito utilizzato come particolarissimo sex toy. Con Fred e il Verra, gli amici dei vent’anni, quelli che incontri tutti i giorni e con i quali condividi tutto, anche le ragazze (Fred purtroppo non c’è più, il Verra è un rispettabile docente di cinema al Politecnico, nonché documentarista apprezzato) avevamo trovato posto solo in fondo, contando poi di guadagnare le prime file come succede nei concerti rock. C’era un tale seduto accanto a noi che si era portato da casa un binocolo di quelli che si usavano al Gran Paradiso per avvistare gli stambecchi, era venuto fin lì per vedere bene mica per farsi raccontare. Oggi, Ilona compie 69 anni. Noi di solito festeggiamo gli anni tondi, però per il suo mestiere non c’è cifra più tonda, simmetrica, magari scomoda del 69, impraticabile dopo una certa età. Quelli della mia generazione, uomini e donne, le devono molto: prima a portare la pornografia nei salotti televisivi, prima a mostrare il seno nudo in diretta tv (nel 1978), prima a superare l’immagine sporca, indecente e punitiva del sesso, sostituendola con una visione angelicata, innocente, da paradiso terrestre. Prima a candidarsi in politica nelle liste del Partito Radicale, convinta da quel genio di Marco Pannella che ho votato quasi sempre e che mi manca tantissimo, eletta in parlamento nel 1987 con oltre 20mila preferenze. Prima di diventare “opera d’arte”, un’operazione così perfetta da far salire nella scala della popolarità anche il marito Jeff Koons, erede designato di Andy Warhol negli anni ’80. “Siamo gli Adamo ed Eva contemporanei”, diceva Jeff per celebrare il mix tra kamasutra e barocco, kitsch e innocenza: “Ilona e io siamo fatti l’uno per l’altra. Lei è una donna mediatica, io sono un uomo mediatico. Io credo totalmente di essere nel regno dello spirituale, adesso, con Ilona. Attraverso la nostra unione abbiamo ristabilito il legame con la natura. Intendo dire che siamo diventati Dio”. Made in Heaven, il ciclo di opere firmate Koons, foto, sculture e oggetti con evidente sesso esplicito, debutta alla Biennale di Venezia nel 1990. Dopo il matrimonio celebrato al Museo d’arte moderna di Budapest, l’anno dopo, la nascita del figlio Ludwig, il resto è cronaca giudiziaria che sulle pagine dei giornali ha sostituito i bei momenti di sesso, arte, alta società. Ha bisogno d’amore, Cicciolina, e infatti è rimasta in Italia dove le vogliamo un mondo di bene, soprattutto quelli della mia generazione che avrebbero venduto un rene per passare una notte o un pomeriggio con lei, che hanno visto tutti i suoi film e che (nel mio caso) hanno odiato Koons nonostante sia un grande artista perché l’ha trattata male, trattandola come la peggio puttana. Alcuni anni fa, saranno almeno dieci, l’ho conosciuta a una cena a Napoli, ospite dello stilista Gianni Molaro che ci aveva coinvolti entrambi in una performance nel Luna Park. Bellissima, desiderabile, profumata come un angelo. Non ho resistito poiché lavoro nell’arte di chiederle qualcosa su Jeff. “Non ne parlo volentieri - mi rispose - ma se proprio vuoi saperlo faceva sesso malissimo, alla pecorina, due colpi e via con rabbia e violenza. E poi si portava sempre dietro l’insopportabile madre. Certi uomini proprio non sopportano che la loro donna abbia più successo di loro, tutto qui”. Per lei, per Ilona, mi sarei messo da parte, l’avrei aspettata a casa, l’avrei cucinato, avremmo visto un film insieme sul divano e poi avremmo fatto l’amore, anche se era stanca per il troppo lavoro. Auguri bionda, con tutto il cuore da Luca Beatrice.

Dagospia l'11 maggio 2020. Da “Radio Capital”. Cicciolina non conosce Pornhub. A Radio Capital, rispondendo a una domanda sugli abbonamenti premium regalati da diversi siti hard nei giorni di quarantena, Ilona Staller ammette: "La cosa mi è sfuggita, non seguo il porno. Perché dovrei seguirlo? Ma che mi frega. La pornografia è diversa da quella del passato, è tutto inflazionato. Ormai c'è YouPorn o gli altri canali di cui avete parlato voi e che io non conosco. Non saprei neanche dire quanto si guadagna". La stella del porno pensa che il lockdown abbia favorito i rapporti coniugali: "Pensa a quanti bambini nasceranno fra qualche mese. Il marito che aveva un'amante o andava a prostitute adesso deve stare con la moglie e magari dice vabè, non potendo andare con l'amichetta... o amichetto, o trans... i gusti degli italiani sono memorabili". Cicciolina (che ha appena pubblicato "Cicciolina - la mia vera storia", autobiografia acquistabile sul suo sito ufficiale) racconta anche come sta vivendo in tempo di covid: "Sta andando come tutti, sono chiusa in casa, dallo stato non ho ricevuto nulla. Faccio la spesa in mascherina e torno a casa. Vorrei tornare alla normalità, casa mia è bella come quella di tanti italiani, ma quando ti viene proibito di poter uscire è come stare al coprifuoco. Come in una guerra". La ex deputata dei Radicali è critica con la politica: "La stanno gestendo malissimo. A fine gennaio si sapeva già che c'era questo problema, avrebbero dovuto intervenire subito. Basta vedere gli ospedali che non erano attrezzati. Molta gente è morta per l'incapacità del governo, che era in ritardo. Visto che molta gente non sta lavorando, perché politici e deputati non devolvono 30% del loro stipendio alla gente che sta messa male?". Quando le si fa notare che è una proposta dei 5 stelle, la Staller è scettica: "Ma per favore... e dove stanno questi soldi? Non voglio fare nomi, chi vuol capire capisca". Come si svolge la giornata di Cicciolina? "Ho 15 gatti, persiani cincillà, e la mattina appena mi alzo gli do da mangiare, poi mi metto al pc, controllo le email e rispondo. Ne ricevo tante, anche da paesi esteri, visto che in Italia non mi danno spazio perché sono un personaggio scomodo. Il mio nome gira da anni fra Isola dei Famosi, Grande Fratello... Milly Carlucci mi aveva messo in testa alla lista per Ballando con le stelle, e il mio nome è stato eliminato. Le tv sono politicizzate e Rai1 è dei 5 stelle. Che strano, vero?"

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 17 febbraio 2020. L' antipolitica l' ha fondata lei quando nel 1991 creò il «Partito dell' Amore» insieme a Moana Pozzi. Eppure oggi l' ex pornostar e ed ex parlamentare Ilona Staller, per tutti Cicciolina, è presa di mira proprio dai presunti paladini dell' antipolitica: i grillini, simbolo di un' Italia andata a puttane.

Signora Staller, lei è in polemica con i 5 Stelle perché il suo vitalizio è stato ridotto da 3.100 a 1.000 euro. Farà ricorso?

«Sì, il ricorso è stato portato avanti dal mio legale, Luca Di Carlo, noto come "l' avvocato del diavolo". Io prima percepivo 3.100 euro al mese di vitalizio, ma lordi: ne restavano netti 1.800. Ora ne prendo mille. Come faccio a camparci?

Per questo lavoro ancora: faccio ospitate in programmi tv, soprattutto all' estero, Molti imbecilli dei 5 Stelle però mi attaccano: "Torni a fare quello che faceva prima, la pornodiva". Direi anche io a Di Maio: torni a fare il bibitaro».

I grillini sono scesi in piazza per chiedere di non restituire i vitalizi ai senatori. Lei scenderà in piazza per chiedere che i vitalizi vengano restituiti anche ai deputati?

«Vorrei ma preferisco non andarci, perché qualche giorno fa, mentre ero in macchina, qualcuno mi ha fermato e mi ha detto: "Guai a te se vai in piazza, ti facciamo vedere noi". Un' intimidazione».

Che giudizio dà del governo giallorosso?

«Non funziona, fa acqua da tutte le parti, e la gente non ne può più. I 5 Stelle sono arrivati lì perché avevano promesso il reddito di cittadinanza. Anche se lo avessimo promesso io o lei, oggi saremmo al potere».

Per entrare in politica, meglio aver fatto la pornostar che il bibitaro?

«Per me ogni lavoro ha il suo perché. Ma questa gente pretende di saperne di più di persone qualificate, ad esempio sui vitalizi credono di essere più esperti dei giudici della Cassazione».

Ha sostenuto che i grillini alle origini hanno ripreso molte sue battaglie. Ha mai pensato di mettere su il "Movimento 5 Staller"?

«No, ma ho depositato il nome del mio partito, il Dna, Democrazia Natura e Amore. Politicamente si colloca al centro ed è un movimento ecologista, animalista, popolare e anti-tasse. Con tutte le tasse questo governo ci sta tirando giù anche le mutande. È questa la vera pornografia».

L' approccio ecologista è condiviso da Papa Francesco.

«Infatti Bergoglio mi sta molto simpatico, mi piacerebbe molto incontrarlo. Io sono cattolica, credo in Dio, ma penso anche che se sei una carogna e compi il male, alla fine tutto torna».

Quanti voti potrebbe prendere il suo partito?

«Sono forte dell' esperienza passata. Dal 1987 al 1992 sono stata in Parlamento grazie ai voti ricevuti dal popolo: ne presi 20mila, nella lista dei Radicali fui seconda solo a Pannella, prima di Rutelli e di Bonino. E mi nausea vedere oggi in Parlamento persone elette senza essere state votate. Sono illegali, abusive».

Qual è la politica donna che le piace di più? Giorgia Meloni?

«Non do un giudizio politico sulla Meloni, ma apprezzo il fatto che sia una donna grintosa che sa bene cosa vuole. In generale, ci vorrebbero più donne nelle stanze del potere. Le donne hanno quattro palle, due più degli uomini».

C' è un' erede della Staller in Parlamento?

«No. Una avrebbe potuto essere Moana Pozzi col Partito dell' Amore. Iniziammo a fare insieme campagna elettorale poi io dovetti fermarmi perché ero rimasta incinta. Ma politicamente Moana era inadatta, ero io l' animale politico. Le lasciai la scena per amicizia: mi chiedo quale donna di successo sceglierebbe una bionda attraente, se la metterebbe al suo fianco e la farebbe crescere. Io e Moana abbiamo dato esempio di cosa significhi la collaborazione tra donne».

È vero che lei fu la prima a portare in Parlamento il tema della violenza sulle donne?

«Sì, feci un intervento in aula e Nilde Iotti disse "Brava, ha parlato molto bene". Ricordo gli applausi del Parlamento, anche di "Pipistrellone" Andreotti. Ma sono stata lungimirante su molte cose con proposte di legge attualissime. Penso alla tassa ecologica sugli autoveicoli, al divieto di sperimentazione su animali vivi, all' introduzione dello studio della sessualità nelle scuole e all' abrogazione della legge Merlin. La prostituzione andrebbe legalizzata, con case chiuse gestite direttamente dalle prostitute».

Se le affidassero la guida di un ministero, quale sceglierebbe?

«Il ministero dell' amore. Si affiancherebbe a quello della Salute per promuovere un' informazione corretta sulla sessualità. In alternativa, accetterei volentieri il ministro degli Esteri. In quel ruolo, saprei fare meglio di Di Maio».

A proposito di esteri, recentemente ha detto di essere intenzionata a lasciare l' Italia.

«Io amo l' Italia il popolo italiano. Sono però poco amata da chi è ai vertici del potere politico-mediatico. Mi voleva Milly Carlucci per Ballando con le stelle, e la cosa è saltata. Signorini aveva fatto il mio nome per il Grande Fratello Vip, ma poi qualcuno lassù non ha voluto».

Ha mai pensato di tornare nel suo Paese di nascita, l' Ungheria? E cosa pensa di Orbán?

«Su Orbán preferisco non dire nulla. Ma, se è lì, è perché gli ungheresi lo hanno scelto liberamente».

Che ricordi ha della sua infanzia vissuta sotto il regime comunista?

«Quello non era comunismo. Era dittatura. Non si poteva uscire dall' Ungheria, occorreva una lettera di raccomandazione anche per farsi una vacanza. Per quello mi trasferii in Italia: dissi a mia mamma "voglio vedere altri Paesi oltre questo"».

In Italia nascono pochissimi bambini. È perché gli italiani fanno poco sesso?

«No, gli italiani il sesso lo fanno eccome, altrimenti non ci sarebbero così tanti posti per scambisti Non fanno figli perché avere un bambino costa e comporta responsabilità. Difficile mettere al mondo qualcuno quando la gente si suicida perché non ha lavoro».

50 anni fa, nel 1970, lei esordiva al cinema. Rifarebbe tutto ciò che ha fatto?

«Rifarei tutto allo stesso modo. Quando iniziai a lavorare per riviste sexy, per me era un mondo sconosciuto visto che in Ungheria non esistevano. Poi ho scelto la pornografia e mi è piaciuto molto visto che ho potuto fare sesso in mille maniere. Oggi continuo a fare sesso, ma non ho più alcuna curiosità perché l' ho già fatto in tutti i modi possibili, e praticamente con tutti: negri, cinesi, francesi Il mio maschio preferito resta però il pornodivo John Holmes. Un magnifico stallone».

C' è una nuova Cicciolina oggi nel porno?

«Non so dirlo perché non seguo più quel mondo. Mi occupo di altro. Scrivo canzoni e dipingo dei quadri. Ho anche un mio portfolio sui social, "Cicciolina Contemporary Art"».

Qual è la sua prossima battaglia? Si candida a sindaco di Roma con lo slogan "Se la Raggi è magica, Cicciolina è vergine"?

«Mi candiderei volentieri, saprei tappare le buche di Roma meglio della Raggi. Ma ho anche un sogno: che mi richiami il Partito Radicale a prendere l' eredità di Pannella. Riuscirei subito a riportare su il partito. Io so come si tirano su le cose».

·        Imen Jane.

Imen Jane, nessuna laurea in Economia: si dimette la divulgatrice di Instagram. Pubblicato lunedì, 15 giugno 2020 da Benedetta Perilli su La Repubblica.it. Imen Jane, nessuna laurea in Economia: si dimette la divulgatrice di Instagram. L'influencer conferma i dubbi sul suo titolo di studio sollevati da Dagospia. Prima rimuove la definizione di "economista" dai suoi profili social. Poi, dopo un tentativo di difesa, annuncia a Repubblica: "Sapevo sarebbe accaduto, ho lasciato i miei incarichi in Will".  "Gli esami che mi mancano si contano sulle dita di una mano, sapevo che stava per esplodere questo caso e da mesi ormai ero uscita di scena per studiare e riuscire a laurearmi prima che succedesse". Imen Jane prova a giustificarsi ma non può che confermare i dubbi sollevati da Dagospia in merito al suo titolo di studio. La 25enne non è laureata nonostante su Instagram si definisse "economista" e avesse costruito una carriera da influencer arrivando a fondare il progetto di informazione social Will Italia. Ora parlando con Repubblica rivela: "Il 16 maggio ho avvisato l'azienda e gli investitori e mi sono dimessa da Will, non volevo che un mio errore mandasse tutto all'aria. Adesso conto di laurearmi all'inizio del 2021". Nata Iman Boulahrajen nel 1995 da genitori marocchini e cresciuta in provincia di Varese, l'influencer e personaggio televisivo era stata accusata da Dagospia di non essere laureata. Il sito aveva pubblicato la visura camerale dell'azienda Will Italia, nella quale la 25enne svolgeva il ruolo di socio insieme ad Alessandro Tommasi, dove si legge che il titolo di studio della ragazza è la laurea in Economia e amministrazione delle imprese conseguita nel 2017 presso l'Università degli studi di Milano Bicocca. Università che conferma che Imen Jane è regolarmente iscritta ma non ancora laureata. "Per i primi tre anni di studi è andato tutto bene poi ho iniziato a diventare famosa, avevo tante cose da fare e le sessioni saltavano. I miei genitori e i miei amici lo hanno sempre saputo, il problema è stato gestire questa informazione quando sono diventata un personaggio pubblico. I giornali hanno iniziato a scrivere che ero laureata e io non sono stata in grado di fermarli. Mi è mancato il coraggio, andava tutto troppo veloce", spiega. Difficile dunque la posizione dell'economista, così si definiva fino a oggi la ragazza sui social prima di rivedere la sua breve bio (come si vede nella foto), che ora chiede scusa ai tanti che le avevano dato fiducia. Anche durante un'intervista a Repubblica, una delle prime rilasciate, la 25enne aveva risposto alla domanda "Una laurea in economia alla Bicocca e poi la notorietà, come è passata dallo studio agli studi televisivi?" senza smentire il suo titolo di studio. "Non sono stata in grado di dire a Repubblica che non ero laureata, se lo avessi detto a voi lo avrei dovuto dire a tutti. Pensavo di riuscire a farlo, a mio modo, di prendere in mano la cosa ma quel coraggio lì l'ho trovato solo quando sono andata a dimettermi", si difende la ragazza che qualche ora dopo la  pubblicazione dell'articolo di Dagospia è intervenuta con una Instagram Story.Imen Jane, niente laurea in economia: "Ho tralasciato gli studi. Anche Zuckerberg lo ha fatto".  "Ci sono casi eccellenti come Zuckerbeg, Steve Jobs, Bill Gates e da noi Piero Angela che hanno lasciato gli studi per seguire la loro passione", ha spiegato nel video. E fin qui non c'è niente di male, il problema resta quello di essersi dichiarata laureata nelle interviste e nei documenti ufficiali, come la visura, senza aver terminato - si scopre oggi - gli studi.

Economia Cresce l'informazione su Instagram: Will raccoglie 1,2 milioni di euro di FLAVIO BINI "Ho pensato tantissime volte a come sarei potuta uscire al meglio da questa vicenda, ora mi sta a cuore chiarire che non c'era malafede, che per rimediare ho rinunciato a tutto quello che avevo costruito diventando una influencer invisibile. E' stata una mia grande leggerezza pensare che non sarebbe successo nulla, mi dispiace", commenta ancora frastornata. Un brutto colpo all'immagine della giovane ex economista di Instagram e vera trascinatrice del fortunato progetto di informazione Will Italia. A soli tre mesi dal lancio della community di informazione social e podcast fondata dall'ex Airbnb Alessandro Tommasi e dalla 25enne, Will ha ottenuto ad aprile il suo primo aumento di capitale, un seed round (ovvero un primo finanziamento) da circa 1,2 milioni di euro. Un successo basato su un piano di informazione giovane e trasparente, lontano dalle fake news, che però ora sembra aver messo a rischio la serietà del suo Dna. Per me non c'è problema se Imen Jane non ha la laurea, il problema è che non se le fosse stata posta una domanda specifica e se non fosse uscito fuori lei avrebbe continuato a fingere di essere laureata. Lei il suo lavoro lo sa fare, ma se sei disonesta passa in secondo piano.— foglia secca (@Gfeileacan) June 15, 2020. Intanto sui social sono tanti i giovanissimi che commentano la vicenda dichiarandosi delusi dalla condotta della ragazza che era riuscita a fidelizzare un pubblico nuovo su temi difficili come quelli dell'economia. "Imen, il problema non sono le tue scelte di vita. Il problema è far credere alle persone di essere chi non sei. Avendo basato la tua carriera sulla lotta alla disinformazione, avresti dovuto correggere le decine di articoli che parlavano della tua laurea", scrive su utente su Twitter. Ai tanti ragazzi che la seguono ora Imen vuole lanciare un messaggio: "Non voglio che passi l'idea che un ragazzo si possa improvvisare. Lo studio è fondamentale e non ho mai pensato che l’università della vita fosse la via giusta. Penso che ci vogliano passione e impegno ovvero studio e dedizione. Per questo ora voglio quella laurea, sarà il riconoscimento ufficiale della mia passione. E poi farò una grande festa". 

Fulvio Abbate per huffingtonpost.it il 16 giugno 2020. Il falso laureato, così come il falso dentista, è un topos, anzi, una carta valida e irrinunciabile del Mercante in Fiera comunque professionale nazionale, egli o ella esistono ben al di là, meglio, come direbbe Totò, già cavaliere proprietario della Fontana di Trevi, a prescindere dall’agognato cosiddetto “pezzo di carta”. Il caso più recente inquadra una giovane e apprezzata economista, che sembra avere conquistato direttamente in rete il suo palmarès professionale, la ventiseienne Iman Boulahrajane, alias Imen Jane. La stessa che sui social dichiara invidiabilmente di “insegnare l’economia in 15 secondi”. Roberto D’Agostino, dalle pagine del suo sito Dagospia, garantisce però che “Imen non solo non sia economista (come dichiarava nella biografia e in diverse interviste), ma non sarebbe nemmeno laureata in economia alla Bicocca, né in altre facoltà universitarie”. Anche la visura camerale presenta un buco nero. Il castello è venuto giù durante un evento online della banca d’affari Goldman Sachs, quando qualcuno, per eccesso di minuzie, le ha domandato in cosa fosse laureata, ricevendo una risposta muta. In questo genere di vicende l’attendibilità professionale, così come la fermezza moralistica possono davvero apparire simili a concetti fuori luogo. Innanzitutto perché, a dispetto di tutto, e dello stesso falso in atto pubblico, incredibilmente il talento non può essere censito da una norma, meglio, da un diploma, dunque perfino in assenza di un certificato, un’abilitazione potremmo comunque essere in presenza di un genio inarrivabile; tutti ricordano infatti che il nostro Benedetto Croce era sprovvisto di laurea. Tornando alle bugie da applicare ai titoli, come nell’arringa dell’avvocato interpretato dallo stesso Vittorio De Sica nel suo “Giudizio universale” - i falsi cav., cav. uff., comm., gr. cr. - anch’io, se proprio vogliamo essere rigorosi, guardando dentro le zone d’ombra della mia stessa famiglia, avrei da raccontare storie di simili imposture. Penso a un parente che si è inventato chirurgo, perseverando nell’abominio pure in terra straniera perfino dopo essere stato scoperto e denunciato; addirittura pure l’avvocato che ne aveva assunto la difesa si scoprirà essere anch’egli, come in un ambo, estraneo a ogni ordine professionale. Sembra tuttavia che quando i carabinieri gli si sono accostati per notificargli l’avviso di reato abbiano provato ammirazione per le sue capacità illusionistiche. E ancora vorrei ricordare il caso dell’amico Giannino, le mie convinte parole si sostegno pubblico affinché Oscar non si piegasse davanti a chi pretendeva da lui l’inutile ostentazione di chissà quali master. Nel difenderlo ho proprio detto che avrebbe dovuto insistere pervicacemente, sostenendo d’essere in possesso di titoli inoppugnabili. Come la patafisica insegna. Il modello base di questo genere di vicende, solo in apparenza amorali, mostra il dentista, con tanto di targa d’ottone visibile a bordo strada; improvvisamente, una mattina i suoi affezionati pazienti, se lo vedono portare via, scortato da due sconosciuti, proprio come Joseph K. nel racconto di Kafka, loro che stavano, appunto pazienti, in fila non possono fare a meno di scuotere la testa, se non versare copiose lacrime al pensiero che un professionista così attento umano straordinario, e anche così garbato, difficilmente sarà sostituibile. D’altronde, non posso dimenticare che un avvocato, in questo caso autentico e garantito, un tempo, davanti al mare della Costa Smeralda, raccontava che lui i truffati non li difendeva, in quanto responsabili d’essersi fatti fregare. Crudele considerazione eppure comprensibile nel Paese dove, nonostante le parole di Boccaccio sulla furbizia come sottomarca dell’intelligenza, ugualmente il furbo alla fine raccoglie pacche di incoraggiamento e, mentre si allontana di spalle come in un film di Hollywood, sembra quasi di sentirle le considerazioni d’apprezzamento, le voci di dentro che chiaramente pronunciano: “Chiamalo fesso!”

DAGONEWS il 15 giugno 2020. Un po' come le cinque fasi del lutto, anche il cazzaro compulsivo ha le sue cinque fasi. La prima, e capitò anche con Oscar Giannino, è spararla più grossa. Quando iniziarono a uscire le prime indiscrezioni sul suo non avere due lauree (e ovviamente neanche il master a Chicago), il suo primo istinto fu rispondere che era un grande e diabolico disegno per farlo fuori prima del voto, con oscuri poteri in movimento. In effetti era il leader di un neonato movimento politico, Fare per fermare il declino, aveva accanto un vero professore di Chicago (Luigi Zingales) e un altro economista che ama fare le pulci al prossimo (ma non così prossimo, evidentemente), Michele Boldrin. Ecco, Oscar non era vittima di un malefico piano anti-democratico, ma del normale scrutinio che subisce chi aspira a governare un Paese. Allo stesso modo, la vispa Imen Jane forse ha fatto il passo più lungo della gamba a partecipare a una conferenza organizzata dalla banca d'affari Goldman Sachs, un posticino dove il più sfigato ha un MBA di un'università dell'Europa continentale (e sfigato è considerato dai colleghi che hanno studiato in USA e UK). Stamattina Dagospia ha svelato la bufala del suo essere un'''economista'' e del suo essere laureata all'Università Bicocca di Milano nel 2017, come da lei dichiarato alla Camera di Commercio. E allora lei, pressata anche dalla redazione di ''Will'', la testata su Instagram che ha fondato insieme ad Alessandro Tommasi (ex Airbnb), ha pensato bene di scodellare un po' di stories. E mai termine fu più azzeccato, nel senso che l'economista per mancanza di titoli se la racconta e ce la racconta con grande sprezzo del ridicolo. Iman-Imen infatti si paragona a Steve Jobs, Mark Zuckerberg e – per restare più local – a Piero Angela, ovvero ai disruptor che hanno abbandonato gli studi per scalare vette altrimenti irraggiungibili stando sui libri a completare una banale laurea in economia, o così dice lei. Cosa avrà fatto nei 7 anni dal diploma del liceo la nostra Jane? Dice di aver messo in pausa l'università per ''seguire EXPO e andare a sentire la conferenza stampa di Putin'' (mecojoni), ma anche per ''inseguire Michelle Obama e…'', e qui uno si aspetta che sia salita sull'Air Force One e abbia fatto un pazzesco stage alla Casa Bianca, o almeno sia andata ad annaffiare le rape dell'orto presidenziale. No, la ragione per cui ha mollato gli studi (nel 2015, anno di Expo, dunque è un bel po' che si spaccia per laureata e che negli articoli si fa presentare come tale senza mai correggere chi scrive) è per correre dietro alla First Lady in visita a Milano ''e dirle 'Oh mio dio, sei il mio mito''. Questo è. Ma non solo questo è, perché poi si passa alle ''scuse che non scusano'', una tecnica che se la Nostra non fosse così giovane avrebbe visto troppe volte per pensare di essere credibile. Iman-Imen si scusa non per essersi spacciata per economista su Twitter e Instagram, qualifica che stamattina ha cancellato (ma ci sono gli screenshot, ahinoi), con il sindaco Sala e il presidente Mattarella, in innumerevoli conferenze ed eventi. Non si scusa neanche per aver scritto ovunque di essere laureata senza esserlo, facendosi presentare con il suo titolo di studio farlocco in decine di articoli che magnificavano la sua storia molto instagrammabile: donna, giovane, musulmana, e pure studiosa (wow! Sembra la brochure di corporate responsibility di una multinazionale che ha appena inquinato un asilo nido e ingaggia la faccia più politicamente corretta in circolazione per dire: noi all'ambiente e ai pargoli ci teniamo). No, la sventurata si scusa ''se ha offeso qualcuno con la sua scelta di vita'', ovvero lasciare gli studi per inseguire un sogno imprenditoriale. A parte la formulazione ridicola del concetto – chi cazzo si offende per le scelte di vita del prossimo, a meno che non sia Breivik? – il dettagliuccio è che quel sogno si basa esattamente su quegli studi non fatti, sul suo essere esperta di materie che non conosce (e chi, da esperto, la sentiva parlare se ne accorgeva subito). Tornando agli altri dropout, il social network di Zuckerberg non c'entrava niente con il suo curriculum ad Harvard, anzi ha sfruttato la vita nel campus per svelarne i segreti. L'Apple 1 di Jobs non aveva niente a che vedere coi 6 mesi di college che aveva frequentato controvoglia. I suoi primi documentari scientifici, Piero Angela li realizzò a 40 anni, dopo 16 anni da cronista, e mai si è spacciato per scienziato, tanto che il termine ''divulgatore'' è diventato praticamente sinonimo del suo nome. Il figlio Alberto si fregia dello stesso titolo pur avendo quelli veri (laurea, specializzazione e 10 anni di ricerca in paleoantropologia). Senza la sua millantata competenza, Imane resta una influencer come tante altre, e non a caso ''Will'', l'account Instagram di cui è volto e azionista (al 25%) sta per emettere un comunicato separato dal suo imbarazzante video di ''scuse''.

Imen Jane ha sbagliato ma ora non massacriamola. Lontana dal nostro modo di pensare, Imen Jane, dopo aver mentito sulla laurea, è ora finita nel mirino dei suoi avversari. Un tiro al bersaglio a cui non vogliamo partecipare. Matteo Carnieletto, Mercoledì 17/06/2020 su Il Giornale. Prima di tutto una premessa: mi sono laureato per errore. Mentre tutti si affannano a conseguire il famigerato 3+2 (triennale e specialistica) io sono riuscito a fare il 3+4 (i primi tre in corso e gli altri fuori). Ho perso tempo? Senza dubbio. E anche parecchio. Ma nel frattempo ho anche coltivato i miei interessi, mi sono concesso il lusso di leggere tutta la Gerusalemme liberata e L'Orlando furioso prima di dare (sei mesi dopo) l'esame su Ariosto e Tasso. Ho incontrato persone che mi hanno fatto crescere e maturare, fino a quando, stagista, sono entrato al Giornale.it. Questi sono solo alcuni esempi per spiegare perché, nonostante il pezzo di carta nascosto nell'armadio tra i capi invernali, io mi reputi un laureato per errore e non possa non stare dalla parte di Imen Jane, l'influencer balzata agli onori delle cronache in questi giorni perché, per anni, ha spacciato una laurea inesistente e un titolo, quello di economista, farlocco. Sia chiaro. Imen ha sbagliato (e anche parecchio). Innanzitutto perché ha mentito, dicendo di avere una laurea che non aveva, e tradendo il patto di fiducia con i suoi follower e con quelli di Will, la startup per fare giornalismo di qualità fondata insieme a Alessandro Tommasi. E poi perché ha lasciato alla fine della sua videoconfessione le sue (non)scuse: "Se qualcuno si è offeso per queste mie scelte di vita, ovviamente mi dispiace". Il problema, infatti, non sono le scelte di vita, ma le boiate dette, come quando si è paragonata, neanche troppo velatamente, a Steve Jobs, Mark Zuckerberg e Bill Gates. Questi giganti della tecnologia, infatti, hanno abbandonato i loro studi alla luce del sole, senza mai millantantare un pezzo di carta che non avevano. Questo è quello che non va nell'Imengate. "Parce sepulto", scrive Virgilio nell'Eneide: "Perdona a chi è sepolto". E così faremo. Anche perché Imen mi sta simpatica, pur non condividendo con lei nulla. Né la visione politica (la sinistra al caviale), né quella economica (insindacabilmente filo Ue) e, men che meno, quella geopolitica (un po' troppo catara). Ci troviamo agli antipodi, ma di lei apprezzo (e parecchio) essenzialmente due cose: il modo in cui racconta il mondo e la sua capacità di aggregare i giovani in un nuovo progetto editoriale. Chapeau. Da quando è uscita la notizia della sua mancata laurea, hanno cominciato a circolare sul web diversi meme (alcuni dei quali effettivamente esilaranti) per prenderla in giro. Ma si è anche assistito anche a un vero e proprio linciaggio nei suoi confronti. Vero, in passato lei si è beffata di coloro che avevano comprato la laurea o l'avevano spacciata e questa sarebbe una "giusta" pena del contrappasso. Noi vorremmo però dissociarci. Imen, come abbiamo scritto, ha sbagliato. Ma un "avversario", e non so neanche se Imen si possa definire tale, lo si combatte a suon di idee. E non lo si sfotte. Soprattutto dopo che è caduto.

ERA SOLO L'ENNESIMA LAUREATA ALL'UNIVERSITÀ DELLA VITA. DAGONOTA il 15 giugno 2020. - A noi risulta essersi dimessa dal cda, probabilmente su pressione di qualche socio o investitore. Tragicomico il suo tentativo di retrodatare le dimissioni al 16 maggio, visto che sul profilo Instagram di Wil c'è un suo video, pubblicato 5 giorni fa, e il debutto del nuovo podcast di Will lo scorso 4 giugno, a due voci Imen-Alessandro Tommasi.

Benedetta Perilli per repubblica.it. "Gli esami che mi mancano si contano sulle dita di una mano, sapevo che stava per esplodere questo caso e da mesi ormai ero uscita di scena per studiare e riuscire a laurearmi prima che succedesse". Imen Jane prova a giustificarsi ma non può che confermare i dubbi sollevati da Dagospia in merito al suo titolo di studio. La 25enne non è laureata nonostante su Instagram si definisse "economista" e avesse costruito una carriera da influencer arrivando a fondare il progetto di informazione social Will Italia. Ora parlando con Repubblica rivela: "Il 16 maggio ho avvisato l'azienda e gli investitori e mi sono dimessa da Will, non volevo che un mio errore mandasse tutto all'aria. Adesso conto di laurearmi all'inizio del 2021". Nata Iman Boulahrajen nel 1995 da genitori marocchini e cresciuta in provincia di Varese, l'influencer e personaggio televisivo era stata accusata da Dagospia di non essere laureata. Il sito aveva pubblicato la visura camerale dell'azienda Will Italia, nella quale la 25enne svolgeva il ruolo di socio insieme ad Alessandro Tommasi, dove si legge che il titolo di studio della ragazza è la laurea in Economia e amministrazione delle imprese conseguita nel 2017 presso l'Università degli studi di Milano Bicocca. Università che conferma che Imen Jane è regolarmente iscritta ma non ancora laureata. "Per i primi tre anni di studi è andato tutto bene poi ho iniziato a diventare famosa, avevo tante cose da fare e le sessioni saltavano. I miei genitori e i miei amici lo hanno sempre saputo, il problema è stato gestire questa informazione quando sono diventata un personaggio pubblico. I giornali hanno iniziato a scrivere che ero laureata e io non sono stata in grado di fermarli. Mi è mancato il coraggio, andava tutto troppo veloce", spiega. Difficile dunque la posizione dell'economista, così si definiva fino a oggi la ragazza sui social prima di rivedere la sua breve bio (come si vede nella foto), che ora chiede scusa ai tanti che le avevano dato fiducia. Anche durante un'intervista a Repubblica, una delle prime rilasciate, la 25enne aveva risposto alla domanda "Una laurea in economia alla Bicocca e poi la notorietà, come è passata dallo studio agli studi televisivi?" senza smentire il suo titolo di studio. "Non sono stata in grado di dire a Repubblica che non ero laureata, se lo avessi detto a voi lo avrei dovuto dire a tutti. Pensavo di riuscire a farlo, a mio modo, di prendere in mano la cosa ma quel coraggio lì l'ho trovato solo quando sono andata a dimettermi", si difende la ragazza che qualche ora dopo la  pubblicazione dell'articolo di Dagospia è intervenuta con una Instagram Story. "Ci sono casi eccellenti come Zuckerbeg, Steve Jobs, Bill Gates e da noi Piero Angela che hanno lascito gli studi per seguire la loro passione", ha spiegato nel video. E fin qui non c'è niente di male, il problema resta quello di essersi dichiarata laureata nelle interviste e nei documenti ufficiali, come la visura, senza aver terminato - si scopre oggi - gli studi. "Ho pensato tantissime volte a come sarei potuta uscire al meglio da questa vicenda, ora mi sta a cuore chiarire che non c'era malafede, che per rimediare ho rinunciato a tutto quello che avevo costruito diventando una influencer invisibile. E' stata una mia grande leggerezza pensare che non sarebbe successo nulla, mi dispiace", commenta ancora frastornata. Un brutto colpo all'immagine della giovane ex economista di Instagram e vera trascinatrice del fortunato progetto di informazione Will Italia. A soli tre mesi dal lancio della community di informazione social e podcast fondata dall'ex Airbnb Alessandro Tommasi e dalla 25enne, Will ha ottenuto ad aprile il suo primo aumento di capitale, un seed round (ovvero un primo finanziamento) da circa 1,2 milioni di euro. Un successo basato su un piano di informazione giovane e trasparente, lontano dalle fake news, che però ora sembra aver messo a rischio la serietà del suo Dna. Per me non c'è problema se Imen Jane non ha la laurea, il problema è che non se le fosse stata posta una domanda specifica e se non fosse uscito fuori lei avrebbe continuato a fingere di essere laureata. Lei il suo lavoro lo sa fare, ma se sei disonesta passa in secondo piano. Intanto sui social sono tanti i giovanissimi che commentano la vicenda dichiarandosi delusi dalla condotta della ragazza che era riuscita a fidelizzare un pubblico nuovo su temi difficili come quelli dell'economia. "Imen, il problema non sono le tue scelte di vita. Il problema è far credere alle persone di essere chi non sei. Avendo basato la tua carriera sulla lotta alla disinformazione, avresti dovuto correggere le decine di articoli che parlavano della tua laurea", scrive su utente su Twitter. Ai tanti ragazzi che la seguono ora Imen vuole lanciare un messaggio: "Non voglio che passi l'idea che un ragazzo si possa improvvisare. Lo studio è fondamentale e non ho mai pensato che l’università della vita fosse la via giusta. Penso che ci voglia passione e impegno ovvero studio e dedizione. Per questo ora voglio quella laurea, sarà il riconoscimento ufficiale della mia passione. E poi farò una grande festa".

·        Imma Battaglia.

Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 17 marzo 2020. «Ricordo come oggi il primo giorno di liceo. Il prof di Lettere fa l'appello, chiama Battaglia Immacolata, mi alzo e lui: "Siediti che non sei tu, tu sei maschio". Tutti a ridere. Divento lo zimbello della classe, i bulli mi dicevano "zitto maschio" e mi aspettavano fuori coi bastoni».

L' hanno mai picchiata?

«No, perché abbassavo la testa e filavo via. Però, reagisco mettendomi a studiare: essere la più brava a scuola diventa l' arma con cui combatto scherno e violenza. Poi, giocando a pallamano fino in Nazionale, mi costruisco un fisico forte, per sentirmi più sicura. Ho avuto un' adolescenza tutta libri, allenamenti, solitudine. Il mondo fuori non m' interessava, però non volevo essere guardata e questo non mi è passato. Se mi guardi negli occhi, ci sono, ma se mi sento osservata con morbosità, ancora mi volto e dico: che guardi, che vuoi?».

Perché non sopporta essere guardata?

«Perché sento rimbombare le parole "fai schifo, sei un maschio sbagliato". Oppure: "perché non fai niente per sembrare una donna?". Ma che significa sembrare una donna?».

Imma Battaglia, 60 anni il 28 marzo, fondatrice dell' associazione Di' Gay Project, è l' attivista che, nel 2000, ha portato il WordPride nella Roma del Giubileo. È lei che ha ideato il Gay Village nella capitale e che per prima ha celebrato un matrimonio simbolico fra due donne.

È stata in prima linea nella «guerra dei prefetti» per registrare in Italia le unioni omosessuali fatte all' estero. Il 19 maggio dell' anno scorso, ha sposato Eva Grimaldi, attrice, sex symbol, ex storica di Gabriel Garko.

Come e dove nasce Imma la pasionaria?

«A Portici, provincia di Napoli, seconda di quattro figli, famiglia molto tradizionale, papà impiegato, mamma casalinga, io destinata a sposarmi, avere figli. Ma, a tre anni, mi regalarono una carrozzina e la distrussi. Avevo già un destino: probabilmente, quello della libertà».

Il primo assaggio di libertà?

«All' università, dove mi laureo in Matematica. La matematica permette di volare, di scappare ragionando. Studiavo fino all' alba, facevo sport, avevo fidanzatini. Poi, a 19 anni, m' innamoro di una compagna di studi. Un amore folle, una favola nascosta. Non mi feci domande. Le domande iniziano quando arrivo a Roma, nell' 86, e inizio a frequentare il movimento».

Che domande?

«Ho conosciuto donne che facevano la transizione per diventare uomini e mi sono chiesta se non fosse la mia strada. Mi tornava con quel "sei un maschio sbagliato". Io però non voglio essere maschio. Alle riunioni, dicevo "a me i peli non piacciono" e tutti: "sei matta". Non sa le discussioni. Ma cos' è il femminile? C' è una sola forma? Io volevo essere io, punto. La mia non è una battaglia per gli omosessuali, ma per la libertà di essere come ci si sente».

Quanto si è sentita isolata nel movimento?

«Tanto, perché non stavo dentro una casella. Tipo: se sei bisessuale, è perché non accetti la tua omosessualità. Io, anche oggi, se ho un pensiero erotico, è verso un uomo, però mi innamoro solo di donne. Insomma, uscita dalla lotta a stereotipi di genere e tradizione, finivo negli stereotipi omosessuali. Per esempio: se sei gay, devi essere contro la chiesa e la destra. Liti furibonde. Fu eletto sindaco Francesco Storace, dissi "sarà fascista, ma io vado a parlarci". E tutti: "Coi fascisti non si parla"».

Ci andò, da Storace?

«Sì e mi mostrò grande stima. Idem Gianni Alemanno. Con quelli di sinistra, non è andata sempre così. Io sono manager in un' azienda di informatica. Un giorno, propongo un progetto al governatore Piero Marazzo, che mi fa "quanto sei brava, peccato che sei lesbica"».

Altre delusioni da politici di sinistra?

«La battaglia dal '98 per organizzare il WorldPride. La portai avanti dopo aver rotto con l' Arcigay di Franco Grillini, che sosteneva che non ce l' avrei fatta. Ricordo lo scetticismo di tutti. Solo Fausto Bertinotti e Nichi Vendola mi sostennero senza paura. Il sindaco Francesco Rutelli ci tolse i fondi all' ultimo. E sotto data mi fa una telefonata incredibile: dice che il Papa andrà in vacanza e mi chiede di spostare il WorldPride, per farlo con lui assente. Dico "ma come fa chi ha prenotato i voli? Non fai prima a chiedere al Papa di spostare le ferie?"».

Come resse la tensione di quei mesi?

«Ero la stessa Imma che a 13 anni tutti vessavano e che già non era comprabile, perché si costruiva le sue sicurezze. Il WorldPride l' ho inventato io. A Washington, alla Millennium March con Ellen DeGeneres e Martina Navratilova, ho urlato a un milione di persone: la nostra libertà è oppressa dalle religioni, dobbiamo andare tutti a Roma come soldati pacifici».Papa Wojtya disse: offendono la Chiesa. «Offendere qualcuno non era proprio nei miei pensieri».

Come arriva l' idea del Gay Village?

«Prima di quel 2000, a Roma, i gay stavano ancora nascosti nei locali di notte e io volevo che fossimo sempre visibili. Nacque un luogo dove ci si divertiva e si faceva cultura».

Perché, nel 2018, fallisce?

«Roma si è riempita di eventi gratuiti ed è diventata gayfriendly. Noi abbiamo avuto un anno in rosso e sono arrivati i Casamonica. Un giorno, mi trovo circondata da una loro banda. Uno mi fa "qua comando io, levati ". Li ho fatti cacciare, ma sono cominciati furti, risse, un accoltellamento. Ogni sera, dovevi buttare fuori gente. Una mattina, qualcuno ha sparato. Ho detto basta, non ho mai saputo che volessero».

Perché non fa più politica attiva?

«Vendola per le Europee e Nicola Zingaretti alle Regionali mi avevano chiesto una mano e l' ho data, ma ero troppo ingenua e mi lasciavo sfruttare. La politica non è da pasionari, è spietata. La fase bella è stata col sindaco Ignazio Marino, uno che ha sempre sostenuto la causa. Io, da consigliere eletta con Sel, ho lottato per portare a Roma il registro sulle unioni civili».

Marino fu costretto a dimettersi dopo un' inchiesta, da cui fu poi assolto.

«Me ne feci una malattia. Ho fatto liti pazzesche coi Pd che l' hanno fatto cadere. Dopo la prima manifestazione in suo favore, mi feci male: 50 giorni di stampelle. Il mio corpo mi stava dicendo "meglio che stai ferma". Da allora, sento che fare politica non ha più senso».

Lei è stata la prima celebrare un matrimonio simbolico fra due donne.

«Dopo, è stato ancora più bello poter celebrare vere unioni civili. Di questo processo di normalizzazione m' intesto ogni battaglia».

Quali diritti Lgbt vuole ancora di sostenere?

«Serve una legge contro ogni forma di discriminazione ed è urgentissima una sulla genitorialità: gli omosessuali devono poter adottare il figlio del partner».

Cosa ha detto a Vendola quando si è ritirato in Canada con suo marito per fare il papà?

«Sono felice per te come uomo, ma come politico m' hai delusa, dovevi combattere qui: a volte, un leader deve rinunciare ai suoi sogni».

Lei ha mai desiderato un figlio?

«No, ma forse, se avessi conosciuto Eva prima, sarebbe andata diversamente: è una quercia, è sicurezza, è forza. Con lei, il sogno resta il matrimonio in chiesa. Io faccio la comunione, mi confesso e me ne frego se non è previsto».

Fino al vostro incontro, dieci anni fa, Eva era eterosessuale.

«È stato un incontro magico, io ero in crisi con la mia compagna, ero sola e triste. Ho conosciuto questa donna pazzesca, neoseparata, più triste di me. Siamo diventate amiche. Andavamo in motorino come pischelle. Una sera, al concerto degli U2, suonavano One e ho sentito una vibrazione fortissima che mi passava dallo stomaco. Eva si è girata, le ho chiesto "ti sei accorta?". Mi ha risposto "sì, ho sentito". Non c' è stato bisogno d' altro».

Eva non era spaventata?

«Non si è mai fatta un problema. È innamorata, fine. Era pronta a raccontarlo da subito, ci abbiamo messo cinque anni perché io ero spaventata dall' eco. Infatti, l' odio via web è stato di una violenza mai vista in tanti anni di lotta».

Ha pesato che Eva fosse l' ex di Garko, fra l' altro accusato di essere gay e non dirlo.

«Ormai è anche mio amico, ha una sensibilità rara, molto simile a Eva. Per il resto, è libero di dire o no quel che vuole».

Come fu il suo coming out?

«Un dramma: i miei trovarono la lettera di una fidanzata. Per un anno, stetti a Trieste e non parlai con la mia famiglia. Un dolore indicibile. Oggi, siamo molto uniti».

La scrittrice Barbara Alberti sostiene che lei «ha spezzato più cuori che pagnotte di pane».

«Senza volerlo. Ma tutte le ex importanti sono rimaste amiche care».

A gennaio, al Grande Fratello, l' attrice Licia Nunez ha rivelato di essere una sua ex e l' ha accusata di averla tradita con Eva.

«Per cinque anni, non mi ha lasciato parlare di lei e, adesso, fa la lesbochic in tv».

Licia era una delle ragazze portate da Giampi Tarantini alle cene di Silvio Berlusconi.

«L' ho scoperto dai giornali. Mi sono chiesta: ma con chi sto? E ancora di più ho subito il conflitto politico: io amavo quella donna, ma non quel potere, quello sfruttamento del femminile. Lei negava, ma vedevo cose che non comprendevo, come quando disse che volevano candidarla alle Europee. Però, mi dicevo: sono di sinistra, fra un uomo potente e una schiava del potere, io sto con la schiava».

Andando verso i 60, che bilancio fa?

«Mi sento ancora la ragazzina davanti ai bulli col bastone, sono ancora dentro quella contraddizione del maschio sbagliato. Però sono contenta perché le ragazzine di oggi nella stessa situazione vivono in un' altra epoca».

·        Ines Trocchia.

Dagospia il 25 gennaio 2020. Da I Lunatici Rai Radio2. La modella e influencer Ines Trocchia è stata raggiunta questa notte attorno alle quattro telefonicamente da I Lunatici, il programma notturno di Rai Radio2 condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio. La Trocchia ha rivelato: "Mi trovo in America per lavoro, ma non mi sto dando al mondo del porno. In tanti vedendo su Instagram che sono negli USA mi chiedono se ho intenzione di girare qualche film pornografico ma no, per ora è una cosa che non rientra nei miei pensieri. Sono single da quattro mesi, mi sto concentrando molto sul lavoro, ci sono molte cose in cantiere. Da quando sono sola non faccio sesso. Sono in astinenza da quattro mesi, potrei stare anche altri due anni senza fare l'amore. Aspetto l'uomo giusto, non mi interessa farlo tanto per. Richieste strane sui social? Sì, di recente un signore avrebbe voluto inviarmi un paio di mutandine di una ragazza che ha posato per playboy e poi io avrei dovuto firmarle e rimandargliele. Ovviamente non gli ho risposto. Da quando sono single hanno ricominciato a scrivermi anche molti calciatori".

·        Irene Ferri.

L'attrice Irene Ferri litiga con una ​commerciante e finisce in ospedale. Una discussione poi gli spintoni e a finire in ospedale è stata Irene Ferri, l'attrice che recentemente è stata protagonista del telefilm Rai "Pezzi Unici". Novella Toloni, Lunedì 30/12/2019, su Il Giornale. Brutto episodio di violenza per Irene Ferri che, nelle scorse ore, è stata protagonista di un’accesa discussione con una edicolante di Roma. L’attrice, che fino a pochi giorni fa è stata protagonista in televisione con la serie "Pezzi Unici", dove interpretava la direttrice di una casa-famiglia, è finita al centro di un parapiglia dopo qualche parola di troppo con una commerciante. I fatti risalgono a domenica 29 dicembre quando, nella prima mattinata, Irene Ferri si trovava in centro a Roma. L’attrice era all’interno di un’edicola di piazza Risorgimento quando è scoppiata la discussione che, dopo qualche parola di troppo, si è trasformata in qualcosa di più. Secondo quanto riportato da Il Messaggero le donne sarebbero passate in poco tempo alle mani. Almeno una decina di testimoni, tra passanti e clienti che si trovavano all'interno dell’edicola, avrebbero assistito alla serie di spintoni tra le due. Il diverbio tra l’attrice e l’edicolante si sarebbe trasformato ben presto in un’aggressione vera e propria, che ha reso necessario l’intervento delle forze dell’ordine e di un’ambulanza. All’arrivo dei soccorritori l’attrice e l’edicolante erano ancora scosse dall’accaduto. La più colpita è apparsa subito l’attrice Irene Ferri, che era seduta e ha immediatamente lamentato dolori legati all’aggressione. L’attrice avrebbe infatti dichiarato di esser stata picchiata. Il personale medico arrivato a bordo dell’ambulanza ha soccorso entrambe le donne ma a essere trasportata all’ospedale del quartiere Borgo è stata solo l’attrice romana di 47 anni. Sempre secondo il quotidiano, l’ambulanza ha raggiunto il "Santo Spirito" dove i medici del pronto soccorso, dopo averla visitata, hanno riscontrato alcuni ematomi sul volto e l’hanno dimessa, poche ore più tardi, con una prognosi di alcuni giorni. La vicenda non sembra essere però finita qui. Gli agenti del commissariato Borgo stanno portando avanti le indagini per capire la dinamica dei fatti. Sono stati identificati alcuni testimoni dell’alterco e saranno sentiti nei prossimi giorni. Senza una denuncia da parte di una delle due donne, però, il procedimento verrà con ogni probabilità archiviato senza capire di chi siano le eventuali responsabilità. La discussione violenta tra la Ferri e la commerciante sarebbe stata causata da una serie di fraintendimenti. L’attrice si sarebbe lamentata di non esser stata servita adeguatamente, in modo lento e senza rispettare la fila e questo avrebbe innescato la bagarre.

·        Isabella De Bernardi.

Franco Pasqualetti per leggo.it il 16 gennaio 2020. I ricci sono sempre gli stessi. Magari un po' più biondi. La voce è meno adolescenziale ma la simpatia è immutata. E sta al gioco di ricordare Un sacco bello mentre mette a punto progetti e dà l'ok a quelli dei suoi collaboratori, da buona art director quale è oggi. Isabella De Bernardi nell'immaginario collettivo è Fiorenza, la compagna di Carlo Verdone nel film cult: «A stronzo. Punto esclamativo». Una battuta fissata nella memoria di almeno 3 generazioni.

Sono passati quarant'anni...

«Non me lo dica, la prego».

Eppure è così.

«Sì, ma è incredibile come quasi ogni giorno la gente mi fermi per strada magari solo per farsi dire A stronzi!. So quarant'anni che mi chiedono di prenderli a parolacce».

Come nacque quell'avventura?

«Carlo era sempre a casa mia per scrivere la sceneggiatura con mio padre (Piero De Bernardi, ndr). In camera mia stavo litigando con mia sorella e Carlo seguì quella rissa verbale. Andò da papà e gli disse è perfetta per Fiorenza. Da lì nacque il personaggio e io... feci solo me stessa».

Una curiosità: ma lei anche nella realtà masticava la gomma come nel film?

«La verità è che a me le gomme americane facevano pure schifo, eppure per copione ne ho dovute prendere decine di pacchetti. La sera tornavo a casa che sembravo una Big Babol alla fragola».

Oggi Fiorenza, pardon Isabella che fa?

«Ho lasciato il cinema per seguire la mia grande passione: la grafica. Sono una art director e do sfogo alla mia creatività così».

Cosa le ha fatto cambiare strada?

«Una volta venne a casa mia Paolo Villaggio, mi guardò e disse: Vuoi davvero fare la fine di Raffaella Carrà? Non mi  sentivo proprio all'altezza di Raffaella...».

Enzo, Ruggero e Leo: tre facce della romanità dei primi anni 80, tre solitudini, tre maschere esilaranti e malinconiche che hanno raccontato un preciso momento italiano e traghettato un giovane comico che stava spopolando in teatro e in tv verso quella che sarebbe poi stata una lunga carriera sul grande schermo. Sono passati 40 anni dalla comparsa del bullo, dell'hippy e dell'ingenuo protagonisti del film d'esordio di Carlo Verdone Un sacco bello. Mentre nel mondo uscivano film come Manhattan, Hair e Apocalypse Now e in Italia si consumavano gli ultimi anni di piombo, grazie all'aiuto di Sergio Leone, Verdone debuttava dietro la macchina da presa e faceva diventare personaggi da film i tipi che aveva a lungo osservato per le strade e nei bar e poi plasmato grazie al suo talento da attore comico e trasformista. Ambientato nella Capitale intorno a Ferragosto, Un sacco bello segue, appunto, le vicende del sedicente playboy Enzo, che vorrebbe partire per una vacanza in Polonia ma rimane senza il suo compagno di avventura, quelle di Ruggero, figlio dell'amore eterno, capelli lunghi biondi e parlata pesantemente capitolina, che si confronta con il padre (Mario Brega) che vorrebbe ricondurlo a una vita meno nomade, e quelle di Leo, timido e impacciato trasteverino che si invaghisce di una turista spagnola, Marisol (nella foto). Sono tre dei sei personaggi che Verdone interpreta in un film le cui battute sono rimaste scolpite nella memoria collettiva.

«Credo che in quel film ci sia una mia forte componente caratteriale, un po' malinconica ha detto Carlo Verdone ieri in un video postato su Facebook in occasione dell'anniversario C'è la grande solitudine di questa bella città che all'epoca aveva una grande anima, nel popolo, nelle atmosfere, nei rumori. Era una città che aveva tanta poesia. L'aver ambientato il film in una Roma d'estate deserta è stata una grande intuizione, una città dove non c'erano tanti rumori come oggi. Si sentiva il rumore dell'acqua di qualche fontana, qualche campana, qualche macchina che passava, qualche motorino smarmittato...».

C'era anche un altro rumore, in quel film: quello dell'esplosione di una bomba che viene sentito dai protagonisti ma rimane sullo sfondo, senza che si spieghi o si veda nulla. L'eco di un'epoca che stava finendo, di un'atmosfera che Verdone ha comunque registrato e raccontato, così come ha saputo raccontare i romani e gli italiani in questi 40 anni.

·        Isabella Orsini.

Isabella Orsini: “Quell’anello che mi regalò Giancarlo Giannini…”. Tommaso Martinelli il 29/03/2020 su Il Giornale Off. Dopo tanti film e fiction di successo, all’apice della sua carriera d’attrice, dieci anni fa rinunciò a firmare diversi contratti allettanti per sposare in Belgio il principe Edouard Lamoral de Ligne de La Trémoille. Da allora, però, Isabella Orsini, a differenza di molte sue colleghe, non ha mai abbandonato il mondo dello spettacolo e racconta a Off la sua intensa attività di produttrice cinematografica e televisiva.

Isabella, nel corso della tua carriera hai lavorato con grandi artisti: a chi senti di dover dire grazie?

«Giancarlo Giannini è sicuramente il primo che mi viene in mente. L’ho adorato come uomo e sul set mi ci sono sempre trovata bene. E credo che lo stesso valesse anche per lui, visto che una volta mi regalò un suo anello, dicendomi: “vedrai che tu, nella vita, avrai tanta fortuna”. Ma anche Virna Lisi, di cui ricorderò per sempre il calore di un suo abbraccio».

Un episodio off della tua carriera?

«Sul set della fiction Il sangue e la rosa presi una brutta polmonite. Girammo a fine novembre e fui costretta a immergermi in un lago ghiacciato, che si trovava in cima a un monte. Come se non bastasse, dovetti ripetere la scena per almeno una decina di volte. L’acqua era davvero fredda e lì ho pensato di morire. Inevitabilmente, mi ammalai ma riuscii a continuare a recitare grazie a delle punture di cortisone. In realtà, quella non fu certo la prima volta che mi beccai una polmonite sul set: successe anche agli inizi della mia carriera».

In quale occasione?

«Eravamo sul set del primo film di Giorgio Panariello, Bagnomaria. Ci trovavamo in Toscana, a Marina di Pietrasanta e d’inverno ci toccò girare scene ambientate in estate. In albergo non c’erano neanche i riscaldamenti. Purtroppo, tutto questo, succede molto spesso e a rimetterci sono sempre gli attori, anche se non se ne parla mai…»

Oggi ti occupi di produzione cinematografica e televisiva…

«Con la mia casa di produzione GapBusters sto realizzando numerosi progetti. Prossimamente, per esempio, uscirà il film The Sound of Philadelphia con Matthias Schoenaerts ma anche la fiction Mirage. Con i miei due soci abbiamo intenzione di realizzare una ventina di film, tutti di qualità. Produrrò anche in Italia e, se troverò il ruolo giusto, tornerò anche a recitare. Certo, attualmente i set sono fermi per via del Coronavirus…»

Come stai vivendo questa pandemia mondiale?

«Di recente, ho lasciato la Francia per trasferirmi con i miei cari in un castello di famiglia in Belgio, circondati dal verde. Sono davvero molto arrabbiata dall’atteggiamento dei francesi, che hanno sbagliato a sottovalutare il problema, invitando la gente a continuare a vivere come se nulla fosse, frequentando la scuola o andando a votare alle ultime elezioni municipali…»

Ultimamente ha suscitato scalpore un video di Carla Bruni, l’ex première dame, in cui derideva chi ha paura del Coronavirus…

«Io credo che prendere in giro delle persone che stanno male è una cosa di bassissimo livello. E aggiungo che la Francia, per questo suo aver sottovalutato più a lungo il problema, è destinata ad avere molte più vittime rispetto all’Italia, dove invece si è cercato di correre ai ripari il prima possibile optando per un doveroso isolamento».

·        Isabella Rossellini.

Sessantotto anni compiuti lo scorso 18 giugno e una serenità con se stessa da fare invidia. Isabella Rossellini, in una lunga intervista al Guardian, parla di vecchiaia e del rapporto con il corpo che cambia, da percepire non come un limite, ma come l'occasione per una libertà mai veramente vissuta in gioventù. Marisa Labanca il 15 Ottobre 2020 su La Repubblica. "A volte mi guardo allo specchio e penso: 'Non male'". Come darle torto? I capelli castani, da sempre portati con iconici tagli corti, le mettono in risalto lo sguardo e le labbra (preferibilmente sempre con un tocco di rosso), oggi come 40 anni fa. Ma per Isabella Rossellini, 68 anni compiuti il 18 giugno, il passare del tempo non è un nemico da temere, bensì il miglior alleato per la conquista della libertà. Figlia d'arte di due leggende del cinema, l'attrice Ingrid Bergman e il regista Roberto Rossellini, in una lunga intervista al Guardian racconta senza riserve il suo rapporto con la "terza età". "Invecchiare regala tanta felicità. Certo diventi più grasso e con più rughe, ma sei anche più libero. E la libertà è fare adesso quello che voglio, perché presto morirò. Questa è la mia ultima possibilità. Inoltre sono molto serena, ho avuto la carriera che volevo, nel bene e nel male, ho fatto del mio meglio e ora posso dedicarmi a ciò che mi interessa di più". Con un passato nella moda e nel cinema, ora Isabella Rossellini può dedicarsi a tempo pieno alla sua passione d'infanzia: gli animali. Nella sua fattoria Mama Farm a Long Island, New York, circondata da pecore, capre, galline, anatre e cani, realizza documentari dedicati alla vita sessuale degli animali: Green Porno and Seduce Me. "Da adolescente l'idea di studiare zoologia o biologia mi intimidiva. Ma ero una bellezza, grazie a Dio, e così entrai nell'azienda di famiglia". A 28 anni esordisce nel mondo della moda con le foto di Bruce Weber per Vogue UK. Ma è nel 1982 che raggiunge l'apice, con il contratto come testimonial esclusiva di Lancôme. Un'avventura che la eleverà a icona di bellezza mondiale, per poi metterla da parte perché giudicata troppo vecchia. Quando Lancôme rescisse il contratto lei aveva 43 anni. "Mi è stato detto che la pubblicità deve far sognare e le donne sognano di essere giovani, io non rappresentavo più quel sogno". Vent'anni dopo si prende la sua rivincita. La maison francese, guidata dalla amministratrice Françoise Lehmann, la rivuole con tanto di scuse come musa della bellezza "over 60", un fascino senza tempo che l'attrice incarna ancora oggi. "Le donne manager hanno una sensibilità diversa. Gli uomini pensano al trucco e alla moda come uno strumento di seduzione, non capiscono che ci piace truccarci e vestirci per noi stesse. Oggi per Lancôme non rappresento la bellezza, ma un sogno diverso. La gioia della vita che va avanti, e ci sono molti capitoli da vivere". E se c'è un segreto per invecchiare con la sua serenità, Isabella Rossellini non ha dubbi: la curiosità. "Ho visto amiche attrici depresse per aver perso la loro bellezza. E l'ho provato anch'io. Studiare ha dato tanta gioia alla mia vita, mi ha salvato dalla depressione per la bellezza che sfiorisce".

·        Iva Zanicchi.

Iva Zanicchi: “Quella poesia che Ungaretti recitò nel bosco per me….” Edoardo Sylos Labini il 15/06/2020 su Il Giornale Off. Bella, affascinante, genuina e tagliente: quando pronunci il suo nome è come se dicessi “L’Italia”. Cantava nell’osteria della nonna, faceva il contralto con gli Alpini. Ha vinto tre Festival di Sanremo, ha incantato milioni di persone dall’Italia al Cile, dalla Spagna al Madison Square Garden di New York. Legata indissolubilmente alla sua Emilia racconta nel faccia a faccia con Edoardo Sylos Labini tanti aneddoti come quello del partigiano protagonista di efferate violenze nel suo paese. Un mito: Iva Zanicchi.

Nata di luna buona (Rizzoli), uscito da pochi giorni, sta andando alla grande. C’é tutta la tua straordinaria carriera e la tua vita “inimitabile”, per dirla alla d’Annunzio. Cosa significa essere nata di luna buona?

«E’ una frase del mio bisnonno Lorenzo: sono nata per terza e il mio papà voleva un maschio per via dell’eredità – sai che eredità! E così non mi volle vedere per tre giorni. Sono nata in in stalla, nevicava e l’ostetrica si era rifiutata di aiutare mia mamma Elsa: lei era nella stalla per mungere la vacca Nerina e io sono nata proprio lì! La mamma mi avvolse nel foulard e mi mise nella mangiatoia: era disperata perché ero femmina!, ma il bisnonno Lorenzo mi guardò e disse: “E’ nata di giovedì e di luna buona!“»

Cantavi già quando eri nella pancia di tua madre: é vero che tuo padre ti costruì una casetta di legno su un albero affinché potessi dare sfogo alle tue doti canore?

«Mio papà aveva una grande manualità e siccome non voleva sentirmi cantare, mi costruì questa casetta: io salivo e cantavo. Avevo una voce che mi sentivano a distanza nella valle. Cantavo con gli Alpini nell’osteria della nonna ed ero l’unica donna che potesse entrare. Anche la maestra diceva che cantavo bene e quando fui mandata in colonia (ero magrissima!) la direttrice mi disse: “canta per tutti i bambini!”. Ero timida e non sapevo cosa cantare: attaccai con la montanara, poi con la smortina, ma siccome a fine canzone morivano tutti, non mi fece più cantare!»

Ligonchio, questo puntino isolato sull’Appennino tosco-emiliano, quanto ha segnato la tua vita e la tua carriera?

«Piccolissimo il mio paesino: a Vaglie, dove sono nata, d’inverno non c’è nessuno e lo “chiudono”, lo riaprono in estate con i gerani sui balconi. Quando sono nata io non c’era neanche la strada, c’era solo la chiesa con un prete bellissimo, messo “in castigo” perché andava con le donne. I vagliesi si autogestivano, organizzavano i matrimoni, c’era l’ostetrica e tutte le cose utili per un paese. Erano tutti poveri, ma avevano ognuno un orticello e quando morivano lasciavano tutto al prete, perché altrimenti sarebbero finiti all’inferno. Ma mio nonno li convinse a non lasciare nulla al prete sporcaccione!»

Sei cresciuta in piena guerra, tra l’occupazione nazista e le prepotenze di alcuni partigiani: nel libro parli del partigiano “Lupo”, un farabutto uscito dalle galere di Modena…

«Io lo dico sempre: grande merito alla Resistenza, però questo Lupo era un delinquente; in Emilia sono passati settant’anni e alcune cose non si possono dire, però questo qua aveva fatto del male a tanti, l’ho scritto nel libro (anche se il mio non è un libro politico). Avevamo più paura di lui e del suo gruppo che dei nazisti, ha fatto tante atrocità e si deve sapere».

Con le tue sorelle tenevi il quaderno degli attori e cantanti preferiti: su questo quaderno c’era una foto autografata di Achille Togliani, che qualche anno dopo divenne il padrino del Concorso di Castrocaro, che lanciò la tua straordinaria carriera: come fu il tuo inizio?

«Finita la serata del concorso arriva Gigi Vesigna e mi dice: “oh bambina, ci vediamo a Sanremo! Ravera ha detto che vinci tu!“. Io perdo la voce e la sera anzichè cantare “abbaio” e  arrivo quarta. Andai a Milano per fare un disco: presi il treno da sola, all’epoca era come andare sulla Luna! Mio papà mi preparò una bellissima valigia di cartone e feci tutto il viaggio con la testa fuori dal finestrino, così persi la voce un’altra volta: arrivai dal discografico senza voce!»

La tua voce “nera” colpì i discografici della nuova etichetta, con cui hai inciso la tua prima canzone di successo, Come ti vorrei.

«La casa discografica si chiamava Rifi:  c’era Mina e..sì, ero gelosa! Quando arrivai, lei era una star».

La canzone con la quale vinci il tuo primo Festival di Sanremo nel 1967 in coppia con Claudio Villa è Non pensare a me . Hai partecipato a dieci festival e ne hai vinti tre: qual è il ricordo più bello di Sanremo? E quello più brutto?

«Il più bello è Zingara con Bobby Solo: ero giovane e i discografici ci avevano applaudito subito. Il ricordo più brutto è invece è proprio nel 1967, in quell’anno in cui morì Tenco. Pensavo che chiudessero il Festival, mi sembrava inconcepibile continuare il festival ero dietro le quinte e singhiozzavo, mi sembrava talmente atroce gioire per la vittoria in un momento così».

Per te hanno scritto in tanti, da Battisti e Paolo Conte a Umberto Bindi e Shel Shapiro e Cristiano Malgioglio: ma chi é l’autore al quale devi di più?

«Un giorno Battisti chiama il mio discografico: vuole fare una canzone con me. Stiamo insieme una settimana: bene, l’unica brutta canzone scritta da Mogol e Battisti è quella! Anche Paolo Conte me ne scrisse una, un blues, ma era una cagata pazzesca! Theodorakis invece ha scritto Fiume amaro, il mio più grande successo. Ho fatto un anche un disco di canzoni ebraiche nel ‘68 e per poco non mi hanno arrestata! Però mi sono divertita, ho fatto quello che ho voluto».

Il successo ha mai tolto qualcosa alla tua vita privata?

«Qualcosa ho dovuto lasciare: avevo paura a portare mia figlia in aereo e pensavo di far bene, ma poi quando gliene parlai mi disse che in realtà lei piangeva perché io non c’ero. Mia figlia è una donna meravigliosa».

Se negli anni ‘60 abbiamo visto una Iva sanguigna, negli anni ‘70 la tua carriera é caratterizzata dall’impegno e dall’incontro con grandi intellettuali come Giuseppe Ungaretti…

«Un uomo dal cuore candido, puro. E’ stato un incontro meraviglioso! Lo incontrai a Salso Maggiore, mi disse che avrebbe voluto recitare per me nel bosco una poesia. Amava Leopardi e mi diceva che io dovevo amare quel poeta e non lui, ma per me era unico.

Un ricordo della tournee teatrale con un altro gigante: Walter Chiari.

«Ho fatto sei mesi in tournè e gli devo molto. Un giorno sua mamma mi dice di non andarci a letto. Dopo un po’ di tempo lui ci prova con me e io, che sono ancora una ragazzina, gli dico di no. “Ma mica te lo avrà detto mia mamma!?”,mi  fa lui…»

Nel 1978 Playboy ti dedica un servizio molto sexy che fa infuriare tua madre…

«Con Playboy ho fatto una cavolata. Erano foto un pò osè e così sequestrai tutte le copie del mio paesino! Mio papà venne a sapere del servizio per Playboy grazie a un amico: per non spaventare la mamma le disse che il servizio fotografico era per Famiglia Cristiana!»

Cosa bisogna fare per corteggiarti? E se Daniele Stefani improvvisasse un tango?…

«Il tango è la musica più sexy, l’espressione verticale di un desiderio orizzontale. E’ un po’ disdicevole alla mia età, ma mi chiedono se a questa età si fa sesso: certo!  Io sono olimpionica, faccio sesso una volta ogni quattro anni!

Ti senti una donna senza età?

«Mi sento anziana, però sono in salute e mi metto il rossetto!»

Gli anni ‘90 per te hanno coinciso con una svolta televisiva cominciata con quel Premiatissima, programma di Canale 5, presentato da Johnny Dorelli del 1984.

«Dorelli mi disse: “Intrattieni il pubblico!”. Ero uscita senza sapere che stavano registrando. Poi un giorno mi chiama Berlusconi: prima dell’appuntamento in villa a Macherio Johnny Dorelli mi consiglia di “sparare” una cifra esagerata. Una volta entrata, Berlusconi si avvicina al pianoforte e canta La vie en rose: io non so più cosa dirgli e alla fine accetto tutto quello che mi propone!»

Cosa ti ha spinto a fare politica? Sei stata tra gli europarlamentari con più presenze: 97% nella legislatura 2009-2014.

«Mi sono messa in politica per vendicare mio padre. Quando mio padre si candidò nel nostro paese prese solo un voto, il suo! Neanche mia mamma lo aveva votato! Io credo nelle persone, quando mi piaceva Berlusconi ero con lui. Anche lui mi aveva sconsigliato di entrare in politica».

Mi dicono che sei una grande cuoca...

«Io sono un’ottima cuoca, ce l’ho nel dna! Però il mio compagno è bravissimo e cucina lui, solo che mi fa sempre la cucina sarda e io non ne posso più!»

Iva Zanicchi, "Da ragazza sono sopravvissuta all'Asiatica ora mi racconto barzellette per stare allegra".  Libero Quotidiano il 04 aprile 2020. Iva Zanicchi racconta in una intervista al Giorno come vive la sua quarantena in Brianza, a Lesmo, paesino di meno di novemila anime, dove vive da 40 anni, togliendosi anche qualche sassolino dalle scarpe contro una certa sinistra che l'aveva accusata di razzismo quando a gennaio aveva parlato dei pericoli del coronavirus. "Speriamo nella Scienza: andiamo sulla Luna e fra poco forse andremo pure su Marte, è possibile che adesso basti un piccolo virus permetterci in queste condizioni e farci morire tutti? La cantante è arrabbiata: "Che questo problema sia stato sottovalutato da tutti e per primi dai politici, a gennaio - se non prima - già si sapeva come sarebbero andate le cose. Ricordo che il 2 febbraio scorso ero in televisione, mi avevano invitato a Domenica in e raccontai che in albergo avevo visto dei cinesi portati via in ambulanza. E invitavo tutti a stare attenti, dissi anche che se avessi incontrato un  cinese che tossiva sarei scappata... Beh, mi saltarono tutti addosso, mi diedero della razzista, della fascista, senza capire che non ce l’avevo certo coi cinesi! Se fosse stato un tedesco (contagiato) a tossire, per me non sarebbe cambiato nulla. Il problema è che bisognava fare attenzione a chi era stato contagiato. Lo sapevano tutti..."

Dagospia il 28 gennaio 2020. Da Un Giorno da Pecora. “Conoscendo gli emiliani, specie quelli che abitano nelle campagne, vi dico che come candidato per la Lega ci sarebbe voluto un uomo, un candidato uomo. La Borgonzoni si è vista poco, è stata schiacciata”. A parlare è Iva Zanicchi, che oggi è stata ospite della trasmissione di Rai Radio1 Un Giorno da Pecora, condotta da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro. La campagna elettorale, però, l'ha fatta praticamente da solo un uomo: Matteo Salvini. “Se fosse stato lui il candidato avrebbero vinto. Ma così è come dire che io dovrei cantare a Sanremo ma poi sul palco dell'Ariston mando la mia corista...”

Da liberoquotidiano.it il 13 febbraio 2020. Iva Zanicchi parla del Festival di Sanremo 2020 senza paura di essere politicamente scorretta. Ospite di Piero Chiambretti a CR4-La Repubblica delle Donne, la Zanicchi si esprime con grande onestà su Elettra Lamborghini, la nota ereditiera che ha calamitato l'attenzione per le sue esibizioni "esplosive" sul palco dell'Ariston, un po' meno per le capacità canore. "Questa ragazza è bella, ha due tette e un culo spaziali, ma non l'avrei fatta gareggiare", dichiara la Zanicchi che poi aggiunge: "Sarebbe stata meglio come ospite d'onore insieme a Sabrina Salerno. Perché rubare spazio a cantanti come Arisa, Mietta, Marcella Bella, Bianca Atzei. Lasciate a casa per prendere... Non importa, magari hanno fatto bene. Ma sono tutti così mielosi, mi andava di dire le cose". A CR4-La Repubblica delle Donne c'è Iva Zanicchi per commentare quanto accaduto al Festival di Sanremo 2020. Imbeccata da Piero Chiambretti, la nota cantante sostiene la teoria del complotto in merito al clamoroso caso di Morgan e Bugo. "Non siamo ingenui - esordisce - era tutto preparato a tavolino. Morgan è un grande artista, si è risentito per il fatto di essere arrivato tra gli ultimi per tre sere consecutive, neanche i suoi amici musicisti lo hanno votato e questo per lui è stato un affronto". Per la Zanicchi il fondatore dei Bluvertigo sarebbe finito nel dimenticatoio di questo Sanremo: "Per me lo ha fatto senza dire niente a Bugo e poi non sono convinta dal direttore d'orchestra. Come Morgan ha finito di cantare, la musica si è interrotta". Chiambretti le fa notare che il maestro ha dichiarato di essersi fermato appena ha visto uscire Bugo e la Zanicchi sorride come chi la sa lunga: "Scusate, sarò maligna ma sono vecchia e posso permettermi queste cose. In ogni caso Morgan è un genio e il vero vincitore del Festival, però non ha avuto rispetto per il pubblico".

Iva Zanicchi scatenata a Forum: "Se ero invidiosa di Mina? Eccome!" Iva Zanicchi scatenata a 'Forum': "Mina, non farti più vedere". DAGONEWS il 9 gennaio 2020. Iva Zanicchi stamattina era ospite a ''Forum'', e appena entra in studio Barbara Palombelli le chiede: ''Me lo domando da quando ero ragazzina, ma tu eri un po' invidiosa di Mina?''.

L'Aquila di Ligonchio non tentenna: ''Sì sì, eccome se ero invidiosa!''. Poco dopo Iva parla del suo libro ''Nata di luna buona'' e la Palombelli torna sul punto: ''Prima ti ho chiesto se Mina fosse un personaggio ingombrante, perché è il personaggio ingombrante della canzone italiana. Però lei si è tolta dalla scena, e in fondo vi ha lasciato spazio, no? La vogliamo ringraziare?''. E Iva si mette a scherzare: ''Cara Mina, meno male che ti sei tolta dalle p… ma nooo, nel senso, no, no, guai a dire…ma il problema è che dicevano ''rivale di Mina'', ma non si può essere rivali di Mina. Non perché lei sia chissà…no, non si può essere rivali di Mina perché lei ha avuto questa intuizione di ritirarsi in un castello a Lugano ed è diventata un mito, l'unico mito che abbiamo. Solo lei''.

Palombelli: ''Parla attraverso questa voce, ogni tanto illumina certe pubblicità''.

Zanicchi: ''Una voce ancora bella. Non ti far vedere, Mina! Non riapparire mai più perché per noi sei un mito!'' (ride). ''Dato che mi hanno detto che sei piuttosto grassa…''

Palombelli: ''Beh, questa non è né una colpa né ancora un reato''.

Zanicchi: ''No, dico, è umana, è come noi, ha anche qualche ruga. Non farti vedere che noi ti immaginiamo ancora magra, bella, come 50 anni fa''.

Iva Zanicchi tuona: "Perché a Sanremo vanno solo quelli di sinistra?" La cantante difende Rita Pavone: "Chi mette in mezzo la politica sulla sua partecipazione a Sanremo fa schifo. Lei non ha bisogno di raccomandazioni". Luca Sablone, Giovedì 09/01/2020, su Il Giornale. Come già ci ha abituati, Iva Zanicchi dice la sua senza mezzi termini e giri di parole. Questa volta nel mirino è finito Sanremo: "Perché a Sanremo ci devono andare solo quelli di sinistra? Ma andiamo!". La cantante ha preso le difese di Rita Pavone, recentemente attaccata per la sua partecipazione al Festival della canzone italiana: "Chi mette in mezzo la politica sulla partecipazione di Rita Pavone fa schifo". L'attrice si è dunque schierata dalla parte dell'ex "Gian Burrasca", che torna in gara dopo 48 anni: "Ma vi sembra che una con la carriera di Rita abbia bisogno di raccomandazioni politiche?". Eppure secondo i "democratici" questa edizione sarebbe rivolta esclusivamente ai sovranisti e ai sostenitori della Lega di Matteo Salvini. Nell'intervista rilasciata all'Adnkronos, l'ex politica ha speso parole al miele nei confronti della collega: "Oltre ad essere una donna meravigliosa e sensibile, al contrario di come qualcuno vorrebbe farla apparire, Rita è una grande artista. La prima ad avere successo in tutto il mondo". E ha fatto un paragone con Ornella Vanoni e Loredana Bertè: "Come è stato per loro, che sono tornate al Festival in questi anni facendo un'ottima figura, non vedo perché non dovesse tornarci lei, che è stata ed è una grande artista".

"Non sono al Festival? Peggio per loro". La Zanicchi ha promesso che seguirà attentamente la 70esima edizione, rivelando di esserci "molto legata", anche perché è "l'unica donna ad aver vinto tre volte il Festival". Si è detta piuttosto scoraggiata per un eventuale invito nell'ambito delle celebrazioni del settantennale: "Non mi aspetto niente. L'anno scorso che c'era il cinquantennale della vittoria di 'Zingara' e me lo sarei aspettato. Ma non è arrivato. Quest'anno non mi aspetto niente. Poi, certo, se mi chiamano ci vado. Ma credo che mi avrebbero già chiamato". La cantante ha tuttavia precisato di sentirsi fortunata: "Non mi posso proprio lamentare. Credo di non aver avuto mai tanto successo come adesso". In effetti da una parte il libro che ha scritto ("Nata di luna buona") sta andando "molto bene ed è entrato anche in classifica"; dall'altre le trasmissioni televisive "fanno a gara per invitarmi perché i miei interventi pare siano molto apprezzati". La Zanicchi infine ha concluso ridendo: "E quindi, se al festival non mi invitano, peggio per loro!".

Il triste declino di Iva Zanicchi. Quando cantare non basta si diventa opinioniste. E si finisce per inanellare ospitate a base di piccole tristezze pressoché inutili. Beatrice Dondi il 06 gennaio 2020 su L'Espresso. «Come creo i miei capolavori? Semplicissimo. Mi metto di fronte a un blocco di marmo e tolgo tutto quello che è superfluo, diceva Henry Moore citando Vasari. Togliere dunque, a volte aiuta. Ed è un vero peccato che questo suggerimento venga ascoltato così poco. Per esempio, se si è una brava cantante ci si dovrebbe quantomeno in teoria accontentare del suddetto dono anziché aggiungere strati di inutilità alla propria persona. Accade invece, nel caso di Iva Zanicchi, esattamente il contrario. Il risultato? Come una gonna con troppe balze, che alla fine anziché aumentare l’eleganza accartoccia la figura senza un vero perché. L’Aquila di Ligonchio, prossima a spengere le sue prime ottanta candeline in una forma fisica a dir poco smagliante, da genuina signora emiliana dai modi generosi e dalla parlata fluente, ha trasformato nel tempo il suo atteggiamento pane al pane in una specie di stizzita ricerca di rivalsa nei confronti del mondo che la circonda. Ben lontani i tempi in cui chiusa negli studi di Music Farm allietava il pubblico con aneddoti scatologici mentre Baccini soffriva per amore di Dolcenera, Iva conserva sulla punta della lingua sempre quel qualcosa che alla fine scappa verso chicchessia. Mina, Orietta, Milva, Gina eccetera: lei vuole bene a tutte, ma. Sono tutti bravi ma, tutti intelligenti ma. E tra un’espressione alla buona e una parolaccia sfuggita con tempismo studiato, resta sempre quel “ma” a far sì che la sua bonomia si intacchi con un filo di disappunto generalizzato. Una sorta di Mara Maionchi che non ce l’ha fatta, per dirla in sintesi. Così, dopo i fasti del suo “Prezzo è giusto” e un longevo salto berlusconiano in Europa, la signora Zanicchi saltella da un programma all’altro non per dar sfogo alla sua sempre ottima voce, ma in veste di dispensatrice di opinioni quantomeno discutibili. Le pagelle a suon di 4 che stila nel trascurabile programma di Chiambretti “La Repubblica delle Donne” colpiscono un po’ a caso con un tono che vorrebbe persino solleticare simpatia senza tema di riuscita. A Scalfari augura che si aprano le porte dell’inferno, alla Gruber di cui sottolinea il suo essere «piccoletta e un po’ rifatta» di finire su un’isola deserta con Salvini «gran lavoratore». A Carola Rackete, la «comandanta che prende dei poverini vicino alla Libia», rimprovera di non usare la zattera anziché la nave perché poi è inutile lamentarsi dell’inquinamento. Neppure Papa Francesco è escluso dal suo registro dei buoni e cattivi, reo, a suo dire, di aver creato una crisi turistica dopo la decisione di dismettere la residenza di Castel Gandolfo. Il risultato è una somma di piccole tristezze pressoché inutili che non fanno altro che abbassare l’asticella. Chissà, forse la Zingara prendendo la sua mano l’aveva messa in guardia. Ma come si diceva, non sempre i suggerimenti si ascoltano.

Iva Zanicchi: «Mina mi tolse Studio Uno, ma quando aprivo l’ugola ero io la più grande». Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. La cantante compie 80 anni: «Mina mi tolse Studio1 ma quando aprivo l’ugola ero io la più grande. Le mie sorelle mi chiamavano Pinocchio. I miei errori? Rifarmi il naso e a 40 anni posare per Playboy».

Il naso di Iva Zanicchi.

«Dopo due femmine, mio padre Zefiro voleva il maschio. Arrivai io. Per tre giorni rifiutò di vedermi. Poi scoprì che ero identica a lui. Le mani, i piedi, il sorriso. Il naso».

L’aquila di Ligonchio.

«Le mie sorelle mi chiamavano Pinocchio. Un complesso terribile. Lo superai solo quando cantai a Sanremo Zingara, con i capelli raccolti in una treccia e il naso bene in vista. Solo allora me lo sono rifatto».

Soddisfatta?

«È una delle due cose di cui mi pento nella vita. Mi sono amputata una parte di me. Un pezzo della mia identità».

L’altra cosa?

«Quando prima di compiere quarant’anni posai nuda su Playboy. Vidi la copertina e fui presa dal panico. Telefonai all’unico giornalaio di Ligonchio scongiurandolo di nascondere tutte le copie: mia madre Elsa mi avrebbe riempita di botte».

A quarant’anni?

«Se è per questo, mamma picchiò mia sorella Maria Rosa il giorno delle nozze: non voleva più sposarsi».

La convinse?

«Mia madre pesava 114 chili ed era convincente».

Lei, Iva, è nata in questi giorni, ottant’anni fa.

«L’inverno del 1940 fu il più nevoso della storia. La strada per Vaglie di Ligonchio, il paese di mamma, mille metri sull’Appennino, era bloccata. Che poi non era una strada ma una mulattiera. Nonno Adamo scese in slitta a prendere l’ostetrica, detta e guff, il gufo, perché era così brutta che i bambini appena messa fuori la testina non volevano più uscire. Ma e guff si rifiutò di mettersi in viaggio sotto la neve».

E sua mamma?

«Fece tutto da sola. Stava mungendo le mucche. Sono nata in una stalla: come Gesù. Non escludo che mi abbia deposto nella mangiatoia».

Il suo primo ricordo?

«Pippo. L’aereo che andava a bombardare la centrale elettrica. Scappai di casa per vederlo. L’aviatore mi fece un cenno di saluto, che ricambiai. Poi lo raccontai a mamma. Che mi riempì di botte».

E suo padre?

«Era prigioniero dei tedeschi, in un campo vicino a Dresda. Tornò che pesava 40 chili. Io mi ero immaginata un eroe: vidi uno scheletro che aveva un piede in una scarpa rotta e l’altro in uno zoccolo. Rimasi delusissima. Piansi per due notti: anche perché prima nel lettone con la mamma dormivo io, e adesso dormiva lui. La terza notte arrivò da me con una carta da zucchero, piena giustappunto di zucchero: “Questo è per te, non dirlo alle tue sorelle” mi sussurrò. Da quella notte fu il mio babbo».

A lungo gli Imi, gli internati militari in Germania, non trovarono il coraggio di raccontare quel che avevano subito.

«Anche mio padre all’inizio non ne parlava mai. Poi ci disse che stava morendo di fame, ed era uscito per scavare qualche patata. Fu bastonato a sangue e condannato a essere fucilato il mattino dopo. La notte un vecchio riservista lo nascose e gli salvò la vita. Capii che mio padre era davvero un eroe. Lo scrissi in un tema. Il maestro mi rimproverò: per lui esistevano solo i partigiani. Ma anche quella di mio padre e degli altri prigionieri fu Resistenza».

E i nonni?

«Il nonno paterno, Antonio, era andato in America a cercare fortuna. Tornò più povero di prima. Faceva il boscaiolo nel Montana; arrivò la grande crisi del legname. L’altro nonno, Adamo, aveva fatto la Grande Guerra. Sua madre, Desolina, aveva un’osteria e una voce potentissima, da soprano drammatico: venivano dai paesi attorno per ascoltarla. Una domenica arrivò uno da Parma che voleva portarla in città a studiare canto e a conoscere Verdi, che era ancora vivo. Il suo fidanzato, mio bisnonno Lorenzo, per gelosia si oppose. In cambio lei si fece sposare. Morì cantando come un usignolo».

Che nome è Desolina?

«In paese non c’era un nome da cristiano. Una ragazza si chiamava Brandina. Un’altra Nicola: quando obiettarono al padre che era un nome da maschio, rispose che finendo per “a” doveva essere per forza un nome da femmina. Mio zio si chiamava Pronto, anche se tutti lo chiamavano Veraldo: che non era granché, ma era pur sempre meglio di Pronto. Mia zia Argentina chiamò le figlie Italia e Emilia. In compenso tutte le donne del paese avevano voci bellissime. In chiesa era commovente sentirle cantare, senza musica, in modo celestiale».

E lei?

«Io avevo una voce un po’ mostruosa, da contralto. Il prete mi sgridava: Iva canta piano, che copri gli altri bambini».

È vero che da piccola rischiò di morire?

«Avevo la febbre a 42 per un ascesso. Le zie tentavano di consolare mia madre: “Iva non ce la farà, ma avremo un angelo che pregherà per noi in paradiso…”. Sentii e feci il gesto dell’ombrello. Altro che angelo…».

La sua carriera comincia con il Disco d’oro di Reggio Emilia.

«Lì conobbi Gianni Morandi, che era fuori concorso perché troppo giovane, e una ragazza che portava un cappellino con veletta: Orietta Galimberti».

Orietta Berti?

«Lei. Insieme cantammo a Sala Baganza, Parma. L’impresario ci fece uno scherzo feroce: disse ai musicisti che in camerino c’erano due entraineuse a disposizione, Orietta e Iva. Entra il pianista, mi chiede “tu sei Orietta o Iva?”, e mi scaraventa sul letto. Scoppiai a piangere: “Allora aveva ragione mamma, a dire che le cantanti sono tutte puttane!”. Lui ci rimase malissimo. Si chiamava Angelo. Diventò il mio primo fidanzato».

Fu la sua prima volta?

«Niente sesso. Mamma non voleva. Persi la verginità a 27 anni, con l’uomo che ho poi sposato: il figlio del proprietario della casa discografica Ri-Fi».

Fu alla Ri-Fi che incontrò Mina?

«Più che Mina, incontrai la sua scia. Una volta le vedevo le gambe, l’altra volta la nuca. Era già una star; eppure non mi ha mai potuto soffrire. Un anno Mina era in Messico, e Antonello Falqui mi propose di aprire Studio Uno con una canzone, subito dopo Carosello: una roba da 25 milioni di spettatori. Mina interruppe la tournée e si precipitò in Italia: “Se prendete quella ragazzotta, perdete me”. Mi cacciarono».

Ma lei cosa pensa di Mina?

«Tecnicamente è stata la più grande. L’ho sempre ammirata ma non l’ho mai temuta: quando dovevo aprire l’ugola dal vivo, non ce n’era per nessuno. Così, quando mi proposero un duetto con lei al Lido di Venezia, accettai subito. Mina rifiutò. Fui sostituita da Claudio Villa».

Con Claudio Villa lei vinse il suo primo Sanremo, nel 1967.

«Ricordo ancora le urla: “Si è ammazzato Tenco!”. Preparai la valigia: ero convinta che avrebbero sospeso il festival. E avrebbero dovuto farlo. Una rivista mi propose la copertina, se fossi andata a deporre rose rosse sulla sua tomba. Li mandai a quel paese».

E Ornella Vanoni?

«Ogni volta a Sanremo trovava il modo di gettarmi nel panico. Stavo per salire in scena e mi faceva: ma come ti hanno truccata, ma quanto ti sta male quel vestito… A me però è sempre stata simpatica».

Nel 1969 lei rivinse con Zingara.

«Oggi mi farebbero cantare: “Prendi questa mano, rom…”».

Perché ha fatto politica?

«Per vendicare mio padre. Si candidò per il Psdi: prese un solo voto, il suo. Neanche quello della moglie. Lui la afferrò per il collo, furibondo. Lei rispose: “Non posso andare all’inferno per colpa tua!”. Il parroco le aveva prospettato le fiamme eterne se avesse votato, non dico comunista, ma socialdemocratico».

Come ricorda il primo incontro con Berlusconi?

«Mi avevano offerto un sacco di soldi per condurre una trasmissione. Rifiutai. Mi invitò a casa sua. Andai in bicicletta — abitavo già qui a Lesmo, vicino ad Arcore —, decisa a chiedere il triplo. Mi portò in un teatrino con il pianoforte. Pensai: ora mi tocca cantare. Cantò lui, per un’ora. Mi affascinò. Parevo Fracchia. Firmai alla cifra che mi avevano proposto».

È rimasta celebre una telefonata di Berlusconi mentre lei era in tv da Gad Lerner: “Iva, si alzi ed esca da quel postribolo!”.

«Quella sera tutti attaccavano Silvio, e io lo difendevo. Ma quando Lerner mi chiese della Minetti, risposi che di lei non mi importava nulla. Berlusconi non stava guardando; la Minetti purtroppo sì, e lo avvisò. Così lui fece quella scenata. Ovviamente rimasi in studio. Qualche giorno dopo ci fu una festa di Forza Italia. Le donne mi guardavano con disprezzo: “Tu cosa ci fai qui? Non ti vergogni?”. Silvio invece mi abbracciò: “Iva, come mi difendi tu non mi difende nessuno!”».

Cosa dovrebbe fare ora?

«Liberarsi da molte delle persone che lo circondano. Parlargli è diventato impossibile. Oggi per me Berlusconi è Piersilvio. Che si sta dimostrando un bravissimo imprenditore».

Come finisce in Emilia?

«Tutti dicono che vincerà la destra. Ma io conosco gli emiliani. Certi contadini hanno ancora il ritratto di Stalin. Secondo me alla fine la sinistra tiene».

Lei per chi voterebbe?

«Io di sinistra non sono, ma guardo le persone. Ho visto in tv la Borgonzoni e non mi è piaciuta. Questo Bonaccini ha governato bene. Perché non riconfermarlo?».

Di Salvini cosa pensa?

«Tutti lo accusano di essere un fannullone. Ma io me lo ricordo a Strasburgo: votava al mattino, andava a fare un comizio in Lombardia, e il mattino dopo era di nuovo lì».

A dire il vero era un noto assenteista.

«È una persona di cuore. Molto affettuoso con i figli: li portava pure al Parlamento europeo, ce li mostrava orgoglioso. Certo, a volte è un po’ eccessivo. Ma l’immigrazione va regolata».

È vero che lei è stata in tournée in Iran con Lando Buzzanca?

«Lui era un divo. Ma la vera star era Moira Orfei, amatissima dagli iraniani, che adorano il circo. Erano gli ultimi giorni del regime, l’impresario sputava sul ritratto dello Scià. Me ne andai in tempo. Moira Orfei rimase. Scoppiò la rivoluzione e perse il circo».

E Walter Chiari?

«Partiamo in tournée nel 1974 e lui mi fa, con il tono con cui si chiede un drink: “Stasera noi due facciamo l’amore”. E perché? “Lo faccio con tutte le attrici. Così si crea una sintonia e lavoriamo meglio”. Dissi di no. Lui si stupì molto: “Sia chiaro però che te l’ho chiesto!”. Pensava mi offendessi. Quella sera ci raggiunse sua madre, una vecchiettina molto simpatica: “Gli hai detto di no al mio Walter? Brava! Finalmente una brava ragazza!”. “Avrà mica parlato con mia mamma?”. “Certo che ho parlato con tua mamma!”».

Si racconta di un suo flirt con Alberto Sordi.

«Mi telefonava a ogni compleanno per farmi gli auguri. Quando facevo Canzonissima, ogni sabato sera mi mandava i fiori con un biglietto carino. Poi mi invitò a Bologna per fare da madrina alla prima del Presidente del Borgorosso football club; il padrino era Beppe Savoldi, il centravanti. Morivo di vergogna: tutti pensavano che fossi l’amante di Sordi. All’epoca ero astemia; quella sera comincio a bere. Mi ritiro in camera, sento bussare: è Alberto, che mi invita nella sua suite. Ci vado. Inevitabilmente lui mi sbatte sul letto; ma non riesce a slacciarmi il vestito, attillatissimo. “Vado di là a spogliarmi” gli sussurro; e fuggo».

Sordi come la prese?

«Mi telefonò per il compleanno: “A Zani’, che te sei persa!”».

·        Ivan Gonzalez.

Daniela Seclì per fanpage.it il 17 gennaio 2020. Al Grande Fratello Vip 2020, Ivan Gonzalez si è confidato con Barbara Alberti. L'ex tronista di Uomini e Donne ha parlato della sua famiglia, svelando un particolare inedito. Ha spiegato, infatti, che è cresciuto credendo che i nonni fossero i suoi genitori. In realtà, la mamma era Vittoria, la donna che reputava sua sorella: "La mia famiglia è un po' strana. Io sono vissuto sempre con mia nonna. Mia madre quando mi ha avuto era piccolissima. Aveva 15 anni. Adesso ha 45 anni. Quando cammino per la strada con lei, mi fanno le foto i paparazzi e dicono che è la mia fidanzata. Mi ha cresciuto mia nonna, mentre mia madre per me è stata sempre una sorella. Andando avanti, però, ho capito. Io pensavo che mia nonna e mio nonno fossero mia madre e mio padre".

Come ha scoperto la verità su sua madre. La verità è venuta a galla a 14 anni. Ivan Gonzalez doveva procurarsi una carta d'identità. In quell'occasione scoprì che i suoi genitori non erano affatto coloro che per anni aveva chiamato mamma e papà: "A 14 anni, mi hanno fatto la carta d'identità dove c'era scritto anche il nome di mia madre e mio padre. Diceva: Ivan Gonzalez figlio di Vittoria e figlio di Antonio. E mi sono detto “Chi è Antonio? Mio padre è Juan”. Poi ho chiesto e me lo hanno detto. È stata una bella botta perché ero piccolo. Ho sempre avuto un rapporto bellissimo con mia madre, ma non l'ho mai chiamata mamma nella vita. Anche adesso".

Il padre biologico è ricomparso quando aveva 18 anni. Ivan Gonzalez, che nel corso della terza puntata del “Grande Fratello Vip 2020” ha avuto un acceso scontro con Paola Caruso, ha raccontato anche il rapporto conflittuale con il padre. L'uomo sarebbe sparito subito dopo la sua nascita, salvo rifarsi vivo nel giorno del diciottesimo compleanno del gieffino: "Il mio vero padre è sparito quando sono nato. Dopo l'ho visto due volte. I miei nonni sono meravigliosi, ma mi è mancato avere un padre. Non so perché ma mi sento colpevole di questa cosa. Lui è tornato da me quando avevo 18 anni, ma io non ho fatto niente per creare un bel rapporto con lui. Quando ho compiuto 18 anni, è venuto a casa di mia nonna. Qualcuno ha aperto e ha chiuso subito la porta. C'era un'aria diversa a casa mia. Poi ho sentito la nonna che piangeva ma non capivo perché. Dopo un po' ci siamo seduti a un tavolo e mi hanno spiegato tutto. Non ho pianto, ma adesso mi fa male. Lui voleva fare il padre, avrei preferito che non fosse tornato".